Soglie, Anno XV, n. 2 - Agosto 2013 (completo)

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Soglie RIVISTA QUADRIMESTRALE DI POESIA E CRITICA LETTERARIA Anno XV, n. 2 - Agosto 2013 S N S Soglie Nuova Serie ISSN 2283-3218

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Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

Anno XV, n. 2 - Agosto 2013

SNSSoglie Nuova Serie ISSN 2283-3218

Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

comitato direttivo

Alberto Armellin, Giancarlo Bachini, Fausto Ciompi, Sauro Damiani, Pierangiolo Fabrini, Marzia Minutelli, Helle Nyberg, Elena Salibra.

redazione

Alberto Armellin [con la collaborazione di Lionella Carpita].

comitato scientifico/international advisory Board

Miguel Casado (Toledo)Robert Hampson (Royal Holloway, University of London)

Michael H. Hoffmann (University of Florida)Chris Mann (Rhodes University)

Jean-Michel Maulpoix (Université de Paris Ouest-Nanterre-La Défense)Carles Miralles (Universidad de Barcelona)

Franco Musarra (Katholieke Universiteit Leuven) Jesús María Ponce Cárdenas (Universidad Complutense de Madrid)

Jean-François Puff (Université Jean Monnet, Saint Etienne) Clara Rowland (Universidade de Lisboa)

Ulla Schroeder (Radboud Universiteit Nijmegen)Emmanuela Tandello (Christ Church, University of Oxford)

Giona Tuccini (University of Cape Town)Alexis Ziras (Atene)

Soglie è una rivista blind peer reviewed a cura di studiosi di Università italiane e straniere. Pubblica testi poetici inediti, saggi, articoli, recensioni e interviste concernenti la poesia, specialmente contemporanea, scritta in tutte le lingue.

edizione online: www. torrossa.it.

La rivista è indicizzata dai seguenti organismi:Database e cataloghi internazionali: MLA International Bibliography, OCLC e Deutsche Bibliotek.Discovery Services: Summon Proquest e Primo Central di ExLibris, Ebsco Discovery Services. Link Resolvers: AtoZ, Serials Solutions, SFX.

ISSN 2283-3218

Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

TesTi poeTiciFreschi di stampa: Sophia de Mello Breyner Andresen, Mare 3 (Traduzione di Federico Bertolazzi) Arundhathi suBrAMAniAM, Il groviglio della memoria alle radici 5 della poesia (a cura di Angela Caputo e Marzia Dati) Santi pullArà, Ballarò (Premessa di Alessandro Fo) 27Anna Maria cArpi, Perché non sono il fumo? (a cura di Elena Salibra) 31 Yukitsuna sAsAki, Rompe il vortice: due tanka 35 (Traduzione di Massimo Giannotta)

sAggi 37Anna Lisa soMMA, Il convolvolo e il pozzo: voci muliebri nei “Canti d’amore giapponesi” e memorie dannunziane

inTervisTA 55Enrico TesTA, Il soggetto si perde e si ritrova in un mondo globale (a cura di Elena Salibra)

recensioni 63Sauro dAMiAni, Malaspina di Maurizio CucchiSilvia MoroTTi, La bottega dei cammei di Giuseppe LangellaAnna chellA,Vittorio Sereni: Poesie e prose

poesie ricevuTe 79Fryda Rota, Stefano Piva, Furio Allori

Nuova serie

Anno XV, n. 2 - Agosto 2013

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Freschi di stampa

Mare

I

Di tutti gli angoli del mondoAmo d’un amore più forte e più profondoLa nuda spiaggia in estasi e la dunaDove mi unii al mare, al vento e alla luna.

II

Odoro gli alberi la terra e il ventoChe la primavera colma di profumiMa io vi voglio solo e solo vi procuroLa selvaggia esalazione delle ondeIn ascesa verso gli astri come un grido puro.

Sophia de Mello Breyner Andresen, Come un grido puro, Milano, Crocetti, 2013, traduzione di Federico Bertolazzi.

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ArundhAThi suBrAMAniAM

Il groviglio della memoria alle radici della poesia

a cura di Angela Caputo e Marzia Dati1

Arundhathi suBrAMAniAM nasce nel 1967 a Bombay, oggi Mumbai. Poe­tessa, giornalista e performer, vive tra Mumbai e Coimbatore, dove dirige un centro yoga. È autrice di tre raccolte di poesie: On Cleaning Bookshelves

(2001), cui ha fatto seguito nel 2005 Where I Live e, nel 2009, un ulteriore volume dallo stesso titolo, Where I Live: New and Selected Poems.

Tra le opere in prosa la più recente, pubblicata nel 2010, è la biografia Sadhguru: More Than a Life, dedicata a uno dei più famosi mistici orientali del nostro tempo, nonché grande maestro yoga, Jaggi Vasudev, noto come Sadhguru. Nel 2005 ha pub­blicato The Book of Buddha e curato Confronting Love: An Anthology of Contempo-rary Indian Love Poems. Sei anni più tardi, ha dato alle stampe un’altra antologia: Pilgrim’s India: An Anthology of Essays and Poems on Sacred Journeys.

Alcune sue poesie, tradotte in italiano, sono contenute nell’antologia di poesia femminile indiana L’India dell’anima, a cura di Andrea Sirotti, Firenze, Le Lettere, 2000 e 2006.

Vincitrice di numerosi premi letterari, tra cui il Raza Award for Poetry (2009), e destinataria di riconoscimenti quali il Charles Wallace Fellowship (2003), l’Homi Bhabha Fellowship ed il Visiting Arts Fellowship, quest’ultimo sotto l’egida della Poetry Society, è stata anche presidente dell’Indian Classical Dance presso il Nation­al Centre for the Performing Arts di Mumbai.

1 Le traduzioni delle poesie e le note introduttive sono degli iscritti al Master di secondo livello in traduzione di testi postcoloniali dell’Università di Pisa (edizione 2012­2013), che hanno lavorato sotto la supervisione di Andrea Sirotti.

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Premessa

Poesia ordita con i filamenti di un caos memoriale che affonda nell’identità postcoloniale, al contempo vitale e raffinata. Tali sono le coordinate attra­verso cui si dipana il percorso espressivo della poetessa indiana Arundhathi Subramaniam.

In realtà la ricerca di Subramaniam prescinde da una precisa definizione identitaria, ove la si intenda sulla base di stereotipi geografici, storici, socio-culturali o di genere. Né la rievocazione memoriale è da lei concepita come ri­soluzione dell’aporia esistenziale derivante dalla ‘condizione postcoloniale’. La rimemorazione muove dagli aspetti più reconditi dell’io per dispiegarsi, in una dimensione di rêverie, verso l’ambito relazionale, popolato da figure care ed emblematiche: la madre, i nonni, la sorella. Arundhathi Subramaniam, “ot­tava nipote, periferica, mezza dimenticata”, rimarca e difende il suo “terzo posticino in un nodoso albero genealogico”. Trova conforto nel fatto che i nonni, i quali l’avevano “avvolta distrattamente nel grande scialle invernale del loro affetto”, siano capaci di trasmetterle irremovibili certezze. Ma l’af­fermazione identitaria emerge, con ben altra intensità, dal confronto­scontro con la figura materna. Assistere alla vigorosa crescita, in parte inconsapevole, del proprio corpo, sempre più simile a quello della madre, non è che il primo passo di un percorso sospeso tra “il liberarsi di un derma giurassico” e “il cer­care una pelle, un habitat”, “un modo più limpido di giungere all’essenza” di se stessi. Subramaniam tenta di calarsi nei “vestiti mai condivisi” dell’essere “senza una piega, una grinza, un dubbio”, ma rimane lungi dall’acquisire “la più rude stoffa” genitoriale o la fermezza di “coloro che si sospingono nella stoffa”, “sempre memori di sé e delle occasioni”.

Anche i dettagli fisici con cui accuratamente si rappresentano le figure familiari – la treccia della sorella, il profilo sbiadito del naso del nonno, i tratti nitidi e maestosi della nonna – contribuiscono ad innescare, per contagio e analogia, un interessante processo di apprendimento del sé. Un processo che muove frequentemente dal basso verso l’alto, dalla sensualità e fisicità della vita dei corpi alla dimensione più impalpabile del sogno poetico. Ben oltre il ciclico susseguirsi delle “favole di famiglia scheggiate dalla ripetizione”, le esperienze infantili, magari legate alle inermi “vecchie sbarre del cancello secondario della scuola”, sembrano attraversate da una “ferocia monsonica di bisogno” che tende all’inabissamento “in un mare arabo quanto lo spiri­to”, dove “si può tornare quel che si è sempre stati”. Una reminiscenza che

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sprofonda sin nello stato fetale, vorticando “in una giungla di cloro e di blu mediterraneo”.

Nel confronto con la figura della sorella, Subramaniam profila un analogo scavo nei “feudi della memoria”, attraverso lo sprofondamento in “estuari oscuri di brama, dolore e desideri insabbiati”. Si porta alla luce, in tal modo, quanto celato “sotto generazioni di terra e dense fanghiglie di canna e piog­gia”. E sono gli elementi costitutivi della vegetazione indiana a veicolare il segreto memoriale. Le ciocche polverose di buganvillea o le foglie di palma nel temporale invernale sono un’eredità da ridefinire. La cortesia della palma e la benedizione della felce apportano una possibile risoluzione all’“umido groviglio di filamenti”, a quell’“ingarbugliato caos verde di foresta equato­riale” che connota la storia personale di Subramaniam e la vicenda collettiva del suo popolo.

La poesia di Subramaniam, al contempo visiva, olfattiva e tattile, recupe­ra l’“antico ruggito oceanico” che s’innalza dal profondo di una conchiglia. Anche l’inglese viene piegato a queste necessità espressive, muovendo oltre la “staticità di un perpetuo malcontento” che chiuderebbe la poetessa in un’a­sfittica ‘indianità’. L’India di Subramaniam è spesso la realtà contraddittoria di Bombay, dove l’autrice è nata e vive attualmente. Una dimensione me­tropolitana, la sua, in cui la frenesia dell’accumulo di esperienze si coniuga perfettamente con l’ineluttabile bisogno di autenticità. L’odore acre lungo le scale di servizio degli edifici di Bombay o gli ingorghi dovuti al traffico prendono vita, d’altra parte, grazie alla delicatezza di un linguaggio poetico sussurrato, altrettanto a suo agio tra il profumo di incenso e il fumo di pasti di giovani scolare, a cui resta emblematicamente l’odore del pranzo nell’alito. La “patologia del respiro, l’alitosi di genere”, definiscono non solo un percor­so di crescita dall’innocenza all’esperienza, ma una possibile ricomposizione delle fratture di un io poetico che apprende come “essere a sufficienza donna, indiana, postcoloniale”. Un viaggio, quello di Subramaniam, verso un “ispi­rato caos di membra e bramosia”, che si manifesta come “semplice o non semplice corpo”.

AngelA cApuTo

Il groviglio della memoria

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Sister

Supple as wisteria her plait of hair across our beds –my talisman at the age of five against torch­eyed gods and ancestorswho leaked nocturnally out of cupboards, keyholes,the crevices of festering karmas.

Later we drank deep draughts of monsoon wind together,locked eyes in mistrust, littered our bedroom with books, fuzzy battle­lines,quivering dominions of love and malice,even as we ruptured time,scooping world upon worldout of cavernous weekend afternoonsthrough the alchemy of mutual dream –turquoise summers over ruined Mycenae,the moon­watered stone of Egyptian temples,and those times we set the zephyr whisperingunder the black skies of Khorasan.

Clothes were never shared, diaries zealously guarded,but in the hour before the mindcarves out its own fiefdoms of memorywe dipped into the same dark estuariesof lust, grief and silted longing.

Now in rooms deodorised into neutrality,we sniff covertlyfor new secrets, new battles, new men,always careful to evadethe sharp salinity of recollection,anything that could plunge us backto the roiling green swamp of our beginnings.

Arundhathi Subramaniam

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Sorella

Flessuosa come glicinela sua treccia sui nostri letti –mio talismano a cinque anni contro divinità dagli occhi infuocati e antenatiche uscivano di notte da credenze, serrature,gli spiragli di karma suppurati.

Poi bevemmo lunghi sorsi insiemedi vento monsonico,gli occhi serrati nel sospetto,disseminate di libri le camere, linee di battaglia sfrangiate,domini tremuli d’amore e cattiveria, anche mentre frantumavamo il tempo,alla scoperta di un mondo dopo l’altrolontano dai cavernosi pomeriggi festivinell’alchimia di un sogno reciproco –estati turchesi sulla Micene diroccatala pietra bagnata di luna dei templi egizi, e quei momenti in cui solcavamo lo zefiro che bisbigliavasotto i cieli neri di Khorasan.

I vestiti non furono mai condivisi,i diari custoditi con premura, ma nell’ora prima che la mente scavi i suoi feudi di memoriaci immergevamo in quegli stessi estuari oscuridi brama, dolore e desideri insabbiati.

Ora in stanzedeodorate di neutralità,annusiamo appena nuovi segreti, nuove battaglie, nuovi uomini,sempre attente a evaderel’acuta salinità del ricordo,qualunque cosa potesse riportarcial verde torbido pantano degli inizi.

Il groviglio della memoria

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But tonight if I stood at my windowit would take very little to swing myself across to that blazing pageant of peoniesthat is your Brooklyn back­garden,careening across continentson that long­vanished plait of hair,sleek with moonshine,fragrant with Atlantic breezes.

Elegy to a Garden

Secret garden, swimmingin the amniotic light of a green afternoon, where the trees are familiar, and the pink musanda,as also the thunder’s north eastern baritone and its subtexts; where much lies buried beneath generations of soil and thick sugarcane slushes of rain – an old cosmic despair over algebra homework rising with the heavy aroma of turmeric and damp jasmine;the silent horror of my grandmother who watched her husband drive away her cats through the stern geometry of her kitchen window;my fourteen year old indignations near dusty bougainvillea tressesat belonging to a tribe of burnished brahminsthat still likes to believe its skin is curdled vanilla;and the long amorous wailof confectioned Tamil film songsfrom the transistor of a neighbour’s gardener, long dead.

No, I am not sentimental about the collapse of dynastic memories, the erasure of ancestral houses,but it will be difficult to forget palm leaves in the winter storm, ribbed, fossilised, against heaving November skies building up their annual heritage of anguish before the monsoons end.

Arundhathi Subramaniam

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Il groviglio della memoria

Ma stanotte se mi mettessi alla finestraci vorrebbe pochissimoper incrociarequel rifulgente sfoggio di peonieche è il tuo giardino sul retro a Brooklyn,fluttuando per i continenti su quella treccia da tempo svanita,lucente al chiaro di luna, profumata delle brezze dell’Atlantico.

Traduzione di Angela Caputo.

Elegia per un giardino

Giardino segreto, che nuotanella luce amniotica di un verde pomeriggio,dove gli alberi sono familiari, e la mussenda rosa,come anche il baritonale tuono di nord est e i suoi sottotesti;dove molto giace sepolto sotto generazioni di terrae dense fanghiglie di canna e pioggia…un’antica disperazione cosmica sui compiti di algebrache sale con il forte aroma di curcuma e gelsomino bagnato;l’orrore silente di mia nonnache guardava il marito scacciare i suoi gattiattraverso la rigida geometria della finestra della cucina;le mie indignazioni di quattordicennevicino alle ciocche polverose di buganvilleaper l’appartenenza a una tribù di bramini dalla pelle brunitaa cui ancora piace credere che sia del colore della vaniglia rappresa;e il lungo lamento d’amoredi confezionate colonne sonore tamildalla radiolina del giardiniere del vicino, morto da tanto tempo.

No, non mi commuovoper il crollo delle memorie dinastiche,per l’estinzione di casate ancestrali,ma sarà difficiledimenticare le foglie di palma nel temporale invernale,nervate, fossilizzate, contro i cieli ingrossati di novembreaccumulando la loro annuale eredità di angosciaprima che i monsoni si plachino.

Traduzione di Caterina Di Pietro.

12 Soglie, anno XV, n. 2

Arundhathi Subramaniam

Winter, Delhi, 1997

My grandparents in Januaryon a garden swingdiscuss old friends from Rangoon,the parliamentary session, chrysanthemums,an electricity bill.

In the shadows, I eavesdrop,eighth grandchild, peripheral, half­forgotten,enveloped carelesslyby the great winter shawl of their affection.

Our dissensions are ceremonial.I growl obliginglywhen he speaks of a Hindu nation,he waves a dismissive handwhen I threaten romance with a Pakistani cricketer.

But there is more that connects usthan speech flavoured with the tartness of old curdthat links me fleetingly to her,and a blurry outline of nosethat links me to him,and there is more that connects usthan their daughter who birthed me.

I ask for no more.Irreplaceable, I belong herelike I never will again,my credentials never in question,my tertiary nook in a gnarled family treenon­negotiable.

And we both knowthey will never need meas much as I, them.

The inequality is comforting.

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Il groviglio della memoria

Inverno, Delhi, 1997

I miei nonni a gennaiosul dondolo da giardinoparlano dei vecchi amici di Rangoon,della seduta del parlamento, dei crisantemi,di una bolletta della luce.

Nell’ombra sento per caso, ottava nipote, periferica, mezza dimenticata, avvolta distrattamente nel grande scialle invernale del loro affetto.

Le nostre divergenze sono rituali.Borbotto con garboquando lui parla di una nazione indù.Agita la mano con noncuranza quando minaccio una relazione con un giocatore di cricket pakistano.

Ma c’è di più che ci uniscedella parola insaporita con l’acidità di caglio rancidoche mi lega a lei in modo fugace,e del profilo sbiadito del nasoche mi lega a lui,e c’è di più che ci uniscedella loro figlia che mi ha generata.

Non chiedo altro.Insostituibile, appartengo a questo luogocome non vi apparterrò mai di nuovo,le mie credenziali mai in questione,il mio terzo posticino in un nodoso albero genealogiconon è negoziabile.

E sia io che loro sappiamoche non avranno mai bisogno di mequanto io di loro.

La disuguaglianza mi conforta.

Traduzione di Marzia Dati.

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Arundhathi Subramaniam

The Other Side of Tablecloths

Miss Guzder’s outrage was moralA girl like you – I never expected it – how could you?

Before her, the undersideof my tablecloth –snarling green mayhemof equatorial rainforest,seething beneathan upfront viewof convent­educated daffodils.

Miss Guzder, you’d disown me still.I unseam easily,turn green even when determinedto stay twig­dry and rootless and though I always longto be elsewhere,I’ve never come unstuckwithout turning into a moist tangle of filament, each straggling fibre aliveto a self-inflicted green carnage

But I learn,I learn

and might just grow one dayinto the seamstress you’d be proud of:

I’ll suture and sniplazy­daisy and butcher,love and leave,no strings attached.

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Il groviglio della memoria

L’altra faccia delle tovaglie

Per Miss Gudzer l’indignazione era moraleUna ragazza come te – non me l’aspettavo – come hai potuto?

Davanti a lei, il rovesciodella mia tovaglia –un caos verde aggrovigliatodi foresta equatoriale,ribolliva al di sottodi una veduta frontaledi giunchiglie educate in collegio.

Miss Guzder, lei mi rinnegherebbe anche ora.Scucio con facilità,inverdisco pur se decisaa rimanere un ramoscello secco e senza radicie sebbene aneli semprea essere altrove,non mi stacco maisenza divenireun umido groviglio di filamenti, ogni fibrasparsa consapevoledi un’autoinflittacarneficina verde

Ma imparo,imparo

e un giorno potrei divenire propriola ricamatrice di cui sarebbe fiera:

suturerò e reciderò,punto margherita e uncinetto,amerò e lascerò,senza fili attaccati.

Traduzione di Daniela Di Pinto.

16 Soglie, anno XV, n. 2

Arundhathi Subramaniam

Habitat I think I was ninewhen I told Sonal, Gunjan, Devki and Shalinion the school busthat I didn’t understand why we wore clothesexcept as a matter of seasonal cover.

The observation was casual,the result instantaneous:they’d have crossed themselvesif they’d know how.Something heaved, shiftedand reconfigured,and in minutes,I was excluded.

I made up, of course –eliding,distracting, hopingno one would see the strainin the smile, the effort in the blood vessel,of trying desperately to belongto the ranks of the immaculately attired,those who waft into clothlike homing pigeons,always mindful of self and occasion.

I’ve realised sincethat I’m not alone,that there are otherswho spend their lives tryingto fit into clothes withouta wrinkle, a crease, a doubt,hoping they’ll never get caughthalfway between sheddinga Jurassic hide and lookingfor a more muslinhabitat of skin,a more limpid way of getting to the gist of themselves.

Soglie, anno XV, n. 2 17

Il groviglio della memoria

Habitat Avevo forse nove anniquando dissi a Sonal, Gunjan, Devki e Shalinisullo scuolabusche non capivo perché dovessimo vestircise non per motivi di stagione.

L’osservazione fu casuale,il risultato istantaneo:si sarebbero fatte il segno della crocese ne fossero state capaci.Qualcosa sussultò, cambiòe si riconfigurò,e nel giro di pochi minuti,fui esclusa.

Rimediai, certo:sopprimendo,sviando, sperandoche nessuno avrebbe visto la tensionenel sorriso, lo sforzodei vasi sanguigni,nel cercare disperatamente di appartenerealle schiere degli abbigliati impeccabilmente,coloro che si sospingono nella stoffacome piccioni che rincasano,sempre memori del sé e dell’occasione.

Ho capito da alloradi non essere sola,che ce ne sono altriche passano la vita a cercaredi entrare nei vestiti senzauna piega, una grinza, un dubbio,sperando di non venire mai scopertia metà strada tra il liberarsi di un derma giurassico e il cercareuna pelle­habitat,più simile alla mussolaun modo più limpido di giungereall’essenza di sé.

Traduzione di Martina Mariani.

18 Soglie, anno XV, n. 2

Arundhathi Subramaniam

Reading the Leaves

Nothing like the coolmorning sanity of leafto remind yougreen is the colour of borrowed time.

Give thanks for the strumpet apparelof rhododendron,the rococo benedictionof fern,the exquisite courtesyof palm,a single bleached octaveof undefeated intentthat never litters its wisdomon unsuspecting heads.

And acknowledge alwaysthe inevitable peepul,old sentinel,trusted witness,for confirming yet againthat it’s not about justice,

just weather,just waiting.

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Il groviglio della memoria

Lèggere le foglie

Niente come la frescasaggezza mattutina della fogliaper ricordarti cheverde è il coloredel tempo preso in prestito.

Rendi grazie per la meretrice vestedel rododendro,la benedizione rococòdella felce,la raffinata cortesiadella palma,una solasbiaditaottavadiinvittointentoche mai dissemina la sua sapienzasu ignare teste.

E da’ sempre il giusto riconoscimentoall’inevitabile Pipal,2

antica sentinella,fidato testimone,per confermare ancora una voltache non di giustizia si tratta,

ma solo di clima, solo d’attesa.

Traduzione di Erika Orlandini.

2 Albero sacro del fico. Sotto di esso il bodhisattva Gautama avrebbe raggiunto l’illumi­nazione, divenendo il Budda. Anche per gli induisti il Pipal possiede una valenza sacra. Essi sono soliti legare tra i suoi rami nastri di seta bianca, rossa e gialla come forma di preghiera, nell’auspicio di una solida progenie. Sotto il Pipal nacque Visnù, divinità degli induisti.

20 Soglie, anno XV, n. 2

Arundhathi Subramaniam

RuttingThere was nothing simple about iteven then –

an eleven­year­old’s hunger for the wet perfection

of the Alhambra, the musky torsos of football stars, ancient Egypt and Jacques Cousteau’s

lurching empires of the sea, bazaars in Mughal India, the sacred plunge

into a Cadbury’s Five Star bar, Kanchenjanga, kisses bluer than the Adriatic, honeystain of sunlight

on temple wall, a moon­lathered Parthenon, draughtof northern air in Scottish castles. The child god craving

to pop a universe into one’s mouth.

It’s back againthe lustthat is the deepestI have known,

celebrated by paperback romances in station bookstalls, by poets in the dungeonsof Toledo, by bards crooning forevernessand gut­thump on FM radioin Bombay traffic jams –

an undoingan unmaking rawraw –

a monsoonal ferocityof need.

Soglie, anno XV, n. 2 21

Il groviglio della memoria

In calore Non c’era niente di semplice neanche allora –

un’undicenne affamatadell’umida perfezione

dell’Alhambra, del torso muschiatodelle stelle del calcio, dell’antico Egitto

e dei popolosi imperi marini di Jacques Cousteau, dei bazarnell’India dei Mogol, dell’immersione sacra

in una tavoletta di Cadbury’s Five Star, Kanchenjunga,3 baci più bludell’Adriatico, meridiana macchia di sole

sul muro del tempio, un partenone di schiuma notturna, corrented’aria nordica nei castelli scozzesi. Il desiderio del dio bambino

di mettere un universoin bocca a qualcuno.

Torna di nuovoil desiderioil più profondoche abbia mai conosciuto,

celebrato da romanzi tascabilinelle bancarelle della stazione, dai poeti nelle segretedi Toledo, dai bardi che canticchiano l’eternitàe il tuffo al cuore alla radio FMnell’ingorgo del traffico a Bombay –

uno sfareun disfarecrudo crudo –

una ferocia monsonicadi bisogno.

Traduzione di Elena Rizzo.

3 Terza montagna più alta del pianeta, situata al confine tra il Nepal e lo stato indiano del Sikkim.

22 Soglie, anno XV, n. 2

Arundhathi Subramaniam

Learning to Swim

It’s because you becomefoetus at the funfair – whirling, whoopingthrough a jungleof chlorine and pickledMediterranean blue.

Because you realiseit’s enough to be a ferris wheel of armlegarmlegmotored by quiet turtle brain.

Because for a moment you could even be Him,the Lord of Tillai,birthing, juggling,slaying universesin an inspired mayhemof limb and lust.

Because deep within your seashell heartyou hear it again,that old oceanic roarthat reminds youthat it’s happening right now.

Life is here.

Soglie, anno XV, n. 2 23

Il groviglio della memoria

Imparare a nuotare

È perché ti trasformiin un feto al luna park – vorticando, vociandoin una giungladi cloro e di blu mediterraneoin salamoia.

Perché ti rendi contoche basta essereuna ruota panoramica di gambebracciagambebracciamossa da un placido cervello di tartaruga.

Perché per un istantepotresti persino essere Lui,il Signore di Tillai,4

che genera, sorregge,distrugge universiin un ispirato caosdi membra e bramosia.

Perché nel profondo del tuo cuore conchiglialo senti ancora,quell’antico ruggito oceanicoche ti ricordache accadeproprio ora.

La vita è qui.

Traduzione di Alessandra Roana.

4 Riferimento al tempio di Nataraja, presso Chidambaram, località un tempo nota come Tillai, nello stato del Tamil Nadu. Il tempio è consacrato alla divinità indù Shiva (nel testo il Signore di Tillai), che incarna una valenza distruttrice e rigeneratrice.

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Arundhathi Subramaniam

The Same Questions

Again and again the same questions, my love,those that confront us and vex nations, or so they claim –

how to disarmwhen we still hearthe rattle of sabre, the hiss of tyre from the time I rode my red cycle all those summers agoin my grandmother’s back­gardenover darting currents of millipede,watching them, juicy, bulging, with purpose,flatten in momentsinto a few hectic streaks of slime,

how to disarm,how to choose mothwing over metal, underbelly over claw,how to reveal raw white nerve fibre even while the drowsing mind still clutchesat carapace and fang,

how to believe this gift of inner wristis going to make it just a little easierfor a whale to sing again in a distant oceanor a grasshopper to dream in some sunwarmed lull of savannah.

Soglie, anno XV, n. 2 25

Il groviglio della memoria

Le stesse domande

Sempre le stesse domande, amore mio, quelle che ci oppongonoe agitano le nazioni,o così dicono –

come deporre le armiquando s’ode ancorail tintinnio di sciabole,il sibilo della gommadai tempi in cui, sulla bici rossa, così tante estati fanel giardino di mia nonnapestavo flussi guizzanti di millepiedi,li guardavo, succulenti, rigonfi, intenti a una meta, schiacciarsi di colpoin strisce convulse di muco,

come deporre le armi,come preferireali di falena al metallo,il sottoventre agli artigli,come mostrare, scoperta, la bianca fibra nervosa anche quando la mente assopita si stringe ancoraal carapace e alla zanna,

come credereche questa dote dell’interno del polsosaprà rendere almeno un poco più lieveper una balena cantare di nuovo in un oceano remotoo per una cavalletta sognarein un istante immobile all’arsura di savana.

Traduzione di Roberta Sala.

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sAnTi pullArà

Ballarò

Premessa

Fino ad alcuni anni fa, che il carcere esistesse, come istituzione della ‘società civile’, era per me un dato di realtà come un altro – così come ci sono le scuo­le e le caserme, e anche gli ospedali e le case di riposo –, una cosa in qualche modo risaputa, e nel contempo del tutto trascurata. Forse per un qualche pre­giudizio, che nemmeno raggiungeva la soglia della coscienza, o comunque per una specie di indifferenza automatica, poco o nulla sapevo o davvero mi interessava sapere di chi lo popolava, e delle cause per cui vi dimorasse (che presumevo fondate, e invece, assai più spesso di quanto non si creda, sono tutt’altro che “giuste”). La ‘loro’ vita scorreva in una dimensione priva di alcun contatto e di alcuna possibile comunicazione con la dimensione della mia. Sì, ogni tanto se ne aveva qualche notizia, un ‘caso Tortora’, o una pro­testa, magari un digiuno, dei ‘soliti’ Radicali. Ma tutto mi restava comunque distante, e non ero ancora giunto ad avvertire quanto invece l’esistenza di una tale condizione umana, e poi delle specifiche condizioni in cui tale condizione viene fatta vivere, riguardi da vicino le ragioni più profonde della nostra vita sociale e perfino dello specifico lavoro – e ‘compito’ – di un uomo di lettere.

Ho desiderato fare questa breve premessa, che richiederebbe ben più ampi sviluppi, nel tentativo almeno di attenuare, con una specie di strategia omeo­patica, quelle eventuali prevenzioni, più o meno radicate, che potrebbero af­fiorare accostandosi a un testo prodotto in ‘quel mondo’. Oltre le sbarre, vive – o piuttosto cerca di sopravvivere, ma con numerose quotidiane rinunce, che non fanno notizia – una umanità deprivata di tutto, che, a prescindere da natura e rilevanza di eventuali colpe da espiare, viene costantemente umiliata nelle cose usualmente ritenute più sacre da noi “chiusi fuori” (come ha scritto Adriano Sofri): la dignità della persona; un minimo spazio che sia decoro­samente vitale quanto a estensione e connotazioni; la scelta dei compagni di vita; la semplice possibilità di raccogliersi in sé, fosse anche per elaborare un lutto; la disponibilità di effetti personali; la sete di giustizia; il bisogno di legami affettivi e di un’attenzione da parte degli altri; la speranza stessa di raggiungere mai – anche e forse soprattutto una volta scontata la pena –

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Santi Pullarà

un riscatto. “Cosa potremmo mai fare?”, osserverà forse qualcuno a questo punto. Le risposte sono molte, e spaziano da una chiamata a spendersi perso­nalmente, fino al puro e semplice valutare con coscienza se non sia il caso di apporre una firma alla petizione online promossa dai detenuti di Padova (sul sito del detenuto e scrittore Carmelo Musumeci) almeno per l’abrogazione del cosiddetto “ergastolo ostativo”. Ma il paragrafo numero uno resta il sem­plice ascolto. E qui di seguito, ringraziando il comitato editoriale di Soglie, propongo una particolare declinazione di ascolto.

Santi Pullarà è detenuto nel carcere di Ranza­San Gimignano. Attualmen­te, conseguita la ‘triennale’, è iscritto alla laurea magistrale in Storia presso l’Università di Siena. Scrive, e ha ottenuto anche già qualche riconoscimento (nel 2012 un suo racconto figurava fra i vincitori dell’XI edizione del Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini”). In linea con gli interessi di Soglie, viene qui pubblicato una sorta di suo poemetto in prosa. Siamo con lui in una cella, affacciata sulle morbide e rasserenanti linee del paesaggio toscano, ma battuta, al contempo, da quella fiera congerie di rumori che aggiunge pena a pena lungo il quotidiano del carcere. Lo sguardo si fa memoria, e ripercorre in una lirica rêverie un frammento di patria, il chiassoso ma al contempo accatti­vante e pittoresco mercato palermitano di Ballarò, collocato a grande distanza nello spazio­tempo. “Ballarò era per me il teatro dove godermi lo spettacolo del mondo con tutto il corredo di sapori, bellezze, miserie e, ahimè, tristezze proprie di queste latitudini”. Non avendo più, al momento, speranza di viver­lo, resta bello sognarlo, sostituendone il concerto al frastuono dei televisori, e lasciandovi affiorare, appena accennato, il delicato invito alla vita suscitato da una incantata presenza femminile.

AlessAndro Fo

sAnTi pullArà

Ballarò

Penso a quella serata d’inizio primavera che qui, sulle colline toscane, a volte sa di vento e di pulito. Sono appoggiato a un muro, con la mente in libera uscita dalle mie contrarietà, intanto addosso mi strepita una quantità indu­striale di televisori. Di questi tempi sembra essere il basso continuo del mio

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Ballarò

vivere. Provo a ignorarli con l’aiuto dei campi e del cielo e il paesaggio mi appare inquadrato in una trama ortogonale: una prospettiva ferma, senza che lo scorrere dei dì ne muti l’armonia di un’esecuzione rinascimentale. All’im­provviso affiora un’immagine. La coscienza m’impone un viaggio con un meccanismo che non cerco d’indagare. Sono proiettato tra sequenze visive che si avvicendano. Ecco, si accende per me la luce di una mattinata lon­tana, di fine agosto. Si apre lo scrigno di Ballarò, che non è un talk show o un mercato finanziario, bensì l’istituzione della convenienza, del lesinare per campare, della trattativa più vantaggiosa.

Un doppio accesso segna due ordini di tempo, due modi di concepire la pratica del commercio. Uno al di qua: in pieno corso cittadino, tra la frenesia del business, delle boutiques, delle vetrine esposte a passanti distratti e ad automobilisti ansiosi. L’altro, oltre un cupo andito, ha invece tutt’altra vita: tra gli scandalosi ruderi della grande guerra e l’intrico di questo andamento che scivola da Sant’Antonino al piano di Casa Professa, diramandosi in una propaggine di arterie che confluiscono al corso dominante come in un fiume che procede verso la foce.

Mi vedo camminare tra la gente, senza meta, trasportato dalla corrente della fiumana di folla che scende e sale controcorrente la via del suk. In un momento, attratto dai colori di un merciaio, emerge un musetto di efelidi sotto due acque marine senza fondo, e torna caro nello scenario della memoria. Un ricordo che la ragione non ha saputo trattenere, e che provoca un diluvio di seduzioni. Quel baleno è l’ingresso a innumerevoli emozioni di fronte alle quali la penna dichiara la sua insufficienza, e fa fatica... A me restano lampi che inseguo in quel clamore di voci e cantilene da muezzin. L’aria densa, il rumore non aggredisce: una melodia sale dagli strumenti dei banconi, da una polifonia di abbanniate e si amalgama in un concerto senza ordine.

È un gioco, e tutti ne fanno parte senza riserve – che sarebbe anche stupido averne. Facce moresche, normanne, antiche, e ciabattanti massaie con sporte d’ordinanza. Qui sta la quintessenza della civiltà cosmopolita, multiforme e aperta, che non conosce l’imbarbarimento della razza.

Volti, gesti, occhiate arcaiche come il tempo, che racchiudono la sostanza e il sapore del Mediterraneo e che dal Mediterraneo ricevono vita e anima.

Il campionario tocca ogni bizzarria, buono per chiunque muova alla ricer­ca di quanto di più astruso possano aver prodotto l’ingegno e la curiosità. E i mercanti di Ballarò hanno il mestiere di allettare con l’arte dell’esposizione.

Così, via a sbuffanti finocchietti e sedani virtuosi che si mischiano tra le composizioni piramidali di agrumi e frutta di ogni qualità. I cefali legati con una cordicella dalle branchie alla coda oscillano come il lume della stazione;

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Santi Pullarà

il gran tonno squartato, purpureo nell’oscenità della morte; le sarde e le alici infinite e i pesce spada con i loro brandi protesi verso probabili acquirenti; gli scorfani ferini, l’ultimo sospiro affannoso delle seppie, l’elegiaco riflesso delle triglie: nel guazzo delle pietre millenarie, pròtesi del grande mare che fin qui insuffla il suo respiro.

E le carni impietosamente indiscrete. Dagli agnelli, ai polli, ai conigli, ai piccioni, al maiale in tranci e salsicce. La testa pendente di un vitello decolla­to: desolata esposizione di occhi smarriti nel tonfo dell’eternità, che sembra­no invitare a far banchetto con i dilani più pregiati o con il trionfo del “quinto quarto”: ventre, budella, interiora che l’arte e il bisogno, dal buio delle fami secolari, hanno elevato a prassi e tradizione. Tutti nel gran carcere del becca­io, dello speziale, del cuoco o del rosticciere, e via sulle tavole dei palermita­ni, glorificati come “cibo di strada”.

L’appetito robusto e prepotente non cerca le gradevolezze di preparazioni da gourmet, ma il piacere dei panini al profumo di sesamo farciti di panelle o di meusa, con o senza formaggi, e ancora le fantasiose preparazioni di fratta­glie. Gli odori non lasciano scampo, ognuno può soddisfare il proprio languo­re in una varietà di sapori e poi rivolgersi a ricerche e acquisti meno ordinari, anzi a volte pure stravaganti: relitti delle storie del mondo che, spogliati da ogni violenza iniziale, finiscono proprio a Ballarò.

È qui che trovano ricetto l’editoria più o meno rara o lecita, o appetibile, cascami o avanzi della meccanica, anche di precisione, vasellame o strumen­teria per ogni tipo di artiere o laboratorio, curiosità e utensili di dubbia qualità e forme senza limite; ninnoli, passatempo, giocattoli, civetterie, squisitezze da vecchio gagà o alla moda, scarpe e panni per ogni gusto. Al contempo è anche il tempio delle piccole ruberie, inganni, truffe, fregature.

Ballarò era per me il teatro dove godermi lo spettacolo del mondo con tut­to il corredo di sapori, bellezze, miserie e, ahimè, tristezze proprie di queste latitudini. La sensazione che amavo percepire era di sentirmi parte essenziale di quella arena; di non provare, tra le strade, il peso opprimente delle condi­zioni sociali, il fastidio delle convenzioni, che spesso ci limitano l’autonomia e la direzione.

Mi accorgo di non farcela, di non saper scrivere quasi niente. Tutto mi si affolla nella mente e diventa inesprimibile: inelencabile. Di fatto le parole zoppicano e minacciano insoddisfazione alla prova della memoria.

Riemerge alla fine solo una figura graziosa, elegante, che guarda imbron­ciata il merciaio e lascia cadere sul bancone un pezzo di stoffa colorata, scru­tando il mio sorriso che si perde tra la gente, sotto il sole di Ballarò.

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AnnA MAriA cArpi

Perché non sono il fumo?

a cura di Elena Salibra

Anna Maria cArpi, milanese, è tra le più interessanti poetesse contemporanee. Ha insegnato letteratura tedesca all’Uni­versità di Venezia e attualmente insegna traduzione letteraria dal tedesco all’U­niversità di Milano. Ha esordito con A

morte Talleyrand (1993), che ha ottenuto il Premio Pisa e il Premio Valeri; ha pub­blicato successivamente da Scheiwiller Compagni corpi (2004), E tu fra i due chi sei (2007) e, presso Transeuropa, le due raccolte L’asso nella neve. Poesie 1990-2010 e Quando avrò tempo. Poesie 2010-12.

È anche autrice di romanzi: Racconto di gioia e di nebbia (1995), E sarai per sempre giovane (1996), Il principe scarlatto (2002), Il mio nome era un altro. Due bambini dell’Est (2013).

Nel 2005 ha scritto la biografia di Kleist, Un inquieto batter d’ali. Vita di H.v. Kleist (2005, Premio Comisso), che nel 2011 è uscita anche in Germania da Insel­Suhrkamp. La sua originalità sta nel non essere romanzata bensì in parte narrata in dialoghi e monologhi. Sempre nel 2011 ha curato il Meridiano delle Opere di Kleist.

È anche una traduttrice di lirica tedesca: Nietzsche, Benn, Grünbein, Müller, Krüger sono solo una scelta dei suoi più importanti autori. Per questa vasta e prezio­sa attività nel 2012 ha ricevuto il Premio nazionale per la traduzione.

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Anna Maria Carpi

E ORA ALLA FINESTRA si fa chiaro, è il chiarore di marzo,e cantano gli uccelli, gli innocenti.

Tutto un’allertae col sonno è finita:una parola, me ne basta una a ridestar la ridda, da una cosa all’altraa un’altra a un’altra, in quest’inane google della mente.

Perché non sono il fumo che sale dal caminosopra il tetto di fronte?In se stesso s’involge e indugia e poi si spande con lenta maestà, pochi metri e s’intride di sole,inconsistente e lieto del suo gioco infantile e beato e bianchissimo si sperde nella gioia di non esser mai stato.

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Perché non sono il fumo?

CREME luci specchiere, e i loro nomi – Jole Sabri Ileanae Jack e Lillo e Pierre.Ma quanta angoscia: negozi chiusi anche in questa via,magri gli affari eppure siamo in centro,la Jole, la padrona, tacchi alti e cintura di serpente,ha promosso con il vicinatouna class action perché si sospendala zona A, il divieto di traffico.Smog? CO2? Ma dove, chi li vede?

Intorno a me, col fon e con lo spray,volteggia Sabri angelica,la “ragazzina”, l’ultima arrivata, gambe da ibis guance di camelia,sarà la prima a esser messa fuori. Quando con me ha finito va a sedersi, in disparte, le ditine sgranate avanti a sé, a laccarsi le unghie di blunotte.

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yukiTsunA sAsAki

Rompe il vortice: due tanka

Nato a Tokyo nel 1939, prolifico autore di tanka, docente universitario, membro dell’accademia di belle arti e studioso di letteratura del Giappone, Yukitsuna Sasaki ha seguito le orme del padre, No­

butsuna Sasaki, anch’egli famoso poeta di tanka. Appartiene al gruppo Chikuhaku Kai, dirige la rivista Kokoro, fondata dal nonno, e, nel 2011, ha ricevuto il premio Yomiuri per la poesia.

Avevi dettoche volevi mio figlio!Sei stupida!

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Yukitsuna Sasaki

Acqua che correribollendo nel fiumerompe il vortice il suonotu mi sei tra le braccia

Traduzione di Massimo Giannotta.

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AnnA lisA soMMA

Il convolvolo e il pozzo: voci muliebri nei “Canti d’amore giapponesi” e memorie dannunziane

Dal profluvio di sete sbalzate a larghe foglie affiora un polso sottile e affuso­lato: la mano candida della suonatrice impugna con decisione e grazia il plet­tro del biwa, il liuto giapponese. La donna, con la testa pesante di ornamenti, pare sussurrare tra sé e sé la melodia, racchiusa nel riquadro perfetto di una stampa ukiyo-e.1

Questo frammento del mondo fluttuante è giunto curiosamente sulle pa­gine di un fascicolo de La Lettura – supplemento culturale del Corriere della Sera, apprezzato dalla piccola e media borghesia, e parimenti dagli intellet­tuali –2 risalente al luglio 1902, incastonato in una delle prime testimonianze

1 Con ukiyo-e (letteralmente ‘immagini del mondo fluttuante’) s’intende un filone artistico nipponico, sviluppatosi tra XVII e XIX secolo; i suoi simpatizzanti concentrarono la loro atten­zione su personaggi e frammenti della vita quotidiana. La xilografia cui facciamo riferimento nel testo – appartenente al genere bijin-ga, ‘immagini di belle donne’ – è intitolata Donna che suona un biwa ed è stata realizzata da Gakutei Yashima (1786­1868), apprezzato artista nativo di Edo (l’antica Tokyo), profondamente influenzato dall’opera di Hokusai (1760-1849). I nomi giapponesi menzionati nel nostro saggio (tranne che nei riferimenti bibliografici) sono riportati secondo l’uso nipponico, secondo cui il nome segue il cognome; le illustrazioni presentate sono tratte da “Canti d’amore giapponesi”, in La Lettura, fasc. 7, luglio 1902, pp. 663­66.

2 Fondato nel 1876 da Eugenio Torelli Viollier, il Corriere della Sera s’inserì per ini­ziativa di Luigi Albertini in un ampio gruppo editoriale, che poteva contare su un vasto ventaglio di periodici (quali la Domenica del Corriere, il Corriere dei Piccoli, La Lettura e il Romanzo Mensile, che riuniva i romanzi d’appendice pubblicati a puntate sul quotidiano), al fine di incontrare i gusti e le esigenze di un pubblico eterogeneo. Scriveva Prezzolini nel 1923 riguardo alcune riviste dell’epoca, in termini del tutto applicabili all’esperienza primo­novecentesca della pubblicazione di nostro interesse: “La Lettura è la più antica e quotata di tutte, conserva sempre un certo tono di serietà, di interesse storico, di decenza che la distin­gue da alcune più giovani. Nelle altre vi è la tendenza a dar la supremazia al racconto, alla commediola [...]. Sono le riviste tipiche per ferrovia, che si comprano per passare il tempo in un tragitto noioso. Ma anch’esse desiderano buone firme e, pure dovendo tener conto del loro pubblico, apron le porte a buona letteratura quando c’è”, g. prezzolini, La coltura ita-liana, Firenze, Soc. An. Editrice La Voce, 1923, pp. 166­67, cit. in e. cAMerlo, La Lettura, 1901-1945. Storia e indici, Bologna, CLUEB, 1992, p. 10. Circa la costellazione di periodici legati al Corriere, si veda A. Moroni, Alle origini del Corriere della Sera: da Eugenio Torelli Viollier a Luigi Albertini (1876-1900), Milano, Franco Angeli, 2005.

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Anna Lisa Somma

di poesia nipponica comparse in Italia, che sembrerebbe stata sino a oggi di­menticata dagli studi.3 Si tratta di un breve saggio, intitolato con semplicità “Canti d’amore giapponesi”: una mano anonima lo ha tratto – in accordo a quan­to dichiarato in fondo all’articolo – da un testo apparso sull’English Illustrated Magazine dell’aprile 1902 per le cure di Osman Edwards (1864­1936),4 confe­renziere britannico e antesignano delle ricerche occidentali sul teatro estremo­orientale, la cui opera più illustre rimane Japanese Plays and Playfellows.5

3 Cfr. “Canti d’amore giapponesi”, cit. Fra le prime apparizioni in Italia di lirica giap­ponese ricordiamo le composizioni contenute in g. pAssigli, “La letteratura giapponese”, in Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti, IV serie, XXXIV, fasc. 667, 1 ottobre 1899, pp. 478­99; e. Allodoli, Storia della letteratura giapponese, Milano, Sonzogno, 1905; d. ciAMpoli e l. MorAndi (a cura di), Poeti stranieri lirici, epici drammatici, Parte Prima: Lirica e poemetti. Vol. I: Giapponesi, Raimund Gerhard, 1904, pp. 1­21. Purtroppo le pri­me occorrenze di taluni nipponismi riferibili alla sfera semantica della poesia offerte dal GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso, curato da Tullio de Mauro) non sembrano conformarsi al quadro appena delineato e andrebbero perciò retrodatate. I lemmi haiku e tanka – che, come si vedrà più avanti, designano due popolari generi lirici – risulterebbe­ro attestati solo in pieno Novecento (rispettivamente in e. del pozzo, “Kōyō Sanjin e il suo Ninin Bikuni Izozan­ge”, in Atti del XIX Congresso internazionale degli Orientalisti, Roma, Tipografia del Senato, 1938, p. 182; e in M. chini, Note di Samisen, Lanciano, Carabba, 1915, p. XXVI; in realtà, di quest’ultimo volume esistono due precedenti edizio­ni, l’una del 1904 e l’altra del 1907), cfr. M. MAncini, “Retrodatazioni di nipponismi in italiano”, in s. Ferreri (a cura di), Plurilinguismo multiculturalismo apprendimento delle lingue. Confronto tra Giappone e Italia, Viterbo, Sette Città, 2009, pp. 63­86.

4 Cfr. o. edwArds, “Japanese Love­Songs”, in The English Illustrated Magazine, XXVII, 223, apr. 1902, pp. 66­73.

5 Laureatosi a Oxford, prima di soggiornare nel Sol Levante sei mesi, studiò la lingua giapponese sotto la guida di insegnanti nativi e alimentò la sua passione con intense letture di resoconti odeporici, come egli stesso racconta (“[I] devoured the record of foreign trav­ellers”). Accostandosi alla cultura nipponica, notò come la sfera teatrale fosse all’epoca trascurata dagli studiosi occidentali e, proprio per questa ragione, decise di volgere a essa la sua attenzione, tanto da divenire probabilmente uno dei più illustri conoscitori europei dell’arte drammatica giapponese: cfr. J. rogAlA, A Collector’s Guide to Books on Japan in English, Richmond, Japan Library, 2001, p. 54; o. edwArds, “Preface” a Japanese Plays and Playfellows, New York, John Lane, 1901, p. VII. Quest’ultima opera è dedicata a “Ya­kumo Koizumi and Lafcadio Hearn, poet and friend”; in realtà, il primo appellativo non

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Voci muliebri nei “Canti d’amore giapponesi” e memorie dannunziane

La collocazione delle liriche del Sol Levante ne La Lettura non deve stu­pire: fondata da Luigi Albertini nel 1901 e diretta sino al 1906 da Giuseppe Giacosa,6 seguendo la falsariga dei magazine inglesi, la rivista seppe ingloba­re contributi di natura disparata. Note ingegneristiche, cronache militari, pa­gine artistiche e letterarie, riflessioni linguistiche, schizzi etnografici: questo e molto altro ancora compariva tra le pagine del mensile, che poté annoverare tra i suoi collaboratori alcune firme celebri, quali Ada Negri, Ugo Ojetti, Lu­igi Barzini, Alessandro d’Ancona, Gabriele d’Annunzio.

E proprio il Vate in gioventù fu tra i più precoci e ferventi ammiratori italiani delle arti nipponiche – affascinato in particolar modo dall’oggettistica spinta sino al bric-à-brac (tanto da scrivere “Aiuto! Il Giappone mi ingoia!”)7

– attratto non di meno dalle suggestioni estetiche e letterarie estremo­orien­tali evocate dagli scrittori della patria europea del japonisme, la Francia. In tema è d’obbligo ricordare i fratelli Goncourt (grandi amanti delle pitture nipponiche), Judith Gautier (figlia di Théophile, curatrice dei Poèmes de la libellule) e il più celebre Pierre Loti, autore di Madame Chrysanthème. Allo stesso modo, nel nostro paese, tra Otto e Novecento, taluni si cimentarono nelle scritture à la mode del Sol Levante: basti pensare a L’Aube japonaise di Filippo Tommasi Marinetti o ai leziosi Ventagli giapponesi di Corrado Govo­ni, racchiusi nelle Fiale (1903).8 Anche la melica contribuì alla creazione di

è altro che il nome giapponese prescelto dal medesimo scrittore greco­irlandese Lafcadio Hearn, che fu in assoluto uno dei più celebri e apprezzati padri della yamatologia otto­novecentesca.

6 Il piemontese Giuseppe Giacosa (1847­1906) è noto soprattutto per essere, insieme a Luigi Illica, autore di tre celebri libretti musicati da Giacomo Puccini: La Bohème (1869), Tosca (1899) e Madama Butterfly (1903).

7La Tribuna, 21 dicembre 1884. Il poeta abruzzese mostrò interesse per le cosiddette giapponeserie dal gennaio 1883, in concomitanza dell’Esposizione internazionale di Roma; nei mesi e negli anni seguenti scrisse di arte e di poesia nipponica. La longeva influenza del ‘giapponesismo’ (come egli amava chiamarlo) – soprattutto in chiave estetizzante – è inoltre evidente in alcune opere quali la novella Mandarina (1884) e, naturalmente, ne Il piacere (1889). Per approfondire, rimandiamo a M. MurAMATsu, Il buon suddito del Mikado – d’Annunzio japonisant, Milano, Archinto, 1996; F. v. Merlino, “Il giapponismo letterario in Italia. Il caso di d’Annunzio”, in A. TAMBurello (a cura di), Italia-Giappone: 450 anni, Roma­Napoli, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente – Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 2003, pp. 365­70; M. MiMiTA lAMBerTi, “Giapponeserie dannunziane”, in A. gAlloTTA e u. MArAzzi (a cura di), La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, vol. II, tomo I, Napoli, Intercontinentalia, 1985, pp. 295­319.

8 Per la lirica di Marinetti si veda Poesia, 1, febbraio 1905, p. 9; i Ventagli giapponesi sono invece inclusi nella sezione Reliquie delle Fiale (1903), ora in c. govoni, Poesie: 1903-1958, a cura di G. Tellini, Milano, Mondadori, 2000, pp. 5­9.

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Anna Lisa Somma

un repertorio fantasmagorico japonisant, tutto stretto fra paraventi, lacche e kimono: esemplari sono, naturalmente, l’Iris di Pietro Mascagni (1898) o la Madama Butterfly di Giacomo Puccini (1904), ispirata a un racconto dell’in­glese John Luther Long. In realtà, in quel torno d’anni, la mania orientaleg­giante contagiò l’intero Vecchio continente: basti richiamare alla mente la fortunata tournée dell’attrice e danzatrice giapponese Sada Yacco (conosciuta anche come Sadayakko), che calcò con successo i palcoscenici italiani ed eu­ropei, finendo addirittura per esser equiparata a dive della statura di Eleonora Duse e Sarah Bernhardt.9

La presenza dei “Canti d’amore giapponesi” ne La Lettura, dunque, non dovette all’epoca apparire peregrina, specie se si tiene conto che nei mesi pre­cedenti la loro comparsa (e lo stesso avverrà nei successivi) non mancarono nelle pagine della stessa rivista numerose testimonianze asiatiche, a caden­za pressoché mensile,10 con specifica attenzione per il Giappone e la Cina, complici anche la rivolta dei boxer scatenatasi nell’estate 1900, le tensioni fra l’Impero del Mikado e quello zarista (poi conflagrate nel conflitto nippo-russo del 1904­1905) e l’incipiente, paventato “pericolo giallo”.11

9 Consorte dell’attore Kawakami Otojirō (1864-1911), Kawakami Sadayakko (1871-1946) – malgrado non avesse alle sue spalle una vera e propria formazione drammatica –, dopo essersi esibita negli Stati Uniti con una compagnia di modeste dimensioni, tentò la fortuna in Europa. Qui venne ingaggiata dalla danzatrice Loïe Fuller per esibirsi a Parigi nel corso dell’Esposizione universale (1900), dove mise in scena spettacoli ispirati al genere teatrale nipponico kabuki, decantandolo però degli elementi più complessi ed enfatizzando soprattutto gli stereotipi sul Giappone cari agli occidentali (in primis, il seppuku, meglio co­nosciuto come harakiri). Per approfondire il tema si rimanda a s. scholz-cioncA and s. l. leiTer (ed.), Japanese Theatre and the International Stage, Leiden, Brill, 2000, pp. 54­55, J. sAlz, “Kawakami Otojirō”, in g. h. cody, e. sprinchorn (eds), The Columbia Encyclopedia of Modern Drama: A-L, New York, Columbia University Press, 2007, pp. 757­58; J. l. An-derson, Enter a Samurai: Kawakami Otojirō and Japanese Theatre in the West, 2 volumes, Tucson, Wheatmark, 2011. Alla figura di Sadayakko la scrittrice Lesley Downer ha dedicato di recente un romanzo, Madame Sadayakko: The Geisha Who Bewitched the West, New York, Gotham Books, 2003.

10 Solo per limitarci a una rassegna circoscritta al biennio 1901­1902, su un totale di ventiquattro numeri, possiamo rilevare almeno altrettanti contribuiti legati in diverso modo a elementi culturali e costumi sino­giapponesi.

11 È interessante e, per certi tratti, curioso notare ciò che sin da allora si evidenziava circa la temibile ascesa delle potenze estremo­orientali. Se all’inizio del nuovo secolo “il Giappone già porta via il lavoro alle nostre officine e rende perciò, in molti casi, acute le relazioni tra padroni e lavoranti”, il Celeste Impero prospetta quadri ben più allarmanti: “[c]osì si presenta pure qua­le gravissima minaccia, quale pericolo terribile, la Cina che per molto tempo fu considerata, nel mondo politico ed economico, come una quantità trascurabile, quasi come un elemento comico sinché, l’anno scorso, gli avvenimenti dimostrarono la serietà del pericolo che il vasto impero

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Voci muliebri nei “Canti d’amore giapponesi” e memorie dannunziane

Una vasta percentuale dei contributi di materia asiatica comparsi ne La Lettura proviene da pubblicazioni estere, compreso il saggio di no­stro interesse. In quest’ultimo caso, lo sconosciuto traduttore dei “Canti” rese in linea di massima quasi puntualmente in italiano la dissertazione di Edwards, senza ledere la fluidità del dettato, e anzi dando prova di una certa eleganza stilistica.12 Pur mantenendo l’assetto nativo del testo di par­tenza, egli percepì l’opportunità di eliderne diverse porzioni, nel timore forse di rendere farraginoso lo scritto o annoiare i lettori. Le sezioni cas­sate riguardano per lo più approfondimenti sulla cultura giapponese e note letterarie di una certa complessità (non solo limitate all’area nipponica: ricorrono, fra gli altri, i nomi di Bernard Shaw e Lev Nikolaevič Tolstoj); più di rado a scomparire sono intere liriche.13 Di esse, comunque, viene

centrale presentava per l’Europa. [...] Ciò che deve far pensare non è il timore di una aggressio­ne a mano armata da parte della Cina, ma la condizione in cui si troverà l’Europa quando, oltre la lotta militare e la lotta per vecchie questioni continentali, aggravate dalle questioni coloniali, dovrà affrontare la lotta economica, con forze sparse o male organizzate, contro concorren­ti sempre più numerosi, freschi, meglio forniti di macchinari, meglio organizzati. Si adatterà l’operaio americano, l’operaio europeo ad una diminuzione di salario, affinché l’industria di queste due parti possa competere coi Cinesi invadenti già ogni campo di produzione, dallo zucchero agli zolfanelli? Europei ed americani dovranno ogni giorno più faticare e stentare per guadagnare sempre meno. Tale secondo il D’Estournelles è la formula alla quale non si potrà sfuggire”: “Il pericolo giallo” in La Lettura, fasc. 5, maggio 1901, p. 477; l’originale da cui è stato tratto l’adattamento proposto al pubblico italiano (senza che però sia specificato il nome del curatore) è opera di Paul­Henri­Benjamin Baluet D’Estournelles de Constan, e compare sulla Revue Bleue, 6 aprile 1901. L’argomento è ripreso pochi mesi più tardi nell’articolo “Esi­ste il pericolo giallo?”, in La Lettura, fasc. 7, luglio 1901, p. 645, anch’esso stilato da anonimo autore, questa volta sulla base di articoli del Crampton’s Magazine, giugno 1901.

12 L’errore di traduzione più marchiano non compare nel testo, bensì nella didascalia d’accompagnamento di una stampa: l’inglese ‘Lady playing hyakuninshu’ è divenuto ‘Si­gnora che suona il hyakuninshu’. In realtà, hyakuninshu – più correttamente Hyakunin isshu (alla lettera: ‘cento persone, una lirica [per ciascuno]’) – è il titolo di una celebre antologia di composizioni nipponiche appartenenti al genere poetico classico waka, cui si ispira anche un popolare gioco di carte, l’uta-garuta, basato sulla conoscenza delle poesie in questione. Il traduttore italiano potrebbe esser stato ingannato dal soggetto della figura (a dire il vero, piut­tosto minuta): una fanciulla in vesti tradizionali che tiene fra le mani – dinanzi alle labbra – quelle che paiono carte da gioco spiegate a ventaglio. La posa ricorda quella di una suonatrice di uno strumento a fiato: da qui probabilmente l’equivoco e l’inesatta resa italiana di playing.

13 I principali scarti nella versione italiana rispetto all’originale investono (nell’ordine): brevi cenni sul corpus amoroso femminile giapponese dei primi secoli; uno haiku di Chiyo­ni; il gioco di carte giapponese ispirato all’antologia poetica Hyakunin isshu; alcune rifles­sioni sulla lirica svolte dallo yamatologo Basil Hall Chamberlain (1841­1911); note sulla tradizione del tanjaku (o tanzaku), piccole strisce di carta da appendere agli alberi su cui vengono trascritti desideri; considerazioni di Lev Nikolaevič Tolstoj e di Osman Edwards

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fornita una corposa selezione: sebbene non sia sempre agevole distingue­re composizioni autonome e strofe interdipendenti, nella rivista legata al quotidiano milanese si possono leggere venticinque liriche contro le tren­tatré della versione anglofona.

Come accennato poc’anzi, la struttura dei due articoli appare in buona sostanza simile, se non che l’originale in più punti illustra o approfondisce con maggior dovizia di dettagli alcuni aspetti della cultura e della letteratu­ra nipponica. Si principia con la tradizione lirica amorosa in Giappone e si prosegue dando prova di essa (con un occhio di riguardo per quella femmi­nile), attraverso uno haiku della famosa Chiyo­ni (qui chiamata O Chiyo),14 un anonimo tanka, e diversi dodoitsu15 di matrice folclorica o, in alternativa,

sull’arte; riflessioni di Bernard Shaw sul comportamento umano; quattro composizioni d’a­more della poetessa cosiddetta Maru San; un confronto fra la passione dell’Occidente per il Giappone e viceversa; una lirica nipponica d’amore ispirata al progresso della tecnica; un approfondimento sulla festa delle lanterne dedicata ai defunti (O-bon); due dodoitsu d’amo­re; cenni sull’evoluzione della poesia giapponese nel periodo 1880-1900; pensieri finali sulla letteratura mondiale e popolare d’amore.

14 Nata a Mattō (nella provincia di Kaga, ora Ishikawa, nel Giappone centrale), figlia di un artigiano specializzato in tatami (le tradizionali stuoie di paglia di riso molto utilizzate nell’arredamento domestico nipponico), Chiyo­ni (1703?­1775) studiò l’arte compositiva lirica e pittorica, ottenendo buoni risultati in entrambi gli ambiti, al punto che già a dicias­sette anni era nota per la sua bravura. Nonostante la sua fama (ante e post mortem) – equi­parata a quella del padre dello haiku, Bashō, che valse la compilazione di due antologie a lei dedicate (rispettivamente nel 1764 e nel 1771) e altri onori –, ne rimangono poche e contraddittorie notizie biografiche. Certuni la vorrebbero vedova poco dopo il matrimonio e madre di un figlio, altri nubile e senza prole; a prestare ascolto a talune voci sarebbe stata indigente, secondo altre benestante. Sembra comunque certo che a cinquant’anni divenne monaca buddhista, prendendo il nome di Soen. A riguardo, cfr. Japanese Women Poets: An Anthology, translated and with an “Introduction” by H. Sato, New York, M. E. Sharpe, 2008, pp. 150­51 e pp. 166­70.

15 Gli haiku (conosciuti anche come haikai o hokku) sono delle composizioni senza titolo costituite da tre versi, per un totale di diciassette morae, ripartite secondo lo schema 5­7­5; quelli tradizionali sono di solito caratterizzati da un kigo, ossia un riferimento sta­gionale. I tanka hanno un carattere lirico­descrittivo e sono composti da trentatré morae, suddivise in cinque versi, secondo uno schema 5­7­5­7­7. Con dodoitsu, infine, si intende una forma di poesia giapponese sviluppata nel XIX secolo, composta da una quartina che di solito segue lo schema di 7­7­7­5 morae, senza l’utilizzo di rime; amore e viaggi sono i soggetti privilegiati, accompagnati non di rado da un fondo umoristico. Per accostarsi ai generi giapponesi, rimandiamo a A. BoscAro (a cura di), Letteratura giapponese. I. Dalle origini alle soglie dell’età moderna, Torino, Einaudi, 2005; w. Xu, Historical Dictionary of Asian American Literature and Theater, Lanham, Scarecrow Press, 2012; p. zAnoT-Ti, Introduzione alla storia della poesia giapponese. Dalle origini all’Ottocento, Venezia, Marsilio, 2012.

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redatti da una non meglio identifica­ta Maru,16 accompagnati in più occa­sioni da concisi cenni esplicativi e piccole note sulla cultura nipponica.

La decisione di pubblicare i “Can­ti”, oltre che per le ragioni già prima enucleate (moda giapponizzante, at­tualità delle questioni asiatiche, de­siderio di toccare temi insoliti...), è legata a doppio filo alle scritture di donna (reali o simulate che siano, se­condo le modalità che incontreremo più avanti), rappresentate in modo cospicuo nelle poesie e nelle glosse: da un lato, infatti, le voci muliebri incarnano alla perfezione la delica­tezza e la levità dei versi; dall’altro, questi avallano e vivificano l’immagi­nario femminile nipponico popolato di eteree fanciulle e suadenti geisha.17 E ciò malgrado la letteratura estremo­orientale abbia raggiunto alcune tra le sue vette più alte proprio all’insegna del femminino: basti pensare al Genji monogatari (XI secolo) di Murasaki Shikibu, primo romanzo psicologico al mondo, o alle Note del guanciale di Sei Shōnagon (X secolo).18

16 La poetessa in realtà è qui appellata Maru Shan, sebbene nel saggio di Edwards figuri come Maru San, quasi certamente adoperando san come suffisso onorifico per tributare ri­spetto. All’inizio del Novecento esso si ritrova di tanto in tanto nei testi occidentali che fanno riferimento al Giappone, sia per nomi maschili che femminili; si pensi al caso più celebre, rappresentato da Cio-Cio San, ossia Madama Butterfly.

17 Questo sembra trovar conferma anche nell’apparato iconografico: dell’articolo inglese, comprendente sei immagini (una fotografia di Osman Edwards, due calligrafie – di cui una sottosopra –, tre stampe giapponesi a soggetto muliebre), il curatore italiano ha selezionato soltanto quelle che ritraggono donne in abiti e acconciature tradizionali. Per quel che riguarda le leggiadre giovani nipponiche nella produzione letteraria italiana basti citare quelle ritratte da Corrado Govoni: “Sul limitare siede una musmè [: fanciulla]/ trapuntando d’insetti un paravento/ e d’una qualche rara calcedonia” (Paesaggio, vv. 9­11); “[...] un’adunanza di musmè/ giuocano con degli strani balocchi/ sotto un ventaglio di marabù” (Interno, vv. 9­11); “Presso un canale una bambina triste/ da gli occhi a mandorla, fiori di loto,/ soavemente sfilza dal suo Koto/ dei suoni come grandi d’ametiste.” (Alito di ventaglio, vv. 1­4). Le liriche sono tratte da c. govoni, Poesie: 1903-1958, cit., pp. 5­8.

18 Cfr. M. shikiBu, La storia di Genji, a cura di M. T. Orsi, illustrazioni di I. Yamaguchi, Torino, Einaudi, 2012; S. Shōnagon, Note del guanciale, a cura di L. Origlia, Milano, SE,

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Se nell’English Illustrated Magazine le liriche in più casi vengono prece­dute dalla versione in giapponese e tentano di rievocare – nei limiti dell’at­tuabile – le scansioni metrico­fonetiche autoctone (spesso sostituendo l’alter­nanza nipponica di settenari e quinari con quaternari e quinari), ne La Lettura esse si presentano quasi esclusivamente in lingua italiana (tranne in due cir­costanze) e in molteplici occorrenze sembrano non conformarsi a nessuno schema prestabilito, infrangendo così un’armonica uniformità. Si legga per esempio il seguente tanka, che esibisce peraltro una sintassi poco chiara, do­vuta a una virgola fuori posto:

La wistaria [sic]Essendo venuta in fioreSul fianco della collina là,Quel pino agli occhi di tuttiSorge singolarmente alto.19

Seppur talvolta con una certa artificiosità (contenuta persino nei testi in­glesi), il traduttore italiano si sforza di adattare – almeno idealmente – i con­tenuti alle forme, modellando il lessico senza però perdere di vista l’effetto da perseguire. Leggiamo, per esempio, due dodoitsu selezionati da Edwards:

Somehow or otherThe wisest scholarMoves dark and dazed inThe Way of Love.

Even the splendourOf lamps electricCan throw no light onThe Way of Love.20

2002. Circa l’importanza e la consistenza delle scritture femminili nella letteratura nipponica intorno ai secoli X-XI, si veda, per esempio, l. BienATi e A. BoscAro, La narrativa giappo-nese classica, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 68­100.

19 La pianta si chiama in realtà wisteria (in Italia più conosciuta come glicine), ma già sull’English Illustrated Magazine figura il refuso. Ne La Lettura viene presentato anche l’o­riginale nipponico della composizione: “Fuji no hana/ Sakuri ni narite/ Kono oka no/ Matsu koso hiito no/ Meni takarikeri”. In inglese viene così reso: “The wistaria/ Having come to blossoming,/ On the hill­side there/ Yonder pine in all men’s eyes/ Stands conspicuously high.”

20 o. edwArds, “Japanese Love­Songs”, cit., p. 68.

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I versi sono offerti quasi fossero segmenti di un’unica composizione, il cui centro d’irradiazione è costituito dal fulgore dell’amore, capace di soggio­gare gli eruditi e sovrastare persino le luci più potenti:

In un modo o nell’altroIl più colto studiosoMuove ciecamente abbacinato perLa Via dell’amore.Nemmeno lo splendoreDelle lampade elettrichePuò gettar luce suLa Via dell’amore.21

Purtroppo di quando in quando, privati di una solida cornice storica e con­cettuale, i cammei poetici finiscono per apparire tanto d’effetto quanto impron­tati a un’ingenua estemporaneità sentimentale, smarrendo la loro freschezza e il loro significato primigenio. Talora, addirittura, si percepiscono sentori di sen­timentalismo lacrimevole (specie nella versione italiana), il quale a più riprese rischia di ridurre peculiarità della letteratura del Sol Levante alla stregua di una bizzarria straniera: è questo il caso del secolare topos letterario delle maniche della veste imbevute di pianto, che nei “Canti” viene parzialmente estrapolato dal suo contesto (delineato invece, seppur in modo schematico e limitativo, da Edwards) e presentato in un’ottica che amplifica a effetto la sua carica patetica.

Il tema del dolore ricorre spesso; le innamorate giapponesi devono piangere mol­to, anzi, piuttosto che le innamorate, le donne in generale, tanto che il direttore di un teatro di Tokyo ha fatto annettere alla sala delle rappresentazioni una stanza ove le sue clienti possono piangere in pace. Dice una poetessa:

Sebbene bagnate di pianto,Le mie maniche asciugano presto,Ma le lagrime che sparge il mio cuoreNon sono mai asciugate.

Tutte le frasi che io vorrei direSi dissolvono quando lo vedo;In un modo o nell’altro,Vengono prima le lagrime.22

21 “Canti d’amore giapponesi”, cit., p. 665.22 Ivi, p. 666. Osman Edwards scrive: “One is tempted to make a rainbow section of

tear­songs, so frequently does the soft­hearted musumé weep. She is never so happy as when she is unhappy, and wisely has the manager of a certain Tokyo theatre included within its

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Anche nella chiusura, il traduttore de La Lettura sfoltisce (e impoverisce) inesorabilmente il pensiero della studioso britannico: questi, difatti, va ben oltre la lapidaria conclusione improntata alla “semplicità suprema [dei do-doitsu] che raramente l’arte consapevole sa raggiungere”, su cui sfuma il sag­gio italiano,23 ultimando il suo scritto con uno svelto sguardo alla letteratura mondiale d’amore, con citazioni da Alfred Tennyson, Heinrich Heine e Paul Verlaine (del tutto cassate ne La Lettura), facendo ancora una volta ricorso a una complessa prospettiva intellettuale.

Nel complesso, difatti, i giudizi e le osservazioni di Edwards sul Giappo­ne appaiono sicuramente di buon livello e piuttosto accurate per il suo tempo, scevre di quel compiacimento (talvolta paternalistico) per le manifestazioni esotiche ben noto in Italia; notazioni in buona parte riprese dall’estensore de La Lettura, che fornisce un quadro equilibrato a sufficienza, sebbene non privo – a causa dei tagli operati alla trattazione primigenia – di concessioni all’enfasi o all’estetismo tipiche delle infatuazioni orientaleggianti.

L’esemplificazione lirica procede sovente di pari passo con precisazioni sui generi letterari menzionati: alle strofe giapponesi sono abbinate alcune rapidis­sime note, trasposte pressoché alla lettera dall’inglese. Dello haiku vien detto che “è forse il più breve componimento poetico che si conosca, perché si com­pone di diciassette sillabe sole”, mentre “[i]l più antico e il più classico dei metri è la tanka o stanza di trentuna [sic] sillabe”.24 Per quel che riguarda il dodoitsu e il florilegio Dodoitsu Go-sen-dai si tralasciano le caratteristiche formali, per esprimerne invece il senso profondo: “[l]’autore, quasi a compensare la donna della sua depressione sociale, scrive appunto dal punto di vista della donna, rappresentando con una efficacia pur priva d’arte e non ricercata, le sue gioie, le sue tristezze, i suoi dolori”.25 Questo della formulazione teorica – per quanto sin troppo concisa – è un particolare da non sottovalutare: come abbiamo già avuto modo di accennare nell’esordio di questo lavoro, è presumibile che queste siano le prime formulazioni dei generi letterari del Sol Levante proposte a un’au-dience italiana ampia e variegata, non confinate in una sede più specialistica (si

walls a tear­room, where his patronesses may enjoy their grief in comfortable seclusion. On aestethic grounds his act is to be regretted, for no gesture could be prettier than the uplifted left kimono­sleeve to tearful eyes. Says a naive poetess: ‘Though wet with weeping,/ My sleeve dries quickly;/ The tears my heart sheds/ Are never dry.// All that I would say/ Melts when I meet him;/ Somehow or other/ The tears come down’”, o. edwArds, “Japanese Love­Songs”, cit., p. 69.

23 “Canti d’amore giapponesi”, cit., p. 666.24 Ivi, pp. 663 e 664. 25 Ivi, p. 664.

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pensi, a riguardo, alla corposa recensione di Guglielmo Passigli alla Japanese Literature di William George Aston, apparsa nella Nuova Antologia nel 1899).26

Nei “Canti” è inoltre possibile individuare degli elementi di riflessione non secondari, soprattutto per coloro che, allora, aspiravano a un rinnova­mento della lirica. Si valutino gli stimoli che un passaggio come il seguente poteva generare:

Un poeta si pensò che non dovesse descrivere né spiegare mai: egli cercava la via più delicata di rappresentare una scena, di suscitare una emozione; e spesso si giunge ad una delicatezza tale che per un occidentale la poesia, senza un commento, riusci­rebbe incomprensibile.27

D’altro canto, se in quegli anni l’incontro con le forme poetiche estremo­orientali fu in grado di alimentare la scrittura di autori occidentali (valga per tutti il nome di Ezra Pound)28 con precipue suggestioni quali l’immediatez­

26 Cfr. g. pAssigli, La letteratura giapponese, cit. 27 “Canti d’amore giapponesi”, cit., p. 663.28 Nel saggio che definisce i principi del vorticismo e dell’imagismo, Ezra Pound si sof­

ferma sul valore dirompente dello haiku: “Three years ago [1911] in Paris I got out of a ‘metro’ train at La Concorde, and saw suddenly a beautiful face, and then another and another, and then a beautiful child’s face, and then another beautiful woman, and I tried all that day to find words for what this had meant to me, and I could not find any words that seemed to me worthy, or as lovely as that sudden emotion. And that evening, as I went home along the Rue Raynouard, I was still trying and I found, suddenly, the expression. I do not mean that I found words, but there came an equation… not in speech, but in little splotches of colour. It was just that–a ‘pattern’, or hardly a pattern, if by ‘pattern’ you mean something with a ‘repeat’ in it. But it was a word, the beginning, for me, of a language in colour. [...] The Vorticist uses the ‘primary pigment’. Vorticism is art before it has spread itself into flaccidity, into elaboration and secondary applications. [...] All poetic language is the language of exploration. Since the beginning of bad writing, writers have used images as ornaments. The point of Imagism is that it does not use images as ornaments. The image is itself the speech. The image is the word beyond formulated language. The Japanese have had the sense of exploration. They have understood the beauty of this sort of knowing. [...] The Japanese have evolved the still shorter form of the hokku. [...] The ‘one image poem’ is a form of super­position, that is to say, it is one idea set on top of another. I found it useful in getting out of the impasse in which I had been left by my metro emotion. I wrote a thirty­line poem, and destroyed it because it was what we call work ‘of second intensity’. Six months later I made a poem half that length; a year later I made the following hokku­like sentence: ‘The apparition of these faces in the crowd:/ Petals, on a wet, black bough’”. Cfr. e. pound, “Vorticism”, in The Fortnightly Review, 571, 1 settembre 1914, pp. 465­67 (consultabile integralmente online nel sito della rivista: http://fortnightlyreview.co.uk/vorticism/). Sui rapporti tra imagismo e poetica giapponese, ci limi­tiamo a segnalare la sezione “The Legacy of Imagism”, in i. de Angelis, The Japanese Effect in Contemporary Irish Poetry, London, Palgrave Macmillan, 2012, pp. 19 sgg.

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za iconica, la giustapposizione di immagini, la fulminante brevità, lo stesso fenomeno si potrebbe a ragione ipotizzare fra i ranghi dei nostri letterati.

A questo proposito, è opportuno soffer­marsi un istante sullo haiku di Chiyo­ni cui abbiamo accennato in apertura:

Dal convolvulo [sic]Essendo presa la secchiaDono acqua.29

Subito a seguire, troviamo una succin­ta (quanto necessaria) chiosa esplicativa di

Edwards:

Il che significa che O Chiyo aveva trovato la corda della secchia del pozzo avvinta dal convolvulo, e preferiva chieder acqua ad un vicino, piuttosto che disturbare il fiore grazioso.30

L’effluvio di questi delicati boccioli giunse a impregnare di sé la prosa dannunziana: lo haiku della poetessa è stato infatti individuato almeno a cominciare da Elisa Maria Bertinotti quale motivo d’ispirazione per una prosa del Notturno, sebbene la studiosa non ne specifichi il medium di co­noscenza.31

Con non so che malessere, penso al pozzo roseo di marmo veronese che è in mezzo al mio campiello. V’era in fondo un’acqua malsana e il coperchio di tavola era marcio, cadeva in pezzi. L’autorità pubblica gli ha turato la bocca con la calce. Ora il campiello non respira più. Il suo silenzio non ha le labbra socchiuse ma suggellate. Di qui lo sento soffrire.

La Sirenetta mi riconduce un’imagine dello Estremo Oriente, cara ai miei morti.32

29 La versione moderna è certo più limpida: “La corda del pozzo/ avviluppata dal con­volvolo –/ vado in prestito d’acqua”, M. riccò (a cura di), Questo mondo di rugiada – poesie giapponesi, Parma, C.E.M., 1967, p. 16.

30 “Canti d’amore giapponesi”, cit., p. 664.31 Cfr. G. d’Annunzio, Notturno, a cura di E. M. Bertinotti; introduzione di G. Bàrberi

Squarotti, Milano, Mursia, 1995, p. 315, n. 106. 32 La Sirenetta è – ricordiamolo – l’amatissima figlia Renata Gravina (o Anguissola, dal

cognome del marito della madre, Maria Gravina Cruyllas di Ramacca), che accudì amorevol­mente il poeta nei mesi di infermità, aiutandolo spesso in quell’arco di tempo nella revisione del Notturno.

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Una donna esce dalla casa mattutina per attingere acqua, e vede che un vilucchi prestamente nella notte s’è attorcigliato alla corda umida della secchia ed è fiorito. Rientra a casa e dice: “Il vilucchio ha preso la corda. Chi mi dà acqua?”

Io sono là, in un canto, seduto sopra una stoia, quando ella rientra. Odo il romore che fa l’orciuolo vuoto posato sul pavimento.Poi la voce delicata della fante, ancóra china nell’atto, mi rinfresca la gola come

acqua nell’ombra più misteriosa.Ero anche là, presso la soglia, nella sera serena, quando la donna esce dalla casa

per gettare l’acqua del secchio dove aveva lavato i panni. Se bene il secchio le pesas­se, ella camminava leggera a piedi nudi nel prato, e la sua gonna non faceva fruscìo ondeggiando.

In mezzo all’erba ella s’arrestò. La melodia roca degli insetti saliva dalla terra. Tutta l’erba era viva di suoni e di luccicori.

Scorsi il tallone d’uno dei piedi nudi rischiarato da un focherello notturno.La donna restava immobile in ascolto, col suo secchio sul capo.Si volse, e tornò verso la soglia, con un passo ancor più cauto e più lieve.Rientrò nella casa. Depose il secchio non vuotato, silenziosamente.33

Secondo Paolo Pagli, la fonte dell’estratto andrebbe individuata nelle Note di Samisen di Mario Chini, una raccolta di poesie nipponiche la cui prima edizione risale al 1904 (ma ristampata nel 1907 e nel 1915).34 Nel vo­lume vengono fornite due differenti versioni dello haiku. L’una, in settenari, pesantemente rimaneggiata e firmata Kaga no Toyo (dal toponimo di nascita di Chiyo­ni), è persino preceduta da un titolo, non solo assente nella versione originaria, ma del tutto fuorviante:

La vita è breve: amiamoci

Il vilucchio ha impigliatala fune abbandonataaccanto alla cisterna?Va’ a bere altrove: datanon gli è una vita eterna.35

33 g. d’Annunzio, Notturno, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 1995, pp. 170­71.

34 Cfr. p. pAgli (a cura di), Haiku e altro. Bibliografia italiana cronologica sulla poesia giapponese, Siena, 2012 (disponibile in http://www.zenfirenze.it/approfondimenti/bibliogra­fia-haiku.asp). Per l’antologia nipponica, cfr. M. chini, Note di Samisen, Assisi, Tip. Metasta­sio, 1904; successivamente L’Aquila, Tip. Vecchioni, 1907 (ed. aumentata); infine Lanciano, Carabba, 1915.

35 M. chini, Note di Samisen, Lanciano, Carabba, 1915, p. 164. Appare interessante no­tare che – per lo meno nell’edizione delle Note di Samisen da noi consultata (1915) – proprio Gabriele d’Annunzio viene criticato per le sue scelte stilistiche: “Il piccolo componimento [: il tanka] è il solo adatto a una congrua espressione dell’anima e dell’arte giapponese: le

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L’altra citazione, invece, prevede la dilatazione dello haiku in un grazioso quadretto che finisce per includere anche il testo appena citato:

La poetessa Kaga no Toyo, dunque, s’alzò presto una mattina e scese nel propri giardino. Nulla di più delizioso del fresco mattutino nell’estate. Vien voglia di berlo, e, se un pozzo è vicino, il desiderio di muta in atto. Kaga no Toyo si accostò al proprio pozzo per attinger dell’acqua, ma durante la notte la fune della secchia era rimasta abbandonata in terra accanto al pozzo e un convolvolo vi si era attortigliato. Ora la fragile pianticella apriva le sue campanule di seta. Oh, la fragile bellezza del fiore! Fragile, sì, troppo fragile!.. Il convolvolo si chiama al Giappone “Gloria del mattino” e più di un mattino non dura.

Perché, afferrando la fune, spezzar anzi tempo la breve vita della tenera pianta? Chi vuol dell’acqua... la cerchi altrove! E la poetessa si tolse il piccolo incomodo di farsene dare da una vicina, poi scrisse sul fatto una poesia. E il fatto la meritava, per­ché esso è di per se stesso un poema di delicatezza e di amore. Ecco la poesia.

Aahagao [sic] ni, tsurube torarate [sic]...Morai mizu. 36

“Dal vilucchio essendomi rapito il secchio, io chiedo in favore dell’acqua...”. E la forza della poesia è in quel “rapito”, una pennellata che rappresenta il convolvolo avviticchiato alla fune, che non si può toccare... non si può toccar da nessuno. Nulla di più espressivo. Io non sono stato buono a riprodurre la bellezza del piccolo com­ponimento. “Il vilucchio ha legata/ la fune abbandonata/ accanto alla cisterna[.]/ Va’ a bere altrove: data/ non gli è una vita eterna”.37

I punti specifici di contatto tra il commento di Chini alla lirica e la versio­ne dell’Immaginifico – la donna che al mattino si reca al pozzo, il convolvolo cresciuto nottetempo – sono certo evidenti. Occorre comunque ricordare che, nella produzione dannunziana, vi è un altro passo molto simile a quello citato nelle pagine precedenti, contenuto nel romanzo anteriore La Leda senza ci-

sue trentuna [sic] sillabe sono trentun colpi di pennello; colpi rapidi, fugaci, ma precisi in sé ciascuno, ciascuno in sé significantissimo. Allungar la forma metrica della tanka è rovinarla, renderla non insulsa, ma assurda. E per questo anch’io ho cercato di trovare una strofetta, che alla brevità aggiungesse la grazia ch’è propria della tanka giapponese. E l’ho trovata, a quel che mi pare, migliore di quella escogitata da Gabriele d’Annunzio, che nell’Isaotta Guttadauro ha cercato di riprodurre una... outa (perché outa?) facendola di settenari e di qui­nari e obbligandola a essere strofa, non componimento a sé. E mi dispiace di averla veduta modificata in varie pigre maniere da P. Arcangeli, che nella sua Letteratura e crestomanzia giapponese (Hoepli, 1914) ha introdotto molte traduzioni in versi, vestite di una veste evi­dentemente derivata dalle mie variazioni”, M. chini, Note di Samisen, cit., 1915, p. XXV.

36 Correttamente, bisognerebbe scrivere asagao e torarete.37 M. chini, “Introduzione”, in id., Note di Samisen, cit., 1915, pp. XXIII-XXIV.

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Voci muliebri nei “Canti d’amore giapponesi” e memorie dannunziane

gno, pubblicato dapprima sul Corriere della Sera fra il luglio e l’agosto 1913, successivamente edito in volume nel 1916 con l’aggiunta di una “Licenza”, pochi mesi dopo la convalescenza durante la quale germinò il Notturno (edito nel 1921), dovuta alla perdita dell’occhio destro, conseguenza di un incidente in idrovolante.

La tristezza mi curva, mi fiacca i ginocchi, mi schiaccia su quel povero orrore. Vedo il viso raso e chiaro, il biondo puerile dei capelli lisci, le labbra esigue e sensi­tive, i leali occhi fraterni che di sùbito il coraggio affilava e aguzzava. Tra la lugubre cianfrusaglia che ingombra questa sepoltura, scopro il fiore tenue del vilucchio, un che di fresco e di candido, quasi volubile sorriso. S’allevia il peso del cuore.

Ecco che il nostro primo compagno, ecco che il più amato è con noi.38 La sua voce mi passa nell’anima, come quando conduceva al mio sogno le imagini dell’Estremo Oriente, nel giardino situato dalla parte dell’ombra.

“Una donna esce dalla casa mattutina, col suo orciuolo, per attingere acqua del pozzo. E vede che un vilucchio prestamente nella notte s’è attorcigliato alla corda umida della secchia ed è fiorito. Rientra nella casa, posa l’orciuolo, e dice: ilvilucchio ha preso la corda. Chi mi dà acqua?”39

Sia nella Leda che nel Commentario delle tenebre la briosa scena domi­nata dalla donna del pozzo contrasta con un’atmosfera trapunta d’inquietu­dine. D’altronde, la frase “[l]a Sirenetta mi riconduce un’imagine dell’Estre­mo Oriente, cara ai miei morti” lascerebbe pensare a una reiterazione del complesso di frammenti iconici e lirici già racchiusi nella Leda senza cigno; in fondo, almeno nelle intenzioni iniziali, il Notturno avrebbe dovuto essere “una sorta di proemio” all’opera su citata,40 e dunque l’idea di una contamina­zione fra i due testi non è del tutto peregrina.

In ogni caso, risulta arduo stabilire con certezza se la conoscenza dello haiku di Chiyo­ni da parte del poeta abruzzese sia primariamente imputabile alle Poesie giapponesi del Chini oppure a La Lettura, di cui d’Annunzio fu probabile lettore (oltre che collaboratore), al pari di molti uomini di cultura del tempo;41 ma forse, dopo tutto, la problematica in sé importa in misura re­

38 L’amico cui fa riferimento il Vate è Luigi Bresciani (1888­1916), pioniere dell’aero­nautica, rimasto ucciso durante un volo in idrovolante.

39 g. d’Annunzio, “Il vilucchio e la corda”, in id., La Leda senza cigno, Milano, Monda­dori, 1998, pp. 1058­59.

40 Le bozze del primo tomo della Leda senza cigno (ottobre 1916) riportano: “La Leda senza cigno – racconto di Gabriele d’Annunzio preceduto da un Notturno”. Per le vicende compositive ed editoriali del Notturno, cfr. g. TurcheTTA, “Introduzione”, in g. d’Annunzio, Notturno, cit., pp. VII sgg.

41 Gabriele d’Annunzio pubblicò su La Lettura due articoli e due opere (una commedia e un dramma, La Pisanella o la morte profumata, e Il ferro) in un arco di tempo compreso tra il 1906 e il 1936. Per i dettagli, cfr. e. cAMerlo, La Lettura 1901-1945, cit., p. 155.

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Anna Lisa Somma

lativa. Ciò che infatti appare di maggiore interesse è la stessa pluridecennale presenza della letteratura nipponica nella memoria dannunziana, appresa in una molteplicità di generi e modalità scrittorie attraverso il complesso tramite delle traduzioni e dei riadattamenti europei (in primo luogo francesi), accom­pagnata da un lavorio sotterraneo e di lungo corso.

Le medesime caratteristiche intrinseche della peculiare prosa del Nottur-no ne farebbero certo il campo di prova più adatto per la rielaborazione della lezione poetica nipponica, per via della sua natura essenziale improntata – nelle forme giapponesi conosciute dal Vate (prevalentemente tanka) – alla sinteticità, alla coordinazione di immagini, a un linguaggio spoglio di orpelli retorici e insieme ben lontano dalla sentenziosità degli apoftegmi.42

In conclusione, al di sotto degli appariscenti tralci dell’esotismo o delle delicate gemme del manierismo, si cela dunque una vena sotterranea di deri­vazione estremo­orientale che lambisce e talvolta alimenta la nostra letteratu­ra novecentesca – da d’Annunzio a Calvino, passando per Saba, Quasimodo, Sanguineti – sfortunatamente poco conosciuta e ancor meno indagata; una polla, questa, cui la ricerca italiana dovrebbe forse attingere con maggior fre­quenza e solerzia, senza remore di spezzare vieti pregiudizi e incanti japoni-sant.

42 “Secondo un’opinione critica accettata pressoché universalmente, d’Annunzio, co­stretto alla cecità, avrebbe spinto il proprio linguaggio in una direzione tutta lirica e memo­riale, direttamente prodotta dall’impossibilità di ricorrere alla percezione diretta. Inoltre la pratica dei cartigli [su cui aveva l’abitudine di redigere le particole del Notturno] gli avrebbe quasi imposto la costruzione di un testo costitutivamente frammentario: il che si rivelereb­be nella struttura complessiva, ma anche nella sintassi, ostentatamente coordinativa, spesso addirittura composta di frasi isolate senza predicato. Infine, sempre per le necessità imposte dai cartigli, lo stile dell’Imaginifico avrebbe conquistato una nuova, inedita concisione, cui si sarebbe accompagnato un complessivo abbassamento del tono: qui più intimo, riflessivo, privo della famigerata enfasi dannunziana, salvo qualche passaggio di abbandono patriottico. Questa direzione di ricerca, avviata già da qualche anno con Le faville del maglio e la Con-templazione della morte, si sarebbe poi definita, per antonomasia,‘notturna’”, g. TurcheTTA, “Introduzione”, in g. d’Annunzio, Notturno, cit., pp. XVI-XVII.

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Voci muliebri nei “Canti d’amore giapponesi” e memorie dannunziane

Abstract

Among the earliest appearances of Japanese poetry in Italy are the poems quoted in “Canti d’amore giapponesi”, an unsigned translation of 1902 Os­man Edwards’ essay Japanese Love-Songs. The translation, which came out in the same year in the widely­read magazine La Lettura, contained full ver­sions of haiku, tanka and dodoitsu. A critical consideration of this so far ig­nored document may help determine the influence of Japanese literature on early twentieth century Italian writers, especially Gabriele d’Annunzio.

Parole chiave: Gabriele d’Annunzio, poesia giapponese, haiku, tanka.

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Il soggetto si perde e si ritrova in un mondo globale

Intervista a Enrico Testa

a cura di Elena Salibra

Enrico TesTA, è nato a Genova nel 1956, dove insegna come professore ordinario

di Storia della lingua italiana. Oltre che autorevole saggista è uno dei più apprezzati poeti italiani contemporanei. La sua attività poetica inizia con Le faticose attese (San Marco dei Giustiniani, 1988) e prosegue con tre raccolte edite da Einaudi, In controtempo (1994), La sostituzione (2001), Pasqua di neve (2008). Tra i contributi critici più significativi si ricordano: Lo stile semplice. Discorso e romanzo (1997), Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento (1999), Montale (2000), Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo (2009), Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di Sanguineti (2012). Ha curato il Quaderno di traduzioni di Giorgio Caproni (1998) e l’antologia di poesia contemporanea Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (2005), che rappresenta il punto di maggiore con­vergenza tra il poeta e il critico. Nel 2013 è uscita la raccolta Ablativo, che ha conse­guito il Premio Viareggio­Rèpaci.

Che cos’è per te la poesia e che impatto ha nel mondo contemporaneo così legato al digitale e all’immagine?

C’è sempre da diffidare di chi ha definizioni pronte, onnicomprensive o altisonanti della poesia. Preferisco la cautela alla retorica e quindi procedo di approssimazione in approssimazione. Mi vengono in mente tre possibili rispo­ste, per così dire, a salire. Al livello più basso, la poesia può definirsi come quello strano disturbo del comportamento per cui si tenta di mettere in versi le esperienze e i sentimenti della vita mancando sempre, con infallibile precisio­ne, il bersaglio; su un piano leggermente superiore, può essere vista come un esercizio della memoria (e qui riecheggia un’epigrafe sanguinetiana) tramite il

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Enrico Testa

quale, grazie alla scrittura, proviamo a mettere da parte (finché è possibile) una figura, un fatto, un incontro pateticamente preservandolo dall’oblio; e infine, ad un livello più complesso, si può interpretare come un genere sommamente aporetico: in cui cioè si confrontano i ‘doppi pensieri’, in cui predomina il re­gime della contraddizione, in cui si saldano o entrano in attrito gli opposti. A pensarci bene, la poesia è, insieme, il massimo della solitudine (al momento del suo farsi) e la ricerca di una comunità (al momento ottativo della sua destina­zione); rapporto con la lingua di tutti e tensione alla memorabilità unica; forma rituale in cui si evoca o si cerca quanto logica e costumi dicono impossibile a ottenersi (l’incontro con i morti, in primo luogo, e, in genere, con l’assente); tra­fila di segni che s’impiantano nel qui ma, al contempo, guardano ad un altrove non necessariamente trascendente o assoluto e forse tanto più ricco di senso in quanto immanente e figura di relazione. Ma qui la questione si fa troppo com­plicata ed è meglio lasciarla da parte. A proposito dell’‘impatto’ della poesia sul mondo contemporaneo, non saprei cosa dire: di fronte ai tratti caratteristici di quest’ultimo (compulsività; falsi bisogni; economia, tecnica e finanza predomi­nanti; tensione all’oblio; artificiose egolatrie; dromocrazia; teologia del consu­mo; cultura del narcisismo; dittatura dei media e della Rete; approfondirsi delle differenze sociali, economiche e culturali) ho idea che la poesia possa fare ben poco: la partita è troppo grande e le forze in campo troppo squilibrate. Tutt’al più un esercizio semicatacombale di resistenza: la preservazione del patrimonio simbolico dell’uomo, obliato o azzerato dai costumi odierni (ed è per questo che forse la poesia ha più punti di tangenza con le cosiddette culture etniche che con la doxa contemporanea) e il mantenimento in vita di un punto autonomo, anche se fragile e relativo, di dicibilità sul mondo, che deve accompagnarsi, credo, ad una forma di rispetto (coincidente con il rifiuto della corrività e delle mode verbali) nei riguardi della lingua che abbiamo avuto in eredità o in sorte e, in particolare, nei riguardi del suo nucleo condiviso o (geologicamente par­lando) della sua faglia più profonda.

Partiamo dalla tua prima raccolta, Le faticose attese (San Marco dei Giusti-niani, 1988), dove l’impronta caproniana è netta e trasparente. Sei d’accordo con questa lettura?

Giorgio Caproni è stato una figura decisiva, insieme a pochissime altre, nella mia, esile, storia di poeta. La lettura e lo studio della sua opera e, negli ultimi anni della sua vita, i nostri, per quanto radi, incontri sono stati momenti preziosi per la mia giovinezza. Non dimenticherò mai l’attenzione che mi diede e la generosità che mi dimostrò. Che Le faticose attese possa apparire un libro nato sotto la sua stella o nel suo raggio formale e tematico non mi

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Il soggetto si perde e si ritrova

imbarazza affatto. E anzi credo che pure in alcuni dei libri successivi ci siano tracce o citazioni dai suoi versi. Da leggersi, esente come sono dall’angoscia dell’influenza che travaglia tanti critici dell’intertestualità, come veri e propri atti di omaggio: quasi un inchino o un levarsi il cappello di fronte a chi ha saputo dire meglio di me e con tanta lucidità e nettezza.

Giovanni Giudici ha rilevato nei tuoi versi una suprema pazienza, la stessa, penso io, che pervade i versi di Bertolucci, specie da La capanna indiana a Viaggio d’inverno. Si tratta di una pazienza del quotidiano, legata al silenzio e al non detto che affiora in superficie e si lascia sperimentare. Da In contro­tempo (1994) a La sostituzione (2001) fino a Pasqua di neve (2008) è questa la chiave di lettura che accomuna le tre raccolte?

La pazienza rilevata da Giovanni Giudici nei tre libri citati è forse, più che un tema, un atteggiamento di fondo: tratti propri dell’io testuale (non sempre coincidente con l’io empirico) di In controtempo, La sostituzione e Pasqua di neve, sono il mettersi in ascolto del quotidiano, il lasciar passare il tempo sen­za forzarlo (una modalità quasi ‘cinese’), il farsi coinvolgere dagli eventi non aderendovi completamente (e qui invece c’è il ricordo di certa moralità stoica), il percepire la fragilità di ogni atto e comportamento, l’intonare i propri gesti ad una malinconia di fondo (quasi una musichetta ironicamente romantica) e, in fine e a dirla tutta, il sentire – nel soprassalto di una stereofonia distorta - il mescolarsi, nei nostri giorni, di fascino e amore, orrore e morte. Il fatto è che non riesco a scrivere versi al di fuori né di una precisa esperienza vissuta né del sentimento, paziente appunto, che l’essere è una realtà condivisa, che – ad usare le parole di Jean­Luc Nancy – non si dà esser­ci senza essere­con e che solo così si può sperare in un senso: la vita “ce la spartiamo tra di noi: tra noi tutti, simultaneamente, morti e vivi, tutti, e ogni essente”. Da qui deriva, in fitta convivenza, la folla di elementi naturali (alberi ma anche pietre e minimi frammenti di paesaggio) e di figure animali, la ridda di scomparsi e di viventi, la schidionata di nomi propri e di volti anonimi che percorrono i miei versi. In uno scritto che mi ha insegnato molto, Enrico Capodaglio ha visto in questi libri le tracce di una “poetica della calma” e li ha sinteticamente interpretati nei termini di “un diario tenace da monaco libertario”. Non mi sento di aggiungere altro.

Tu lavori almeno su due tavoli, quello del critico e quello del poeta. Qual è per te l’attività prevalente? Pensi che tra di loro interagiscano e si influenzi-no a vicenda?

L’attività prevalente è – almeno dal punto di vista quotidiano e quantita­tivo – quella del critico o, meglio (visto che non ho mai esercitato funzioni

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‘militanti’), quella dello storico della lingua, letteraria e non letteraria, e del professore: due mestieri, in fondo, e niente più e connessi tra loro. Al di sotto o accanto, la scrittura in versi, che percepisco più vicina al punto centrale del­la mia scombinata identità e al suo quotidiano rimettersi in sesto, tra sbreghi e toppe, per la semplice ragione che è strettamente legata ai fatti della mia esistenza. In fondo scrivo poesie solo per cercare di interpretare quest’ultimi o, come dicevo prima, per ricordarmeli (sperando, sotto sotto, che il mio ri­cordo coincida o si avvicini a un ricordo inespresso ma simile, per esperienza o sentimento o valore, del lettore). Quali siano le relazioni tra le due attività resta per me un mistero: al di là di un ovvio filo di continuità tra di esse (che almeno momentaneamente mi preserva dalla schizofrenia) e di qualche punto di contatto, in particolare tematico (alcune ossessioni profonde), mi pare che seguano ognuna la loro strada. D’altronde cosa c’è di più insopportabile di un professore che s’atteggia a ‘poeta’? Forse solo un poeta che non si dimentica mai, mentre scrive versi, di essere professore. Per fortuna mi scordo spesso di essere sia l’uno che l’altro.

Arriviamo ad Ablativo (Einaudi, 2013), libro con cui hai vinto il Viareggio-Rèpaci 2013. Il titolo è affascinante e rimanda all’idea di un caso indiretto che al movimento e alla stasi si ricollega. Che cos’è per te questa poetica ablativa?

Parlare addirittura di ‘poetica ablativa’ è forse esagerato. Più semplice­mente il titolo rimanda (qui sì da professore!) ad un caso latino altamente sincretico in cui si radunano varie funzioni: l’allontanamento da sé, lo sposta­mento in un altrove, il movimento e la stasi (al punto che le poesie del libro potrebbero essere divise, come certa selvaggina dei cacciatori, in stanziali e migratorie) e, ancora, le funzioni strumentale e comitativa: l’essere per altri e con altri. Insomma il titolo è stato scelto sia per la pluralità dei suoi significati (pure in contrasto tra loro: ancora la contraddizione o aporia…) sia perché segna in maniera netta la distanza dal primo caso: il nominativo. Con tutto quanto è in quest’ultimo implicato: pronuncia assoluta, ruolo centrale dell’io, postazione eminente di stampo liricheggiante. I vari passaggi dell’ablativo invece mi sembra che, da un lato, comportino per il soggetto la scoperta di un nuovo destino (al crocevia di voci diverse, stretto tra generazioni non proprie, immerso in relazioni imposte da microcosmi particolari come da mondi stra­nieri: famiglia, amicizia o luoghi remoti) e, dall’altro lato, suggeriscano una cosa per me molto importante: che la poesia, in fondo, condivide la fragilità della nostra esistenza, i limiti del tempo che ci resta (diceva Marina Cvetaeva che, per chi scrive, l’importante è “Non farsi un nome – fare in tempo”), e, in­sieme a tutto questo, i sentimenti che ci agitano e il nostro spartirci la vita. Né

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statue né monumenti quindi (figure antiche ma sempre ritornanti in certe idee o tendenze sacrali e ‘assolute’ della letteratura), ma tutt’al più una scrittura sottile e a caratteri piccoli – quasi un geroglifico o glossa o nota – al margine di un testo – la vita – che ci affascina e ci distrugge.

Ablativo vuol mettere in gioco lo spazio, lo spazio dei viaggi in cui il soggetto si perde e si ritrova: in particolare l’io lirico racconta di mete lontane, una Breve escursione in Sudamerica, che è il titolo di una sezione del libro. Anche il tempo ha la sua parte (vedi la sezione Binario 20). Tempo e spazio si intrec-ciano in una rete di eventi che accomunano io e noi e insieme li annullano. C’è poi lo spazio del sogno (Nel sonno) popolato di animali dormienti, segni e simboli di un altrove della mente. Sei d’accordo con questa interpretazione?

Col senno di poi mi pare che Ablativo sia dominato, in sostanza, da tre temi, unificati dal movimento di distacco da sé di cui si parlava prima. Il tema della memoria, con cui ci si allontana dal presente per andare a ritroso nel passato e ritrovare scene e figure scomparse (e in questo passaggio il sé di oggi si modifi­ca ineluttabilmente e quasi senza volerlo); il tema del sogno, in cui l’io, lascian­do la veglia per il sonno, finisce per interpretare il ruolo di terza persona (sino a ‘vedersi’ proprio in tale ruolo) e in cui – stranito messianico euforico straziato – incontra i suoi morti (e quali esperienze dell’esserci, oltre al sogno e alla poesia, ci permettono di riuscire in questo rito evocativo? Neppure la morte, per quanto possiamo pensarla sotto la spinta di uno sforzo immaginativo, ci assicura tale possibilità d’incontro); e il tema del viaggio, inteso come la dimensione in cui il soggetto, insieme, si perde e si ritrova e in cui percepisce che la sua identità, lungi dall’essere un dato sostanziale e precostituito o – come si vuole oggi – un elemento puramente aleatorio o virtuale, è invece il frutto di un lavoro: com­posta di tessere diverse e attraversata da echi e segni plurimi da ascoltare e da rimettere assieme. A questi motivi vanno poi forse aggiunti quello amoroso e quello, per così dire, familiare (colto soprattutto nel passaggio di generazioni diverse e nei loro rapporti). Ma pure qui, in amore e in famiglia, il destino a cui si va incontro – ad essere appena appena responsabili e solo un poco attenti – non è forse ancora una volta una figura dell’‘ablativo’?

La sezione che aiuta a capire il senso di tutta la raccolta mi sembra sia Gram­matica, excursus metapoetico che illumina le potenzialità creative di tutto il libro, con quell’idea di poesia vicina alla vita reale.

Forse è una sezione che aiuta a gettare luce sull’intero libro: per la vicinanza alla vita reale, per la preferenza – qui esplicita – per i suoi segni (i nomi propri, di persona e di luogo) e, soprattutto, per un tema – quello linguistico – affronta­

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to direttamente e che mi piace qui sottolineare nelle sue possibili implicazioni. Il secolo scorso è stato indubbiamente il secolo del linguaggio: ha visto la fon­dazione della linguistica moderna; tanti filosofi si sono dedicati a questo tema; numerose discipline si sono fondate su di esso; poeti e narratori ne hanno fatto un oggetto costante di riflessione. Ed è stato pure il secolo delle sue più torbide e violente manipolazioni. Ma c’è un filo costante in tante analisi del linguag­gio: la messa in rilievo dei suoi limiti, della sua impossibilità a dire, del suo carattere ‘funerario’ che, mentre esprime verbalmente un messaggio o ‘chiama’ un oggetto, o falsifica il primo o sopprime, sino ad ucciderlo, il secondo. È in­somma il riflesso – sul piano della comunicazione verbale – della vasta impresa demolitrice del nichilismo che ha pervaso il Novecento. Ecco, forse quest’ulti­ma – sia le filosofie del Nulla sia le sue prospezioni linguistiche – va finalmente consegnata agli archivi. Senza restaurare antiche visioni ‘ottimistiche’, del tutto fuori luogo, e magari servendosi della lezione, per me fondamentale, di Lévi­nas, mi viene da pensare che il linguaggio sia, pur con tutti i suoi limiti, quanto ci tiene insieme: stretti e in lotta, in euforia o in afflizione. Il filo delle relazioni umane. Un’importante possibilità del loro senso. E un cenno (solo un cenno) di trascendenza nell’immanenza. E non penso alle sue forme elaborate, agli stili della letteratura, ma proprio ai discorsi ‘comuni’ che, quando privi di mo­dismi e occasionalismi suggeriti dai media, rivelano un’insospettata profondità di significati e una densa filigrana di affetti e, insieme, concrezioni geologiche dell’italiano, stratificazioni semantiche, visioni del mondo che solo lo snobismo di certi mandarinati molto up to date può guardare con disprezzo. D’altronde se Wittgenstein diceva che in una goccia di grammatica si concentrano oceani di filosofia, Lacan, da parte sua, rimarcava la ricchezza e invitava all’ascolto dei discorsi da strada o da metropolitana. E la poesia? Credo che alla poesia non si debba pensare come ad un genere linguistico a parte, come a un codice con i suoi precostituiti segni d’identificazione; ma che, consapevoli dei suoi limiti (ci sono temi e questioni che altri tipi testuali affrontano con maggior presa e forza interpretativa), vada appunto interpretata nel quadro, dialogico e generale, dei discorsi umani, sottolineando la sua appartenenza ad essi e ad essa richiedendo quel medesimo grado di responsabilità (per sé e per gli altri) che ci sentiamo di richiedere ad ogni gesto e ad ogni parola degli interpreti dell’esistenza.

In che modo ti ha aiutato nel tuo percorso poetico l’antologia, da te curata, Dopo la lirica, che è una summa della poesia dagli Anni Sessanta al Duemila?

Qui la risposta deve articolarsi su più piani. In primo luogo, gli anni de­dicati al lavoro dell’antologia mi hanno spinto a leggere un grande numero di autori (ben maggiore di quelli poi entrati nel libro), a riprendere in mano

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i grandi poeti delle generazioni passate (da Caproni a Sereni, da Bertolucci a Fortini a Zanzotto), ad esplorare quelli più recenti, ad attraversare fasi di storia culturale e poetica particolarmente complesse: gli anni Sessanta con i loro grandi cambiamenti, la fine dell’‘aura’ e la perdita di prestigio di poeta e poesia, i tentativi di risacralizzazione e il risorgere di irrazionalismi vari, i mutamenti sociali e antropologici degli ultimi anni. Nutrendo ancora la con­vinzione che la poesia in gran parte si situi (al di là di un principio che resta comunque misterioso) all’incrocio tra le esperienze che ci toccano in sorte e le letture che abbiamo fatto, il lavoro per l’antologia mi ha permesso – ma è solo una supposizione – di riflettere sulla tradizione del secolo scorso e di confrontarmi con essa. Differentemente da posizioni oggi assai in voga (che propagandano il poeta ‘inconsapevole’: quello per cui vale il principio “meno si sa, meglio è”) ritengo che il rapporto con la tradizione resti un dato su cui interrogarsi e non da liquidare sbrigativamente. Ma soprattutto credo – e qui interviene il mio fastidio per rampanti aggregazioni a base anagrafica, per gruppi o battaglioni d’assalto fondati sulla compattezza di un presunto valore generazionale – che l’elemento decisivo ed essenziale sia il dialogo, in ter­mini umani prima ancora che letterari, tra figure e scritture di età, ideologie e culture diverse. Dietro all’antologia (a dispetto di letture troppo sbrigative o interessate del suo titolo) c’è – spero – questa filigrana di pensiero che ha forse, indirettamente o preterintenzionalmente, contribuito a fare chiarezza, se non nella mia scrittura poetica, almeno in me stesso. C’è però, accanto a questo, anche un altro aspetto. Se, sul piano personale o interiore, l’antologia è stata un’esperienza ricca e formativa, su quello ‘pubblico’ o delle relazioni letterarie non ha certo particolarmente giovato alle fortune mondane della mia poesia. Il fatto che Dopo la lirica (che accoglie, voglio ricordarlo, anche poeti liricissimi come Dario Bellezza o il grande Ripellino) sia stata composta e realizzata da chi scrive anche versi non mi ha messo in una posizione facile oggi. Va infatti contro un’impostazione molto alla moda che, da un lato, vede nell’essere critico o storico o teorico di poesia (tanto più poi se anche – vero abominio! – professore) un impedimento all’espandersi della ‘vena’ poetica e al suo, come si ama dire, autonomo e irrelato dispiegarsi; e che, dall’altro, predilige nel ‘fare poesia’ – in piena sintonia con lo spirito dei tempi della sur­modernità – una sorta di latitanza del pensiero, una rimozione di prospettive sul mondo e dello sforzo d’interpretarlo a favore invece della categoria impe­rante (e regressiva) dell’‘emozione’o dell’ostentazione, sostenuta dai media, della propria – quale che sia – ‘diversità’. In buona sostanza, Dopo la lirica per un verso ha dato, per un altro ha tolto. Nella partita doppia della poesia, un perfetto pareggio di bilancio.

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Da Ablativo

a filo d’acqua intravedogli oleandri fioriti sulla riva il porto tranquillole case sulla collinail campanile della mia chiesai bagnanti di porcellanailluminati dal sole.

Ma all’improvviso la scena appassiscecome un’eclisse.Basta – gorgoglio mentre l’ondami schiuma in gola –basta di tutto questo!Non sentite quanta penasi nasconde, ritrosa,dietro l’idillio?

Allora – mi dico – meglio scenderee scendere ancora nel profondosino a toccare l’ombravagante sola sul fondo…

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Maurizio Cucchi, Malaspina, Milano, Mondadori, 2013.

“Ho imparato”. È con questa affermazione che si apre il nuovo libro di Mau­rizio Cucchi. La ritroviamo quasi al termine, a pagina 72, nell’ultima delle cinque sezioni di poesie senza titolo (con una prosa per ogni sezione) in cui con sapienza si articola Malaspina. Il libro si presenta dunque subito, con discrezione eppure perentoriamente, come conclusione di un itinerario, come conquista di un sapere, che, vedremo, è insieme conoscitivo ed etico. “Ho im­parato a esprimere gli umori… senza camuffarli”, scrive Cucchi nella poesia di apertura. E “mi compiaccio di esprimermi/ in prima persona/ in modo di­retto e libero/ come ho finalmente imparato”, dice, come a specchio, nell’ul­tima sezione; dove quel “finalmente” è chiaro indizio sia della difficoltà del cammino che dell’importanza della conquista. Dunque il poeta ha imparato a esprimersi in prima persona, in modo diretto. Affermazione che suona al­quanto paradossale se si considera l’intero percorso della poesia di Cucchi, che fa del gioco delle maschere, dello scambio e della sovrapposizione di identità, una delle sue cifre più note: si pensi solo all’emblematico titolo di un suo libro, Donna del gioco. Il procedimento non viene abbandonato in Mala-spina: la prima e l’ultima parte mettono in scena proprio le maschere. Nell’i­niziale Berretto a sonagli il richiamo è a Ciampa, protagonista del dramma pirandelliano (e questo esplicito riferimento all’autore siciliano non è senza significato); nell’ultima, Console o capitano, il gioco è ancora più raffinato, la metamorfosi di identità ancora più complessa.

Come si esce – se si esce – dal paradosso che ho detto? Per rispondere conviene inoltrarci nel vivo di Malaspina, cercando di seguire il più fedel­mente possibile il non lineare percorso dell’autore e di enuclearne il senso.

Dopo “Ho imparato”, nella seconda e nella terza poesia appaiono altri due verbi significativi. La terza inizia con “Mi muovo”; la seconda è sostenuta da un ancor più rilevante “retrocedo”. L’autore si presenta come un “archeologo” (a pagina 62 dirà di essere “una talpa”) che scava “nell’ignoranza… delle te­nebre”, verso “intrecci collettivi… molteplici intrecci sconosciuti”. Troviamo qui una delle parole­cardine del libro: intreccio. Il suo quasi sinonimo, ancor più pregnante, è “religio”, parola­verso che Cucchi strategicamente colloca, quasi come sigillo, al termine dell’ultima poesia della prima sezione (“Un filo

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c’è./ Religio”): è un legame religioso, anche se di una religione laica, quello cercato dall’autore. Il suo retrocedere e scavare come una talpa (animale cie­co: solo i ciechi vedono) è – non sorprenda l’espressione – una mistica cata­basi nelle tenebre per attingere la luce della conoscenza e della vita. Di una conoscenza che sia anche vita. È la luce che scaturisce dal “distacco”, come è detto esplicitamente col titolo La luce del distacco, un’opera di Cucchi che ha come protagonista Giovanna D’Arco; titolo che si richiama alla mistica renana e a Meister Eckhart in particolare. Luce “sepolta” (la morte è vita), per usare un’altra parola chiave del libro. Essa infatti, come i mistici sanno bene, splende nel “centro”, il luogo fuori dallo spazio e dal tempo in cui si originano tutti i significati, su cui si regge l’ordine – quello vero, quello uma­no – del mondo. Non a caso, dunque, nella poesia di pagina 58, con la quale si chiude la terza sezione e il cui primo verso è “Lezioni d’abisso…”, il poeta mette in scena Lidenbrock, il protagonista di Viaggio al centro della terra, il noto romanzo fantascientifico di Verne. Esiste un centro della realtà, fuori del quale la vita non è che menzogna e violenza. Qui la prospettiva è assai diversa dalla discesa nel Maelström di una sezione di Vite pulviscolari, il libro che precede immediatamente Malaspina, nella quale il centro è rappresentato da un “buco nero” che tutto attrae, tutto fagocita. “Religio”: dunque “adesione”, e, ancor più, “obbedienza” (due parole che troviamo in rapida successione in una poesia di Luce del distacco, che inizia con “Forse ho imparato”). Adesio­ne e obbedienza, nella consapevolezza del “comune/ destino”, del “vincolo di solidarietà” di cui il poeta parla nell’ultima prosa. Volendo semplificare, Malaspina potrebbe essere detto proprio il libro dell’obbedienza. Appare tale in una felicissima poesia della prima sezione, in quartine, chiuse da un disti­co, di versi liberi che vanno dalle sette alle undici sillabe. Ne riporto la prima strofa:

Ma il bambino non era scaltro,non era ribelle. La sua era soloobbedienza e normale fiducianell’ordine semplice e quieto.

Obbedienza a un ordine, a un’“armonia” del mondo, fonte di luce e di pace, fuori dalla cinica scaltrezza degli adulti e dalla cieca ribellione dei giovani. Qui Cucchi non è lontano dal wu wei del taoismo e, per limitarci alla poesia italiana di oggi, dal quasi coetaneo Viviani. Obbedienza. Ed ecco allora l’aprirsi di attimi di “sospensione” (altra parola centrale del libro), quasi un librarsi nell’aria, privi di peso, nella raggiunta libertà: fermi, eppure vivi nel respiro del tutto, “nel presente assoluto, animato/ dalla pace normale

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dell’esserci// senza conflitti o sfide…”, come il poeta scrive nelle mirabili quartine della poesia a pagina 53, nella terza sezione. Perché il tempo “non esiste”, dice Cucchi nella poesia di pagina 47. Il tempo è proprio solo della superficie ingannevole. Nella dimensione verticale dello scavo l’io, simile a un punto che contiene il tutto, scopre di conservare in sé “ogni antico e remoto io” (p. 13) e quindi non può più vantare una egoità chiusa e separata. In questa dimensione l’unico tempo è fuori dal tempo, è il presente, in cui tutto converge e si compatta, in cui tutto si smaterializza. Lo vediamo nella breve poesia di pagina 54 (siamo nella terza sezione) dove è da notarsi, oltre alla triplice ripetizione di “presente”, la rima in “ato”, che sembra ribadire la pressione, la compattezza del solo presente che per il poeta vale. Compattez­za confermata dalle tre parole con doppia dell’ultimo verso, disposte in un martellante decasillabo. La riporto integralmente:

Perciò io adoro il presenteperché solo il presente contienetutto quello che è statoma il presente sospeso, la luce,questo blocco di terra pressato.

Il divenire è abolito, resta solo l’essere, nella pienezza del suo splendo­re. Un essere sia da accogliere e contemplare che da “godere”, nell’unità vi­vente di un io in armonia con sé stesso e col mondo. Un io che ora può dire alla vita un “sì” che non ha nulla del volontarismo nicciano, e aggiungere “mi piace”, come leggiamo a conclusione della prosa della terza sezione, che segue immediatamente la poesia appena riportata. Vivendo nel presente non cronologico ma spirituale (altro aggettivo che può sembrare fuori posto trattando di Cucchi), il poeta è capace di librarsi nell’aria, con la gente e col mondo intero. E anche questo librarsi, quasi una levitazione di fachiri indiani, è paradossale, se si pensa che lo scavo, come dice l’autore a pagina 20, nella penultima poesia della prima parte, avviene “per nostalgia diffusa di una realtà/ densa di terra, forte, di sudicia/ terra totale”. Tutto il libro è nel segno dell’aderire alla fisicità delle cose, al “ruvido attrito diretto/ della materia”, all’opacità, granulosità del mondo, ai “grumi/ di fango e vermi”, alla verità sepolta sotto la superficie “laccata, leccata” (p. 63) di una realtà nella quale si intersecano piani diversi. Un’intera sezione di Malaspina, la terza, dall’eloquente titolo Macchine movimento terra, è dedicata al tema del dissotterramento: quello di un mondo “ancora poroso e ruvido, opaco,/ allora e permeabilissimo”; versi nei quali le parole “ancora” e “allora” in­troducono la dimensione temporale, in un giudizio che intreccia vicenda

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personale ed eventi collettivi, storia e metastoria, divenire e destino. Qui però è necessaria una precisazione. Cucchi parla a più riprese di materia, ma questo non significa adesione del poeta a una filosofia materialista come forse poteva sembrare in Vite pulviscolari. Si vedano questi versi della pe­nultima raccolta: “Tutto è materia, c’è un vorticare di materia…/ aggrega­zioni varie di materia”. La materia di cui si parla in Malaspina è piuttosto la metafora, forte e di immediata presa, di rapporti umani concreti, “in prima persona”, col mondo, fuori da tutti gli ‘ismi’, dalle astrazioni ideologiche, dall’“ansia inutile di definizione” (p. 52), dalla volontà di appropriazione e dominio propria degli uomini “in divisa” che vedremo in scena nell’ulti­ma parte del libro; metafora, anche, dell’anonimità, di cui diremo, espressa nettamente in questo verso di Vite pulviscolari: “materia che dolcemente mi azzera”. Ed è proprio questa stretta adesione alla realtà così com’è ad aprire, spezzate le “forme” limitanti ed escludenti, alla ricchezza e vastità del tutto, all’ariosa e luminosa sospensione: la compattezza si converte in leggerezza, l’obbedienza in libertà. E anche in questa negazione delle forme e dei nomi Cucchi è vicino a Viviani, due intellettuali della stessa generazione, che, per altri versi così distanti, si sono infine ritrovati, nella strenua meditazione sull’esistenza, a convergere su alcuni pensieri di fondo.

Certamente solo un “folle” poteva immaginare e sentire i paradossi di cui ho appena detto (Cucchi parla, vedremo, di “paradosso semplice”), che pare abbiano qualcosa di magico o rimandino a fenomeni propri della religione e che invece sono propri di ogni esperienza vera della realtà. Un folle come l’autore­Ciampa. Nella poesia della prima sezione il cui verso iniziale è “Vor­rei nuotare nel brodo di gallo” e caratterizzata, quasi come in una pazza e allegra ubriacatura, dalla ripetuta anafora del primo verbo, egli esprime infine il desiderio di portare “un berretto/ a sonagli”. Qualche verso prima l’io par­lante aveva detto (ritorneremo su questa espressione) di voler indossare una “maschera bianca”.

Sospeso in aria, libero, il poeta può ora godersi, nel disseppellimento del mondo sotterraneo, “frammenti… spezzoni/ trailer di un vecchio film”: quello di Nel cortile delle giovani mamme, seconda sezione del libro. La memoria, che nella prima parte era detta simile a una “cantina”, con muri marci e umidi, e che contiene, come è detto ora, “gli insetti/ enormi del su­dore notturno” (p. 26), si anima invece di nomi, di vita, degli eroi popolari così cari a Cucchi, di felici ritratti, come quelli di Costante Regazzoni, del dottor Markstahler, di Monsieur Opale, figure quasi più di sogno che reali. Il fatto è che nello scavo, nel dissotterramento, è stato raggiunto il livello del mondo “poroso” di Cucchi bambino, la vita autentica dell’immediato

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dopoguerra, quella degli uomini che possono dire “io” senza vergogna, per­ché partecipi “dell’umiltà dei secoli” (p. 62), liberi dal distruttivo orgoglio dei personaggi “in divisa”, orrida maschera di un “nulla velleitario”, “vacuo sfacelo infagottato”, come il poeta potentemente scrive nell’ultima sezione. Un mondo, quello di ieri, così diverso dall’odierno, preoccupato solo di “nascondere l’usura,/ la sua traccia” (p. 30), il nostro essere “finiti nella finitudine”, come Cucchi scrive nella prosa della terza sezione; di nascon­dere, insomma, la nostra mortalità, e l’impotenza a superarla. Scavo, quello di Malaspina, che dunque non è dettato dal rimpianto di un mondo perduto, a cui tuttavia va la viva simpatia del poeta, ma da un proposito conoscitivo ed etico. La memoria in sé è priva di valore, è “tutta/ caverne e trappole”, come aveva scritto Cucchi in Vite pulviscolari. Essa importa solo in quanto mezzo per un fine. E ciò che la memoria porta ora alla luce dà luogo alla sezione più narrativa e più tenera, con versi di singolare incanto, come nella quartina iniziale della poesia eponima della sezione, o di viva trepidazione, come questi dedicati a uno degli umili di cui è ricca la produzione di Cuc­chi e in cui più è palese il magistero dei grandi lombardi Manzoni e Porta: “povera diavola nei suoi pidocchi,/ povera Angiolina sdraiata sui lastroni”. Il fatto è che Cucchi è un poeta che fra parola e cosa, significante e signifi­cato, pone sempre una distanza: ciò che talvolta può dare l’impressione di impassibilità e freddezza, ma che infine si rivela essere la giusta distanza; indice, certamente, di un atteggiamento difensivo di fronte a drammi perso­nali e comuni, ma che in positivo significa volontà di chiarezza e fermezza, esigenza di dignità. Versi, quelli che ho citato (ma non sono i soli) che mo­strano un raro coinvolgimento emotivo del poeta. Non ci si inganni, infatti, quando Cucchi dice “mi godo” o “mi piace”. Dire di godere non è godere: la parola viene dopo, quando si è insinuata “l’ombra/ di un già avvenuto distacco”, come il poeta scrive in una poesia della penultima sezione, il cui primo verso è “Tracce sensibili sparse”. Diverso è il caso di Malaspina, il laghetto alle porte di Milano, evocato nella poesia di pagina 27, che inizia con “Ma che cos’è Malaspina? Una voce,/ una strana parola…”. “Voce”, “strana” ci avvertono che Malaspina è un simbolo, un segno in cui il parti­colare, in modo immediato e parlante, rappresenta l’universale. Nel simbolo cade la distanza fra significante e significato, fra io e mondo: la totalità è presenza vivente, il finito ospita l’infinito. Altri eloquenti simboli del libro sono, ad esempio, il vulcano e il viaggio: “maschere bianche”, per usare l’espressione già vista; maschere, cioè, nelle quali traspare la luce di una realtà che ha i tratti di un insolubile enigma. Edipo che sconfigge la sfinge è sconfitto da una realtà sfingea. Per questo, Cucchi, proprio in una sezione

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così felice, su cui si stende una luce delicata e affettuosa, può parlare di “de­stino”. Il suo destino. Più volte il poeta, che si rappresenta come bambino assente, taciturno, asociale, ripete “non capivo”. “Ancora/ io non capivo”, dice anche. Ma forse ora potrebbe dire: “Ancora/ io non capisco”. Il destino non si svela mai completamente, del film della vita possiamo avere solo il “trailer”. E solo per questo – ed è ciò che importa – possiamo goderne. Pretendere di possedere l’intera sequenza significa volerla costringere in una forma, darne una definizione che poi è solo illusione di vincere l’an­sia (“l’ansia inutile di nominazione”), illusione di crederci “padroni della nostra sorte” (p. 52). Ancor peggio, significa presumere di esercitare sulla realtà un dominio che il poeta qualifica come “patetico” (p. 57). La realtà, infinitamente più potente delle forze dell’uomo, infine si rivolta contro i sedicenti dominatori, travolgendoli, come vedremo meglio parlando della sezione conclusiva. L’ansia deve essere accolta come componente inelimi­nabile, e positiva, della vita: le rassicurazioni sono ingannevoli e fallaci, l’ingannatore è ingannato. Acutamente il poeta parla di “ansia serena” (p. 43). È l’ansia di chi è capace di accogliere le cose così come sono, di chi sa porsi di fronte ad esse in un atteggiamento ricettivo. Scrive infatti Cucchi: “in pace mi godo o subisco spezzoni” del trailer. Non si tratta, cioè, di an­dare verso il mondo, ma di lasciare che il mondo venga verso di noi nella sua non sempre amena verità. Di nuovo: non agire, sentirsi in relazione col tutto, abbandonare il nostro ego e la sua maschera ipocrita. Non a caso la quarta sezione del libro è intitolata Abbandoni.

La terza, come ho già detto, ha l’eloquente titolo – quasi futurista, se si astragga dall’ultimo elemento – Macchine movimento terra. Ma la parola fi­nale della triade ci dice che il futurismo è lontanissimo. Il movimento è infatti verso la terra, verso la materia, verso il sì al “paradosso semplice del mon­do”, come il poeta scrive nella prima poesia della sezione (p. 47). L’ultima comincia con “Lezioni d’abisso”: è, di nuovo, il tema della vita come scuola, il tema della necessaria saggezza. Il “paradosso semplice” consiste nel fatto che la discesa al centro della terra, dove alberga il “fenotipo/ indefinibile e cieco”, “lo speleotipo onirico”, sfocia, come abbiamo già visto, nel “presente sospeso”, con la sua luce, con la sua pace, con la sua armonia. Coincidentia oppositorum, come in ogni percorso mistico. La “benna”, che in una Mila­no il cui volto “laccato” è lacerato e sconvolto, dissotterra “grumi di fango e vermi”, disseppellisce anche il “mondo… poroso… permeabilissimo” che abbiamo gustato nella sezione precedente, di cui qui ritornano alcuni temi, come quello dei bambini; e fra di essi, naturalmente, un bambino speciale, il poeta. Che ora, adulto, può dire “mi piace” (la mala spina della vita ha subito

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una positiva metamorfosi, il laghetto è “ibernato”). E può dirlo perché ora ha compreso – come è scritto nella prosa, forse la più bella del libro – che il mon­do non “possiamo saperlo, o capirlo. Però, possiamo sentirlo, sentirlo…”. Si noti la ripetizione enfatica dell’ultima parola. Il sentire è superiore al capire; o meglio, è un capire diverso, esperienziale anziché logico, come la più av­vertita filosofia del secolo scorso ha messo in luce e come oggi conferma la neuroscienza. Un capire che, nella distanza, non infrange l’unità. È la giusta distanza di cui ho detto sopra, ma che in questo caso ha un significato più conoscitivo che etico.

Sentire, dunque. Che nella sezione successiva si precisa come sentire dell’uomo­animale, semplice esemplare della specie, “nobilmente anonimo”. È la sezione più tipicamente antropologica. Prima di parlarne più diffusamen­te, vorrei mettere in luce due elementi. Il primo consiste nella presenza, in paradossale contrasto col titolo della sezione, di due poesie in stile nominale. Nella prima (“In piazza sant’Ambrogio, verde”) la scavatrice, assimilata a un mostro preistorico, sembra fissata in una realtà senza tempo; la seconda, felicissima, (“L’aria dintorno, chissà come”) non ha nulla di macchina, di mo­vimento verso il basso e di terra, ma, al contrario, è aerea e sospesa, librata nel senza tempo, nel “presente assoluto”. Il secondo elemento è che la poesia sul viaggio al centro della terra si conclude con un’uscita degli esploratori “da un cratere a Stromboli/ o forse proprio fino all’Etna” (p. 58). Ogni vulcano, vale a dire, è legato all’altro in una ramificazione sotterranea della terra-vulcano. Da notarsi è che lo Stromboli viene immediatamente collegato all’Etna, che anzi appare come l’uscita principale (“o forse proprio all’Etna”). Siamo quin­di in Sicilia. Ma la Sicilia, qui, non tanto di Pirandello, quanto del nonno del poeta, militare di carriera, che nell’ultima parte del libro diventerà una delle sue maschere: delle centomila maschere. Storia privata e comune, letteratura, antropologia, destino, e altro ancora, si intrecciano in Malaspina in modo inestricabile.

Ci inoltriamo così nella quarta sezione, dove non muta il passo con cui il poeta procede nel suo cammino in giù “a vite, come nel legno, piano piano e paziente” (prosa di pagina 62); passo che va, per usare una terminologia musicale, da un “andante” a un “andante con moto”, e che diventa “allegret­to” nelle prose, articolate in modo tale (specialmente la prima ed eccettuato la penultima) da evocare le strofe e quindi la poesia. Non cambia nemmeno la sintassi, il suo grado quasi zero, che non è antiretorica ma l’unica retorica in grado di aderire fedelmente alla verità del mondo, senza sovrapposizioni intellettualistiche o annacquamenti sentimentali. Illusione, quella di Cucchi, di uno sguardo neutro? Piuttosto, desiderio che siano le cose stesse a parla­

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re. Il “destino” degli occhi, come il poeta scrive nell’importante prosa della terza sezione, scandita in tre parti, non è quello di rivolgersi all’interno, per essere divorati da un “io… come dire… estremo, enorme, divorante”, ma di rivolgersi “fuori”, con “naturalezza semplice” (p. 55). Viene così sperimen­tata l’attrazione “magnetica del cosmo”, nella sua inconfutabile presenza e consistenza. È dunque il mondo a costituire il centro della realtà, non l’io; al quale si richiede, come ho già detto, solo un atteggiamento ricettivo, condicio sine qua non perché sia istituita la vivente “religio” con le molteplici presenze del “fuori”. Atteggiamento che nella natura ha il suo esemplare negli anima­li. L’uomo si umanizza retrocedendo verso la loro condizione, ospitandola fedelmente in lui: lui che pure non può essere equiparato ad essi. “Noi sia­mo solo/ una varietà evoluta di scimmie”, scrive Cucchi citando l’astrofisico Stephen Hawking, l’autore del noto Dal big bang ai buchi neri; con la preci­sazione che siamo scimmie “molto speciali”. Ma ora a importare non è tanto la distinzione quanto la comunanza con “la scimmia intelligente”. “Io stesso, infine, altro non sono/ che un comune esemplare,/ appartenente a un gruppo,/ a una tipologia scontata,/ come milioni”, scrive Cucchi in una poesia (p. 17) della prima sezione. E nella breve prosa della parte in cui ora ci troviamo, e che precede, quasi come un’introduzione, la poesia, Cucchi, mescolando abilmente un termine come “alchimia” con altri tratti dal linguaggio infor­matico, scrive che “io stesso [sono] l’esito di un’alchimia infinita e di infinite sequenze di informazioni secolari”. Eccoci qui a uno dei nodi concettuali di Malaspina, che sarà ulteriormente approfondito parlando della sezione con­clusiva: solo l’essere umano anonimo è autorizzato a dire “io”, e può dirlo senza pericolo; solo lui può godere di “momenti di serenità contemplativa” (p. 65), specchiandosi, libero, in “micromondi in abbandono/ senza presenza umana”, caratterizzati da un “disordine pacifico, ordinario” (p. 66). Il disordi­ne è più umano dell’ordine, il trailer è più piacevole del film intero.

Film che, al contrario, intende realizzare fino all’ultimo fotogramma il Console o Capitano che dà il titolo all’ultima sezione, quella metaforicamen­te più densa, dove la metamorfosi delle maschere è più evidente, i sosia si moltiplicano, le congiunzioni “e” ed “o” sono intercambiabili. Ora sono le maschere stesse a parlare, a raccontare l’errore di aver indossato una divisa, a dire la loro sconfitta. La catabasi, il rovistare nella terra “ben oltre il laghetto Malaspina”, tocca qui gli strati più dolorosi della storia di Cucchi, dove si intrecciano biografia e letteratura, grande storia e miseria quotidiana. “Ed è così/ che sono scivolato in lui”, dice l’io parlante, riferendosi a un “capitano” che forse è il nonno del poeta, che è anche il Console e le altre maschere in cui Cucchi, perdendosi, ha trovato sé stesso. Uno, nessuno, centomila, per

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riprendere un paradigmatico titolo di Pirandello, autore che ora va portato in primo piano, dopo quanto è stato detto a proposito della prima sezione, di cui l’ultima è lo specchio, in una ringkomposition che svela il proposito poematico dell’autore. Colui che è centomila è anche nessuno. Ma solo chi è nessuno – ecco il paradosso – è uno. Solo lui, come ho già detto, ha il diritto di dire “io” e di parlare “in prima persona”. Solo l’anonimo ha diritto a un nome. E l’anonimità in questa sezione fa un passo ulteriore – e quello finale – rispetto a quella animale. Ora ci troviamo di fronte alla radicale negazione non solo dell’ego, la ridicola maschera che parla ne “l’uomo ridotto in socie­tà” (p. 76), ma del principio stesso di individuazione. Prima però è necessario notare che nella critica dell’uomo ridotto in società Cucchi accoglie la lezione di Rousseau e della sua celebrazione dello “stato di natura”, cioè di una con­dizione che trascenda ogni determinazione storica, ogni particolarismo socia­le e porti alla luce il nucleo universale e immodificabile dell’essere umano. Solo l’uomo naturale è vero uomo, privo com’è delle maschere impostegli dal “gioco delle parti” di pirandelliana memoria. Ma come ho detto, in Console o capitano si va al di là anche dell’anonimato animale. Rousseau non basta più, si apre invece una prospettiva non lontana da Lucrezio. Lo vediamo nella poesia che inizia “Malaspina, sì… ma niente a che vedere” (p. 82), dove l’io parlante progetta la cremazione del proprio cadavere, cosicché, dice, “rimar­rò/ in scaglie poi tritate, sminuzzate/ in polvere”. L’uomo ridotto in polvere. La polvere, ecco la nostra vera identità, la nostra natura: il “nessuno” totale e insuperabile, che può sfociare o nel nichilismo o, come in Cucchi, nella risalita verso la luce di un io finalmente pacificato, in armonia con sé stesso e col tutto. Polvere che non è il pulviscolo delle vite prese nel vortice del Ma­elström, ma la polvere “sospesa” nell’aria luminosa e senza vento. “Potessi darmi un valore/ che non fosse pulviscolare”, aveva scritto il poeta nel libro precedente. In Malaspina sembra che quel valore sia stato trovato.

Essere nessuno. Chi, al contrario, vuol essere qualcuno, finisce per di­ventare un “nulla velleitario” (p.77), un “vacuo sfacelo infagottato”. È il destino dell’“osceno” Guido Keller, fascista della prima ora, un altro degli uomini chiusi nella loro “divisa ripugnante” (p. 81), che hanno preteso di imprigionare il mondo nel loro ordine e che, in una inevitabile eterogenesi dei fini, rovinano in un “sordido abisso quotidiano”, come Cucchi scrive nella prosa della sezione. Sono inghiottiti dal vulcano­mondo, nell’apoca­lisse dell’ultima poesia. Non più la libera discesa di Lidenbrock, ma il pre­cipizio nel magma incandescente. Qui l’autore riprende quasi alla lettera il finale del romanzo Sotto il vulcano, capolavoro di Malcom Lowry, inseren­dovi però, come ho detto all’inizio, parole provenienti da un altro testo, in

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un raffinato gioco intertestuale. Perciò è difficile non apprezzare il notevole risultato di un libro che, così densamente metaletterario, gode tuttavia di un tocco tanto smorzato, di una tale “naturalezza semplice”. Ma ecco i versi finali di Malaspina:

E a questo punto qualcunocon un’enorme risata oscena,gli tirò dietro, giù in fondo al burrone,un cane morto.

Sono, praticamente, le parole di Lowry. Ma al terribile gesto di dispre­gio Cucchi aggiunge, rendendo la situazione ancor più infernale, la “enorme risata oscena”, che invano si cercherebbe nell’autore inglese. Essa invece proviene, seppur leggermente modificata, da Il berretto a sonagli. Preci­samente fa parte della didascalia con la quale si chiude il dramma. Fine e inizio di Malaspina si congiungono e compenetrano, i tempi si rispecchia­no e intrecciano, lievitando, nell’accettazione del nostro destino, nel senza tempo della libertà, nella quale – conviene ricordarlo – si insinua sempre “l’ombra” del distacco, sia storico che metastorico, dal mondo “poroso”. Una libertà, dunque, che non può tradursi in una condanna assoluta delle maschere, seppure “oscene”. La ferita del distacco duole in ogni uomo, ognuno di noi ospita il console, il capitano, Keller ecc. Sé come un altro, secondo un efficace titolo di Paul Ricoeur. Il giudizio storico e morale av­viene sempre all’interno di una storia, nel riconoscimento di un “destino”, di un enigma che ospitiamo. E riprendendo Lowry, nella poesia finale Cuc­chi scrive che mentre il Console Firmin cadeva, gli alberi si avvicinavano per stringerlo, “chinati su di lui, pietosi”, con un’immagine che già forse Lowry elaborava a partire dall’Eliot di Mercoledì delle ceneri. Infatti l’io parlante dell’ultima prosa può dire che “contro ogni apparenza, io non ho mai tradito, e ho sempre rispettato il più profondo vincolo di solidarietà”. La realtà è sempre più sfaccettata di quella che si mostra a uno sguardo su­perficiale; luce ed ombra si confondono più di quanto a volte sembra e forse vorremmo. Il riso liberatorio di due donne al funerali di uno degli uomini in divisa (p. 88) ha il contrappunto nella pietà degli alberi. La natura ha due volti: la violenza dell’eruzione, la dolcezza dell’abbraccio. E come quella della natura, la vita degli esseri umani non può essere che ambigua, ma solo a questa condizione libera. Non può essere che “Malaspina”.

sAuro dAMiAni

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Vittorio Sereni, Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo,

Milano, Mondadori, 2013.

Per Vittorio Sereni l’esperienza della poesia è sempre stata accompagnata da un profondo, e quasi necessario, dialogo con la prosa, con quelli che in un titolo memorabile aveva definito gli “immediati dintorni” della scrittura in versi. Nell’anno che celebra il centenario della sua nascita, un volume, curato da Giulia Raboni per la collana Oscar Poesia di Mondadori, riunisce per la prima volta in un libro unico Poesie e prose di Sereni: tutte le raccolte, da Frontiera a Stella variabile, compreso il quaderno di traduzioni Il musicante di Saint-Merry, larghissima parte della produzione narrativa e un’ampia scel­ta delle prose critiche. Si tratta di uno strumento prezioso per ripercorrere uno degli itinerari poetici più alti del secondo Novecento, anche grazie al bellis­simo Ricordo di Vittorio Sereni di Pier Vincenzo Mengaldo ristampato come introduzione, e alle acute e dettagliate Note introduttive della curatrice, che suggeriscono e incoraggiano molte interessanti peregrinazioni dalla scrivania del poeta al tavolo del critico, dal banco di lavoro del traduttore al taccuino dello scrittore in versi affascinato dalla prosa.

La tentazione della prosa è appunto il titolo della seconda sezione del vo­lume (la prima, naturalmente, è occupata dalle Poesie), che raccoglie i pezzi diaristici e memoriali degli Immediati dintorni e quelli più propriamente nar­rativi della Traversata di Milano.1 Ricordi e riflessioni sulla storia si mescola­no, qui, a frammenti di saggi critici e a veri e propri racconti; e accade spesso che la prosa serva a illuminare i lunghi silenzi di Sereni dalla poesia, momenti di blocco per lui dolorosi ma del tutto necessari – come ha chiarito, meglio di ogni altro, Mengaldo – a conferire a ciascuno dei suoi testi quel “carattere inevitabile” e quella “assoluta necessità interiore” che ne fanno uno dei più grandi poeti del secolo appena trascorso. Le Note di Giulia Raboni ricordano come i tentativi narrativi si infittiscano negli anni ’50 e ’60, periodo “della lentissima incubazione degli Strumenti umani” e di “continui approssimativi assestamenti” tra l’“avara vena” della poesia e la tentazione della prosa, alla ricerca di un nuovo equilibro di scrittura infine ritrovato nel capolavoro del ’65.

Poesia e ‘dintorni’ appaiono non di rado – come nota la curatrice – “leg­

1 Le prose di Sereni erano già state pubblicate da Mondadori, con lo stesso titolo, La tentazione della prosa, nel 1998, sempre per le cure di Giulia Raboni.

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gibili in perfetto parallelismo: La cattura con il Diario d’Algeria, L’opzione con Gli strumenti umani, Il sabato tedesco e Ventisei con Stella variabile”, in uno stretto e complesso intreccio, fatto anche di spiazzanti ritorni sugli stessi temi e luoghi, che ogni lettore può tentare di dipanare a suo piacimen­to. Accanto alle poesie del Diario, potrà ad esempio essere interessante ri­leggere le lucidissime riflessioni sulla prigionia affidate alla prosa dell’An-no quarantacinque, fondamentali per comprendere il dramma che segna l’esistenza del poeta, quell’“ora mancata e irrecuperabile” che gli impone un perenne e costante senso di estraneità. “Mai – scrive Sereni ricordando i giorni appena precedenti il rientro in Italia, dopo la Liberazione – eravamo stati prigionieri come in quel momento. Mai ci eravamo tanto infognati nella nostra condizione di vinti come ora che stavamo per uscirne. [...] E intanto loro, quegli altri, quelli di casa, gente che era stata della mia specie, avevano fatto il salto in un’altra specie e sempre, in futuro, qualunque cosa mi fosse toccato di tentare o di fare con loro, sarei stato a chiedermi [...] se prima di tutto quel salto nell’altra specie non dovessi farlo anch’io e quando e in che modo”.

Suggestivo anche tentare di collocare, tra le pagine bianche che separa­no le poesie del Diario da quelle degli Strumenti umani, le acute riflessio­ni contenute nel saggio Il silenzio creativo, pezzo “critico-autobiografico”, che si interroga sulle pause dalla scrittura, sugli “spettri di poesie non scrit­te”, sui frammenti di esistenza dalla cui intensità il poeta si sente sfidato e frustrato al tempo stesso. Sarebbe impossibile rincorrere tutti gli spunti che affiorano dalle oltre milleduecento pagine di questo volume, che nella terza parte, dedicata alle Prose critiche, contiene per intero le Letture preliminari pubblicate da Sereni nel ’73, e una vasta scelta di altri contributi, saggi e letture, raggruppati dalla curatrice sotto il titolo di Poesie come persone, preso ‘in prestito’ da quello di un ciclo di trasmissioni radiofoniche tenuto dal poeta nel ’76. Con il loro ordine rigorosamente cronologico, le Letture, selezionate da Sereni stesso perché rendessero conto (così nella Postilla conclusiva) della “partita di dare e avere” attiva nella sua opera, rappre­sentano secondo Giulia Raboni “la più produttiva e limpida esegesi” alle poesie e alle prose narrative. Anche per le prose che compongono la sezione Poesie come persone – alcune delle quali finora inedite, molte di difficile reperibilità – la curatrice ha tentato di usare lo stesso “principio selettivo”, privilegiando pezzi che offrissero indicazioni utili alla lettura dell’opera di Sereni (unica variazione l’ordine, che non segue più la cronologia interna degli scritti ma quella esterna della storia letteraria, da Petrarca e Ariosto a Loi, Raboni e Lamarque).

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Particolarmente preziosi i saggi sui poeti – precocemente letti e continua­mente interrogati come Montale e Ungaretti, o incontrati nel corpo a corpo della traduzione come Char e Williams – che, assieme ad alcuni pezzi di ca­rattere generale (come Poesia per chi? e Il lavoro del poeta), proseguono e completano il filone di riflessione metapoetica già presente negli Immediati dintorni. Tuttavia, chi cedesse alla tentazione di raccogliere da queste pagine una manciata di aforismi e dichiarazioni sull’arte di scrivere si troverebbe smarrito. Ogni riflessione, ogni risposta a sollecitazioni sulla genesi e sul farsi della poesia appare infatti costantemente attraversata dalla messa in dubbio di qualsiasi principio e poetica a priori; e il lettore viene puntualmente ricon­dotto a quella perenne perplessità sull’esistenza che è una delle caratteristi­che principali della poesia di Sereni: non semplice incertezza, come avverte Giulia Raboni, ma “ricerca di inclusione dei punti di vista degli altri, persone e persino natura e oggetti [...] capaci ciascuno di portare un contributo alla costruzione del reale”.

A conti fatti, il percorso del poeta appare anche e soprattutto la ricerca di un punto dal quale osservare e mettere in versi la realtà e la storia, di un an­golo prospettico mai fissato in maniera definitiva e inequivocabile. Gli stessi eventi dell’esistenza – “ferite, ustioni, graffi” li chiama Sereni in un abbozzo di introduzione agli Strumenti umani, conservato dattiloscritto all’Archivio di Luino e riprodotto integralmente nelle Note introduttive alle Poesie – non sono infatti illuminazioni significanti in sé, ma semplici “materiali da costru­zione” da sottoporre a un lungo e delicato processo di scelta, maturazione e metamorfosi. “Certe volte – scrive il poeta in una prosa del ’66 – la realtà ci offre già pronto ritagliandolo da se stessa, sotto specie di evidenza poetica, un brano di quanto poi ci rimbalzerà da una pagina. Ma è un effetto illusorio: non tanto un brano di realtà ci viene servito bell’e pronto, quanto invece un invito, e magari una sfida, si leva verso di noi, una finestra si apre su cui dovremo affacciarci”. E – avverte Sereni nel già citato Silenzio creativo – occorre rico­minciare sempre, perché quando s’inventa, sia in poesia sia in prosa (poiché “ai vertici [...] si toccano”), non lo si fa mai “una volta per tutte”. L’invenzione “cade di sbieco”; “l’angolo utile, il rapporto illuminante non è mai dato, ma è da trovare”. “Pensandoci bene” – ammette ancora Sereni nel dattiloscritto di Luino – “tutto il mio scrivere versi è un continuo e anche discontinuo lavoro in corso”. Di questo straordinario cantiere il volume mondadoriano offre una splendida testimonianza.

AnnA chellA

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Giuseppe Langella, La bottega dei cammei, Novara, Interlinea, 2013.

Dedicato “Ai nomi parlanti,/ alle muse ignare”, il libro di Langella è un’offi­cina poetica, una bottega/ scrigno che racchiude alcune delle infinite rappre­sentazioni dell’eterno femminino: superando l’impasse che, come nota Segre, vincola la lingua al tempo e l’immagine allo spazio, la scrittura riproduce una visione, una figura che coinvolge presente, passato e futuro.

Come i volti femminili affiorano dagli strati di pietre o di conchiglie, i profili di Langella si delineano in un giro brevissimo di versi e, animandosi, parlano al poeta, al lettore, ai grandi della tradizione e della modernità, pren­dendo parte all’“ininterrotto dialogo” (Eliot) della letteratura.

Un “Foglietto illustrativo” (cfr. pp. 7­12), in prosa, ci introduce nel la­boratorio: sono dichiarati i maestri (da Esiodo a Gautier, da Ovidio a Saba, Penna, Caproni), le tecniche (“poesiole rimate”, in “metri regolari”, ma “estrosamente variati”), il punto di vista (rigorosamente “esterno”, maschi­le); le parole chiave sono l’arte, il mestiere, il segreto e, infine, la pazienza, che riporta alle civiltà del passato, capaci di attendere la maturazione dei frutti, la “composta grazia” di un miracolo che può manifestarsi soltanto al tempo opportuno.

I trentanove profili di donna sono disposti in ordine alfabetico, un “telaio minimo”, sotto il segno di un’inevitabile e saggia rinuncia a un “più filosofico disegno” (cfr. p.11). Le due epigrafi iniziali, da Gozzano (“Donna: mistero senza fine bello!”) e da Giudici (“Beatrice – dal verbo beare/ nome comune singolare”) pongono il libro nel solco della rivisitazione ironica di un tema universale: la stessa lingua, “vicina al doppio canone calviniano della rapidità e della leggerezza”, non si sottrae al quotidiano, al pastiche; nessun anacroni­smo dunque, nessun “gusto rococò” ma una poesia consapevole di appartene­re al secolo “del mascara e dei coiffeurs” (p. 8), eppure ancora sensibile alla proustiana magia dei nomi. Apre la galleria dei ritratti Angela, la messaggera, introdotta dall’epigrafe dantesca (cfr. p. 13: “e par che sia cosa venuta/ da cielo a terra a miracol mostrare”):

Appari come nave tra i vapori.Voce soave, certo un Dio ti manda.E quando voli via, di lavandalasci lieve una scia e di languori.

La quartina di endecasillabi, in corsivo, ha valore programmatico: la mo­derna Beatrice è certamente messaggera di Dio, ma il suo apparire non è il

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sicuro manifestarsi della donna stilnovistica, ma l’intermittente baluginare della salvezza, il varco montaliano che si perde nella nebbia.

Nell’explicit, la donna ha la voce e il profumo dei fiori e ricorda l’incom­prensibile e struggente moto della natura nella poesia di Foscolo; la rivisita­zione dantesca passa anche attraverso la dolcezza “soave” di Alla sera (“[...] E quando ti corteggian liete/ le nubi estive e i zeffiri sereni”) e dei Sepolcri (“mille di fiori al ciel mandano incensi”): il cammeo emerge dagli strati della conchiglia/tradizione e ne conserva la memoria.

La donna è ambigua messaggera celeste o figura antagonista, dannunziana virago (cfr. Lucrezia, con epigrafe da Italo Svevo):

Non dai niente per niente,ti fai coprire d’ori,famelica divorifortune avidamente. (p. 35)

Il nome Lucrezia rimanda a donne famose (la virtuosa moglie di Colla­tino, la saggia protagonista della Mandragola di Machiavelli) e famigerate (Lucrezia Borgia); l’etimologia popolare lo ricollega a “lucrum” e l’avidità è appunto il demone femminile che la quartina imprigiona: il punto di vista, sempre maschile, ironicamente si rivela nelle parole di Svevo (“Studiava con serenità [...] fino a che punto mi sarei lasciato saccheggiare.”).

Il nome è il destino; così Raffaella è l’infermiera, colei che risana (cfr. p. 46) e Laide, la bugiarda ingannatrice:

Ogni volta hai una scusa pronta,inganneresti anche Mefisto,delle bugie cui metti il vistonessuno sa fare la conta.

Sei falsa come Giuda:senz’alcuna vergognati vesti di menzognafingendo d’esser nuda. (p. 33)

Le due quartine sono precedute dall’epigrafe da Dino Buzzati: “C’era molto di inverosimile, in tutte queste storie. [...] Ma lei parlava con una tale sicurezza [...] che era impossibile non crederle”.

La donna è una “creatura straniera”, di un “altro mondo” (cfr. Un amore di Buzzati), un mistero che, nel bene o nel male, si impone con evidenza. Per la cortigiana vestita di menzogna, Langella sceglie il registro comico, così come

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per Megera, la strega nata dal sangue e pronta a consumare delitti o a piantare le unghie in faccia (cfr. epigrafe dai Malavoglia di Verga):

Se uno sbaglia– Dio ne scampi! –,cuor di paglia,già divampi,sol per poco,prendi fuoco. (p. 41)

Dal registro comico si passa all’ironico con Irene, la pace, introdotta dalle disincantate parole di Marino Moretti (“Qui riposa chi vuole, e non esiste gloria”):

Per quieto viverefaresti scriveresulla tua portache sei già morta. (p. 32)

Irene diviene con Serena una figura dell’indifferenza:

Mai una nube contristai tuoi giorni sereni,vivi in pace, turistanel mondo degli alieni. (p. 50)

La straniera è la donna indecifrabile di Buzzati, il mistero che si declina in varie forme, dalla profana Sibilla (p. 51) che, “avara di verbo”, traccia le sue oscure sentenze nell’aria, a Maria, colei che tutto dona, conservando nel cuore il mistero più profondo:

Custodisci ogni evento,il tuo cuore è un sacrario,quel che è stato un momentogiace in te leggendario. (p. 39)

Chiude il libro Zobeide, la calviniana rivisitazione del castello di Atlante, la città del desiderio che dimentica perfino se stesso; costruita nell’attesa di una donna sognata, con le sue vie attorcigliate, Zobeide è trappola che impri­giona e delude, ma non tollera abbandoni: perché un volto femminile appaia tra le sue mura, ci vuole l’arte, e un’infinita pazienza.

silviA MoroTTi

Soglie, anno XV, n. 2 79

Poesie ricevute

Con piacere ritroviamo in questa rubrica una poetessa da tempo nota ai lettori di Soglie, la piemontese Fryda Rota, la cui Ora lunga richiama alla mente quanto del suo stile ebbe a scrivere G. Bufalino: “denso di solidi succhi poe­tici e tramato d’una forte malinconia”.

Furio Allori, anch’egli conosciuto dai nostri lettori, e Stefano Piva – che invece presentiamo per la prima volta, autore di due volumi in versi (Bis e Ter no, 2001; Museo delle sere, 2005) – ci inviano due testi di notevole intensità e arguta ricerca di straniamento.

AlBerTo ArMellin

Ora lunga

“L’amore è castigo” diceva Margueritema è castigo (più piccolo però)stringere il cerchio delle proprie costole.

Al tempo delle corse sapevi come curarele ferite posando sopra ragna lieveche risanava senza alcuno sforzo(valida medicina o fantasia?).

In questo tempo di sosta non hainessuna ferita cui pensare: il maleè al più un’emicrania che viene dall’avercolto troppo sole (e un’ora non è scheggiadi tempo – è invece lunga mentre assottigliacurvo il profilo del futuro).

FrydA roTA – Borgovercelli (VC)

80 Soglie, anno XV, n. 2

Poesie ricevute

Io sono la tensione

della casa del ragnola flessione al contempoche la tessitura comporta

io, l’approssimazionedella materia di scortala precisione al contempodella tela distesa

volutamente arresa nel vuotoperché tutto sembri per niente

così che io sia l’attenzionedella luce distrattala distrazione al contempodella preda che urta

mentre si pente.

sTeFAno pivA – Fontanellato (PR)

Arte

il quadroattorno a mesi appanna di coloresi scioglie

la sculturache mi ospitasi scagliaoltre

la musicache mi contienesoffiando pianofluisce fuori

e mentre mi disegnocon corrose ditapensocosasarò

Furio Allori – Livorno

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Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 2013

SoglieRivista Quadrimestrale di Poesia e Critica Letteraria

[…]

Avanza sulla tua soglia, sotto i convolvoli,Apri la mano dall’incudine verso me.Vieni con me a zoppicare nell’avvenire!

[…]

yves Bonnefoy, L’idea d’un libro, da L’ora presente, traduzione di Fabio Scotto.

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