Poteri di fondo

49
Francesco Capriglione POTERI DI FONDO

Transcript of Poteri di fondo

Francesco Capriglione

POTERI DI FONDO

W IL RE!

C’era una volta, più di cento secoli fa, una miriade di strane persone, che abitavano la vasta valle dell’Indo, le grandi distese mediorientali e nordafricane e il molto variegato continente europeo.

Poche cose le terrorizzavano quanto le tenebre notturne: la loro angosciante insicurezza cresceva ogni volta che il sole scompariva. Temevano di non rivederlo più. Ogni giorno lo invocavano, perché risorgesse davanti ai loro occhi: lui, che era il grande occhio del cielo. E per invocarlo anche quando non c’era, cominciarono a disegnarlo. Quei disegni, poi, sarebbero stati chiamati pittogrammi .

PITTOGRAMMA

FENICIO PITTOGRAMMA

SINAITICO PITTOGRAMMA

CANANAICO

= OCCHIO

ʘ = OCCHIO

ʘ = OCCHIO

I Mesopotamici chiamavano il sole: “l’occhio che

vede tutto”.

PITTOGRAMMI EGIZI PITTOGRAMMA ITTITO

= OCCHIO (chiamato R)

ʘ = SOLE (chiamato RA o RE)

ʘ = sole, capo, re

Gli Egizi chiamavano il dio RA: “l’occhio del sole”:

L’OCCHIO DI RA

E così dai disegni del dio sole-occhio passarono

a quelli del capo-re , facendo prima del sole un capo e poi mettendo il capo su un collo, per cui dal pittogramma si sviluppò questa sequenza, che rappresentava il capo-re :

ρ

q

R

Я Poiché il dio sole-occhio rappresentava il potere supremo di vita e di morte, dal suo pittogramma si sviluppò, quindi, il pittogramma sia del capo del corpo individuale che del capo del corpo sociale. E così i pittogrammi divennero ideogrammi, per cui il capo fu chiamato: in egizio RA o RE in protosemitico RA’Š nel semitico meridionale RĒSH in fenicio RĒSH in accadico RĒŠU in ugaritico R’Š in ebraico RŌ’Š in siriaco RĪŠĀ in arabo RA’S in etiopico RE’S in sanscrito RĀJÁS in latino REX in italiano RE in catalano REI in francese ROI in galiziano REI in irlandese RÍ in gaelico RIX

in portoghese REI in rumeno REGE in spagnolo REY. E poiché il potere regale del capo costituiva la legge, la regola, la misura, il diritto, il comportamento retto e corretto per i sudditi, allora:

in avestico RĀZAN = LEGGE in latino RATIO = MISURA, REGOLA in sanscrito RIUH = DIRITTO in inglese RIGHT = DIRITTO in gotico RAIHTS = RETTO in tedesco RECHT = RETTO in latino RECTUM = RETTO in bulgaro RЕКТУМ = RETTO in catalano RECTE = RETTO in galiziano RECTO = RETTO in gallese RECTWM = RETTO in macedone RЕКТУМ = RETTO in olandese RECHTS = DIRITTO in portoghese RETO = RETTO in rumeno RECT = RETTO in serbo RЕКТУМ = RETTO in spagnolo RECTO = RETTO.

E poiché il potere regale del capo non consisteva

solo nell’ordine politico del diritto, ma anche in quello economico della ricchezza, allora:

in sanscrito RAY ĺS = RICCHEZZA in latino RES = RICCHEZZA nel latino medievale RICUS = POTENTE in provenzale RIC = POTENTE

E poiché il regno del capo costituiva la sua

regione di potere, allora:

in latino REGNUM = REGNO, cioè la REGIO che il REX REGIT in antico irlandese RIG = REGNO in gotico REIKS = REGNO in tedesco REICH = REGNO in catalano REGNE = REGNO in galiziano REINO = REGNO in irlandese RÍOCHT = REGNO in islandese RÍKI = REGNO in maltese RENJU = REGNO in norvegese RIKE = REGNO in portoghese REINO = REGNO in rumeno REGAT = REGNO in spagnolo REINO = REGNO in svedese RIKE = REGNO.

Il pittogramma ʘ, che rappresentava il sole , come ideogramma passò a significare luce-giorno-ora . E poiché gli ideogrammi veicolavano le ideologie del potere, quando dai pittogrammi e dagli ideogrammi del sole-occhio-luce-giorno-ora si sviluppò la sequenza dei grafemi del capo-re , allora prese corpo tutta una regione semantica di fonemi, ove si consideri che dal pittogramma ebbero origine tre fonemi tra loro strettamente connessi: la vocale O, la consonante R e il cosiddetto spirito aspro ῾, che nel protosemitico costituiva la consonante ע (῾áyin = occhio ) e che subì una lunga serie di adattamenti e trasformazioni in O, U, V, H e W. E così si ebbero: in ebraico OR = LUCE in accadico ŪRU = LUCE in egizio RW = GIORNO in sanscrito VARUNAS = CIELO in attico ORANÓS/OỦRANÓS = CIELO in armeno AREV = SOLE nel protoindoeuropeo REU = SOLE nel protoindoeuropeo RU = ROSSO (del sole), donde in latino RUBER = ROSSO in umbro ROFU = ROSSO in antico bulgaro RUDŬ = ROSSO in greco ERUTHRÓS = ROSSO.

Inoltre, quando il pittogramma , che rappresentava l’OCCHIO, divenne l’ideogramma di VEDERE, allora si ebbero: in ebraico RĀ AH = VEDERE in sanscrito RJRAH = LUCENTE in ionico ORÉŌ = VEDERE in attico ORÁŌ = VEDERE nel protoindoeuropeo VER = VEDERE in latino VEREOR = OSSERVARE ATTENTAMENTE.

La luce del sole , che illuminava il capo-re , gli conferiva insieme col potere politico ed economico sia il possesso esclusivo della verità, della forza e della virtù, sia il dominio maschile sulle donne, per cui in latino si ebbero:

VERUM = VERITÀ VIR = MASCHIO VIRES = FORZE VIRTUS = FORZA FISICA/FORZA MORALE.

E poiché la luce del sole segnava il confine tra il visibile e l’invisibile, il vero e il falso, l’ordine e il disordine, da OR ebbero origine:

- in greco

ORTHÓS = RETTO, DIRITTO, ERETTO ORTHÓŌ = DIRIGERE, DRIZZARE ῎ORTHŌSIS = DIREZIONE ῞ŌRA = MOMENTO, STAGIONE DELLE MESSI ῎ORTHROS = ALBA ORÍZŌ = DELIMITARE ORĺA = CONFINE ῎OROS = CONFINE, ALTURA ῞ORION = CONFINE ORÝSSŌ = SCAVARE IL CONFINE ῎ORYXIS = SCAVO ῎ORYX = ZAPPA PER LO SCAVO;

- in latino

ORIOR = SORGERE ORIENS = ORIENTE ORIGO = ORIGINE ORDO = ORDINE RUGA = SCAVO, RIGA DI CONFINE RIPA = RIVA (come confine) RIVUS = CORSO D’ACQUA (come confine) RIVALIS = CONFINANTE DI CORSO D’ACQUA.

Invece, dal morfema radicale protoindoeuropeo AR si originarono un’ampia catena semantica e un rigoroso ordine ideologico del potere/potenza di uomini superiori, elevati, eletti, di guerrieri che si servono della forza del metallo per arare e per battere e combattere i rivali. Infatti: in sanscrito AR = INNALZARSI, SOLLEVARSI in sanscrito ARYA = FORTI, GUERRIERI, SCELTI, NOBILI in sanscrito ARTÁM = ORDINAMENTO DIVINO, VERITÀ in sanscrito ARTÁS = GIUSTO in armeno AR = SOLLEVARSI in greco AἴRŌ = SOLLEVARE in greco AIRÉŌ = SCEGLIERE, ELEGGERE in greco ῎ARCHŌ = COMANDARE in greco ῎ARCHḖ = COMANDO, POTERE, ORIGINE, PRINCIPIO in greco AREĺŌN/῎ARISTOS = FORTE, MIGLIORE, SCELTO, NOBILE, SUPERIORE

in greco ARETḖ = FORZA FISICA/FORZA MORALE

in greco ῞ARMA = CARRO DA GUERRA in greco ARÁŌ = DANNEGGIO in greco ARÁSSŌ = PERCUOTO, BATTO, URTO in greco ῎ARĒS = (IL DIO DELLA GUERRA) in greco ῎AROTRON = ARATRO in greco ῎ARÓŌ = ARARE in latino ARARE = ARARE in latino ARATRUM = ARATRO in latino ARTES = ABILITÀ DELL’ARATORE (nell’età arcaica) in ugaritico ḤRṬ = ARATRO in ebraico ḤRŠ = ARATRO.

Per quanto concerne, poi, l’ideologia del potere/potenza sessuale, veicolata anche dai culti agrari della fertilità, non sembra meno significativa la catena semantica costituita da tutti e tre i morfemi radicali ER/AR/OR, giacché, se nel protoindoeuropeo ER significava sia innalzarsi e sollevarsi che eccitare e nel sanscrito ARYATI significava desiderare , bisogna tenere presente che in greco:

῞ĒRA = CIELO ῎ERŌS = PASSIONE, BRAMA ERÁŌ = BRAMARE ῎ERIS (= IRA) ERÉTHŌ = ECCITARE ARÁOMAI = DESIDERARE ῎ORNYMI = ECCITARE ORĺNŌ = ECCITARE, SOLLEVARE OROÚŌ = levarsi, desiderare ORÉGŌ = DESIDERARE, STENDERE ῎ORGYA = ORGIA (misura delle due braccia stese) ORGYÓOMAI = STENDO LE BRACCIA ῎ORGIA = ORGE (misteri eleusini) ORGÁS = TERRENO FERTILE, SACRO ORGÁŌ = ESSERE FECONDO, ARDENTE DI DESIDERIO

ORGḖ = PASSIONE, ECCITAZIONE (cfr. il latino URGERE)

ORGASMÓS = ORGASMO

ORGASTḖRION = LUOGO DEI MISTERI

ORGHÍZŌ = ECCITO ORGHĺŌN = SACERDOTE OREKTÉOS = ECCITANTE DEL DESIDERIO OROTHÝNŌ = ECCITARE ῎OREXIS = DESIDERIO ORECHTHÉŌ = FREMERE ORGAÍNŌ = IRRITARE ῎ORGANON = STRUMENTO ORMAÍNŌ = DESIDERARE ORMÁŌ = ECCITARE

ORMḖ = ARDORE

ORCHÉOMAI = DANZARE ῎ORCHIS = TESTICOLO ῎ORCHOS = VITE, VIGNA ῎ORCHIEÚS = APOLLO (protettore dei testicoli)

ORCHḖSTRA = ORCHESTRA.

Durante il terzo millennio, la Mesopotamia, l’Anatolia e l’Egitto erano collegati da una rete di vie carovaniere, che attraversavano le aree desertiche interposte, con accesso al mare lungo la linea costiera della Siria e della Palestina. Fra il XXX e il XVI secolo a. C., gli Stati schiavistici della valle dell’Indo, della Mesopotamia e dell’Egitto intrattennero rapporti con le tribù primitive della Mesopotamia settentrionale, della

Siria, della Palestina, della Fenicia e dell’Egeo e con le tribù nomadi delle steppe eurasiatiche, in particolare, con gli Ittiti e gli Arii, caratterizzati dalla pastorizia e dall’uso dei metalli.

Verso la metà del secondo millennio, però, era esplosa la crisi delle società schiavistiche, causata dall’aumento della schiavitù per debiti, dall’intensificato sfruttamento delle terre e dalle invasioni e dai saccheggi da parte delle tribù periferiche.

Poi, tra il XVI e il XIII secolo a. C., nacquero gli Stati schiavistico-militari degli Assiri, degli Ittiti e di Mitanni, per cui nel Mediterraneo orientale vennero a formarsi nuove società schiavistiche. Il commercio, gestito dalle classi dominanti, che controllavano anche l’irrigazione, era basato sulle rendite in eccesso provenienti dai tributi dei contadini.

Quelle società, costituite dalle classi dirigenti dei proprietari terrieri, dai mercanti quali agenti mediatori e dai contadini loro subordinati, molti dei quali erano piccoli proprietari, erano caratterizzate dal dispotismo del potere e da un lento sviluppo culturale.

Nel periodo eneolitico, le società delle valli del Nilo, del Tigri, dell’Eufrate e dell’Indo furono caratterizzate dall’uso sia della pietra che del rame, dalla formazione degli Stati, dallo sviluppo dello schiavismo patriarcale con l’aumento della schiavitù per debiti e da un discreto commercio: Egitto e Mesopotamia importavano legname dal Libano; la Mesopotamia importava rame dall’Armenia, rame e stagno dalla Siria, rame e argento dalla Cappadocia, legname dalla Siria e dalla Palestina, pietra dall’Elam; in cambio, Egitto e Mesopotamia offrivano le eccedenze di grano e prodotti artigianali. Le città siro-palestinesi vedevano la prevalenza del

commercio e, quindi, dei mercanti, perché non avevano il problema dell’irrigazione, in quanto erano costiere. In Egitto e in Mesopotamia, la nascita dello Stato fu frutto della lavorazione del bronzo e dell’irrigazione, donde derivò quell’eccedenza agricola per la classe dirigente, il cui controllo produsse un sistema di calcolo e, quindi, un grande lavoro intellettuale.

Mentre il bisogno di materie prime e gli scambi commerciali producevano la nascita del regno ittita, che controllava le miniere d’argento del monte Tauro, per l’Egitto e la Mesopotamia i porti siriaci erano la via d’accesso al Mediterraneo, che offriva trasporti a buon mercato e scambi lucrosi in materie prime e merci con i Paesi sottosviluppati d’oltremare.

Peraltro, gli stretti rapporti commerciali e culturali tra città siriache e minoiche furono all’origine della civiltà greca. A Ugarit, infatti, per esigenze commerciali, si usavano sette lingue e molte scritture. Si attuò così il passaggio dai pittogrammi agli ideogrammi e dalla scrittura cuneiforme a quella alfabetica. Ugarit, attuale Ras Shamra, a pochi chilometri a nord della città moderna di Latakia in Siria, era situata allo sbocco sul Mar Mediterraneo di un'antica via proveniente dalla Mesopotamia, in corrispondenza dei confini tra la potenza ittita a nord e la sfera d'influenza egiziana, a cui apparteneva, a sud. La maggior parte delle sue tavolette d’argilla erano scritte in quattro lingue: sumerico, accadico (che era il linguaggio della diplomazia nel Vicino Oriente antico), urrita e ugaritico, oltre a quelle scritte in alfabeto geroglifico egiziano e ittita e in alfabeto cuneiforme cipriota, sumerico, accadico, urrita e ugaritico. Dall'alfabeto ugaritico, sviluppato dagli scribi intorno al

XIV secolo a.C., derivano la maggior parte degli alfabeti moderni (greci, latini, etruschi, ebraici, arabi).

Allorché la lavorazione del ferro, venendo a stimolare le capacità produttive dei piccoli produttori (agricoltori e artigiani) e rendendoli indipendenti, fece aumemrntare la produzione di merci e l’uso della moneta, gli schiavi divennero merce di scambio.

Mentre i faraoni controllavano le miniere del Sinai, le città mesopotamiche, invece, si dovevano rifornire dalle tribù montanare elamite, scambiando grano, per cui si ebbe l’incremento del commercio, monopolizzato dai sacerdoti. Poiché il ferro era più diffuso e, quindi, meno costoso, l’agricoltura divenne più produttiva, per cui crebbe il mercato aperto dei proprietari individuali e dei prodotti artigianali (vomeri, asce, coltelli, martelli, falci). Ma, dove il potere della classe dominante si fondava sul monopolio del bronzo, il ferro accrebbe quel potere e l’economia arcaica di quelle città.

Orbene, nelle società protostoriche: - dominava il simbolico; - i rapporti economici e politici si esprimevano nei

sistemi di parentela; - c’era opposizione tra il ceto dei contadini,

organizzati in comunità di villaggio, nelle quali i rapporti di parentela svolgevano una funzione importante nell’organizzazione sociale, e il ceto-Stato, che si appropriava direttamente delle eccedenze;

- c’era il controllo del processo di circolazione delle donne (= produttrici di produttori) e delle doti;

- il potere degli anziani era il loro sapere; - i giovani non possedevano i mezzi per

emanciparsi;

- dominava l’ideologia religiosa: dal controllo delle tecniche magico-rituali di caccia (sciamanismo) al controllo delle tecniche magico-rituali di coltivazione (calcolo delle stagioni, calendari, potere meteorologico, irrigazioni, astronomia, matematica, scrittura) [cfr. il faraone, come re-sole, che circonda la terra e dà la vita e l’esistenza, e i suoi conflitti con i sacerdoti dei templi] e dei riti magico-religiosi di fecondità.

In questo contesto, l’origine del culto solare trova la sua attestazione in quei miti che esprimevano l’enorme sgomento delle popolazioni preistoriche e protostoriche di fronte alla pur temporanea scomparsa del Sole, al quale si elevavano preghiere perché ritornasse con tutta la sua potenza illuminante, riscaldante e vivificante; la sua adorazione e il suo culto continuarono, quindi, a caratterizzare tutte le più antiche civiltà, che furono, perciò, accomunate dalla personificazione e divinizzazione del Sole.

Le preistorie del potere sono, quindi, tracciabili e rintranciabili attraverso le tracce lasciate in quei reperti immateriali che continuiamo a usare da millenni, perché sono parole di cui ci serviamo per comunicare, idee/ideologie veicolate da quelle parole e nostri archetipi culturali: re, regno, regale, regalo, reggere, correggere, dirigere, retto, diretto, diritto, regola, regolo, ragione, regione, ricco, ricchezza.

Le loro radici comuni affondano nel terreno del protosemitico, del protocamitico e del protoindoeuropeo, di cui la paleontologia linguistica cerca di ricostruire le origini nel tentativo di rintracciare l’archeologia del potere, la sua arché, grazie alle tracce lasciate da un insieme di isoglosse, che rappresentano i nostri tristi topici.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1) ALINEI Mario, Origini delle lingue d’Europa. Vol. II: Continuità dal Mesolitico al Ferro nelle principali aree europee, Bologna 2000.

2) AMIET Pierre, Il y a cinq mille ans les Élamites inventaient l’écriture, in “Archeologia”, 12 (1966), pp. 16-23.

3) ASPESI Francesco, Considerazioni sullo studio dei rapporti fra lingue camito-semitiche e lingue indoeuropee, in “Atti del Sodalizio Glottologico Milanese”, XIX (1977-1978), pp. 55-67.

4) ASPESI Francesco, Possibilità e limiti di un’odierna fonematica storico-comparativa camito-semito-indeuropea, in “Atti del Sodalizio Glottologico Milanese”, XXI (1979-1980), pp. 81-87.

5) BENVENISTE Émile, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. I. Economia, parentela, società. II. Potere, diritto, religione, Torino 1976.

6) BOCCHI Gianluca – CERUTI Mauro (a cura di), Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci, genetici, linguistici, storici, Milano 2001.

7) BOMHARD Allan R., The Indo-European-Semitic Hypothesis Re-Examined, in “Journal of Indo-European Studies”, 1-2 (1984), pp. 55-99.

8) BOMHARD Allan R., Toward Proto-Nostratic. A New Approach to the Comparison of Proto-Indo-European, and Proto-Afro-Asiatic, Amsterdam-Philadelphia 1984.

9) BOMHARD Allan R., Common Indo-European/Afro-Asiatic Roots: Supplement 1, in “General Linguistics”, 4 (1986), pp. 225-257.

10) BOMHARD Allan R., Indo-European and the Nostratic Hypothesis, Charleston 1996.

11) BOURDIEU, Pierre, Language and Symbolic Power, Cambridge 1991.

12) COHEN Marcel, Essai comparatif sur le vocabulaire et la phonétique du chamito-sémitique, Paris 1969.

13) CUNY Albert, Recherches sur le vocalisme, le consonantisme et la formation des racines en “nostratique”, ancêtre de l’indo-eupéen et du chamito-sémitique, Paris 1943.

14) CUNY Albert, Invitation à l’étude comparative des langues indoeuropéennes et des langues chamito-sémitiques, Bordeaux 1946.

15) DIETRICH Manfried – LORETZ Oswald, Die Keilaphabete. Die phönizisch-kanaanäischen und altarabischen Alphabete in Ugarit, Münster 1988.

16) DIRINGER David, L’alfabeto nella storia della civiltà, Firenze 1969.

17) DOLGOPOLSKY Aaron, The Nostratic Hypothesis and Linguistic Paleontology, Cambridge 1998.

18) EDZARD Lutz., Polygenesis, Convergence, and Entropy: An Alternative Model of Linguistic Evolution Applied to Semitic Linguistics, Wiesbaden 1998.

19) EHRET Christopher, Reconstructing Protoafroasiatic (Proto-Afrasian). Vowels, Tone, Consonants and Vocabulary, Berkeley-Los Angeles-London 1995.

20) FELLMAN Jack, Linguistics as an Instrument of Pre-History: The Home of Proto Afro-Asiatic, in “Orbis”, 36 (1991-1993), pp. 56-58.

21) FRANCI Massimiliano, Alcune considerazioni sulla fonologia dell’egiziano antico in relazione alla comparazione egitto-semitica, in “Quaderni del Dipartimento di Linguistica dell’Università di Firenze”, 17 (2007), pp. 233-250.

22) FRONZAROLI Pelio, La fonetica ugaritica, Roma 1955. 23) FRONZAROLI Pelio, Rapporti lessicali dell'ittita con le

lingue semitiche, Roma 1956. 24) FRONZAROLI Pelio, Réflexions sur la paléontologie

linguistique, in CAQUOT André – COHEN David (a cura di), Actes du premier congrès international de

linguistique sémitique et chamito-sémitique, The Hague-Paris 1974, pp. 173-180.

25) FRONZAROLI Pelio (a cura di), Paleontologia semitica: il patrimonio lessicale semitico comune alla luce dell'affinità linguistica camito-semitica, Brescia, 1977.

26) GAMKRELIDZE Thomas V. – IVANOV Vjačeslav V., Indo-European and the Indo-Europeans. A Reconstruction and Historical Typological Analysis of a Protolanguage and a Proto-Culture, 2 voll., Berlin-New York-Amsterdam 1995.

27) GARBINI Giovanni, Camito-semitico e indoeuropeo, in “Atti del Sodalizio Glottologico Milanese”, XXI (1979-1980), pp. 4-18.

28) GARBINI Giovanni, Convergenze indeuropeo-semitiche tra preistoria e protostoria, in “AIΩN. Annali del Dipartimento di Studi del Mondo Classico”, 10 (1988), pp. 67-80.

29) HEILMANN Luigi, Camito-semitico e indoeuropeo. Teorie e orientamenti, Bologna 1949.

30) KRAMER Samuel Noah, I Sumeri alle radici della storia, Roma 1979.

31) LAROCHE Emmanuel, Les hiéroglyphes hittites, Paris 1960.

32) LEHMANN Winfred P., Proto-Indo-European Phonology, Austin 1952.

33) LEVIN Saul, The Indo-European and Semitic Languages. An Exploration of Structural Similarities Related to Accent, Chiefly in Greek, Sanskrit and Hebrew, New York 1971.

34) LEVIN Saul, Semitic and Indo-European. The principal Etymologies with Observations on Afro-Asiatic, Amsterdam-Philadelphia 1995.

35) MALLORY James P., In search of the Indo-Europeans. Language, Archaeology and Myth, London 1989.

36) MASSON Emilia, Recherches sur les plus anciens emprunts sémitiques en grec, Paris 1967.

37) MASSON Emilia, Le double soleil dans les hiéroglyphes anatoliens, in ALP Sedat – SÜEL Aygül (a cura di), III. Uluslararasi Hititoloji Kongresi Bildirileri, Ankara 1998, pp. 401-412.

38) MASSON Emilia, The Indo-European Schema of the Ritualised Foundation of the Kingdom and of the Notion of the ‘Complete Society´ in old Hittite Texts, in HUTTER Manfred – HUTTER-BRAUNSAR Sylvia, Offizielle Religion, lokale Kulte und individuelle Religiositat : Akten des religionsgeschichtlichen Symposiums "Kleinasien und angrenzende Gebiete vom Beginn des 2. bis zur Mitte des 1. Jahrtausends v. Chr. (Bonn, 20.-22. Februar 2003), Mu nster 2004, pp. 285-292.

39) MAYER MODENA Maria Luisa, Ricerche sul problema dei rapporti fra lingue indoeuropee e lingue semitiche, in “ACME”, XIII (1960), pp. 77-100.

40) MEILLET Antoine, La méthode comparative en linguistique historique, Paris 1925.

41) NEGRI Mario (a cura di), Alfabeti. Preistoria e storia del linguaggio scritto, Verona 2000.

42) OREL Vladimir E. – STOLBOVA Olga V., Hamito-Semitic etymological dictionary: materials for a reconstruction, Leiden 1995.

43) OTTE Marcel, The diffusion of modern languages in prehistoric Eurasia, in BLENCH Roger – SPRIGGS Matthew (a cura di), Archaeology and Language. I. Theoretical and Methodological Orientations, London-New York 1997, pp. 74-81.

44) PETRÁČEK Karel, La racine en indoeuropéen et en chamitosémitique et leurs perspectives comparatives, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli”, 42 (1982), pp. 381-402.

45) PETTINATO Giovanni, Il dio Sole garante della salvezza per i Sumeri e i Babilonesi, in Vie alla Salvezza, Torino 1996, pp. 8-22.

46) PETTINATO Giovanni, La biblioteca del dio Sole a Sippar, in “Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei”, VIII/2 (1997), pp. 365-384.

47) PETTINATO Giovanni, Ideology and Nomenclature of Power in Sumer and Ebla, in PANAINO Antonio – PETTINATO Giovanni (a cura di), Ideologies as Intercultural Phenomena. Proceedings of the third annual symposium (Chicago, 27-31 October 2000), Milano 2002, pp. 162-174.

48) PISANI Vittore, Paleontologia linguistica, Cagliari 1938. 49) PISANI Vittore, Indeuropeo e Camito-Semitico, in ID.,

Saggi di linguistica storica, Torino 1959, pp. 41-49. 50) POLANYI Karl (a cura di), Traffici e mercati negli

antichi imperi, Torino 1978. 51) RENFREW Colin, Archaeology and Language. The

Puzzle of Indo-European Origins, London 1987. 52) SEGERT Stanislav, Le rôle de l'ougaritique dans le

linguistique sémitique comparée, in "Ugaritica”, VI (1969), pp. 460-77.

53) SHEVOROSHKIN Vitaly (a cura di), Proto-Languages and Proto-Cultures, Bochum 1990.

54) SILVESTRI Domenico, Preistoria e protostoria linguistica nel Mediterraneo, in LANDI Addolorata (a cura di), L’Italia e il Mediterraneo antico. Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia (Fisciano-Amalfi-Raito, 4-5-6- novembre 1993), Pisa 1995, pp. 139-71.

55) WHITING Robert M., The R Stem(s) in Akkadian, in ”Orientalia”, 50 (1981), pp. 1-39.

DAL REGNO AL TRIREGNO

Sosteneva Platone che il potere del capo è di origine divina, perché “gli dei collegarono i circoli divini, che sono due, in un corpo sferico, quello che noi ora chiamiamo capo, che è la parte più divina e domina in noi su tutto il resto”1. Se nel mito dal capo di Zeus, cioè dalla sua mente divina, fuoriusciva la dea della sapienza, fondando teologicamente l’articolazione tra potere e sapere, Aristotele, da parte sua, presentando la mente superiore come “qualcosa di piuttosto divino” 2 , che è “simile alla luce”3 , sviluppava l’ideologia della potenza illuminante del potere del capo.

Verranno, poi, i testi pseudodionisiani a formalizzare la visione dell’emanazione del potere dal vertice divino, che lo partecipa alle gerarchie angeliche e, quindi, alle gerarchie ecclesiastiche, giacché “è lo stesso Gesù, intelligenza divinissima e soprasostanziale, principio, sostanza e potenza divinissima di tutta la gerarchia e della santificazione e della divina operazione, che illumina in maniera più chiara e insieme più intellettuale le sostanze beate e superiori a noi e le rende simili, per quanto è possibile, alla sua propria luce”4. Anzi, con maggiore precisazione e chiarezza, si afferma:

1 Timeo, XVI 44d: τὰς μὲν δὴ θείας περιόδους δύο οὔσας, τὸ τοῦ παντὸς

σχῆμα ἀπομιμησάμενοι περιφερὲς ὄν, εἰς σφαιροειδὲς σῶμα ἐνέδησαν,

τοῦτο ὃ νῦν κεφαλὴν ἐπονομάζομεν, ὃ θειότατόν τέ ἐστιν καὶ τῶν ἐν ἡμῖν

πάντων δεσποτοῦν. 2 L’anima, I 4, 408b 30: ὁ δὲ νοῦς ἴσως θειότερόν τι.

3 L’anima, III 5, 430a 15: καὶ ἔστιν ὁ μὲν τοιοῦτος νοῦς τῷ πάντα γίνεσθαι,

ὁ δὲ τῷ πάντα ποιεῖν, ὡς ἕξις τις, οἷον τὸ φῶς. 4 La gerarchia ecclesiastica, I, 1, 369D.

Se tu leggessi quanto riguarda la gerarchia degli Angeli e degli Arcangeli, dei Principati sopramondani, delle Potestà e delle Potenze, delle Dominazioni e dei Troni divini e delle sostanze simili ai Troni tramandate dalla Scrittura, che sempre sono vicine a Dio e con Dio chiamandole in lingua ebraica Cherubini e Serafini, impareresti a conoscere gli ordini santi e le divisioni degli stessi ordini e delle gerarchie; in questi libri noi abbiamo celebrato, non in maniera degna di loro ma secondo le nostre forze e come la Sacra Scrittura dei santissimi scritti ha spiegato, la loro gerarchia. Tuttavia, è necessario aggiungere che quella gerarchia, come ogni altra celebrata da noi, ha una sola e medesima potenza attraverso tutte le sue funzioni gerarchiche. Lo stesso vescovo, in conformità della sua essenza, ruolo e vita, è iniziato nelle cose divine ed ottiene la deificazione e tramanda a coloro che stanno dopo di lui, secondo il merito di ciascuno, la sacra deificazione che è già stata ottenuta da lui ad opera divina, mentre gli inferiori seguono i superiori e indirizzano a loro volta quelli che sono più in giù verso uno stato superiore e anche si mettono davanti e guidano altri secondo la loro possibilità e, a causa di questa armonia divina e gerarchica, ciascuno, per quanto lo può, partecipa a ciò che è veramente bello, sapiente e buono5.

Veniva ad articolarsi, in tal modo, la teoria dell’illuminazione con la fondazione del potere, dal momento che “il principio e la collocazione di tutto

5 La gerarchia ecclesiastica, I, 2, 372C-373A.

l'ordine invisibile e visibile fa sì che i suoi raggi divini giungano sugli esseri che più gli assomigliano e, mediante quelli, come ad opera di spiriti più trasparenti, più adatti a ricevere e a trasmettere la luce, illumina e risplende su quelli più lontani in misura proporzionata a loro”6. Di qui il lungo ed aspro conflitto tra regalisti ed antiregalisti: i primi, facendo derivare il potere civile direttamente da Dio, fondavano la teoria dei due soli, mentre i secondi, facendo del papa il vicario di Cristo Re ed assegnando, perciò, al sommo pontefice anche la potestas in temporalibus, ne facevano l’unico sole del mondo, designato da Dio ad illuminare il governante, ridotto così al rango inferiore di luna riflettente la luce solare7.

Ma sarà proprio la concezione del papa quale vicario di Cristo Re e, quindi, come proprietario di tutta la Terra a giustificare il conferimento ai re spagnoli e portoghesi del possesso di tutti i territori conquistati. Il 4 maggio 1493, il papa Alessandro VI, lo spagnolo Rodrigo Borgia, con la Bolla Inter coetera regolava la contesa tra Spagna e Portogallo in merito ai territori del Nuovo Mondo, stabilendo che il meridiano passante 100 leghe ad ovest dell'isola di Capo Verde costituisse il confine tra le terre appartenenti alla Spagna, ad ovest del meridiano, e quelle appartenenti al Portogallo, ad est del meridiano:

noi, di nostra volontà, non su vostra richiesta né su richiesta di nessun altro a vostro

6 La gerarchia ecclesiastica, V, 1, 4, 504D.

7 O. HAGENEDER, Il sole e la luna. Papato, impero e regni nella teoria e

nella prassi dei secoli XII e XIII, a cura di M.P. Alberzoni, Milano 2000; G.M. CANTARELLA, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa, 1073-1085, Roma-Bari 2005.

riguardo, ma per nostra sola generosità e conoscenza e in virtù della pienezza del nostro potere apostolico, grazie all'autorità di Dio onnipotente conferitaci in san Pietro e della vicaria di Gesù Cristo che noi deteniamo sulla terra, noi vi facciamo questi doni; se alcuna di queste isole dovesse essere trovata dai vostri inviati e capitani, questo dà, assicura e assegna a voi e ai vostri eredi e successori re di Castiglia e di León, per sempre - insieme con tutti i loro domini, città, campagne, luoghi e villaggi, e tutti i diritti, giurisdizioni e annessi - tutte le isole e i continenti trovati e ancora da trovare, scoperti e ancora da scoprire, verso l'ovest e il sud, tracciando una linea dal polo Artico, cioè dal nord, verso il polo antartico, cioè verso il sud, senza badare se le suddette isole o continenti siano stati trovati o si troveranno nella direzione dell'India o verso altre direzioni, la detta linea dovendo essere distante 100 leghe verso ovest e sud dalle isole comunemente conosciute come Azzorre e Capo Verde. Con la clausola tuttavia che nessuna delle isole e dei continenti, da trovare o già trovati, da scoprire o già scoperti oltre la detta linea verso ovest e sud, sia possesso di re o principe cristiano fino al passato compleanno di nostro Signore Gesù Cristo con il quale comincia l'anno corrente 14938.

Il Portogallo, infatti, aveva ottenuto, già da molto tempo, il possesso di moltissimi territori, a cominciare

8 L. TOMASSETTI (a cura di), Bullarium Romanum, V, Augustae Taurinorum

1860, p. 363.

dalla Bolla Dum diversas del 18 giugno 1452, con la quale il papa Niccolò V così si rivolgeva al re del Portogallo Alfonso V:

in forza dell’autorità apostolica, col contenuto di questa lettera, noi vi concediamo la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare Saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, chiunque essi siano e dovunque abitino; di prendere ogni tipo di beni, mobili o immobili, che si trovino in possesso di questi stessi Saraceni, pagani, non credenti e nemici di Cristo; di invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in schiavitù i loro abitanti; di appropriarvi per sempre, per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere, destinandoli a vostro uso e vantaggio, e a quelli dei vostri successori9.

Lo stesso pontefice, l’8 gennaio 1454, con la Bolla Romanus Pontifex, riconosceva allo stesso re il possesso dei territori conquistati in Africa, in Marocco e lungo le coste del Golfo di Guinea, nonché dei mari adiacenti:

Il Pontefice Romano, successore di colui, cui furono affidate le chiavi del regno celeste, e Vicario di Gesù Cristo, […] poiché abbiamo concesso precedentemente con altre lettere nostre tra le altre cose, piena e completa

9 L. M. JORDÃO (a cura di), Bullarium Patronatus Portugalliae Regum in

Ecclesiis Africae, Asiae atque Oceaniae, I, Obispone 1868, p. 22.

facoltà al re Alfonso di invadere, ricercare, catturare, conquistare e soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni, ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile ed immobile, che sia di loro proprietà, e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio e dei loro successori tali regni, ducati, contee, principati, signorie, possedimenti e beni, in conseguenza della garanzia data dalla suddetta concessione il re Alfonso o il detto Infante a suo nome hanno legalmente e legittimamente occupato le isole, terre, porti ed acque e le hanno possedute e le posseggono, ed esse appartengono e sono proprietà de iure del medesimo re Alfonso e dei suoi successori; […] possano compiere e compiano questa pia e nobilissima opera, degna di essere ricordata in ogni tempo, che noi, essendo da essa favoriti la salvezza delle anime, il diffondersi della Fede e la sconfitta dei suoi nemici, consideriamo un compito, che concerne Dio stesso, la sua Fede, e la Chiesa Universale – con tanta maggior perfezione, in quanto, rimosso ogni ostacolo, diverranno consapevoli di esser fortificati dai più grandi favori e privilegi concessi da noi e dalla Sede Apostolica10.

10

L. TOMASSETTI (a cura di), Bullarium Romanum, V, Augustae Taurinorum 1860, pp. 111-113.

Infine, con le Bolle Pro excellenti praeeminentia del 12 giugno 1514 11 e Praecelsae devotionis del 3 novembre 151412, il papa Leone X conferiva al re del Portogallo il possesso di tutti i territori conquistati non solo in Africa e in India, ma in qualsiasi parte della Terra.

Sull’interpretazione di queste donazioni si innestò, poi, la controversia tra le monarchie iberiche e il papato, per il quale si trattava della concessione di un beneficio in un rapporto di tipo feudale, che, quindi, non significava proprietà, ma solo usufrutto su quei territori 13 . L’appartenenza di tutta la Terra al vicario di Cristo, Re dei re, era, infatti, ovvia per i fautori della teocrazia papale, come affermava, già nel 1205, Innocenzo III nella lettera indirizzata al clero e al popolo di Fermo:

Benché il potere del papa e quello dell’imperatore siano diversi, e i compiti del regno e del sacerdozio siano distinti, tuttavia, poiché il Pontefice Romano fa sulla Terra le veci di Colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech, ha dallo stesso Signore non solo il supremo potere nell’ambito spirituale,

11

L. M. JORDÃO (a cura di), Bullarium Patronatus Portugalliae Regum in Ecclesiis Africae, Asiae atque Oceaniae, I, Obispone 1868, pp. 100-101. 12

L. M. JORDÃO (a cura di), Bullarium Patronatus Portugalliae Regum in Ecclesiis Africae, Asiae atque Oceaniae, I, Obispone 1868, pp. 106-107. 13

L. WECKMANN, Las Bulas alejandrinas de 1493 y la teoría política del Papado Medieval. Estudio de la supremacia papal sobre las islas. 1091-1493, México 1949; M. DE WITTE, Les bulles pontificales et l’expansion portugaise au XVe siècle, in “Revue d’histoire ecclésiastique”, 48 (1953), pp. 683-718; P. CASTAÑEDA DELGADO, La teocracia pontifical en las controversias sobre el Nuevo Mundo, México 1996.

ma anche un grande potere nell’ambito temporale14.

E qualche anno prima, nella lettera indirizzata, il 30 ottobre 1198, al console di Firenze Acerbo Falseroni e ai rettori delle città della Tuscia e del ducato di Spoleto, aveva precisato:

come dal sole riceve la sua luce la luna, che effettivamente gli è inferiore sia per quantità che per qualità, nonché per posizione ed efficacia, così il potere dei re riceve lo splendore del proprio prestigio dall’autorità papale15.

D’altronde, lo stesso richiamo alla figura di Melchisedech, re di Salem e sacerdote, serviva a sostenere il trasferimento della regalità da Cristo al suo vicario sulla Terra. E così il vicario di Cristo diventava viceré della Terra, facendo di imperatori e re i suoi vassalli16, ai quali venivano benignamente concesse le nuove terre con le loro ricchezze e i loro abitanti, purché prestassero il prescritto omaggio di sottomissione, per cui, per esempio, il primo carico d’oro, che giunse dal Nuovo Mondo al re Ferdinando di Spagna, fu mandato, in segno di riconoscenza, al papa Alessandro VI e andò a rivestire

14

PL CCXV, 767: "Licet pontificalis auctoritas et imperialis potestas

diversae sint dignitates, et officia regni et sacerdotii sint distincta, quia tamen Romanus Pontifex Illius agit vices in terris qui est Rex Regum et Dominus dominantium, sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, non solum in spiritualibus habet summam, verum etiam in temporalibus magnam ab ipso Domino potestatem". 15

PL CCXIV, 377: “sicut luna lumen suum a sole sortitur, quae re vera minor est illo quantitate simul et qualitate, situ pariter et effectu: sic regalis potestas ab auctoritate pontificali suae sortitur dignitatis splendorem”. 16

A. LUCHAIRE, Innocent III. V. Les royautés vassales du Saint-Siège, Paris 1907.

il soffitto a cassettoni della basilica romana di Santa Maria Maggiore, al di sopra delle cui finestre e degli affreschi si congiunge alla cornice del soffitto un fregio ligneo con una serie di tori, che sono il simbolo dei Borgia, mentre tra i mosaici che si snodano lungo la parete sinistra, proprio presso l’arco trionfale, il pannello col re-sacerdote Melchisedech fa da raccordo tra i mosaici della navata e quelli dell’arco trionfale, nel quale viene rappresentata l’infanzia di Cristo re e sacerdote.

I teorici delle tesi teocratiche, secondo cui il potere del papa, sia in spiritualibus che in temporalibus, derivava direttamente da Dio, mentre quello degli imperatori e dei re era dato loro dal papa in ministerium per la parte temporale, facevano dei re e degli imperatori “quasi dei servi e dei tributari del papa”17, perché nel mondo, come nel corpo umano, ci poteva essere un solo capo, come argomentava il teologo domenicano Remigio dei Girolami, che fu alunno di Tommaso d’Aquino e maestro di Dante Alighieri a Santa Maria Novella:

Tutti i cristiani e tutta la chiesa […] sono un unico corpo […] Quindi bisogna che questo corpo abbia un capo unito a sé corporalmente […] Ma per capo di questo corpo noi intendiamo il capo supremo, che domina su tutte le membra del corpo […] Ma il capo supremo in questo corpo non può essere un principe laico, […] quindi bisogna che sia un principe clericale. E senza dubbio tale principe e tale capo è Cristo […] Però questo capo si separò dal corpo a causa dell’assenza corporale quando salì al cielo, e perciò, affinché non restasse nel corpo una

17

A. TRIONFO, Summa de potestate ecclesiastica, Romae 1582, p. 13A: “Reges et imperatores sunt quasi ministri et stipendiarii papae”.

perdita, dovette esserci sulla Terra un capo supremo unito al corpo. E questo capo è il papa, e perciò a Pietro futuro papa il Signore disse […]: “Tu sei Simone figlio di Giovanni, tu ti chiamerai Kephas”, che significa capo18.

E così dal potere del sole siamo ritornati daccapo al potere di un capo terreno, vicario di quel capo celeste che era visto come il Re-Sole del mondo, sicché alcuni ritenevano che i cristiani adorassero il sole, come polemicamente riconosceva perfino Tertulliano, ammettendo che “altri, indubbiamente con un concetto di noi più umano e più verosimile, credono che il Sole sia il nostro dio19.

Come emblema del potere regale di origine divina il disco solare alato si era andato affermando nel Vicino Oriente nell’età amarniana, mentre nel Nuovo Regno hittita si era manifestato al tempo delle grandi conquiste esterne di Shuppiluliuma I (1380-1346 a. C.). Ma il Dio-Sole era già rappresentato su sigilli protostorici del terzo millennio a. C., quindi su sigilli di epoca accadica, e poi era divenuto predominante in tutta la glittica del periodo di Hammurapi, che rappresentava l’adorante di fronte al Dio-Sole seduto sul suo trono, nonché nei rilievi, come nella sommità della stele del codice di Hammurapi, in cui il Dio-Sole in trono con la tiara, il bastone e l’anello, emblemi del potere, riceveva l’atto di omaggio dal re. Emblemi che, man mano, passarono dall’Oriente all’Occidente. Già, infatti, con un papa d’origine siriaca, come Costantino I (708-715), i papi cominciarono a far

18

FRA REMIGIO DEI GIROLAMI, O. P., Contra falsos ecclesie professores. Edizione critica di F. Tamburrini, Roma 1981, pp. 44-45. 19

TERTULLIANO, Apologeticum, XVI, 9: “alii plane humanius et verisimilius Solem credunt deum nostrum”.

uso della tiara, denominata regnum, quale segno del potere temporale, sicché Innocenzo III, in un sermone per la festa di San Silvestro, dichiarava di usare il regnum come espressione del potere temporale20; poi, dal XII secolo, il regnum cominciò ad essere chiamato thyara. Secondo gli ordines prescritti per il cerimoniale dell’incoronazione papale del XII secolo, infatti, il papa dalla basilica vaticana “scende nel luogo stabilito dove c’è il cavallo papale decorosamente ornato di falere e dove l’arcidiacono riceve dalla mano del marescalco maggiore il regnum, che con un altro termine si chiama frigium, col quale incorona il papa. E così attraversando la città e la via sacra, che si chiama via del papa, arriva incoronato al palazzo lateranense” 21 . Anche nella cavalcata prevista dal cerimoniale per l’incoronazione di Gregorio X (1271-1276) la tiara venne valorizzata come supremo simbolo del potere papale22, cui Bonifacio VIII (1294-1303) aggiunse, poi, una seconda corona; e così, nel 1298, in trono con la tiara a due corone sul capo e con le chiavi e la spada imperiale nelle mani, ricevette gli inviati del re Alberto I d’Asburgo, che aspirava alla corona imperiale, e dichiarò con fermezza che il papa era anche cesare e imperatore.

20

PL CCXVII, 481: “Romanus itaque pontifex in signum imperii utitur regno”. 21

B. SCHIMMELPFENNIG, Die Zerimonienbücher der römischen Kurie im Mittelalter, Tübingen 1973, pp. 6-16: “descendit ad constitutum locum ubi est papalis equus decenterphaleratus, et ubi archidiaconus recipit regnum, quod alio vocabulo frigium dicitur, de manumarescalci maioris, de quo dominum papam coronat. Et sic per mediam urbem et viamsacram, que via pape dicitur, deveniat ad lateranense palatium coronatus”. 22

M. DYKMANS, Le cérémonial papal de la fin du Moyen Âgeà la Renaissance, I, Rome-Bruxelles 1977, pp. 159-176.

A Clemente V (1305-14) viene, invece, attribuita l'aggiunta della terza corona, a quanto risulta da un inventario del 1315, nel quale si trova la più antica menzione della tiara a tre corone, detta pertanto anche triregno, divenuto simbolo del triplice potere papale, come si evince dal rito del Pontificale Romanum del 1596, secondo il quale, al momento dell'imposizione della tiara sul capo del papa, il cardinale protodiacono proclamava che il pontefice la riceveva in quanto era padre dei principi e dei re, governatore del mondo e vicario di Cristo:

Accipe thiaram tribus coronis ornatam, et scias te esse Patrem Principum et Regum, Rectorem Orbis, in terra Vicarium Salvatoris Nostri Jesu Christi, cui est honor et gloria in sæcula sæculorum23.

Tutto era cominciato con la lettera paolina ai Colossesi, nella quale si diceva che Cristo “è il capo del corpo della chiesa”(I, 18) e “che è l’arché”(ibid.), per cui “è il capo di ogni potere (ἀρχῆς) e autorità”(II, 10). A questa lettera si appellerà, poi, l’enciclica Mystici corporis, che Pio XII emanava, il 29 giugno 1943, citando proprio Bonifacio VIII e sottolineando:

a) la “conformità che osserviamo tra il Corpo e il Capo, essendo essi della medesima natura”;

23

P. E. SCHRAMM, Zur Geschichte der päpstlichen Tiara, in “Historische Zeitschrift”, 152 (1935), pp. 307-312; G.B. LADNER, Der Ursprung und die mittelalterliche Entwicklung der päpstlichen Tiara, in H.A. CAHN – E. SIMON (a cura di), Tainia. Roland Hampe zum 70. Geburtstag, I, Mainz a. R. 1980, pp. 449-481; A. PARAVICINI BAGLIANI, Le Chiavi e la Tiara: immagini e simboli del papato medievale, Roma 2005; ID., Il potere del papa. Autorappresentazione e simboli, Firenze 2009.

b) che “come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse;

c) “che quanti usufruiscono della Sacra Potestà, sono in un tal Corpo membri primari e principali”;

d) che “il divin Redentore governa il suo Corpo mistico anche in modo visibile e ordinario mediante il suo Vicario in terra”, per cui “ordinò a Pietro e ai suoi Successori che, rappresentando in terra la Sua Persona visibile, governassero la società cristiana”, in quanto è assolutamente necessario che sia manifestato agli occhi di tutti il Capo supremo, cioè il Vicario di Cristo, dal quale venga efficacemente diretta la cooperazione dei membri al conseguimento del fine proposto”;

e) che, quindi, Pietro “in forza del primato, non è altro che un Vicario di Cristo: e in tal guisa si ha di questo Corpo un solo capo principale, cioè Cristo, il quale, pur continuando a governare arcanamente la Chiesa direttamente da Sé, visibilmente però, la dirige attraverso colui che rappresenta la Sua persona, poiché, dopo la Sua gloriosa ascensione in cielo, non la lasciò edificata soltanto in Sé, ma anche in Pietro, quale fondamento visibile”;

f) che, infine, “Cristo e il Suo Vicario costituiscano un solo Capo, lo spiegò solennemente il Nostro Predecessore Bonifazio VIII d’immortale memoria

con la sua Lettera Apostolica "Unam Sanctam" (cfr. Corp. Jur. Can., Extr. comm. I, 8, 1), e la medesima dottrina non cessarono mai di ribadire i suoi Successori”. Questo rapporto di potere tra il capo e il suo

corpo verrà ribadito, il 21 novembre 1964, anche dalla costituzione dogmatica Lumen gentium 24 del Concilio Ecumenico Vaticano II, laddove, a proposito del potere dei vescovi, si precisava:

Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice.

Parole queste, che saranno riprese testualmente sia dal canone 331 del nuovo Codice di Diritto Canonico, promulgato, il 25 gennaio 1983, da Giovanni Paolo II con

24

AAS 57 (1965) 26.

la costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges25, sia dal Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato dal medesimo papa, il 15 agosto 1997, con la lettera apostolica Laetamur magnopere26.

In definitiva, nella rappresentazione emblematica del potere continua ancora ad operare e ad influire il paradigma del rapporto tra capo e corpo, come veniva presentato dalla costituzione dogmatica Pastor aeternus del Concilio Ecumenico Vaticano I, promulgata da Pio IX il 18 luglio 1870, secondo la quale era necessario che tutti i cristiani si conformassero al papato romano, affinché “come menbra congiunte nel capo concrescessero in un’unica struttura del corpo” 27 . E tutto questo veniva affermato quale preambolo alla proclamazione e definizione del dogma dell’infallibilità papale, dichiarando solennemente che era un “dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi”28.

E così si chiudeva il circolo, che dall’aristotelica mente divina del capo era sfociato nell’infallibile sapere di un potere divinamente illuminato.

25

AAS 75/II (1983) VII-XIV. 26

AAS 89 (1997), 819-821. 27

ASS 6 (1870) 42: “tamquam membra in capite consociata in unam corporis compagem coalescerent”. 28

ASS 6 (1870) 47.

DA CAPO A PIEDI

Quello che mi affascinava di più, nell’ascoltare il professor Enrico Josi (1885-1975), era la permanenza di una memoria eccezionale in un ultraottantenne come lui: trascritte indelebilmente, così mi sembrava, nei suoi neuroni, centinaia di antiche iscrizioni cristiane ci venivano rovesciate addosso durante le sue lezioni di archeologia cristiana nella Pontificia Università Lateranense.

Più giovane di lui di un venticinquennio, il professore di patrologia Costantino Vona non mi affascinava di meno. Basso e mingherlino, lo vedevi spuntare nel lungo corridoio della Facoltà di teologia, mentre gustava la sua sigaretta da un lunghissimo bocchino d’argento; perfezionava il suo aspetto da pinguino un elegantissimo clergyman nero, non acquistato in nessun negozio per il clero, ma appositamente cucito per lui da quel sarto pontificio che serviva da decenni il papa, i cardinali, i prelati e i seminaristi del Pontificio Seminario Romano Maggiore. Appena una settimana dopo esservi entrato, lo squillo del telefono della mia camera mi aveva inviato a farmi “prendere le misure” da quel sarto, venuto a bella posta, per confezionarmi la veste ufficiale di quello che ormai era il mio seminario: la cosiddetta paonazza, sottana e soprana.

Non era l’aspetto aristocraticamente scostante ciò che mi affascinava del professor Vona, ma il latino perfetto ed elegante col quale teneva le sue lezioni. Se, entrando in aula, non si faceva immediatamente e profondamente silenzio, lo sentivi orazianamente e sprezzantemente sillabare: “Odi profanum vulgus et arceo”. Toccava all’uditorio sapere e capire il seguito,

cioè “Favete linguis”. Questo doveva bastare a bloccare le lingue di tutti. Ma non tutti capivano, benché seguissero le vivacissime lezioni del grande latinista Karl Egger, che, ogni lunedì, ci sfidava, sempre in perfetto latino, a sintetizzare in latino, seduta stante, la cronaca di una partita di calcio o cose analoghe.

Non minor fascino esercitava su di me il professor Felix Gössmann, un eminente glottologo, la cui immensa erudizione era eguagliata dalla sua profonda bontà. In quattro o cinque avevamo scelto di frequentare i suoi corsi pomeridiani e facoltativi di accadico e di ugaritico, oltre a quelli antimeridiani e obbligatori di ebraico e greco biblico. Doveva essere attivato, insieme col corso di arabo, tenuto dal professor Pietro Sfair, un arcivescovo maronita dalla candida lunghissima barba, anche un corso di siriaco: fui l’unico a sceglierlo, per cui non se ne fece nulla, con grande disappunto mio e del docente designato, il professor Vona. Questi aveva pubblicato, da poco, la traduzione dal siriaco e il relativo commento dei carmi di Cirillona, che gli avrebbero procurato la cattedra di letteratura siriaca a “La Sapienza”, da dove sarebbe poi approdato alla presidenza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Chieti.

Una settimana dopo, con mia grande sorpresa, il professor Vona mi convocò nell’aula dei professori: tra una tirata dal bocchino e l’altra, senza minimamente scomporre il suo sguardo apparentemente asettico, mi propose di seguire, a casa sua, un corso intensivo e gratuito di siriaco. E così, per qualche anno, la Via dei Santi Quattro Coronati, dove abitava questo piccolo grande uomo, mi vide andare su e giù, felice e contento, per due volte alla settimana.

Intanto, la vecchiaia di Enrico Josi sembrava volgere verso la catastrofe. Il suo incubo costante era ormai una donna-ciclone, che lo aveva investito in pieno: la spigolosa docente di epigrafia greca a “La Sapienza”, Margherita Guarducci. Tutto era cominciato nel lontano 1939, allorché Pio XII, appena eletto papa, lo aveva incaricato di ritrovare la tomba dell’apostolo Pietro sotto l’Altare della Confessione.

I lavori, condotti insieme con l’architetto Bruno Maria Apollonj-Ghetti e con i gesuiti Antonio Ferrua ed Engelbert Kirschbaum del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, cominciarono in gran segreto e in tutta tranquillità, mentre tutt’intorno imperversava la guerra. Subito divenne chiaro che l’area del Circo di Nerone era un ricco sito archeologico. Emergevano sepolture diverse e resti di antichi manufatti murari. Per procedere, fu necessario consolidare le fondamenta della Basilica con un gran numero di pilastri di cemento armato. Ne doveva risultare uno scavo molto più ampio del previsto. Venne alla luce gran parte di un’antica necropoli destinata sia a famiglie di ricchi liberti pagani sia all’inumazione di cristiani. Furono dieci anni di lavori non sempre continuativi, ai quali sovrintendeva il segretario ed economo della Congregazione della Reverenda Fabbrica di San Pietro, quel monsignor Ludwig Kaas che era stato il più stretto collaboratore dell’allora Nunzio Apostolico Eugenio Pacelli nel faticoso iter che si concluse, nel 1933, con la stipula del Concordato col Reich hitleriano.

A Pio XII, che seguiva attentamente il procedere degli scavi, troppe cose vennero nascoste. Lo si convinse di aver trovato la tomba di San Pietro, ma di non averne trovato, purtroppo, le ossa. Tanto, comunque,

bastò a fargli proclamare, in occasione dell’Anno Santo del 1950, che la tomba di Pietro era stata trovata. In realtà, le cose erano andate in tutt’altro modo. Ma questo lo sapevano solo in cinque, cioè Josi, Ferrua, Kirschbaum, Apollonj-Ghetti e Kaas, che giurarono sulla tomba dell’Apostolo di conservare il più stretto segreto a salvaguardia del potere papale.

Che cosa era successo? Nelle prime ore pomeridiane del 2 marzo 1949, gli archeologi si trovarono davanti a un muro, che recava l’iscrizione in caratteri greci ΠΕΤ ΕΝΙ, immediatamente e concordemente completata e interpretata come PIETRO È QUI. Superata l’immensa emozione, Kirschbaum tirò fuori la sua Kodak e scattò diverse foto dell’iscrizione; poi, si praticò un’apertura nel muro, da cui furono estratte due cassette metalliche. Sospesi accortamente gli scavi, vennero allontanati gli operai. Ma che cosa poteva capire chi non conosceva il greco? I cinque si misero febbrilmente e delicatamente ad aprire le due cassette. La prima conteneva delle ossa avvolte in un elegante panno di porpora intessuto con fili d’oro. “Ecce Petrus!” fu il grido di gioia di monsignor Kaas. Tutti assentirono. Immediatamente la cassetta venne sigillata. Monsignor Kaas era ansioso di recare subito la notizia al papa, ma prevalse la curiosità di conoscere il contenuto della seconda cassetta. La si aprì. La mano tremante di Enrico Josi ne trasse fuori 230 fogli manoscritti su pergamena, che misuravano circa 33x27cm ciascuno. Il testo, su una sola colonna per pagina, con righe di diversa lunghezza, era scritto in siriaco, tranne la prima pagina, che si presentava in greco. Fu questa pagina a sconvolgere tutto e tutti. Portava la firma di papa Sergio I, un palermitano, di famiglia siriaca oriunda di Antiochia, poi

trasferitasi in Sicilia in seguito all’invasione araba. Durante il suo non breve pontificato, il 10 aprile del 689, alla vigilia di Pasqua, il re del Wessex, Cædwalla, che, gravemente ferito in combattimento, aveva abdicato, fu battezzato nella Basilica di San Pietro dal pontefice, che gli impose il nome di Pietro. Dieci giorni dopo, Cædwalla morì e fu sepolto nella basilica.

Il testo greco, dopo aver narrato questi fatti, precisava che le ossa dell’altra cassetta appartenevano proprio a quel sovrano, al quale andava riferita l’iscrizione ΠΕΤ ΕΝΙ, posta ad indicare ai pellegrini britannici il luogo di sepoltura del loro re. L’enorme delusione, che si dipinse sui volti funerei dei cinque, doveva poi trasformarsi in qualcosa di ben più grave. La cosa più sconvolgente fu quel che si poteva leggere nelle ultime righe del testo greco. Papa Sergio si professava nestoriano, confessando di aver sempre abilmente occultato questa sua fede e di volerla ancora occultare, finché il passare dei secoli non avesse consentito al popolo cristiano di darne un giudizio più giusto e sereno. Perciò, affidando alle pagine scritte in siriaco la narrazione della verità storica, auspicava che il loro futuro ritrovamento potesse, un giorno molto lontano, far comprendere a tutti la giusta interpretazione delle parole di Gesù: “Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice; tuttavia, non come io voglio, ma come vuoi tu”. Sia contro quelli che attribuivano a Gesù la sola natura divina, sia contro quelli gli attribuivano due nature nell’unica persona divina, papa Sergio concludeva: “Due volontà, quindi due persone discordemente concordi”.

Lo shock dei cinque fu traumatico. Si guardavano smarriti. Il potere papale, l’infallibilità definita dal Concilio Vaticano I, il dogma cristologico, tutto sembrava rimesso

in discussione. Bisognava occultare, dissimulare, celare, tacere. Ma come? Ferrua si diede a staccare con maestria l’iscrizione greca, facendola scivolare dolcemente nella sua borsa. Josi, intanto, faceva eclissare nella sua il manoscritto di papa Sergio. Kaas si affrettava a raccattare qua e là e a sistemare nella cassetta svuotata da Josi alcuni resti di scaglie ossee, un po’ di piombo, un paio di fili d’argento e una moneta dei conti di Limoges. Quindici minuti dopo, veniva chiamato il capo degli operai, Giovanni Segoni, al quale monsignor Kaas consegnò le due cassette, dicendogli con marcata indifferenza di riporle da qualche parte.

Due giorni dopo, monsignor Kaas entrava radioso ed esultante nello studio privato di papa Pacelli con le foto dell’iscrizione. Il rossore del volto di Pio XII spiccava sulla veste bianca. “Santità, – recitava il prelato tedesco – abbiamo aperto il loculo dell’iscrizione, ma abbiamo trovato solo una cassetta vuota. È certo, come attesta questa iscrizione, che quella è la tomba di Pietro, ma è altamente probabile che i suoi resti, a causa della persecuzione di Valeriano, siano stati trasferiti e messi al sicuro nelle catacombe di San Sebastiano. Purtroppo, nell’aprire il loculo, l’iscrizione è stata un po’ danneggiata, per cui ora il padre Ferrua sta cercando di restaurarla nel suo laboratorio”. “Continuate le ricerche”, fu il commento gelido e congedante di Pio XII.

L’ordine papale venne eseguito con scrupolo, ma senza successo. E così, nel radiomessaggio natalizio del 23 dicembre 1950, Pio XII poteva dichiarare: “Se però durante l’Anno Santo la Confessione di S. Pietro in Vaticano è stata testimone e centro di così imponenti manifestazioni della unità dei cattolici di tutto il mondo

nella fede e nell’amore, la gloria di questo luogo sacro ha avuto anche in un altro aspetto il suo compimento, gli scavi sotto la Confessione medesima, almeno in quanto concernono la tomba dell’Apostolo, (ricerche alle quali Noi volgemmo l’animo fin dai primi mesi del Nostro pontificato), e il loro esame scientifico, sono stati, nel corso di questo Anno giubilare, condotti felicemente a termine. Nel più breve tempo una documentata pubblicazione porterà a conoscenza del pubblico il risultato delle diligentissime esplorazioni. Questo risultato è stato di somma ricchezza e importanza. Ma la questione essenziale è la seguente: È stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo Sì. La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata”.

Ma poi proseguiva con voce alterata: “Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute? Al margine del sepolcro furono trovati resti di ossa umane, dei quali però non è possibile di provare con certezza che appartenessero alla spoglia mortale dell’Apostolo. Ciò lascia tuttavia intatta la realtà storica della tomba”.

Tutto sembrava concluso, soprattutto dopo la pubblicazione, l’anno seguente, dei due volumi che presentavano i risultati degli scavi da parte di Josi, Kirschbaum, Apollonj-Ghetti e Ferrua. Ma quest’ultimo, l’anno dopo, ebbe l’infelice idea di pubblicare, su “La Civiltà Cattolica” e “Il Messaggero”, un articolo che, contenendo l’iscrizione greca ΠΕΤ ΕΝΙ, incuriosì l’epigrafista Margherita Guarducci, la quale non solo chiese di poter visitare gli scavi, ma ottenne dal papa l’autorizzazione a fare ulteriori ricerche.

I cinque, o meglio, i quattro, giacché monsignor Kaas era morto da poco, cominciarono a tremare e a trepidare. Non potevano, certo, tradire il segreto e sconvolgere il mondo cristiano. Ma che fare di fronte ad una presunta e presuntuosa archeologa, che si era lanciata a testa bassa nella mischia? La tempesta non tardò a scatenarsi. Anzitutto, Ferrua fu convocato dal Preposito Generale dei Gesuiti, Jean-Baptiste Janssens, che, per ordine espresso del papa, gli intimò di restituire immediatamente il frammento dell’iscrizione alla Reverenda Fabbrica di San Pietro, dove venne chiuso in cassaforte. Poi, arrivò l’attacco ai loro metodi di scavo e il ritrovamento della cassetta delle ossa, che la Guarducci attribuì all’Apostolo, con tutte le conseguenze facilmente immaginabili.

Dopo dieci anni di sopralluoghi, indagini e studi, finalmente, il 25 novembre 1963, l’illustre epigrafista annunciava al neoeletto papa Montini che, con estrema probabilità, le ossa di San Pietro erano state identificate. “Non sa quale gioia mi dà! – esclamò col groppo alla gola Paolo VI – Ne daremo l’annuncio nella festività di Ognissanti dell’anno prossimo”. Era in corso il Concilio Vaticano II. Quale occasione più ghiotta? Ma l’annuncio non fu dato. A nulla valsero le insistenze della passionale Guarducci. L’amletico Montini era preso tra due fuochi: da una parte, l’opposizione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana; dall’altra, la bizzosa e focosa professoressa, alla quale, il 28 ottobre del 1966, Paolo VI continuava a ripetere: “Quelle ossa sono per noi come oro”.

A porre fine all’indecisione papale fu l’esigenza di confortare la presa di posizione contro il gran numero di teologi e vescovi che sostenevano la liceità della pillola

anticoncezionale. Il 25 luglio del 1968, Paolo VI pubblicava l’enciclica “Humanae Vitae”; un mese prima, il 26 giugno, durante l’udienza generale nella Basilica di San Pietro, dopo aver ricordato che “gli scavi, difficilissimi e delicatissimi, furono eseguiti, fra il quaranta e il cinquanta, con i risultati archeologici di somma importanza, che tutti sanno, per merito degli insigni studiosi ed operatori che all’ardua ricerca hanno dedicato cure degne di plauso e di riconoscenza”, concludeva: “Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di San Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica. Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche. Ma da parte Nostra Ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, di dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice”.

Dunque, lode alla Guarducci, ma possibilità di revisioni future. Così l’amletico Montini riapriva la questione, favorendo l’insurrezione dei quattro, che, già un mese prima, erano stati invitati con insistenza dal Sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Benelli, a far pervenire le loro osservazioni: ne era venuto fuori un memoriale di 11 pagine, nel quale Ferrua, a nome degli altri tre, contestava il ritrovamento delle ossa. Memoriale che papa Montini aveva fatto inviare alla Guarducci con l’invito ad esporre le proprie osservazioni. Il 14 maggio, la professoressa aveva replicato con ben 45 pagine, così stroncate da Ferrua su “La Civiltà

Cattolica”: “La solita valanga di parole in mancanza di fatti precisi”. A tutto questo si riferiva Paolo VI, quando precisava che “non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche”. Comunque, il 27 giugno del 1968, la cassetta delle presunte ossa petrine veniva riposta solennemente nel loculo del presunto ritrovamento.

Così per i quattro, diventati poi tre, perché Kirschbaum moriva nel 1970, le cose sembravano volgere al peggio. In una serie di incontri burrascoso, dopo lunghe ed accese discussioni, decisero di uscire dall’angolo e di contrattaccare. In un’udienza riservatissima, il 26 giugno del 1974, rivelarono all’angosciato Montini una parte di verità, cioè la storia del re del Wessex, storia che distruggeva l’identificazione petrina dell’iscrizione e delle ossa. Nulla dissero di papa Sergio. Ma la mezza verità fu sufficiente a turbare profondamente il papa, che con voce rotta dal pianto li vincolò al più assoluto silenzio sull’intera questione, sotto pena di scomunica.

Fu l’inizio della fine per la battagliera Guarducci, alla quale il Delegato della Reverenda Fabbrica di San Pietro, monsignor Lino Zanini, vietò prima l’accesso ai sotterranei vaticani, poi l’edizione delle guide, infine anche lo scatto delle foto. Fino al giorno della sua morte, il 2 settembre 1999, pur duellando sempre col suo quasi coetaneo nemico giurato Antonio Ferrua, che le sopravvisse di quattro anni, l’ormai più che attempata epigrafista non riuscì mai a capire i motivi di quel duro e secco capovolgimento di fronte da parte del Vaticano nei suoi confronti. Avrei potuto dargliene ampia e sufficiente spiegazione, ma non volli: la Guarducci mi era cordialmente antipatica. Le mie simpatie erano rivolte

piuttosto al mio ex-professore, che mi aveva sorpreso ancora una volta.

Il 29 giugno del 1974, cioè tre giorni dopo la fatidica udienza papale, mi giunse una telefonata dall’ormai ottantanovenne Enrico Josi. La sua voce sembrava giungere dalle catacombe di San Callisto: sarebbe morto appena un anno dopo. Un singolare, imprevedibile, inusuale, inconsueto, insolito, anomalo, strano e curioso invito a casa sua.

- Ho saputo dal mio vecchio amico Costantino Vona che lei ha studiato il siriaco -, m’investì quasi sull’uscio.

- Sì, ho frequentato per qualche anno le sue lezioni private e gratuite -, risposi insospettito.

- Bene. Ho bisogno di un giovane cui affidare un preziosissimo manoscritto siriaco e che s’impegni con giuramento solenne a trasmetterlo, a sua volta, quando sarà vecchio, ad un altro giovane con le stesse modalità. Ne va della salvezza della Chiesa. Se la sente? -.

Rimasi intontito e spaventato, poi ripresi fiato, ma riuscii solo a far cenno di sì con la testa. Il vecchio professore, ansimando e quasi barcollando, scomparve nella stanza attigua. Quando riapparve, aveva tra le mani tremanti una cassetta metallica. “Il manoscritto è qui dentro. – aggiunse con un filo di voce – Lei non deve assolutamente leggerlo. Ne va della sua salvezza eterna”. Giurai. Presi la cassetta con estrema delicatezza. Mi muovevo come un automa. Il saluto tra noi fu silenzioso, aereo, sfumato, espressivo ma quasi impercettibile da chiunque avesse assistito alla scena. Il borsone, in cui era contenuto il prezioso e impegnativo fardello, mi risultava quanto mai oneroso. Non l’ho più toccato fino ad

oggi. A distanza di tanti decenni, morti tutti i testimoni (Apollonj-Ghetti già nel 1989), non più credente, prevale in me, ormai, soltanto la curiosità incontenibile di conoscere il contenuto di un manoscritto tanto misterioso, recondito, inquietante. L’attacco del testo è, a dir poco, sorprendente: “Gesù morì volente o nolente?”. La risposta è data tracciando la lunga storia del nestorianesimo. Ma lascio la parola al papa Sergio I.

Da ragazzo, ascoltando mio nonno, mi risultava simpatico Ario, che aveva fatto di Gesù un uomo divinizzato, mentre odiavo quell’assassino di Cirillo d’Alessandria, che ne aveva fatto un dio disumanizzato. Dunque, in principio era stato Ario a convincere mezzo mondo che Gesù aveva solo una natura umana. Poi, Apollinare riuscì a convincere l’altra metà del mondo che Gesù aveva solo una natura divina. Infine, si arrivò allo scontro tra Nestorio e Cirillo, e così tutte le controversie teologiche degenerarono in lotte per il potere tra i vescovi di Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Roma. Cirillo era succeduto sulla cattedra di Alessandria a suo zio Teofilo, un ambiziosissimo intrigante. Nestorio, da parte sua, accusava Cirillo di apollinarismo. Allora, Cirillo si rivolse alla corte di Costantinopoli, esponendo le sue idee all’imperatore Teodosio II, a sua sorella Pulcheria, all’imperatrice Eudossia e alle principesse Arcadia e Marina; quindi, riunì ad Alessandria i vescovi d’Egitto e inviò al vescovo di Roma, Celestino, una lettera, in cui descriveva con grande abilità e astuzia a tinte fosche la situazione della chiesa di Costantinopoli sotto Nestorio. E fu così che Celestino, convinto da Cirillo, condannò Nestorio. Ma, intanto, anche Nestorio si rivolse alla corte imperiale, avendo dalla sua parte l’imperatore, il quale indirizzò una durissima lettera a Cirillo, rimproverandolo

di aver seminato la discordia nella famiglia imperiale e ingiungendogli minacciosamente di presentarsi al concilio che stava per convocare ad Efeso: qui inviò il comandante delle guardie imperiali, che doveva garantire l’ordine e impedire ai vescovi di allontanarsi prima della conclusione del concilio. Ma Cirillo, a sua volta, vi giunse con una cinquantina di vescovi egiziani, scortati da monaci e guardie del corpo, che, però, non mancavano nemmeno a Nestorio. Le risse tra i partigiani dell’uno e dell’altro animavano le vie di Efeso. Comunque, il concilio, abilmente pilotato da Cirillo, che fece scomunicare e deporre Nestorio, prima che arrivassero i numerosi vescovi a lui favorevoli, non risolveva la controversia. Infatti, quando giunsero i vescovi favorevoli a Nestorio, la situazione si rovesciò, perché questi scomunicarono e deposero Cirillo. Allora, l’imperatore ordinò che nessun vescovo lasciasse Efeso, prima che si arrivasse ad una nuova deliberazione, con la quale, poi, ordinò la deposizione sia di Cirillo che di Nestorio. Ma l’abilissimo Cirillo fece, allora, ricorso ai suoi metodi abituali, corrompendo i funzionari imperiali con una montagna di regali: fiumi di oro, avorio, lino, seta, ecc. E fu così che Nestorio fu esiliato nel deserto libico e i suoi seguaci perseguitati, mentre Cirillo continuò a governare la chiesa alessandrina e a trovare anche da morto un seguace in Eutiche, un monaco, che non solo dirigeva tutti i monaci di Costantinopoli favorevoli a Cirillo, ma aveva anche un grande potere sulla corte imperiale, perché il suo figlioccio, l’eunuco Crisafio, era il favorito dell’imperatore: tramite Crisafio l’autorità di Eutiche crebbe a tal punto da azzerare l’influenza anticirilliana di Pulcheria su Teodosio e da costringerla perfino ad abbandonare il palazzo imperiale. Sembrava vincente

così la dottrina dell’unica natura divina di Gesù. Ma, come diceva mio padre, grande era la confusione di parole e concetti: i cirilliani vedevano in Gesù due nature nell’unica persona divina, negando che fosse anche una persona umana e facendone così un uomo a metà; i nestoriani si sforzavano di trovare in Gesù un accordo tra la sua persona umana e la sua persona divina; gli eutichiani sostenevano che dopo l’unione della divinità con l’umanità c’era in Gesù solo la natura divina. Efeso fu il trionfo di Eutiche. A chi sosteneva le due nature i vescovi gridavano: Cacciatelo!Bruciatelo vivo! Tagliatelo a pezzi! Squartatelo, perché ha diviso Gesù! Ma con la morte improvvisa dell’imperatore Teodosio II e la conseguente condanna dell’eunuco Crisafio il vento cambiò. Si giunse così al tumultuoso concilio di Calcedonia, che vide il trionfo dei cirilliani per imposizione imperiale: due nature unite nella sola persona divina. La reazione degli eutichiani non si fece attendere: protetti dall’imperatrice Eudossia, vedova di Teodosio II, i monaci misero a ferro e fuoco tutto l’Oriente, costringendo così l’imperatore Zenone a proclamare un editto col quale, condannando sia i nestoriani che gli eutichiani, confermava che tutto ciò che aveva fatto Gesù doveva essere attribuito esclusivamente alla sua unica persona divina, perché non c’era in lui una persona umana, ma solo una natura umana. Ma, quando morì Zenone, il suo successore, Anastasio, si diede ad appoggiare gli eutichiani a tal punto da provocare sommosse, rivolte e massacri tra i cirilliani. Toccò, poi, all’imperatore Giustiniano, fortemente influenzato da sua moglie Teodora, perseguitare i nestoriani e favorire gli eutichiani. Ne seguirono decenni di guerra civile tra monaci nestoriani ed eutichiani, che la polizia imperiale

faticava a reprimere in tutto l’impero. A complicare ulteriormente le cose fu il patriarca Sergio di Costantinopoli, che dall’unica persona divina di Gesù dedusse che avesse, quindi, un’unica volontà, essendo impossibile che lo stesso soggetto abbia insieme, riguardo alla stessa cosa, due volontà contrarie, come scrisse al papa Onorio, ricevendone l’approvazione, per cui la dottrina dell’unica volontà fu proclamata nel concilio di Costantinopoli, al fine di evitare il risorgere del nestorianesimo, perché, se Gesù avesse avuto due volontà contrapposte, avrebbe avuto una doppia personalità con tutte le nefaste conseguenze facilmente immaginabili. Poi, un altro concilio di Costantinopoli condannò sia quella dottrina sia il papa Onorio, che l’aveva sostenuta, sicché il papa Leone II condannò come eretico il suo predecessore Onorio, che aveva tentato di sovvertire la fede immacolata con un tradimento profano. Ma, quando il successivo concilio Quinisesto ribadì gli anatemi contro Onorio, io, costretto dall’ambiente antinestoriano della chiesa romana, dovetti sconfessare i miei delegati, che avevano firmato gli atti di quel concilio, ma adesso che sono prossimo a morire, voglio confessare la fede che ho dovuto tenere nascosta durante tutto il mio pontificato: Io, Sergio, vescovo della chiesa di Roma, credo fermamente che Gesù in quanto persona umana non voleva morire, mentre volle morire in quanto persona divina. Ho, quindi, voluto che questa mia fede fosse seppellita con me sotto la basilica vaticana, perché non si perda la memoria del grande Nestorio e si affermi la sussistenza in Gesù di due volontà, quindi di due persone discordemente concordi. Perciò, se, in futuro, un mio successore mi proclamerà eretico, non

meno eretico di me dovrà dirsi il mio predecessore Onorio.

Conclusione sconcertante. Ma un regno edificato su un falso, volente o nolente, resta comunque esposto a qualsiasi falsificazione. Ad maiorem rei gloriam.