Per lo studio del bestiario dantesco, in «Bollettino Dantesco per il Settimo Centenario», 1,...

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Comitato Ravennate della Società Dante Alighieri PER IL SETTIMO CENTENARIO Diretto da ALFREDO COTTIGNOLI e EMILIO PASQUINI Direttore responsabile FRANCO GÀBICI numero 1 settembre 2012

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Comitato Ravennate della Società Dante Alighieri

per il settimo centenario

Diretto da alfredo cottignoli e emilio pasquini

Direttore responsabilefranco gàbici

numero 1settembre 2012

Aut. Tribunale di Ravenna n. 1392 del 14-06-2012 Direttore responsabile: Franco Gàbici

ISSN: 2280-823x ISBN: 978-88-96117-20-0

Copyright © 2012 Giorgio Pozzi Editore

Stampato in mille copie

Via Col di Lana, 23 – RavennaTel. 0544 401290 - fax 0544 1930153

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Le illustrazioni di questo numero provengono dall’archivio di Franco Poggiali

In copertina: Foto di Marco Garoni

Questo numero è dedicato a Mario Pierpaoli (1924-2012) e Luigi Malkowski (1953-2003)

Finito di stampare nel settembre 2012 da Stampa Editoriale, Manocalzati (AV)

Questa pubblicazione è edita con il contributo della

La copertina del primo numero del «VI centenario dantesco», del gennaio 1914

giuseppe ledda

Per lo studio del bestiario dantesco. In margine a Gli animali fantastici nel poema dantesco di Guido Battelli

1. Gli animali fantastici e il bestiario simbolico medievale

n apertura del suo saggio, Guido Battelli osservava che «gl’innumerevoli Bestiarii» circolanti nella cultura medievale «ci danno notizia di strani mostri che accoppiavano insieme parti d’animali diversi e ne riunivano le proprietà malefiche, come draghi e grifoni, aspidi e basilischi, leucrote

e manticore, tarandri e corocotte. Essi ci parlano ancora della fenice e delle sirene; e degli animali realmente esistenti ci narrano singolari leggende». Lo studioso se-gnalava subito l’ampia diffusione di questo «ricco materiale leggendario» nei diversi generi letterari ed in varie tipologie testuali: «la lirica amorosa […] lo volse in senso profano, mentre la Chiesa se ne giovò per le sue allegorie mistiche, e i moralisti ne trassero esempio per le rappresentazioni dei vizi e delle virtù umane» 1.

E «anche nel poema di Dante», proseguiva, «troviamo traccia di codesti animali fantastici, che non debbono essere confusi con le mere finzioni poetiche suggerite

1. Sul bestiario medievale e la sua diffusione in un’ampia e diversificata gamma di testi e generi letterari, si possono vedere alcune trattazioni complessive recenti: Beasts and Birds of the Middle Ages . The Bestiary and its Legacy, a cura di W.B. Clark e M.T. McMunn, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1989; Michel Pastoureau, Bestiaire du Christ, bestiaire du dia-dia-ble, in Id., Couleurs, images, symboles . Études d’histoire et d’anthropologie, Paris, Le Léopard d’or, 1989, pp. 85-110; Jacques Voisenet, Bestiare chrétien . L’imagerie animale des auteurs du Haut Moyen Âge (Ve-XIe s .), Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 1994; Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino, Einaudi, 1996; L’animal exemplaire au Moyen Âge (Ve-XVe siècle), a cura di J. Berlioz e M.A. Polo de Beaulieu, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 1999; Jacques Voisenet, Bêtes et Hommes dans le monde médiéval . Le bestiaire des clercs du Ve au XIIe siècle, Turnhout, Brepols, 2000; «Micrologus», VIII (2000): Il mondo animale / The World of Animals; Francesco Zambon, L’alfabeto simbolico degli animali . I bestiari del medioevo, Milano, Luni, 2001; Maria Pia Ciccarese, Animali simbolici . Alle origini del bestiario cristiano . I (agnello-gufo), Bologna, Edizioni Dehoniane, 2002; II (leone-zanzara), ivi, 2007; Simbolismo animale e letteratura, a cura di Dora Faraci, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2003; Bestiaires médiévaux . Nouvelles perspectives sur les manuscripts et les traditions textuelles, a cura di B. Van den Abeele, Louvain-La-Neuve, Université Catholique de Louvain, 2005; Michel Pastoureau, Bestiaires du Moyen Âge, Paris, Seuil, 2011.

«Bollettino dantesco», numero 1, settembre 2012

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dalla mitologia antica, come ad esempio i Centauri e le Arpie, Cerbero e Gerio-ne. Il drago, l’anfesibena, il grifone, la fenice e la sirena di cui è fatto parola nella Commedia, erano realtà certe della scienza medievale» (p. 107). Ed è proprio su questi «cinque animali favolosi sopra ricordati» che il Battelli concentra poi la sua attenzione, non prima di aver ribadito che la loro «realtà non poteva mettersi in dubbio ai tempi di Dante» e sottolineato che, per comprendere il riferimento ad essi nel poema dantesco, è sempre necessario vedere «quello che ne suggeriva la scienza d’allora» (p. 108). Lo studioso passa quindi brevemente in rassegna i cinque «animali fantastici», per i quali ricorda alcune notizie tratte da testi me-dievali. Inoltre segnala, senza però farne un vero uso critico, l’importanza del «valore simbolico degli animali» (p. 114) e menziona il fondamentale principio del «dualismo simbolico» (p. 113), oggi riconosciuto come uno dei più importanti dagli studiosi del bestiario medievale.

Il lavoro del Battelli è stato purtroppo seguito da molti decenni di letture mera-mente “estetiche” oppure “realistiche” dei riferimenti agli animali nella Commedia, e solo negli ultimi anni gli studi sono ripresi con vigore, privilegiando proprio le direzioni indicate a suo tempo dal Battelli: donde la necessità di leggere i testi me-dievali, sia quelli “scientifici”, sia la vasta e molteplice letteratura che interpretava le notizie naturalistiche, in chiave simbolica. La conoscenza delle notizie “scientifiche” sugli animali citati da Dante, e dei significati simbolici che ad essi venivano asse-gnati, permette infatti di comprendere meglio come nella Commedia tali riferimenti contribuiscano alla costruzione del significato complessivo del passo in cui sono collocati. Oggi siamo quindi in grado di cogliere meglio la complessità e la ricchezza semantica di questi riferimenti 2.

2. Il morso del serpente e la resurrezione della fenice

La fenice, uno dei cinque «animali fantastici» su cui il Battelli concentra la sua attenzione può essere un buon esempio di questi incrementi critici 3. Sulla fenice lo studioso raccoglie alcune notizie basilari e ne segnala la presenza in Ovidio e Lattan-

2. L’unico studio complessivo sugli animali nel poema dantesco resta il vecchio volume di Richard Thayer Holbrook, Dante and the Animal Kingdom, New York, The Columbia Univer-sity Press - MacMillan, 1902. Uscito qualche anno prima del saggio di Battelli, ma sconosciuto allo studioso, il libro è rimasto totalmente ignorato in Italia (io stesso lo ignoravo sino a poco tempo fa e devo la segnalazione a Marco Ariani, che ringrazio). Negli ultimi anni sono appar-si finalmente numerosi lavori su singoli aspetti. Per ulteriori riferimenti bibliografici e alcuni esempi di analisi rimando a due miei precedenti contributi: Giuseppe Ledda, La «Commedia» e il bestiario dell’aldilà . Osservazioni sugli animali nel «Purgatorio», in La fabbrica della «Com-media» . Atti del Convegno Internazionale di Studi (Ravenna 14-16 settembre 2006), a cura di A. Cottignoli, D. Domini, G. Gruppioni, Ravenna, Longo, 2008, pp. 139-159; Id., Animali nel «Pa-radiso», in La poesia della natura nella «Divina Commedia». Atti del Convegno internazionale di Studi (Ravenna, 10 novembre 2007), a cura di G. Ledda, Ravenna, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, 2009, pp. 93-135.

3. La breve trattazione del Battelli è alle pp. 111-112 del suo articolo.

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zio. Cita quindi il passo dantesco in cui la fenice è menzionata (Inf. XXIV, 106-111) e passa a segnalarne la presenza in altri autori antichi: Erodoto, Tacito, Solino, Plinio, Seneca, Pomponio Mela, Claudiano. Indica poi, pur rapidamente, un punto della massima importanza, l’interpretazione cristiana di questo uccello: «Il risorgere della fenice dopo tre giorni, simboleggiava per i Cristiani la resurrezione del Salvatore». Infine chiude segnalando che «anche nella lirica amorosa del duecento troviamo ricordata di frequente la fenice».

È questa una prima, utile schedatura, che naturalmente andrebbe incrementata e completata, ma soprattutto messa in relazione con il testo dantesco, per provare a capire quali funzioni intertestuali e semantiche la similitudine della fenice è chiamata a svolgere 4. Si tratta di una similitudine, e questo è il primo aspetto da ricordare: infatti gli animali entrano nella Commedia soprattutto attraverso tale strumento re-torico, mentre sono ben pochi quelli incontrati nella realtà del viaggio. L’immagine della fenice è chiamata in causa per illustrare l’incenerimento di Vanni Fucci, morso alla nuca da uno dei serpenti della bolgia dei ladri, e il suo immediato ricostituirsi con lo stesso aspetto corporeo di prima:

Ed ecco a un ch’era da nostra proda,s’avventò un serpente che ’l trafisselà dove ’l collo a le spalle s’annoda. Né O sì tosto mai né I si scrisse,com’el s’accese e arse, e cener tuttoconvenne che cascando divenisse; e poi che fu a terra sì distrutto,la polver si raccolse per sé stessae ’n quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran savi si confessache la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce,ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,e nardo e mirra son l’ultime fasce. (Inf. XXIV, 97-111)

L’intero episodio della bolgia dei ladri è costruito sul confronto-scontro con la grande poesia classica, evidente sin dall’intervento proemiale, che allude ai luoghi popolati

4. Sul trattamento dantesco della fenice cfr. ora Marianna Martina Besca, La fenice inferna-le: una nota su bestiario cristiano e parodia sacra nella bolgia dei ladri («Inf .» XXIV, 97-111), in «L’Alighieri», 35 (2010), pp. 133-152; Francesco Tateo, Lettura di «Inferno» XXIV (l’esemplarità di una similitudine e l’enigma della Fenice), in «L’Alighieri», 38 (2011), pp. 77-90; Eszter Dra-skóczy, Allusioni ovidiane e metamorfosi nei canti XXIV e XXV dell’«Inferno» dantesco, Újlatin Filológia IV, Pécs, 2012 (in c.d.s.). Per un’ampia trattazione recente del mito della fenice nel suo sviluppo storico, cfr. Francesco Zambon e Alessandro Grossato, Il mito della fenice in Oriente e in Occidente, Venezia, Marsilio, 2004; un’utile antologia di testi offre Bruno Basile, La fenice . Da Claudiano a Tasso, Roma, Carocci, 2004; alcuni aspetti del mito nella letteratura medievale sono indagati da Francesco Zambon, Il mito della fenice nella poesia romanza del Medioevo, in Id., L’alfabeto simbolico degli animali . I bestiari del medioevo, Milano, Luni, 2001, pp. 213-241.

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di serpenti cantati nel poema di Lucano (Inf . XXIV, 85-90): dopo innumerevoli riprese e allusioni, l’episodio si chiude con il celebre vanto «Taccia Lucano […] Taccia […] Ovidio» (Inf . XXV, 94-102). E, per molti particolari, il testo principale da cui Dante attinge per le terzine sulla fenice è proprio quello delle Metamorfosi di Ovidio, come segnalato dai commentatori danteschi.

Inoltre, se per il momento della rinascita il modello sembra la fenice ovidiana, per quello precedente, il morso del serpente, pare agire invece ancora Lucano, al cui testo già si alludeva indirettamente nel proemio, ai vv. 85-90, e che sarà poi chiamato in causa direttamente nel canto successivo: «Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca / del misero Sabello e di Nasidio» (Inf . XXV, 94-95). Proprio l’episodio di Sabello è citato da molti commentatori danteschi come modello già attivo nell’ince-nerimento di Vanni Fucci, in quanto nella Farsaglia questo soldato viene morso da un serpente e il suo corpo è disfatto e dissolto dal veleno mortale. Indubbiamente un tale modello può aver agito, ed è certo presente alla memoria di Dante, ma è un modello parziale sul quale si operano importanti variazioni 5. Intanto cambia il luogo del morso, non la gamba ma la nuca, «là dove ’l collo a le spalle s’annoda» (XXIV, 99), punto del corpo ben più importante e vitale, in cui colpiranno anche altri terribili morsi infernali 6. Inoltre è diversa la modalità del disfacimento, che non è la liquefazione e il dissolvimento del corpo fino alla scomparsa di qualsiasi resto, come per Sabello 7, ma è invece un accendersi e bruciare che porta all’istantaneo incenerimento. E proprio l’incenerimento è l’aspetto che permette il passaggio al modello della fenice, che sarà poi attivo anche per il momento successivo, quello della rinascita-ricostituzione.

Ma a questi modelli espliciti va forse aggiunto un altro riferimento, segnalato da Maria Corti, cioè la presenza dei serpenti nell’aldilà islamico secondo il racconto del Libro della Scala:

Nella settima bolgia dantesca ci sono i ladri, soggetti, come tutti sanno, a metamorfosi in serpenti, dopo di che subiscono un veloce ritorno a uomini perché la punizione prosegua. Lo stesso accade nel Libro dove al par. 140 si dice che Dio fa tornare uomini i dannati per nuovamente punirli e al par. 143 si spiega come i serpenti abbiano un veleno che immediatamente brucia e riduce il dannato in cenere («destrueret et reduceret in cine-rem»). A proposito di Vanni Fucci, Dante in Inf. XXIV, 100-3 dice: «Né O sì tosto mai né I si scrisse, / com’el s’accese e arse, e cener tutto / convenne che cascando divenisse»

5. Cfr. in proposito anche E. Draskóczy, Allusioni ovidiane e metamorfosi, cit. 6. Cfr. Inf. XXX, 28-30: «L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo / del collo l’assannò, sì che,

tirando, / grattar li fece il ventre al fondo sodo»; Inf . XXXII, 128-129: «così ’l sovran li denti a l’altro pose / là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca».

7. Per citare solo pochi versi: «Membra natant sanie, surae fluxere, sine ullo / tegmine po-ples erat, femorum quoque musculus omnis / liquitur, et nigra destillant inguina tabe»; «manant humeri fortesque lacerti, / colla caputque fluunt. Calido non ocius austro / nix resoluta cadit nec solem cera sequetur» (Bellum civile IX, 770-772; 780-782). Tuttavia non va dimenticato che anche nel passo lucaniano c’è qualche allusione al fuoco.

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[corsivo di Corti]. Mi sembra che nell’elenco delle fonti al Lucano citato per i serpenti della Libia meriti di essere aggiunto il testo islamico 8.

Oltre alla terzina citata dalla Corti, il passo del Liber Scalae sembra attivo anche nel verso immediatamente successivo: «e poi che fu a terra sì distrutto» (Inf . XXIV, 103), per cui si veda più ampiamente il passo già citato dalla Corti: «dico vobis quod, si Deus preciperet uni ex hiis serpentibus quod ipse percuteret majorem montem tocius mundi cum unico solum dente, ipsum totum destrueret et reduceret in cine-rem, ita sunt ejus vires maxime ac venenum» (§ 143) 9. Come si vede la somiglianza è però meno precisa di quanto sostenesse la Corti: non è infatti «il dannato», come sostiene la studiosa, a essere bruciato e ridotto in cenere dal veleno del serpente, ma «majorem montem tocius mundi» 10. Tuttavia, di questi serpenti si dice che il loro veleno «ita forte et ardens est quod ignem adurit inferni», e poi che «cum peccato-res inveniunt, tangunt eos aliquantulum cum dentibus suis et modicum quid super eos de hujusmodi veneno effundunt; ac venenum mox eos destruit et minute per membra dividit ac eciam per juncturas a capitibus eorum usque ad pedum ungues» (§ 144). Perciò, pur con le precisazioni del caso, il passo resta pertinente, benché non identico, e potrebbe aver agito su Dante per l’incenerimento di Vanni Fucci provocato dal morso di un serpente infernale.

Tanto più che nello stesso contesto Dante poteva trovare anche l’idea della rico-stituzione per opera divina dei peccatori distrutti dal veleno delle bestie infernali. Il paragrafo in cui, come riporta la Corti, «si dice che Dio fa tornare uomini i dannati per nuovamente punirli» è riferito non ai serpenti della «quarta terra» dell’inferno, bensì agli scorpioni della «seconda terra» (§§ 139-140). Tuttavia i passi sono contigui e tra i rettili diabolici esiste una sostanziale intercambiabilità:

Dedit enim Deus scorpionibus istis potestatem super peccatores inferni; nam, quando eos inveniunt, accipiunt illos per capillos capitum suorum et excoriant eos a capitibus usque ad pedes, ita quod ipsi sic stupefacti remanent, quod homo discernere non potest utrum existant mortui aut vivi. Et postquam ipsos ita excoriaverunt, fundunt super eos venenum vasis unius ex vasis predictis. Et illud eciam ita fortissimum est quod in una parte separat carnem, in alia vero ossa et in alia quidem nervos et hoc modo totaliter ipsos vastant. Verumptamen Deus iterum facit eos velut prius existerant ad hoc ut amplius torqueantur. (Liber Scalae Machometi, § 140)

Oltre all’effetto devastante del veleno e alla ricostituzione dei peccatori per mano divina allo scopo di essere nuovamente tormentati (si confronti «Deus iterum facit eos velut prius existerant», con «e ’n quel medesmo ritornò»), si può anche osservare

8. Maria Corti, La «Commedia» e l’oltretomba islamico, in Ead., Scritti su Dante e Cavalcanti, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 365-379, a p. 378.

9. Cito il testo del Liber Scalae Machometi da Enrico Cerulli, Il «Libro della Scala» e la questione delle fonti arabo-spagnole della «Divina Commedia», Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949.

10. Cfr. E. Draskóczy, Allusioni ovidiane e metamorfosi, cit.

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lo smarrimento e la stupefazione dei peccatori dopo aver subito la prima parte del tormento, che mostra qualche analogia con lo stato di stupefazione di Vanni Fucci quando si rialza dopo l’incenerimento e la ricostituzione (Inf . XXIV, 115-117).

Ma si può allegare anche un nuovo passo del Liber Scalae, oltre a quelli segnalati dalla Corti:

Cum vero contingit peccatorem cadere in infernum, dracones et scorpiones capiunt eum; et effundunt super ipsum de veneno hujusmodi et peccatorem ita destruunt velut si eciam nichil esset. Sed tamen ipse postmodum redit prout ante existerat, ut amplius torqueatur. Et post hoc eciam induunt eum septuaginta coria, excepto corio proprio quod habebat. Et unumquodque ipsorum coriorum habet in spisso LXX cubitos. Nam spacium illud quod est inter coriorum singula totum plenum est parvis serpentibus et scorpionibus, qui eum sic duriter mordent ac veneno inficiunt quod ipse milies libencius mori vellet quam penam sustinere prefatam. Et nichilominus uret eum flamma ignis septuaginta milibus horarum in die; sed nunquam propter hoc mori poterit quia Deus hoc fieri non patitur; imo vivet continue ut plus penarum habeat in inferno. Nam ille quidem pene sibi sine fine durabunt, prout ipse idem Dominus in Alkoran locutus est: «Cum peccatorum coria combusta extiterint, eis nova denuo faciemus ut plus sustineant tormentorum, quia Deus sapiens est et super omnia quidem potens». (Liber Scalae Machometi, § 196)

Anche qui è presente il motivo del veleno dei rettili infernali che annienta i pecca-tori, i quali però tornano come prima per essere nuovamente tormentati e distrutti. L’annientamento per combustione viene citato subito dopo (benché non causato dalle bestie infernali) e anche in questo caso si sottolinea con enfasi la continua ricostituzione della pelle arsa e distrutta dal fuoco, perché il peccatore possa essere bruciato all’infinito. Questo principio è rafforzato con una citazione dal Corano.

Non ho trovato nell’ampio corpus della letteratura cristiana di viaggi e visioni dell’aldilà nessun testo così prossimo a quello dantesco come questa serie di para-grafi del Liber Scalae (140, 143, 196) 11. Pur non citato esplicitamente, il testo esca-tologico islamico potrebbe forse entrare nella complessa rete intertestuale su cui è costruito l’episodio dantesco. Esso offre un numero notevole di riscontri puntuali:

11. Il principio della riformazione del corpo perché la punizione possa continuare ancora è già nel passo virgiliano sulla punizione di Tizio: «nec fibris requies datur ulla renatis» (Aen. VI, 600). Esso è poi in più occasioni nella Visio Tnugdali (ed. a cura di Albrecht Wagner, Hil-desheim-Zurich-New York, Georg Olms Verlag, 1989), a proposito delle anime liquefatte dal fuoco: «Qua descendentes anime quasi cera liquebant / et colabantur liquefacte, per quod in igne, / sicut per pannum colatur cera liquescens. / Quo renovabantur ad penas rursus easdem» (vv. 951-954, p. 89); e poi per le anime divorate da una terribile «bestia alata»: il passaggio “di-gestivo” attraverso il ventre del demonio provoca una totale annichilazione dell’anima punita, ma poi la sua rigenerazione per poter subire nuovamente il tormento, e così all’infinito: «quo captas animas et ventre voratas / et velud ad nichilum male per tormenta redactas / egerit, et rursus eadem ad tormenta novantur» (vv. 1085-1087, p. 93). Tuttavia, in questi passi, al di là del generico rinnovamento delle anime dopo l’annientamento per poter essere nuovamente punite, mancano altri elementi di contatto con l’episodio del morso, incenerimento e rinascita di Vanni Fucci, numerosi e puntuali invece nel Liber Scalae.

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i serpenti e gli altri rettili; il loro terribile veleno; il preciso effetto di combustione e incenerimento delle membra che esso provoca sino all’annientamento del pec-catore o alla sua riduzione in cenere; la ricostituzione-rigenerazione del peccatore nello stato precedente, per essere nuovamente punito. Proprio la combustione e l’incenerimento, e poi la riformazione del peccatore sono gli elementi che fanno scattare l’analogia con la fenice.

Ma della fenice, come segnala, pur rapidamente, il Battelli, si dà un’importante interpretazione simbolica nell’ambito del bestiario cristiano: già il Fisiologo, il capostipite di questo genere letterario, ne propone l’interpretazione cristologica: «Est aliut volatile quod dicitur phenix. Huius figuram gerit Dominus noster Iesus Christus, qui dicit in Evangelio suo: “Potestatem habeo ponendi animam meam et iterum sumendi eam”» 12.

Nel bestiario cristiano la fenice conta innumerevoli occorrenze e un’interpreta-zione univoca e costante, con minime variazioni, come simbolo della resurrezione di Cristo e di quella promessa al cristiano 13. Un altro aspetto rilevante nel contesto del passo dantesco, che risulta assente in Ovidio e presente nel bestiario medievale, è quello della combustione e dell’incenerimento 14. Tra i tanti testi che si potrebbero citare è il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, che si è rivelato più volte ben presente a Dante: «cum suum sentit defectum, nidum facit ex lignis aromaticis, et multum siccis, quae in aestate ex fervore solis stante Favonio, accenduntur, quibus iam accensis sponte nidum ingreditur, et ibidem inter ligna ardentia incineratur, ex quo cinere infra triduum quidam vermiculus nascitur, qui paulatim plumas reci-piens in volucrem reformatur» (XII, 14). Tra i tanti che parlano della fenice questo è l’unico testo che contiene, a brevissima distanza, tre elementi lessicali presenti nel passo dantesco, pur spostati dalla fenice al peccatore: accenduntur e accensis (in figura etimologica); ardentia; incineratur e ex quo cinere; da confrontare con il verso «s’accese e arse e cener tutto». Naturalmente le glosse marginali assegnano un simbolismo cristologico e resurrezionale alla fenice: «Nota optimum de resur-rectione Christi et sanctorum» 15.

L’uso simbolicamente incongruo di questa immagine come veicolo di una simili-tudine che ha per tenore un dannato infernale può essere compreso nel quadro del

12. Physiologus Versio BIs, IX, in L. Morini, Bestiari medievali, cit., pp. 24-27.13. Per una rassegna dei principali testi, cfr. M. M. Besca, La fenice infernale, cit., pp. 137-144;

Zambon-Grossato, Il mito della fenice in Oriente e in Occidente, cit.14. Si vedano i versi di Ovidio: «Quo simul ac casias et nardi lenis aristas / quassaque cum

fulva substravit cinnama murra, / se super inponit finitque in odoribus aevum. / Inde ferunt, to-titem qui vivere debeat annos, / corpore de patrio parvum phoenica renasci» (Met. XV, 398-402) e di contro le poche righe dell’influentissima enciplopedia di Isidoro di Siviglia, le Etymologiae: «Haec quingentis ultra annis vivens, dum se viderit senuisse, collectis aromatum virgulis, rogum sibi instruit, et conversa ad radium solis alarum plausu voluntarium sibi incendium nutrit, sic-que iterum de cineribus suis resurgit» (XII, vii, 22).

15. Sulle glosse al De proprietatibus rerum cfr. Baudouin Van den Abeele, Simbolismo sui margini . Le moralizzazioni del «De proprietatibus rerum» di Bartolomeo Anglico, in Simbolismo animale e letteratura, a cura di D. Faraci, Roma, Vecchiarelli, 2003, pp. 159-183, p. 176 per la trascrizione delle glosse relative alla fenice.

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fenomeno della parodia sacra, a cui Dante ricorre continuamente nell’Inferno 16. Il dannato è come una perversa fenice infernale, condannata a incenerirsi e a rinascere all’infinito solo per essere ancora eternamente punita. Se questo tipo di punizione trovava dei paralleli nei testi escatologici islamici, ciò che lì mancava, e che segna la superiorità dell’aldilà cristiano e del testo che lo rappresenta, è proprio la simili-tudine con la fenice, che ricorda la resurrezione di Cristo come l’evento che rende possibile la resurrezione del cristiano alla vita eterna e che, parodiata nella fenice infernale, mostra il senso profondo della dannazione come privazione della vera resurrezione.

In questa chiave acquistano un senso più pieno anche i superamenti rivendicati nei confronti dei testi classici di serpenti e metamorfosi. Se nella similitudine della fenice l’imitazione ovidiana è più scoperta, ciò svolge proprio la funzione di rivelare quello che nel testo classico è assente: il valore della fenice come simbolo cristologico della resurrezione alla vita eterna.

3. Una salamandra nel fuoco purgatoriale?

Se il caso della fenice rientra tra quelli degli «animali fantastici», come li definiva Battelli, occorre però ricordare che tutti gli animali sono in qualche modo “fanta-stici”, in quanto, come segnalava lo studioso, i bestiari e le enciclopedie medievali anche «degli animali realmente esistenti ci narrano singolari leggende, come della salamandra che guizza giuliva tra le fiamme, del leone che con la coda cancella le orme dei suoi piedi, della lince che trapassa col guardo le muraglie e le montagne, della rondine che ridona la vista ai suoi piccoli con la celidonia, e del pellicano che li risuscita cospargendoli col proprio sangue» (p. 107). Perciò non ha molto senso, nell’interpretare un testo medievale come la Commedia, distinguere tra gli animali «reali» e quelli «fantastici», e occorre sempre ricordare la loro capacità di veicolare significati simbolici.

Alcuni di questi animali «reali» citati dal Battelli per le loro proprietà fantastiche sono presenti nella Commedia, ma non la salamandra: forse però anche questa assenza potrebbe essere significativa. Nel canto XXVI del Purgatorio, per le anime della settima cornice si trovano tre similitudini animali, come tre erano per i lussuriosi infernali nel V canto dell’Inferno. Le anime dei lussuriosi penitenti nel fuoco sono

16. La rassegna più completa e dettagliata di questo fenomeno è la tesi di laurea di Filippo Zanini, Retorica e parodia sacra nell’«Inferno» dantesco, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, A.A. 2009-2010. Su singoli aspetti rilevanti cfr. Guglielmo Gorni, Parodia e Scrittura in Dante, in Dante e la Bibbia, a cura di G. Barblan, Firenze, Olschki, 1988, pp. 323-340; Erminia Ardissino, Parodie liturgiche nell’«Inferno», in Ead., Tempo liturgico e tempo storico nella «Com-media» di Dante, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009, pp. 31-49; Filippo Zanini, «Simulacra gentium argentum et aurum» . Parodia sacra e polemica anticlericale nell’«Inferno», in «L’Alighieri», 39 (2012), pp. 133-147.

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paragonate a formiche (Purg. XXVI, 31-36); poi a gru in migrazione (vv. 43-48) 17; infine, una tra queste anime, Guido Guinizzelli, dopo aver colloquiato con Dante si nasconde nuovamente nel fuoco, come un pesce nell’acqua:

Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo fococome per l’acqua il pesce andando al fondo. (Purg. XXVI, 133-135)

Lo stesso gesto è ripetuto anche da Arnaut Daniel: «poi s’ascose nel foco che li affina» (148). Quest’ultimo verso sigilla la rappresentazione degli spiriti del Purga-torio. Annunciati fin dall’inizio del poema come «color che son contenti / nel foco» (Inf. I, 118-119), nell’ultima immagine questi spiriti purgatoriali si nascondono nel fuoco come pesci nell’acqua. Nella similitudine purgatoriale l’immagine si basa sul rapporto analogico: i pesci stanno all’acqua come le anime del Purgatorio stanno al fuoco. Una tale immagine è molto frequente nella letteratura medievale sull’aldilà: essa è usata in riferimento agli animali infernali che puniscono i peccatori: vermi, serpenti, draghi e scorpioni che vivono nel fuoco come i pesci nell’acqua. Eccone la formulazione classica di Onorio di Autun, poi ripresa in numerosi testi, tra cui i poemetti oltremondani duecenteschi di Giacomino da Verona e Bonvesin da la Riva: «Tertia [scil. poena], vermes immortales, vel serpentes et dracones visu et sibilo horribiles, qui ut pisces in aqua, ita vivunt in flamma» 18.

Rispetto a questa tradizione, concorde nel paragonare i pesci nell’acqua a esseri diabolici o infernali, è evidente il rovesciamento operato da Dante, che si serve della stessa immagine per indicare invece la condizione degli spiriti del Purgatorio: il fuoco nel quale le anime-pesci si immergono è un fuoco penitenziale e purificatorio, non infernale ed eterno, tanto che i pesci torneranno poi nella prima similitudine animale usata nel Paradiso per le anime dei beati che vengono incontro a Dante nei singoli cieli 19.

17. Su queste prime due similitudini, cfr. G. Ledda, La «Commedia» e il bestiario dell’aldilà, cit., pp. 149-156.

18. Onorio di Autun, Elucidarium, IV, 4, (PL 172, 1160). Cfr. inoltre Giacomino da Verona, De Babilionia civitate infernali, 153-156: «E sì com’entro l’aigua se noriso li pissi, / così fa en quel fogo li vermi malëiti, / ke a li peccaori ke fi là dentro missi / manja i ocli e la bocca, le coxe e li gariti»; Bonvesin da la Riva, De scriptura nigra, 405-408: «Li vermini venenusi in l’eternal calura / scorpïon, bisse, serpenti, dragon de grand pagura, / com fan li pisci entr’aqua, ghe viven per natura, / ke lo peccator venenano con pessima morsura»; Liber Scale Machometi, § 24: «De an-gelis quidem inferni de quibus queris, scias quod Deus creavit eos omnes de igne et sunt in igne nutriti. Et si hora sola de igne exirent, subito morerentur, nec possent sine igne vivere: sicut nec pisces eciam sine aqua».

19. Si tratta degli spiriti attivi che si presentano a Dante nel cielo di Mercurio: «Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura / traggonsi i pesci a ciò che vien di fori / per modo che lo stimin lor pastura, // sì vid’ io ben più di mille splendori / trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia: / “ecco chi crescerà li nostri amori”» (Par. V 100-105). Cfr. G. Ledda, Animali nel «Paradiso», cit., pp. 98-99.

96 giuseppe ledda

Ma se questa analisi può essere valida in generale per le anime del Purgatorio, si potrebbe aggiungere poi una prospettiva più precisamente riferita ai lussuriosi e in particolare a Guinizzelli, a cui pertiene la similitudine. Quella del fuoco è una delle immagini più usate dai poeti per parlare d’amore, e nel fuoco della settima cornice troviamo proprio due poeti d’amore, Guinizzelli e Arnaut Daniel. C’è un animale che vive nel fuoco, citato all’infinito dai lirici provenziali e italiani, come immagine del poeta che vive nel fuoco amoroso senza consumarsi: la salamandra, la quale, come dice Giacomo da Lentini, «vive nel foco stando sana» 20. Il dato era del resto assicurato dai naturalisti ed enciclopedisti: «Salamandra vocata, quod contra incendia valeat. […] Vivit enim in mediis flammis sine dolore et consummatione, et non solum quia non uritur, sed extinguit incendium» 21, e nel Liber monstrorum si aggiungeva persino il paragone con i pesci nell’acqua: «in ignibus velut pisces in aqua vivere posse perhibetur» (III, 14). Tra gli innumerevoli poeti provenzali e italiani che paragonano variamente la propria condizione amorosa a quella della salamandra 22, è proprio Guido Guinizzelli:

già per cui lo meo corealtisce in tal lucoreche si ralluma comesalamandra ’n foco vive,ché ’n ogne parte vive lo meo core. (G. Guinizzelli, Lo fin pregi’ avanzato, 35-39)

Dante non cita la salamandra, ma la sostituisce con il pesce, come se, divenendo pesci nel «foco che li affina», Guido e Arnaut purifichino la loro vita di salamandre nel fuoco amoroso.

Il quadro si complica se si considera che la salamandra è anche nel bestiario cristiano, dove è simbolo degli uomini santi che bruciano nella fornace ardente, ma ne escono salvi, a partire dall’autorevole testimonianza del Fisiologo:

Phisiologus dicit de eo quoniam, si casu inciderit undecunque in caminum ignis vel in fornace ardentis ignis, aut in quocumque incendio, statim extinguitur ignis. Isti sunt iusti et mirabiles homines Dei. Sic fuerunt in camino ignis ardentis Ananias, Azarias,

20. Nella celebre canzone Madonna, dir vo voglio, 24-30: «foc’aio al cor non credo mai si stingua, / anzi si pur alluma: / perché non mi consuma? / La salamandra audivi / che ’nfra lo foco vivi stando sana; / eo sì fo per long’uso, / vivo ’n foc’amoroso».

21. Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XII, iv, 36.22. Per una rassegna di testi si vedano le note puntuali di Roberto Antonelli, in I poeti della

scuola siciliana, vol. I, Giacomo da Lentini, a cura di R. Antonelli, Milano, Mondadori, 2008, pp. 25-26; e di Luciano Rossi, in Guido Guinizzelli, Rime, a cura di L. Rossi, Torino, Einaudi, 2002, pp. 27-28. Ecco un breve elenco di autori e testi che può dare un’idea della diffusione: Peire Ramon, Peire de Cols, Giacomo da Lentini, Pallamidesse Bellindote, Bondie Dietaiuti, Carni-no Ghiberti, Inghilfredi, Guido Guinizzelli, Chiaro Davanzati, Monte Andrea, Mare amoroso. Una tale immagine, come ricorda Antonelli, svolge una «funzione quasi segnaletica di una linea poetica».

97per lo studio del bestiario dantesco

Misael, et non tetigit eos ignis omnino quos intactos atque incontaminatos exisse de camino ignis propheta Daniel declarat. Paulus apostolus testatur dicens: «Fide omnes sancti extingunt virtutes ignis, obstruxerunt ora leonum». Ita et omnis quicumque ex fide sua crediderit in Deo et in operibus bonis perseveravit, transit gehennam ignis et non tangit eum flamma. De quo scriptum est in Isaia propheta: «Si transieris per ignem, flamma non te comburet» 23.

Benché dunque la salamandra non sia citata, Guinizzelli che si nasconde nel fuoco come un pesce nell’acqua sembra alludere all’immagine della salamadra che il poeta aveva usato come metafora per il proprio vivere nel fuoco d’amore. Ma ora si ha una sorta di trasformazione: non più salamandra amorosa ma salamandra sacra, non più nel fuoco d’amore ma nel fuoco purificatore, da cui uscirà, incolume e rigenerato, per giungere alla vera salvezza.

4. I «tristi lai» della rondinella e il bestiario penitenziale nel Purgatorio

La rondine, secondo la notizia leggendaria ricordata dal Battelli «ridona la vista ai suoi piccoli con la celidonia». Dante non ricorda questa notizia, ma forse essa e l’in-tepretazione simbolica che ne veniva data possono essere rilevanti per comprendere il significato dell’allusione alla rondine nel IX canto del Purgatorio:

Ne l’ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de’ suo’ primi guai, e che la mente nostra, peregrina più da la carne e men da’ pensier presa, a le sue visïon quasi è divina. (Purg. IX, 13-18)

Dopo che il canto si era aperto con un’altra indicazione cronologica («La concubina di Titone antico…»), che indicava l’aurora nell’emisfero settentrionale e precisamen-te sull’Italia, ora si ha l’indicazione di una nuova aurora, questa volta nell’emisfero purgatoriale. Così gli elementi equivoci o negativi dell’aurora mondana (la «concu-bina»; la ridicola “antichità” di Titone; l’imbiancarsi di Aurora, cioè il truccarsi con la biacca; le stelle inquietanti dell’ingannevole e velenoso Scorpione) si rovesciano in un’aurora purgatoriale di segno totalmente opposto. Nell’ora al termine della notte

23. Physiologus, Versio BIs, XXXI, in L. Morini, Bestiari medievali, cit., p. 72. In qualche bestiario a questi luoghi biblici citati dal Fisiologo (Dn 3, 19-93, spec. 50; Is 43, 2) si aggiungeva l’espressione evangelica «et capillus de capite vestro non peribit» (Lc 21, 18), in cui non si parla però del fuoco. Per esempio nel Bestiaire di Philippe de Thaün: «Ceo est l’entendement / ki fait ad sulement / ja de fu mal ne averat / ne enfern ne l’arderat. / Le saint hum vit de fai, / si cum dit nostre lai, / e Ysaïas dit / par veir en sun escrit: / li sainz hom ki faid ad / parmi fu passerat, / ja mal ne li ferad / ne pail n’i bruiserat» (vv. 1339-1350). La stessa associazione sarà poi in Purg. XXVII, 25-27: «Credi per certo che se dentro a l’alvo / di questa fiamma stessi ben mille anni, / non ti potrebbe far d’un capel calvo».

98 giuseppe ledda

e al principio del giorno, in cui la mente umana si distacca dai pesi terreni e corporei per aprirsi a visioni oniriche di origine divina, a Dante appare un sogno.

Il riferimento alla rondine presenta anche allusioni mitologiche, ma nelle enci-clopedie e nei bestiari si trova sempre la notizia leggendaria ricordata dal Battel-li 24, regolarmente interpretata come simbolo dell’effetto benefico e salvifico della penitenza:

Si quis caecaverit pullos hirundinum revertentur oculi eorum. Quaerit enim herbam, quae dicitur chelidonia, cuius succo linit oculos filiorum, et sic eorum oculi sanitati pristinae restituuntur. [glossa marginale: Nota de effectu penitentie] 25.

Inoltre, l’interpretazione penitenziale della rondine si basava anche sul versetto biblico «Sicut pullus hirundinis sic clamabo» (Is 38, 14), interessante anche perché connesso ai danteschi «tristi lai». Così la rondine diviene figura del penintente che piange per i propri peccati: «Hirundo autem poenitentium pro peccatis suis typum tenet, quae stridore vocis ploratum magis quam melodiam sonat, et pro cantu ge-mitus edere solet, sicut et columba. Unde Ezechias in oratione sua ait: Sicut pullus hirundinis sic clamabo» 26; «Clamor enim hirundinis est dolor poenitentis» 27.

E i due motivi, quello biblico del lamento e quello naturalistico della cecità risanata, sono talvota associati, nella comune interpretazione penitenziale:

Sic poenitens emittit doloris, quia totus plenus est amaritudine contritionis; unde dicit: Sicut pullus hirundinis sic clamabo, meditabor ut columba. Dicitur in Naturalibus quod ‘si pullis hirundinum oculi extrahantur, iterum revertuntur’. Poenitens, quia perdidit oculum divini amoris, ideo clamat, ut ipsum recuperet 28.

La nuova giornata si apre con un sogno cui sono attribuiti caratteri profetici, e il futuro immediato riserva a Dante l’esperienza del Purgatorio. Per questo credo che l’allusione alla rondine richiami un simbolismo penitenziale 29. Questa aurora del Purgatorio corregge l’aurora equivoca che sorgeva sull’Italia all’inizio del canto:

24. La notizia è molto diffusa, a partire dalle opere naturalistiche di Aristotele. Cfr. tra gli altri: Aristotele, De historia animalium, VI, 5, 563a14-16; Ambrogio, Exaemeron, V, 17 (PL 14, 230); Tommaso di Cantimpré, Liber de natura rerum, V, 66; Pierre de Beauvais, Bestiaire, XIII; Richart de Fournival, Bestiare d’amours (in Bestairi medievali, cit., p. 394); Libro della natura degli animali, XXIV (ivi, pp. 450-451); Cecco d’Ascoli, L’Acerba, III, 15.

25. Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum, XII, 21; B. Van den Abeele, Simbolismo sui margini, cit. p. 178.

26. Rabano Mauro, De universo, II, 6 (PL 111, 252).27. Pseudo-Ugo di San Vittore, De bestiis et aliis rebus, I, 51 (PL 177, 42). Nella stessa pagina

del De bestiis, anche le abitudini migratorie della rondine sono lette in chiave penitenziale.28. S. Antonii Patavini, Sermones, III, pp. 102-103 (In Festo Purificatione Beatae Mariae Vir-

ginis). 29. Per il simbolismo penitenziale della rondine cfr. già Ezio Raimondi, Semantica del canto

IX del «Purgatorio», in Id., Metafora e storia . Studi su Dante e Petrarca, Torino, Einaudi, 1970, pp. 95-122, alle pp. 101-102.

99per lo studio del bestiario dantesco

occorre abbandonare le aurore ingannevoli dei peccaminosi giorni mondani, per affrontare le aurore dolorose ma salvifiche dei giorni di penitenza.

Si apre con la rondinella il bestiario penitenziale del Purgatorio: infatti nei canti relativi al Purgatorio vero e proprio, dal IX al XXVI, si registra una serie di immagini animali che avevano nei bestiari un’interpretazione penitenziale, come simboli del processo di purificazione e di rinnovamento che si realizza attraverso la penitenza, o che Dante usa in modo innovativo, suggerendo una loro interpretazione in tal senso: l’aquila (IX, 19-33); il bue aggiogato (XII, 1-3); gli sparvieri ciliati (67-72); la talpa (XVII, 1-9); le formiche, le gru in migrazione e il pesce (XXVI, 31-48; 133-135) 30.

5. Un leone che risorgerà

Se dentro le cornici del Purgatorio Dante sembra disegnare un compatto bestiario penitenziale aperto dalla rondine e dall’aquila del nono canto, pertinenti al sogno che precede e prefigura l’esperienza purgatoriale, nei canti dell’antipurgatorio vi sono due immagini estranee a questo simbolismo. La prima è quella delle pecorelle a cui sono assimilate le anime dei morti scomunicati, fra cui è anche Manfredi:

Come le pecorelle escon del chiusoa una, a due, a tre, e l’altre stannotimidette atterrando l’occhio e ’l muso; e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,addossandosi a lei, s’ella s’arresta,semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; sì vid’io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta,pudica in faccia e ne l’andare onesta. (Purg. III, 79-87)

L’umiltà e la semplicità delle «pecorelle» rovescia la presunzione (v. 140) della ribellione di questi peccatori alla Chiesa, ma conferma invece l’atteggiamento di umile abbandono a Dio che li ha portati al pentimento finale. Questa immagine, posta all’inizio della cantica, estende la sua validità a tutte le anime del Purgatorio, come del resto la figura di Manfredi indica il pentimento e l’abbandono a Dio quale segno distintivo delle anime ammesse al Purgatorio rispetto a quelle condannate all’Inferno.

In attesa di uno studio più approfondito sulle pecore nella cultura medievale e nella Commedia, si possono indicare alcune immagini bibliche divulgate anche nell’iconografia cristiana. Prima di tutto il Cristo buon pastore, secondo il modello biblico di Io 10, 14 o di Ez 34, 31, circondato dalle pecorelle che gli si stringono intorno. Così, ogni qual volta nella Bibbia si parla di pecore, gli esegeti cristiani

30. Per l’analisi di queste immagini animali cfr. G. Ledda, La «Commedia» e il bestiario dell’aldilà . Osservazioni sugli animali nel «Purgatorio», cit.

100 giuseppe ledda

intendono senza problemi il “gregge” dei fedeli, il popolo di Dio 31. L’altra immagine, forse ancora più significativa, è quella delle pecore che il Cristo giudice distingue e separa dalle capre nel giorno del giudizio (Mt 25, 32-33) 32: un’allusione all’eterna salvezza celeste, a cui queste anime sono infine destinate, dopo il processo di pe-nitenza purgatoriale.

Più difficile sembra cogliere la pertinenza della seconda immagine: quella del leone, cui è paragonato Sordello, che pare in contrasto con lo spirito purgatoriale, in quanto è per noi un’immagine di nobiltà e maestosità ma anche di forza, di vio-lenza, di ferocia:

Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dicëa alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa. (Purg. VI, 61-66)

Il leone è un animale sempre citato nei bestiari e nelle enciclopedie, è il re degli animali e spesso ha l’onore del primo capitolo. Una tra le proprietà “leggendarie” è quella che ricordava il Battelli: «con la coda cancella le orme dei suoi piedi». Di questa proprietà non trovo tracce nel testo dantesco, ma al leone si attribuiva un’altra proprietà ancora più “fantastica”, che si collegava alla necessità di spiegare un’enigmatica citazione biblica.

I commenti danteschi segnalano la funzione nobilitante e statuaria della simi-litudine, e anche quando individuano il versetto biblico da cui Dante ha ripreso l’immagine, non ne traggono alcuna particolare conseguenza interpretativa. Come è riconosciuto generalmente a partire dal commento del Tommaseo, Dante allude a un celebre versetto biblico: «requiescens accubuisti ut leo», parole pronunciate da Giacobbe a proposito del figlio Giuda (Gn 49, 9) 33. Da qui vengono poi molti luoghi paralleli 34, e il leone della tribù di Giuda, anche se non più accompagnato dalla postura giacente, ricompare nell’Apocalisse, «ecce vicit leo de tribu Iuda radix David» (Apc 5, 5), in cui l’interpretazione messianica e cristologica si fa del tutto chiara: il leone della tribù di Giuda non è altri che Cristo 35.

31. Cfr., per un primo orientamento, J. Voisenet, Cfr., per un primo orientamento, J. Voisenet, Bêtes et hommes, cit. pp. 29-30.32. Cfr., per qualche indicazione preliminare, M. P. Ciccarese, Animali simbolici, cit., vol. I,

p. 265. 33. «Catulus leonis Iuda a praeda fili mi acendisti / requiescens accubuisti ut leo et quasi

leaena quis suscitabit eum».34. Fra i quali spicca Nm 24, 9: «Accubans dormivit ut leo et quasi leaena quam suscitare

nullus audebit».35. Maurizio Perugi, uno fra i pochi dantisti ad aver riflettuto su questo materiale, interpreta

l’allusione in senso politico: cfr. Il Sordello di Dante e la tradizione mediolatina dell’invettiva, in «Studi danteschi», LV (1983), pp. 23-135, alle pp. 99, 114-119. La similitudine con il leone, attraver-so l’allusione biblica, è invece intepretata in senso cristologico, ma come allegoria dell’avvento

101per lo studio del bestiario dantesco

I bestiari, trattando del leone, citano regolarmente proprio il versetto del Genesi su Giuda come un leone che giace e riposa. Il Fisiologo si apre con un capitolo sul leone, e le prime parole del testo sono la citazione del versetto del Genesi: «Etenim Iacob, benedicens filium suum Iudam, ait: “Catulus leonis Iudas filius meus, quis suscitabit eum?» 36. Si indicano poi tre nature del leone, tutte in chiave cristologica. In particolare è interessante la terza:

Cum leena parit catulum, generat eum mortuum et custodit eum mortuum tribus diebus, donec veniens pater eius die tercio insufflet in faciem eius et vivificet eum. Sic omnipotens pater Dominum nostrum Iesum Christum filium suum tercia die suscitavit a mortuis, di-cente Iacob: «Dormitabit tanquam leo, et sicut catulus leonis: quis suscitabit eum?» 37.

A partire da questo testo influentissimo l’immagine del leone sdraiato allude al versetto su Giuda ed è nella cultura medievale un inequivocabile emblema animale cristologico e segnatamente un simbolo di resurrezione 38. Posta all’inizio della se-conda cantica, questa immagine annuncia la resurrezione alla vita eterna che attende, dopo il processo di purificazione purgatoriale, tutte le anime del purgatorio 39.

6. La carità del pellicano

Anche il pellicano è un animale cristologico: in virtù della proprietà, ricordata dal Battelli, di risuscitare i propri piccoli «cospargendoli col proprio sangue», è un simbolo di Cristo che sparse il suo sangue per salvare i suoi figli e farli risorgere alla vita eterna 40. Infatti si racconta che quando i pulcini del pellicano sono morti nel

quotidiano di Cristo nella vita terrena, da Denise Heilbronn, Dante’s Valley of Princes, in «Dan-te Studies», XC (1972), pp. 43-58, alle pp. 47-48

36. Physiologus, Versio latina BIs, cap. 1 (in Morini, Bestiari medievali, cit., p. 10). 37. Ivi, p. 12.38. Mi limito a pochi riferimenti a scopo esemplificativo: Gervaise, Bestiaire, vv. 119-138 (in

L. Morini, Bestiari medievali, cit., p. 298); Libro della natura degli animali (Bestiario Toscano), cap. XIII (ivi, pp. 442-443); Bestiario moralizzato, cap. II (ivi,pp. 493-494). Sul simbolismo cristo-logico del leone cfr. anche M. Pastoureau, Bestiaire du Christ, bestiaire du diable, cit., p. 101.

39. Per una trattazione più ampia e per la funzione della similitudine del leone nell’ambito del confronto fra Sordello, magnanimo destinato alla resurrezione alla vita eterna, e Virgilio, magnanimo del Limbo, cfr. Giuseppe Ledda, Canti VII-VIII-IX . Esilio, penitenza, resurrezione, in Esperimenti danteschi . «Purgatorio» 2009, a cura di B. Quadrio, Genova-Milano, Marietti 1820, 2010, pp. 71-103, alle pp. 77-84.

40. Per una breve rassegna di passi di età patristica cfr. M. P. Ciccarese, Animali simbolici, cit., vol. II, pp. 163-177. Cfr. inoltre Physiologus, Versio BIs, VI, in Morini, Bestiari medievali, cit., p. 20. Delle innumervoli occorrenze, mi limito a indicare quelle nei bestiari raccolti ivi, alle pp. 232-237 (Philippe de Thaün); 336-339 (Gervaise); 394-397 (Richart de Fornival); 454-455 (Libro della natura degli animali); 513 (Bestiario moralizzato); 584-585 (Cecco d’Ascoli). Aggiungo i riferimenti a Bartolomeo Anglico, De proprietatibus rerum, XII, 29 (tra le glosse marginali: «Nota de morte Christi»; «Nota de effectu passionis»; «Nota de passione Christi»); e a Brunetto Latini, Tresor, I, 166.

102 giuseppe ledda

nido (la spiegazione della morte conosce diverse varianti), il pellicano si colpisce col becco nel petto, fino a ferirsi e a far fuoriuscire il sangue dalla ferita: sparge il proprio sangue sui figli morti e così ridà loro la vita.

Per l’universale notorietà del simbolismo cristologico del pellicano, Dante può alludervi come a una metafora topica, all’interno della perifrasi con la quale Be-atrice indica san Giovanni nel cielo delle stelle fisse, dove l’apostolo si appresta a completare l’esame sulle virtù teologali esaminando Dante sulla carità: «Questi è colui che giacque sopra ’l petto / del nostro pellicano, e questi fue / di su la croce al grande officio eletto» (Par. XXV, 112-114) 41. Giovanni è scelto come l’apostolo cui affidare l’esame sulla carità in virtù dello speciale rapporto di amore con Gesù, come si sottolinea nei passi evangelici a cui Dante fa riferimento (Io 13, 23; 19, 26-27; 21, 20). Così, nell’indicare Giovanni con questa perifrasi, Beatrice ricorda i due momenti inziale e finale della passione e del sacrificio di Cristo sulla croce, proprio quella «morte ch’el sostenne perch’io viva», che sarà infine ricordata come uno di quei «morsi» dell’amore divino, che a loro volta fanno «lo cor volgere a Dio» e che concorrono alla «caritate» del protagonista, traendolo «del mar de l’amor torto» e ponendolo «del diritto […] a la riva» (Par. XXVI, 55-66).

Se il sacrificio di Cristo sulla croce è l’atto e l’esempio supremo di carità, che fonda ogni altro, non sorprende che il pellicano cristologico sia sempre caratteriz-zato dall’amore inaudito per i propri figli, di cui il sacrificio del sangue dà poi la prova. Così, a partire dal Fisiologo il capitolo inizia con un’osservazione di questo tipo: «Phisiologus dicit de pelicano quoniam amator est filiorum nimis» 42. Tra le tante occorrenze, si vedano i versi del Bestiario moralizzato: «Lo pellicano fo Cristo beato, / ke per noi se lasciò en croce morire, / cotanta è caritade ê·lLui compita» 43. Se Cristo è ricordato come «il nostro pellicano» in apertura dell’esame di Dante sulla carità, è perché della carità il sacrificio del pellicano cristologico è modello supremo.

41. Per san Giovanni si userà poi anche l’altra perifrasi metaforica di «aguglia di Cristo» (Par. XXVI, 53) e alla capacità dell’aquila di fissare gli occhi nel sole si allude implicitamente in XXV, 118-123. Tale proprietà era già ricordata esplicitamente per Beatrice in Par. I, 46-48.

42. Physiologus, Versio BIs, VI, in L. Morini, Bestiari medievali, cit., p. 20; Bartolomeo An-glico, De proprietatibus rerum, XII, 29.

43. Bestiario moralizzato, XL, 12-14, in L. Morini, Bestiari medievali, cit., p. 513.

Indice

Alfredo Cottignoli, Emilio Pasquini, Col 2021 all’orizzonte . . . . . . . . . 4

nuoVe letture dantescHe

Emilio Pasquini, Dante e le porte del futuro . . . . . . . . . . . . . 7Alfredo Cottignoli, Mazzini e l’amor patrio di Dante . . . . . . . . . . 15Giorgio Gruppioni, I volti di Dante Alighieri fra arte e scienza . . . . . . . 29

il «bollettino» fra l’antico e il moderno

Giovanni Busnelli, Il simbolo del Virgilio dantesco . . . . . . . . . . . 42Robert Hollander, Dante’s Virgil: Giovanni Busnelli Revisited . . . . . . . 61

Guido Battelli, Gli animali fantastici nel poema di Dante . . . . . . . . . 77Giuseppe Ledda, Per lo studio del bestiario dantesco . In margine a

«Gli animali fantastici nel poema dantesco» di Guido Battelli . . . . . . 87

Guido Vitaletti, Pier Damiani e Romualdo degli Onesti . . . . . . . . . 103Pantaleo Palmieri, Il «terzo sermo» di Pietro Damiano («Paradiso», XXI, 103-142) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111

curiosità dantescHe

Franco Gàbici, La quaestio del cognome Alighieri: “elle” o “doppia elle”? . . . 129Franco Poggiali, Dantis Poetae Sepulcrum. «Poca favilla gran fiamma seconda» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141“Il personaggio”: Luigi Mazzavillani, Il lattoniere di Dante . . . . . . . . 144

rassegna bibliografica, a cura di Nicolò Maldina . . . . . . . . . . . 145

notiZie raVennati

Giovanni Lugaresi, Ravenna e il Progetto Dante . . . . . . . . . . . 150Manuela Mambelli, Dante in rete . . . . . . . . . . . . . . . . 154

Abstract . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157