Regrooving Stravinskij nella mente di Akram Khan [su iTmoi di Akram Khan], Fondazione I Teatri di...

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Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2013Area comunicazione

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Teatro AriostoMartedì 8 ottobre 2013 ore 20.30

Akram Khan Company

iTMOi (in the mind of igor)prima nazionale

Akram KhanNitin Sawhney, Jocelyn Pook e Ben Frost

Farooq Chaudhry

Kristina Alleyne, Sadé Alleyne, Ching-Ying Chien, Denis ‘Kooné’ Kuhnert, Hannes Langolf, Yen-Ching Lin, TJ Lowe, Christine Joy Ritter, Catherine Schaub Abkarian e Nicola Monaco

Kimie Nakano Fabiana Piccioli Matt Deely

a Ruth Little Joel Jenkins

Andrej Petrovic e Jose Agudo Mavin Khoo

Sander Loonen e Nicolas Faure

Bia Oliveira

Céline Gaubert

Richard Fagan Peter Swikker

Anne-Marie Bigby

Marek Pomocki

di MC2: Grenoble e Sadler’s Wells, London per una speciale coproduzione internazionale

COLAS

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dal Sadler’s Wells London, MC2: Grenoble, HELLERAU

– European Center for the Arts Dresden, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg

MC2: Grenoble

Arts Council England Akram Khan Company ringrazia il Centre Dramatique National des Alpes per la creazione dei costumi.

a Alistair Spalding, Michel Orier, Jean-Paul Angot, Hervé Le Bouc, Sylvaine Van den Esch, Géraldine Garin, Sophie Sadeler, Béatrice Abeille-Robin, Mr. & Mrs. Khan, Yuko Khan, Élodie Morard, Sung Hoon Kim, Téo Fdida, Thomas Greenfield, Gillian Tan, Jean-Claude Gallotta, Hélène Azzaro, Pierre Escande, Karthika Naïr, PolarBear, Gretchen Schiller, Marie Jacomino, Olivia Ledoux e Louise Yribarren.

contiene 30 secondi della di Igor Stravinskij, ripetuta tre volte e usata su concessione di Boosey & Hawkes in collaborazione con ATER Associazione Teatrale Emilia Romagna. NOTA: contiene scene di nudo, fumo e musica ad alto volume.

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Regrooving Stravinskijnella mente di Akram Khan

di Stefano Tomassini

Il di Igor Stravinskij è come il destino, ognuno ha il suo. Tutti, prima o poi, subiscono il fascino della sua funzio-ne, che sia azione meccanica o determinante, accettazione e vo-lizione della necessità, e «storicità autentica». La ricor-renza del centenario dalla tumultuosa prima parigina del 1913, ha rilanciato con forza l’interesse per una partitura che già Maurice Béjart considerava essere «una delle porte di accesso al XX° seco-lo». Ma oggi quel secolo è già alle nostre spalle, e forse allora per Stravinskij possiamo dire, come per Bach diceva Morton Feldman, in del 1967: «Vogliamo Bach, ma Bach, lui, non è tra gli invitati. Che ce ne facciamo di Bach, abbiamo le sue !». Il destino delle idee, in effetti, pone altre questioni, che in-vestono le costanti temporali, le modificazioni della trasmissione e, più di tutto, la questione della ricezione culturale. Il problema non è più quello della ripetizione di uno schema, ma semmai quello della ricerca di possibili connessioni esistenti tra dominî culturali diversi. Il danzatore e coreografo inglese, di origine bengalese, Akram Khan, è oggi uno dei più prolifici e celebrati autori di quella che la studiosa americana Susan Leigh Foster definisce postglo-bal dance. Lo stile di movimento e l’approccio alla danza di Khan è il risultato di una proliferazione di gesti coreografici che incor-porano la vitalità di una miriade di tradizioni di danza, tra cui il kathak classico, il giapponese, la rotazione dei dervishi, il flamenco spagnolo, il tai chi, oltreché i più svariati di dan-za contemporanea. Tutte queste tecniche fanno ormai parte di un unico palcoscenico globale, ognuna con le proprie tattiche di richiamo regionale, etnico, culturale o sociale. L’adattamento di tante tradizioni alla vitalità del mercato globale per il danzatore implica, però, un corpo spettacolare (regrooving body) informato di più stili e capace di una offerta immediata di movimento senza ambiguità né spazî per il problematico. Spetta semmai al singolo coreografo la capacità di costruirsi una rete di relazioni con altri artisti, per costruire, se e quando possibile, una pur contingente comunità, capace di resistenza e di critica nei confronti dei com-

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promessi dell’esistente. Questa potrebbe essere un po’ anche la storia professionale di Akram Khan, e delle sue collaborazioni con artisti molto diversi fra loro, come Jonathan Burrows e Sidi Larbi Cherkaoui, Sylvie Guillem, Juliette Binoche e lo scenografo Anish Kapoor, fra altri. iTMOi (in the mind of igor) è un lavoro ispirato al capola-voro di Stravinskij, sullo scadere del centenario del

e commissionato a Khan dal Sadler’s Wells di Londra. Non nei termini di una ennesima riedizione, o di una nuova versione. Ma proprio nelle forme di una spettacolare mappatura della mente del compositore, dei motivi che hanno attraversato i suoi pensieri, del-le ossessioni che hanno abitato le sue creazioni musicali. L’acroni-mo del titolo nasconde questa idea: la violenza del sacrificio nella rappresentazione ciclica del tempo è la struttura che, nella mente di Stravinskij, si oppone all’idea della morte. La struttura della partitura resta in filigrana: «il ciclo della vita e della morte, l’amore e la violenza rituale», secondo le parole del programma, è scandito a partire da una generale inquietudine di voci ingolate, tocchi funebri di campana e musica da thriller. In un’atmosfera da satanismo, tra possedute e invasate dai corpi con-vulsivi e ipercinetici, forse alludendo alla profonda e inquieta reli-giosità di Stravinskij, e non senza aperture liriche ai compiacimenti della liturgia e della preghiera, Akram Khan fonde e connette piani culturali tra loro anche lontani. I dieci danzatori si inseguono, e si perseguitano. Mettono alla prova la loro resistenza alla violenza, rituale dunque necessaria, secondo una precisa colonna sonora che non sembra replicare mai alcuna opera di Stravinskij, se non un tema del per soli trenta secondi finali. Qui, invece, gra-zie ai compositori Nitin Sawhney, Jocelyn Pook e Ben Frost, il suono domina in modo perfettamente funzionale alla produzione dell’azione. La sottomissione del movimento all’effetto della

musicale, che è un composto di glamour e post-rock, tra ethno beat, chillout, e holy-lounge, con tanto di un liturgico

cantato in francese perfettamente in stile , è sempre funzionale a una comprensione della platea senza media-zioni né attese. Così come in una potente scena di ispirazione prometeica, teatralmente assai disorientante grazie anche all’accurato disegno delle luci di Fabiana Piccioli, una figura al centro è tenuta legata, incatenta e soggiogata dalla brutalità collettiva e da cui emerge forte il richiamo di una difficile emancipazione, in cui la violenza della tortura e le luci dello spettacolo coincidono perfettamente.

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Nel finale, due figure bianche a proscenio, entrambe ta-gliate da una bianca luce, si incontrano fra mille campanelli come in un’ultima sfida: solo ora si sentono in lontananza le note del

stravinskijano, a compimento di un rito del ciclo della vita e della morte che il movimento a pendolo della sfera centrale, so-pra due agitati corpi seminudi, ricorda si compirà ancóra, di nuovo, sempre ancóra di nuovo.

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