Oggetti sociali e prospettive

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1 Oggetti sociali e prospettive Emanuele Bottazzi e Roberta Ferrario ISTC-CNR, Laboratorio di Ontologia Applicata; via alla Cascata 56/C, 38123 Povo (Trento), Italy; Tel. +39 0461 314841, Fax +39 0461 314857 {bottazzi,ferrario}@loa-cnr.it 1. INTRODUZIONE Il mondo dinanzi a noi sembra spiegarsi in un ventaglio di cose o oggetti: sedie, tavoli, penne ma anche montagne, fiumi, spiagge, oppure pensieri, figure geometriche, numeri. In filosofia, uno dei compiti fondamentali consiste nel capire quali tra questi oggetti deb- bano rientrare in un catalogo veritiero del mondo. Variamente tale indagine è stata chia- mata ontologica o metafisica; talvolta invece per ontologia si intende il rispondere alla domanda “Cosa c’è?”, lo stabilire cioè se qualcosa esiste o no, mentre per metafisica il ri- spondere alla domanda “Che cos’è?”, l’individuare cioè la natura ultima, i nessi e le strut- ture più generali di ciò che esiste (Varzi 2005a). Le specifiche risposte che sono state date alla prima domanda nel corso della storia del pensiero sono ovviamente differenti, im- possibili da elencare in modo esaustivo: ad un estremo tutto ciò che fa parte del catalogo appena illustrato esiste perché, semplicemente, tutto esiste, all’altro estremo nulla di ciò che chiamiamo cosa o che possiamo immaginare come tale sussiste perché nulla esiste, nemmeno il mondo, o perché il mondo, sì sussiste, ma come un ammasso informe, che noi esseri umani concettualizziamo attraverso la nozione di oggetto; in questa visione l’oggetto non esisterebbe più nel mondo, ma in un certo modo nelle menti dei soggetti che lo esperiscono, o, ancora, l’oggetto esiste attraverso un atto di costruzione a partire dall’informe. Tra questi due poli vi sono, naturalmente, le più variegate posizioni. Per esempio, alcune fanno rientrare in ciò che legittimamente si può dire esistere oggetti co- me le particelle subatomiche o i campi di forza di cui si occupano i fisici. Tutto il resto esisterebbe in modo derivato. Cercare di capire in che modo esista ciò che deriva da ciò che sta a fondamento della realtà e cosa sia è la sfida che il naturalismo del filosofo John Searle si pone da più di quindici anni 1 : La nostra immagine della realtà si basa sui contributi offerti dalle aree fondamenta- li della conoscenza — fisica, chimica, geologia, biologia evolutiva — e la cosa più interessante è questa: l'immagine che ricaviamo da queste aree fondamentali della 1 A partire da Searle (1995), in vari articoli e nel recente Searle (2010).

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Oggetti sociali e prospettive

Emanuele Bottazzi e Roberta Ferrario ISTC-CNR, Laboratorio di Ontologia Applicata; via alla Cascata 56/C, 38123 Povo (Trento), Italy; Tel. +39 0461 314841, Fax +39 0461 314857{bottazzi,ferrario}@loa-cnr.it

1. INTRODUZIONE

Il mondo dinanzi a noi sembra spiegarsi in un ventaglio di cose o oggetti: sedie, tavoli, penne ma anche montagne, fiumi, spiagge, oppure pensieri, figure geometriche, numeri. In filosofia, uno dei compiti fondamentali consiste nel capire quali tra questi oggetti deb-bano rientrare in un catalogo veritiero del mondo. Variamente tale indagine è stata chia-mata ontologica o metafisica; talvolta invece per ontologia si intende il rispondere alla domanda “Cosa c’è?”, lo stabilire cioè se qualcosa esiste o no, mentre per metafisica il ri-spondere alla domanda “Che cos’è?”, l’individuare cioè la natura ultima, i nessi e le strut-ture più generali di ciò che esiste (Varzi 2005a). Le specifiche risposte che sono state date alla prima domanda nel corso della storia del pensiero sono ovviamente differenti, im-possibili da elencare in modo esaustivo: ad un estremo tutto ciò che fa parte del catalogo appena illustrato esiste perché, semplicemente, tutto esiste, all’altro estremo nulla di ciò che chiamiamo cosa o che possiamo immaginare come tale sussiste perché nulla esiste, nemmeno il mondo, o perché il mondo, sì sussiste, ma come un ammasso informe, che noi esseri umani concettualizziamo attraverso la nozione di oggetto; in questa visione l’oggetto non esisterebbe più nel mondo, ma in un certo modo nelle menti dei soggetti che lo esperiscono, o, ancora, l’oggetto esiste attraverso un atto di costruzione a partire dall’informe. Tra questi due poli vi sono, naturalmente, le più variegate posizioni. Per esempio, alcune fanno rientrare in ciò che legittimamente si può dire esistere oggetti co-me le particelle subatomiche o i campi di forza di cui si occupano i fisici. Tutto il resto esisterebbe in modo derivato. Cercare di capire in che modo esista ciò che deriva da ciò che sta a fondamento della realtà e cosa sia è la sfida che il naturalismo del filosofo John Searle si pone da più di quindici anni1:

La nostra immagine della realtà si basa sui contributi offerti dalle aree fondamenta-li della conoscenza — fisica, chimica, geologia, biologia evolutiva — e la cosa più interessante è questa: l'immagine che ricaviamo da queste aree fondamentali della

1 A partire da Searle (1995), in vari articoli e nel recente Searle (2010).

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conoscenza umana è che la realtà consiste di particelle fisiche prive di mente e di significato. Consiste di atomi nel vuoto. E la questione in filosofia oggi è: dato che sappiamo che la struttura fondamentale dell'universo è costituita da particelle pri-ve di mente e significato, com'è possibile l'esistenza di una realtà umana fatta di coscienza, razionalità, libero arbitrio, atti linguistici, estetica, etica, organizzazioni politiche, e di fatti ordinari come il denaro, la proprietà, il matrimonio, il governo? (Searle 2009, 20-22)

Fatti ordinari come quelli suddetti, cioè denaro, proprietà, matrimonio e governo posso-no essere ricondotti alla nozione di oggetto, anche se, come vedremo, tale mossa non è scontata. In ogni caso, gli oggetti sociali sono stati studiati secondo le loro specifiche pro-prietà formali e nelle loro condizioni di esistenza, soprattutto in ambito fenomenologico, agli inizi del secolo2. Successivamente, a partire da John Searle, lo studio di tali oggetti ha visto un vero e proprio revival; in questo modo due recenti tendenze della filosofia anali-tica degli ultimi anni, cioè il rinnovato interesse per lo studio della metafisica da una par-te e quello appunto per lo studio della realtà sociale dall’altra si sono fusi in una discipli-na che, pur avendo radici antiche, è in un certo senso nuova, cioè l’ontologia della realtà sociale3.In questo nuovo campo di indagine è accaduto qualcosa di raro e di nuovo per la filoso-fia analitica: essa ha attratto l’interesse di ricercatori e studiosi in campi non filosofici co-me, ad esempio, la psicologia dello sviluppo (Tomasello 2009), la teoria del diritto (Sartor 2005), le scienze cognitive (Castelfranchi 2010), l’intelligenza artificiale (Gaudou 2006), la teoria dei giochi (Gold 2007).Il compito che Searle assegna all’indagine della realtà sociale è duplice: individuarne la logica sottostante e far sì che il risultato di tale analisi sia compatibile con la sua ontologia generale del mondo. A nostro avviso perseguire il primo obiettivo è certamente fruttuo-so, mentre, d’altro canto, cercare di soddisfare il secondo ha condotto la sua indagine a torsioni e complicazioni che necessitano di essere indagate e, possibilmente, risolte. A tal fine orienteremo la nostra analisi degli oggetti sociali al caso specifico degli oggetti sociali intesi come token, cioè come specifici individui, cose cioè come “la mia banconote da cin-que euro che in questo momento è nel mio portafoglio” in opposizione a type (o istituzio-ni, o concetti sociali che dir si voglia) come “la banconota da cinque euro”. Cercheremo di offrire una spiegazione di questi token attraverso l’introduzione della nozione di pro-spettìle4 cioè di oggetto-secondo-una-prospettiva, dotato di criteri di identità che sono di-pendenti dalla vista stessa. Tali entità, come cercheremo di mostrare, sono essenziali al coordinamento sociale e permettono di trattare in modo interessante problemi teorici connessi alla modellazione concettuale delle organizzazioni sociali.

2 Si veda ad esempio Mulligan (1987).3 La discussione fondazionale in filosofia analitica sulla realtà sociale si è principalmente sviluppata a

partire dagli anni ‘80 del secolo scorso — anche se qualche scritto era già apparso precedentemente, su tutti David Lewis (1969) — e ha avuto tra i suoi principali iniziatori, oltre a John Searle, autori quali Michael Bratman (1999), Raimo Tuomela (1995) e Margaret Gilbert (1989).

4 Si vedano Bottazzi (2010) e Bottazzi e Ferrario (2011).

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2. L'IMPORTANZA DELL’OGGETTO SOCIALE COME TOKEN

La nozione di oggetto sociale di John Searle è legata, come è noto, a quella di regola costi-tutiva (Searle 1995; Searle 2010). Le regole costitutive, a differenza di regole come “tenere la destra quando si guida”, non regolano semplicemente comportamenti, ma, in un certo senso, li creano. La loro struttura fondamentale è la famosa “count as locution” (X conta come Y in un contesto C) e il loro carattere è definitorio. Il “count as” è uno di quei mec-canismi di base che si connette con l’individuazione di una struttura logica che sottosta alla complessità delle nostre istituzioni: dai matrimoni ai complessi network di corpora-tions o di organizzazioni statuali ed extra-nazionali che caratterizzano il capitalismo at-tuale tutto, è riconducibile all’assegnazione di status a oggetti che, in principio, non sono sociali. Inoltre, in questo modo, esse specificano comportamenti e sono la base per la creazione degli oggetti sociali, come nel classico esempio del denaro: i biglietti stampati dalla Zecca (X) contano come denaro (Y ) in un certo Stato (C).

Il problema è che per Searle gli oggetti sociali, in senso stretto, non esistono. Non esi-stono cioè come possiamo dire che esistano le particelle fondamentali che compongono l’universo. Quando parliamo di oggetti sociali come i governi, il denaro o le università, secondo Searle, non ci riferiamo quindi a entità esistenti come possono esserlo gli oggetti materiali, piuttosto gli oggetti sociali vanno considerati come dei “segnaposti” per sche-mi di attività descritti da sistemi di regole costitutive che Searle chiama istituzioni, qual-cosa che ha a che fare con la cognizione umana, una sorta di segno che indica certi percor-si da seguire per eseguire una certa attività (Searle 1995, 57; trad. it. p. 68). Torneremo su questo aspetto nella sezione 4, a proposito del problema del coordinamento in ambito sociale.

Per Searle, quindi, gli oggetti sociali non formano una classe distinta di oggetti: in al-cuni casi essi non sono altro che oggetti fisici “secondo una certa descrizione”, in altri casi entità la cui esistenza è fondata su rappresentazioni e schemi di attività associati, come, ad esempio, i cosiddetti free standing Y terms5.

Si potrebbe dire, in un certo senso, che gli oggetti sociali altro non sono per Searle che oggetti fisici che acquisiscono certe proprietà in virtù del verificarsi di un’enunciazione performativa. È interessante notare come, da un punto di vista argomentativo, negli scrit-ti di Searle si riscontri spesso uno slittamento del discorso dagli oggetti ai fatti istituzio-nali, atteggiamento peraltro comune in molti filosofi che si occupano di istituzioni e che Sitala fa risalire a Wittgenstein:

Le “cose” individuali, gli oggetti o entità simili possono entrare nel mondo sola-mente come parti di possibili stati di fatto e non come entità a sé stanti, prese in iso-lamento. Allo stesso modo, la combinazione di “oggetti”, le loro proprietà inerenti

5 I free standing Y terms sono considerati uno dei problemi principali del resoconto searliano sulla realtà socia-le (Searle 2010, 20-22; trad. it 23-24). I due classici esempi sono il denaro elettronico e le corporations. In che modo possiamo usare la formula count as? Dov’è la X?... Riprenderemo parzialmente questo punto quando parleremo, nella sezione 5, di organizzazioni e nella sezione finale, riguardo al denaro, del rapporto fra dati (nel senso sia informatico che scientifico) e prospettili.

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e le mutue relazioni all’interno degli stati di fatto sembrano essere la categoria on-tologica di base per la filosofia delle istituzioni o delle convenzioni. (Sitala 2011, 167, traduzione nostra)

Inoltre, come già accennato in precedenza, per Searle tali fatti istituzionali non esisto-no in senso stretto:

[...] Emettere certi suoni durante una cerimonia è davvero sposarsi? E ancora, emet-tere dei suoni con la bocca è realmente fare un’asserzione o una promessa? Sicura-mente, venendo al sodo, questi non sono fatti reali. (Searle 1995, 45; trad. it. 55)

Anche nel caso in cui si accetti una sorta di “primato ontologico” dei fatti istituzionali sugli oggetti, a nostro parere è comunque utile e importante indagare approfonditamente quel “corrispettivo oggettuale” — l’oggetto sociale — al fine di raggiungere una soddi-sfacente comprensione della realta sociale. Riteniamo inoltre che non ci si debba limitare allo studio degli oggetti sociali come type, ma che sia necessario dedicare piena attenzio-ne anche agli oggetti sociali come token.

Searle menziona la distinzione type/token mentre parla di oggetti sociali, per esempio ne La costruzione della realtà sociale, in cui afferma:

[...] abbiamo bisogno di distinguere tra istituzioni e pratiche generali da una parte ed esempi particolari dall’altra; abbiamo bisogno, cioè, di distinguere tra tipi [type] e unità [token]. Una singola banconota da un dollaro potrebbe sfuggire dalle mac-chine da stampa in una fenditura del pavimento e potrebbe non essere mai usata o concepita come denaro, ma sarebbe ancora denaro. In tal caso una particolare unità sarebbe denaro, anche se nessuno ha mai pensato che fosse denaro o ha mai pensa-to ad essa o l’ha usata come denaro. In modo analogo, potrebbe esserci in circola-zione una banconota contraffatta da un dollaro, anche se nessuno sa che è contraf-fatta, neppure il falsario. In un caso del genere, chiunque usasse quella particolare unità riterrebbe che fosse denaro, anche se in effetti non è denaro. Riguardo a parti-colari unità, è possibile che la gente sia sistematicamente in errore. Ma dove è in questione il tipo di cosa, la credenza che quel tipo è un tipo di denaro è costitutiva del suo essere denaro in un modo che dovremo chiarire pienamente. (Searle 1995, 32-33; tr. it. 41-42)

Come si evince da questo lungo passaggio, l’interesse di Searle per i token di entità sociali è diretto principalmente al problema epistemico di come classificarli correttamente come istanze di un certo tipo di entità sociale. Da un punto di vista ontologico, una volta che a un certo tipo di entità viene attribuito un certo status sociale, tutte le entità indivi-duali che rispettano certi criteri sono token, istanziazioni di quel tipo sociale, anche indi-pendentemente da un riconoscimento epistemico da parte di agenti intenzionali. Da ciò sembrerebbe possibile dedurre che su questioni come l’identità o la persistenza nel tem-po, i token sociali ereditino tali proprietà dai loro corrispettivi type. Tale vicarietà del token sociale è inoltre confermata dalla sua assenza nella count as locution: negli esempi di Sear-

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le il termine Y sembra essere sempre un type, anche quando l’X è un token; tali esempi sono perlopiù espressi nella forma: “Questo pezzo di carta (X) conta come denaro (Y) nel-l’Unione Europea (C)”, oppure “L’evento che ha luogo in questo momento a casa di Da-vide (X) conta come festa di compleanno (Y) date le pratiche sociali in ambito di feste (C)”. Ma dove sono finiti la banconota da 5 euro che è nella mia tasca in questo momento e la festa di compleanno di Davide? Non è chiaro se Searle ammetta anche interpretazio-ni della count as locution come “Questo pezzo di carta conta come la banconota da 5 euro che è nella mia tasca in questo momento” o “L’evento che ha luogo in questo momento a casa di Davide conta come la festa di compleanno di Davide”; a prima vista sembrerebbe di no, ma anche nel caso in cui le ammettesse, varrebbe la pena che Searle mostrasse se e come le due interpretazioni possano essere distinte.

Quello che cercheremo di mostrare nel seguito di questo contributo è al contrario che tali proprietà dei token non sono univocamente correlate alle analoghe proprietà del type, ma hanno un margine di indipendenza che ne rende particolarmente interessante lo stu-dio.

Per il momento ci limiteremo solamente a elencare alcuni motivi per cui è utile e im-portante trattare estesamente i token sociali.

Un primo motivo generale è che se si vuole ragionare sulla realtà sociale partendo dal senso comune, senza una fondata nozione di oggetto sociale come token sarebbe difficile spiegare comuni situazioni quali quelle in cui siamo interessati a certe proprietà connesse con l’individuo X al quale viene ascritto uno status, come quando scambiamo una banco-nota da 5 euro con due monete da 2 euro e una da 1, per esempio, perché vogliamo uti-lizzarle in un parchimetro che funziona solo con le monete o quando siamo interessati specificamente a un particolare individuo, come può essere per un collezionista, che è interessato a una specifica moneta.

Esistono però anche motivazioni più “tecniche”: nell'ambito della rappresentazione della conoscenza, per esempio, e in particolare dell'ontologia applicata e della modella-zione concettuale, può essere utile rappresentare formalmente nello stesso dominio del discorso tutte le entità, sociali e non, a partire dai ruoli, i concetti sociali e le descrizioni (Masolo et al. 2004) (intesi come type) fino agli individui sociali (intesi come token). Per poter procedere ad una corretta formalizzazione è però necessaria innanzitutto una ricer-ca di tipo fondazionale. La nostra analisi è quindi finalizzata a trovare un meccanismo che permetta una futura assiomatizzazione, in un'unica teoria, di tutte le entità sociali, cercando di coniugare, nel caso dei token, in un unico individuo le proprietà dell'entità non sociale che funge da base e le proprietà "estrinseche" che tale entità assume quando calata nello specifico contesto sociale nel quale è definito il ruolo che sta svolgendo in un preciso istante temporale.

Inoltre, nell’ambito delle scienze cognitive, possiamo vedere come i meccanismi di “oggettualizzazione”, relativi cioè ai processi che permettono la costruzione e la perce-zione di oggetti e il ragionamento su di essi6 siano studiati da più di trent’anni, e come recentemente si sia iniziato a connetterli con la filosofia (Scholl 2007). Un’area di studi tra le più floride è quella relativa al problema della persistenza degli oggetti. Se si considera

6 Per una panoramica sul tema si veda Santos e Hood (2009).

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il campo della visione, ad esempio, un notevole sforzo è stato dedicato all’esplorazione dei principi attraverso i quali, a partire da un flusso indistinto, il sistema visivo pervenga ad unità discrete e come tali unità vengano percepite come persistenti nel tempo e nel movimento.

Noi vorremmo occuparci di questo problema, ma in ambito sociale: cioè il problema della costruzione degli oggetti e la loro persistenza nel tempo. Crediamo che gettare le basi teoriche di questo tema possa essere utile; tale studio infatti vuole essere il primo passo per una costruzione formale che permetta di rappresentare l’oggetto sociale nelle sue peculiari caratteristiche temporali. A sua volta, uno strumento di questo tipo potreb-be apportare un contributo rilevante per chi si occupa di questioni relative alla realtà so-ciale in ambito sperimentale, poiché permetterebbe una classificazione rigorosa dei fe-nomeni su cui lavora. D’altra parte, tale ricerca non può intendersi in un unico senso, poiché l’aspetto sperimentale potrebbe e dovrebbe contribuire ad una precisazione e veri-fica di quanto elaborato su un piano speculativo.

3. DAI QUA-OGGETTI AI PROSPETTÌLI

Prima di affrontare il problema della persistenza cerchiamo innanzitutto di affrontare il problema del token sociale. Un primo tentativo per rispondere a questa esigenza di comprensione può essere quello di ricondurre il problema della struttura della regola co-stitutiva al problema della qualificazione (Back 1996), al problema cioe del prendere in considerazione qualcosa in quanto (qua) qualcos’altro.

Kit Fine affronta in quest’ottica il tema della costituzione materiale (Fine 1982). Si con-sideri il classico esempio del problema di identita tra la statua — supponiamo di Golia — e l’ammasso di materia che la costituisce; si potrebbe sostenere che, pur occupando in un certo momento la stessa posizione spazio-temporale, la statua e la materia di cui e com-posta abbiano comunque differenti proprieta: solo la statua, ad esempio, ha la proprieta di cessare di esistere se dovesse essere fusa. Secondo Fine una teoria della costituzione integrata con una teoria dei qua-oggetti risolverebbe il problema dell’identita; egli sostie-ne che la statua sia qualcosa di nuovo, un autentico nuovo oggetto che esiste nel mondo; essa verrebbe quindi ad essere un qua-oggetto, sarebbe cioe quella materia — detta da Fi-ne la sua base — qua (in quanto) “avente la forma di Golia” — secondo quella certa descri-zione o proprieta, chiamata da Fine glossa. D’altra parte, i qua-oggetti sono stati introdotti per risolvere problemi che riguardano la costituzione materiale degli oggetti, ma non pos-sono risolvere tutti i problemi relativi alla costituzione sociale. I qua-oggetti fineani sono troppo “rigidi” per trattare la realta di istituzioni e organizzazioni (Bottazzi 2010), carat-terizzate da ruoli7 definiti da regole costitutive, poiché essi, una volta costituitisi, associa-no semplicemente una base a una glossa e la loro esistenza dipende dall’esistenza delle

7 In Masolo (2004) gli autori caratterizzano estesamente e formalmente la nozione di ruolo. Come i concetti sociali, i ruoli sono entità che si distinguono sia dalle entità mentali, in quanto pubblici, sia da quelle astratte, in quanto creati per definizione e temporali. La differenza specifica è nella loro natura relazionale (sono neces-sariamente dipendenti da altri ruoli o da altri concetti sociali, come nel caso di Maestro–Allievo o Agente–Pa-ziente) e nel fatto che i ruoli sono antirigidi (cioè non è una proprietà essenziale rivestire un certo ruolo).

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loro basi. Poiché il qua-oggetto dipende anche definizionalmente dalla base, se la base viene distrutta, tutto il qua-oggetto sparisce, come nel caso dell'esempio di Golia: se la materia di cui Golia è costituito viene distrutta, al contempo sparisce anche “quella mate-ria avente la forma di Golia”.Pertanto e necessario introdurre una nuova nozione, quella di prospettìle8. Si considerino per esempio degli scacchisti che cambiano nel corso di un’unica partita scacchiere e rela-tivi pezzi. Consideriamo per ipotesi uno specifico pedone, un “certo pezzo di legno qua avente il ruolo di pedone a79 in quella certa partita”. Proviamo a immaginare una partita in cui i giocatori, per strani accidenti, siano costretti a cambiare pezzi e/o scacchiera anche drasticamente e più volte, e nonostante ciò continuino comunque a giocare la stessa par-tita. Potremmo immaginare ad esempio che a un certo punto un pezzo, il pedone a7 nero, vada perso e venga quindi sostituito con una moneta da 2 euro; potremmo anche im-maginare che la partita venga sospesa e poi ripresa sui banchi dell’università durante una lezione e quindi scrivendo le mosse su un foglio di carta; potremmo infine ipotizzare che i due abili scacchisti decidano di terminare la partita giocando al blind chess, ovvero memorizzando posizioni e mosse e comunicandosele a voce.

In un caso come questo, per Fine, avremo semplicemente quattro particolari, quattro qua-individui, ovvero il pezzo di legno qua pedone a7 nero, la moneta qua pedone a7 ne-ro, il simbolo grafico sulla carta qua pedone a7 nero e, tradendo forse in parte lo spirito della teoria fineana, le tracce mnestiche nei cervelli dei giocatori qua pedone a7 nero. Noi crediamo invece che vi sia un individuo, il prospettile, che racchiude le quattro basi in un unico particolare, che rimane sempre se stesso durante tutte le fasi del gioco. Questo per-che nel contesto degli scacchi non e importante — date certe restrizioni — cosa rivesta il ruolo di pedone. Il suo valore e posizionale. Cio significa che i prospettili sono quindi “piu flessibili” dei qua-oggetti fineani. Essi possono cambiare le loro basi, a seconda di cio che e stabilito costitutivamente dalla loro glossa, dipendentemente cioe da come e definito il loro ruolo. Ad esempio, al contrario dei pedoni degli scacchi, non e indifferente chi sia presidente del consiglio, perche alla base, a chi riveste quel ruolo, sono associate costitu-tivamente precise responsabilita istituzionali. In alcuni casi, dunque, i vincoli sulla base imposti dalla glossa saranno molto laschi, come nel caso del pedone, in cui è sufficiente che questo sia per esempio di certe dimensioni compatibili con la scacchiera ecc., in altri casi, come quello del presidente del consiglio, tali vincoli saranno più numerosi, precisi e definiti.

8 Il termine e stato adottato sul calco dell’oggettile di Gilles Deleuze (1988). Purtroppo Deleuze da una parte non e interessato al risvolto sociale e istituzionale del problema degli oggettili, dall’altra non procede ad una sistematizzazione di questo concetto, utilizzandolo come strumento interpretativo vago per il suo lavoro di analisi della filosofia di Leibniz – a tal proposito si veda Fabbrichesi Leo (2000). Un’altra somiglianza che sembra mostrare la nozione di prospettile e con la nozione di variable embodiment sviluppata successivamente da Kit Fine (1999). Anche i variable embodiement sono affetti da difetti di base simili a quelli dei qua e degli oggettili: servono cioe a risolvere problemi che hanno a che fare con la natura degli oggetti materiali (Koslicki 2008).

9 Cioè il pedone nero nella casa individuata dalle coordinate a7, secondo la notazione standard.

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Il prospettile e quindi quel corrispettivo oggettuale, quell’oggetto assente nell’ontolo-gia searliana, ma necessario. Il prospettile e! l’oggetto sociale searliano considerato come token10, cioe “quell’X qua Y in C”. Il termine prospettile sta a sottolineare il fatto che tale oggetto esiste in quanto e messo in prospettiva da un ruolo, e in un sistema, e cio che esiste di esso, le sue proprieta rilevanti, sono cio che il sistema che abbiamo costruito e adottato filtra dalle proprieta della base, aumentato dell’insieme delle proprietà ereditate dalla glossa. Nel prospettile, cioè in quel certo pezzo di legno che abbiamo eletto come pedone (considerato come una unità), vi sono quindi delle proprietà in più, ad esempio, la pro-prietà di poter essere metaforicamente “mangiato”: un pedone mangiato, come pezzo di materia, può tranquillamente restare sul tavolino, sotto i nostri occhi.

In altre parole, posizionando un ruolo su un certo oggetto otteniamo di quell’oggetto una certa vista e tale vista è il prospettile. Il meccanismo è simile a quello del qua, solo che nel caso dei prospettili potremmo dire che vediamo in quei particolari che si avvicendano il nostro pedone (cioè nel pezzo di legno, nella moneta, nel simbolo grafico sulla carta e nelle tracce mnestiche) perché guardiamo a quei particolari attraverso certi accordi che abbiamo pat-tuito (ad esempio attraverso le regole degli scacchi). Il modo che abbiamo di vedere l’oggetto è strettamente dipendente dal modo in cui è definito il ruolo11. Ad esempio, la proprietà di essere liscio del pezzo di legno che costituisce il pedone o la regina non rientra tra le pro-prietà del pedone o della regina nel senso del gioco degli scacchi. Allo stesso modo, a ben vedere, neanche la proprietà di essere rappresentata sempre dallo stesso oggetto fisico fa parte delle proprietà dell’essere una regina degli scacchi. Basta che vi stia un qualcosa che funga da segnaposto (in casi estremi, anche un simbolo astratto) e la partita può con-tinuare.

Questo ci conduce a due ordini di considerazioni: - non esistono vincoli ontologici precisi sulle basi dei prospettili (ma variano i criteri

di identità: la Monna Lisa è un prospettile la cui base è ben ancorata alla glossa, per i presidenti del consiglio italiani tale ancoraggio è più lasco, per i pezzi degli scacchi lo è ancora di più);

- i prospettili svolgono una funzione di coordinamento, di cui ci occuperemo suc-cessivamente. Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare che introdurre i prospettili sia un

modo per sostenere che, banalmente, la socialita e fatta da differenti punti di vista e da differenti opinioni. Ma non e questo cio che si vuole sostenere: il prospettile infatti non e stricto sensu un punto di vista, ma e un oggetto che e un tutt’uno con il suo punto di vista, cioe con il suo ruolo. Posto accanto ad altri secondo un sistema di regole, crea l’istituzione come token. E il sistema di regole, l’istituzione come type che, semmai, potrebbe essere considerata come una prospettiva su un certo insieme di processi di interazione umana,

10 Questo significa che il prospettile non coincide con la sua base materiale, né tantomeno con la sua glossa. In esso invece sono racchiuse le proprietà individuali dell'oggetto (o degli oggetti che di volta in volta si pos-sono alternare, come nel caso del pedone) che funge da sua base e del concetto che funge da sua glossa (cioè dell'oggetto sociale inteso come type). 11 Stabilire con precisione quali tra queste proprietà siano quelle che il prospettile effettivamente eredita dalle basi e dalla glossa è un compito che eccede i limiti di questo lavoro (per una trattazione preliminare, fondata parzialmente sul lavoro di Fine su i qua-oggetti, si veda Bottazzi 2010).

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ma cio va inteso in senso metaforico. Prospettiva significa allora che i soggetti, gli esseri umani — Ada e Beatrice, ad esempio — e gli oggetti — ad esempio degli specifici pezzi di materia — che partecipano in un quadro di interazione istituzionalizzata, sono trasfigurati dalle regole di questo quadro, diventano oggetti distinti sia dai concetti del gioco, sia da se stessi, diventano “Ada in quanto giocatrice che muove il nero” e “Beatrice in quanto giocatrice che muove il bianco”, “quello specifico pezzo di materia in quanto pedone a7 di Ada”, e così via. Prospettiva allora vuol dire che ciò che esiste in un conte-sto — i prospettili — esiste solo in quel contesto, cioè solo nello spazio logico delle sue regole.

Non analizzeremo in questa sede la consistenza teorica della nozione di prospettiva, essa è stata variamente coinvolta per spiegare l’interazione umana: George Herbert Mead, agli inizi del secolo scorso, ne è stato uno dei primi e più importanti teorici: il per-spective taking, che implica la nozione di ruolo, spiega la costituzione del Sé sociale (la famosa distinzione I-Me), attraverso la nozione di generalized other, una “vista” di se stessi in funzione dell’interazione organizzata (Mead 1934). Più di recente si è andata affer-mando, nelle intersezioni tra filosofia e scienze cognitive (folk theory), l’importanza della prospettiva nell’ambito della simulazione: per capire, per leggere le intenzioni dell’altro, è necessario porci dal suo punto di vista, simulando i suoi processi mentali12. Pur sottoli-neando l’importanza di questi studi e la necessità di integrarli con la nozione di prospet-tile in lavori futuri, non possiamo non sottolineare il carattere epistemico di questi approc-ci.

I prospettili invece non sono “opinioni”, sono ontologici: quel certo pedone, considera-to come un tutt’uno con le convenzioni, le regole e con gli accordi che le hanno generate, una volta che tali accordi sono stati presi, esiste a prescindere dalle nostre intenzioni o dai nostri desideri13.

I prospettili cioè dipendono da una realtà, sia pure dalla realtà definita e stipulata del-l’istituzionale14. Sono il risultato di una classificazione: il punto di vista è, in questo caso, quello della definizione. Ciò li rende, in un certo senso, assolutamente relativi e relativamen-te assoluti. Il ruolo, quando classifica l’oggetto (o più oggetti nel tempo, come abbiamo visto nel caso del pedone), non solo taglia e riduce, per così dire, le proprietà dell’oggetto facendoci “vedere” solo alcuni aspetti di esso ma, proprio per tale criterio, aggiunge nuove proprietà al prospettile, proprietà che pertengono al regno dell’istituzionale.

D’altra parte, proprio perché siamo nell’ambito del sociale, la dimensione epistemica non deve essere comunque troppo sottovalutata. I ruoli, le proprietà sociali e le defini-zioni che formano quella griglia concettuale che fa sì che il prospettile sussista esistono grazie all’intenzionalità umana. Inoltre, la classificazione stessa, il riconoscere un certo individuo come sottostante ad un certo concetto sociale potrebbe essere vista sia come un processo indipendente dall’intenzionalità umana sia come legato strettamente ad essa e, soprattutto, alle capacità cognitive degli agenti coinvolti nell’interazione. Il fatto che un

12 Non a caso questa teoria è conosciuta sotto il nome di simulation theory: Goldman (2006), Gordon (1986).13 Certamente il punto di vista dell’agente rispetto al gioco è di grande interesse ed è necessario in futuri stu-di coniugarlo con ciò che qui analizziamo, cioè il punto di vista del gioco.14 La stipulazione, l’accordo, è certamente dinamico, ciò significa che le regole generate danno luogo di volta in volta a prospettili differenti anche se in parte imparentati tra di loro, cioè simili.

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pezzo di materia abbia tutte le carte in regola (tutte le proprietà) per essere pedone è qualcosa che, fissata la definizione di pedone, non dipende più da nessuno, se non dalla definizione e dal mondo. D’altra parte la classificazione potrebbe essere vista come un atto che un certo agente compie in base a ciò che sa sia della definizione sia del mondo.

In quest’ottica potremmo vedere nell’introduzione di questo nuovo tipo di entità un sorta di controparte ontologica di quello che in filosofia della scienza viene chiamato per-spectivism. Possiamo vedere il prospettivismo come una sorta di terza opzione tra reali-smo e costruttivismo estremo. Per il prospettivismo tutte le verità scientifiche sono sem-pre legate ad un quadro di riferimento, esse non possono valere in modo assoluto; ciò significa che le verità scientifiche per essere tali devono necessariamente essere qualificate. Ciò equivale ad affermare — se vogliamo in un certo senso essere onesti rispetto ai nostri limiti conoscitivi — qualcosa del genere:

“Secondo questa teoria altamente confermata (o questo strumento affidabile), il mondo sembra essere grossomodo così e così”. Non c’è un modo legittimo per compiere l’ulteriore passo oggettivista e dichiarare incondizionatamente: “Questa teoria (o strumento) ci forni-sce una fotografia completa e letteralmente corretta del mondo stesso”. (Giere 2006, 6, tra-duzione nostra)

Se il prospettivismo ha una lunga storia che può essere ricondotta a differenti autori in differenti epoche da Leibniz a Kant e Nietzsche, di recente tale visione è cominciata a circolare anche in ambito ontologico, inteso come disciplina informatica (Smith e Klagges 2008). Rispetto a questo tipo di lavori l’ulteriore passo che noi vorremmo compiere consi-ste nell’individuare quelle specifiche entità che di queste prospettive sono il frutto. Ciò ovviamente conduce ad una posizione che potrebbe essere definita moltiplicativista, poi-ché ogni qual volta che un certo type sociale incontra un certo token, da esso scaturisce un prospettile. Da una parte bisogna notare che, in linea di principio, i prospettili che scatu-riscono dalla classificazione sono meno dei qua-oggetti à la Fine, dati i criteri di identità più stretti che questi ultimi hanno. Se consideriamo il caso degli scacchi, per ogni sostitu-zione abbiamo un differente qua-oggetto, mentre altrettanto non vale per i prospettili. Inoltre è necessario dire che la moltiplicazione è di enti che sono dipendenti da nostre co-struzioni; siamo noi esseri umani che per motivi, come vedremo, eminentemente pragma-tici, costruiamo molte entità. Adottare il rasoio di Occam in questo caso ci pare fuori luo-go, sarebbe come negare la nostra stessa capacità produttiva.

4. PROSPETTILI COME SOLUZIONI A PROBLEMI DI COORDINAMENTO

Il problema è quindi pragmatico. Introdurre un prospettile significa dare l’oggetto più — in un senso wittgensteiniano — le coordinate relative al suo uso. Si riconsideri il caso del pedone: nel momento in cui dico “questa moneta è il pedone che abbiamo perso nella nostra partita” sto dando appunto l’oggetto, il pezzo di metallo, che in un altro con-testo è una moneta, più le coordinate relative al suo uso, cioè il fatto che esso sia usato come pedone. Ora quel pezzo di metallo è parte del prospettile pedone, quando viene traslato in un certo modo, il prospettile pedone si muove di una casa lungo la scacchiera. Il prospettile moneta continua ad esistere e questo potrebbe farci dire che in quella certa

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porzione di spazio c’è un pezzo di metallo ma (almeno) due token sociali, il prospettile pedone (che è sempre lo stesso durante tutta la partita, si ricordi) e il prospettile moneta. D’altra parte, la moneta è in un certo senso “impegnata” e non può, per gli agenti coin-volti in quella specifica interazione, cioè quella della partita, essere usata per pagare il caffè al bar, a meno che non vi sia un’ulteriore stipulazione che rescinde il legame pro-spettico tra pezzo di metallo e concetto di pedone. Il prospettile pedone serve a far esiste-re la partita, permette ai giocatori di sapere che cosa sta accadendo nella loro interazione; in questo senso, il prospettile pedone è una soluzione ad un problema di coordinamento: se il prospettile non vi fosse, la partita, secondo le sue stesse regole, non potrebbe avere inizio. Difatti le regole stabiliscono che un pedone a7 deve sempre esistere, a meno che non sia stato mangiato. Non avere il pedone a7 significa andare contro le regole del gioco e mettere l’interazione in una situazione di impasse15.

Il fine di base dei prospettili è quindi che l’interazione proceda. Possiamo quindi leg-gere il problema stesso dell’identità peculiare del pedone (le cui “basi” di volta in volta cambiano, pur restando il prospettile lo stesso individuo) come un problema di coordi-namento. Il punto non è stabilire se metafisicamente abbiamo a che fare con lo stesso og-getto, il punto è ritrovare, nel mondo, ciò che ci necessita per continuare ad interagire.

Non possiamo in questa sede giustificare solidamente questo assunto, basti dire che, da quanto recentemente emerso dall’ambito delle scienze cognitive e delle neuroscienze, sembra che in un certo modo Rousseau avesse ragione. Gli esseri umani sembrano essere una specie fondamentalmente cooperativa e che siano cooperativi in modo peculiare, grazie cioè a meccanismi di imitazione che passano in qualche modo attraverso il “met-tersi nei panni dell’altro” (Tomasello 2009; Rizzolatti 2010). Il fatto di essere “naturalmen-te” disposti a cooperare in questo specifico modo potrebbe essere fatto risalire alle carat-teristiche fondamentali dell’interazione sociale di tipo umano e al coordinamento che in tal senso è necessario16.

Proprio questa attenzione all’interazione intesa come coordinamento è stato il motivo che ci ha portato a focalizzare la nostra analisi sui token, poiché i prospettili sono ciò con cui abbiamo a che fare continuamente nella nostra realtà quotidiana. Anche a Kant inte-ressava sapere quanti talleri ci fossero nella sua tasca e non semplicemente che cosa po-tesse fare, in generale, con il tallero come mezzo di scambio. È vero che le nostre azioni sono regolate da quello che sappiamo sui tipi di oggetti sociali, ma è altrettanto vero che ci interessano le istanze, le particolari cose che maneggiamo. Se è vero, come dice Kant ne la Dialettica Trascendentale, che cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili — dal punto di vista del loro concetto — è altrettanto vero che — rispetto alla mia condizione economica — nei cento talleri reali, in quelli che ad esempio sono nella mia tasca, c’è qualcosa in più che nel semplice concetto di essi.

15Abbiamo cercato di caratterizzare le impasse in ambito istituzionale a partire da Bottazzi (2010). Intuiti-vamente possiamo dire di avere un’impasse quando si verifica una situazione all’interno dell’istituzione tale per cui gli agenti coinvolti non sanno come comportarsi senza andare contro alle regole e perdere il coordi-namento.

16 In quest’ottica, ci sembra che l’approccio di Brandom al problema dell’interazione, trattato nel suo Brandom (1994) e declinato rispetto al tema del linguaggio, sia particolarmente cogente. Per Brandom la co-municazione è, piuttosto che mezzo per lo scambio di informazioni, essenzialmente cooperativa essa stessa.

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Che cosa ci interessa quando abbiamo dei soldi in tasca: dei pezzi di carta che rispet-tino certi parametri o proprio quegli specifici pezzi di carta? Si consideri l’esempio se-guente. Topolino ogni sera, prima di andare a dormire, sostituisce tutte le banconote di Topolina con sue banconote, ovviamente non false, corrispondenti alla stessa somma di denaro. Troviamo questo comportamento anomalo, perché? Da un certo punto di vista, quello che fa Topolino è perfettamente legittimo, si tratta di una semplice sostituzione di banconote autentiche con banconote autentiche. D’altra parte percepiamo, proprio in vir-tù dell’equivalenza fra le banconote, una certa inutilità nella sostituzione effettuata. Tale inutilità, potremmo immaginare, apparirebbe lampante agli occhi di Topolina se, un giorno, venisse a sapere di questa pratica notturna del suo compagno. Vi troverebbe, giu-stificatamente forse, qualcosa di inquietante. Ma perché? Forse perché Topolino sembra assegnare un valore particolare alle banconote di Topolina in quanto banconote di Topolina. Eppure, per come sono concepite le banconote a Topolinia, esse sono prospettili le cui basi sono totalmente sostituibili, fatta salva la loro autenticità, ovvero che, appunto, siano rispettati alcuni parametri. Potremmo dire che la pratica avrebbe un effetto disorientante su Topolina, poiché andrebbe, senza una precedente pattuizione, a toccare una delle pro-prietà essenziali del denaro, ne cambierebbe cioè le modalità d’uso. Questo tentativo po-trebbe essere visto come una sorta di messa fuori dal contesto, di de-qualificazione, che minaccia l’interazione tra i due; non vi sarebbe cioè per Topolina nessun framework entro il quale collocare l’azione e, quindi, nessun prospettile. Sarebbe diverso se Topolino uti-lizzasse una banconota di Topolina per segnarsi un numero di telefono e successivamen-te effettuasse lo scambio. In questo caso il framework sarebbe chiaro e avremmo a che fare con tre prospettili: la banconota di Topolina, che rimane la stessa anche dopo la sostitu-zione, la banconota di Topolino, che rimane altrettanto identica e l’appunto di Topolino che, ovviamente, ha un criterio di identità più stretto.

La qualificazione è quindi uno strumento essenziale al coordinamento, essa si poggia sul mondo e attraverso il mondo costruisce oggetti (i prospettili) che rendono possibili azioni dotate di significato. La perdita di tale qualificazione conduce invece a situazioni di impasse tra gli agenti che interagiscono fra di loro nel mondo. Lo spirito sarebbe que-sto: devo sapere che cosa ti interessa del mondo, che cosa hai selezionato, che oggetto ti sei creato per poter interagire con te.

Il “fine” dei prospettili è dunque far sì che l’interazione proceda e non quello di stabi-lire una verità assoluta sulla natura del mondo. Per questo i criteri di identità e di per-manenza degli oggetti sociali intesi come token sono così variabili: le banconote e i pedoni degli scacchi possono “sopportare” avvicendamenti delle loro basi, mentre, ad esempio, certe opere d’arte come la Monna Lisa no. Ciò non significa che anything goes, anzi, ver-rebbe da dire piuttosto che questo approccio moltiplicativista, ma legato a specifiche con-cettualizzazioni, porta con sé un’esigenza di superiore rigore. Dovesse sorgere in chi ge-stisce il Louvre il fondato sospetto che la base della Monna Lisa sia stata sostituita da una base apparentemente simile, tale sospetto innescherebbe una serie di procedure di verifi-ca estremamente accurate e basate su criteri del tutto scientifici. Anche in questo caso pe-rò possiamo immaginare che l’aspetto pragmatico di interazione possa avere il soprav-vento.

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Si immagini che l’esito di tale verifica sia dubbio e che fra gli attori in gioco, poniamo il museo e la compagnia assicurativa che ha in carico il quadro, sorga una querelle legale. Lo stabilire l’autenticità passerebbe quindi, in qualche modo, anche se sempre attraverso perizie tecniche, per la sentenza di un giudice, che, per definizione, deve essere termina-tiva, cioè giungere, attraverso i vari gradi previsti dall’ordinamento, ad un esito definiti-vo. E questo varrebbe anche nel caso in cui tutti gli attori legali fossero in dubbio. Una decisione terminativa è necessaria perché l’interazione possa proseguire e la Monna Lisa possa continuare ad avere la sua funzione di coordinamento di un complesso sistema fatto di pubblico, museo, compagnie assicurative, eccetera.

Questo ci riconduce, coniugandoli rispetto al problema del coordinamento, a due problemi cui abbiamo accennato precedentemente. Il fatto che, per Searle, gli oggetti sia-no placeholders for patterns of activities e il problema della permanenza degli oggetti in am-bito percettivo e cognitivo. Per quanto riguarda il primo problema, crediamo di aver tro-vato una risposta più ricca e complessa rispetto a quella searleana e che tale risposta, inoltre, sia in questo modo, in linea di principio, formalizzabile nei termini della rappre-sentazione della conoscenza, nonché particolarmente compatibile con la propensione che gli esseri umani hanno a ragionare in termini di oggetti.

Questo ci conduce al secondo problema, che è legato a quanto abbiamo detto a pro-posito della Monna Lisa. Si prenda un problema classico come quello del tracking di un oggetto in movimento. Si immagini ora la situazione dove Giannino e Raffaella, affamati e naufraghi, decidano di prendere un esemplare dell’unico animale commestibile presen-te sull’isola: una specie rara di grosso roditore, simile ad un coniglio. Per il raggiungi-mento di questo obiettivo, visti i loro scarsi mezzi, Giannino e Raffaella sono essenziali l’uno all’altra. Inoltre nell’isola sono presenti vari esemplari che vivono in gruppo e per poterne catturare uno è necessario sceglierlo e inseguirlo. Giannino e Raffaella scelgono il loro roditore puntandolo e decidono, per comodità, di dargli un nome. Usi alle trappole filosofiche, lo chiamano Gavagai. Durante la caccia il grosso roditore riesce a nascondersi dietro ad un cespuglio. Si sente uno spezzarsi di fronde, poi in un lampo qualcosa esce. Giannino e Raffaella si danno un segnale e fanno scattare congiuntamente la loro trappo-la. Sono contenti, hanno catturato Gavagai.

In realtà Giannino e Raffaella credono di essere soli e naufraghi. Quell’isola è invece una riserva di caccia per una timida popolazione che abita in un’altra isola ad un giorno di mare da lì. In quel momento qualcun altro ha osservato la scena, ma da dietro al ce-spuglio, senza che i due se ne potessero accorgere. Quello che ha visto è che Gavagai ha raggiunto il nascondiglio dove già un altro suo conspecifico si trovava, c’è stata una sorta di lite e Gavagai ha avuto la meglio, il conspecifico è fuggito verso un crudele destino mentre Gavagai è rimasto e si è salvato. Questo è un modo per raccontare la storia ma, se osserviamo bene, dal punto di vista dell’interazione tra Giannino e Raffaella e secondo l’obiettivo che si erano prefissati, il “prospettile Gavagai” è rimasto inalterato, anche se i roditori si sono avvicendati. “Gavagai” era necessario a coordinarsi per cacciare in modo produttivo.

Ritorniamo ora al caso della Monna Lisa e cerchiamo di comprenderlo utilizzando ancora la metafora del tracking di oggetti fisici (come i roditori dell’isola). Poniamo caso che Giannino e Raffaella riescano a far amicizia con i loro vicini di isola. Decidono di par-

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tecipare ad un loro gioco che consiste nell’afferrare sempre uno dei grossi roditori. Vi sono due partecipanti che devono prendere uno specifico roditore, che viene scelto dal-l’arbitro, un esperto in materia; il gioco non può terminare in patta, né il giudizio dell’ar-bitro essere messo in discussione. L’arbitro battezza il roditore dicendo “Gnappo” e dà inizio alla gara. Sfortunatamente si verifica una situazione simile alla precedente, il rodi-tore designato si nasconde ancora dietro ad un cespuglio. Purtroppo nessun altro assiste al retroscena. Due grossi roditori sbucano dal cespuglio l’uno dopo l’altro. L’arbitro esita, dopodiché indica il primo roditore e grida “Gnappo!”. Giannino afferra il primo, Raffael-la il secondo. Giannino ha vinto anche se nessuno saprà mai che l'esperto non è assolu-tamente sicuro della sua scelta. L’eventuale disputa legale sulla Monna Lisa è molto simi-le a quest’ultimo esempio e il suo status ha una funzione analoga di coordinamento: ciò che importa è trovare una soluzione terminativa al problema in modo tale che sussista quel framework che permette il coordinamento e che il prospettile, per così dire, “ogget-tualizza”: i prospettili impongono una variabilità disciplinata dal ruolo e, al tempo stes-so, che punta verso l’ambiente e permette l’interazione.

5. PROSPETTILI E ORGANIZZAZIONI SOCIALI

Vorremmo ora mostrare come il nostro approccio permetta di impostare il problema delle organizzazioni sociali. L’importanza dello stabilire le condizioni di permanenza e identità di queste complesse entità è ancora maggiore che nel caso del denaro e degli scacchi. Le organizzazioni sono chiaramente degli strumenti costituiti per perseguire scopi collettivi attraverso azioni congiunte. Come nei casi precedenti l’enfasi della nostra analisi è sui token. Non ci interessa la tipologia organizzativa, ma le specifiche organizza-zioni: individui quali la Fiat, il CNR, l’ETA.

Possiamo dire che le organizzazioni possono essere considerate come un soggetto unitario e di questo il dato linguistico — il fatto che le nominiamo così come nomine-remmo una persona, cioè al singolare — è un importante indizio. Ma, accanto a questa singolarità delle organizzazioni, non si può ignorare il loro carattere plurale. In questo senso abbiamo a che fare con un prospettile complesso.

Il problema è capire come tale prospettile sia composto. Ragionando ancora nei ter-mini della terminologia fineana, qual è la sua base e quale la sua glossa? Il problema è piuttosto articolato e differenti ipotesi possono essere formulate a riguardo17; in questa sede ci limiteremo a sostenere che una organizzazione è un prospettile che ha come base una collezione di prospettili e come glossa un sistema decisionale.

In che modo i prospettili sono i mattoni fondamentali delle organizzazioni? Si po-trebbe supporre che ciascun prospettile porti con sé, per così dire, una parte della struttu-razione della casa. Il prospettile è un “mattone” che non può essere messo in una posi-zione qualsiasi: per la sua stessa natura è fatto per essere posto in un modo piuttosto che in un altro. Ciò avviene grazie alle proprietà relazionali che, attraverso i ruoli, vengono “ereditate” dai prospettili e che fungono da “collante di base” per le organizzazioni.

17 Si veda Bottazzi (2010).

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Questo permette di offrire una soluzione al problema dell’identità sincronica nelle or-ganizzazioni. Se considerassimo come parti di due organizzazioni solo le persone e non i prospettili, in caso avessimo a che fare con due organizzazioni con gli stessi membri, non potremmo effettuare una distinzione. Se considerassimo invece le organizzazioni come composte semplicemente da ruoli, non potremmo distinguere tra due organizzazioni che hanno la stessa struttura di ruoli e differenti persone come membri (Bottazzi 2010; Sheehy 2006)18.

Il problema dell’identità diacronica è più complesso e articolato. La domanda centrale è: come resta in vita un’organizzazione? Come viene cioè mantenuta la sua identità nel tempo? La risposta più convincente in letteratura è forse quella di Slater e Varzi (2007), che sostengono che l’identità nel tempo dell’organizzazione è una questione di accetta-zione collettiva. Quello che a noi interessa è capire come ciò accada e, in tal senso, credia-mo che un buon inizio sia nel cercare di comprendere quali siano gli attori fondamentali in gioco.

Se guardiamo alla natura ontologica del prospettile, possiamo ora vedere come que-sto sia “sufficientemente flessibile” per consentire, in linea teorica, il permanere delle or-ganizzazioni nel tempo nonostante cambino i loro membri, cioè le persone. Le persone possono cambiare, ma gli agenti — cioè gli “individui in quanto in quel certo ruolo” — pos-sono rimanere se stessi nel tempo, se la definizione del ruolo lo permette. Dal punto di vista del sistema, deve esserci quel certo agente, ma quel certo agente può essere un “certo qualcuno facente funzione di”, non importa chi sia la base, se Mario o Giovanni, basta che risponda a certe caratteristiche o che faccia certe cose.

Il fatto è che se guardiamo ad un qualsiasi esempio, i legami tra base e glossa, tra per-sona e ruolo, che creano l’agente prospettilico e istituzionale possono essere rescissi e le regole che specificano i ruoli e le condizioni di identità per i ruoli possono essere cambia-te. La possibilità di intervenire ad ogni livello della struttura prospettilica, arruolando persone, giudicandole dapprima essenziali e poi inutili, cambiando le relazioni gerarchi-che e i piani di azione è caratteristica specifica delle organizzazioni.

Un aspetto forse ancora più interessante relativo al caso delle organizzazioni è la ten-sione tra la prevista sostituibilità delle basi (le persone) nell’adempimento di un ruolo e l’intuizione che abbiamo circa una certa unicità che attribuiamo alle persone. Se guar-diamo l’organizzazione da un punto di vista più “astratto” e siamo quindi interessati ad analizzare l’interazione regolata delle varie figure professionali all’interno della struttura organizzativa o del suo workflow tendiamo a sottolineare la sostituibilità: non è essenziale chi rivesta un certo ruolo purché abbia certe caratteristiche, per esempio non ci interessa se a un certo punto della catena di montaggio c’è Mario al turno diurno e Giovanni a quello serale. Il prospettile non viene distrutto dal cambiamento della base e nella sua costruzione si terrà in maggior conto delle proprietà ereditate dalla glossa piuttosto che di quelle della base.

18 I prospettili che emergono da ruoli relazionali non sono identici fra di loro, poiché, come nel caso delle or-ganizzazioni, l’identità della base non determina l’identità del prospettile. Questo vale anche nel caso di rela-zioni istituzionali apparentemente simmetriche come quella di matrimonio: il mio matrimonio con te non è identico al tuo matrimonio con me, la prima relazione pone dei vincoli al mio comportamento, la seconda al tuo.

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Se però guardiamo l’organizzazione dalla prospettiva delle responsabilità attribuite ai membri, la questione cambia: il legame tra persona e ruolo ricoperto appare molto più rigido, motivo per cui per ruoli che comportano grosse responsabilità può accadere che alla morte della base (la persona) corrisponda la sparizione del prospettile e che l’avvi-cendamento di un’altra base su quel ruolo richieda una ristrutturazione tale per cui le modifiche dei poteri e obblighi attribuiti a quel ruolo siano così ingenti da determinarne uno nuovo. Un altro aspetto interessante della responsabilità è che essa appare una pro-prietà che la base eredita interamente dalla glossa, ma i cui effetti vanno a ricadere in maniera netta sulla base, come nel caso in cui il presidente di un’organizzazione che avesse compiuto una grave frode venga incarcerato sulla base delle sue responsabilità istituzionali.

Per capire la questione dell’identità diacronica bisogna dunque guardare al sistema decisionale. È proprio la possibilità di modificare la propria pianificazione attraverso decisioni che riguardano gli agenti presi nella loro globalità in quanto membri di una certa colletti-vità — tipica delle organizzazioni — alla base dell’esercizio di un’ulteriore attività di si-mulazione.

Questo è forse un altro modo di intendere la simulazione, che riguarda la specifica-zione delle regole e del senso dell’organizzazione, cioè la progettazione sociale. In questo caso il processo di simulazione avviene grazie alla presenza di un vero e proprio model-lo. La simulazione è qui da intendere in un senso vicino alla creazione di un artefatto tec-nico19. Artefatti tecnici complessi come aerei e motori sono attualmente progettati attra-verso sistemi di simulazione informatica dove viene riprodotto l’oggetto possibile che si vuole creare nelle sue proprietà essenziali e viene portato in condizioni di stress per cer-care di capire se sia capace di rispondere adeguatamente. Sebbene una simulazione in-formatica delle organizzazioni che offra gli stessi risultati di quella tecnica sia ben lonta-na dall’essere realizzata, esistono tuttavia dei tentativi di analisi di scenari in cui vengono simulate virtualmente delle possibili evoluzioni per verificarne l’esito (Conte et al. 2011). Ma, a ben vedere, possiamo considerare la progettazione (sia personale che collettiva) di organizzazioni come simulativa, poiché essa si svolge a partire da scenari possibili, in cui si cerca di immaginare quali siano le conseguenze di certe eventuali decisioni e, dipen-dentemente da tali scenari, si prendono successivamente le effettive decisioni in merito. In un certo senso si potrebbe parlare di una sorta di esperimento teorico per testare uno scenario ipotetico. Stabilire un parallelismo tra artefatti tecnici e organizzazioni significa considerare la progettazione di una organizzazione come una specificazione di un siste-ma, ove il sistema è virtualmente smontato nei suoi minimi termini e organizzato in sot-tosistemi che interagiscono a loro volta con le specificazioni del sistema considerato nella sua globalità. La struttura tipologica dell’organizzazione è dunque suddivisa in ruoli, che possono a loro volta essere strutturati in sotto-organizzazioni. La stessa specifica, la stes-sa struttura organizzativa può essere allora implementata in differenti modi, cioè diffe-renti individui e contesti concreti possono istanziarla e di fatto ciò che accade è che in di-

19 Il parallelo tra artefatti tecnici e realtà sociale ha una lunga storia, che non riporteremo in questo contribu-to, ci limitiamo a ricordare che il lavoro di Searle (1995) parte dalla considerazione dell’oggetto artefattuale per tratteggiare l’oggetto sociale. Per ulteriori analisi nell’ambito della filosofia analitica si vedano (Kroes 2003) e (Miller 2005; 2008).

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versi periodi temporali essa sia istanziata da diversi individui. Per queste ragioni l’orga-nizzazione può essere concepita come un aggregato di prospettili (dato dalle diverse per-sone che svolgono i ruoli organizzativi nel tempo), prospettile essa stessa poiché costitui-ta da una struttura e un apparato decisionale che vengono variamente istanziati nel tem-po.

6. ALCUNE IPOTESI SU TERMINI Y INDIPENDENTI E IMMAGINI DEL MONDO

Riguardo alle organizzazioni un’ultima osservazione deve essere fatta alla luce di quanto detto rispetto al problema dei free standing y terms (sez 2.). Alcuni hanno evi-denziato (Smith 2003) che la formula count as non puo essere applicata in tutti i contesti con gli stessi risultati: sembrano esserci situazioni in cui compaiono termini Y-indipen-denti (free standing Y terms), ovverosia casi in cui non sembra esserci un oggetto o una persona che corrisponda all’elemento X nella formula searliana. Uno di questi casi e rap-presentato dalle corporations 20.

Searle (2010) risponde a tali critiche modificando parzialmente la sua teoria. Vi puo essere una corporazione che ricade entro l’Y, ma non vi e nessuna persona od oggetto fisico (ovvero nessun X) che conti come Y. Anche il presidente, posto che sia la figura piu importante dell’organizzazione, non conta come quella certa organizzazione, ma piutto-sto la rappresenta. Pertanto, le leggi che regolano la registrazione di un’azienda sembra-no creare una funzione di status dal nulla: attraverso un semplice atto performativo una certa azienda comincia ad esistere, senza che vi sia alcun bisogno di un oggetto fisico che conti come quell’organizzazione. In molti paesi e obbligatorio per l’azienda avere un in-dirizzo specifico e devono esserci degli azionisti che detengono sue quote, ma comunque essa non e un oggetto fisico: non c’e nessuna persona od oggetto fisico che sia quel-l’azienda.Searle sottolinea come la natura performativa delle regole costitutive permetta la possibi-lita di una sorta di creazione ex nihilo, cioe non a partire dall’oggetto, dall’X, di un Y. Cio avviene attraverso l’atto linguistico di base della dichiarazione, che fa si che qualcosa ab-bia luogo rappresentandolo come avente luogo. A tale proposito Searle utilizza quale esempio la legge californiana sulla creazione delle corporazioni, la quale sostiene che si puo formare una corporation realizzando e archiviando un documento in cui si dichiari che e stata formata una corporation.In realta, contra Searle, vi e un X da istanziare. Searle, misteriosamente, non contempla questa ipotesi, ma si appoggia quasi unicamente alla natura performativa dei dichiarati-vi, limitandosi ad aggiungere che attraverso le corporation le persone sono fra loro legate da relazioni di potere e in qualche modo da complessi di regole costitutive. La creazione di una corporation invece e spiegabile esplicitamente per mezzo della stessa teoria searlia-na. Inoltre riteniamo che questo sia addirittura un caso standard di assegnazione di sta-tus ad un oggetto, simile all’esempio del pezzo di carta che conta come una banconota. La corporation, non e quindi un’entita a se stante, ma uno status che attribuiamo ad una

20 Una discussione sul problema dei free standing Y terms nelle organizzazioni è in Bottazzi (2010).

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certa organizzazione. L’incorporation presuppone l’organizzazione e percio vi e uno status che un’organizzazione — ad esempio lo Stato — attribuisce ad un’altra organizzazione. Si consideri per esempio un’organizzazione come la Apple: la formula searlana dovrebbe quindi, nella nostra ipotesi, essere istanziata nel seguente modo: “La Apple (X) conta co-me Incorporated (Y) nel contesto dello Stato della California (C)”. A sua volta, la Apple sarà un prospettile complesso, composto nel modo che abbiamo cercato di illustrare, an-che se parzialmente, nella precedente sezione. Il caso delle organizzazioni che abbiamo cercato di illustrare è certamente un caso piutto-sto complesso, ma possiamo immaginare casi più semplici e non meno significativi: ad esempio, possiamo considerare la nozione di prospettile di prospettile, cioè un prospettile la cui base è un altro prospettile. Si riconsideri il caso del pedone: abbiamo, da una parte, il pedone come tipo, dall’altra, un certo specifico pezzo di legno. Concentriamo l'attenzione ora sullo specifico pezzo di legno: anch'esso può essere considerato all'interno del mec-canismo prospettilico, poiché è, alla fine, una cosa dotata di una certa forma, cioè una statuetta. Quella specifica statuetta potrebbe a sua volta essere considerata come un pro-spettile costituito, aristotelicamente, da quella materia secondo quella forma, o, meglio, potremmo dire che vediamo in quello specifico pezzo di legno una statuetta21. A sua volta, quella specifica statuetta diviene la base del prospettile “pedone a7” della mia partita nel momento in cui inizio a giocare una certa specifica partita; avremmo quindi, in questo caso, un prospettile di un prospettile. I criteri di identità per il pedone e per la statuetta sono differenti: se cambia la materia di cui la statuetta è fatta allora non potremo più parlare della stessa statuetta, ma potremo però parlare dello stesso pedone. Qui si pone il problema di determinare quale sia la prospettiva che ci permette di vedere in quel pezzo di legno una statuetta; questa prospettiva ha probabilmente a che fare con aspetti marcatamente cognitivi e aspetti sociali. In questo modo allora, invece di un ac-cordo esplicito e definitorio, avremmo come prospettiva un qualcosa che potremmo chiamare un frame sociocognitivo. Certamente una tale spiegazione impone un cambia-mento di alcuni dei punti di questo lavoro e richiede ulteriori approfondimenti. Il problema che ci interessa qui affrontare è però differente, cioè più generale e relativo ai limiti del meccanismo prospettilico. In questo lavoro avevamo posto come limite del meccanismo prospettilico l'ambito più marcatamente sociale, ma, come abbiamo visto ritornando sul caso del pedone, il suo uso potrebbe essere esteso anche agli artefatti, co-me, in parte, abbiamo già cercato di fare nella sezione precedente. Cosa dice in fondo il meccanismo prospettilico? In vista di un coordinamento fondato su un accordo che abbiamo caratterizzato come definizionale, noi mettiamo qualcosa in prospettiva e gli oggetti che risultano da questa operazione sono i prospettili, i quali di-pendono per la loro esistenza sia dalle definizioni che abbiamo stabilito sia da ciò su cui si applicano. Qualificare ontologicamente tale meccanismo è piuttosto complesso; quello che possiamo dire qui è che, in linea di principio, il “peso ontologico” di tali entità è rela-tivo. In senso stretto non stiamo introducendo nuove entità, ma stiamo guardando a qualcosa in un modo tale per cui dal nostro guardare emerge qualcos’altro, a cui possia-

21 In parte tale scelta è giustificata dal legame che abbiamo ammesso tra la nozione fineana di qua-oggetto e quella di prospettile (sez. 3). Ovviamente, una precisa connessione fra queste due entità richiede uno studio più approfondito.

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mo attribuire proprietà e che ci serve per orientarci nell’ambiente cui abbiamo scelto di guardare. Quindi l’introduzione del meccanismo prospettilico non è, in senso stretto, una forma di costruttivismo (o quantomeno di costruttivismo estremo) poiché esso, in un cer-to senso, lascia intoccato tutto ciò su cui si poggia. Ciò significa che non tutto è necessa-riamente costruito, alcune delle nostre prospettive possono essere costruite22, ma i pro-spettili stessi non sono introdotti, non sono costruiti, essi derivano da una certa prospettiva.

Vi possono essere altri tipi di basi che possono essere prese in considerazione? Per poter generare prospettili, nel corso di questo lavoro abbiamo considerato come basi altri indi-vidui (monete, pezzi di carta, di legno). Abbiamo poi ammesso, ad esempio nel caso delle organizzazioni, di poter avere come basi altri prospettili. Potremmo però immaginare che il meccanismo che abbiamo cercato di illustrare si possa applicare anche in altri casi. I prospettili verrebbero ad essere il risultato di un fiat in modo simile a quanto descritto da Achille Varzi a proposito della nozione di confine (Varzi 2005b), per cui il confine è un’entità de dicto attraverso la quale segmentiamo la mera materia in modo arbitrario. Si potrebbe immaginare di avere un’ontologia in cui gli oggetti non sono compresi quali entità fondamentali; avremmo un’ontologia cioè per la quale gli oggetti sono posti episte-micamente:

Come empirista io continuo a considerare lo schema concettuale della scienza co-me un mezzo, in ultima analisi, per predire l'esperienza futura alla luce dell'espe-rienza passata. Gli oggetti fisici vengono concettualmente introdotti nella situazio-ne come comodi intermediari — non definendoli in termini di esperienza, ma come semplici postulati non riducibili, paragonabili, da un punto di vista epistemologi-co, agli dei di Omero. Io, che di fisica ho nozioni più che comuni, credo per parte mia negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e considero un errore scientifico credere altrimenti. Ma in quanto a fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per grado e non per la loro natura. Sia l'uno che l'altro tipo di entità entrano nella nostra concezione soltanto come postulati culturali. Da un punto di vista epistemologico il mito degli oggetti fisici è superiore agli altri nel fatto che si è dimostrato più efficace degli altri miti come mezzo per elevare una semplice costruzione nel flusso dell'esperienza. (Quine 1961, 44; tr. it. 62)

In una visione di questo tipo anche gli oggetti in generale hanno molto in comune con i prospettili, poiché essi hanno una funzione pragmatica e, al tempo stesso, posso essere considerati come viste. Il flusso dell’esperienza viene cioè semplificato, incanalato, ordi-nato attraverso la costruzione che dà luogo all’oggetto. In questo caso la vista che offro-no gli oggetti è su esperienze che, in un quadro scientifico come quello a cui fa riferimen-to Quine, hanno anche un carattere predittivo. Tale prospettiva pragmatica è stata da noi coniugata attraverso la nozione di coordinamento. Certo, sostenere che tutti gli oggetti siano intrinsecamente prospettici e che i loro criteri di identità siano così strettamente di-

22 Si pensi all’eccezione cui abbiamo accennato dei frame cognitivi, che non necessariamente sono costruiti, come ad esempio i frames non concettuali, che in alcuni modelli sono alla base della successiva concettualiz-zazione in oggetti (Pylyshyn 2007).

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pendenti da problemi di coordinamento pone questioni che esulano da questo lavoro. Il coordinamento, ad esempio, non potrebbe essere semplicemente fra agenti, dovrebbe tenere in conto di come gli agenti si coordinano con l’ambiente, di cosa cioè significhi “triangolare”, mutuando una famosa espressione di Davidson, tra ambiente e agenti. Un mondo in cui gli oggetti sono solo dei posit pone un ulteriore problema, cioè quello dello stabilire se vi siano dei criteri per distinguere tra questi quali siano marcatamente sociali (come nel caso del pedone) e quali invece non lo siano (come il sole e le monta-gne). Innanzitutto, è necessario chiedersi se tale distinzione abbia senso: in fondo, soste-nere che tutto ciò che è oggettuale è posto significa voler erodere questa distinzione. D’altra parte, potrebbero esserci delle ragioni pragmatiche, pace Quine, per sostenere che questa distinzione sia sensata: in fondo, vorremmo poterci orientare in un ambiente in cui il sole non funziona allo stesso modo del denaro. In questo caso dovremmo forse cer-care di riguardare con attenzione a questi gradi di differenza per capire se vi siano in essi delle invarianti23.La posizione quineana, pur sminuendo il peso ontologico degli oggetti, è comunque di tipo realista. Si potrebbe cercare di investigare come la nostra ipotesi sui prospettili possa essere accostata invece ad una forma di irrealismo estremo à la Goodman, per cui tutti i mondi sono costruiti e non vi è nessuna mera materia su cui poggiare i piedi:

I diversi materiali — materia, energia, onde, fenomeni — di cui sono composti i mondi sono fabbricati insieme ai mondi. Ma fabbricati a partire da cosa? Il fabbri-care mondi, come noi lo conosciamo, è sempre a partire da mondi già a disposizio-ne; il fare è un rifare. L’antropologia e la psicologia evolutiva sono in grado di stu-diare storie sociali e individuali di questo costruire mondi, ma la ricerca di un co-minciamento universale o necessario è un compito che è meglio lasciare alla teolo-gia. (Goodman 1978, 6-7; tr. it. 7)

Il compito di riuscire a coniugare una tale visione del mondo con quella prospettica è ar-duo ma, a nostro avviso, non impossibile. Un punto di partenza potrebbe essere l’affer-mare che è necessario (anche se costruttivamente) “assegnare un verso” a questi mondi. Anche se lo imponiamo per convenzione, che sia cioè a sua volta costruito o meno, il meccanismo fondamentale della prospettiva, per come è stato descritto in questo nostro approccio, richiede che vi sia un punto (di vista?) da cui iniziare a tracciare.Senza giungere alle posizioni estreme di Goodman, cerchiamo di dire qualcosa di più sul meccanismo prospettilico in un mondo senza oggetti. In Bottazzi e altri (2012) abbiamo cercato di prendere sul serio (anche attraverso un sistema formale) l’idea che tutto quello che conosciamo dell’ambiente è inevitabilmente mediato da una sorta di apparato, sia es-so uno strumento di misura o il nostro sistema percettivo. In questo quadro l’oggetto è quindi il prodotto di una scelta che viene applicata a osservazioni, cioè a outputs di siste-mi di misura e a stimoli prossimali nella percezione. Tale scelta raramente è immotivata: in ambito scientifico considerazioni di tipo predittivo sono di primaria importanza; si-milmente, in ambito percettivo potremmo immaginare che l’evoluzione giochi un ruolo

23 Abbiamo cercato di rispondere a questo problema in Bottazzi e altri 2012.

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chiave nella selezione di quelle caratteristiche che permettono all’organismo una produ-zione di oggetti tale da rendere possibile la sopravvivenza. La prospettiva in questo caso è doppia: da una parte abbiamo il punto di vista dell’apparato, con i problemi relativi al suo puntamento e alla sua taratura con altri strumenti, dall’altra abbiamo il sistema di scelte e di raggruppamenti dei dati che creano quell’unità che è l’oggetto, siano esse con-dotte a livello teorico, come in ambito scientifico, oppure cognitivo, come nel caso della percezione negli esseri umani. Va da sé il fatto che anche questo approccio, proprio per-ché declinato attraverso le nozioni di predizione, evoluzione e oggettività, sia ben distan-te dal relativismo estremo dell'anything goes.In quest’ottica si potrebbe fronteggiare in modo differente un’altra obiezione mossa a Searle a proposito dei free standing Y terms. In questo caso il problema è costituito dal de-naro elettronico. Nel caso del denaro elettronico si crea una funzione di status senza che vi siano oggetti che rivestano tale funzione, senza cioè che la variabile X sia istanziata. Non è affatto necessario che vi sia una moneta o un pezzo di carta, basta che esistano le tracce magnetiche in un hard disk. La soluzione che Searle (2010) propone è nella parziale riformulazione della funzione di status e nel porre l’enfasi sulla nozione di dichiarazione. Per Searle quindi vi sono situa-zioni in cui facciamo in modo che, attraverso una dichiarazione che un certo status Y esi-ste in C, si crei una relazione tra questo status e certe persone in modo tale che esse ab-biano il potere di compiere certi atti. In questo modo la funzione è legata comunque a qualcosa di concreto, cioè a persone. Nel caso del denaro, il legame avviene attraverso la relazione di possesso che le persone intrattengono con esso e che dà loro un insieme di poteri deontici. Ovviamente, questo legame sussiste attraverso meccanismi di accettazio-ne o riconoscimento sociale. Quest’ultimo aspetto permette infine al denaro elettronico di sussistere: esso esiste grazie a rappresentazioni, nella fattispecie grazie ad una registrazio-ne o iscrizione, nozione quest'ultima su cui molto ha insistito Maurizio Ferraris in varie pubblicazioni (ad esempio 2009). In un database di una banca la quantità di denaro che viene assegnata ad una persona conferisce a questa persona un certo insieme di diritti e doveri all'interno di un certo contesto sociale. Condividiamo questo modo di arginare il problema, ma vorremmo aggiungere che tale risposta, potrebbe, secondo noi, beneficiare del meccanismo prospettilico. La nostra pro-posta potrebbe essere vista cioè come un’ulteriore precisazione e una conservazione della nozione di oggetto sociale come token, pur se derivato e non primario ingrediente nel ca-talogo del mondo. Si potrebbero trattare cioè i dati relativi al conto in banca di una per-sona in modo simile a quanto poc'anzi detto a proposito delle osservazioni. Vedremmo quindi i cinque euro di Topolino attraverso i dati che abbiamo su di essi e secondo la pro-spettiva delle regole istituzionali che abbiamo loro assegnato.

CONCLUSIONI

Ritorniamo dunque a Searle. Come abbiamo ripetuto più volte in tutto il corso dell’arti-colo, per Searle gli oggetti sociali in senso stretto non esistono. A questo proposito due considerazioni sono importanti. Innanzitutto, una considerazione generale sull’oggetto: non avere l’oggetto non significa non averlo del tutto; come abbiamo cercato di mostrare,

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si può averlo in modo derivato. Il meccanismo di derivazione dell’oggetto che abbiamo proposto qui è quello prospettilico. Abbiamo inoltre illustrato come l’oggetto derivato permetta comunque di avere una nozione di oggetto sociale inteso come token, nozione mancante nella teoria searliana.Un’altra considerazione possibile rispetto alle posizioni di Searle riguarda la sua avver-sione al relativismo (ad esempio 1995), concepito da lui in netta contrapposizione con un programma realista e scientifico. Da più parti (Chakravartty 2011, Smith e Klagges 2008) è però stato mostrato come una certa forma di relativismo sia compatibile con una visio-ne realista e scientifica che non rinunci ad una essenziale esigenza di rigore e di oggettivi-tà.Il nostro prospettivismo si vuole collocare all'interno di questo nuovo dibattito e credia-mo che permetta inoltre di riempire una lacuna della filosofia searliana, cioè l’assenza di una chiara riflessione sullo statuto degli oggetti in generale, anche se derivati. Anzi, sem-bra esserci nel corso della sua analisi una certa confusione. Il fatto che da una parte Searle sembri attribuire solo alle particelle subatomiche l’esistenza in senso stretto, ma dall’altra si riferisca poi nei suoi esempi al sole e alle montagne, come se anch'essi per lui esistesse-ro in senso primario, sembra limitare la possibilità di connettere in modo più rigoroso il suo discorso sulla realtà sociale con quello sulla realtà in generale. La visione che abbiamo presentato in questo articolo, al contrario, non è legata a un’onto-logia specifica (come è per Searle con il naturalismo) ma, opportunamente modificata, può comprendere visioni ontologiche alternative grazie alle viste che è possibile ritagliare con il meccanismo prospettilico.Abbiamo poi cercato di mostrare l’utilità del concetto di prospettile sia nel trattare in det-taglio alcune delle fondamentali condizioni di esistenza dell’oggetto sociale come token, valutandone inoltre lo spessore ontologico, sia nel gettare le basi per lo sviluppo di un’ontologia che possa essere utile sia nell’ambito delle scienze cognitive che in quello della rappresentazione della conoscenza.Infine, speriamo di essere riusciti a mostrare come il nostro approccio permetta di consi-derare il caso dell’identità degli oggetti sociali in modo compatto, attraverso un unico meccanismo, che possa valere anche nel più complesso caso delle organizzazioni sociali e che al contempo risponda a una delle necessità più importanti in ambito sociale, ovvero quella di mantenere il coordinamento fra gli attori in gioco. Visto sotto tale luce, il pro-blema del cambiamento nel tempo assume caratteristiche peculiari. Se infatti conside-riamo come primario il coordinamento — attraverso la nozione di costitutività — gli spe-cifici particolari che ne sono il frutto (come i cinque euro nella mia mano o il pedone a7 della mia partita) possono subire rivolgimenti importanti pur rimanendo se stessi: essi, in un certo senso, sono una sorta di punto fisso o di bussola che permette agli agenti di non perdersi nell'interazione.

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