Riflessioni sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e...

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Riflessioni sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice A proposito di una teoria di Scheltema ALICE CHERCHI Università di Cagliari 1. Lo status quaestionis Alla luce del dettato delle costituzioni Deo auctore 1 e Tanta, 2 la dottrina tende co- munemente 3 a ritenere che Giustiniano, attraverso l’entrata in vigore del Digesto, per- 1 Const. Deo auctore 7: […] cum enim lege antiqua, quae regia nuncupabatur, omne ius omnisque potestas populi Romani in inperatoriam translata sunt potestatem, nos vero sanctionem omnem non dividimus in alias et alias conditorum partes, sed totam nostram esse volumus, quid possit antiquitas nostris legibus abrogare? et in tantum volumus eadem omnia, cum reposita sunt, optinere, ut et si aliter fuerant apud veteres conscripta, in contrarium autem in compositione inveniantur, nullum crimen scripturae imputetur, sed nostrae electioni hoc adscribatur. 2 Const. Tanta 10: […] hoc pro aliis omnibus positum est unaque omnibus auctoritate indulta, ut quidquid ibi scriptum est, hoc nostrum appareat et ex nostra voluntate compositum: nemine audente comparare ea quae antiquitas habebat et quae nostra auctoritas introduxit, quia multa et maxima sunt, quae propter utilitatem rerum transformata sunt. adeo ut et si principalis constitutio fuerat in veteribus libris relata, neque ei pepercimus, sed et hoc corrigendum esse putavimus et in melius restaurandum nominibus etenim veteribus relictis, quidquid legum veritati decorum et necessarium fuerat, hoc nostris emen- dationibus servavimus. et propter hanc causam et si quid inter eos dubitabatur, hoc iam in tutissimam pervenit quietem, nullo titubante relicto. Const. Tanta 20a: Legislatores autem vel commentatores eos elegimus, qui digni tanto opere fuerant et quos et anteriores piissimi principes admittere non sunt indignati, omnibus uno dignitatis apice inpertito nec sibi quodam aliquam praerogativam vindicante. cum enim constitutionum vicem et has leges optinere censuimus quasi ex nobis promul- gatas, quid amplius aut minus in quibusdam esse intellegatur, cum una dignitas, una potestas omnibus est indulta? 3 Sul punto, oltre alla bibliografia che verrà citata in occasione dell’esame delle singole fonti, cfr. F. PRINGSHEIM, Die archaistische Tendenz Justinians, in Studi in onore di P. Bonfante I, Milano 1930, 551 ss. (poi in Gesammelte Ab- handlungen II, Heidelberg 1961, 9 ss.); ID., The Character of Justinian’s Legislation, in LQR 56 (1940) 229 ss. (poi in Gesammelte Abhandlungen cit., 73 ss.), il quale ha illustrato le incertezze che hanno caratterizzato l’elaborazione della dottrina più datata in ordine al valore normativo o culturale del Digesto. Tali incertezze sembrano essere state supera- te dalla dottrina successiva che, presupponendo il valore normativo del Digesto, appare ormai in linea di massima con- corde nel ritenere che la raccolta di iura ricevette l’autorità di legge di una costituzione imperiale; in questo senso, G.G. ARCHI, Il problema delle fonti del diritto nel sistema romano del IV e V secolo, in Giustiniano legislatore, Bologna 1970, 11 ss. (poi in Studi in onore di G. Grosso IV, Torino 1971, 1 ss. ed in Studi sulle fonti del diritto nel tardo impe- ro romano – Teodosio II e Giustiniano, Cagliari 1990 2 , 3 ss.); ID., Il classicismo di Giustiniano, in Giustiniano legislato- re cit., 172 ss.; ID., Le codificazioni postclassiche, in M. SARGENTI - G. LURASCHI (a c. di), La certezza del diritto nel- l’esperienza giuridica romana. Atti del Convegno Pavia 26-27 Aprile 1985, Padova 1987, 163 ss.; ID., La certezza del diritto nella esperienza giuridica romana: le compilazioni postclassiche, in Estudios en homenaje al prof. J. Iglesias I, Madrid 1988, 65 ss.; M. BIANCHINI, Osservazioni minime sulle costituzioni introduttive alla compilazione giustinianea, in Studi

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Riflessioni sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice

A proposito di una teoria di Scheltema

ALICE CHERCHIUniversità di Cagliari

1. Lo status quaestionisAlla luce del dettato delle costituzioni Deo auctore 1 e Tanta,2 la dottrina tende co-

munemente3 a ritenere che Giustiniano, attraverso l’entrata in vigore del Digesto, per-

1 Const. Deo auctore 7: […] cum enim lege antiqua, quae regia nuncupabatur, omne ius omnisque potestas populi Romaniin inperatoriam translata sunt potestatem, nos vero sanctionem omnem non dividimus in alias et alias conditorum partes,sed totam nostram esse volumus, quid possit antiquitas nostris legibus abrogare? et in tantum volumus eadem omnia, cumreposita sunt, optinere, ut et si aliter fuerant apud veteres conscripta, in contrarium autem in compositione inveniantur,nullum crimen scripturae imputetur, sed nostrae electioni hoc adscribatur.2 Const. Tanta 10: […] hoc pro aliis omnibus positum est unaque omnibus auctoritate indulta, ut quidquid ibi scriptumest, hoc nostrum appareat et ex nostra voluntate compositum: nemine audente comparare ea quae antiquitas habebat et quaenostra auctoritas introduxit, quia multa et maxima sunt, quae propter utilitatem rerum transformata sunt. adeo ut et siprincipalis constitutio fuerat in veteribus libris relata, neque ei pepercimus, sed et hoc corrigendum esse putavimus et in meliusrestaurandum nominibus etenim veteribus relictis, quidquid legum veritati decorum et necessarium fuerat, hoc nostris emen-dationibus servavimus. et propter hanc causam et si quid inter eos dubitabatur, hoc iam in tutissimam pervenit quietem,nullo titubante relicto. Const. Tanta 20a: Legislatores autem vel commentatores eos elegimus, qui digni tanto opere fuerantet quos et anteriores piissimi principes admittere non sunt indignati, omnibus uno dignitatis apice inpertito nec sibi quodamaliquam praerogativam vindicante. cum enim constitutionum vicem et has leges optinere censuimus quasi ex nobis promul-gatas, quid amplius aut minus in quibusdam esse intellegatur, cum una dignitas, una potestas omnibus est indulta?3 Sul punto, oltre alla bibliografia che verrà citata in occasione dell’esame delle singole fonti, cfr. F. PRINGSHEIM, Diearchaistische Tendenz Justinians, in Studi in onore di P. Bonfante I, Milano 1930, 551 ss. (poi in Gesammelte Ab-handlungen II, Heidelberg 1961, 9 ss.); ID., The Character of Justinian’s Legislation, in LQR 56 (1940) 229 ss. (poi inGesammelte Abhandlungen cit., 73 ss.), il quale ha illustrato le incertezze che hanno caratterizzato l’elaborazione delladottrina più datata in ordine al valore normativo o culturale del Digesto. Tali incertezze sembrano essere state supera-te dalla dottrina successiva che, presupponendo il valore normativo del Digesto, appare ormai in linea di massima con-corde nel ritenere che la raccolta di iura ricevette l’autorità di legge di una costituzione imperiale; in questo senso,G.G. ARCHI, Il problema delle fonti del diritto nel sistema romano del IV e V secolo, in Giustiniano legislatore, Bologna1970, 11 ss. (poi in Studi in onore di G. Grosso IV, Torino 1971, 1 ss. ed in Studi sulle fonti del diritto nel tardo impe-ro romano – Teodosio II e Giustiniano, Cagliari 19902, 3 ss.); ID., Il classicismo di Giustiniano, in Giustiniano legislato-re cit., 172 ss.; ID., Le codificazioni postclassiche, in M. SARGENTI - G. LURASCHI (a c. di), La certezza del diritto nel-l’esperienza giuridica romana. Atti del Convegno Pavia 26-27 Aprile 1985, Padova 1987, 163 ss.; ID., La certezza deldiritto nella esperienza giuridica romana: le compilazioni postclassiche, in Estudios en homenaje al prof. J. Iglesias I, Madrid1988, 65 ss.; M. BIANCHINI, Osservazioni minime sulle costituzioni introduttive alla compilazione giustinianea, in Studi

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seguì la finalità di abolire la iurisprudentia veterum come fonte autonoma del diritto evolle conferire all’antologia, nella sua totalità, l’autorità di legge di un’unica costitu-zione imperiale in vigore dal 30 dicembre del 533.

Riguardo al modo in cui queste disposizioni condizionarono le relazioni tra il Di-gesto e le altre parti della Compilazione, un’ipotesi del tutto peculiare in ordine al rap-porto tra Digesto e Codice è stata prospettata da Scheltema,4 il quale ha sostenuto cheil Codice, a differenza del Digesto, non ricevette nuova forza di legge in virtù della pro-mulgazione del Codex repetitae praelectionis nel novembre del 534, ma conservò il«vigueur de loi» che le costituzioni in esso contenute avevano dalla data in cui furonoemanate dai singoli imperatori.5

in memoria di G. Donatuti I, Milano 1973, 121 ss., spec. 130 s. (poi in Temi e tecniche della legislazione tardoimpe-riale, Torino 2008, 100 ss., spec. 109 s.); EAD. (a c. di), Appunti su Giustiniano e la sua compilazione I, Torino 1983,25; R. BONINI, Introduzione allo studio dell’età giustinianea, Bologna 19854, 27 ss. (poi in M. TALAMANCA [a c. di],Lineamenti di storia del diritto romano, Milano 19892, 642 ss.); G.L. FALCHI, Sulla codificazione del diritto romano nelV e VI secolo, Roma 1989, 126 s.; J.H.A. LOKIN, Epilegomena to a Century of Interpolation Criticism, in R. FEENSTRA -A.S. HARTKAMP - J.E SPRUIT - P.J. SIJPESTEIJN - L.C. WINKEL (éd. par), Collatio iuris romani. Études dédiées à H.Ankum à l’occasion de son 65e anniversaire I, Amsterdam 1995, 261 ss., spec. 263 s.; M. CAMPOLUNGHI, Il passato nellecostituzioni programmatiche di Giustiniano, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. X Convegno Inter-nazionale in onore di A. Biscardi, Napoli 1995, 697 ss.; EAD., Potere imperiale e giurisprudenza II/1, Perugia 2001, 187ss. Da ultimo, nell’ambito di un’analisi dal taglio più ampio sui problemi connessi all’entrata in vigore delle diverseparti della Compilazione, L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di unanuova storia, Roma 2007, 440 ss., alle cui ulteriori indicazioni bibliografiche mi permetto di rimandare.4 H.J. SCHELTEMA, Subseciva III. Die Verweisungen bei den frühbyzantinischen Rechtsgelehrten, in TR 30 (1962) 357(poi in Opera minora ad iuris historiam pertinentia, Groningue 2004, 118); ID., Subseciva XVI. L’autorité des Institutes,du Digeste et du Code Justinien, in RIDA 13 (1966) 344 ss. (poi in Opera cit., 151 ss.); ID., L’enseignement de droit desantécesseurs, Leiden 1970, 28 s. (poi in Opera cit., 78 s.).5 Ad avviso di SCHELTEMA, Subseciva XVI cit. (nt. 4), 151; ID., L’enseignement cit. (nt. 4), 78 s., ciò si potrebbe dedurreanche da alcuni passaggi di Const. Deo auctore 9 ([…] et ea, quae sacratissimis constitutionibus quas in codicem nostrumredegimus cauta sunt, iterum poni ex vetere iure non concedimus, cum divalium constitutionum sanctio sufficit ad eorum auc-toritatem […]) e Const. Tanta 14 (Similique modo si quid principalibus constitutionibus cautum est, hoc in digestorum volu-mine poni nullo concessimus modo, quasi constitutionum recitatione sufficiente […]), mentre il passaggio di Const. Cordi 4([…] iussimus in secundo eum ex integro conscribi non ex priore compositione, sed ex repetita praelectione, et eum nostri numi-nis auctoritate nitentem in omnibus iudiciis solum, quantum ad divales constitutiones pertinet, frequentari […]), che indur-rebbe a ritenere il contrario, sarebbe stato edito in maniera errata da Krüger, riportando numinis in luogo dell’originarionominis. Questa ipotesi è stata condivisa da J.H.A. LOKIN, Theophilus Antecessor, in TR 44 (1976) 339 ss. (poi in AnalectaGroningana ad ius graeco-romanum pertinentia, Groningen 2010, 91 ss.); ID., Epilegomena cit. (nt. 3), 268; N. VAN DER

WAL, Die Textfassung der spätrömischen Kaisergesetze in den Codices, in BIDR 83 (1980) 24 ss.; N. VAN DER WAL - J.H.A.LOKIN, Historiae iuris graeco-romani delineatio. Les sources du droit byzantin de 300 à 1453, Groningen 1985, 35 s. e 42;J.H.A. LOKIN - T.E. VAN BOCHOVE, Compilazione – educazione – purificazione. Dalla legislazione di Giustiniano aiBasilica cum scholiis, in J.H.A. LOKIN - B.H. STOLTE (a c. di), Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici,Pavia 2011, 115 s., mentre G. FALCONE, Premessa per uno studio sulla produzione didattica degli antecessores, in LOKIN-STOLTE, Introduzione cit., 155 nt. 29, ha sottolineato la necessità di «rimeditare su questa diagnosi».

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Ciò troverebbe conferma, ad avviso dell’illustre studioso olandese, in numerosi sco-lii dell’antecessor Stefano, che, citando il Codice,6 diversamente dal Digesto,7 median-te l’utilizzo della forma verbale ajnhvnektai,8 avrebbe inteso fare riferimento alle singo-le costituzioni piuttosto che al Codice nel suo complesso.9

Da tale premessa lo studioso ha inoltre dedotto che, dal momento che l’emanazio-ne del Digesto fu successiva a quella della maggior parte delle costituzioni del Codice,le soluzioni dei giuristi classici ivi riportate avrebbero prevalso sulle statuizioni dellecostituzioni del Codice anteriori al dicembre del 533 sulla base della regola lex poste-rior derogat legi priori.10 Ragionando in quest’ordine di idee, si dovrebbe allora credere

6 A titolo di esempio del frequente utilizzo di questa modalità di citazione, cfr. sch. 2 ad Bas. 8.2.70 (SCHELTEMA,B I, 139); sch. 2 ad Bas. 13.2.11 (SCHELTEMA, B II, 654); sch. 2 ad Bas. 15.1.9 (SCHELTEMA, B III, 846); sch. 7 adBas. 15.2.12 (SCHELTEMA, B III, 901); sch. 9 ad Bas. 18.7.7 (SCHELTEMA, B III, 1159); sch. 11 ad Bas. 23.1.2(SCHELTEMA, B IV, 1498); sch. 42 ad Bas. 23.1.9 (SCHELTEMA, B IV, 1517); sch. 2 ad Bas. 29.1.40 (SCHELTEMA, BV, 2026).7 Al riguardo, si può rammentare che Stefano faceva spesso riferimento ai frammenti del Digesto precisando ancheil nome del giurista dalla cui opera il frammento era escerpito, come in sch. 1 ad Bas. 14.1.28 (SCHELTEMA, B II,758); sch. 6 ad Bas. 15.2.9 (SCHELTEMA, B III, 896) e sch. 13 ad Bas. 23.1.19 (SCHELTEMA, B IV, 1544). Questamodalità di citazione aveva già indotto C. FERRINI, Intorno all’indice dei Digesti di Stefano (nota preliminare), in BIDR3 (1890) 61 s. (poi in Opere I, Milano 1929, 297 s.), a sostenere che l’antecessor, durante le lezioni, dopo avere for-nito all’uditorio la traduzione in greco dei frammenti, esponesse una serie di riflessioni personali che rendevanoopportuno specificare in che misura il ragionamento proposto derivava dalla sua elaborazione ed in che misura erariconducibile, invece, alle parole del giurista classico citato.8 Si tratta di una forma volgare del perfetto di ajnafevrein, corrispondente al verbo latino referre. Questa peculiarità,oltre ad essere stata evidenziata già da C.W.E. HEIMBACH, Prolegomena et Manuale Basilicorum, Lipsiae 1870, 50 edallo stesso H.J. SCHELTEMA, Über die Werke des Stephanus, in TR 26 (1958) 13 (poi in Opera cit. [nt. 4], 337), èstata di recente sottolineata da H. DE JONG, Stephanus en Zijn Digestenonderwijs, Den Haag 2008, 151 ss., spec. 161,la cui ricerca ha contribuito significativamente a tratteggiare un quadro il più possibile preciso del metodo di inse-gnamento di Stefano.9 SCHELTEMA, Subseciva XVI cit. (nt. 4), 151; ID., L’enseignement cit. (nt. 4), 78 s.10 L’opinione di Scheltema, se portata alle estreme conseguenze, condurrebbe a considerare ammissibile, ad esempio,che su una statuizione emanata da Giustiniano durante gli anni della Compilazione, ma prima della fine del 533d.C., e riportata nel Codice, dovesse prevalere il tenore di un frammento del Digesto che non era stato ad essa coor-dinato a causa di una ‘svista’ dei compilatori. Sul punto si tornerà infra, in occasione dell’esame dell’approccio inter-pretativo di Stefano rispetto al contenuto di Iust. C. 3.33.17 del 531 d.C. e Ulp. 17 ad Sab. D. 7.4.5.1. L’accettazionedi questa ipotesi avrebbe importanti conseguenze anche sulle complesse problematiche relative al rapporto tra Codicee Novelle, in ordine alle quali si sono espressi, tra gli altri, E. VOLTERRA, Il problema del testo della costituzioni impe-riali, in La critica del testo. Atti del II Congresso della Società Italiana di Storia del diritto II, Firenze 1971, 1081 ss.;G.G. ARCHI, La legislazione di Giustiniano e un nuovo vocabolario delle costituzioni di questo imperatore, in SDHI 42(1976) 1 ss. (poi in Scritti di diritto romano I, Milano 1981, 1943 ss.); ID., La legislazione giustinianea opera di cul-tura o creazione giuridica? (A proposito di G. Lanata, Legislazione e natura delle Novelle di Giustiniano), in SDHI 51(1985) 423 ss. (poi in ID., Studi sulle fonti cit. [nt. 3], 385 ss.); G. LANATA, Legislazione e natura delle Novelle giusti-nianee, Napoli 1984, 56 ss.; R. BONINI, Ricerche di diritto giustinianeo, Milano 19902, 257 ss.; F. SITZIA, Novella 19:

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che Stefano avesse presupposto la prevalenza del contenuto dei frammenti del Digestorispetto alle statuizioni del Codice anteriori alla fine del 533 anche nei più rari casi incui le aveva citate senza utilizzare il verbo ajnhvnektai.11

2. Alcuni rilievi preliminari relativi all’uso della forma verbale ajnhvnektaiIn relazione allo specifico significato tecnico attribuito da Scheltema all’utilizzo della

forma verbale ajnhvnektai, sembra opportuno tenere conto sin d’ora dei rilievi della dot-trina più recente12 che, pur senza arrivare a negare che questa forma verbale venissenormalmente utilizzata da Stefano per far rinvio alle costituzioni del Codice,13 ha indi-viduato due scolii in cui lo stesso antecessor parrebbe avere utilizzato ajnhvnektai percitare il Digesto, scolii che potrebbero forse indurre ad escludere l’attendibilità del-l’ipotesi di Scheltema.

Esaminiamo il primo, lo scolio 2 ad Bas. 29.1.51:

}O qevlei eijpei'n tou'to e[stin, o{ti ka]n mhvpw tw'n gavmwn probavntwn oujk ejnavgetai oJ ejpaggeilavmeno"proi'ka, ejpeidh; dokei' uJpo; ai{resin ejpaggeivlasqai th;n eja;n probw'sin oiJ gavmoi, oJmw'" eja;n dw/'ejgguhthvn, katevcetai oJ ejgguhthv", dhlonovti probainovntwn tw'n gavmwn, ejpeidh; kai; ejpi; mellouvsh/ejnoch/' kalw'~ divdotai oJ ejgguhthv~, wJ" e[gnw" ejn th/'/ bæ. (3) tw'n jInstit., wJ~ ajnhvnektai bib. m"æ. tw'nDig. tit. aæ. dig. dæ […].14

fra problemi di tecnica legislativa e cavilli della prassi, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età roma-na alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. F. Gallo II, Napoli 1997, 319 ss. 11 Come osservato dalla DE JONG, Stephanus cit. (nt. 8), 161, vi sono degli scolii di Stefano, seppur di numero mino-re, in cui le costituzioni del Codex risultano citate senza l’utilizzo di ajnhvnektai. Al riguardo, si vedano, a titolo diesempio, sch. 3 ad Bas. 12.1.72 (SCHELTEMA, B II, 525); sch. 2 ad Bas. 14.1.48 (SCHELTEMA, B II, 778) e sch. 15 adBas. 23.1.18 (SCHELTEMA, B IV, 1541 s.).12 Il primo rilievo è, infatti, della DE JONG, Stephanus cit. (nt. 8), 161, mentre il secondo è di FALCONE, Premessacit. (nt. 5), 155 nt. 29, che mostra di attribuire nuova rilevanza ad uno scolio, sch. 3 ad Bas. 29.1.35, già individua-to da HEIMBACH, Prolegomena cit. (nt. 8), 50 nt. 4.13 DE JONG, Stephanus cit. (nt. 8), 161, al proposito, ha evidenziato, inoltre, che da alcuni scolii di Taleleo parreb-be potersi evincere che, a partire da questo antecessor, il verbo ajnhvnektai fosse stato impiegato anche per citare ilDigesto, come emerge, ad esempio, da sch. 2 ad Bas. 28.1.16 (SCHELTEMA, B V, 1801) e sch. 2 ad Bas. 28.11.32(SCHELTEMA, B V, 1964).14 SCHELTEMA, B V, 2040. Trad. HEIMBACH, III, 390: «Quod dicere vult, hoc est: etiamsi nondum secutis nuptiisnon conveniatur is, qui dotem promisit, quia videtur promisisse sub ea conditione, si nuptiae fuerint secutae, tamen,si fideiussorem dederit, teneri fideiussorem, videlicet si sequantur nuptiae: quoniam etiam pro futura obligationerecte datur fideiussor, ut didicisti lib. 3. Institutionum, tit. 3 et relatum est lib. 46. Digestorum, tit. 1. dig. 4. […]».La traduzione degli Heimbach si riferisce al testo dello scolio riportato nell’edizione da loro curata, che contiene ilrinvio al titolo terzo del terzo libro delle Istituzioni (wJ~ e[gnw" ejn tw'/ gæ. tw'n jInstit. tit. gæ.), ma indica nell’apparato cri-tico la lezione del Cod. Med. Laur. Plut. LXXX 11, che rinvia, invece, al secondo libro (bæ). L’edizione di Scheltema,pur riportando la lezione del Cod. Med. Laur. Plut. LXXX 11, la emenda in 3, presupponendo, verosimilmente, che

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Lo scolio si riferisce al conciso frammento riportato in Paul. 1 ad Plaut. D. 23.3.55,15

relativo all’ammissibilità della fideiussione rispetto alla promessa di dote, ed appare fina-lizzato a spiegare il particolare atteggiarsi dell’accessorietà dell’obbligazione di garanziarispetto alla promessa di dote. Infatti, l’antecessor, nel testo a noi pervenuto, dopo averespecificato che la fideiussione avrebbe dovuto considerarsi sottoposta alla condizionedell’effettivo avvenimento delle nozze (ejpeidh; dokei' uJpo; ai{resin ejpaggeivlasqai th;neja;n probw'sin oiJ gavmoi), cita, utilizzando ajnhvnektai, il quarto frammento del titoloprimo del quarantaseiesimo libro del Digesto,16 riferito alla possibilità di prestare unafideiussione «etiam pro futura obligatione»17 (kai; ejpi; mellouvsh/ ejnoch'/).

Stefano, attraverso il richiamo di Ulp. 45 ad Sab. D. 46.1.4 pr., sembra ricordare aisuoi allievi il tenore di un testo in cui viene ammessa la possibilità che si presti fideius-sione rispetto all’actio mandati o negotiorum gestorum che il fideiussore, una volta cheavesse adempiuto, avrebbe potuto intentare nei confronti del debitore principale.18 Perquanto risulti abbastanza chiaro che il rinvio sia funzionale a giustificare l’ammissibili-tà di un’obbligazione di garanzia il cui contenuto si sarebbe definito in un momentosuccessivo rispetto a quello in cui la fideiussione era stata prestata, non può non rile-varsi, in questa sede, che la soluzione di Ulpiano menzionata nel nostro scolio appare inuna certa misura diversa da quella oggetto di approfondimento da parte dell’antecessor.19

si trattasse di un rinvio al terzo libro, § 3, del titolo De fideiussioribus delle Istituzioni, cioè I. 3.20.3 (Fideiussor etpraecedere obligationem et sequi potest).15 Paul. 1 ad Plaut. D. 23.3.55: Cum dotis causa aliquid expromittitur, fideiussor eo nomine datus tenetur, al quale cor-risponde Bas. 29.1.51: Paulu. JO ejgguwvmeno" th;n ejperwthqei'san proi'ka ejnevcetai (SCHELTEMA, A IV, 1456). Trad.HEIMBACH, III, 390: «Qui pro dote promissa fideiubet, tenetur». 16 Sembrerebbe trattarsi, in particolare, di Ulp. 45 ad Sab. D. 46.1.4 pr. (Potest accipi fideiussor eius actionis, quamhabiturus sum adversus eum, pro quo fideiussi, vel mandati vel negotiorum gestorum), che, nel nostro scolio, viene indi-cato facendo riferimento al libro del Digesto di cui faceva parte. La circostanza che questo frammento sia citato perlibri, come vedremo a breve, non sarà irrilevante al fine di attribuire a Stefano la paternità del rinvio.17 Trad. HEIMBACH, III, 390.18 Sembra, infatti, che l’oggetto della disamina ulpianea fosse l’ipotesi di un fideiussore che, avendo prestato garan-zia su mandato del debitore principale o senza preventivo incarico da parte sua, una volta escusso dal creditore,avrebbe potuto agire, a sua volta, mediante l’actio mandati o negotiorum gestorum nei confronti del garantito. Il giu-rista si chiede se, a favore di detto fideiussore, potesse essere prestata una fideiussione in relazione a quanto egli avreb-be potuto ottenere intentando l’actio mandati o negotiorum gestorum nei confronti del debitore principale, dopo cheil creditore avesse agito nei suoi confronti o egli avesse comunque adempiuto. 19 Sin da un primo confronto fra la soluzione enunciata in Paul. 1 ad Plaut. D. 23.3.55 e quella illustrata in Ulp. 45ad Sab. D. 46.1.4 pr. si può riscontrare che, sebbene in entrambe le ipotesi il contenuto della fideiussione si sarebbedefinito successivamente all’assunzione dell’obbligazione di garanzia da parte del fideiussore, in forza del realizzarsidi una condizione, tale condizione avrebbe avuto caratteristiche diverse nell’uno e nell’altro caso. Invero, nel primocaso, l’obbligazione del fideiussore sarebbe risultata sottoposta alla condicio iuris dell’effettivo avvenimento dellenozze, mentre, nell’altro caso, l’obbligazione del secondo fideiussore sarebbe sorta soltanto laddove il creditore aves-

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Si può osservare, inoltre, che il richiamo alla soluzione di Ulpiano appare peculiarenon soltanto dal punto di vista contenutistico, ma altresì sotto il profilo formale,20 inquanto l’antecessor, indicando il libro ed il titolo del Digesto in cui si trovava il fram-mento (wJ~ ajnhvnektai bib. m"æ. tw'n Dig. tit. aæ. dig. dæ.), si sarebbe discostato dalla con-sueta modalità di citazione del Digesto ‘per parti’.21

Queste considerazioni, quindi, indurrebbero a ritenere plausibile, come già posto inevidenza da Scheltema,22 che il testo della prima parte di sch. 2 ad Bas. 29.1.51 sia statoalterato da una mano successiva a quella di Stefano, che vi avrebbe aggiunto il rinvioa Ulp. 45 ad Sab. D. 46.1.4. A tal riguardo, vale la pena di tenere in considerazione ilprosieguo della trattazione, riportato nella seconda parte di sch. 2 ad Bas. 29.1.51:

[…] Dunato;n de; kai; a[llw" to; paro;n eJrmhneu'sai dig. kai; eijpei'n, o{ti oJ to;n ejperwthqevntaproi'ka ejgguhsavmeno" katevcetai eij~ oJlovklhron, ka]n oJ ejperwthqei;~ th;n proi'ka, kata;filotimivan mevntoi, ijgkouavntoum favkere potevst <katadikavzetai: to; ga;r ijgkouavntoum favkerepotevst> katadikavzesqai personavliovn ejstin kai; movnoi" ejkeivnoi" parevcetai, oi|" kai; ejx ajrch'~ejfilotimhvqh, ouj mh;n kai; toi'" ejgguhtai'~ aujtw'n, wJ~ pantacovqi me;n e[sti maqei'n, mavlista de; kai;ejk tou' xgæ. dig. th'~ prosokivo tw'n derevbou" kai; tou' lgæ. dig. tou' parovnto" tit.23

se preventivamente escusso il primo fideiussore anziché il debitore principale: essa sarebbe stata sottoposta, pertanto,ad una condicio facti. Inoltre, che il tenore della fattispecie oggetto di D. 46.1.4 pr. non fosse stato compreso a pienodai maestri bizantini che operarono dopo Stefano emerge dal contenuto della Summa del primo Anonimo – general-mente ritenuta databile tra la fine del VI e l’inizio del VII sec. d.C. – ad essa riferita, che presenta il seguente testo: Bas.26.1.4: Kai; ejpi; mellouvsh/ ajgwgh/' duvnatai proslambavnesqai ejgguhthv". JO ejgguhth;~ h] th;n peri; tw'n ejntalqevntwn ajgwgh;n h]

th;n peri; tw'n dioikhqevntwn pragmavtwn e[cei kata; tou' ejgguhqevnto". jEnevcontai de; kai; oiJ tou' ejgguhtou' klhronovmoi

(SCHELTEMA, A IV, 1241). Trad. HEIMBACH, III, 94: «Etiam in futuram actionem fideiussor accipi potest. Fideiussorvel mandati, vel negotiorum gestorum actionem habet contra eum, pro quo fideiussit. Tenentur autem et heredesfideiussoris». Infatti, per quanto sia riscontrabile una certa coincidenza terminologica tra le parole usate dall’Anonimoin Bas. 26.1.4 e quelle attribuite a Stefano in sch. 2 ad Bas. 29.1.51 – anche se, già a prima vista, si può riscontrarel’impiego da parte dell’Anonimo del termine ajgwghv, mentre Stefano aveva fatto riferimento ad una futura ejnochv –dal contenuto di Bas. 26.1.4 sembra emergere che l’Anonimo non avesse ben compreso che Ulpiano si era riferito alcaso di una fideiussione prestata al fine di garantire un fideiussore, avente ad oggetto, dunque, quanto quest’ultimoavrebbe potuto ottenere dall’esercizio dell’actio mandati o negotiorum gestorum nei confronti del debitore garantito.20 Profilo, questo, già posto in evidenza da SCHELTEMA, Subseciva III cit. (nt. 4), 118 nt. 14; ID., L’enseignement cit.(nt. 4), 78.21 La circostanza che tale modalità di citazione dei frammenti del Digesto fosse normalmente usata da Stefano è notaalla dottrina e, come sottolineato da SCHELTEMA, L’enseignement cit. (nt. 4), 78, appare utile per consentire di distin-guere le annotazioni del nostro antecessor da quelle dell’Enantiofane e, in generale, come già osservato anche inSCHELTEMA, Subseciva III cit. (nt. 4), 117, gli scolii di mano antica da quelli di mano recente.22 SCHELTEMA, Subseciva III cit. (nt. 4), 118 nt. 14; ID., L’enseignement cit. (nt. 4), 78.23 SCHELTEMA, B V, 2040. Trad. HEIMBACH, III, 390: «Potest et aliter hoc digestum explicari, et dici, eum, qui pro eo,qui dotem promisit, fideiussit, in solidum teneri, licet is, qui dotem promisit, scilicet ex liberalitate, condemnetur in

Alice Cherchi 235

Stefano, nel continuare la disamina di Paul. 1 ad Plaut. D. 23.3.55, specifica che, seb-bene dal tenore del frammento si potesse evincere che il fideiussore sarebbe stato respon-sabile solidalmente con colui che aveva promesso la dote, soltanto quest’ultimo avreb-be potuto essere condannato entro i limiti del «quantum facere potest»24 (ijgkouavntoum favkere potevst <katadikavzetai: to; ga;r ijgkouavntoum favkere potevst> katadikavzesqai),essendo tale limitazione di responsabilità di carattere personale e, quindi, applicabilesoltanto nei confronti del debitore principale, al quale era stata accordata sin dall’inizio.

L’antecessor indica, altresì, che il principio appena esposto avrebbe potuto ritrovarsiin numerosi luoghi delle fonti (wJ~ pantacovqi me;n e[sti maqei'n) e, in particolare, in dueframmenti del Digesto: il sessantatreesimo del titolo pro socio della parte de rebus 25 edil trentatreesimo del titolo che si stava spiegando a lezione26 (mavlista de; kai; ejk tou' xgæ.dig. th'" prosokivo tw'n derevbou" kai; tou' lg/æ. dig. tou' parovnto" tit.), i quali, quindi,vengono menzionati secondo la modalità di citazione per parti.

Pertanto, proprio la circostanza che nell’ultima parte di sch. 2 ad Bas. 29.1.51 Stefanoabbia fatto rinvio al Digesto in modo conforme al sistema di citazione per parti inducea ritenere ancora più verosimile che il rimando contenuto nella prima parte dello stessoscolio, formulato, invece, tramite una citazione per libri e con l’impiego di ajnhvnektai,sia stato inserito nel testo da una mano posteriore a quella del nostro antecessor.27

quantum facere potest. Personale enim est, et his solis praestatur, quibus et ab initio concessum est, nec vero fideius-soribus eorum, ut undique quidem discere licet, maxime autem ex dig. 63 tit. pro socio, et dig. 33 huius tituli». Occorresegnalare che la traduzione degli Heimbach si riferisce alla lezione dello scolio adottata nell’edizione da loro curata, chepresenta il seguente tenore: mavlista de; kai; ejk tou' xgæ. dig. th'" pro; sotzivw/ kai; tou' lgæ. tou' parovnto" tivtlou, e, pertanto,rimanda al frammento indicando non la parte del Digesto, ma direttamente il titolo, in cui esso era inserito.24 Trad. HEIMBACH, III, 390.25 Nello specifico, l’indicazione appare riferita alla soluzione riportata in Ulp. 31 ad ed. D. 17.2.63.1: Videndum est,an et fideiussori socii id praestari debeat an vero personale beneficium sit, quod magis verum est. sed si hic fideiussor quasidefensor socii iudicium susceperit, proderit sibi: namque Iulianus libro quarto decimo digestorum scripsit defensorem sociiin id quod socius facere potest condemnari oportere. idemque et in patroni defensore accipere debere ait: et utique idem eritin universis, qui in id quod facere possunt conveniuntur, il cui contenuto si comprende meglio se letto in collegamen-to con quanto affermato dal giurista nel principium: Verum est quod Sabino videtur, etiamsi non universorum bonorumsocii sunt, sed unius rei, attamen in id quod facere possunt quodve dolo malo fecerint quo minus possint, condemnari opor-tere. hoc enim summam rationem habet, cum societas ius quodammodo fraternitatis in se habeat.26 Ulp. 77 ad ed. D. 46.1.33: Si eum hominem, quem a Titio petieram, pro quo satis de lite acceperam, Titius liberumheredemque reliquerit: si quidem re vera ipsius fuit, dicendum est iudicium in eum transferri et, si non patiatur id fieri,committi stipulationem: si autem meus petitoris fuit neque iussu meo hereditatem adierit, fideiussores tenebuntur ob remnon defensam: si autem adierit me iubente, stipulatio evanescit. plane si meus fuerit et idcirco differam aditionem, ut, cumvicero, tunc eum iubeam adire et interim ob rem non defensam agere velim, non committitur stipulatio, quia vir bonusnon arbitraretur.27 Tale differente modalità di citazione consentirebbe altresì di escludere che l’intervento della mano successiva aquella di Stefano sul nostro testo si fosse limitato a modificare le citazioni della raccolta di iura, inizialmente formu-

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice236

Bisogna, del resto, tenere in considerazione anche il tenore di un altro scolio in cui,come posto in evidenza in dottrina,28 ajnhvnektai potrebbe essere stato utilizzato daStefano per citare il Digesto (sch. 3 ad Bas. 29.1.35):

Kalw'~ eij\pe to; «ejk tw'n swmatikw'n pragmavtwn»: dou'loi ga;r tovte tugcavnonte" oujk hjduvnantoajswvmatav tina, toutevstin ajgwga;~ e[cein tinav~. Dou'lo" ga;r ou[te ejnevcesqai duvnatai ou[te e[no-con e[cein tinav, wJ~ pantacou' me;n ajnhvnektai, mavlista de; ejn tw/' dæ. tw'n derevbou" bib. tit.,DEPECULÍO dig. maæ […].29

Lo scolio approfondisce la soluzione prospettata in Ulp. 33 ad ed. D. 23.3.39 pr.,30

in cui Ulpiano specifica che, qualora una schiava avesse dato alcunché ad uno schia-vo al fine di attribuirgli «una sorta» di dote (quasi dotem dederit) e, in un secondomomento, durante la loro unione, avesse con lui ottenuto la libertà, la precedentedazione si sarebbe convertita in dote, ma solamente in relazione alle cose corporaliancora esistenti.

Il discorso dell’antecessor pone da subito l’accento sulla precisione della soluzioneulpianea, riferita giustamente alle sole cose corporali (kalw'" eij\pe to; «ejk tw'n swmatikw'npragmavtwn»), dal momento che gli schiavi non avrebbero potuto essere titolari di coseincorporali, cioè – nella sua ottica – di azioni. Prosegue, infatti, sottolineando che unoschiavo non avrebbe potuto obbligarsi nei confronti di qualcuno, così come nessunoavrebbe potuto obbligarsi nei suoi confronti, alla luce di quanto riferito in più luoghi(wJ" pantacou' me;n ajnhvnektai), ma soprattutto nel libro quarto della parte de rebus, alframmento quarantunesimo del titolo de peculio, cioè Ulp. 43 ad Sab. D. 15.1.4131

(mavlista de; ejn tw/' dæ. tw'n derevbou" bib. tit., DEPECULIO dig. maæ).

late per parti, in citazioni per libri, in conformità al sistema di rimando usato negli scolii di mano recente. In que-st’ultimo caso, infatti, è presumibile che tutte le citazioni del Digesto presenti nello scolio – e non soltanto una –sarebbero state formulate per libri.28 HEIMBACH, Prolegomena cit. (nt. 8), 50 nt. 4; FALCONE, Premessa cit. (nt. 5), 155 nt. 29.29 SCHELTEMA, B V, 2019. Trad. HEIMBACH, III, 374: «Recte dixit, ex rebus corporalibus. Nam cum tunc servi essent,non poterant aliqua incorporalia, id est, aliquas actiones habere. Servus enim neque obligari potest, neque ullumhabere obligatum, ut ubique quidem relatum est, maxime autem lib. 4. de rebus, tit. de peculio, dig. 41 […]».30 Ulp. 33 ad ed. D. 23.3.39 pr.: Si serva servo quasi dotem dederit, deinde constante coniunctione ad libertatem ambopervenerint peculio eis non adempto et in eadem coniunctione permanserint, ita res moderetur, ut, si quae ex rebus corpo-ralibus velut in dotem tempore servitutis datis exstiterint, videantur ea tacite in dotem conversa, ut earum aestimatiomulieri debeatur.31 Ulp. 43 ad Sab. D. 15.1.41: Nec servus quicquam debere potest nec servo potest deberi, sed cum eo verbo abutimur,factum magis demonstramus quam ad ius civile referimus obligationem. itaque quod servo debetur, ab extraneis dominusrecte petet, quod servus ipse debet, eo nomine in peculium et, si quid inde in rem domini versum est, in dominum actiodatur.

Alice Cherchi 237

A prima vista, sembrerebbe che Stefano, in questo scolio, abbia usato ajnhvnektai perfare rinvio ad un passo del Digesto idoneo a chiarire il contenuto del frammento inesame, utilizzando, tra l’altro, la consueta modalità di citazione per parti. Comunque,occorre precisare, al riguardo, che il rimando in questione, alla stregua di quello cheabbiamo visto nell’ultima parte di sch. 2 ad Bas. 29.1.51, pare presentare una partico-larità, in quanto indica inizialmente, mediante l’impiego di ajnhvnektai, che il princi-pio illustrato era riportato in diversi luoghi e, soltanto in seconda battuta, specifica gliestremi del frammento dal quale esso avrebbe potuto evincersi con particolare chiarez-za. Di conseguenza, non si può escludere che l’uso di ajnhvnektai sia, in questo caso, inqualche modo ricollegabile alla genericità iniziale del rimando.

Sebbene quest’ultimo rilievo appaia sicuramente significativo, non sembra che sipossa ritenere di per sé idoneo a minare l’attendibilità di massima dell’assunto dalquale ha preso le mosse la riflessione di Scheltema,32 cioè che l’utilizzo del verboajnhvnektai fosse tendenzialmente riservato alle costituzioni del Codice. Esemplare, intal senso, come già osservato dallo studioso olandese,33 appare la testimonianza delloscolio 3 ad Bas. 29.1.52,34 wJ" oJ Oujlpiano;~ ejn tw'/ kæ. dig. tou' familivae nerkiskouvndaefhsi; kai; wJ~ ajnhvnektai bib. gæ. tou' Kwd. tit. lbæ. (36) diat. bæ., dalla quale sembraemergere che Stefano non avrebbe rinunciato ad usare questa particolare modalità dicitazione neanche nel caso in cui si fosse trovato a dovere menzionare il Codice accan-to al Digesto.

A questo punto, occorre entrare nel merito delle indicazioni del nostro antecessorrelative al Codice per cercare di comprendere se dietro l’utilizzo del verbo ajnhvnektai vifosse realmente la volontà di rinviare alle costituzioni considerandole vigenti dalmomento in cui furono emanate dai singoli imperatori e perciò superabili dalle dispo-sizioni contenute nel Digesto, quale unica costituzione ed esse successiva. Tuttavia,prima di procedere alla lettura degli ulteriori frammenti di Stefano, occorre considera-re un altro dato su cui fa perno l’ipotesi avanzata da Scheltema.

32 Come vorrebbe FALCONE, Premessa cit. (nt. 5), 155 nt. 29, ad avviso del quale il rinvio contenuto in sch. 3 ad Bas.29.1.35 porterebbe ad escludere la verosimiglianza dell’ipotesi prospettata da Scheltema in ordine alla ragione del-l’utilizzo da parte di Stefano del verbo ajnhvnektai.33 SCHELTEMA, L’enseignement cit. (nt. 4), 78.34 Il cui testo integrale presenta il seguente tenore: Paragrafhv. Tou' ga;r uJpodecomevnou th;n proi'ka patro;" teleuthvsanto"

ejpi; duvo h] kai; pleivosi paisi; lambavnei kat j ejxaivreton th;n proi'ka th'" ijdiva" gameth'~ oJ ei|" tw'n paivdwn, wJ~ oJ Oujlpiano;~ ejn

tw/' kæ. dig. tou' familivae nerkiskouvndae fhsi; kai; wJ~ ajnhvnektai bib. gæ. tou' Kwd. tit. lbæ. (36) diat. bæ. (SCHELTEMA, B V,2041). Trad. HEIMBACH, III, 391: «Adnotatio. Nam cum pater, qui dotem accipit, duobus vel pluribus filiis relictisdecessit, alter filiorum dotem uxoris suae praecipit, ut dicit Ulpianus dig. 20. familiae erciscundae, et ut relatum estlib. 3. Codicis, tit. 32. const. 2.».

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice238

3. Esame di Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1Oltre che sull’utilizzo della forma verbale ajnhvnektai, l’ipotesi prospettata da Schel-

tema si fonda sulla testimonianza di un passo della Parafrasi di Teofilo – opera chefu probabilmente oggetto di studio da parte di Stefano35 – il cui esame si rende ora op-portuno (Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1):

Ouj movnon de; toi'~ paisi;n ejpitevtraptai th'" tw'n gonevwn diaqhvkh" wJ~ mh; proshkovntw" genomevnh"kathgorei'n, ajlla; ga;r kai; goneu'sivn ejsti parrhsiva th;n tw'n paivdwn diabavllein diaqhvkhn.ajdelfh; de; kai; ajdelfo;~ ajnatrevyousi thnikau'ta th;n tou' teleuthvsanto" diaqhvkhn, tw'nSCRIPTON protimwvmenoi, hJnivka aijscro;n ejpevcousin oiJ gegrammevnoi provswpon, oi|on hJnivocoimi'moi kunhgoi; kai; oiJ ajpo; aijscra'~ mivxew" ejgnwsmevnoi: tou'to ga;r tai'" qeivai" perievcetaidiatavxesin. w{ste ou\n ajniovnte" kai; katiovnte", ejn w|/ mh; gegovnasin ajcavristoi peri; to;n te-leuthvsanta, kata; panto;" SCRIPTU kinhvsousi th;n DE INOFFICIOSO, ajdelfo;~ de; kai; ajdelfh;kata; movnwn aijscrw'n proswvpwn. oiJ de; peraitevrw tou' ajdelfou' h] th'" ajdelfh'" suggenei'~ ou[tepavrodon e[cousin ejpi; th;n DE INOFFICIOSO, ajlla; kai; kinhvsante" hjtthqhvsontai.36

La disamina di Teofilo si inquadra nell’approfondimento relativo ai soggetti legitti-mati ad esercitare la querella inofficiosi testamenti (hJ de inofficioso) poiché ingiustamenteesclusi dalla successione in seguito ad exheredatio o a praeteritio da parte del de cuius.37

35 L’influenza esercitata dall’elaborazione di Teofilo su quella di Stefano è stata ripetutamente sottolineata in dottri-na, a partire dalle considerazioni di K.E. ZACHARIÄ VON LINGENTHAL, Aus und zu den Quellen des römischen Recht,in ZSS 10 (1889) 270 ss. e HEIMBACH, Prolegomena cit. (nt. 8), 31 s. e 50 s., la cui opinione è stata ripresa da C.FERRINI, «Prolegomena» a Institutionum graeca paraphrasis Theophilo antecessore vulgo tributa, pars prior, Berolini 1884,14 s. (poi in Opere cit. [nt. 7] I, 63), il quale, con riferimento alla Parafrasi di Teofilo, scrive «eam certe Stephanusnovit et adeo magno studio in ea lectitanda versatus est, ut eius stilum formam verba denique ipsa imitanda sibi pro-posuerit: id quod etiam est adsecutus».36 Trad. A.F. MURISON, in J.H.A. LOKIN - R. MEIJERING - B.H. STOLTE - N. VAN DER WAL (edd.): Theophili An-tecessoris Paraphrasis Institutionum, Groningen 2010, 377: «But not only have children been permitted to impeachthe will of their parents as not having been made duteously, but parents also are free to challenge the will of theirchildren. A sister and a brother, too, will upset the will of the deceased and be preferred to the appointed heirs, butonly when the appointed heirs occupy a bad social position; as, charioteers, actors, gladiators, and the children ofdisgraceful unions; for this is contained in the sacred constitutions. Accordingly, while ascendants and descendants,provided they have not been ingrateful towards the deceased, will bring the querella de inofficioso against any heir,brothers and sisters will bring it against heirs with a dishonorable social position only. Relations more remote thanbrother or sister have no access to the querella de inofficioso, and if they bring it, they will fail».37 Theoph. Paraphr. Inst. 2.18 pr.: Eijrhvkamen ejn toi'~ prolabou'si duvnasqai tou;~ ajniovnta" diatiqemevnou" mh; gravfein tou;~

katiovnta" klhronovmou", ajll j EXHEREDATUS poiei'n h] PRAETERITIONI uJbrivzein, ejf jw|n hJ PRAETERITION ajnti; EXHEREDATIONOS

paralambavnetai. ajll j ejpeidh; tauvth" drattovmenoi th'" ajdeiva" oiJ gonei'~ tou;~ oijkeivou" e[blapton pai'da" katalimpavnonte"

aujtou;~ ejn peniva/ (eij me;n ga;r h\n ti" tw'n kata; ajrrenogonivan ajniovntwn ejpoivhse de; EXHEREDATON to;n pai'da, ou[te IPSO IURE

ajnupovstato" h\n hJ diaqhvkh, ou[te ejx ajdiaqevtou oJ pai'~ hjduvnato paragenevsqai – pw'~ gavr, diaqhvkh" uJpokeimevnh"; – ou[te ajpo;

tou' PRAETOROS th;n CONTRA TABULAS ei\cen, PRAETERITOIS gavr, ouj mh;n EXHEREDATOIS au{th parevcetai: eij de; mhvthr h\n hJ

diatiqemevnh <h]> oiJ kata; mhtevra ajniovnte", oujde; ejnqumhqh'nai peri; th'" CONTRA TABULAS h\n: kata; ga;r diaqhvkh" qhvleo"

Alice Cherchi 239

Nell’incipit (ouj movnon… diaqhvkhn), Teofilo specifica che rientravano in questa catego-ria di persone non solo i figli, che avrebbero potuto impugnare il testamento inofficio-so dei genitori, ma anche i genitori, i quali avrebbero potuto impugnare il testamentodei loro figli. L’antecessor indica, poi (ajdelfh;… diatavxesin), che anche la sorella ed ilfratello avrebbero potuto avvalersi di tale rimedio per sovvertire la volontà espressa neltestamento dal de cuius e prevalere rispetto a coloro che erano stati designati per iscrit-to, a condizione che questi ultimi rientrassero nella categoria degli infami, di cui face-vano parte gli aurighi, gli attori, i gladiatori e i nati da unioni adulterine, in conformi-tà al disposto delle sacre costituzioni (tou'to ga;r tai'~ qeivai" perievcetai diatavxesin).

L’antecessor conclude, pertanto, che i genitori e i figli, se non ingrati al defunto,avrebbero potuto agire tramite la querella inofficiosi testamenti nei confronti di tutti glieredi designati per iscritto, mentre il fratello e la sorella sarebbero stati legittimati adagire solamente contro gli infami, e coloro che avevano un vincolo cognatizio più lon-tano rispetto a quello del fratello o della sorella non avrebbero potuto esercitare la que-rella e, laddove la avessero comunque intentata, avrebbero perso la lite.

All’interno del testo di Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1, assume fondamentale rilevan-za ai nostri fini l’elencazione dei soggetti infami che, per quanto non esaustiva,38 fa

proswvpou paisi;n ouj divdotai CONTRA TABULAS), ejn ejscavth/ toivnun bohqeiva/ ejpenohvqh toi'" paisi;n hJ DE INOFFICIOSO

memfomevnoi" kai; levgousin ajdivkw" eJautou;" EXHEREDATUS genevsqai h[goun PRAETERITEUQHNAI, tou'to proi>scomevnoi" to;

crw'ma wJ~ o{ti memhnw;" h\n oJ teleuthvsa" hJnivka th;n diaqhvkhn dietuvpou. tou'to de; levgetai para; tw'n paivdwn oujc wJ" th'/ ajlhqeiva/

manevnto" tou' teleuthvsanto", ajll j o{ti gegevnhtai me;n ijscurw'~ hJ diaqhvkh, oujc wJ" ajpaitei' de; th'~ eujsebeiva" oJ lovgo". eij ga;r

ejmaivneto th'/ ajlhqeiva/, oujk hjduvnato diativqesqai: h] ma'llon ejmemhvnei dia; tou'to, ejpeidh; th;n fuvsin ajlovgw~ ejmivshsen. Trad.MURISON, 375 e 377: «We have stated above that ascendants, in making their wills, may refrain from appointingdescendants heirs provided they disinherit them, or may brand them by passing them over, in the cases where passingover is taken as equivalent to disinherison. But since parents, catching at this license, did injury to their children, byleaving them in want (for if there was an ascendant in the male line, who disinherited his son, neither was the will ipsoiure invalid, nor could the son come in on intestacy – for how could he, when there was a will? –, nor had he bonorumpossessio contra tabulas from the Praetor – for this was granted to persons passed over, and not to persons disinherited –;and if the mother was testator, or ascendants in the maternal line, the very notion of bonorum possessio contra tabulaswas inconceivable, as in opposition to a will of a female bonorum possessio contra tabulas is not given to children),therefore, as an aid in the last resort, there was divised for the benefit of the children the querella de inofficioso testamento,whereby they complain and allege that they have been unjustly disinherited or passed over, and put the case as if thetestator had been mad when he framed his will. But this allegation is made by the children not with the implicationthat the deceased had been really mad, but on the ground that, while the will was validly made, yet it was not madein accordance with claims of dutiful affection; for if he was really mad, he had not capacity to make a will; or ratherhe was mad in that he displayed an irrational aversion to the claims of nature».38 Le fonti testimoniano, infatti, che altri soggetti, oltre a quelli citati da Teofilo, erano sanzionati con la nota di infa-mia. Si pensi, ad esempio, a coloro che erano stati licenziati dall’esercito, menzionati in Iulian. l.s. ad ed. D. 3.2.1 ein Ulp. 6 ad ed. D. 3.2.2 pr., oppure a coloro che praticavano usurae oltre il limite legale, in base al disposto di Diocl.et Maxim. AA. Fortunato C. 2.11(12).20 del 290 d.C.

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice240

menzione degli hJnivocoi, cioè degli aurighi, e si ricollega così al contenuto di un fram-mento del Digesto, Ulp. 6 ad ed. D. 3.2.4 pr.-1, e di una costituzione del Codice, C.11.41(40).4, dei quali occorre chiarire brevemente il tenore prima di tornare a focaliz-zare l’attenzione sulle considerazioni di Scheltema.

Ulp. 6 ad ed. D. 3.2.4 pr.-1. Athletas autem Sabinus et Cassius responderunt omnino artemludicram non facere: virtutis enim gratia hoc facere. et generaliter ita omnes opinantur et utilevidetur, ut neque thymelici neque xystici neque agitatores nec qui aquam equis spargunt ceteraqueeorum ministeria, qui certaminibus sacris deserviunt, ignominiosi habeantur. [1] Designatoresautem, quos graeci brabeuta;~ appellant, artem ludicram non facere Celsus probat, quia mi-nisterium, non artem ludicram exerceant. et sane locus iste hodie a principe non pro modicobeneficio datur.

C. 11.41(40).4 [= CTh. 15.7.12]. Theod. Arcad. et Honor. AAA. Rufino pp. Si qua in publicisporticibus vel in his civitatum locis, in quibus nostrae solent imagines consecrari, picturapantomimum veste humili et rugosis sinibus agitatorem aut vilem offerat histrionem, ilicorevellatur neque umquam posthac liceat in loco honesto inhonestas adnotare personas. In aditu verocirci vel in theatri proscaeniis ut collocentur, non vetamus. D. III k. Iul. Heracleae Arcadio A.II et Honorio A. II conss. (a. 394).

Nel principium di D. 3.2.4, Ulpiano, nell’indicare i soggetti esenti da infamia, citadapprima gli atleti, poiché, secondo quanto già osservato da Sabino e Cassio, non eser-citavano l’arte scenica, ma esibivano il loro valore, e menziona, poi, i coristi, i ginna-sti, gli aurighi, coloro che cospargevano d’acqua i cavalli e tutti coloro che prestavanola loro attività nei giochi sacri. Nel § 1, il giureconsulto prosegue l’elenco annoveran-dovi, conformemente all’opinione di Celso, anche gli arbitri di gioco, che non prati-cavano l’arte scenica, ma svolgevano un servizio, affidato loro dal principe mediantel’attribuzione di un beneficio di non scarso valore.39

Di contro, un intervento della cancelleria imperiale di Teodosio, Arcadio e Onoriodel 394 d.C., riportato in C. 11.41(40).4, vietò che nei portici pubblici o nei luoghi

39 La dottrina più datata ha considerato il frammento interpolato in relazione all’intero inciso finale del § 1 (et sane…datur), ritenendo l’utilizzo dell’avverbio hodie determinante in tal senso; in favore di questa ipotesi, cfr. E. ALBERTARIO,Hodie, contributo alla dottrina delle interpolazioni, Pavia 1911, 11 (poi in Studi di diritto romano VI, Milano 1953,133); G. BESELER, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen II, Tübingen 1911, 97. La suddetta opinione, però,risulta ormai abbandonata dalla dottrina maggioritaria, sulla scorta delle considerazioni di M. AMELOTTI, La posizionedegli atleti di fronte al diritto romano, in SDHI 21 (1955) 125, 156, che hanno trovato seguito in M. KASER, Infamiaund ignominia in den römischen Rechtsquellen, in ZSS 73 (1956) 239 nt. 94. Inoltre, A.H.J. GREENIDGE, Infamia. ItsPlace in Public and Private Law, Aalen 19772, 124 s., non discute specificamente sull’interpolazione, ma commenta iltesto come se fosse genuino, così come M. PENNITZ, Zur Postulationsfähigkeit der Athleten im klassischen römischenRecht, in ZSS 112 (1995) 100 ss. e D. COMAND, ‘In scaenam prodire’, in Index 27 (1999) 108 s.

Alice Cherchi 241

della città in cui erano di solito esposte raffigurazioni degli imperatori venissero affis-se immagini di alcune inhonestae personae, quali il pantomimo dalle vesti povere, l’au-riga dal petto rugoso o il vile istrione, e sancì altresì che, nei casi in cui il divieto fossestato disatteso, le immagini sarebbero state distrutte, a meno che non fossero stateesposte all’ingresso di un circo o di un teatro.40

Il tenore di questa costituzione è stato interpretato in dottrina41 come se avesse pre-supposto che gli aurighi fossero infami, anche se, in realtà, la lettera della disposizio-ne sembra limitarsi a porre un divieto di affissione, menzionando gli aurighi tra leinhonestae personae le cui immagini, non particolarmente raffinate – come emergedalla circostanza che ne vengano specificate alcune caratteristiche negative, quali levesti povere, il petto rugoso e la viltà – non avrebbero potuto essere esposte accanto aquelle degli imperatori. Cionondimeno, uno scolio dell’Enantiofane a Bas. 21.2.4 (=D. 3.2.4) sembra riconoscere la possibilità di includere anche gli aurighi tra gli infa-mi (sch. 2 ad Bas. 21.2.4):

jEnantiofanou'~. jEn tw'/ iaæ. bib. tou' Kwd. tit. maæ. [diat. dæ.] to;n hJnivocon toi'~ ajtivmoi" sunhrivqmhsen:fhsi; gavr, o{ti ejn dhmosivai" stoai'~ h] plhsivon basilikw'n eijkovnwn h] ejn ejpishvmoi" [tovpoi"] th'~povlew" ouj dei' mivmwn h] hJniovcwn h] ojrchstw'n h] eJtevrwn proswvpwn ajsevmnwn eijkovna" ajnativqesqai,ajlla; ejn tai'~ eijsovdoi" tou' iJppikou' kai; toi'~ proskhnivoi" tou' qeavtrou. Kai; dou'loi duvnantai th;nhJniocikh;n eijdevnai, wJ~ bib. iqæ. tit. bæ. dig. zæ. (?). To; aujto; kai; peri; tw'n a[llwn [ajgwvnwn].42

L’Enantiofane, al fine di spiegare il riferimento agli aurighi contenuto in D. 3.2.4pr., indica che in C. 11.41.4 costoro erano ricompresi fra gli infami (to;n hJnivocon toi'~ajtivmoi" sunhrivqmhsen) e che, quindi, le loro immagini, così come quelle dei mimi, deipantomimi e delle altre persone indegne, non avrebbero potuto essere esposte nei por-tici pubblici, negli altri luoghi in cui vi erano raffigurazioni degli imperatori e nei luo-

40 Alla luce delle considerazioni di AMELOTTI, La posizione cit. (nt. 39), 156 e nt. 157, si potrebbe pensare che l’in-troduzione di questa costituzione si inserisca nell’ambito della tendenza, riscontrata nel corso dei secoli IV e V d.C.,a disprezzare gli atleti e coloro che, come gli agitatores, prendevano parte ai giochi. Tale tendenza sembra potersidedurre, oltre che dalla costituzione in esame, dal tenore di CTh. 15.7.5 del 380 d.C. e dalla circostanza che le ulti-me feste olimpiche si celebrarono, probabilmente, nel 393 d.C. 41 Vd. supra, nt. 39.42 SCHELTEMA, B IV, 1289. Trad. HEIMBACH, II, 435: «Enantiophanis. In lib. 11. Codicis tit. 41. const. 4. seu libro54. tit. 37. agitatorem inhonestis personis adnumerat. Ait enim, in publicis porticibus, vel iuxta imagines Principium,vel in locis insignibus civitatis mimorum, aut agitatorum, aut saltatorum, aut aliarum personarum inhonestarumimagines collocari non oportere, sed in aditu circi, vel theatri prosceniis. Et servi aurigationem scire possunt, ut lib.19. tit. 1. dig. 7. Idemque de ceteris certaminibus». Tale traduzione risulta però riferita alla diversa ricostruzione deltesto dello scolio prospettata dagli Heimbach, che hanno ritenuto ammissibile che la prima parte del testo contenes-se, accanto a tw'/ iaæ. bib. tou' Kwd. tit. maæ. [diat. dæ], il generico riferimento ad un’altra fonte, cioè bib. ndæ. tit. lzæ.

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice242

ghi di passaggio della città, ma solamente all’ingresso dei circhi e nel proscenio dei tea-tri, dove avrebbero potuto essere affisse anche le immagini degli schiavi degli aurighi,così come di tutti coloro che partecipavano alle gare sportive.

Il chiarimento dell’Enantiofane, pertanto, sembra avvalorare l’opinione della dottri-na secondo cui Teofilo, in Paraphr. Inst. 2.18.1, nell’indicare gli hJnivocoi tra gli infami,avrebbe fatto leva su quanto stabilito da C. 11.41(40).4, probabilmente perché lamedesima disposizione era già stata inserita nel primo Codice. Questa opinione paretrovare conferma anche nella Glossa torinese alle Istituzioni, dal momento che in gl.301 ad 2.18.1 turpibus, ritenuta di mano antica, si afferma: turpes personae sunt auri-gae pantomimi et huius officii personae.43

Occorre, peraltro, ricordare che Scheltema, in base alla testimonianza di uno scolioa Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1 del Cod. Parisinus Graecus 1364, edito dal Ferrini nel1886,44 ha elaborato alcune ulteriori osservazioni in relazione al modo di ragionare diTeofilo, la cui disamina non può prescindere da una lettura preliminare della fonte(sch. ad Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1):

43 In tal senso, A. ALBERTI, La ‘Glossa Torinese’ e le altre glosse del Ms. D. III. 13 della Biblioteca Nazionale di Torino, Torino1933, 77; ID., Problemi relativi alla ‘Glossa Torinese’, Milano 1934, 56, ed anche lo stesso H.J. SCHELTEMA, Subseciva II.Die Turiner Institutionenglosse und die Quinquaginta Decisiones, in TR 30 (1962) 254 ss. (poi in Opera cit. [nt. 4], 113ss.); ID., L’enseignement cit. (nt. 4), 93 s. Al proposito, giova ricordare che probabilmente Stefano, nella prima parte dell’index relativo a D. 3.2.4, chiarendo il significato del riferimento agli altleti, aveva precisato che gli aurighi nondovevano essere annoverati fra gli infami, come si legge in sch. 1 ad Bas. 21.2.4: Ta; me;n ou\n eijrhmevna cwvran ejcev-[twsan] ejpi; tw'n a[llwn, o{soi tevcnh" e{neka paignikh'" katevrcontai eij~ skhnhvn. Tou;~ mevntoi ajqlhta;~ oujdei;~ a]n ei[poi ajtivmou"

ei\nai: birtouvti" ga;r kau'sa kai; ouj tevcnh" e{neka paignikh'~ ajgwnivzontai. Kai; aJplw'" eijpei'n pavnte" ou{tw nomivzousin, o{per

kai; lusitelev~ ejstin, o{ti ou[te oiJ qumelikoiv, toutevstin oiJ ta; ejnquvria levgonte" ejn toi'~ jOlumpivoi", ou[te oiJ xestikoiv,

toutevstin oiJ ejn xestw'/ ajgwnizovmenoi, […] [10] […]oi tuco;n kai; puvktai kai; tragw/doiv, kai; o{soi toiou'toi: ou[te oiJ hJnivocoi […](SCHELTEMA, B IV, 1288). Trad. HEIMBACH, II, 434: «Quae igitur dicta sunt, locum habeant in aliis, qui artis ludi-crae causa in scenam prodeunt. Athletas tamen nemo dixerit infames esse: virtutis enim causa, non artis ludicrae gra-tia certant. Et ut uno verbo dicam, ita omnes opinantur, quod et utile est, nec thymelicos, id est, qui enthyria dicuntin ludis Olympicis, nec xysticos, id est, in xysto certantes, puta pugiles et tragoedos, et his similes infamia notari:neque agitatores […]». Occorre segnalare che l’ultimo segmento di questa traduzione risulta riferito anche alla partedel testo non restituita da Scheltema ([…] [10] […]oi tuco;n) che appare ricostruita nell’edizione degli Heimbach inquesti termini: puvktai tuco;n […]. In ordine al problema relativo alla possibilità di includere gli aurighi fra gli infami– esclusa, peraltro, da Stefano nello scolio appena riportato – si può rammentare che l’Enantiofane, invece, si era suc-cessivamente espresso nel senso che questi dovessero essere sanzionati con la nota di infamia, in virtù della disposi-zione contenuta in C. 11.41(40).4, come emerge dal testo di sch. 2 ad Bas. 21.2.4, riportato supra, 241.44 C. FERRINI, Scolii inediti allo Pseudo-Teofilo contenuti nel manoscritto Gr. Par. 1364, in Memorie Ist. Lomb. 9 (1886)13 ss. (poi in Opere cit. [nt. 7)] I, 139 ss., spec. 188), il quale ha altresì sottolineato, alle pagine 147 ss. dello scrittocitato, ma anche in ID., La Glossa torinese delle Istituzioni e la Parafrasi dello Pseudo-Teofilo, in Rend. del Reale Ist. Lomb.17 (1884) 714 ss. (poi in Opere cit. [nt. 7] I, 41 ss.); ID., Delle origini della Parafrasi greca delle Istituzioni, in Archiviogiuridico 37 (1886) 353 ss. (poi in Opere cit. [nt. 7] I, 105 ss.), che la non perfetta corrispondenza tra le indicazioni

Alice Cherchi 243

kunhgoiv] oujk ajkribw'" oJ qeovfilo" tou;~ hJniovcou" ajtivmou" e[fh, mhvte tou' rJhtou' tw'n ijnstitouvtwne[contov" ti toiou'to, ajlla; kai; ejn tw'/ gæ bi. tw'n prwvtwn, tiv bæ. dig. dæ, to; ejnantivon ejsti;n euJrei'n,mhvte hJniovcou" mhvte ajqlh'ta" mhvte brabeuta;~ ajtivmou" o[nta". kai; aujto;" ga;r oJ qeovfilo" ejn tw'/oijkeivw/ índici tw'n prwvtwn ouj levgei tou;~ hJniovcou" aijscra; h] a[tima provswpa.

L’ignoto scoliaste, che forse frequentò il corso sul Digesto di Teofilo, riferisce chel’antecessor menzionò gli hJnivocoi tra gli infami erroneamente, visto che ciò non risul-tava dal testo latino delle Istituzioni e, anzi, dal tenore di D. 3.2.4 risultava piuttostoil contrario (to; ejnantivon), cioè che né gli aurighi né gli atleti né gli arbitri di giocoerano infami. Tale imprecisione – prosegue lo scoliaste – avrebbe poi indotto Teofilo anon citare gli aurighi tra gli infami nel suo index tw'n prwvtwn del Digesto, probabil-mente in occasione della disamina di D. 3.2.4.

Dal tenore di questo scolio anonimo, Scheltema è giunto a ritenere che Teofilo aves-se escluso gli aurighi dal novero degli infami a causa dell’entrata in vigore, nel frat-tempo, del Digesto, in cui il testo di D. 3.2.4 pr., che originariamente avrebbe avutoun contenuto conforme a C. 11.41(40).4, nel senso di includere gli aurighi tra gli infa-mi,45 sarebbe stato interpolato nel senso di escluderli.46 Ad avviso di Scheltema, dun-que, il mutato atteggiamento di Teofilo proverebbe che l’antecessor aveva ragionato nelsenso di ammettere la prevalenza della soluzione indicata nel frammento del Digestorispetto alla costituzione del Codice in base alla regola lex posterior derogat legi priori,poiché l’entrata in vigore del Digesto avrebbe comportato che le soluzioni in essoriportate dovessero prevalere rispetto alle costituzioni del Codice anteriori al dicembre

di Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1 e lo scolio ad Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1 del Parisinus Graecus 1364 e tra il con-tenuto di Theoph. Paraphr. Inst. 3.15 pr. e dell’index di Stefano a D. 12.1.9 pr., riportato in sch. 9 ad Bas. 23.1.9(SCHELTEMA, B IV, 1512), indurrebbe a dubitare che la paternità della Parafrasi possa realmente essere attribuita aTeofilo. Tale opinione non ha però trovato seguito nella dottrina successiva, a partire dalle considerazioni di ZA-CHARIÄ VON LINGENTHAL, Aus und zu den Quellen cit. (nt. 35), 257 s., riprese nell’approfondimento di G. FAL-CONE, La formazione del testo della Parafrasi di Teofilo, in TR 68 (2000) 417 ss., al quale si rinvia per la bibliogra-fia citata alla nt. 1, che hanno invece posto in rilievo che la paternità del contenuto della Parafrasi debba essere at-tribuita a Teofilo, sebbene non si possa escludere che la medesima opera potesse essere, in origine, una raccolta degliappunti presi dagli allievi durante la sue lezioni.45 SCHELTEMA, Subseciva XVI cit. (nt. 4), 347 s. ritiene interpolato l’intero inciso et generaliter... habeantur perchémal si concilierebbe con la frase successiva: infatti, a suo avviso, se Ulpiano avesse voluto semplicemente continuarel’elencazione intrapresa, non avrebbe avuto motivo di utilizzare l’avverbio avversativo autem; in tal senso si esprimeanche LOKIN, Theophilus cit. (nt. 5), 91, 94 s.46 La pretesa interpolazione di D. 3.2.4 pr., che, ad opinione di Scheltema, avrebbe originariamente presentato uncontenuto conforme a C. 11.41(40).4, è stata messa in discussione da T. WALLINGA, Interpolatiekritiek: het middelerger dan de kwaal?, in TR 55 (1987) 383 ss., il quale ha sottolineato che non si può escludere che autem fosse statoutilizzato con valore di congiunzione, dal momento che questo veniva usato di frequente quando «orationem conti-nuat et sententiam conectit», come si legge in ThLL, s.v. autem, IIIB, 1558.

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice244

del 533. La prospettiva della prevalenza del Digesto, in virtù del criterio della succes-sione delle leggi nel tempo, sarebbe stata poi adottata da Stefano, come emergerebbedall’utilizzo da parte sua della forma verbale ajnhvnektai per citare il Codice.

Al riguardo, per quanto lo scolio anonimo affermi che Teofilo nell’index tw'n prwvtwnnon annoverò gli hJnivocoi tra gli infami, come aveva erroneamente fatto nella Parafrasialle Istituzioni, si deve osservare che la mancata menzione degli hJnivocoi non apparenecessariamente collegata al proposito di accordare prevalenza alla soluzione delDigesto rispetto alla statuizione del Codice in ragione della regola lex posterior derogatlegi priori.47 Infatti, non si può escludere che Teofilo, ragionando in una prospettiva dicoordinamento delle fonti e non di successione delle leggi nel tempo, avesse ritenutoopportuno, in seguito all’entrata in vigore del Digesto, fare riferimento alla soluzionecontenuta in D. 3.2.4 pr. perché essa indicava in maniera chiara che gli aurighi dove-vano essere esclusi dal novero degli infami, a differenza di C. 11.41(40).4, che si limi-tava a presupporre il contrario, senza però affermarlo in maniera inequivocabile.

Da queste considerazioni deriva l’esigenza di focalizzare ora l’attenzione su alcunialtri scolii di Stefano, al fine di verificare se dal loro contenuto possano emergere ulte-riori elementi per capire se il nostro antecessor ragionasse nel senso di accordare preva-lenza alle soluzioni contenute nel Digesto rispetto a quelle riportate nel Codice in baseal principio della successione delle leggi nel tempo, così come ipotizzato da Scheltemao, invece, facesse leva su considerazioni di altra natura.

4. Esame di sch. 2 ad Bas. 16.1.6 e di sch. 1 ad Bas. 16.4.5Osservazioni sulla tecnica interpretativa di Stefano

Un chiarimento particolarmente significativo sul modo in cui Stefano interpretavai frammenti del Digesto in collegamento con la disciplina del Codice si trova, a mioavviso, nello scolio 2 ad Bas. 16.1.6 (= D. 7.1.6).48

jIouliano;~ hjrwvthsen: a\ra de; oJ dia; tou' oijkevtou h] uJpexousivou prosporisqei;~ oujsouvfroukto"th'/ teleuth'/ tou' prosporivsanto" oijkevtou h] uJpexousivou fqeivretai h] mevnei kai; ou{tw swzovmeno"

47 In tal senso WALLINGA, Interpolatiekritiek cit. (nt. 46), 385; FALCONE, Premessa cit. (nt. 5), 155 nt. 29.48 Bas. 16.1.6: Lhgateuvetai crh'si" karpw'n, kai; yilh; despoteiva, kai; mevnei para; tw'/ klhronovmw/ hJ crh'si" tw'n karpw'n. Kai; ejn tw'/

diairetikw'/ tw'n th'" familiva" klhronomiaivwn kai; tw'n ejpikoivnwn pragmavtwn dikasthrivw/ sunivstatai tou' dikastou' proskurou'nto"

tw'/ eJni; th;n despoteivan kai; tw'/ a[llw/ th;n crh'sin tw'n karpw'n. Kai; di j hJmw'n aujtw'n kai; dia; tw'n uJpexousivwn hJmw'n ktwvmeqa crh'sin

karpw'n. Dunato;n douvlou grafomevnou klhronovmou yilh;n lhgateuvesqai th;n despoteivan (SCHELTEMA, A II, 800). Trad.HEIMBACH, II, 180: «Legatur usufructus, et nuda proprietas, et manet apud heredem ususfructus. Etiam in iudicio familiaeerciscundae et communi dividundo constituitur, si iudex alteri proprietatem, alteri usumfructum adiudicet. Et per nosmetipsos, et per eos, qui iuri nostro subiecti sunt, acquirimus usumfructum. Servo herede instituto, nuda proprietas legari potest».

Alice Cherchi 245

para; tw'/ despovth/ h] tw'/ patriv; Stefanov~. JO dia; tou' oijkevtou h] tou' uJpexousivou mou prosporisqei;~oujsouvfroukto" ou[te th'/ teleuth'/ aujtou' ou[te th'/ kavpiti" deminoustzivoni tou' uJpexousivoufqeivretai: ajll j ou[te th'/ teleuth'/ h] th'/ kavpiti" deminoustzivoni tou' patro;" fqeivretai oJ dia; tou'uJpexousivou prosporisqei;~ oujsouvfroukto", ajlla; metabaivnei ejp jaujto;n to;n uJpexouvsion, eijkai; mh; klhronomhvsh/ tw'n dikaivwn tou' oijkeivou patro;" oJ to;n oujsouvfroukton aujtw'/ prosporiv-sa" ujpexouvsio". Ou{tw" ajnhvnektai bib. gæ. tou' Kwd. tit. lgæ. diatavxei teleutaiva/, h}n kai; ajnav-gnwqi pavntw" e[cousan ejntelw'~ th;n peri; touvtwn shmeivwsin dia; th;n ejgeiromevnhn ajntidiastolh;nejn tw'/ parovnti bib. tit. dæ. Kai; ajnavgnwqi kai; to; zæ. (?) kai; dæ. (?) dig. tou' parovnto" tit.49

Nello scolio viene riportata un’ ejrwtapovkrisi", una domanda posta a Stefano dal-l’allievo Giuliano, a cui segue la risposta del maestro, che si inserisce nell’ambito del-l’esplicazione di Gai. 7 ad ed. prov. D. 7.1.6 e si collega al § 2 di tale frammento,50 incui si illustra la possibilità per l’avente potestà di acquistare l’usufrutto per mezzo diuno schiavo o un filius familias che lo aveva ricevuto per legato.51 Giuliano doman-da se l’usufrutto acquistato attraverso lo schiavo o il filius (oJ dia; tou' oijkevtou h] uJp-exousivou prosporisqei;~ ouJsouvfroukto") si estinguesse alla morte di questi o conti-nuasse a sussistere in capo al dominus o al pater, e Stefano, presumibilmente al fine difugare ogni dubbio in relazione al quesito prospettato, fornisce una risposta articolata.L’antecessor, infatti, dapprima asserisce che l’usufrutto acquisito attraverso uno schiavoo un filius non si sarebbe estinto per morte di questi, né per capitis deminutio del filius,e specifica, poi, che l’usufrutto così ottenuto non si sarebbe estinto neanche in segui-to alla morte o alla capitis deminutio del pater, ma avrebbe continuato a sussistere incapo al filius attraverso il quale era stato acquisito, anche qualora costui non fosse risul-

49 SCHELTEMA, B III, 960. Trad. HEIMBACH, II, 180 s.: «Iulianus quaesivit. Numquid ergo usufructus per servum autfiliumfamilias quaesitus morte eius, qui quaesivit, extinguitur, an vero etiam ita integer manet apud dominum patrem-ve? Stephanus. Ususfructus per servum aut filiumfamilias meum quaesitus, neque morte eius, neque capitis deminu-tione filiifamilias perimitur: sed neque morte aut capitis deminutione patris usufructus per filiumfamilias acquisitusextinguitur, sed ad ipsum filiumfamilias redit, etiamsi in iura patris non successerit filiusfamilias, qui ei ususfructumquaesivit. Sic refertur lib. 3. Codicis. tit. 33. constitutione ultima, quam et omnino lege, ut quae perfecte contineat,quid in his observandum sit, idque propter contraria, quae emergunt ex tit. 4 huius libri. Lege et dig. 6. 7. huius titu-li». L’ultima frase di questa traduzione risulta riferita alla diversa ricostruzione del testo accettata dagli Heimbach: kai;

ajnavgnwqi kai; to; "æ. kai; zæ. dig. tou' parovnto" tit. 50 Gai. 7 ad ed. prov. D. 7.1.6.2: Adquiritur autem nobis usus fructus non solum per nosmet ipsos, sed etiam per eas quo-que personas, quas iuri nostro subiectas habemus […]. 51 Sul punto, cfr. F. MESSINA VITRANO, Il legato d’usufrutto nel diritto romano, Palermo 1912, 50 e nt. 3; inoltre, peruna trattazione più specifica sulla rilevanza delle vicende giuridiche soggettive del filius e del servus sul diritto di usu-frutto acquisito per suo tramite dal pater o dal dominus, P. DE FRANCISCI, Nuovi studi intorno alla legislazione giusti-nianea durante la Compilazione delle Pandette (Continuazione), in BIDR 27 (1914) 23 ss.; G. GROSSO, Usufrutto efigure affini nel diritto romano, Torino 19582, 324 ss.; K.-H. SCHINDLER, Justinians Haltung zur Klassik. Versuch einerDarstellung an Hand seiner Kontroversen entscheidenden Konstitutionen, Köln-Graz 1966, 249 ss.

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice246

tato erede del padre. Stefano continua con una precisazione fondamentale ai nostri fini(ou{tw"… ejn tw'/ parovnti bib. tit. dæ), in quanto afferma che la soluzione al quesito diGiuliano da lui appena esposta era riportata (ajnhvnektai) nell’ultima costituzione deltrentatreesimo titolo del terzo libro del Codice ed esorta l’allievo a leggerne integral-mente il testo, poiché riferiva in modo esatto la disciplina da applicare e da preferirerispetto alla soluzione desumibile a contrario (th;n ejgeiromevnhn ajntidiastolhvn) nel-l’ambito del titolo quarto del settimo libro del Digesto, dedicato ai modi di estinzio-ne dell’usufrutto.

Occorre, a questo punto, ripercorrere gli snodi fondamentali del ragionamento diStefano, analizzando l’intero disposto di C. 3.33.17 allo scopo di collegarlo al tenoredel frammento contenuto nel titolo D. 7.4, la cui interpretazione avrebbe condotto allasoluzione dichiarata inaccettabile dall’antecessor (C. 3.33.17 pr.-2. Iust. A. Iohanni pp.):

Ex libris Sabinianis quaestio nobis relata est, per quam dubitabatur, si usus fructus per servumadquisitus vel per filium familias capitis deminutione filii magna vel media vel morte velemancipatione vel servi quacumque alienatione vel morte vel manumissione potest adhuc remanere.[1] Et ideo sancimus in huiusmodi casibus neque, si servus vel filius familias in praefatos casusinciderit, interrumpi patri vel domino usum fructum qui per eos adquisitus est, sed manereintactum, neque, si pater capitis deminutionem magnam vel mediam passus fuerit vel morte abhac luce fuerit exemptus, usum fructum perire, sed apud filium remanere, etiamsi heres a patre nonrelinquatur. [2] Usum fructum enim per eum adquisitum apud eum remanere et post patriscalamitatem oportet, cum plerumque verisimile est testatorem contemplatione filii quam patrisusum fructum ei reliquisse. D. XV k. Nov. Constantinopoli post consulatum Lampadii etOrestae vv.cc. (a. 531).

Si tratta di una costituzione del 531 d.C. in cui la cancelleria giustinianea prende lemosse da un’incertezza, riscontrata nei libri di Sabino, sulla persistenza in capo al patero al dominus del diritto di usufrutto acquisito per servum vel per filium familias anchedopo la morte, l’emancipazione o la capitis deminutio massima o media del figlio ovve-ro dopo la morte, l’alienazione o la manumissione del servo.52 Il dubbio viene risoltoin senso positivo, ammettendo non solo la prosecuzione dell’usufrutto in capo al patero al dominus, laddove il filius o il servus non fosse più risultato sottoposto alla potestas,ma anche la possibilità che l’usufrutto continuasse in capo al filius, nel caso di morteo capitis deminutio del pater, sebbene il filius non fosse risultato suo erede, dal momen-

52 DE FRANCISCI, Nuovi studi cit. (nt. 51), 23 s.; GROSSO, Usufrutto cit. (nt. 51), 326; SCHINDLER, Justinians Haltungcit. (nt. 51), 249 s.; sul punto, inoltre, G.L. FALCHI, Studi sulle relazioni tra la legislazione di Giustiniano (528-534)e la codificazione di leges e iura, in SDHI 59 (1993) 67 s. e, di recente, S. DI MARIA, La cancelleria imperiale e i giuri-sti classici: ‘reverentia antiquitatis’ e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, Bologna 2010, 139 s.

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to che tale soluzione sarebbe stata più attenta alla volontà del testatore, che aveva ori-ginariamente lasciato il legato di usufrutto al figlio e non al padre.53

La lettura della disposizione riportata in C. 3.33.17 se, da un lato, consente di rite-nere che Stefano, nel dare risposta al quesito di Giuliano, si sia rifatto in toto alle indi-cazioni fornite dalla cancelleria giustinianea nel 531 d.C. ed abbia escluso l’applicabi-lità della ejgeiromevnh ajntidiastolhv desumibile nell’ambito del titolo D. 7.4, dall’altrolato, sembrerebbe provare che il ragionamento dell’antecessor prescindesse dal princi-pio della successione delle leggi nel tempo.

53 Il tenore di queste disposizioni induce a formulare qualche ulteriore osservazione. Infatti, si può evidenziare, anzi-tutto, come la prima parte di C. 3.33.17 risulti in armonia con il dettato di un altro provvedimento degli stessi anni,riportato in C. 3.33.15, volto a favorire la prosecuzione dell’usufrutto in capo al dominus anche nel caso in cui lo schia-vo tramite il quale era stato acquisito fosse stato acquistato pro parte da altri. Si tratta, in particolare, di Iust. A. Iulianopp. C. 3.33.15 pr.-2: Inter antiquam prudentiam dissensio incidit, si per servum usus fructus domino fuerit adquisitus etex quibusdam casibus (multi enim rebus incidunt mortalibus) pars huiusmodi servi in alium pervenerit, utrum omnis ususfructus, qui antea per servum ad aliquem pervenerit, apud eum remaneat an totus tollatur vel ex parte deminuatur, ex parteautem apud eum resideat? [1] Et super huiusmodi dubitatione tres sententiae vertebantur, una, quae dicebat ex particularialienatione servi totum usum fructum deminui, alia in tantum usum fructum deminui, in quantum et servus alienatur, ter-tia, quae definiebat partem quidem servi posse alienari, usum fructum autem totum apud eum remanere, qui ante servumin solidum habebat. et in novissimam sententiam et summum auctorem iuris scientiae Salvium Iulianum esse invenimus.[2] Nobis autem haec decidentibus placuit Salvii Iuliani admitti sententiam et aliorum qui in eadem fuerunt opinione, qui-bus humanius visum est non interemptionem usus fructus studiosam esse, sed magis retentionem, quatenus, etsi pars servi alie-netur, tamen nec pars usus fructus depereat, sed maneat secundum suam naturam integer atque incorruptus et, quemadmo-dum et ab initio fixus est, ita conservetur ex huiusmodi casu nullo deterioratus modo. D. X k. Oct. Lampadio et Oreste vv.cc. conss. [a. 530]. Su quest’ultima disposizione la dottrina si è soffermata in varie occasioni e sotto diversi profili: dap-prima, F.B.J. WUBBE, L’humanitas de Justinien, in TR 58 (1990) 252, ha evidenziato che l’aggettivo humanius sarebbestato utilizzato nel senso di «più giusto, più corretto, più conforme alla natura dell’usufrutto», poi G.L. FALCHI, Studicit. (nt. 52), 46 e 67, ha sottolineato che la ratio della decisione sarebbe la medesima della soluzione riportata in C.3.33.17, mentre D. MANTOVANI, Sulle consolidazioni giuridiche tardo antiche, in Labeo 41 (1995) 259, ha posto l’ac-cento sull’importanza della citazione nominale di Salvio Giuliano. I contributi della dottrina più recente mostrano difocalizzare l’attenzione sui problemi di datazione relativi a questo provvedimento, senza però perdere di vista l’influenzache esso ebbe sul tenore di C. 3.33.17; in questo senso cfr. C. RUSSO RUGGERI, Studi sulle Quinquaginta Decisiones,Milano 1999, 66 ss.; J. PARICIO, Sulle ‘Quinquaginta Decisiones’, in Labeo 46 (2000) 505; M. VARVARO, Contributo allostudio delle Quinquaginta Decisiones, in AUPA 46 (2000) 468 ss. e bibliografia ivi citata. Inoltre, con riguardo alla sta-tuizione riportata nella parte finale di C. 3.33.17, ossia al § 2, relativa alla persistenza del diritto di usufrutto in capoal filius in caso di morte o capitis deminutio del pater, si potrebbe pensare, almeno in prima battuta, che questa non siaperfettamente coordinata con la regola espressa nella disposizione precedente nel senso di ammettere la persistenza deldiritto di usufrutto in capo al pater nel caso di morte, emancipazione o capitis deminutio del filius. Al riguardo, però,giova tenere conto di quanto osservato dal GROSSO, Usufrutto cit. (nt. 51), 326, che ha posto in evidenza che tale con-trasto sarebbe più apparente che reale, dal momento che anche l’ultima disposizione della nostra costituzione risultacomunque finalizzata a favorire la continuazione dell’usufrutto nel rispetto della volontà del testatore, in origine voltaad avvantaggiare il filius tramite il legato di usufrutto.

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice248

Appare opportuno, allora, esaminare il contenuto del frammento la cui ejgeiromevnhajntidiastolhv viene confutata da Stefano nello scolio 2 ad Bas. 16.1.6, in collegamen-to con l’interpretazione da lui stesso offerta nello scolio 1 ad Bas. 16.4.5.54

Si tratta di Ulp. 17 ad Sab. D. 7.4.5.1:55

Si quis usum fructum solum servi alienaverit, per quem usus fructus ei adquisitus est, dubium nonest, quin usus fructus per eum adquisitus retineatur.

Nel breve testo tratto dall’ad Sabinum di Ulpiano, presumibilmente inserito nel-l’ambito di una trattazione di più ampio respiro che aveva già preso in considerazioneil caso della vendita dello schiavo attraverso cui era stato ottenuto l’usufrutto, il giure-consulto afferma che, nel caso di alienazione del solo usufrutto di tale schiavo, il domi-nus avrebbe comunque conservato il diritto di usufrutto acquisito per suo tramite.56

In effetti, dalla formulazione del testo ulpianeo e, specialmente, dall’utilizzo del ter-mine solum, forse sfuggito ai compilatori, si potrebbe dedurre, ragionando a contrario,che, qualora il dominus non avesse alienato solamente l’usufrutto dello schiavo, ma neavesse ceduto l’integrale proprietà, avrebbe perduto l’usufrutto ottenuto tramite lui.Infatti, sembrano muovere da tale premessa le riflessioni avanzate da Stefano in occasio-ne dell’approfondimento dedicato a D. 7.4.5.1, riportato nello scolio 1 ad Bas. 16.4.5.

54 = sch. 14 [Steph. Index l. 5 § 1] HEIMBACH, II Suppl. [Zach.], 102.55 L’interpretazione in base alla quale la cessione della proprietà dello schiavo avrebbe comportato l’estinzione del-l’usufrutto acquisito per suo tramite sembra presupposta in un altro frammento del titolo D. 7.4, tratto dai libri adSabinum di Pomponio, precisamente Pompon. 3 ad Sab. D. 7.4.18: Si servo hereditario ante aditam hereditatem lega-tus usus fructus fuisset, magis placet adita hereditate eum usum fructum ad te transire nec interire quasi mutato dominio,quia nec dies ante cesserit, quam tu heres extiteris. Anche se riguardo a questa fonte non vi sono scolii di Stefano chepossano confermare che egli intendesse farvi riferimento, la soluzione in esso prospettata appare fondata sulla mede-sima ratio rifiutata dall’antecessor, visto che il giurista, affermando che il legato di usufrutto a favore dello schiavosarebbe stato acquistato dal dominus al momento dell’aditio hereditatis, sembrerebbe presupporre che l’eventuale ces-sione dello schiavo prima dell’aditio avrebbe comportato per il dominus la perdita della possibilità di acquistare l’usu-frutto, così come sottolineato da DE FRANCISCI, Nuovi studi cit. (nt. 51), 24, che pare ammettere la sostanziale genui-nità del testo. Prima di lui, invece, MESSINA VITRANO, Il legato cit. (nt. 51), 55 s., aveva ritenuto il frammento ampia-mente interpolato, ma i sospetti di interpolazione non sono stati accolti successivamente neanche da GROSSO,Usufrutto cit. (nt. 51), 325 e SCHINDLER, Justinians Haltung cit. (nt. 51), 250.56 L’applicazione classica dell’interpretazione a contrario rifiutata da Stefano sembra inoltre testimoniata, come sottolinea-to da GROSSO, Usufrutto cit. (nt. 51), 325 e SCHINDLER, Justinians Haltung cit. (nt. 51), 250 s., dal tenore di Iulian. 35dig. D. 36.2.16.1 (Cum servo legato, antequam hereditas eius qui legaverat adiretur, usus fructus ab alio legatus fuerit et priorhereditas eius, qui usum fructum legaverit, adita fuerit: nulla ratio est, cur diem legati cedere existimemus, antequam ea quoquehereditas, ex qua servus legatus erat, adeatur, cum neque in praesentia ullum emolumentum hereditati adquiratur et, si interimservus mortuus fuerit, legatum extinguatur. quare adita hereditate existimandum est usum fructum ad eum, cuius servus legatusesset, pertinere) e di Paul. 1 manual. Fragm. Vat. 57 (Usus fructus do lego servus legatus morte et alienatione servi perit, si sti-puletur, non perit; igitur et post mortem suam sicut cetera usum fructum servus stipulari potest; quod aliter est in legatis).

Alice Cherchi 249

jEavn ti" movnon to;n oujsouvfroukton ejkpoihvsh/ tou' oijkevtou tou' prosporivsanto" aujtw'/ pravgmato"oujsouvfroukton, ouj sbevnnutai aujtw'/ oJ dia; tou' oijkevtou prosporisqei;~ oujsouvfroukto". Tou'tode; mh; devxh/ kata; ajntidiastolhvn: shvmeron ga;r ajpo; neara'" tou' despovtou diatavxew", h{ti"ajnhvnektai bib. gæ. tou' Kwd. tit. lgæ. teleutaiva tou' tit. tugcavnousa, oJ dia; uJpexousivou h] oijkevtouprosporisqei;~ oujsouvfroukto" ouj sbevnnutai tou' [uJpexousivou] h] tou' oijkevtou kaq joiJondhvpotetrovpon ejxelqovnto" th'~ tou' patro;~ h] tou' despovtou uJpexousiovthto", ajll joujde; eij oJ path;r th;nmegavlhn h] mevshn uJposth'/ kapivti" deminoutivona, sbevnnutai oJ dia; tou' paido;~ prosporisqei;~aujtw'/ oujsouvfroukto", ajlla; mevnei para; tw'/ paidiv, ka]n klhronovmo" oujk ejgevneto tou' patrov~, wJ~kai; tou'tov fhsin hJ aujth; diavtaxi".57

Dopo la traduzione in greco del frammento (ejavn…oujsouvfroukto"), Stefano dichia-ra inaccettabile l’interpretazione a contrario sviluppatasi in relazione alla regola ripor-tata da Ulpiano (tou'to de; mh; devxh/ kata; ajntidiastolhvn), poiché in quel tempo – oggi(shvmeron) dal punto di vista del nostro antecessor –, in virtù della nuova disposizio-ne imperiale contenuta in C. 3.33.17, l’usufrutto non si sarebbe estinto se fosse ve-nuta meno, per qualsiasi motivo, la potestà del pater o del dominus sul filius o lo schia-vo per mezzo del quale era stato acquisito, così come non sarebbe cessato l’usufrut-to ottenuto dal pater per mezzo del filius, nel caso in cui il pater avesse subito unacapitis deminutio massima o media, ma sarebbe continuato in capo al filius, anche sequesti non fosse risultato erede del padre, secondo quanto ulteriormente dispostodalla medesima statuizione.

Mediante quest’ultimo chiarimento, Stefano esplicita tutti i passaggi dell’iter logicoseguito nell’ ejrwtapovkrisi" riportata nello scolio 2 ad Bas. 16.1.6, in quanto affermala prevalenza delle disposizioni contenute in C. 3.33.17 rispetto alla soluzione desu-mibile da D. 7.4.5.1. Che l’antecessor avesse considerato applicabile la costituizionegiustinianea del 531 d.C. pare emergere, in particolare, dall’affermazione shvmeron ga;rajpo; neara'~ tou' despovtou diatavxew", h{ti" ajnhvnektai bib. gæ. tou' Kwd. tit. lgæ. …, chenon lascia adito alla possibilità che la regola fondata sull’interpretazione a contrario delframmento ulpianeo del Digesto prevalesse rispetto alla nuova statuizione giustinianeariportata nel Codice, come implicherebbe invece l’ipotesi prospettata da Scheltema.

La lettura di questo scolio sembrerebbe testimoniare, quindi, che Stefano non aves-se ragionato in un’ottica di prevalenza del Codice sul Digesto in termini di successio-

57 SCHELTEMA, B III, 979. Trad. HEIMBACH, II Suppl. [Zach.], 102: «Si quis usumfructum solum alienaverit servi, quiei rei alicuius usumfructum acquisivit, ususfructus per servum ei acquisitus non extinguitur. Hoc autem ne accipiaskata; ajntidiastolhvn. Hodie enim ex novella constitutione imperatoris, quae relata est lib. III Cod. 33 et ultima in hoctit. est, ususfructus per filium vel servum acquisitus non extinguitur, si filius vel servus aliquo modo e patris vel dominipotestate exierit, sed nec si pater magnam vel mediam capitis deminutionem passus sit, ususfructus per filium ei acqui-situs extinguitur, sed penes filium manet, licet heres patris non extiterit, quod et ipsum dicit laudata constitutio».

Sull’applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo tra Digesto e Codice250

ne delle leggi nel tempo, ma, come giustamente sottolineato da Goria,58 in una pro-spettiva ‘armonizzante’, di vicendevole integrazione del contenuto delle due parti dellaCompilazione, che faceva leva, se possibile, su una soluzione certa ed esplicita, piutto-sto che su una deduzione a contrario.59

5. Osservazioni conclusiveIn conclusione, dall’analisi degli scolii di Stefano fin qui svolta, sembra si possa ten-

denzialmente escludere che dietro l’utilizzo della forma verbale ajnhvnektai per citare lecostituzioni del Codice si celasse la convinzione che queste, essendo in vigore dalmomento in cui furono emanate dai singoli imperatori, potessero essere abrogate dallesoluzioni dei giuristi classici riportate nel Digesto che, in quanto in vigore come unicacostituzione dal dicembre del 533, avrebbero prevalso in base alla regola lex posteriorderogat legi priori. Infatti, il tenore di sch. 2 ad Bas. 16.1.6 e sch. 1 ad Bas. 16.4.5, seletto in collegamento con la disposizione contenuta in C. 3.33.17, induce a ritenerepiù plausibile che Stefano volesse fornire agli allievi gli strumenti ermeneutici indi-spensabili per dare alle soluzioni riportate nei frammenti del Digesto un’interpretazio-ne ‘sistematica’, in grado di integrare il regime degli istituti che si delineava nelle solu-

58 F. GORIA, Il giurista nell’impero romano d’Oriente (da Giustiniano agli inizi del secolo XI), in L. BURGMANN (hsgb.von), Fontes Minores XI, Frankfurt am Main 2005, 147 ss., spec. 162, il quale, a proposito del contributo ‘scientifi-co’ dei professori del VI secolo all’interpretazione del diritto giustinianeo, sottolinea l’importanza dell’«opera di armo-nizzazione, diretta a risolvere le reali o apparenti contraddizioni fra i diversi passi contenuti nella Compilazione, con-dotta, peraltro, più con lo strumento dell’esegesi che con quello dell’analisi del caso». Al riguardo, l’Autore cita, allant. 42, come esempio del fenomeno descritto, la tecnica interpretativa di Stefano, facendo riferimento, in particola-re, al tenore di sch. 2 ad Bas. 2.1.42: jEnantivon ei\nai tou'to tw'/ tevlei tou' prolabovnto" kefalaivou mh; novmize. jEkei'no me;n

ga;r peri; ajsunhqeiva" levgon fhsivn, o{ti duvnatai au{th novmon ajnelei'n. jEntau'qa de; peri; sunhqeiva" levgei kaiv fhsin, o{ti

kaino;n oujk eijsavgei novmon hJ sunhvqeia, eij diabavlletai novmo". Dunato;n me;n ga;r ejk th'" ajsunhqeiva" mh; kecrh'sqai nomivmw/,

ouj mh;n ejnantivw" kecrh'sqai. Shmeivwsai ou\n aujto; wJrai'on o]n kai; sucnavzon (SCHELTEMA, B I, 7). Infatti, ad avviso diGoria, il contenuto di tale scolio testimonierebbe lo sforzo di Stefano di conciliare il contenuto dei frammenti cheattribuivano efficacia abrogativa al non uso, come Iulian. 84 dig. D. 1.3.32.1, con quelli che subordinavano il valo-re normativo della consuetudine alla circostanza che il tenore della stessa non risultasse in contrasto con fonti scrit-te, come Ulp. 1 de off. proc. D. 1.3.33; Iulian. 84 dig. D. 1.3.32 pr. e Const. C. 8.52.2, alla luce di quanto osserva-to altresì da D. SIMON, Balsamon zum Gewohnheitsrecht, in W.J. AERTS - J.H.A. LOKIN - S.L. RADT - N. VAN DER

WAL (edd.), Scovlia. Studia ad criticam interpretationemque textuum graecorum et ad historiam iuris graeco-romani per-tinentia viro doctissimo D. Holwerda oblata, Groningen 1985, 119 ss. e dallo stesso F. GORIA, La teoria della consue-tudine nell’Ecloga Basilicorum (sec. XII), in Nozione cit. (nt. 10) III, 182 ss.59 Che fosse anzitutto la volontà imperiale a concepire i tria volumina della Compilazione in chiave unitaria, inun’ottica che teneva in considerazione anche il profilo della certezza delle soluzioni normative, è stato sottolineato,infatti, già da G.G. ARCHI, Le codificazioni cit. (nt. 3), 163 ss.; ID., La certezza cit. (nt. 3), 65 ss., spec. 75 ss., segui-to altresì da M. CAMPOLUNGHI, Il passato cit. (nt. 3), 697 ss.

Alice Cherchi 251

zioni della raccolta di iura con le eventuali modifiche apportate dalle statuizioni ripor-tate nel Codice, considerando in termini unitari queste diverse parti della Compi-lazione, anziché in termini di prevalenza dell’una sull’altra dal punto di vista della suc-cessione delle leggi nel tempo.

L’approccio interpretativo di Stefano emerso sinora non appare necessariamente incontrasto con la testimonianza offerta dallo scolio ad Theoph. Paraphr. Inst. 2.18.1, inparticolare se si legge anch’essa in una prospettiva attenta all’armonizzazione delle solu-zioni normative. Dal momento che tale scolio si limita a riferire che Teofilo, dopo avereerroneamente menzionato gli aurighi tra gli infami nell’ambito della Parafrasi alleIstituzioni, non aveva annoverato questi ultimi nella categoria degli infami nell’index alDigesto, non pare inverosimile che anche questo antecessor avesse ritenuto opportunofare leva sulla soluzione certa riportata in D. 3.2.4 pr., che aveva sopito eventuali incer-tezze sulla possibilità di includere gli aurighi tra gli infami, presumibilmente risolte,fino a quel momento, in base ad una deduzione fondata sul dettato di C. 11.41(40).4.

A ben riflettere, dunque, appare plausibile che entrambi gli antecessores tendessero adare ai frammenti del Digesto un’interpretazione sistematica, volta il più possibile adarmonizzarne le soluzioni proposte con le disposizioni contenute nel Codice e, allostesso tempo, a trasmettere agli allievi un metodo che tenesse conto di esplicite dispo-sizioni normative, piuttosto che di deduzioni interpretative, già rifiutate dalla volontàimperiale. Si tratterebbe, in ultima analisi, di un’interpretazione volta a coordinare leindicazioni del Digesto con quelle del Codice, che faceva leva, preferibilmente, sullesoluzioni adottate expressis verbis dal legislatore, anziché sul principio della successionedelle leggi nel tempo.