Norme cedevoli e poteri sostitutivi legislativi nel nuovo assetto costituzionale

567
Rivista quadrimestrale di studi e documentazione fondata da Fausto Cuocolo Anno XXVII Settembre-Dicembre 2008 Numero 3 • Regioni e diritto del lavoro Sistema formazione: Stato e regioni Responsabilità nelle pubbliche amministrazioni Diritto del lavoro nella Costituzione Rapporto di lavoro regionale Servizi per l’impiego: produttività • Dibattiti e attualità Sanità: regionalizzazione e aziendalizzazione “Norme cedevoli” nella Costituzione MAGGIOLI EDITORE

Transcript of Norme cedevoli e poteri sostitutivi legislativi nel nuovo assetto costituzionale

FRONTE_Quad_Reg3 26-01-2009 16:20 Pagina 1

Colori compositi

C M Y CM MY CY CMY K

Rivista quadrimestrale di studi e documentazionefondata da Fausto Cuocolo

Anno XXVII Settembre-Dicembre 2008 Numero 3

• Regioni e diritto del lavoroSistema formazione: Stato e regioniResponsabilità nelle pubbliche amministrazioniDiritto del lavoro nella CostituzioneRapporto di lavoro regionaleServizi per l’impiego: produttività

• Dibattiti e attualitàSanità: regionalizzazione e aziendalizzazione“Norme cedevoli” nella Costituzione

MAGGIOLIEDITORE

DirettoreGiovanni Persico

consiglio di direzioneGiacomo ronzitti, enrico Bonanni, Lorenzo cuocoLo, uGo marchese, Giovanni maronGiu, cLau-dio miGnone, stefano monti-BraGadin, Giu-sePPe PetroceLLi, enzo roPPo

comitato scientificoLorenzo acquarone, Guido aLPa, mario arosio, Giacomo auLa, santo BaLBa, renato BaLduzzi, mario Bessone, serGio carBone, GiusePPe casaLe, LuiGi cocchi, matteo co-suLich, Lorenzo de anGeLis, GiuLiano forno, adriana Gardino carLi, adriano GiovanneL-Li, aLfredo Gomez de ayaLa, GiorGio Grasso, carLo mario Guerci, corrado maGnani, aL-Berto marconi, umBerto moreLLo, GiusePPe Pericu, Giovanni Persico, anna maria PoGGi, aLBerto quaGLia, victor uckmar, renato vivenzio

capo redattore - Patrizia viPiana

Segreteria di redazione - cinzia maria ravioLa

comitato di redazionefranco rizzo, cLaudia miGnone, arianna Pitino, Lara trucco

Amministrazione e diffusioneMaggioli Editorepresso c.p.o. Rimini, via Coriano, 58 • 47900 RiminiMaggioli Editore è un marchio di Maggioli s.p.a.Tel. 0541.628111 • Fax 0541.622100

Servizio AbbonamentiTel. 0541.628200 • Fax 0541.624457E-mail: [email protected]

PubblicitàPublimaggioli • Concessionaria di Pubblicità per Maggioli s.p.a.Via del Carpino, 847822 Santarcangelo di Romagna (RN)Tel. 0541.628439 • Fax 0541.624887 E-mail: [email protected]

FilialiMilano - Via F. Albani, 21 • 20149 MilanoTel. 02.48545811 • Fax 02.48517180Bologna - Via Caprarie, 1 • 40124 BolognaTel. 051.229439 - 228676 • Fax 051.262036Roma - Via Volturno, 2/c • 00185 RomaTel. 06.5896600 - 58301292Napoli - Via A. Diaz, 8 • 80134 NapoliTel. 081.5522271 • Fax 081.5516578

Registrazioni presso il Tribunale di Genova al n. 20/82 in data 18 giugno 1982, 23 dicembre 1992, 6 dicembre 2001. Direttore respon-sabile Riccardo Caruso. Iscritto Registro nazionale stampa (legge n. 416 del 5.8.81 art. 11) n. 1635 vol. 17 foglio 273 del 29.7.85.

Maggioli s.p.a.Azienda con Sistema Qualità certificato ISO 9001:2000Iscritta al registro operatori della comunica-zione

StampaTitanlito - Dogana R.S.M.

condizioni di abbonamento - La quota di abbonamento alla Rivista per il 2008 è di euro 72,30 IVA inclusa da effettuare con bollettino di c.c. p. n. 31666589 intestato a Maggioli s.p.a. - Periodici - Via del Carpino, 8 - 47822 Santarcangelo di Romagna (RN). L’abbonamento decorre dal 1° gennaio con diritto di ricevimento dei fascicoli arretrati ed avrà validità per un anno. La Casa Editrice comunque, al fine di garantire la continuità del servizio, in mancanza di esplicita revoca, da comunicarsi in for-ma scritta entro il trimestre seguente alla scadenza dell’abbonamento, si riserva di inviare il periodico anche per il periodo successivo. La disdetta non è comunque valida se l’abbonato non è in regola con i pagamenti. Il rifiuto o la restituzione dei fascicoli della Rivista non costituiscono disdetta dell’abbo-namento a nessun effetto. I fascicoli non pervenuti possono essere richiesti dall’abbonato non oltre 20 giorni dopo la ricezione del numero successivo.

Informativa - Ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 si informa l’abbonato: a) che i suoi dati personali vengono trattati per l’invio della presente rivista; b) che i suddetti dati sono trattati con l’ausilio di mezzi informatici; c) che il titolare del trattamento dei dati è Regione Liguria; d) che il trattamento è effettuato presso il Settore Assemblea e Legislativo del Consiglio regionale nonché presso Maggioli s.p.a.; e) che il responsabile del trattamento è il Dirigente del Settore Assemblea e Legislativo del Consiglio regionale e che il corresponsabile è Maggioli s.p.a.; f) che rispetto al sud-detto trattamento possono essere esercitati i diritti di cui all’art. 7 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196.

La rivista è curata dal Consiglio Regionale della Liguria. La Direzione e la Redazione della Rivista sono presso il Consiglio Regionale della Liguria in Genova (16121), Via Fieschi, 15 - Tel. 010/54851 - e-mail: [email protected]. L’Amministrazione è presso Maggioli s.p.a. - Via del Carpino, 8 - Santarcangelo di Romagna (RN).

Note per gli autori - La collaborazione è aperta a tutti gli studiosi. I testi di saggi e dibattiti non do-vranno di norma superare le venti cartelle dattiloscritte – pari a circa cinquantamila battute. Oltre al testo cartaceo dovrà essere inviato anche un file – windows compatibile – all’indirizzo [email protected]

Dattiloscritti, libri da recensire – possibilmente in duplice esemplare – pubblicazioni periodiche in cambio vanno spediti esclusivamente all’indirizzo della Direzione. I saggi danno diritto a n. 20 estratti gratuiti, copie supplementari o estratti anticipati eventualmente richiesti all’atto della consegna dei dattiloscritti saranno forniti a prezzo di costo. La maggior spesa per le correzioni straordinarie è a carico dell’autore.

Proprietà letteraria riservata. Non si restituiscono i dattiloscritti inviati anche se non pubblicati.

Gli articoli firmati e quelli redazionali esprimono le opinioni dei singoli autori e non impegnano comunque le valutazioni del Consiglio regionale della Liguria.

Hanno collaborato a questo numero

BaLduzzi renato, Professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università del Pie-monte Orientale

candido aLessandro, Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale nell’Università cat-tolica del Sacro Cuore di Milano

caruso Bruno, Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Catania

cirieLLo antoneLLa, Magistrato

comandè danieLa, Dottoranda di ricerca in Diritto del lavoro europeo nell’Università degli Studi di Catania

durante emanueLa, Collaboratrice presso il Dipartimento di Diritto del lavoro nell’Uni-versità degli Studi di Genova

Gatto aLessia, Assistente di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Genova

ichino Pietro, Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano

moro GaBrieLe, Dottore di ricerca in Diritto del lavoro e Relazioni industriali nell’Uni-versità cattolica del Sacro Cuore di Milano

Paris davide, Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Milano

russo Giovanni, Magistrato

sartori aLessandra, Dottoranda di ricerca in Scienze del lavoro nell’Università statale di Milano

viPiana Patrizia, Ricercatore confermato di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Genova

ziLLi anna, Dottore di ricerca in Diritto del lavoro, Professore a contratto nell’Univer-sità degli Studi di Udine

733

SOMMARIO

ARTICOLIRegioni e diritto del lavoroBruno caruso - danieLa comandè, Modelli di regolazione giuridica,fonti e sistema delle competenze sulla formazione ........................... » 737antoneLLa cirieLLo, Riflessioni sul contratto a tempo determinato nel pubblico impiego ......................................................................... » 781emanueLa durante, Il nuovo testo unico in materia di tutela dellasalute e della sicurezza sul lavoro..................................................... » 805aLessia Gatto, La responsabilità di risultato dei dirigenti pubblici » 817Pietro ichino, Superare l’irresponsabilità diffusa nelle amministra-zioni pubbliche. Concorrenza e controllo ......................................... » 835GaBrieLe moro, La riforma del Titolo V Cost.: quale collocazione per il diritto del lavoro? Un’analisi dottrinale e giurisprudenziale ... » 843Giovanni russo, La costituzione del rapporto di lavoro con la Re- gione .................................................................................................. » 889aLessandra sartori, Le esperienze di misurazione e di valutazione della produttività dei servizi per l’impiego: riflessioni sul quadro comparato ......................................................................................... » 911anna ziLLi, Il lavoro pubblico locale tra Stato e Regioni ................ » 993

DIBATTITI E ATTUALITÀrenato BaLduzzi, Sul rapporto tra regionalizzazione e aziendaliz-zazione in campo sanitario ............................................................... » 1029aLessandro candido, Norme cedevoli e poteri sostitutivi legislativinel nuovo assetto costituzionale ........................................................ » 1055davide Paris, Riflessioni di diritto costituzionale sull’obiezione dicoscienza all’interruzione volontaria della gravidanza a 30 annidalla legge n. 194 del 1978 ............................................................... » 1079

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE DI INTERESSE REGIONALE(a cura di Patrizia viPiana)corte costituzionaLe, Sentenza (14) 18 aprile 2008, n. 104 .......... » 1105id., Sentenza (5) 14 maggio 2008, n. 131 ........................................ » 1111id., Sentenza (7) 16 maggio 2008, n. 142 ........................................ » 1118id., Sentenza (7) 16 maggio 2008, n. 145 ........................................ » 1122id., Sentenza (7) 20 maggio 2008, n. 159 ........................................ » 1130id., Sentenza (19) 23 maggio 2008, n. 166 ...................................... » 1143

734

id., Sentenza (19) 23 maggio 2008, n. 168 ...................................... » 1150id., Sentenza (19) 30 maggio 2008, n. 179 ...................................... » 1165id., Sentenza (19) 30 maggio 2008, n. 180 ...................................... » 1167id., Sentenza (21 maggio) 6 giugno 2008, n. 190 ............................ » 1171id., Sentenza (9) 13 giugno 2008, n. 200 ......................................... » 1178id., Sentenza (9) 13 giugno 2008, n. 201 ......................................... » 1184id., Sentenza (9) 18 giugno 2008, n. 213 ......................................... » 1188id., Sentenza (9) 18 giugno 2008, n. 214 ......................................... » 1193id., Sentenza (23) 27 giugno 2008, n. 232 ....................................... » 1197id., Sentenza (25 giugno) 4 luglio 2008, n. 250 ............................... » 1201id., Sentenza (7) 11 luglio 2008, n. 271 ........................................... » 1203id., Sentenza (9) 16 luglio 2008, n. 277 ........................................... » 1210id., Sentenza (9) 18 luglio 2008, n. 285 ........................................... » 1215

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ..................................................... » 1223(a cura di Patrizia viPiana)

ARTICOLI

737

BRUNO CARUSOProfessore ordinario di Diritto del lavoro

nell’Università degli Studi di Catania

DANIELA COMANDèDottoranda di ricerca in Diritto del lavoro europeo

nell’Università degli Studi di Catania

MODELLI DI REGOLAZIONE GIURIDICA, FONTI E SISTEMA DELLE COMPETENZE SULLA FORMAZIONE *

sommario: 1. Una chiave di lettura del “sistema formazione”. – 2. Le competenze e la va-riabilità di fonti: una impossibile quadratura del cerchio. – 3. Il riparto delle competenze in materia di formazione. – 3.1. La posizione della Corte Costituzionale: contratti forma-tivi e finanziamento della formazione. Le sentenze nn. 50 e 51/2005. – 3.2. Alcuni rilie-vi critici: meglio la sussidiarietà che la “materia”. – 4. La “rincorsa” delle fonti nel nuo-vo apprendistato: concorrenza caotica o modello esemplificativo? – 4.1. La regolamenta-zione dell’apprendistato nel dettaglio: il riparto delle competenze e delle “funzioni” rego-lative tra Stato e Regioni. – 4.2. Segue: e il nuovo canale ‘esclusivo’ delle parti sociali. – 4.3. La differenziazione territoriale dei modelli. – 4.4. Apprendistato al plurale? – 5. Ten-denze e problemi aperti della regolazione sociale oltre la formazione: il profilo del rap-porto tra le fonti. – 6. Verso un diritto della regolazione.

1. Una chiave di lettura del “sistema formazione”

Nella letteratura corrente è ormai quasi un luogo comune il ricono-scimento del fatto che il sapere, e a monte la formazione che ne costitui-sce l’istituto di riferimento essenziale, sia diventato un fattore strategico nella pianificazione aziendale – oltre che elemento strutturale del modo di creare valore e di produrre – che si incorpora nelle merci e nei prodot-ti, ma determina pure il modo in cui si organizza il lavoro e come la per-sona si relaziona con la macchina. Tutto ciò non può non aver ricadute su una disciplina, il diritto del lavoro, che nella relazione storica, giuridica e sociale della persona con il lavoro (nel nostro ordinamento costituzio-nale alla base del suo patto fondativo di legittimazione: art. 1) trae il pro-prio paradigma scientifico. Il ritorno alla ribalta, nella riflessione dei giu-slavoristi, di un istituto come la formazione professionale – che del sape-re è uno dei tradizionali veicoli nonostante sia passato in secondo piano nello spettro variegato degli istituti riconducibili al diritto del lavoro – ha

* Il presente scritto è interamente frutto di una comune riflessione; tuttavia i §§ 1, 2, 3, 3.1, 3.2, 4, 5, 6 sono da attribuire a Bruno Caruso; i §§ 4.1, 4.2, 4.3, 4.4 a Daniela Comandè.

738

comportato delle ripercussioni rilevanti nell’attività di regolazione del la-voro degli attori pubblici e privati. In questo senso assume rilievo centra-le uno studio articolato sul sistema delle fonti che entrano in gioco nel pianeta formazione, ove si consideri la estrema variabilità di competenze territoriali e tipologie di fonti che vi insistono. Se si osservano, infatti, sia i livelli territoriali di regolazione e il riparto delle competenze, sia la ti-pologia di fonti, ci si avvede come il catalogo per entrambi i profili – li-velli territoriali e tipologie – sia pressoché completo. E ciò sia in ragione del fatto che la formazione si presta, per la sua intrinseca funzione eco-nomico-sociale, ad una regolazione decentrata e territorialmente diffe-renziata come effetto di esigenze, di cui gli attori sono più o meno con-sapevoli, che stanno a monte del suo modello organizzativo 1; sia in ragio-ne del fatto che essa risulta tanto più efficace rispetto ai suoi diversi scopi 2, quanto più si adatta e risponde ai bisogni dei territori, dei mercati del la-voro locali, ma anche ai programmi di libertà delle persone situate.

La ricostruzione della struttura e della dinamica delle fonti giuridi-che di regolazione del sistema formativo, oggetto dell’analisi che segue, presuppone come impianto teorico quello che altrove 3 abbiamo definito approccio delle capability, in relazione al quale appare coerente svilup-pare modelli di governo, di policy, ma pure di regolazione giuridica, che assumono la vicinanza ai territori e alle persone come elemento conse-quenziale. Ne discende il recupero del principio di sussidiarietà in guisa di strumento tecnico di regolazione delle competenze, ma pure di fattore di valorizzazione e concreta canalizzazione dell’approccio delle capabi-lity. Tutto ciò suggerisce una lettura, coerente a questo assunto, dei dati giuridici positivi che riguardano il sistema delle competenze territoriali e della giurisprudenza della Corte Costituzionale su formazione e contrat-

1 La formazione è un campo di sperimentazione ideale del partenariato istituzionale, in cui sono coinvolti una pletora di soggetti istituzionali, sociali, privati, di livello centrale e de-centrato. Si sta rafforzando – in piena sintonia con le esigenze di governo di un’economia sem-pre più diffusa e intrecciata con il territorio – una new governance dei sistemi di formazione, che ha come obiettivo, per il profilo dei soggetti, un incremento del livello di trasparenza e di consenso sulle politiche della formazione e di disseminazione delle responsabilità nella sua gestione, con un coinvolgimento degli attori locali e dei cittadini interessati attraverso forme di consultazione delle rappresentanze sociali; ma ha anche l’obiettivo di aumentare l’efficien-za e l’efficacia “personalistica” del sistema: la formazione può essere gestita in forma flessibi-le e individualizzata solo se la sua governance è diffusa sul territorio in modo da avvicinare la sua gestione ai destinatari del servizio. Per riflessioni di più ampio respiro sul punto v. B. ca-ruso, Occupabilità, formazione e «capability» nei modelli giuridici di regolazione dei merca-ti del lavoro, in «DLRI», 2007, n. 1, spec. p. 48 ss.

2 Cfr. B. caruso, Occupabilità, formazione e «capability», op. ult. cit., p. 34 ss.3 Cfr. B. caruso, Occupabilità, formazione e «capability», op. ult. cit., p. 4 ss.

739

ti formativi, del rapporto tra fonti eteronome di diverso livello e fonti au-tonome, e delle loro reciproche interferenze, con particolare riguardo all’assetto del contratto formativo per eccellenza: l’apprendistato. Più in generale, si suggerirà una chiave di lettura delle tendenze in atto del si-stema delle fonti di regolazione della disciplina in generale.

2. Le competenze e la variabilità di fonti: una impossibile quadratura del cerchio

Sulla formazione si irradiano, in primo luogo, incisive politiche co-munitarie indotte da fonti primarie e secondarie dell’ordinamento euro-peo, ma pure da importanti disposizioni costituzionali dello stesso, in ge-nerale, sintoniche con la Costituzione nazionale, che attribuisce fonda-mentali competenze sia allo Stato, sia alle regioni; il risultato è un proble-matico equilibrio che ha richiesto importanti interventi di vero e proprio arbitrato politico da parte della Corte Costituzionale 4, aventi ad oggetto sia l’assetto istituzionale della formazione, sia i contratti formativi.

Un equilibrio problematico non solo in ragione della discutibile solu-zione tecnica assunta dalla riforma costituzionale del 2001 – il nuovo art. 117 Cost. –, in cui sembra dominare l’illusione che le competenze siano attribuibili allo Stato e alle regioni sulla base dell’astratta ripartizione per macroaggregati di materie – e facendo, al contempo, salve le competenze trasversali dello Stato che attraversano quelle stesse materie –, con il ri-sultato di un’impossibile quadratura del cerchio; ma anche perché appare ineliminabile, nella formazione 5, la sovrapposizione di competenze esclu-

4 Il riferimento è principalmente alla nota sentenza n. 50 del 2005 commentata ampia-mente dalla dottrina. Tra i tanti si veda E. maLfatti, La Corte Costituzionale al cospetto delle deleghe in materia di lavoro: quando la decisione (e la relativa massimazione) diventa diffici-le (nota a C. Cost. 28 gennaio 2005, n. 50), in «FI», 2006, n. 2, I, p. 368 ss.; P. aLBi, La rifor-ma del mercato del lavoro al bivio del neo-regionalismo, in «RIDL», 2005, n. 3, II, p. 530 ss.; A. GariLLi, La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte Costituzionale, in «RGL», 2005, n. 3, II, p. 440 ss.; S. scaGLiarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema di regolazione del mercato del lavoro, in «DRI», 2006, n. 1, p. 183 ss.; id., Principi fon-damentali in materia di potestà concorrente e delegazione legislativa: una conferma dalla Consulta, in «GC», 2005, n. 1, p. 486 ss.; V. fiLì, La “Riforma Biagi” corretta e costituziona-lizzata. Appunti dopo il decreto correttivo ed il vaglio costituzionale, in «LG», 2005, n. 5, p. 405 ss.; E.M. BarBeri, Il diritto del lavoro fra competenze statali e competenze regionali se-condo la Corte Costituzionale, in «MGL», 2005, n. 4, p. 288 ss.

5 Ma ancor più nell’istruzione, A. PoGGi, Istruzione, formazione professionale e Titolo V: alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadinanza sociale, decentramento regiona-le e autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche, in «Le Regioni», 2002, n. 4, p. 771 ss.

740

sive di Stato 6 e regioni 7 e di competenze concorrenti 8. Onde una concor-renza di competenze che insistono tutte, e legittimamente, su “pezzi” di un sistema complesso ma unitario. Di ciò la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 50/2005, ha dovuto ragionevolmente prendere atto 9.

Peraltro, a prescindere dalla discutibile soluzione tecnica di riparto per materie incorporata nelle norme costituzionali 10, l’intreccio e l’equi-librio delle competenze risulta, di per sé, complicato nella misura in cui esso riflette e risente della intrinseca complessità del sistema istituziona-le di governance che, sulla materia, si è, di fatto, realizzato, non solo in Italia. In altre parole, l’articolata e a volte sovrapposta convergenza di fonti di struttura e livello diversi, è causa, ma pure inevitabile effetto del modello di governance realizzato.

La complessa intelaiatura alla base del sistema di competenze trova un suo corrispondente immediato nella multiforme realtà delle tipologie di fonti che insistono sulla formazione, in relazione alle quali il catalogo può considerarsi completo.

A livello comunitario, infatti, è ampio il ricorso al metodo di soft law per indurre buone prassi e stimolare la convergenza delle politiche della formazione degli Stati membri; ciò sia all’interno della Strategia europea per l’occupazione, sia come iniziativa autonoma connessa ad una compe-tenza condivisa sulla materia, tra Stati e Unione 11.

Nell’ordinamento interno si “inseguono”, come si diceva, – in man-canza di un impossibile principio unitario d’ordine sistematico 12 – leggi

6 Ordinamento civile, livelli essenziali delle prestazioni, tutela della concorrenza e libera circolazione, ex art. 120 Cost.

7 Formazione e istruzione professionale.8 Nella formula attuale del comma 3 dell’art. 117 tutela e sicurezza del lavoro.9 Per riflessioni sul percorso argomentativo seguito dalla Consulta iniziato con la senten-

za 50 e proseguito con le sentenze “figlie” n. 406 e n. 425 del 2006 e n. 21 e n. 24 del 2007, v. il contributo di B. caruso, A. aLaimo, Il Conflitto tra Stato e Regioni in tema di lavoro e la me-diazione della Corte Costituzionale: la recente giurisprudenza tra continuità e innovazione, in «RIDL», 2007, n. 3, p. 569 ss.

10 Si tratta di questioni irrisolte che, a cascata, dalla norma costituzionale ridondano sul-la legislazione ordinaria: la riforma continua dell’apprendistato.

11 Cfr. B. caruso, Occupabilità, formazione e «capability», op. cit., p. 34 ss.; C. Canta-reLLa, S. SantanGeLo, Regolazione pubblica della formazione. Area europea, in Formazione e politiche per l’occupazione, Dossier a cura del C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, www. lex. unict.it/ eurolabor/ ricerca/ dossier.htm; C. Massimiani, La formazione nella Seo, in Formazio-ne e politiche per l’occupazione, cit.

12 Si veda, comunque, la condivisibile sistemazione di L. ZoPPoLi, Il lavoro di Aracne: formazione e politiche attive dell’impiego nelle recenti dinamiche istituzionali, in «DLM», n. 1, p. 85 ss., secondo il quale spetta alle regioni la programmazione degli interventi formativi,

741

nazionali e regionali; ciò malgrado il pacifico e formale riconoscimento che assegna alle regioni una competenza residuale esclusiva; con la con-seguenza che la Corte Costituzionale è stata chiamata più volte ad arbi-trare su conflitti di competenze sollevati soprattutto dalle regioni.

Le stesse regioni non lesinano interventi regolativi anche de-legifi-cati e legittimati da un’inedita prassi di concertazione regionale, intensi-ficatisi di recente in ragione della necessità di intervenire, come prevede la legge nazionale 13, sui profili formativi del nuovo apprendistato; in ciò indotte da una legislazione nazionale di rinvio che, per quanto costituzio-nalmente discutibile, data l’acclarata competenza esclusiva delle regioni in materia 14, ha, tuttavia, ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale (sent. n. 50/2005).

A livello regionale incomincia, anche se timidamente, a far capolino una sorta di soft law domestica. In qualche provvedimento regionale, ad esempio, si fa riferimento a strumenti come le buone pratiche 15. Si tratta di riferimenti che lasciano intravedere come anche le politiche del lavo-ro “interne” possano costituire terreno elettivo per la sperimentazione di strumenti più formalizzati di soft law per il coordinamento delle politiche regionali intorno alle migliori prassi, anche in materia di formazione e mercato del lavoro 16.

La formazione, poi, è materia privilegiata dalla regolazione autono-

la decisione sulle modalità di erogazione e di gestione dei servizi formativi, l’accreditamento delle agenzie formative, l’apprestamento di un’anagrafe delle agenzie formative e dei lavora-tori coinvolti; spetta, invece, all’attività di raccordo istituzionale tra Stato, Unione e regioni il disegno del sistema formativo e il coordinamento delle politiche; spetta, infine, allo Stato la predisposizione di criteri unitari di certificazione dei percorsi formativi e la fissazione e la ga-ranzia dei livelli essenziali delle prestazioni, oltre alla predisposizione di strumenti unitari di monitoraggio e valutazione statistica.

13 Cfr. artt. 48-50, d.lgs. n. 276/2003.14 M. noveLLa, m.L. vaLLauri, Apprendistato professionalizzante: alcune questio-

ni aperte, in «DPL», 2005, n. 46, p. 2526 ss.15 Si vedano, per esempio, l’art. 25, comma 1, lett. c), sulla cooperazione pubblico-priva-

to della l. reg. Friuli Venezia Giulia n. 18/2005, e la disposizione, di tenore analogo, dell’art. 13 della l. reg. Marche n. 2/2005.

16 Sul punto B. caruso, Il diritto del lavoro tra hard law e soft law: nuove funzioni e nuo-ve tecniche normative, in M. BarBera (a cura di), Nuove forme di regolazione: il metodo aper-to di coordinamento, Milano, Giuffrè, 2006, p. 77 ss. Per quanto riguarda più specificamente l’apprendistato e l’utilizzo da parte delle autonomie regionali di una regolazione soft a conte-nuto hard v. D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale” (Regioni e modelli regolativi diffe-renziati dell’apprendistato professionalizzante), in «DRI», 2008, n. 4 (di prossima pubblica-zione), in cui sono attenzionati una serie di provvedimenti paradigmatici dell’alta densità nor-mativa che si può misurare anche in atti regionali non appartenenti al rango della legge, e per-tanto riconducibili ad un secondo livello di normazione.

742

ma delle parti sociali: tradizionalmente la contrattazione collettiva a vari livelli, soprattutto quello nazionale di categoria ma anche quello territo-riale decentrato e con un discreto sviluppo, di recente, anche del livello europeo 17.

Si è trattato di una contrattazione collettiva che, sulla formazione e sui contratti formativi, ha svolto, più che in altre materie, una funzione privatistico-normativa – di regolazione del rapporto – ma pure di co-ge-stione pubblicistica del sistema, rinviando e utilizzando il terminale ope-rativo degli enti bilaterali e l’attività parapubblica che ne segue 18.

Sul sistema formativo si assiste – in virtù del nuovo assetto costitu-zionale regionalistico e dell’assetto delle fonti stabilito dalle disposizio-ni sull’apprendistato 19 – alla sperimentazione di una concertazione a ge-ometria, territoriale e istituzionale, variabile, che si andrà probabilmente rafforzando e diffondendo negli anni a venire.

Si tratta di meccanismi sia di concertazione nazionale di rilievo re-gionale con la partecipazione di Stato, regione e parti sociali 20, sia di concertazione di puro livello regionale con la partecipazione di regioni e parti sociali; una concertazione, per altro, che si pone accanto, ma con funzioni regolative diverse, alla collaborazione istituzionale – tra Stato e regioni – che, su formazione e istruzione, ha giocato tradizionalmente un ruolo importante.

Il sistema di regolazione che si viene a realizzare non è affatto stati-co, né nasce in virtù di un disegno ordinatore pre-orientato e organizza-to. Le sue cifre salienti sono la dinamicità, la fluidità, la sperimentazione e la differenziazione.

Ciò produce interazioni e collegamenti inediti tra fonti diverse 21 che

17 G. urso, Dialogo sociale, in Formazione e politiche per l’occupazione, cit.18 Questa commistione appare interessante nel caso paradigmatico dell’apprendistato, e

della tipologia professionalizzante in particolare, su cui vedi infra §§ 4 ss.19 Cfr. artt. 47 ss., d.lgs. n. 276/2003.20 Si vedano i primi accordi per l’apprendistato per l’alta formazione in Lombardia, Ve-

neto, Toscana, Liguria Piemonte ed Emilia Romagna in D. Comandè, Una lettura sistemati-ca dei contratti formativi dopo il d.lgs. 276/2003, in Formazione e politiche per l’occupazio-ne, cit.

21 Politiche e soft law europee, legislazione primaria e regolamentazione secondaria na-zionale, legislazione primaria e regolazione secondaria regionale, concertazione nazionale e regionale, contrattazione collettiva di diverso livello e regolazione parapubblica degli enti bi-laterali, embrioni di soft law interna. Si rinvia a B. caruso, La contaminazione tra linguaggio della politica e linguaggio dei diritti nel «Metodo aperto di coordinamento», Paper presenta-to al convegno «Governare il lavoro e il welfare attraverso la democrazia deliberativa», Ro-ma, CNEL, 9-10 ottobre 2006, dattiloscritto; C. KiLPatrick, New EU Employment Governan-ce and Constitutionalism, in J. ZeitLin, D. TruBek (eds.), Governing Work and Welfare in a

743

mettono sicuramente in discussione i moduli relazionali e relativamente semplificati – alla luce dell’odierna complessità – del rapporto binario tra fonti cui i giuslavoristi sono stati più adusi: legge nazionale e contrat-to collettivo 22.

Il che non deve destare meraviglia se si pensa che la formazione si presenta come un vero e proprio sub-sistema autonomo di regolazione, in cui moduli di regolazione pubblici, privati-collettivi e parapubblici si confondono e si ibridano, dando luogo ad un modello nuovo: il diritto della regolazione.

Come rilevato, il fatto che la formazione costituisca un sistema uni-tario e complesso (un sub-sistema sociale) è all’origine dell’impossibile quadratura del cerchio del problema del riparto delle competenze, qualo-ra si assuma l’approccio della “materia”.

La formazione è, dunque, un “sistema” su cui convergono una pluralità di attori e una differenziata gamma di strumenti di regolazio-ne, e non una materia. Per tale ragione, i tentativi di ricondurre ad una chiara ed ordinata ripartizione, tra competenza esclusiva o ripartita, dei suoi diversi segmenti, finisce per costituire un defatigante gioco – cui è stata costretta, suo malgrado, anche la Corte Costituzionale –, fatto di mosse e contromosse da parte di Stato e regioni 23. Ciò, tutta-via, non giustifica un analogo approccio della giurisprudenza scienti-fica cui spettano compiti, invero più ardui, di sistemazione complessi-va 24.

New Economy: European and American Experiments, Oxford, Oxford University Press, 2003.

22 Per una disamina sempre attuale, F. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in «DL-RI», 1998, n. 2, p. 191 ss.; v. pure B. caruso, Sistemi contrattuali e regolazione legislativa in Europa, in «DLRI», 2006, n. 4, p. 581 ss.

23 Molti dei motivi di ricorso di alcune regioni, che hanno poi dato luogo alla sentenza fiume della Corte Cost. n. 50/2005, sono stati fondati più sul tentativo politico di delegittima-re l’impianto complessivo della riforma del mercato del lavoro del 2003, che su legittime ri-vendicazioni di competenze. Ciò ha probabilmente finito per orientare la risposta, esagerata-mente di chiusura alle istanze regionalistiche, da parte della Corte Costituzionale, a volte più preoccupata di salvare l’impianto della riforma, che di vagliare la correttezza delle attribuzio-ni che la legge riserva allo Stato: condivisibilmente E. BarBieri, Il diritto del lavoro fra com-petenze statali e competenze regionali secondo la Corte Costituzionale, cit.

24 Sempre attuale, in tal senso, il monito di M. D’Antona, L’anomalia post-positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, in «RCDP», 1990, ora in B. caruso, S. Sciar-ra (a cura di), Opere, Giuffrè, Milano, 2000, vol. I, p. 53 ss.

744

3. Il riparto delle competenze in materia di formazione

Come e più di altri sub-sistemi del diritto sociale europeo, il riparto delle competenze che insistono sulla formazione è regolato dal principio dinamico di sussidiarietà, che implica un gioco regolativo cooperativo tra attori e fonti. Tale gioco cooperativo, di natura essenzialmente politica, è giuridicamente formalizzato nel principio di “leale collaborazione istitu-zionale” 25, più in sintonia con il sistema di governance diffusa e di rego-lazione multilivello che si va realizzando in Europa.

Da un lato, dunque, la sussidiarietà, da intendere non come criterio di riparto delle competenze ma come principio di regolazione delle stes-se, che privilegia la fonte più vicina alla situazione regolata e agli interes-si e/o alle persone su cui la regolazione esplica i propri effetti e fatto sal-vo il giudizio, caso per caso, di maggiore adeguatezza della fonte supe-riore; dall’altro, il principio di leale collaborazione istituzionale come ri-cerca continua del compromesso e della soluzione migliore – predisposta da una regolazione con carattere cooperativo e non competitivo – tra più attori a pari titolo coinvolti.

Tali principi costituiscono la condensazione giuridica di quel che si va realizzando in Europa per quel che concerne il più generale assetto politico istituzionale e che da quell’ordinamento si irradia sul livello na-zionale, condizionandone anche i rapporti con il livello territoriale sub nazionale.

Questa presa d’atto non sembra soddisfare l’ansia di soluzioni sem-plici e razionali dei giuristi 26 che si sentono chiamati al compito di sug-gerire programmi di decisione, in caso di specifici conflitti di competen-za interna, anche al giudice delle leggi.

Da qui il dibattito defatigante, che appare inutile ripercorrere, sul de-stino del diritto del lavoro nel riparto delle competenze definito dall’at-tuale art. 117 Cost.

La soluzione che, si dice, sia uscita prevalente da tale dibattito 27 – e

25 Si rinvia a B. caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competen-ze territoriali nella governance multilivello), in «ADL», 2004 n. 3, p. 801 ss.; v. pure F. Ca-rinci, Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in «ADL», 2006, n. 6, p. 1496 ss.

26 M. MaGnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie. Valori e tecniche nel diritto del la-voro, Padova, Cedam, 2006.

27 La c.d. dottrina maggioritaria si è attestata intorno alla posizione assunta da F. Carinci in vari interventi, per tutti F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in «ADL», 2003, n. 1, p. 17ss. Ad essa fa riferimento, per esempio, ripetutamente e con assoluta sicurez-za, V. FiLì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata…, op. cit., p. 406. Che esista una

745

che, si afferma, avrebbe avuto l’autorevole avallo dalla Corte Costituzio-nale con due sentenze le nn. 50 e 51 28 – è quella che intende “stipare” l’esuberanza regolativa del diritto del lavoro dentro lo stretto ripostiglio dell’ordinamento civile.

Le risposte che ha dato la Corte – in questo come in altri conflitti sollevati dalle regioni 29 – si ispirano sostanzialmente ad una medesima Weltanshauung e ad una pretesa razionalizzazione nel segno di una siste-mazione, che potrebbe apparire neocentralistica, delle competenze in materia di lavoro, così come prefigurato dalla c.d. dottrina maggioritaria. Tale dottrina – come del resto la Corte – notoriamente continua a cullare il mito della centralità regolativa dello Stato nel diritto del lavoro, quale salvaguardia dei valori di uguaglianza e solidarietà nel rapporto e nel mercato del lavoro.

3.1. La posizione della Corte Costituzionale: contratti formativi e finan-ziamento della formazione. Le sentenze nn. 50 e 51/2005

Con la sentenza fiume n. 50/2005 30 la Corte, per quel che riguarda i contratti formativi, ha fissato alcuni principi:

posizione dominante è in effetti difficile da affermare, tante e tali solo le distinzioni e i distin-guo, a volte anche sottili, su cui la dottrina si è esercitata.

28 La prima sentenza, che si confronta con l’intero impianto della riforma del 2003, trat-ta pure la formazione, ma soprattutto affronta il problema della regolazione dei contratti for-mativi; la seconda è più concentrata sull’assetto istituzionale del sistema formativo con riferi-mento, in particolare, ai meccanismi di finanziamento.

29 Dall’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale del 2005, a cura di M. BeLLocci e P. PassaGLia, Relazione sulla giurisprudenza costituzionale del 2005, in occasione della Conferenza stampa del Presidente Annibale Marini, Palazzo della Consulta, 9 febbraio 2006, Corte Costituzionale, dattiloscritto, emerge il superamento del dato simbolico del nume-ro di 100 di sentenze rese in via principale (p. XXIV); tuttavia il trend – che vede prevalere, a partire dalla riforma del 2001, le sentenze rese in via principale su conflitti di competenza, ri-spetto alle sentenze rese in via incidentale su diritti – sembra in fase di stabilizzazione; il che potrebbe preludere ad una inversione di tendenza (relazione p. XIV). Questo dato potrebbe es-sere letto come una progressiva metabolizzazione della riforma da parte degli attori istituzio-nali, soprattutto le regioni, ma anche il governo; attori che si sono contesi, in questi anni, le in-certe competenze fissate dalla riforma costituzionale, a colpi di ricorsi principali, spesso di si-gnificato più politico simbolico che tecnico. Per un giudizio complessivo sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di rapporti di lavoro, si rinvia a R. De Luca tamajo, Giu-risprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in aa.vv., Lavoro. La giurispru-denza costituzionale, Vol. IX. Saggi, CNEL – Corte Costituzionale – Alto Patronato del Presi-dente della Repubblica (a cura di), Roma, 2006, p. 39 ss.

30 La sentenza, talmente lunga da rendere persino difficoltosa la massimazione, è sta-

746

a) Nella misura in cui i contratti formativi – e in particolare il proto-tipo tendenzialmente assorbente, costituito dal contratto di apprendistato nelle sue tre varianti – sono compresi nella categoria generale dei con-tratti di lavoro, anche se a causa mista, diventa irresistibile la loro attra-zione nella competenza esclusiva dello Stato, in quanto riferibili all’ordi-namento civile; tale competenza esclusiva è considerata baluardo dell’in-divisibilità dei valori della dignità, dell’uguaglianza e della solidarietà sociale che non tollerano adattamenti localistici 31.

b) La Corte, tuttavia, nella medesima sentenza, non può non ricono-scere che la materia presenta pure profili che attengono alla formazione e all’istruzione professionale che appartengono alla competenza esclusi-va delle regioni, o meglio ai processi di codecisione con le parti sociali da realizzarsi a livello regionale. In tal caso, ove sia possibile spezzetta-re e distinguere, il riparto segue la strada canonica: la formazione impar-tita privatamente dalle imprese, riconducibile al sinallagma contrattuale, fa scattare la competenza esclusiva dello Stato, che ha di recente optato per una devoluzione alla contrattazione 32; quella gestita dalle regioni, nell’ambito del sistema pubblico di istruzione e formazione professiona-le, appartiene, invece, alla competenza esclusiva delle stesse 33. Mentre la norma sui limiti quantitativi massimi di apprendisti, impedendo “stru-mentalizzazioni per fini impropri” dell’istituto, rientra nella tutela del la-voro, quindi, nella competenza concorrente 34.

c) La Corte, poi, approfondendo i punti sollevati dai ricorsi, ammet-te pure che alcuni aspetti della regolazione dell’apprendistato presentano interconnessioni e ibridazioni tra profili formativi e regolazione del con-tratto, tra sistema pubblico nazionale dell’istruzione generale e sistema regionale dell’istruzione professionale 35, tali da rendere impossibile qualsiasi tentativo, anche sottile, di distinguo, sulla base del criterio del-la materia. In tal caso, ricorrendo l’ipotesi di concorrenza di competenze, deve soccorrere il criterio della leale collaborazione tra Stato e regione, inteso quale strumento elettivo di composizione delle interferenze.

ta redatta con una tecnica approssimativa, che non ha evitato anche evidenti errori tecnici: una puntale analisi, in tal senso, in E. maLfatti, La Corte Costituzionale al cospetto delle deleghe in materia di lavoro: quando la decisione (e la relativa massimazione) diventa dif-ficile, op. cit.

31 P. ALBi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neo-regionalismo, op. cit.32 Sul punto vedi infra § 4.1.33 Punti 14 e 15 e 16 della motivazione.34 Punti 14 in fine e 16 della motivazione.35 In particolare l’art. 48 del d.lgs. n. 276/2003, apprendistato per l’acquisizione del di-

ploma.

747

Quest’ultimo, per la sua elasticità, consente di aver riguardo alle peculia-rità delle singole situazioni. Al principio di leale collaborazione deve, pe-rò, accompagnarsi anche il criterio della “prevalenza” a favore dello Sta-to – la Corte richiama la sentenza n. 370/2003 – qualora appaia evidente, come nel caso, l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre; con ciò svuotando, alme-no nel caso dell’apprendistato, il riferimento al principio di leale collabo-razione che finisce per essere alquanto formale e di maniera.

Con la sentenza n. 51/2005 la Corte si confronta, invece, con l’asset-to istituzionale della formazione, in particolare con il problema del suo finanziamento, anche attraverso il sistema dei fondi 36. Si tratta di dispo-sizioni legislative relativamente marginali – riguardanti il finanziamento anche dell’apprendistato – rispetto a quelle “core” considerate nella sen-tenza n. 50/2005. Data la minore responsabilità politica in gioco, la mo-tivazione appare più solida e esaustiva rispetto alla precedente.

Nella sentenza n. 51/2005 le indicazioni della precedente, anche se riprese, sono meglio scandite. La Corte, innanzitutto, riconosce che il fi-nanziamento diretto dello Stato alla formazione – ancorché erogata a soggetti privati – finirebbe per condizionare e interferire con le politiche

36 Il problema era già stato, sin troppo sbrigativamente, affrontato nella sentenza n. 50/2005 (punto 9) a proposito del sistema del finanziamento della formazione nel lavoro som-ministrato, al punto da commettere un evidente errore tecnico riferendo anche il comma 2, dell’art. 12, del d.lgs. n. 276/2003, ai lavoratori somministrati con contratto a tempo “determi-nato” mentre la disposizione notoriamente si riferisce ai lavoratori con contratto a tempo “in-determinato”. Nella sentenza n. 50/2005 si afferma, apoditticamente, l’afferenza del finanzia-mento, ivi previsto, a scopi sostanzialmente previdenziali: l’integrazione del reddito dei lavo-ratori somministrati; onde la riconosciuta competenza esclusiva dello Stato. Si trascura, in tal modo, che quella è una soltanto e neppure la principale destinazione – se si guarda diacronica-mente all’istituto – del finanziamento obbligatorio, essendo evidente, invece, la sua finalizza-zione a politiche del lavoro più complessive: tra cui la formazione per fini diversi. Anche in questo caso si è, infatti, di fronte ad una di quelle ibridazioni di funzioni della formazione non suscettibile di essere affrontata con il criterio dell’incasellamento della materia: il finanzia-mento obbligatorio imposto alle agenzie per la formazione è finalizzato alla stabilizzazione presso l’agenzia e quindi lato sensu al contratto di lavoro, ma pure ad un migliore collocamen-to dei lavoratori nell’interesse dell’utilizzatore e dell’agenzia e alla elevazione professionale dei lavoratori, e quindi alla loro sicurezza nel mercato. Dovrebbero essere questi i chiarimen-ti preliminari per far scattare il gioco dell’afferenza per materia. Di fronte a questa inestricabi-le concorrenza di funzioni della formazione nel lavoro somministrato, la Corte evita di con-frontarsi per evitare di dover prendere atto della inconsistenza del criterio di riparto per mate-ria; preferisce saltare il problema con una rilevazione che lascia, invero, perplessi: la prevalen-te finalizzazione previdenziale del finanziamento.

748

delle regioni, con conseguente invasione, da parte della legge statale, del-le competenze esclusive delle regioni 37.

Ma la sentenza si fa meglio apprezzare rispetto alla precedente per-ché specifica – quasi a rimediare al frettoloso e formale richiamo nella sentenza n. 50/2005 – che il principio di leale collaborazione è il criterio di soluzione principale nel caso in cui si configurino situazioni di ibrida-zione regolativa che non consentono una chiara distinzione tra profili pri-vatistici e pubblicisti. Non solo: si afferma che il principio di leale colla-borazione “deve essere preso sul serio”, nella misura in cui deve essere, in concreto, scrupolosamente osservato, pur non arrivando ad imporre la forma “più pregnante dell’intesa” 38. Laddove si accerti, infatti, che la collaborazione non si è in concreto verificata la Corte non esita a dichia-rare l’illegittimità della disposizione 39.

3.2. Alcuni rilievi critici: meglio la sussidiarietà che la “materia”

Cosa dire a commento di questo tentativo di sistemazione operato dalla Consulta sul riparto delle competenze interne in materia di forma-zione?

è evidente, sul piano dei valori, il significato del riferimento all’or-dinamento civile come polo di attrazione della competenza esclusiva del-lo Stato nei rapporti privati e, quindi, nei contratti formativi: esso è inte-so come una sorta di difesa estrema dell’indivisibilità territoriale dei va-lori personalistici contro il rischio di derive di differenziazione localista. Tale concezione, in sostanziale linea di continuità con la giurisprudenza precedente alla riforma del 2001 40, appare oggi, più che mai, datata.

Lungi da indulgere a facili entusiasmi, la c.d. dottrina giuslavoristi-

37 Pertanto dichiara illegittima la norma della legge finanziaria che dispone in tal senso (art. 47, comma 1, legge n. 289/2002): “questa Corte ha ripetutamente chiarito che il tipo di ri-partizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., «vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi fi-nanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze» (sentenze n. 320, n. 423 e n. 424 del 2004)”.

38 3a massima riferita all’art. 47, comma 2, della legge n. 289/2002.39 4a massima riferita all’art. 48 della legge n. 289/2002. La massima pubblicata in

«DRI», 2005, n. 3, p. 821 con equilibrato e condivisibile commento di S. scaGLiarini, La for-mazione professionale tra Stato e Regioni: alcuni importanti chiarimenti (nota a C. Cost. sen-tenza 28 gennaio 2005 n. 51), in «DRI», 2005, n. 3, p. 822 ss.

40 B. caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà…, op. cit.; E. Lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, Cedam, 2005.

749

ca maggioritaria dovrebbe, invece, chiedersi se non sfugga, al pervicace atteggiamento della Corte, la percezione che il modello di governance diffusa e multilivello che va diffondendosi in Europa – anche in Stati a tradizionale forma centralistica – piuttosto che causare il depotenzia-mento o la disintegrazione del polo (statuale) privilegiato della regola-zione uniforme nel segno dell’uguaglianza, non rappresenti – per il gio-co sempre imprevisto e imprevedibile della dialettica – proprio il suo contrario: l’affermazione di un modello ispirato alla sussidiarietà, con la regolazione che si adatta ai territori e si colloca più vicina ai soggetti in-dividuali e collettivi che vi operano. Un modo, cioè, per realizzare un più avanzato livello di libertà e uguaglianza.

Se, infatti, il processo di decentramento, coordinato dal centro, è sta-to storicamente considerato una tappa dell’evoluzione verso una regola-zione più partecipata e vicina agli interessi del lavoratore in carne e ossa, con riguardo ad una fonte di natura privata quale il contratto collettivo, non si spiega perché tale evoluzione debba essere negata, in via di prin-cipio, sul piano dei rapporti tra poteri normativi pubblici.

Oltretutto, affidare ampie competenze sociali ai soggetti decentrati non dovrebbe sortire ataviche preoccupazioni, soprattutto, in presenza, nell’ordinamento formale, di una valvola di regolazione centrale delle competenze quale quella costituita dalla competenza statale sulla garan-zia dei livelli essenziali dei servizi sociali 41. La formula dei livelli essen-ziali dei servizi appare, infatti, molto più appropriata dell’ordinamento civile per la funzione di coordinamento centrale e per riservare allo Sta-to quel ruolo di “unificatore flessibile”, nelle c.d. materie trasversali, ga-rantito con dispositivi diversi in altri ordinamenti federali: la Supremacy clause negli USA; la Konkurrierende Gesetzgebung in Germania.

Nella formazione non opera una competenza concorrente Stato-re-gioni, ma una competenza residuale esclusiva delle regioni che fa, di ta-le livello, il centro di regolazione di un sistema polivalente. Su tale siste-ma insistono, però, pure competenze proprie dello Stato, che le condivi-de con l’Unione europea.

Questo non implica che sia legittimo pensare alla formazione come una materia scindibile e scomponibile da cui estrapolare, come un pezzo a sé stante, i contratti formativi; essa si presenta, al contrario, come un si-stema unitario dentro il quale si collocano anche i contratti formativi. Per tale ragione sembra inadeguato il riferimento all’ordinamento civile co-me criterio ordinatorio delle competenze in materia di contratti formati-

41 In attesa magari di una calibratura dell’assetto istituzionale della rappresentanza poli-tica: la Camera delle regioni.

750

vi, proprio perché quel criterio presuppone la possibilità – ed anzi la ne-cessità – di scomporre in vari segmenti – i contratti, l’assetto, il finanzia-mento, le tipologie, le funzioni della formazione, ecc. – ciò che invece è inestricabilmente connesso.

Di tutto questo la Corte – specie nella seconda sentenza – è piena-mente consapevole: il richiamo al principio di leale collaborazione nella formazione e nei contratti formativi implica, infatti, la presa d’atto che il criterio della competenza per materia non è sufficiente ad individuare l’esatta linea di distinzione tra interventi riservati allo Stato e interventi riservati alla regione 42. Da cui l’affermazione che Stato e Regioni devo-no concertare la regolazione, collaborando lealmente 43.

Il riferimento all’ordinamento civile come limite alla competenza regionale in materia di contratti formativi, appare, tuttavia, inappropriato anche per ragioni concettuali diverse da quelle sinora evocate.

42 La Corte anche nella più recente sentenza n. 406/2006 postula la discutibile distinzio-ne, nel contratto di apprendistato, tra formazione privata delle aziende che attiene alla causa del contratto e formazione pubblica che attiene alle competenze delle regioni. Sorge, allora, il legittimo dubbio: quid iuris nel caso in cui, come nel nuovo sistema, la distinzione tra forma-zione esterna e interna tende a sfumare e l’impresa formatrice privata può erogare formazione obbligatoria, ma può farlo solo nella sua dimensione non privata ma di soggetto pubblico ac-creditato sulla base della esistenza di certi requisiti, come tende a stabilire la legislazione re-gionale sui profili formativi dell’apprendistato professionalizzante? Si veda, ad esempio, l’art. 62. comma 1, lett. b) legge reg. Friuli Venezia Giulia n. 18/2005 e l’art. 51 ter, comma 1, del-la legge reg. Toscana n. 22/2005. Come si fa, poi, a distinguere con precisione, nel caso di for-mazione interna, i profili formativi di competenza delle regioni dal contenuto del contratto ri-feribile all’ordinamento civile? La discussa legge reg. Puglia n. 11/2005, che regola in manie-ra incisiva e pervasiva aspetti essenziali quali la struttura e i contenuti della formazione (art. 3), il piano formativo individuale (art. 4), gli obblighi di certificazione della formazione a carico del datore di lavoro (art. 5), l’incentivazione alla trasformazione dell’apprendistato a tempo in-determinato (art. 10), non opera, di fatto, una regolazione profonda del rapporto di lavoro dell’apprendista, anche se non si spinge sino al limite di regolare gli istituti che incidono sulla struttura del contratto o sullo schema qualificatorio tipico? O come non vedere che l’art. 41, comma 1, della legge reg. Toscana n. 922/2005, dove testualmente si prevede “che il piano for-mativo individuale (…) è parte integrante del contratto di apprendistato”, non è altro che una palese regolazione del contenuto del contratto, imponendo per legge una cooperazione del cre-ditore?

43 Con riguardo al principio di leale collaborazione, più volte richiamato, la Corte appro-da, in taluni passaggi, ad una concezione formale (per esempio nella sentenza n. 50/2005, ma anche nella sentenza n. 406/2006, laddove, grazie ad un’interpretazione sistematica, la Corte “salva” la regolamentazione toscana, in sintonia con il principio in questione); ma è pure cri-ticabile l’assunzione di una concezione ascensionale della lealtà e della stessa sussidiarietà (come nella sentenza n. 303/2003): condivisibilmente T. GroPPi, Titolo V, aumentano i ricorsi alla Consulta. Conflitto Stato-Regioni ai massimi storici, in «Diritto e Giustizia», 2005, n. 6, p. 98 ss.

751

Tale criterio, richiama partizioni già incerte – la differenza tra dirit-to pubblico e diritto privato – ma oggi sicuramente inattuali; esso è un concetto opaco perché tende a oscurare l’ibridazione, nella regolazione, di moduli giuridici differenziati ma interconnessi, la cui simmetria con gli interessi regolati è, per altro, definitivamente saltata: sempre più il contratto è utilizzato per governare interessi pubblici (i patti locali), sem-pre più la legge e la regolazione amministrativa si indirizzano su interes-si meramente privati o individualizzati.

Il processo di differenziazione e di adeguamento territoriale della re-golazione, attraverso moduli non appartenenti né al diritto pubblico, né al diritto privato, può essere sistemicamente governato secondo una logi-ca policentrica e coordinata che abbia come bussola precisi valori: per-ché no, anche quelli incorporati nelle disposizioni di principio di molti statuti regionali che specificano e confermano le disposizioni della Co-stituzione nazionale e europea.

Altrimenti, non resta che ripiegare sull’alternativa tra l’affidare tutto al mercato o ad una concezione competitiva del federalismo, ovvero ri-proporre, in un’ottica neopositivista, il primato dello Stato e della legge nazionale. Ma non pare questa l’evoluzione della regolazione, in genera-le, e di quella riguardante la formazione in particolare.

La formazione si presenta, come e più di altri, come un sistema in cui rilevano interessi pubblici, privati, sociali e collettivi, ove, inestrica-bilmente, si connettono moduli di regolazione diversificati, né completa-mente di diritto pubblico, né di diritto privato, né di diritto collettivo.

Ciò vale anche per i contratti formativi. Con riferimento a questi ul-timi ogni tentativo di vivisezione concettuale della loro causa vuoi per di-mostrarne la prevalenza degli elementi lavoristici, ovvero di quelli for-mativi 44, allo scopo di determinarne in astratto le competenze dello Sta-to o delle Regioni o delle parti sociali, appare fatica di Sisifo.

Non è senza significato che le regioni più consapevoli o le province autonome, con più rodata e affidabile esperienza autonomistica, presen-tano iniziative legislative nel segno di una maggiore consapevolezza fe-

44 P. BeLLocchi, Apprendistato, in M. PedrazzoLi (a cura di), Il nuovo mercato del lavo-ro, Bologna, Zanichelli, p. 537 ss.; G. OrLandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, in R. de Luca tamajo, m. rusciano, L. zoPPoLi (a cura di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema. Dalla legge 14 febbraio 2003 n. 30 al decreto legislativo 10 set-tembre 2003 n. 276, Napoli, Editoriale Scientifica, 2004, p. 515 ss.; M. D’OnGhia, I contratti a contenuto formativo: apprendistato e contratto d’inserimento, in P. Curzio (a cura di), Lavo-ro e diritti a tre anni dalla legge 30/2003, Bari, Cacucci, 2006, p. 381 ss.

752

deralistica, che potrebbero diventare paradigmatiche per il futuro assetto delle fonti nel sistema federale in formazione 45.

In considerazione di tutto ciò, pare possibile prospettare un quesito che non vuole essere retorico, ma dietro il quale si cela un dubbio reale.

Se le esperienze di avanzata regolazione normativa dei contratti for-mativi per opera delle regioni dovessero essere, stavolta su iniziativa del governo, sottoposte al controllo di legittimità della Corte, perché ecce-denti le competenze per materia delle regioni, la Corte si sentirebbe di di-chiarare incostituzionali questi interessanti e differenziati modelli di re-golazione autonoma dei contratti formativi?

45 Alcune regioni hanno individuato propri modelli di contratti formativi come nel caso dell’esperienza campana dell’AIFA, (accordo di inserimento formativo per l’assunzione) che costituisce una regolazione autonoma, per via atto deliberativo di giunta, di un vero e proprio modello giuridico di contratto formativo, con la peculiarità di collocare fuori e prima del rap-porto di lavoro il processo formativo. Il modello è stato regolato in via amministrativa, con l’intenzione di operarne una legificazione successivamente; almeno così pareva dal documen-to Occupare conviene (Assessorato all’istruzione, formazione e lavoro della regione Campa-nia, 2006). Tale intenzione non sembra aver avuto seguito stante il tenore dell’articolato del d.d.l. 16.9.2006, “T.u. della normativa della Regione Campania in materia di Lavoro e Forma-zione professionale per la promozione della Qualità del lavoro”; nella relazione introduttiva (p. 4) si afferma che il d.d.l. “tiene in massimo conto l’esperienza amministrativa e gestiona-le fatta dalla stessa Regione Campania negli anni scorsi grazie ad istituti importanti ed inno-vativi come l’accordo di inserimento formativo per l’assunzione”: dove e in che misura questo avvenga, in effetti, non è dato capire scorrendo l’ampio articolato. Scrutando le intenzioni è come se all’esperienza amministrativa dell’AIFA – che può continuare ad operare a prescinde-re dalla regolazione regionale primaria – il legislatore campano intenda dare valore di soft law, di cui potrà tener conto nel regolare in futuro aspetti connessi ai contratti formativi, anche con strumenti diversi dalla legge regionale (regolamenti, atti di concertazione regionale, ecc.). Al-tro esempio da richiamare, è la legge della provincia autonoma di Bolzano (n. 2 del 20 marzo 2006), il cui regime di autonomia speciale (art. 116 Cost.) non giustificherebbe in sé poteri speciali rispetto a quelli previsti dall’art. 49 del d. lgs. n. 276/2003; la Provincia di Bolzano ha, infatti, in virtù degli articoli 8, numero 29, e 9, numero 4, dello Statuto di autonomia di cui al d.P.R. n. 670/1972, competenza primaria in materia di addestramento e formazione professio-nale e competenza secondaria in materia di apprendistato e qualifiche dei lavoratori: si rinvia in generale a S. VerGari (a cura di), Mercati e diritto del lavoro nelle province autonome di Trento e Bolzano, Padova, Cedam, 2004. Orbene, la provincia autonoma ha regolamentato mi-nuziosamente il contratto di apprendistato in linea con il modello duale austriaco non limitan-dosi ai profili formativi: art. 2 rapporto e contratto di apprendistato, art. 3 doveri del datore di lavoro e della datrice di lavoro, art. 4 doveri dell’apprendista e così via per ben 29 articoli, in cui la regolamentazione dell’apprendistato è pressoché compiuta. Lo stesso discorso vale pu-re per la legge provinciale 10 ottobre 2006, n. 6 della Provincia autonoma di Trento. Si rinvia a D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit., per una lettura per modelli regolativi delle varie fonti regionali.

753

4. La “rincorsa” delle fonti nel nuovo apprendistato: concorrenza caoti-ca o modello esemplificativo?

La regolazione dell’apprendistato sta vivendo, forse al di là della in-tenzione del legislatore delegato, uno strano destino. è diventata campo di sperimentazione di un nuovo modello di regolazione di cui si stenta a prendere atto.

La dottrina che si è occupata di apprendistato, a ridosso dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, ha prontamente sollevato il problema della caotica regolazione e dei non chiari rinvii alla fonte regionale e al-la contrattazione collettiva.

Il caos regolativo è stato la cifra saliente e unificante di una critica dettata anche da intenti di politica del diritto: si è stigmatizzato un inter-vento all’insegna di una ri-regolazione tecnicamente malfatta per fini di allentamento delle tutele.

Questo atteggiamento critico è discutibile non in sé, essendo del tut-to legittimo che la dottrina si schieri a supporto, ovvero si opponga a de-terminate politiche del diritto. è, per altro, suo compito elettivo indivi-duare “facezie tecniche” o “illogicità manifeste” del legislatore.

Questo atteggiamento diviene, invece, criticabile, se e in quanto sin-tomo di opportunismo metodologico.

Nella specie, sono due gli atteggiamenti diffusi, riconducibili a que-sto approccio: essi riguardano in generale la riforma del mercato del la-voro nella legislatura ormai trascorsa e non sono limitati alle norme sull’apprendistato.

Il primo atteggiamento si manifesta nell’assunzione, più o meno consapevole, di posizioni incoerenti che seguono in parallelo, ponendosi in posizione simmetricamente contraria, le contraddittorie ed incerte evo-luzioni del legislatore delegato che, per conto suo, ha fatto un uso anche improvvido di strumenti regolativi 46.

46 Il riferimento è alla dottrina che si è mostrata favorevole o contraria al federalismo e al suo rapporto con il diritto del lavoro a seconda delle diverse scelte del parlamento e del gover-no della passata legislatura: centralista contro le scelte di decentramento, e regionalista contro le scelte di accentramento. Per riferimenti espliciti si veda B. caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà…, op. cit. Un atteggiamento simile è riscontrabile, a proposito dell’apprendistato, in A. Loffredo, I contratti a finalità formativa: tra un passato incerto ed un futuro difficile, in r. de Luca tamajo, m. rusciano, L. zoPPoLi (a cura di), Mercato del la-voro. Riforma e vincoli di sistema…, op. cit., p. 489 ss.; G. OrLandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, in r. de Luca tamajo, m. rusciano, L. zoPPoLi (a cura di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema…, op. cit., p. 515 ss.; id., Un dialogo plu-riordinamentale: regioni e parti sociali tra sperimentazioni e «messa a regime» dell’appren-

754

Il secondo, riguarda un dialogo sin troppo ravvicinato con le singo-le disposizioni con effetti rifrangenti, se non di vera presbiopia; ciò nella misura in cui si è tentato di osservare i dettagli perdendo a volte di vista i processi complessivi, che necessitano invece di essere osservati con un po’ più di distacco.

è quello che è avvenuto e sta avvenendo anche a proposito della re-golazione dei profili formativi del contratto di apprendistato professiona-lizzate, in cui la concorrenza e la successione di fonti e di fasi (sperimen-tali e a regime) sembra uscita dai binari della razionalità per deragliare nel caos, nonostante le volenterose letture razionalizzanti di alcuni inter-preti 47.

Come si deve porre, allora, la giurisprudenza scientifica di fronte a questi processi che sembrano rappresentare simbolicamente veri e propri ingorghi della complessità regolativa e che fanno guardare, magari con nostalgia, ai bei tempi in cui le fonti erano numericamente limitate e il problema era, al più, di mettere a punto le relazioni di deroga/integrazio-ne del contratto collettivo rispetto alla legge con riguardo a funzioni di-verse, ma complementari?

Il giurista può limitarsi a prendere atto del caos, magari addebitan-dolo ad un legislatore “dilettante allo sbaraglio” che maneggia, con ma-ni inesperte, delicate ed esplosive questioni di rapporti tra fonti. Può ag-giungervi, sadicamente, confusione interpretativa anche a bella a posta – con perizia argomentativa al limite del sofisma – per rilevarne ancor più contraddizioni e debolezze tecniche, che sono pure “politiche” 48; o può cercare di individuare, ancorché invano, criteri ordinatori e costruttivi di

distato professionalizzante, in m. rusciano, c. zoLi, L. zoPPoLi (a cura di), Istituzioni e rego-le del lavoro flessibile, Napoli, Editoriale Scientifica, p. 153 ss.

47 Il caos è individuabile nella distinzione, per forza di cose ambigua, tra regolazione dei profili formativi e del contratto; nella pretesa di una regolazione di un istituto a tutto tondo che presuppone però l’attivazione di altre fonti e di altri attori che non è detto condividano l’assun-zione di responsabilità, vuoi per ragioni politiche ma anche di semplice inerzia. In questa di-scrasia di tempi e volontà si è innestato il vero e proprio ingorgo tra fase a regime e fase tran-sitoria con comportamenti territorialmente asimmetrici e temporalmente sfasati degli attori so-ciali nazionali e istituzionali regionali chiamati a contribuire alla regolazione dell’istituto. Per i dettagli, si rinvia a G. OrLandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, op. cit.; M. noveLLa, m.L. vaLLauri, Apprendistato professionalizzante…, op. cit.; si v. pure L. ZoPPoLi, Stato, Regioni e parti sociali nella regolazione dell’apprendistato: i recenti svilup-pi (o viluppi?), in «DLM», 2006, n. 1, p. 193 ss.; M. RocceLLa, La disciplina dell’apprendi-stato professionalizzante nella legislazione regionale, in «LD», 2007, n. 1, p. 178 ss.; D. Co-mandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.

48 G. OrLandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, op. ult. cit.

755

lettura, che è il lavoro più consono per il giurista 49. Sono atteggiamenti tutti legittimi ma che rimangono propedeutici alla funzione specifica del-la giurisprudenza scientifica nella fase attuale: non tanto quella di intra-vedere un ordine sistematico dietro l’apparente caos, che nella comples-sità regolativa può essere solo illusorio; quanto cercare di cogliere la ten-denza di processi profondi e non soltanto effimeri o contingenti 50.

4.1. La regolamentazione dell’apprendistato nel dettaglio: il riparto del-le competenze e delle “funzioni” regolative tra Stato e regioni

Nell’analisi dell’applicazione dell’istituto dell’apprendistato rifor-mato 51 emerge innanzitutto un dato: le nuove competenze regionali inco-minciano a produrre regolamentazioni differenziate sia con riguardo ai modelli giuridici, sia al contenuto regolativo, a partire da un quadro di competenze normative tra Stato e regioni – disegnato per l’apprendistato professionalizzante con il decreto 276/2003 52 – in base al quale, come già rilevato, al primo spetta la regolazione degli aspetti privatistici del contratto e alle seconde quella dei profili formativi, da esercitarsi alla lu-ce di una serie di criteri indicati dal legislatore e secondo l’interpretazio-ne fornita dalla Corte Costituzionale.

Bisogna, a questo punto, soffermarsi sul dato normativo per vedere le opzioni legislative volte a definire i successivi rapporti interistituzio-nali, nel solco della strada maestra indicata dalla Consulta. L’articolo 49 del decreto legislativo n. 276/2003 pone dei “paletti”, di specifica rile-vanza contrattuale, nei confronti della regolamentazione regionale, alcu-

49 M. noveLLa, m.L. vaLLauri, Apprendistato professionalizzante…, op. ult. cit.; D. Co-mandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. ult. cit.

50 P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in «FI», V, c. 151 ss.51 Soprattutto la seconda tipologia, l’apprendistato professionalizzante, che più interessa

le imprese e che più ampia risonanza ha avuto nella legislazione regionale e contrattuale col-lettiva.

52 Sulla questione delle competenze tra Stato e Regioni in materia di apprendistato v. D. GarofaLo, L’apprendistato tra sussidiarietà verticale e orizzontale, in Working paper Adapt, 2005, n. 14; L. ZoPPoLi, Stato, Regioni e parti sociali nella regolazione dell’apprendistato: i recenti sviluppi (o viluppi?), in «DLM», 2006, n. 1, p. 193 ss.; M. D’OnGhia, I contratti a con-tenuto formativo: apprendistato e contratto d’inserimento, in P. Curzio (a cura di), Lavoro e diritti a tre anni dalla legge 30/2003, Cacucci, Bari, 2006, p. 381 ss.; G. OrLandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, op. cit., p. 515 ss.; da ultimo i contributi di M. RocceLLa, La disciplina dell’apprendistato professionalizzante nella legislazione regionale, op. cit., p. 178 ss.; L. ZoPPoLi, Apprendistato e multilevel regulation, in «DRI», 2007, n. 1, p. 98 ss.; e D. Comandè, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.

756

ni dei quali elaborati, in maniera del tutto innovativa, sottoforma di prin-cipi. Infatti, il contratto di apprendistato, se presenta un assetto contrat-tuale tendenzialmente immutabile quanto ai limiti minimi e massimi di età 53 e solo massimi di durata 54, oltre che alla forma del contratto, di converso è soggetto a regimi differenziati in relazione ai piani formativi, alle qualifiche, al tipo di formazione e ai profili formativi, al quantum e alle modalità di erogazione della formazione e alla certificazione della stessa. è in questa seconda tranche di aspetti della fattispecie che entra-no in gioco a pieno titolo le regioni, da un lato, e le parti sociali, dall’al-tro, sebbene anche la regolazione della durata contrattuale, non sia esen-te dalla co-operazione di una pluralità di attori.

Proprio in merito alla durata contrattuale, la scelta politica del legi-slatore è protesa all’ampliamento della durata massima consentita 55, che, se assume un rilievo incentivante nei confronti dell’impresa che investe in formazione 56, sotto il profilo delle competenze potrebbe porre un pro-blema di coordinamento. Infatti, il limite massimo è riferito al contratto

53 è riservato a soggetti di età compresa tra i 18 ed i 29 anni, salvo il caso di titolari di una qualifica professionale conseguita ai sensi della legge n. 53/2003 per i quali l’età minima è abbassata di un anno, mentre per il limite massimo la circ. Min. lav. del 15 luglio 2005, n. 30, precisa che l’assunzione può essere effettuata fino al giorno antecedente al compimento del trentesimo anno di età, come ribadito dalla Risposta ad istanza di interpello del 24 marzo 2006, avanzata dalla Confederazione Italiana della Piccola e Media Industria, in www.fmb.unimore.it/on-line/Home/IndiceA-Z/articolo3609.html.

54 Il decreto legge n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008, ha modificato la disci-plina sulla durata del contratto, eliminando dall’art. 49, comma 3, il riferimento alla durata mi-nima del contratto che nella precedente formulazione era di due anni. Il venire meno del limi-te minimo di durata del contratto ha costituito l’occasione di un chiarimento sul punto da par-te del Ministero del lavoro, che con circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27 ha interpreta-to la modifica del legislatore come funzionalizzata alla “piena valorizzazione della capacità di autoregolamentazione della contrattazione collettiva”, fermo restando il limite massimo di sei anni. Una forma di deregolazione in favore delle parti sociali che, secondo il legislatore, con-sentirebbe di rispondere all’esigenza di utilizzare la fattispecie contrattuale anche per lavora-tori che altrimenti ne sarebbero rimasti esclusi, come gli stagionali.

55 Che si basa sulla possibilità di prolungare nel tempo i benefici economici e normativi previsti per i datori di lavoro, in una logica di emersione del lavoro irregolare, oltre che di in-centivo pubblico ad investire in formazione.

56 “L’impresa che investe [deve avere] sufficienti garanzie di poter almeno recuperare i costi di formazione sostenuti”, così G. BruneLLo, A. ToPo, Il nuovo apprendistato professiona-lizzante: dalla formazione apparente alla formazione effettiva, in «RIDL», 2005, n. 1, I, p. 38. Se il momento formativo del lavoratore è visto come semplice voce di “spesa” per il datore di lavoro, rimane ancorato ad esigenze di costo/opportunità e quindi valutato in termini di mera convenienza economica, cosa che non avviene se, viceversa, è considerato come occasione (fornita dall’ordinamento) di accrescimento delle competenze dell’organico aziendale.

757

e non al periodo di tirocinio, come sottolineato da attenta dottrina 57, per-tanto se, da un lato, la competenza sulla durata contrattuale, essendo ma-teria rientrante nell’ordinamento civile, spetta al legislatore nazionale, dall’altro lato, lo stesso legislatore devolve alla contrattazione collettiva, di livello nazionale o regionale, il compito di ponderare il tempo di for-mazione in relazione alla qualifica da conseguire. In questo esercizio congiunto di competenze tra Stato e parti sociali, alle autonomie regiona-li spetta la gestione della fase di recepimento, cioè le regioni, tramite at-ti amministrativi, acquisiscono i profili formativi e i connessi tempi di formazione stabiliti dalle parti sociali, rendendoli efficaci erga omnes. Pertanto, l’iter e il riparto di competenze che si evince dal disegno del le-gislatore nazionale instaura, un rapporto immodificabile tra durata con-trattuale e periodo di maturazione della qualifica e non lascia aperta la possibilità di stipulare legittimamente contratti di apprendistato per un arco di tempo differente da quello necessario per ottenere il risultato for-mativo. Corollario di questa procedura è il rafforzamento di efficacia de-gli atti dei contraenti collettivi, anche di livello regionale (articolo 49, comma 5), che sostanzialmente da soli definiscono il rapporto tra durata del contratto e qualifica da conseguire.

Attraverso tale riparto di competenze, la durata contrattuale, nono-stante sia materia rientrante nell’ordinamento civile, esce dal campo di esclusività della competenza statale per collocarsi concretamente nelle realtà locali. Qui, le stesse autonomie regionali e le parti sociali sono chiamate ad ‘adattare’ una disciplina nazionale ad un determinato conte-sto imprenditoriale, per mezzo di un esercizio “illuminato” e dinamico delle rispettive competenze 58. In questa maniera le parti sociali, di livel-lo nazionale o regionale, insieme alle regioni concorrono in maniera de-cisiva a regolare un elemento essenziale del contratto di apprendistato, quale è la sua durata, che si dimostra essere, nonostante le apparenti rigi-dità, materia estremamente duttile.

Passando all’esame della disciplina per principi 59, l’art. 49 stabilisce

57 G. BruneLLo, A. ToPo, op. cit., p. 48.58 La regolazione di questo aspetto della fattispecie dovrebbe pertanto rispondere al prin-

cipio di sussidiarietà, sia in senso verticale, cioè tra Stato e regioni, sia in senso orizzontale, ovvero tra Stato e regioni, da un lato, e Oo.Ss., dall’altro.

59 Riassumendoli: il monte ore di formazione, con la novità della fungibilità tra quella esterna e quella interna all’azienda, stabilito in almeno 120 per anno per l’acquisizione di competenze di base e tecnico-professionali (art. 49, comma 5, lett. a)); le modalità di eroga-zione della formazione, stabilite dalla contrattazione collettiva di livello nazionale, territoria-le o aziendale dalle organizzazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative (art. 49, comma 5, lett. b)); il riconoscimento della qualifica professionale ai

758

di demandare alle regioni ed alle province autonome 60 la regolamenta-zione dei profili formativi e alle parti sociali la determinazione della du-rata, delle modalità di erogazione e dell’articolazione della formazione professionale sia interna sia esterna (commi 3 e 5). Il ruolo delle parti so-ciali entra in gioco, in via diretta, laddove nei criteri e principi direttivi dettati dal decreto legislativo n. 276/2003 si chiede loro specificamente di stabilire le modalità di erogazione e l’articolazione della formazione 61: in altre parole, i contratti collettivi sono chiamati principalmente a sceglie-re il quantum di formazione da internalizzare nel riparto tra quella inter-na e quella esterna all’azienda. Il rinvio è operato nei confronti di qual-siasi livello contrattuale (nazionale, territoriale o aziendale) 62 e senza

fini contrattuali, in base ai risultati conseguiti nell’ambito del percorso di formazione esterna o interna all’impresa (art. 49, comma 5, lett. c)); la registrazione della formazione, effettuata nel libretto formativo (art. 49, comma 5, lett. d)); deve essere nominato un tutor aziendale con formazione e competenze adeguate (art. 49, comma 5, lett. e)). Su questa metodologia di nor-mazione è stato sostenuto come si tratti di una «tipologia di normazione per principi davvero singolare, che [...] non ha precedenti nell’ordinamento giuridico», G. OrLandini, Contratti formativi e competenze normative delle regioni, op. cit., p. 525. In verità, guardando un po’ oltre sia in termini di tempo (nei prossimi anni) sia di spazio (oltre i confini nazionali), non si può sottacere come la normazione per principi sia il volano del nuovo diritto della regolazio-ne. «Per la nostra tradizione giuridica, sarebbe stato sino a ieri impensabile che un testo nor-mativo assumesse la forma di una compiuta dichiarazione d’intenti» (M. RocceLLa, Le fonti e l’interpretazione del diritto del lavoro: l’incidenza del diritto comunitario, in «DLM», 2006, n. 1, p. 3), ma de iure condendo non si può non prendere atto di un processo di trasfor-mazione culturale, che riserva un certo «orientamento di favore dei decisori politici naziona-li nei confronti del soft law in generale». E se il livello nazionale si mostra disponibile in que-sta direzione nei confronti dell’ordinamento europeo, non si vede come non debba esservi una medesima linea di attuazione, all’interno di quello nazionale, nei confronti del livello re-gionale.

60 D’intesa con le associazioni datoriali e dei lavoratori più rappresentative sul piano re-gionale.

61 In questa voce rientrerebbe anche la «valutazione della capacità formativa delle azien-de», in considerazione della circostanza, stabilita dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 50/2005, che la formazione aziendale inerisce al rapporto contrattuale, di competenza della le-gislazione statale e della contrattazione collettiva. Così argomenta il Ministero del lavoro nel-la Risposta ad istanza di interpello del 24 marzo 2006, avanzata dal Consiglio Provinciale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Bergamo, in www.fmb.unimore.it/on-line/Home/In-diceA-Z/articolo3609.html.

62 Per dovere di precisione occorre distinguere differenti rinvii del legislatore nazionale. In presenza di regolamentazione regionale si distinguono due casi: per le modalità e l’artico-lazione della formazione, «è possibile una implementazione da parte dei contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale»; mentre per l’individuazione delle qualifiche e della effettiva durata contrattuale il rinvio è limitato ai contratti collettivi stipulati da associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o regionale, con l’esclusione di altri livelli; in assenza di regolamentazione regionale dei profili formativi la di-

759

specificazione del livello di determinazione della rappresentatività, nel segno di un assetto regionalistico a geometria variabile delle relazioni industriali.

4.2. Segue: e il nuovo canale ‘esclusivo’ delle parti sociali

Che quello rivestito dalle parti sociali nella configurazione in con-creto della fattispecie contratto di apprendistato sia un ruolo di primo piano è confermato dal c.d. canale parallelo 63 introdotto di recente dal le-gislatore con l’art. 23 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 64. La nuova disciplina affianca e non sostituisce il quadro preesistente appena tratteggiato, e riguarda specificamente il caso in cui la formazione sia esclusivamente aziendale. In tale circostanza, alle parti sociali con lo strumento negoziale, o agli enti bilaterali, viene devoluto, dal legislatore nazionale, il compito/potere di definizione di tutti i contenuti della for-mazione da erogare nel contratto di apprendistato: dalla stessa definizio-ne di “formazione esclusivamente aziendale”, fino alla sua durata, anche in deroga alle 120 ore previste dallo stesso decreto 276, dalle modalità di erogazione, sino alla qualifica da conseguire. In sostanza il legislatore, con la recente modifica, ha inteso 65, in un certo senso, mettere in concor-renza gli attori decentrati 66, sociali e istituzionali, che nel modello prece-dente sono chiamati, invece, a collaborare.

sciplina si evince solo dai contratti collettivi nazionali (Risposta ad istanza di interpello del 21 giugno 2006, avanzata da Apindustria, (Piacenza), in www.fmb.unimore.it/on-line/Home/In-diceA-Z/articolo3609.html).

63 Così definito dalla circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27, cit.64 Decreto convertito dalla legge 133/2008, che aggiunge un nuovo comma 5-ter all’art.

49 del decreto legislativo n. 276/2003; la disposizione recita: “In caso di formazione esclusi-vamente aziendale non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi i profili formati-vi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e presta-tori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bila-terali. I contratti collettivi e gli enti bilaterali definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della for-mazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo”.

65 La recente circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27, cit., sembra confermare questa intenzione del legislatore; secondo la stessa, le previsioni introdotte sul punto pongono “le pre-messe, senza modificare l’impianto normativo preesistente (…), per la costruzione di un «ca-nale parallelo» affidato integralmente alla contrattazione collettiva”.

66 Da un lato, la via pubblicistica di regolazione della formazione definita dalle regioni,

760

Il legislatore, facendo aggio sulla circostanza – rilevata dalla Corte nella sentenza n. 50/2005 – per cui “la formazione aziendale rientra (…) nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in ma-teria di ordinamento civile”, ha creato un secondo e più agevole canale, di natura privato/collettiva, abilitato a disciplinare la formazione dell’ap-prendista. La novità legislativa, se da un lato pare rispondere adeguata-mente all’attivismo manifestato, fin da subito, dalle parti sociali nel rego-lare l’apprendistato, dall’altro prospetta nuovi possibili conflitti di com-petenza tra le regioni e le parti sociali, queste ultime che agiscono sulla base di un potere devoluto dallo Stato.

Al di là di valutazioni sul piano funzionale (chi regola meglio cosa), la recente modifica normativa suggerisce riflessioni di carattere più ge-nerale sul sistema di competenze normative e istituzionali in materia di apprendistato, come risulta dal quadro legislativo ripetutamente mutato in questi anni. Con l’ultimo intervento, in effetti, è come se il legislatore avesse preso atto, e trascritto in norma, quel che si è verificato a livello di regolamentazione regionale.

A tale livello, la competenza sull’apprendistato è stata esercitata tra-mite rinvio a, e/o recepimento di, atti dell’autonomia collettiva; ciò pro-babilmente ha indotto il legislatore nazionale a cristallizzare questa pras-si intervenendo sul piano della ripartizione formale delle competenze. è come se il legislatore avesse avvertito un suggerimento, ma in uno stuc-chevole eccesso di zelo, si fosse spinto oltre ciò che la stessa prassi sug-geriva.

Da qui la scelta di devolvere, con una norma generale sulla compe-tenza, la formazione esclusivamente aziendale ai contratti collettivi, sen-za passare più per le leggi regionali.

La soluzione adottata presenta delle indicazioni e delle controindi-cazioni.

Tra le prime indubbiamente è da annoverarsi la conferma al contrat-to collettivo di piena dignità di fonte che assume una funzione sostituti-va, e non più solo complementare, rispetto alla legislazione regionale. A ciò si aggiunga una maggiore responsabilizzazione delle parti contrattua-li: il datore di lavoro, nel momento stesso in cui stipula l’accordo, rinun-cia ad avvalersi dei finanziamenti pubblici stanziati dalle regioni per l’erogazione della formazione e si fa carico integralmente degli oneri for-mativi degli apprendisti; d’altro canto, le organizzazioni sindacali si ve-

in coordinamento con le parti sociali (art. 49, comma 5); dall’altro, la via privatistica, accessi-bile solo nel caso di formazione aziendale e determinata esclusivamente dalle parti sociali o dagli enti bilaterali (art. 49 comma 5-ter).

761

dono impegnate a che i contenuti formativi previsti dal contratto colletti-vo siano stringenti 67 e rispondenti non solo alle esigenze formative della parte datoriale, ma anche funzionali alle esigenze dei lavoratori appren-disti, sia in relazione all’effettività della formazione, sia in funzione del-la successiva spendibilità della qualifica acquisita.

Quanto alle controindicazioni, non si può sottacere come la delega di funzioni alla contrattazione di qualsiasi livello, relativamente alla re-golamentazione della formazione aziendale, senza la contestuale previ-sione di alcun criterio direttivo, possa generare sul piano sostanziale vi-stose difformità; ciò anche in ragione del fatto che le aziende, sul piano territoriale ma non solo, notoriamente posseggono differenziate capacità e potenzialità formative: il problema in altre parole è che manca un crite-rio idoneo non solo a distinguere quali aziende siano realmente dotate di capacità formativa e quali no, ma anche ad individuare a quali principi si debba informare un tipo di formazione che, seppure aziendale, rimane mirata all’acquisizione di una determinata qualifica 68. Per non parlare del fatto che non è chiara la ricaduta della nuova disposizione sulle regio-ni che hanno optato per una piena fungibilità tra formazione esterna e in-terna 69.

Per ciò che concerne più propriamente i conflitti di competenza, poi, difficile registrarne una riduzione, anzi: basti pensare agli otto ricorsi pendenti davanti alla Corte Costituzionale, che sollevano dubbi in rela-zione alla problematica costituzionalità della disposizione appena intro-

67 Basti pensare che la modalità di formazione on the job – che in molte discipline con-trattuali collettive è considerata formazione formale, mentre in sede europea è esclusivamente formazione non formale – non dovrebbe, a nostro avviso, essere l’unica tipologia di formazio-ne prevista dai contratti, in considerazione del fatto che il legislatore ha previsto una formazio-ne articolata in competenze di base e tecnico-professionali.

68 Precisa, infatti, la circ. Min lav. del 10 novembre 2008, n. 27, cit., che l’apprendistato “resta in ogni caso finalizzato alla acquisizione di una qualificazione, e cioè di una qualifica professionale «ai fini contrattuali» e che la durata del monte ore di formazione deve essere co-erente con l’obiettivo della acquisizione di specifiche «competenze di base e tecnico-profes-sionali»”, per cui “la durata e le modalità della formazione aziendale, disciplinate dai contrat-ti collettivi anche a livello territoriale o aziendale, dovranno (…) essere coerenti con le decla-ratorie e le qualifiche contrattuali contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro a cui l’apprendistato professionalizzante è finalizzato”.

69 Bisogna chiedersi cosa avvenga nel caso in cui una legge regionale opti per la piena fungibilità tra formazione esterna e interna e quindi consenta una totale internalizzazione del-la formazione: si applicano esclusivamente i contratti collettivi sulla base del neo-introdotto comma 5-ter oppure si deve tenere conto anche di quei requisiti eventualmente stabiliti dalla legge regionale?

762

dotta (comma 5-ter) 70. Senza addentrarsi in questioni di competenza – che anche la Corte, in fondo, ha lasciato gestire agli attori sulla base del noto principio di leale collaborazione e sulle quali la stessa Corte si tro-va costretta a ritornare –, è sufficiente qui rilevare come sia complicato distinguere esattamente, attribuendoli ora ad uno ora all’altro attore, più aspetti di un medesimo universo formativo che sono inscindibilmente connessi: in realtà più che distinte e differenti le competenze paiono an-cora una volta essere intrecciate, proprio in virtù della circostanza che l’inserimento del comma 5-ter puntualizza la ripartizione di competenze in capo alle regioni o alle parti sociali in funzione del tipo di formazione interna o esterna. La circostanza assume, però, dei contorni più proble-matici in ragione del fatto che il legislatore, devolvendo la regolamenta-zione dell’apprendistato a qualsiasi livello di contrattazione 71, consenti-rebbe una differenziazione di disciplina non solo territoriale ma addirit-tura aziendale: differenziazione eccessiva in un momento storico in cui, sebbene sia aperto il tavolo delle trattative, ancora non si è giunti ad un accordo di concertazione sostitutivo del Protocollo Ciampi del 1993, che ridisegni il nostro assetto di relazioni industriali definendo ex novo le funzioni dei diversi livelli di contrattazione collettiva.

è ancora presto per dare delle risposte a questioni così complesse, ma certamente è da rilevare come tra i soggetti di regolazione in materia di apprendistato debbano essere ascritte le Organizzazioni sindacali, coinvolte insieme alle regioni a sciogliere i nodi irrisolti e a specificare le norme aperte, contenute nella fonte legislativa nazionale. Questa però non è una novità, è una sorta di déjà vu 72.

Le disposizioni esaminate lasciano pochi dubbi in merito alla circo-stanza che sia davvero difficile una scomposizione dei singoli segmenti che compongono l’istituto dell’apprendistato, da attribuire alla compe-

70 Occorre segnalare che sette delle otto regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Toscana, Piemonte, Liguria e Veneto) che hanno proposto i nuovi ricorsi, sono ammi-nistrate da una maggioranza non filogovernativa.

71 è interessante notare come il legislatore, nell’individuazione dei contratti collettivi abilitati ad assorbire integralmente le competenze regionali, pur prescindendo dal livello di sti-pula – nazionale, territoriale o aziendale –, presti attenzione alla rappresentatività comparativa degli attori sul piano nazionale, secondo una formula già utilizzata nel decreto n. 276/2003.

72 Un déjà vu del periodo storico antecedente la prima legge in materia di apprendistato, ovvero la legge n. 25 del 1955, e anche successivo, quando la contrattazione collettiva ha fat-to la parte del leone nell’ambito della cornice legislativa nazionale. Cfr. D. Comandè, Evolu-zione storica dei contratti formativi, in C.S.D.L.E. massimo d’antona (a cura di), Formazio-ne e politiche per l’occupazione, sez. Formazione e contratti, Dossier, 2006, n. 8, in www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/dossier.htm.

763

tenza regolativa, ora dello Stato, ora delle Regioni, ora delle parti socia-li, ai diversi livelli. Ciononostante un’operazione di questo tipo è stata già realizzata nel lavoro certosino della Consulta, in merito al rapporto tra Stato e regioni, e difficilmente potrebbe trovare soluzioni accettabili nel rapporto triangolare tra le due istituzioni e le parti sociali, dal mo-mento che non è stabilito ex ante quale sia il livello contrattuale chiama-to ad intervenire, ma lo stesso viene stabilito di volta in volta e parame-trato sulla singola realtà regionale. Una simile difficoltà se da un lato può apparire superficialmente come una mancanza di chiarezza del legislato-re sui rapporti tra gli attori coinvolti a regolamentare l’apprendistato, dall’altro potrebbe essere letta come la presa d’atto della necessità di re-alizzare un sistema di competenze governato realmente da una leale col-laborazione e cooperazione tra questi attori. Per suffragare tale necessità di sinergia tra i protagonisti – unico rimedio alle inevitabili interferenze di un sistema di riparto di competenze complesso – appare non seconda-rio l’ammonimento della Corte Costituzionale alla regione Puglia, for-mulato morbidamente in termini di necessarietà del “concorso di tutti i soggetti” indicati dal 276 per la definizione dei profili formativi. La Cor-te, nella recente sentenza n. 24 del 2007 73, ha, infatti, censurato l’artico-lo 2, comma 2, della legge pugliese, nella parte in cui attribuiva alla Giun-ta regionale un potere di determinazione unilaterale dei profili formativi, in caso di assenza di intesa (entro 60 gg. dall’entrata in vigore della leg-ge) tra regione e parti sociali. Il motivo di tale illegittimità è stato ricon-dotto alla incompatibilità di un simile procedimento «con il regime della paritaria codeterminazione dell’atto». La via di fuga, in caso di stallo re-golativo, suggerita dalla Corte al legislatore regionale consiste nello sta-bilire un necessario sistema di comportamenti mirati allo scambio di in-formazioni e alla manifestazione della volontà di ciascuna delle parti e, in ultima ipotesi, in previsioni che assicurino il raggiungimento del risul-tato «seriamente concertato», senza la «prevalenza di una parte sull’al-tra». In altre parole non si tratterebbe per la regione solamente di un ob-bligo a trattare con le parti sociali per definire i profili formativi, quanto più ampiamente di ricercare una generale e costante collaborazione, così da evitare che le istituzioni regionali dominino autonomamente il proces-

73 Per un commento alla sentenza in questione v. B. caruso, A. ALaimo, Il Conflitto tra Stato e Regioni in tema di lavoro e la mediazione della Corte Costituzionale, op. cit., dove si sottolinea l’atteggiamento “consulenziale” della Corte, che rilegge la concertazione sociale «come un obbligo a contrarre e non solo negoziare in buona fede», in nome di un’applicazio-ne estensiva del principio di leale collaborazione.

764

so di regolazione. Se di obbligo a contrarre in senso tecnico non si tratta, la Corte si ferma proprio un passo prima.

Pertanto, con il recente intervento della Corte e a seguito della mo-difica legislativa da ultimo intervenuta, si è avuta una ulteriore conferma della impossibilità di declassare le parti sociali ad organi meramente con-sultivi 74, perché anzi le stesse sono certamente protagoniste – insieme al-lo Stato e alle regioni – del processo di codecisione o anche di sola deci-sione – che deve governare il sistema complesso di riparto di competen-ze, disegnato dal legislatore del 276. Dall’altro lato, questa constatazio-ne consente la consacrazione del principio di sussidiarietà – dinamica-mente operante anche in senso orizzontale – come valvola di regolazione dei rapporti tra fori regolativi differenti 75.

4.3. La differenziazione territoriale dei modelli

L’intreccio di fonti multilivello, generato dal coinvolgimento istitu-zionale di attori territoriali e soggetti sociali territorialmente decentrati, producono modelli regolativi dell’apprendistato a struttura differenziata

74 Condivisibile la lettura di A. Trojsi, La potestà regionale in materia di lavoro, in «RGL», 2007, n. 3, p. 671, dove l’autrice dopo avere configurato la leale collaborazione come un dovere costituzionale, la riferisce «non solo al rapporto tra livelli di governo (Stato, Regio-ni, Enti locali), ma parimenti anche al rapporto tra i vari attori che operano in uno stesso terri-torio o contesto, con una valorizzazione della dimensione “orizzontale” – accanto, e parallela-mente, a quella “verticale” – della sussidiarietà, aderendo così all’accezione più estesa di go-vernance. E, conseguentemente, è possibile conferire riconoscimento e dignità costituzionale anche alla “concertazione sociale”, oltre che a quella “interistituzionale”, come possibile for-ma di attuazione del «principio dell’intesa» – e dunque manifestazione di multilevel/corpora-te governance –, rinvenendone il fondamento nell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., che san-cisce appunto il principio di “sussidiarietà orizzontale”».

75 In relazione al coinvolgimento delle parti sociali, e in particolare alla circostanza spe-cifica della necessarietà dell’intesa affermata dalla Corte nel caso pugliese, vi è chi sostiene che l’ampio spazio concesso ai corpi intermedi debba essere governato attraverso il recupero, in via analogica, dell’articolo 43, comma 3, d.lgs. n. 165/2001. Pertanto, nel caso di specie, se-condo l’autore non sarebbe necessario raggiungere un’intesa confortata dal supporto di ogni sindacato comparativamente più rappresentativo sul piano regionale, ma sarebbe sufficiente la sola maggioranza (M. DeLfino, Rapporti di lavoro, finalità formative e legislazione regionale, in «LD», 2007, n. 3, p. 495 ss.). Il metodo dell’argomentazione sembra condivisibile, ma su-scita qualche perplessità il merito, laddove si paventa il rischio che «gli organi regionali pos-sano essere spogliati del potere di iniziativa legislativa in una materia in cui, per giunta, la re-gione ha competenza esclusiva». Infatti, la soluzione prospettata sembra ancorata ad un’ottica concorrenziale e non cooperativa tra organi regionali e parti sociali, in contrasto rispetto alla «paritaria codeterminazione dell’atto» auspicata dalla Corte.

765

per quanto riguarda i profili procedurali. E ciò sia in relazione alle regio-ni che ancora operano nella c.d. fase di sperimentazione, sia per quelle proceduralmente allineate, ovvero transitate nella fase c.d. a regime.

Il tratto comune e caratterizzante di tutte le regioni in fase sperimen-tale 76 è dato dall’avere coinvolto in maniera determinante le parti socia-li, lasciando che queste diventassero il motore propulsivo delle regole del gioco, e anticipando in qualche modo, la volontà in tal senso manifesta-ta sia nel Protocollo 23 luglio 2007 sia, di recente, nel decreto legge n. 112/2008, convertito con la legge n.133/2008. Infatti, anche consideran-do il periodo di produzione normativa regionale ante maggio 2005, mo-mento in cui il legislatore non aveva ancora previsto l’obbligo di emana-zione della legge in capo alle autonomie regionali, le stesse avevano, per così dire, temporeggiato nel breve periodo rinviando in toto alla contrat-tazione collettiva la regolamentazione dei profili formativi, al fine di trar-re spunto dalle sperimentazioni per una successiva legge regionale 77. Il

76 La fase di sperimentazione è quella che si colloca antecedentemente al riassetto cen-trale delle competenze sui profili formativi introdotta con il comma 5-bis dell’art. 49 e che può continuare secondo le linee ivi indicate e specificate dalla circ. Min. lav. 15 luglio 2005, n. 30. All’interno di questo primo modello (fase sperimentale-transitoria) di autonomie regionali si possono individuare tre insiemi, distinguibili in relazione allo stadio attuale di regolazione: (i) il primo racchiude quelle che, non avendo ancora adottato una legge regionale, hanno regola-mentato l’istituto tramite altri strumenti regolativi (Abruzzo, Valle D’Aosta, Veneto); (ii) il se-condo, quelle che procedono tuttora con le sperimentazioni, ma stanno discutendo su specifi-ci disegni di legge (Campania); (iii) il terzo, infine, quelle che hanno adoperato lo strumento della legge regionale in maniera impropria rispetto a quanto previsto dalla disciplina naziona-le, ovvero per avviare (Sicilia) o prorogare (Liguria) la fase transitoria.

77 Sul punto, per la precisione, vanno distinte due diverse situazioni: una precedente il maggio 2005, cioè prima che fosse inserito il comma 5-bis nell’art. 49, e l’altra successiva al maggio 2005. Se ci si fermasse alla prima formulazione, che non prevedeva l’indispensabilità dell’adozione di una legge regionale al fine di attuare l’apprendistato professionalizzante, al-lora il testo indicava alla regione un obbligatorio rinvio ai contratti collettivi in merito alle mo-dalità di erogazione e articolazione della formazione, mentre prevedeva soltanto un’intesa sui profili formativi; con l’inserimento del comma 5-bis e la circ. Min. lav. 15 luglio 2005, n. 30, la fase transitoria è stata direttamente devoluta ai contratti collettivi nazionali di categoria. La maggior parte delle regioni (sia tra quelle che ancora sono in fase sperimentale sia tra le altre passate in quella a regime) che hanno adottato regolamentazioni regionali prima della metà del 2005, senza che il legislatore nazionale lo avesse affermato, hanno considerato fase transitoria quella tramite delibere di giunta, utilizzando espressioni del tipo «la presente disciplina perde-rà efficacia con l’entrata in vigore della legislazione regionale che dovrà dettare i profili for-mativi del nuovo apprendistato» oppure «è necessaria, al fine di procedere alla definizione del-le regole attinenti i profili formativi all’interno del contratto di apprendistato professionaliz-zante, una fase sperimentale», e per queste vie si sono sottratte nell’immediatezza al compito di dettare specifici profili formativi, rinviando, pro-tempore, l’esercizio della loro competenza alla contrattazione collettiva, per esempio la Liguria (d.G.r. n. 196/2004), l’Abruzzo (d.G.r. n.

766

ruolo dominante rivestito dalle parti collettive, se da un lato è stato incen-tivato dal legislatore nazionale così come dalle circolari ministeriali, dall’altro può leggersi come sintomo della situazione di incertezza che investe la governance dell’apprendistato: nella scelta tra disciplina regio-nale e contrattuale-collettiva, talvolta alternative e in altri casi integrati-ve, si potrebbe dare luogo ad un susseguirsi di fonti regolative, in cui ad un periodo di vigenza della delibera regionale, ne segua uno della con-trattazione collettiva, e infine un ulteriore periodo di vigenza della legi-slazione regionale 78. Ovviamente dietro questa situazione di temporanea e apparente incertezza, tipica delle fasi intermedie e transitorie, sarebbe auspicabile intravedere quella leale collaborazione tra attori istituzionali e non, idonea a realizzare l’obiettivo di sperimentare, appunto, il nuovo apprendistato.

In via di prima generalizzazione si può affermare, pertanto, che la fase c.d. di sperimentazione, nonostante la sua transitorietà, ha visto lo sviluppo di un modello di regolazione circolare e riflessivo in cui la con-certazione regionale rinvia alla fonte eteronoma sia pure di rango secon-dario che rinvia, a sua volta, alla fonte autonoma: la regolazione della materia per via di atti di concertazione regionali recepiti e resi erga om-nes attraverso atti amministrativi regionali con o senza rinvio ad altra fonte, contratti collettivi e produzione regolativa di enti bilaterali. Un modello che, con le dovute differenze, richiama, su scala regionale, il modello della contrattazione collettiva europea: la concertazione europea che diventa atto comunitario, recepito dagli Stati con una regolazione er-ga omnes, che può rinviare nuovamente alla negoziazione delle parti so-ciali. Con un mix di auto e eteroregolazione in cui ciò che conta è il risul-tato.

Ma anche la fase a regime – che si adegua al nuovo assetto centrale delle fonti – presenta elementi di novità sotto il profilo della regolazione e dei contenuti.

In tal caso, le regioni non si sono spinte – ma niente avrebbe loro im-pedito di farlo – fino al punto di ribadire il medesimo modello circolare e riflessivo della fase c.d. sperimentale: non hanno regolato i profili for-mativi delle tipologie di apprendistato recependo ed estendendo erga

91/2005), la Puglia (d.G.r. n. 184/2005), il Lazio (d.G.r. n. 350/2005), la Lombardia (d.G.r. n. VII-19432/2004), le Marche (d.G.r. n. 1372/2004).

78 Il rilievo appare più evidente in alcune regioni come l’Abruzzo e il Veneto, solo per fare alcuni esempi. Per una ricognizione dell’operato delle parti sociali v. G. LeLLa, Il nuo-vo contratto di apprendistato nella contrattazione collettiva, in «Inserto DPL», 2007, n. 48, p. III ss.

767

omnes i prodotti della concertazione bilaterale 79. Le regioni si sono mo-strate, invece, più caute limitandosi ad esercitare le attribuzioni previste dalla legge nazionale 80.

Eppure, si evidenziano interessanti elementi di differenziazione re-golativa tra i vari modelli regionali di messa a regime dell’istituto: per esempio, riguardo al fatto che alcune hanno regolato specificamente l’istituto dell’apprendistato, mentre altre hanno preferito inserire tale re-golamentazione in leggi più ambiziose e generali, riferite all’intero mer-cato del lavoro 81; oppure alle modalità successive di messa a regime dell’istituto, ovvero alla tipologia di atti cui si demanda l’attuazione.

Quanto al primo aspetto, la classificazione che si può desumere dal quadro normativo pare rispondente a una gradazione di intensità regola-tiva discendente: considerando un ideale continuum tra un livello alto e un livello basso di intensità regolativa, si collocano verso l’alto quegli in-terventi di regolazione che assumono come oggetto specifico e diretto

79 L’art. 39 Cost., II parte non potrebbe essere considerato ostativo a questa ipotesi, se si ammette che esso riguarda il sistema di contrattazione collettiva nazionale, (il contratto collet-tivo di categoria) e non la contrattazione europea ovvero, oggi, quella regionale (M. d’anto-na, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in «DLRI», 1998, n. 4, p. 665 ss.). Problemi si potrebbero in astratto porre – sotto il profilo del principio di attribuzione – se le Regioni recepissero accordi collettivi non limitati a profili formativi dell’apprendistato ma an-che di regolazione normativa dell’istituto. In tal caso la regione esorbiterebbe dalle sue attribu-zioni formalmente; ma sostanzialmente si limiterebbe a rendere erga omnes la regolazione dell’autonomia collettiva che sulla materia esercita sicuramente una sua giurisdizione. Non si ha alcuna difficoltà a considerare legittima questa eventualità, per ora soltanto teorica, ma che potrebbe divenire concreta e ovviamente estesa ad altri istituti in una più razionale regolazio-ne della struttura contrattuale che tenesse conto dei nuovi poteri regolativi delle regioni, (B. caruso, Sistemi contrattuali e regolazione legislativa in Europe, in «DLRI», 2006, n. 4, p. 581 ss.; R. deL Punta, La struttura della contrattazione collettiva: quale riforma? Un dibattito tra i giuslavoristi. Una riforma impossibile, in “RIDL», n. 3 I, p. 259 ss.).

80 In particolare, il nuovo comma 5-bis dell’art. 49 d.lgs. 276/2003 che lascia meno spa-zio alla creatività delle regioni imponendo la fonte legale regionale come strumento esclusivo di regolazione, anche se transitoriamente surrogabile solo dal contratto collettivo nazionale, fissandosi in tal modo una poco chiarita equivalenza funzionale tra due prodotti di livello ter-ritoriale diverso: la legge regionale e il contratto nazionale di categoria. Verrebbe da chiedersi: ciò perché non c’è altra fonte transitoriamente in grado di surrogare la legge regionale in tale funzione regolativa, ovvero perché sul piano sistematico, dell’assetto delle fonti, esse si riten-gono strutturalmente e funzionalmente equipollenti? Anche alla luce della ultima riforma (de-creto legge n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008) e del chiarimento interpretativo for-nito dal Ministero del lavoro (circ. Min. lav. del 10 novembre 2008, n. 27) pare ormai eviden-te la scelta del legislatore di considerare il contratto collettivo come fonte strutturalmente e funzionalmente equipollente alla legge regionale.

81 In merito a tale tipo di classificazione v. M. RocceLLa, La disciplina dell’apprendista-to professionalizzante nella legislazione regionale, cit., spec. p. 183 ss.

768

l’apprendistato professionalizzante 82; verso il basso, invece, quegli inter-venti ad oggetto più lato (il mercato del lavoro) dove l’apprendistato è considerato limitatamente a pochi e stringati principi guida.

Il secondo aspetto ci porta dentro la questione della reale applicabi-lità a livello regionale della fonte deputata, che costituisce un aspetto di differenziazione “forte” che riguarda la regolamentazione dei profili for-mativi dell’apprendistato professionalizzante: (i) alcune regioni, ovvero la Puglia, la provincia di Bolzano e la Basilicata, hanno approvato una legge specifica sull’apprendistato seguita da delibere di giunta (i1), o ac-compagnata da regolamenti regionali (i2) nei casi Lazio, provincia di Trento, Piemonte e di recente anche Umbria; (ii) altre, come le Marche e l’Emilia Romagna, hanno adottato una legge regionale sul mercato del lavoro in generale, seguita da sole delibere di giunta (ii1), o da regola-menti attuativi e delibere di giunta o decreti, nel caso della Toscana, Friu-li Venezia Giulia (ii2), o infine da decreti dirigenziali e delibere di giun-ta (ii3) (Sardegna, Lombardia).

Emblematico il caso della Puglia 83, che per il tramite della regola-mentazione dettagliata con legge regionale ha inteso dare rilievo ad un contenuto caratterizzante: il ricorso “pesante” alla formazione esterna.

Un altro significativo elemento – che si evidenzia accanto a primi processi di differenziazione regolativa tra le regioni di istituti e non solo di politiche del lavoro – è il fenomeno, che si può definire, della specia-lizzazione funzionale della regolazione. Tale fenomeno ha ricadute rile-vanti sull’assetto delle fonti che meritano di essere accennate, a prescin-dere dalla valutazione, ancora prematura, se si tratti o meno di una ten-denza generale o consolidata.

Al momento si può semplicemente registrare un dato: laddove la re-golazione riguardi veri e propri sub-sistemi omogenei, sia il rapporto tra le fonti eteronome di ambito territoriale diverso, sia la comunicazione e interferenza tra fonti strutturalmente diverse – in quanto provenienti da attori sociali e non istituzionali – sono organizzate secondo moduli e lo-giche proprie di quel particolare sub-sistema.

Vuol dirsi che non è detto che il modello di distribuzione delle com-

82 Tra le leggi a medio-alta intensità spicca certamente quella della Regione Puglia (leg-ge regionale 22 novembre 2005, n. 13), seguita dalla Provincia autonoma di Bolzano (legge provinciale 20 marzo 2006, n. 2) e dal Piemonte (legge regionale 26 gennaio 2007, n. 2), dal Lazio (legge regionale 10 agosto 2006, n. 9) e dalla Basilicata (legge regionale 13 novembre 2006, n. 28), dalla Provincia autonoma di Trento (legge provinciale 10 ottobre 2006, n. 6) e dall’Umbria (legge regionale 30 maggio 2007, n. 18.

83 Nella medesima direzione le scelte delle regioni Marche, Sardegna e Lazio.

769

petenze verticali e orizzontali e le reciproche interferenze tra fonti auto-nome e eteronome, ma anche di natura soft e hard, valevoli per la forma-zione e i contratti formativi, debba essere identico o rispondente agli stessi principi, per esempio, di quelli in materia di orario, ovvero di salu-te e sicurezza, ovvero, ancora, di contratti di lavoro non standard; ciò in ragione, appunto, di un criterio di differenziazione connesso alla specia-lizzazione funzionale di ogni micro sistema.

Le modalità di regolazione evidenziate, per certi versi asimmetriche, differenziate se non addirittura contraddittorie, lasciano intravedere una certa dose di empirismo dei legislatori regionali che fa da pendant alla mancata chiarezza del disegno del legislatore nazionale.

Ed è evidente come il quadro regolativo che ne viene fuori, frammen-tato e discontinuo, impedisca una ricostruzione lineare e geometrica, del sistema delle fonti “viventi” dell’apprendistato, che faccia magari riferi-mento ad una chiara e predefinita organizzazione delle stesse secondo un qualsivoglia principio ordinatore interno (competenza, gerarchia, ecc.).

Se non ci si vuole fermare di fronte alla constatazione di un quid di irrazionalità nel sistema delle fonti di regolazione dell’apprendistato, pro-dotto dal concorrere disorganizzato di fori regolativi diversi, l’unica lettu-ra in positivo, potrebbe essere – scontata la difficoltà di ricostruzione si-stematica del quadro – quella di individuare solo dei criteri di lettura, dei modelli, dei binari consapevolmente o inconsapevolmente tracciati dagli attori istituzionali, indirizzati a fornire uno scorcio del processo di trasfor-mazione in atto nel sistema delle fonti, il cui esito non è ancora scontato né del tutto leggibile. D’altra parte è inevitabile constatare come le rego-lamentazioni territoriali differenziate si collochino nel contesto di un nu-cleo di disciplina centrale al servizio di un’idea fondamentale della sussi-diarietà, che è promozione delle diversità, ma entro un contesto unitario.

Se una prognosi può azzardarsi è che il cambiamento in atto, ancora lontano da un definitivo assestamento, tende tuttavia verso un bilancia-mento tra unitarietà nazionale della regolazione dell’istituto e un’atten-zione – più evidente nel caso dell’apprendistato rispetto ad altri istituti – alla peculiarità dei diversi mercati del lavoro regionali che promuove re-gole differenziate.

4.4. Apprendistato al plurale?

La differenziazione dei modelli regolativi evidenziati 84 rievoca una

84 Per una analisi più dettagliata della riforma dell’istituto e delle attuazioni regionali che ne sono seguite si rinvia a D. Comandé, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.

770

questione centrale nella fase corrente del diritto del lavoro, ovvero quan-to e come gli attori istituzionali siano riusciti ad adattarsi al nuovo siste-ma delle fonti ispirato al principio di sussidiarietà, con riguardo al tema specifico del contratto di apprendistato. Il punto di partenza della analisi che precede è stato la presa d’atto di un processo di differenziazione del diritto del lavoro, innescato dall’alto – ovvero dai processi in corso nel panorama comunitario –, e riverberatosi, in basso – sino all’assetto regio-nalistico del sistema delle fonti –, dove ha trovato un campo di sperimen-tazione elettivo nell’apprendistato, in ragione del fatto che su tale istitu-to concorrono competenze diverse e tutte legittimate dall’attuale sistema delle fonti.

Il nuovo orizzonte multilivello che si delinea, se per un verso potreb-be prestare il fianco alle critiche tradizionali che vi ravvisano una rottura dell’unitarietà del sistema delle fonti, con la conseguente prevalenza del criterio di competenza su quello di gerarchia, per altro verso è l’unico che consente all’ordinamento «di adeguarsi alle esigenze tipiche e diver-sificate proprie di ciascuno dei settori di volta in volta coinvolti» 85.

E proprio il campo della formazione si presta particolarmente ad es-sere regolato tramite “l’adozione di atti a contenuto direttivo, piuttosto che immediatamente normativo e prescrittivo” 86, presentandosi come un vero e proprio sub-sistema autonomo di regolazione, in cui i moduli di regolazione pubblici, privati-collettivi e parapubblici si confondono e si ibridano dando luogo ad un modello nuovo: il diritto della regolazione. In questo senso la moltitudine di norme e discipline regionali – lungi dal dovere essere considerata conseguenza negativa di un labirinto regolati-vo, una sorta di lacciuolo da rimuovere 87 – potrebbe invece essere consi-

85 F. Pizzetti, La tutela dei diritti nei livelli substatuali, in P. BiLancia, e. de marco, La tutela multilivello dei diritti, Giuffrè, Milano, 2004, p. 201

86 F. Pizzetti, La tutela dei diritti nei livelli sub statuali, op. ult. cit., p. 203.87 Così si esprime M. TiraBoschi, Il peso della regolazione, in «Boll. Adapt», 2 ottobre

2007, n. 32, (id., in «Il Sole 24 Ore», 2 ottobre 2007), p. 2, in cui si cita il nuovo apprendista-to come fattispecie irrigidita “da una moltitudine di norme regionali invasive che impongono, a ogni piè sospinto, adempimenti burocratici e oneri procedurali a scapito della effettiva co-struzione di percorsi formativi di qualità”. Se è vero che in alcune regioni gli “adempimenti burocratici e oneri procedurali” hanno forse reso difficoltosa l’entrata a regime dell’istituto, è altrettanto vero che a monte la causa più rilevante dei rallentamenti (che peraltro sono circo-scritti ad un numero limitato di autonomie regionali) è probabilmente da riscontrare nella man-canza di volontà politica delle stesse ad intervenire con decisione in una materia oggetto certo di concertazione ma in cui l’impulso regolativo è previsto come decisivo. Una carenza di in-tervento, dunque, più che un difetto della qualità dello stesso. E a questo forse l’ultimo legisla-tore ha cercato di porre rimedio bypassando le autonomie regionali in favore delle più attive parti sociali, almeno nel caso di formazione esclusivamente aziendale.

771

derata un tentativo di attuazione di percorsi formativi di qualità adattabi-li al territorio e alla specialità del rapporto.

Il policentrismo normativo e istituzionale attuato grazie a tecniche di produzione legislativa, che pongono al centro dell’arena deliberativa il rapporto di cooperazione virtuosa tra le istituzioni territoriali e le orga-nizzazioni sindacali, regionalmente più rappresentative, accentua di cer-to i connotati di elasticità del diritto del lavoro, che appaiono in tutta la loro pienezza in una fattispecie a formazione complessa come l’appren-distato. Sia il livello della regolazione regionale, sia il livello della rego-lazione sovranazionale costituiscono così input convergenti per sostitui-re, tendenzialmente, ai tradizionali e statici criteri di unificazione e coor-dinamento delle fonti, basati “più sulla geometria degli atti che sull’alge-bra dei processi normativi” 88, una cooperazione istituzionale funziona-lizzata per obiettivi.

Come a suo tempo aveva già intuito Massimo D’Antona – e la rego-lazione multilivello dell’apprendistato conferma – “la differenziazione in sistemi paralleli o interferenti non consente [...] interpretazioni logiciste e strettamente inferenziali: il rapporto di derivazione gerarchica dalla norma più generale a quella più particolare non esaurisce le possibili connessioni tra norme dell’ordinamento plurisistemico” 89, che necessita l’uso di argomentazioni più sofisticate.

Il modello di regolazione a rete 90 – che è quello che sembra deline-arsi in materia di apprendistato – emerge dall’indagine sotto due punti di vista differenti ma combinati: dal punto di vista procedurale, si traduce in una pluralità di fonti interconnesse e accomunate dall’oggetto e dallo scopo della regolazione; dal punto di vista sostanziale, costituisce il tra-mite per avvicinare la fonte al territorio consentendo una maggiore sin-tonia tra norma stabilita e finalità perseguite.

Il profilo procedurale rileva anche come inveramento del principio di sussidiarietà sia di tipo verticale, la cui naturale funzione è di creare un coordinamento armonico tra fori regolativi situati a quote differenti nel-la piramide istituzionale; sia di tipo orizzontale, nella misura in cui il protagonismo delle formazioni sociali appare centrale per la realizzazio-ne dei traguardi auspicati. Entrambi, operanti in sinergia, producono co-

88 B. caruso, Diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà, op. cit., p. 807. A cui si rin-via per uno studio attento ai rapporti del sistema di fonti comunitario, nazionale e regionale.

89 Indimenticabili e attualissime, tanto da essere premonitrici, le pagine di M. D’Antona, L’anomalia post-positivista del diritto del lavoro e la questione del metodo, op. cit., p. 60.

90 M. D’Antona, L’anomalia post-positivista del diritto del lavoro e la questione del me-todo, op. ult. cit. e M. NaPoLi, Le fonti del diritto del lavoro e il principio di sussidiarietà, in aa.vv., Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 2002, p. 493.

772

me effetto “certificato” la messa in crisi del sistema di fonti tradizionale e dei principi ordinatori ad esso collegati.

Un altro profilo, quello sostanziale 91, mette in luce i primi embrioni di politiche programmate di sviluppo territoriale attente al sostrato eco-nomico e sociale di riferimento: basti pensare alle scelte operate in rela-zione alla tipologia di formazione accolta dai modelli regionali, che ri-specchiano indirettamente le efficienze o inefficienze delle imprese nel campo della formazione 92. La varietà dei modelli porta come corollario la crisi del principio di eguaglianza formale 93: il pianeta formazione apre alla sfida delle differenze, che chiedono, anche, nel diritto del lavoro di essere ammesse e rispettate, anziché tacitate in nome di un interesse ge-nerale selezionato chissà dove e perché 94.

Il grado di efficacia del sistema di competenze e dei suoi prodotti normativi andrà misurato nel tempo, ma pare per il momento depotenzia-ta la visione accentratrice e uniformante di un diritto del lavoro monoli-tico. Il diritto del lavoro sembra doversi, pertanto, declinare al plurale, non solo per la sua attitudine eterodossa nell’impiego di strumentazioni giuridiche e di schemi teorici poliedrici, ma anche per il suo carattere di frontiera aperta a disciplinare i rapporti di lavoro attraverso più paradig-mi giuridici.

5. Tendenze e problemi aperti della regolazione sociale oltre la formazio-ne: il profilo del rapporto tra le fonti

Il cantiere della regolazione sociale decentrata e differenziata, come

91 Per una sua analisi più approfondita si rinvia a D. Comandé, Il diritto del lavoro al “plurale”, op. cit.

92 O anche ai costi correlati che in generale riflettono la differenziazione delle economie locali, v. L. ZoPPoLi, Apprendistato e multilevel regulation, op. cit., che in proposito intravede «una dicotomia Nord/Sud, espressione di due diverse filosofie, chiaramente frutto di diversità strutturali, avendo l’uno un’economia basata su imprese private più forti e autonome e l’altra un’economia che ancora gravita intorno alla spesa pubblica».

93 Per smentire l’assunto in base al quale la regolazione competitiva, scaturente dal mo-dello federalista, produce automaticamente corse al ribasso si rinvia alle efficaci argomenta-zioni di B. caruso, Diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà, op. cit., spec. p. 840 ss. Il valore aggiunto che discende dall’esercizio delle competenze multilivello è una ricchezza che non può e non deve essere trascurata in nome di una uniformità normativa pregiudiziale.

94 M. D’Antona, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in «DLRI», 1991, n. 2, p. 463, ora in B. caruso, S. Sciarra (a cura di), Opere, op. cit., p. 152, che però la ricollega all’esigenza di forme di rappresentanza sindacale attente più al singolo lavoratore che al lavoratore astratto e massificato.

773

si vede, è aperto e probabilmente riserverà più sorprese di quel che ci si possa ragionevolmente aspettare. La prospettiva che si dischiude è di grande interesse e attende di essere adeguatamente sistemata dalla giuri-sprudenza scientifica.

Alcune prime e provvisorie acquisizioni possono essere solo enun-ciate. Esse assumono le sembianze di problemi aperti. Sono riflessioni che di proposito abbandonano il tema della formazione e affrontano que-stioni più generali.

1. Pare acclarato, nel diritto del lavoro, il ricorso sempre più intenso a fonti eteronome appartenenti a livelli territoriali diversi: sovranaziona-le, nazionale e infranazionale. Il livello nazionale non è, pertanto, più egemonico; non gode, in ogni caso, della precedente e tradizionale cen-tralità. Il sistema si configura, ormai come policentrico.

2. La sistemazione dell’assetto delle fonti eteronome, che agiscono in concorrenza a livello di diverso, non si coagula più intorno ai principi/criteri ordinatori tipici dello Stato nazione: il principio di gerarchia e il primato della legge statale, il principio di competenza, il principio crono-logico. Ne occorrono altri e più adeguati: per esempio, il principio di at-tribuzione governato dal principio di sussidiarietà verticale che è “rego-latore” dinamico di competenze attribuite. Il riferimento al principio di sussidiarietà assume, però, pure un significato di rango costituzionale: in tal senso, se implica tecnicamente e politicamente la necessità di un co-ordinamento istituzionale tra più attori diversamente dislocati sul territo-rio, implica pure “il valore” della centralità della dignità della persona e di maggiore attenzione agli interessi situati da parte della regolazione so-ciale eteronoma.

3. Sussidiarietà verticale e cooperazione istituzionale si basano pure sul principio giuridico della leale collaborazione tra gli attori destinatari delle attribuzioni. Quest’ultimo, infatti, non è soltanto un principio poli-tico che informa di sé l’assetto istituzionale del federalismo cooperativo; è anche un principio giuridico che consente alle alti Corti di arbitrare sul corretto uso di poteri e attribuzioni condivise o ripartite: esternamente nel caso della Corte di giustizia europea, internamente nel caso della Corte Costituzionale.

4. La regolazione sociale evidenzia, pure, una connessione, sempre più stretta, tra regolazione autonoma e eteronoma ai vari livelli territoriali e, cosa che rende più complicato il sistema, nell’intersecazione tra vari li-velli. è questa la cifra saliente del modello istituzionale e sociale europeo, ove addirittura la rilevata connessione è costituzionalizzata. Sul versante interno, gli innumerevoli rinvii – il caso dell’apprendistato ne è esempio paradigmatico – sia alla fonte eteronoma regionale, sia alla contrattazione

774

collettiva ai vari livelli territoriali, contenuti nella legge nazionale, costitu-iscono una conferma di tale connessione, divenuta ormai sistemica e non solo funzionale a limitati e separati obiettivi. Questa interferenza circolare tra fonti autonome e eteronome collocate a vari livelli territoriali, presenta specifici problemi tecnici riferiti sia ai moduli di reciproco rinvio, sia ai potenziali problemi di concorrenza/conflitto. Essa è colta bene dal riferi-mento concettuale alla teoria del diritto riflessivo e della regolazione ri-flessiva, ora adoperata per spiegare dinamiche dell’ordinamento europeo, ma già ampiamente utilizzata in Italia alla fine degli anni ’80 per cogliere alcune tendenze dell’ordinamento interno. Anche in tal caso, come con ri-guardo al rapporto tra fonti eteronome, soccorre un principio giuridico che consente la non riduzione della questione a mera tecnica di razionalizza-zione efficientistica del sistema delle fonti: il principio di sussidiarietà orizzontale che attende ancora di essere concettualmente utilizzato in tut-te le sue potenzialità euristiche nel diritto del lavoro 95.

5. Sul piano della teoria delle fonti in senso stretto, la rilevata con-nessione pone sull’agenda dei giuristi del lavoro problemi di vasta porta-ta: l’equivalenza funzionale tra atti normativi e contratti collettivi a vari livelli territoriali, impone di considerarne definitivamente l’equipollenza strutturale? Ritorna circolarmente la stessa domanda che ha arrovellato la dottrina a partire dagli anni ’70 ma oggi con ulteriori complicazioni derivanti dal policentrismo ordinamentale e dalla rilevata interferenza di livelli e di prodotti sempre più differenziati al loro interno. Pur dovendo tralasciare, a costo di un’evidente rottura dell’unità del quadro, il livello sovranazionale e l’analisi di nuovi strumenti di regolazione come il soft law, è sufficiente considerare la dimensione interna e il rapporto classico tra legge e contratto. Nuovi elementi che rilevano sono:

95 M. NaPoLi, Le fonti del diritto del lavoro e il principio di sussidiarietà, op. cit.; id., (a cura di), Principio di sussidiarietà. Europa, stato sociale, Milano, Vita e Pensiero, 2003. Que-sta – sempre più stretta – interferenza tra fonti autonome e eteronome pone problemi noti e ampiamente discussi, ormai non solo in Italia ma anche in ambito europeo, di legittimazione democratica degli attori e di loro intrinseca rappresentatività; problemi che non possono nep-pure essere sfiorati in questa sede. A titolo puramente esemplificativo può porsi la questione se esista una necessaria correlazione tra livello territoriale di regolazione e regole della rappre-sentanza e della rappresentatività, per cui queste possono essere adattate e quindi differenzia-te in ambiti territoriali, per esempio, contraddistinti dalla presenza di minoranze etniche. O se tali regole siano, invece, tecnicamente “neutre” rispetto ai livelli territoriali non tollerando, quindi, differenziazione alcuna sul territorio infranazionale. Che il problema non sia solo teo-rico ma anche pratico è dimostrato dalla recente e importante sent. della Cass. n. 10848/06, su cui l’interessante e puntuale contributo di G. Fontana, Giurisprudenza per principi e casi «dif-ficili». La riserva indiana dei sindacati maggiormente rappresentativi, in «RIDL», 2007, n. 2, p. 322 ss.

775

a) L’emersione di dati normativi salienti, inseriti, con la nota tecnica quasi casuale e incidentale 96, in una disposizione processuale (la riforma dell’art. 360 c.p.c.) 97. In tale disposizione si equipara il contratto collet-tivo di diritto comune alla legge allo scopo del ricorso in cassazione per vizio di “violazione” o “falsa applicazione” delle rispettive disposizioni. Le implicazioni sono evidenti anche se tutte da sviscerare.

Ma non meno rilevante è: b) il rinvio pervasivo della legge al contratto, per funzioni differen-

ziate, operato nel d.lgs. n. 276/2003 98. Sintomo chiaro, anche questo, della rilevata equipollenza funzionale. Viene da chiedersi, allora, se un’equipollenza per certi versi frammentata e non organica, ma così este-sa per gli istituti interessati, non preluda ad una definitiva presa d’atto di una equipollenza strutturale tra le due fonti non necessariamente effetto, come tralaticiamente sostenuto, da un intervento organico sulla struttura del contratto collettivo con conseguente riforma dell’art. 39, II parte, del-la Cost. 99.

6. Sul piano dell’interferenza reciproca fra fonti eteronome e fonti autonome di diverso livello territoriale, l’esempio dell’apprendistato pro-fessionalizzante, descritto nei paragrafi precedenti, dimostra, infine, co-me il nuovo policentrismo interno, se mal governato, possa pure produr-re caos e patologia regolativa, con fenomeni di concorrenza disordinata e conseguente grave incertezza per gli attori sociali a vari livelli chiamati a

96 Tale riforma richiama la vicenda della modifica dell’art. 2113 c.c. avente ad oggetto principale il regime delle rinunzie e transazioni ma che, con il riferimento al contratto colletti-vo, condusse alla teorizzazione dell’efficacia inderogabile del contratto collettivo di diritto co-mune, vera è propria quadratura del cerchio: sul punto le indimenticabili pagine di G. GiuGni, Commento all’art. 39 della Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costitu-zione, Bologna, Zanichelli, 1979; L. MenGoni, Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridi-co italiano, in «JUS», 1979, p. 167 ss. ora in id., Diritto e valori, Bologna, il Mulino, 1985; G. Vardaro, Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Milano, Franco Angeli, 1985.

97 Cfr. art. 64 d.lgs. n. 165/2004.98 Nel discusso testo si evidenziano frequenti discrasie tra tecnica di rinvio e la struttura

contrattuale ancora formalmente vigente e non ancora modificata dalla parti sociali; si eviden-ziano pure opportunismi politici nei dispositivi di rinvio agli attori negoziali: F. Carinci, Re-gioni e sindacato nel d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, in «LG», 2004, n. 3, p. 209 ss.; L. BeL-Lardi, La struttura della contrattazione collettiva e d.lgs. n. 276 del 2003, in AA.VV., Diritto del lavoro i nuovi problemi: l’omaggio dell’Accademia a Mattia Persiani, Padova, Cedam, 2005, p. 339 ss.; C. La macchia, L’esercizio della rappresentanza sindacale nella riforma del mercato del lavoro del 2003, in «RGL», 2004, n. 1, I, p. 159 ss.; B. caruso, L. ZaPPaLà, The Evolving Strutture of Collective Bargaining in Italy (1990-2004), in WP CSDLE Massimo D’Antona.INT, n. 38/2005.

99 Già G. Ferraro, Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Padova, CEDAM, 1981.

776

dettare regole concorrenti. Ma offre pure importanti indicazioni di segno opposto: e cioè che gli attori coinvolti sono in grado di trovare un proprio equilibrio fisiologico, anche senza, e addirittura nonostante, l’intervento del “legislatore di rinvio”. L’assetto in via di faticosa sistemazione pone, comunque, problemi ancora aperti, anche perché non affrontati e non af-frontabili, almeno in ricorsi diretti, dalla Corte Costituzionale: e cioè i criteri di soluzione dell’eventuale concorso/conflitto 100, tra contrattazio-ne collettiva nazionale e potestà normative primarie e secondarie delle regioni.

A tale proposito si aprono due questioni concettualmente distinte:a) Quale debba essere il principio giuridico di regolazione della con-

correnza di competenze non solo tra fonti eteronome di diverso livello territoriale ma anche tra fonti autonome e eteronome, dello stesso o di di-verso livello, che concorrono, entrambe legittimamente, alla regolazione di un sub sistema, sulla base di rispettive attribuzioni. In altre parole, se esista, o debba esistere, anche in questo caso un principio preventivo di organizzazione delle attribuzioni.

b) Quale debba essere il principio di soluzione nel caso di accertato conflitto (prevale, per esempio, la legge regionale o il contratto collettivo nazionale o regionale?).

Per il primo problema non si può che rinviare a quanto detto prima: gli attori istituzionali e sociali hanno una naturale propensione al gioco cooperativo e non competitivo; il principio di leale collaborazione affer-mato dalla Corte Costituzionale per regolare le relazioni tra Stato e regio-ni, può valere anche come principio in grado di organizzare razionalmen-te e cooperativamente, la concorrenza tra regolazione eteronoma decen-trata e regolazione autonoma, considerando che il principio di sussidia-rietà orizzontale meglio del principio della prevalenza sempre e comun-que dell’autonomia collettiva, si presta, in questo caso a fungere da rego-latore dinamico della concorrenza tra fonti di regolazione eteronome e autonome sub nazionali.

Un’eventuale autoriforma della struttura contrattuale con il ricono-scimento della piena legittimità del livello regionale di contrattazione, anche allo scopo limitato della rilevata specializzazione funzionale della regolazione, per sistema o per settore, potrebbe sicuramente agevolare un assetto più armonico tra attribuzioni legislative delle regioni e attribuzio-ni dell’autonomia collettiva.

Per quel che concerne il secondo problema – il conflitto, poco even-

100 Più acceso in materia di contratti formativi e formazione, ma che si è esteso a tutta la gamma degli istituti che le regioni ritengono di far rientrare nelle loro attribuzioni concorrenti.

777

tuale in verità, tra disposizioni contrattuali e fonti eteronome decentrate – il criterio solutorio non può che essere quello basato sul principio di at-tribuzione e non altri, quali ad esempio quello gerarchico o di successio-ne cronologica.

In tal senso, non appare sbagliato, almeno in astratto, il modo in cui ha deciso di operare il legislatore del 2003 che, sull’apprendistato, ha in-teso, almeno nelle intenzioni, ripartire razionalmente le attribuzioni a re-gioni e parti sociali (altro poi il risultato in concreto).

La vicenda dell’apprendistato è, dunque, sintomatica del tentativo di ricorrere al principio di attribuzione come criterio non solo solutorio dell’eventuale conflitto ma anche come criterio di anticipazione dello stesso. La strada imboccata era quella giusta, la soluzione apprestata si-curamente meno.

Per tornare al tema specifico della regolazione dell’apprendistato re-stano tuttavia almeno due dubbi: uno che riguarda specificamente l’isti-tuto, l’altro di tenore generale.

Il primo: è possibile pensare, in concreto, a interventi legislativi na-zionali che pretendano di organizzare l’interscambio tra regolazione le-gislativa decentrata e regolazione autonoma scindendo gli aspetti dei profili formativi da quelli di regolazione del rapporto di apprendistato?

Il secondo: può il legislatore nazionale decidere sulle attribuzioni delle regioni e dell’autonomia collettiva relativamente a sistemi su cui in-sistono competenze primarie delle regioni e naturali e non circoscrivibi-li attribuzioni dell’autonomia collettiva, con interventi privi del suppor-to, a monte, della concertazione e della collaborazione istituzionale? O deve operare con un più fruttuoso self restraint, magari lasciando a quel-le sedi le più appropriate soluzioni di regolazione dinamica delle recipro-che competenze e limitandosi a vigilare sulle proprie competenze di si-stema e trasversali, per esempio, sul rispetto dei livelli essenziali?

6. Verso un diritto della regolazione

Si è rilevato più volte come la formazione e i contratti formativi co-stituiscano un vero e proprio laboratorio di sperimentazione di una rego-lazione trasversale in cui moduli privatistici, pubblicistici, parapubblici e privati si intersecano in maniera a volte inestricabile. Su tale regolazione converge l’azione combinata, coordinata ed organizzata di più attori, an-che in tal caso pubblici, semipubblici, privati: quel che si è definito go-vernance diffusa.

Rispetto a questi fenomeni l’interprete può limitarsi a prendere atto

778

del fatto che ogni sforzo di inquadramento del diritto del lavoro nella più ampia famiglia del diritto privato o del diritto pubblico può “avere sol-tanto valore indicativo o tendenziale e va sottoposto a continua verifica storica” 101. Ma con tale risposta relativistica, si finisce per arrendersi al-la sfida di un riposizionamento concettuale della materia; ci si arrende nella misura in cui tale posizione si limita alla registrazione, mera, della dialettica pubblico/privato nel diritto del lavoro.

Si può cercare, invece, di far qualche passo in avanti utilizzando le acquisizioni della dottrina che si misura con la complessità regolativa della nuova governance diffusa, tentando di sviscerarne i nodi e metten-done in luce la intersecata attività di regolatori privati e pubblici 102, i re-lativi strumenti impiegati 103, l’oggetto della regolazione 104, intesi tutti come un unico sistema ma strutturato a rete.

è proprio quello che si è inteso fare con il tema della formazione e dell’apprendistato in particolare, evidenziando le rilevate ibridazioni di soggetti, strumenti e oggetto, oltre che i relativi fenomeni di co-ammi-nistrazione e coordinamento tra livelli territoriali, incluso quello euro-peo.

La domanda che questa prospettiva si pone, in via generale, è se sia possibile ricomporre la frammentazione delle discipline regolative setto-riali intorno ad un diritto unitario della regolazione che abbia delle infra-strutture concettuali comuni. Il che implica non la semplice ricognizione e presa d’atto dell’esistente, ma anche un contributo della giurispruden-za scientifica alla continua definizione dei ruoli dei regolatori e degli strumenti – privati, collettivi, pubblici, e parapubblici – e degli stessi contenuti della regolazione.

101 Magari prestando attenzione “alla genesi, alle finalità e alle specificità di ciascun isti-tuto, di ciascuna legge, di ciascuna norma all’uopo ricorrendo alle categorie giuridiche più ap-propriate – siano esse privatistiche o pubblicistiche – per consentire la realizzazione degli obiettivi di volta in volta perseguiti”, così M. Rusciano, Il diritto del lavoro tra diritto pubbli-co e diritto privato, in aa.vv., Le ragioni del diritto: scritti in onore di Luigi Mengoni, Mila-no, Giuffrè, 1995, Vol. II, p. 1233.

102 Con tutti i relativi problemi giuridici della rappresentanza nelle strutture di governo della regolazione privata, di conflitto di interessi ed eventuali responsabilità: F. CafaGGi, Un diritto privato europeo della regolazione? Coordinamento tra pubblico e privato nei nuovi modelli regolativi, in «PD», 2004, n. 2, p. 206; id., Crisi della statualità, pluralismo e model-li di autoregolamentazione, in «PD», 2001, n. 4, p. 543 ss.

103 Ridefinendo i confini tra strumenti riconducibili al diritto pubblico e strumenti asso-ciati al diritto privato, CafaGGi, Un diritto privato europeo della regolazione?..., op. cit.

104 In particolare, se si è di fronte ad oggetti su cui insiste un diritto misto pubblico-pri-vato e rilevandone le caratteristiche, CafaGGi, Un diritto privato europeo della regolazione?..., op. cit.

779

Questa forma di integrazione e ibridazione di soggetti, strumenti e contenuti, può, dunque, contribuire “ad un ripensamento delle categorie classiche nella direzione di una concezione unitaria di forme di regola-zione che impiegano strumenti diversi” 105.

105 “Un nuovo diritto della regolazione è necessario: esso non presuppone la cancellazio-ne delle distinzioni tra diritto pubblico e privato ma certo esige il coordinamento ed una più forte consapevolezza degli effetti di reciproca influenza degli strumenti che la cooperazione impone. Il tema diviene centrale ma ancora più complesso se, dalla prospettiva dei regimi de-gli Stati nazionali, si guarda alle strategie europee di regolazione dove, forse inconsapevol-mente, un diritto della regolazione è già operante ma le sue caratteristiche sono embrionali e ancora troppo poco definite”: così F. CafaGGi, Un diritto privato europeo della regolazione?..., op. cit., p. 238; da ultimo M.R. ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Bari, Laterza, 1996, p. 28 ss.

781

ANTONELLA CIRIELLOMagistrato

RIFLESSIONI SUL CONTRATTOA TEMPO DETERMINATO NEL PUBBLICO IMPIEGO

sommario: 1. Premessa. – 2. L’art. 36 nel tenore iniziale e le numerose deroghe. – Segue: la dirompente riforma della legge 244/2007: una vita breve, ma intensa. – 3. Le innova-zioni (definitive?) a opera del decreto legge 112/2008. – 4. Le stabilizzazioni e i proble-mi che le stesse pongono (cenni). – 5. Il divieto di conversione ed il risarcimento del dan-no: il senso del diverso regime nella disciplina costituzionale ed europea. – Segue: l’in-terpretazione della norma nella giurisprudenza interna, il significato della sanzione risar-citoria. – 6. Conclusioni.

1. Premessa

Sul terreno del contratto a tempo determinato, più che altrove, si gio-ca il futuro del diritto del lavoro, o se si preferisce, la partita tra la flessi-bilità, che, nell’accezione evoluta i giuristi moderni amano definire flexi-curity, e l’inderogabilità delle norme a tutela dei lavoratori, in definitiva tra la tutela del mercato e la tutela del lavoro 1.

Nella storia più recente, questa tipologia contrattuale, inizialmente guardata con sfavore nell’ordinamento italiano, in chiave di conserva-zione e tutela della tipologia legale a tempo indeterminato, prospettiva propria di un periodo precedente alla maturazione delle logiche europee sul mercato del lavoro (legge 230/1962, fortemente limitativa) ha subi-to una notevole attenzione dal legislatore, attratto dal esigenza di flessi-bilità, imposta dal mercato, ed è stato oggetto di tendenze ambivalenti,

1 Recentissima dottrina (G. fontana, Dall’inderogabilità alla ragionevolezza, Giappi-chelli, 2008, p. 69 e ss., pone in evidenza come nel libro bianco si tenta di attuare uno scam-bio virtuoso tra occupazione e flessibilità rendendo per un verso primaria la competenza del contratto collettivo rispetto alla legge (rovesciamento della gerarchia delle fonti, rectius dele-gificazione, già cominciato, nel settore de quo, negli anni ’80, si pensi alla legge 57/1987) e, per altro verso, consentire al singolo contraente la libera derogabilità delle stesse norme col-lettive e generali, così da restituire al contratto individuale il ruolo di baricentro della regola-zione dei rapporti di lavoro, con restrizione degli spazi dedicati alla mediazione sindacale, con lo scopo di consentire di incidere sui rapporti individuali in funzione di obiettivi di efficienza nel mercato del lavoro.

782

e non univoche, registrabili tanto nella legislazione nazionale 2 che nel-le indicazioni europee 3.

In un momento storico di forti frizioni per il diritto del lavoro in ge-nerale, e il contratto a tempo determinato in particolare 4 (è dello scorso 21 agosto una norma, contenuta nella legge n. 133/2008, di conversione del decreto legge n. 112/2008, che modifica l’esito di migliaia di ricorsi con una tecnica legislativa a forte sospetto di incostituzionalità 5-6) si as-

2 A fronte di parte della dottrina che ne voleva sostenere la concreta liberalizzazione (Bianchi d’urso, vidiri, Il nuovo contratto a termine nella stagione della flessibilità, in “MGL”, 2002, p. 118 ss. Afferma che il contratto a termine si pone non più come una eccezio-ne ma “a latere, in posizione secondaria” sanduLLi, Spunti sull’interrogativo primario del nuo-vo contratto a termine: l’intrinseca temporaneità del presupposto, in «ADL», 2002, p. 66, V, anche G. ferraro, Il contratto a termine rivisitato, in «ADL», 2008), risulta imposto dal legi-slatore il carattere eccezionale, speciale, del contratto a tempo determinato, attraverso un appo-sito inciso introdotto dalla legge 244/2007, nel d.lgs. 348/2001, che afferma come il contratto di lavoro è, di regola a tempo determinato, ribadendo dunque la necessità dell’oggettività delle causali giustificatrici il contratto a termine, verificabili al fine di statuirne la valida stipula.

3 Cfr. zoPPoLi, Il contratto a termine e le trappole della precarietà, atti del Convegno “Il contratto a termine nella prospettiva europea”, organizzato a Napoli, l’11 giugno 2008, da Ma-gistratura Democratica e dal Master in Diritto europeo e comparato del lavoro della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II che richiama l’atteggiamento ambivalente, espresso dalla Commissione europea, in relazione alla tipologia contrattuale in discorso, allor-ché, nel libero verde, del novembre del 2006, per un verso se ne affermano i possibili effetti ne-gativi, produttivi di fasce di precariato, per altro verso si sottolinea come determinati soggetti, che per le loro caratteristiche soggettive possono avere difficoltà a trovare un’occupazione, attra-verso gli strumenti contrattuali diversificati possono sfruttare un c.d. effetto “trampolino”.

4 Le cui sorti, in un regime di bipolarismo politico, sono differenti in relazione alla mag-gioranza al governo come dimostrano i numerosi emendamenti alla disciplina del d.lgs. 368/2001, in sensi via via diversi, fino al recentissimo, precedente al cambio di governo, teso ad affermare, con un comma specifico, la specialità dell’apposizione del termine e la natura di tipo legale del contratto a tempo determinato, in tendenza praticamente opposta allo stesso spi-rito della norma, attuativa di una direttiva comunitaria, la 99/70, già super attuata, in chiave di tutela, nel nostro paese, dalla legge 230/1962, e quindi concretamente non necessaria.

5 Tale intervento normativo si potrebbe leggere come la trasformazione, in itinere, ad opera del legislatore, del contratto a termine in un contratto acausale, come osserva la dottrina (zoPPoLi, Il contratto a termine e le trappole della precarietà, atti del Convegno “Il contratto a termine nella prospettiva europea”, organizzato a Napoli, l’11 giugno 2008, da Magistratura Democratica e dal Master in Diritto europeo e comparato del lavoro della Facoltà di Giurispru-denza dell’Università di Napoli Federico II), anche con riferimento al discusso intervento le-gislativo nel 2005 (l. n. 266 del 23 dicembre) a correzione dell’art. 2 del d.lgs. 368/2001 (con l’introduzione di un oscuro comma 1-bis), che consente ad alcune imprese (concessionarie di servizi nei settori delle poste) di assumere anche senza causa per periodi di sei/quattro mesi e nel limite del 15% dell’organico aziendale.

6 Risultano già sollevate numerose questioni di costituzionalità da uffici giudiziari dislo-cati in tutta Italia (App. Bari, ordinanza del 22 settembre 2008, est. Castellaneta; Trib. Roma, 26 settembre 2008, est. Conte; App. Genova, est. Ravera, 26 settembre 2008; Trib. Ascoli Pi-

783

siste, nella materia dell’impiego pubblico contrattualizzato, alla soprav-vivenza di un regime speciale, ove la specialità, storicamente, non è a tu-tela del lavoratore, ma del bene pubblico, il che pone problematicamen-te la questione della affermata o esclusa compatibilità tra i moduli orga-nizzativi del lavoro pubblico e la stessa idea di flessibilità.

E, cionondimeno, a fronte della c.d. privatizzazione, taluni profili di specialità sono apparsi eccessivi, ultronei, ingenerando opinioni dottri-nali e giurisprudenziali fortemente tese ad affermare la completa equipa-razione del regime di nullità della clausola limitativa della durata del contratto, al regime privato 7.

Si cerca, si è cercato, nel quadro di tali opinioni un aggancio costitu-zionale o comunitario, per affermare una piena omogeneità tra il regime pubblico e quello privato, per i casi di illegittima apposizione del termi-ne al contratto di lavoro, ma tali tentativi, come si vedrà in seguito, non hanno prodotto i risultati sperati, come emerge dalla sentenza della Cor-te Costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Co-munità Europee 8.

Di contro, l’esigenza, affermata legislativamente, dettata preminen-temente dal bisogno di contenere la spesa pubblica, il vero oggetto di tu-tela che sta a cuore del legislatore, più che l’organizzazione e il funzio-namento della compagine pubblicistica, di cui alla tutela costituzionale dell’art. 97, di escludere con recisione e decisione, da parte di un testo normativo particolare (la legge finanziaria, da ultimo, 244/2007) la pos-sibilità, salvo casi particolarissimi, di assumere a termine per le pubbli-che amministrazioni.

Ispirata agli stessi principi, la politica del blocco delle assunzioni, da anni ha determinato situazioni di difficoltà, nella gestione quotidiana del-la cosa pubblica, da parte delle amministrazioni soprattutto periferiche e territoriali, alimentando, attraverso un utilizzo distorto e deteriore di quel-

ceno, est. Boeri, 30 settembre 2008; Trib. Trieste, Multari, 15 ottobre 2008) mentre il Tribuna-le di Trani, est., La Notte Chirone, con sentenza del 16 maggio 2007 ha ritenuto di disapplica-re la norma invocata, in materia di somministrazione, per contrasto con i principi comunitari, sulla base della prevalenza del diritto comunitario su quello interno.

7 In tali sensi cfr., Perrino, in nota a sentenza Marrosu e Sardino, Corte di Giustizia Ce, sezione II del 7 settembre 2006, n. causa c-53/04 in «Foro it.», cit.; v. altresì F. Buffa, in nota a Tribunale di Lecce 16 giugno 2006, in «Corti pugliesi».

8 V. infra sub paragrafo 5, con riferimento alle sentenze di C. Cost. 89/03; e alle senten-ze della Corte di Giustizia Adeneler (4 luglio 2006, Grande Sezione, Adeneler, causa C – 212/04), Vassallo, 7 settembre 2006, Vassallo, causa C – 180/04 e Marrosu e Sardino, 7 set-tembre 2006, c-53/04.

784

la flessibilità, come si vedrà, variamente nel tempo, ed entro certi limiti consentita alle p.a., un fenomeno grave e spropositato, il precariato.

Anche in relazione a tale fenomeno, altra faccia della stessa meda-glia, si è cercata una soluzione legislativa, con le c.d. stabilizzazioni, che tentano di regolare la situazione di uno spropositato numero di precari.

Attualmente, dunque, affrontare la tematica del lavoro pubblico, con riferimento al contratto a tempo determinato, significa ripercorrere le tappe di una disciplina altalenante, a tratti scellerata negli effetti, che ha comportato la caduta in quella “trappola” del precariato, come conse-guenza del ricorso, oltre i limiti, a queste forme contrattuali, finendo per incanalarsi negli imbuti delle c.d. stabilizzazioni, i cui incerti contorni destano perplessità nelle applicazioni giurisprudenziali e si espongono a forti critiche.

In questo breve contributo si tenterà di ricostruire criticamente i pro-fili di specialità della disciplina del contratto a termine nel pubblico im-piego, nell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria, e di esaminare i recenti arresti normativi, sul file rouge, se esiste, dei principi comunitari.

2. L’art. 36 nel tenore iniziale e le numerose deroghe

Nella sua originaria formulazione, l’art. 36, comma 4 del d.lgs. n. 29/1993 stabiliva il divieto per le pubbliche amministrazioni di fare ri-corso per periodi superiori a tre mesi ad assunzioni a termine 9.

La norma, espressione di un atteggiamento di sfavore verso l’uso di ogni tipologia flessibile ritenuta contrastante con gli schemi organizzati-vi l’accesso alla p.a., limitava l’utilizzo dei contratti flessibili con il chia-ro scopo di evitare l’uso distorto e clientelare contratto a termine testimo-niato dal passato, neppure tanto recente. In varie occasioni, infatti, la li-bertà della stipula aveva dato luogo a situazioni di precariato successiva-mente sanate con delle immissioni nei ruoli per legge del personale a ter-mine, e con la conseguente elusione dell’osservanza dell’obbligo delle procedure concorsuali 10. Di qui la previsione della possibilità di stipula

9 In realtà, nell’originaria formulazione del decreto 29/1993, non era presente la suddet-ta limitazione ma era ribadita la precedente normativa regolante il rapporto di lavoro a tempo determinato con la p.a. (d.P.C.M. 127/1989); la normativa citata nel testo fu introdotta, dall’art. 17 del decreto 546 dello stesso 1993.

10 Osserva zoPPoLi, op. cit., che “il tema del lavoro flessibile e precario nelle ammini-strazioni pubbliche è tutt’altro che nuovo. A risalire molto indietro nel tempo, nel decennio

785

di soli contratti trimestrali, escludendo dall’applicazione interi comparti come quello della scuola e dell’università 11.

Con la nuova formulazione ad opera del d.lgs. n. 80/1998 si assiste ad una vera e propria liberalizzazione, per la p.a. delle assunzioni a termine, con il passaggio da un atteggiamento di sospetto e rifiuto ad un atteggia-mento di favore 12 verso forme flessibili di assunzione del personale e di impiego della risorsa lavoro: “le pubbliche amministrazioni si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” 13, al fine di rispondere alle maggiori esigenze di flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro emergenti nel pubblico impiego.

La dottrina occupatasi della materia ha posto in risalto il notevole ruolo che la normativa attribuisce all’autonomia collettiva nella regola-mentazione delle tipologie contrattuali flessibili, tanto da riconoscere nella contrattazione una fonte normativa, seppur non esclusiva, comun-que integrativa della disciplina legale, in simbiosi con la contemporanea delegificazione cui si assisteva in favore del contratto collettivo, nel set-tore privato (si pensi alla disciplina della legge n. 56/1987) 14.

1930-1940 ci fu grande utilizzazione di lavoro precario: prima per supplire alle carenze di ruolo nei nuovi ministeri, poi per superare le eccessive rigidità dei medesimi ruoli. Pure da non dimenticare è che nel periodo 1975/1990 il 60% di statali furono assunti senza concorso, quindi quasi sempre passando per rapporti a termine. Infine, venendo ai nostri giorni, si è ri-levato che nel triennio 2002-2004 i precari sono aumentati di oltre il 10% all’anno, passando dall’8% complessivo del 2001 al 9,5% del 2004 (comprendendo però anche i dati del settore scuola, che ha la particolarità delle supplenze infrannuali)”.

11 Per una ricostruzione storica dell’evoluzione normativa del lavoro a termine nel pub-blico impiego si vedano, inoltre, de marGheriti, Il contratto a termine nel pubblico impiego, in «QDLRI», 2000, 124; rusciano, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978; tamPieri, Il contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni, in «LG», 1995, 10, 903.

12 d’orta, Introduzione ad un ragionamento sulla flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in questa Rivista, 2000, 515.

13 Sin dall’inizio, tuttavia la dottrina espresse preoccupazioni circa il pericolo, rivelatosi fondato nel lungo periodo, “che le amministrazioni sopperiscano con assunzioni a termine a carenze di organico dovute ad una inefficace programmazione del fabbisogno del personale o ad una inefficace politica di reperimento di risorse umane” (in tali termini voLtattorni, La ri-forma del contratto a termine nel pubblico impiego, «Lav. nelle p.a.» 2002, 02, 365).

14 Cfr. deLfino, Commento all’art. 36, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 29 del 1993, in corPaci, rusciano e zoPPoLi (a cura di), Commentario al d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29. La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in «NLCC», 1999, 1279 e ss.; saLomone, Contratto a termine e lavoro pubblico, in BiaGi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Milano, Giuffrè, 2002, 271; santucci, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle pubbliche amministrazioni, in «DRI», 2003, 111; de anGeLis, Il contrat-to a termine con le pubbliche amministrazioni: aspetti peculiari, in «D&L», 2002, 46 e ss.

786

Fu osservato che la liberalizzazione corrispondeva ad una gestione più dinamica della pubblica amministrazione con «l’abbandono della coppia “pianta carichi” a beneficio della diversa coppia “dotazione e pro-grammazione” 15.

E senz’altro, i numeri lo dimostrano, in quegli anni, le pubbliche amministrazioni fecero ampio ricorso alla tipologia del contratto a tem-po determinato, come liberalizzato, nonostante i tentativi, vani, di limi-tarne l’utilizzo tramite i controlli amministrativi e i limiti di spesa.

Già nel rapporto Aran sugli istituti di lavoro flessibile nella pubblica amministrazione e nelle autonomie locali relativamente al biennio 2000-2001 si dava conto di un incremento notevole nella stipula dei contratti a tempo determinato, pari al 20% dal 2000 al 2001, rinvenendone le cause nella presenza dei vincoli, reiterati nelle leggi finanziarie degli ultimi an-ni, che hanno «bloccato» o fortemente limitato le assunzioni nella pub-blica amministrazione, obbligando gli enti a percorrere la strada dei rap-porti a tempo indeterminato» 16.

In particolare i comparti università, enti territoriali e sanità sono quelli in cui più si è fatto ricorso a contratti a termine.

Le ricerche Aran 17 riferiscono che nel 2001 dei complessivi 80.241 contratti a termine circa 65.000 erano stati stipulati in questi tre comparti, di cui 33.000 in Regioni ed enti locali, di cui circa 27.000 nei Comuni.

è del resto, frutto della riforma appena descritta, la previsione di un regime sanzionatorio particolare, per il pubblico impiego, traducentesi nella esplicita previsione che, “in ogni caso, la violazione delle norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche am-ministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.

Lo “step” successivo nella disciplina del contratto a termine, e cioè la sua riforma sostanziale ad opera del decreto legislativo n. 368/2001 pone il problema dell’applicabilità all’impiego pubblico, risolto in senso favorevole 18, nonostante la mancanza di una disposizione espressa nel testo normativo 19; nessuna influenza sul regime del contratto a termine

15 viscomi, Il dilemma delle dotazioni organiche tra flessibilità organizzativa e rigidità finanziarie, in «Il lavoro nelle p.a.», 2000, 585.

16 V., per le notazioni citate nel testo, gli atti da www.aranagenzia.it. 17 di cocco (2004), Intervento, in P. Pascucci (a cura di), Riforme del mercato del lavo-

ro pubblico e privato, Quaderni Flaminia, Fano, p. 53 ss.18 V, sul punto, santucci, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle p.a. in «DRI»

2003, 110 e ss. argomentando dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001.19 A differenza della normativa regolante il part-time, art. 10 d.lgs. 61/2000, che statui-

sce esplicitamente circa l’applicabilità all’impiego pubblico.

787

nelle pubbliche amministrazioni spiega invece, com’è noto, la riforma del mercato del lavoro adottata con d.lgs. 276/2003, espressamente di-chiarato non applicabile al settore pubblico tranne i casi di contratti di somministrazione in cui il rapporto di lavoro non si costituisce con la p.a. dei contratti di inserimento e dei contratti di formazione e lavoro.

Risale proprio a questi anni la genesi di quell’ampio bacino di pre-cariato, che la legislazione successiva ha provveduto a stabilizzare, pe-raltro appartenenti a fasce professionalmente non qualificate (si pensi, nel settore giudiziario, all’ampio utilizzo dei lavoratori c.d. trimestrali, nel passaggio al sistema fondato sul “giudice unico”, dopo l’abolizione dell’ufficio del Pretore).

L’inversione di tendenza rispetto alla suesposta liberalizzazione emerge nella legge nella l. 9 marzo 2006, n. 80, di conversione del d.l. n. 4/2006, il cui art. 4, intitolato «Monitoraggio sui contratti a tempo deter-minato e la somministrazione a tempo determinato nelle pubbliche am-ministrazioni», modifica gli artt. 35 e 36 del d.lgs. n. 165/2001, inseren-do, in particolare, nell’art. 36, un comma 1-bis che stabilisce che le am-ministrazioni possano stipulare contratti flessibili solo in presenza di “esigenze temporanee ed eccezionali”; e che tali forme di assunzioni debbano essere precedute da procedure di assegnazione anche tempora-nea di personale e da una valutazione sull’opportunità di dar corso a con-tratti di somministrazione, ad esternalizzazioni o ad appalti di servizi; in-fine, si precisa che tali disposizioni costituiscono norme di principio per gli enti locali.

La normativa, chiaramente ispirata ad una ratio opposta a quella che animava la legge 80/2006, appone un vero e proprio limite sostanziale, osserva la dottrina, all’utilizzo del contratto a tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni, da ravvisarsi nel carattere temporaneo ed ec-cezionale delle esigenze, dunque con una restrizione delle ipotesi di sti-pula non solo rispetto al modello del decreto legislativo 368, valevole co-me norma generale (che non richiedeva esplicitamente il requisito della temporaneità 20 e certamente non quello della eccezionalità), ma anche

20 Ritiene implicito, tale requisito, per il decreto legislativo 368/2001 la giurisprudenza prevalente e parte della dottrina.

Si veda, per la prima, App. Firenze 30 maggio 2005, App. Bari 20 luglio 2005, App. Mi-lano 29 aprile 2004, ancora Trib. Bolzano 20 aprile 2006 e Trib. Napoli 16 marzo 2007, inedi-te, per la seconda, sPeziaLe, La riforma del contratto a tempo determinato, in «DRI», 2003; v. altresì dello stesso autore, La riforma del contratto a termine dopo la legge 247 del 2007, in «RIDL», 2008, in senso contrario, cfr. per tutti Bianchi d’urso, vidiri, op. cit, p. 120 ss.; an-cora, in giurisprudenza, Trib. Nola n. 410/2004, giud. Galante; Trib. Pavia 12 aprile 2005, cit., ove si afferma che “con l’entrata in vigore del d.lgs. 368 del 2001 il termine è apponibile al

788

rispetto alla vecchia severa normativa di cui alla legge 230/1962; inoltre, sotto il profilo procedurale, si subordina esplicitamente il ricorso al mo-dello contrattuale in parola solo successivamente, e subordinatamente, alla verifica dell’impossibilità di far fronte alle sopravvenute esigenze at-traverso forme di mobilità interna 21.

Senz’altro, ad ispirare la inversione di rotta, la presa d’atto del lento e inesorabile scivolamento del lavoro pubblico nella c.d. “trappola del precariato”, che spiega i diversi interventi di c.d. stabilizzazione median-te le leggi finanziarie di cui si dirà, che mostrano una maggiore preoccu-pazione per il contenimento della spesa pubblica (obiettivo di breve pe-riodo) che non di assicurare l’efficienza e la gestione dinamica delle pub-bliche amministrazioni 22.

La norma, si è osservato, riveste una particolare ampiezza, applican-dosi a tutte le amministrazione anche non statali, sul piano soggettivo, e oggettivamente, riguardando tutte le forme di contratti flessibili.

Segue: La dirompente riforma della legge 244/2007: una vita breve, ma intensa

Ulteriore tappa della tormentata vicenda, la legge 244/2007 opera

contratto di lavoro anche in presenza di attività non meramente temporanee o non eccezionali né straordinarie ed imprevedibili purché sia sorretto da ragioni oggettive verificabili in concre-to…”, nonché App. Napoli 13 settembre 2005, inedita.

21 Sul punto, osserva ranieri, Vecchie e nuove peculiarità del contratto a termine nel pubblico impiego, «Lav. nelle p.a.» 2007, 3-4, 653, che osserva come “l’intervento normativo introduce limiti di varia natura all’utilizzo delle forme contrattuali flessibili nel settore pubbli-co; più precisamente è possibile distinguere: un limite sostanziale (rappresentato dalla delimi-tazione delle esigenze che giustificano l’utilizzo di forme contrattuali flessibili); un limite pro-cedurale forte (ovvero il preventivo “esperimento di procedure” inerenti assegnazione di per-sonale anche temporanea); infine, un ulteriore onere procedurale qualificabile, però, come de-bole (la preventiva valutazione circa l’opportunità di attivazione di contratti con le agenzie di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, per la somministrazione a tempo determinato di personale, ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi”).

22 Pantano, La c.d. «stabilizzazione» dei lavoratori non a termine nella Finanziaria 2007 ed il «buon andamento» della pubblica amministrazione, «Lav. nelle p.a.» 2007, 3-4, 635 osserva che “Se la «protezione del buon andamento e dell’imparzialità dell’attività pubbli-ca» richiama la «prevedibilità» ed il «contenimento dei flussi di spesa» non è altrettanto ragio-nevole impedire a priori ed in maniera indiscriminata l’assunzione di nuova forza lavoro, in corrispondenza di effettive esigenze organizzative legate anche ad un fisiologico mutamento strutturale delle funzioni esercitate dall’amministrazione pubblica e della natura dei servizi da essa erogati.

789

una completa riscrittura degli artt. 36 e 7, d.lgs. n. 165/2001, che dura pe-rò, solo pochi mesi.

L’art. 3, comma 79, l. 244/2007 (legge finanziaria) stabilisce, peren-toriamente che “le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile...se non per esigen-ze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi” (comma 1) e “in nes-sun caso è ammesso il rinnovo del contratto o l’utilizzo del medesimo la-voratore con altra tipologia contrattuale” (comma 2). Le pubbliche am-ministrazioni, per fare fronte ad esigenze transitorie ed eccezionali, de-vono ricorrere all’“assegnazione temporanea di personale di altre ammi-nistrazioni per un periodo non superiore a sei mesi, non rinnovabile” (comma 3).

Non era ammessa deroga alle rigide statuizioni sopra riportate, come statuiva esplicitamente il comma 4, neppure ad opera della contrattazio-ne collettiva.

Restavano fuori dai limiti dei primi commi ipotesi specifiche, detta-te dalla normativa 23.

La dottrina si è divisa sull’interpretazione di questa normativa, con-siderata favorevolmente da taluni 24, ed aspramente criticata da altri auto-ri 25 che l’hanno considerata una scelta piuttosto miope, che contrasta con l’esigenza di risolvere i problemi organizzativi della pubblica ammini-strazione, tanto più in una prospettiva comunitaria che valorizza anche per il lavoro pubblico l’applicabilità degli strumenti di flexicurity (in tale prospettiva la norma viene addirittura ritenuta contrastante con i principi comunitari espressi nella normativa cardine, la direttiva 99/1970) 26.

23 Si trattava dei casi di ipotesi di sostituzioni per maternità nelle autonomie territoriali con l’indicazione della persona da sostituire; di sostituzione di lavoratori assenti con diritto al-la conservazione del posto, ma solo per gli enti locali non sottoposti al patto di stabilità inter-no e con un organico inferiore alle 15 unità; sostituzione di lavoratori assenti o cessati dal ser-vizio degli enti del servizio sanitario nazionale, in relazione al personale medico (con esclusi-vo riferimento alle figure infungibili) ed infermieristico; di utilizzo dei lavori socialmente uti-li, con l’obbligo di comunicare alla Presidenza del Consiglio le convenzioni concernenti que-sta fattispecie lavorativa; di uffici di diretta collaborazione con il Ministro o alla diretta dipen-denza del sindaco, del Presidente della Provincia, della giunta o degli assessori; di incarichi di-rigenziali (in quanto rimane in vigore la disciplina ad hoc).

24 stancaneLLi, La stabilizzazione dei precari nella p.a.: le contraddizioni del legislato-re, 21.4.2008, in nelMerito.com e in Astrid-online...

25 zoPPoLi, op. cit.; Pantano, La c.d. «stabilizzazione» dei lavoratori non a termine nel-la Finanziaria 2007 ed il «buon andamento» della pubblica amministrazione, in «Lav. nelle p.a.» 2007, 3-4, 635.

26 Osserva, in particolare, sul punto zoPPoLi, op. cit., che una disciplina come quella del-

790

In particolare, in chiave critica, si è posta in rilievo l’incongruenza della normativa sotto profili tecnici 27, anche con riguardo alla disciplina delle assunzioni a termine per sostituzioni dovute ad assenze per mater-nità; come pure è parso eccessivo il divieto “illimitato” nel tempo, di uti-lizzare il lavoratore con altra tipologia contrattuale, e l’impossibilità di ricorrere al contratto a termine neppure per esigenze temporanee ed ec-cezionali, che dovranno essere soddisfate solo con assegnazioni tempo-ranee di personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a sei mesi non rinnovabile (art. 36, comma 3).

Un altro punto che aveva destato forti perplessità negli interpreti, at-teneva all’esplicita previsione dell’inderogabilità delle disposizioni ad opera della contrattazione collettiva, sotto il profilo sistematico, in quan-to determinante un regime di inderogabilità parziale (stando all’interpre-tazione letterale) dell’art. 36, rendendo difficile distinguere quali parti fossero derogabili da quali non lo fossero.

Ma il punto decisamente più criticabile della superata disciplina ri-guardava i meccanismi sanzionatori.

Prescindendo, per un momento, dalla sanzione del risarcimento del danno, di cui si dirà infra, atteso che si tratta di un profilo invariato della disciplina, appariva davvero rigorosa ed autolesionistica, la sanzione, per il caso di violazione della normativa, comminata non agli amministrato-ri ma alle amministrazioni in senso stretto. Infatti l’ultima parte del com-ma sei della disposizione innovata dalla legge 244 prevedeva:

“Le amministrazioni pubbliche che operano in violazione delle di-sposizioni di cui al presente articolo non possono effettuare assunzioni ad alcun titolo per il triennio successivo alla suddetta violazione”.

In altre parole, si era predisposta una vera e propria “punizione” per l’amministrazione in quanto tale, ferma restando la responsabilità dell’am-ministratore per dolo o colpa grave, impedendo ogni assunzione per il triennio, con una disposizione che non brillava certo per rispetto delle esi-genze della cosa pubblica, e tutela dei principi di organizzazione e funzio-namento della p.a., facendo praticamente ricadere sulla collettività il prez-zo dei malfunzionamenti dovuti a scelte degli amministratori.

la l. 244/2007, elusiva sulla causale e restrittiva sulla durata dei contratti a termine con le pp.aa., ingenera vari di dubbi di conformità in rapporto sia alla direttiva 99/70 sia ai principi comuni di flexicurity.

27 In particolare si è rilevato che la nozione di stagionalità specificata nel privato con ri-ferimento al d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525 non pare affatto adeguata per il lavoro pubblico, per il quale esistono particolari discipline, come l’art. 92 del d.lgs. 267/2000 per i comuni con ele-vati flussi turistici.

791

La disposizione eludeva completamente un profilo fondamentale per la pubblica amministrazione attinente, come si vedrà, alle stesse ragioni per le quali si giustifica la mancata conversione del contratto stipulato il-legittimamente dal pubblico amministratore a tempo determinato; si trat-ta del profilo della dissociazione legale del datore di lavoro pubbico. In altre parole, nel sistema che distingue gli organi di indirizzo politico, che determinano anche le piante organiche e i fabbisogni, da quelli gestiona-li, i dirigenti, che possono operare solo entro certi limiti rigidamente pre-fissati, sullo schema della rappresentanza, non è possibile far ricadere sul rappresentato i comportamenti adottati sine titulo dal rappresentante; co-stituisce questo, principio fondamentale che pareva travolto, discutibil-mente, dalla normativa sopraesposta (cfr., sul punto, par. 5).

Ci sarebbe stato da domandarsi, qualora la norma non fosse stata abrogata, come si vedrà, quali conseguenze avrebbe prodotto la violazio-ne del divieto posto a sanzione della violazione di altro divieto.

3. Le innovazioni (definitive?) a opera del decreto legge 112 /2008

La breve esistenza dell’art. 36, nella versione testè descritta, ha avuto fine, pochi mesi dopo la nascita, con il nuovo testo, dettato dall’art. 49 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, che controriforma la disciplina previgente in molti punti salienti, dando l’impressione che il legislatore abbia ascoltato e, in parte, fatte proprie le molteplici critiche dottrinali sopraesposte.

In primo luogo, si stabilisce, dopo aver ribadito che l’assunzione a tempo indeterminato rimane la regola per il fabbisogno ordinario di for-za lavoro, che “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice ci-vile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel ri-spetto delle procedure di reclutamento vigenti”.

In altre parole il divieto viene abrogato e le circostanze legittimanti l’assunzione temporanea di personale ritornano ad essere i presupposti per le assunzioni con tipologia flessibile, rendendo, in linea con le criti-che dottrinali avanzate alla normativa più rigorosa, la regola più confor-me all’orientamento comunitario.

In particolare, la disciplina, sul punto, appare più liberale rispetto al-la disciplina del 2006, sopra descritta, non subordinando il ricorso alla flessibilità al vincolo procedurale del previo utilizzo della mobilità inter-na, ma comunque si presenta più rigida rispetto alla totale liberalizzazio-ne del 1998.

792

Particolare importanza riveste la riattribuzione di una funzione nor-mativa integrativa alla contrattazione collettiva che, come si è visto, di ta-le ruolo era stata completamente spogliata, con opinabile scelta, nel 2007. Al riguardo infatti, la norma stabilisce:

Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto sta-bilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo de-terminato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti for-mativi e della somministrazione di lavoro, in applicazione di quanto pre-visto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall’articolo 3 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dal-la legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall’articolo 16 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quan-to riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento al-la individuazione dei contingenti di personale utilizzabile. Non è possibi-le ricorrere alla somministrazione di lavoro per l’esercizio di funzioni di-rettive e dirigenziali 28.

Risulta modificata anche la norma assai criticata che vietava l’utiliz-zo del lavoratore con altra tipologia contrattuale, stabilendosi con fine chiaro che, “Al fine di evitare abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, le amministrazioni, nell’ambito delle rispettive procedure, rispettano prin-cipi di imparzialità e trasparenza e non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servi-zio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio”, anche se la norma non appare molto chiara. Infatti, letteralmente, sembrerebbe vie-

28 Trae argomentazioni dalla valorizzazione della contrattazione collettiva, caruso, in Flessibilità (ma non solo) del lavoro pubblico nella l. 133/2008 (quando le oscillazioni del pendolo si fanno frenetiche), in Working Papers, C.S.D.L.E., Massimo D’Antona.it – 79/2008, affermando che dal rinvio generalizzato si potrebbe arguire il potere dei contratti di derogare, così come nel privato contrattualmente (a livello nazionale) alla durata massima triennale pur-ché comparativamente più rappresentativi; osserva l’autore come ci sarebbe da discutere se ciò è possibile nel settore pubblico in virtù del rinvio generalizzato alla contrattazione collettiva nazionale di cui al comma 2 del nuovo art. 36 del Tupi.

Nel lavoro pubblico, in effetti, si impone solo il limite di utilizzo triennale (cumulato) nel quinquennio. Non si specifica, per altro, se il limite dei 36 mesi valga solo per le mansioni equivalenti come, invece, nel lavoro privato.

Per questo ultimo profilo, è da aggiungere che nel lavoro privato ora è concessa la pos-sibilità di deroga contrattuale (a livello nazionale) alla durata massima triennale da parte dei sindacati comparativamente più rappresentativi.

793

tato il ricorso a diverse tipologie contrattuali, il che dovrebbe indurre a ri-tenere possibile il ricorso alla stessa tipologia contrattuale.

Più comprensibile sarebbe stata invece, la norma, ove riferita alla ri-petizione del medesimo contratto più volte nel triennio, in linea con i principi comunitari (com’è noto, il principio cardine che si ricava dalla direttiva comunitaria 99/70 in tema di contratto a termine sanziona l’abu-siva ripetizione del contratto).

Ribadita la solita regola risarcitoria, per il caso di violazioni, risulta eliminata la norma punitiva per l’amministrazione, sopra criticata, per stabilirsi una precisa responsabilità amministrativa dei dirigenti, che, se “operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono re-sponsabili anche ai sensi dell’articolo 21 del presente decreto. Di tali vio-lazioni si terrà conto in sede di valutazione dell’operato del dirigente ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 286” 29.

Si cerca, in altre parole, di fornire di sanzione la norma relativa alla responsabilità dirigenziale, lasciando comunque ambito discrezionale all’amministrazione nella valutazione delle conseguenze, e in certo sen-so privando di grossa efficacia deterrente la sanzione.

è appena il caso di rilevare, tuttavia, che anche se non prevista espli-citamente la sanzione più grave è quella generale della responsabilità contabile che si accompagna ad ogni scelta amministrativa che comporti spese e obblighi risarcitori per la p.a., a carico dell’erario (anche se tem-perata fortemente dalla necessità di uno specifico atteggiarsi dell’ele-mento psicologico, nei termini di dolo o colpa grave) 30.

Alla luce della disciplina suddetta, non si può più ritenere, come già affermato sotto il vigore della 80/2006, che il contratto a termine sia di-venuto una extra ratio per la p.a. 31.

29 Anche sotto tale profilo, la norma era stata criticata, nella versione precedente, per il contenuto generico della responsabilità dirigenziale (si veda zoPPoLi, op. cit.).

30 Secondo Caruso, in flessibilità (ma non solo) del lavoro pubblico nella l. 133/2008 (quando le oscillazioni del pendolo si fanno frenetiche), cit., alla luce della scarsità delle risor-se devolute alla valutazione delle prestazioni e tenuto conto del giudizio diffuso in ineffettivi-tà complessiva del sistema di valutazione della dirigenza, si dovrebbe affermare che la nuova disposizione sanzionatoria possa avere, nei confronti di comportamenti mirati alla stipula irre-golare di contratti flessibili, la medesima efficacia dissuasiva del ruggito del topo. è probabile allora che il nuovo legislatore, per l’efficacia di questa nuova sanzione, confidi nell’entrata in vigore delle annunciate modifiche in materia di valutazione della dirigenza.

31 In tale senso v. G. sottiLe, (2006), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel pub-blico impiego, in «DLM», p. 648.

794

4. Le stabilizzazioni e i problemi che le stesse pongono (cenni)

Molteplici sono i problemi sollevati dalle c.d. stabilizzazioni previ-ste dalle finanziarie 2007 e 2008, con le quali si è inteso sanare il feno-meno del precariato e le sue dimensioni imbarazzanti.

In particolare (ma il fenomeno era già previsto da norme preceden-ti) la l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) prevede dispo-sizioni volte a «stabilizzare» i rapporti di impiego cc.dd. «precari» alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Essa definisce le procedu-re (ed i relativi stanziamenti finanziari) per la costituzione di rapporti a tempo indeterminato con soggetti già assunti a tempo determinato o con contratti di formazione e lavoro ovvero di contratti a tempo determinato con soggetti già assunti tramite collaborazioni coordinate e continuative; l’ultima finanziaria, art. 3, comma 90, amplia la possibilità di ammettere lavoratori alle procedure di stabilizzazione.

Senza entrare nel merito delle scelte legislative 32, giacché ogni sa-natoria trova un suo fondamento più sociologico e politico che giuridico, resta il dato giurisprudenziale che, anche tale fenomeno conciliativo ha dato luogo a numerose controversie, poste all’attenzione della giurispru-denza di merito.

Il dato comune dei casi assai diversi esaminati dai giudici del lavoro può essere individuato nel notevole rigore delle interpretazioni, ispirato forse dall’esigenza di contenere entro limiti precisi e ristretti un provve-dimento dirompente come l’assunzione in massa di una serie di lavorato-ri precari, a fronte di un’opposta esigenza e prospettazione, ovviamente, delle parti.

Risulta, nei vari casi generalmente negato un diritto del dipendente alla stabilizzazione, sulla base di una interpretazione letterale della nor-ma (legge n. 244/2007) che attribuisca all’amministrazione un potere di-screzionale di procedere all’assunzione (così Tribunale di Santa Maria C.V. ord. coll., 1° marzo 2008, est. Ciriello).

In altre sentenze (Tribunale di Viterbo 14 luglio 2008, est. Ianigro) si sono esclusi dalla procedura di stabilizzazione i rapporti istituiti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (così anche Tribuna-le di Roma, 22 luglio 2008, est. Delle Donne).

Con riferimento alla stabilizzazione della precedente legge Finan-ziaria, il Tribunale di Brindisi, con ordinanza del 15 luglio 2008, est.

32 zoPPoLi, op. cit., osserva che le stabilizzazioni creeranno nuove aspettative e nuove tor-tuose ipotesi di rapporti a termine, fino ad una nuova prevedibile apertura, più generalizzata, per il precariato.

795

Sterzi Barolo, ha giudicato un caso in cui si discuteva del requisito di an-zianità richiesto dalla delibera della Giunta, in attuazione di quanto pre-visto dalla legge 296/2006 cit., (anzianità di servizio pari a 36 mesi o as-sunzione con un contratto a termine che le avrebbe consentito, alla sca-denza del medesimo, di maturare detta anzianità nel quadriennio 2007-2010) per ritenere l’infondatezza della tesi sostenuta dalla ricorrente in ordine alla sussistenza di un diritto alla proroga del proprio contratto a termine, in quanto cessato nella vigenza della sopra citata delibera; la ri-corrente azienda pretendeva la proroga dei contratti a termine, scaduti nella vigenza della delibera, nei confronti di tutti coloro che, proprio in virtù della proroga concessa nel corso della procedura di stabilizzazione, potrebbero maturare l’anzianità triennale nel quadriennio 2007-2010, sulla base di una propria interpretazione della normativa. L’interpretazio-ne proposta dal giudice, invece, in senso letterale e rigoroso, corretta-mente afferma in ragione “dello spirito che ha animato la disposizione della legge finanziaria in materia di stabilizzazione prima, e la legge re-gionale della Regione Puglia poi” che “l’inciso sopra richiamato si rife-risce esplicitamente al “personale destinatario della stabilizzazione” con ciò rivolgendosi non a tutti coloro che hanno fatto richiesta di stabi-lizzazione bensì a coloro che, all’esito della procedura, sono stati indivi-duati quali vincitori: non a caso viene dato per scontato che con i mede-simi l’Azienda stipulerà un contratto a tempo indeterminato, evento que-sto che evidentemente non può ritenersi accada con riferimento a tutti gli aspiranti. Nei confronti, e solo nei confronti di costoro, l’Azienda è tenu-ta alla proroga del contratto a termine fino al momento in cui l’ente sti-pulerà il contratto a tempo indeterminato”.

In altro caso, relativo lo stesso tribunale precisa che, in termini gene-rali, può sussistere il diritto del ricorrente che si trovi nel possesso dei re-quisiti di legge “a partecipare alle procedure di stabilizzazione come de-terminate dalla Regione e dalla Asl”, ma, “ciò non vuol dire che la ricor-rente vanti alcun diritto soggettivo alla copertura a tempo indetermina-to di un posto specifico perché ciò dipenderà dal punteggio conseguito, dalla individuazione della dotazione organica formulata nel rispetto dei vincoli di spesa e della definizione delle procedure selettive nel rispetto dei tempi e dei modi previsti dal Piano di stabilizzazione” 33.

33 Ord. Trib. Brindisi, 9 giugno 2008, est. Brocca, a quanto risulta, inedita come le altre sentenze citate nel testo.

796

5. Il divieto di conversione ed il risarcimento del danno: il senso del di-verso regime nella disciplina costituzionale ed europea

Nonostante le numerose modifiche subite dall’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, la ratio posta a base della norma non è nel tempo mutata; si tratta dell’esigenza sentita dal legislatore italiano, di disciplinare in ma-niera diversa e speciale, i contratti flessibili nel pubblico impiego.

Le ragioni della diversità hanno subito il vaglio sia presso la giuri-sprudenza costituzionale che comunitaria, mostrando una tenuta sia nell’uno che nell’altro ambito, sia pure con logiche e motivazioni diverse, in rapporto ai principi espressi dall’ordinamento interno e comunitario.

La questione fu portata, in un primo tempo, all’attenzione della Cor-te Costituzionale, per la valutazione della legittimità della norma suddet-ta, ritenuta dalla Consulta (C. Cost. 89/2003) 34 argomentando sulla spe-cialità dell’accesso al lavoro pubblico, disciplinato dal concorso, ai sen-si dell’art. 97 Cost. La Corte Costituzionale, in particolare, nel dichiara-re non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, com-ma 2, t.u. 165/2001, prospettatale in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (ed in relazione ad una fattispecie a cui era applicabile, ratione temporis, la l. 230/1962), argomentò dal “solo profilo genetico del rapporto”, osser-vando che il principio dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, comma 1, Cost. per l’impiego pubblico, è del tutto estraneo alla di-sciplina del lavoro privato e che tale principio “rende palese la non omo-geneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto dal remittente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla vio-lazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei la-voratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carat-tere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”: la rilevata non omogeneità “delle situazioni poste a confronto”, in definitiva, esclude che possa ritenersi violato, dalla norma in questione, il principio di egua-glianza di cui all’art. 3 Cost. La stessa sentenza n. 89/2003 della Corte Cost., peraltro, rileva che “seppure lo stesso art. 97, comma 3, Cost., contempla la possibilità di derogare per legge, a miglior tutela dell’inte-resse pubblico, al principio del concorso, è tuttavia rimessa alla discre-zionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, l’individuazione di siffatti casi eccezionali, senza che alcun vincolo pos-sa ravvisarsi in una pretesa esigenza di uniformità di trattamento rispet-

34 In «FI», 2003, I, c. 2258.

797

to alla disciplina dell’impiego privato”. La Consulta, in altre parole, nel valutare la scelta legislativa, non la ritiene una scelta costituzionalmente necessitata, atteso che la stessa regola costituzionale dell’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso può essere derogata dal legislatore, con scelte rimesse alla sua discrezionalità, “nei limiti della non manife-sta irragionevolezza”.

Ha osservato sul punto parte della dottrina 35 che, in realtà, il richia-mo alla regola costituzionale di cui all’art. 97, comma 3 Cost. non appa-re risolutivo, poiché, alla stregua della disciplina dettata dal t.u. 165/2001 (art. 36, comma 1), anche le assunzioni a tempo determinato devono es-sere effettuate osservando le regole generali sul reclutamento del perso-nale: se, quindi, lo strumento concorsuale è necessario per assicurare la selezione dei “migliori”, tale obiettivo è, comunque, assicurato anche nell’individuazione del personale che viene assunto a termine.

In quest’ottica, si ritiene, invece, che la disciplina speciale di cui all’art. 36, t.u. 165/2001 vada fondata sulla differenza “strutturale” tra il datore di lavoro privato e la p.a.-datore di lavoro.

Infatti presso il datore di lavoro pubblico si rinviene quella che è sta-ta descritta in dottrina come “dissociazione legale” della figura, unitaria nel privato, del datore di lavoro: nella pubblica amministrazione, infatti, il dirigente, rappresentante ex lege del datore di lavoro, vede delimitati i suoi poteri di rappresentanza dalle scelte adottate in sede di indirizzo po-litico-amministrativo circa il dimensionamento e la tipizzazione della dotazione organica della pubblica amministrazione in cui opera e la sua attività non può in alcun modo incidere, modificandole, su tali scelte, che devono ritenersi da tutti conosciute e opponibili nei confronti di tutti, compresi gli stessi lavoratori coinvolti in contratti a tempo determinato eventualmente stipulati dai dirigenti esorbitando i limiti dei loro poteri di rappresentanza.

Così, il sistema organizzativo descritto, produce una sorta di “inde-rogabilità bilaterale” tesa a tutelare le scelte operate dalla pubblica am-ministrazione, nei suoi organi di indirizzo politico-amministrativo, per perseguire le finalità di efficienza, razionalizzazione della spesa e mi-gliore utilizzazione delle risorse umane poste a fondamento dell’intera riforma dell’impiego pubblico (cfr. artt. 97, comma 1, Cost. e 1, comma 1, t.u. 165/2001), il che non consente la conversione del rapporto 36.

35 Così Buffa, L’inconvertibilità dei rapporti reiterati a termine alle dipendenze della pubblica amministrazione, in nota a Tribunale di Lecce, sez. lav., 16 giugno 2006, in «Corti pugliesi» 2006, n. 4, I, 372 ss.

36 Dunque il divieto di conversione costituisce la logica conseguenza dei limiti legali ai

798

Tuttavia si è posto in evidenza come la conversione potrebbe essere pronunciata in relazione a quelle fattispecie in cui l’accesso è garantito da forme selettive diverse 37.

Che le ragioni sistematiche della deroga siano valide o meno, la stes-sa, come visto dalla descrizione della normativa sopra ampiamente svol-ta, è stata mantenuta dal legislatore ed ha mostrato una eccezionale tenu-ta non solo nella giurisprudenza costituzionale, ma anche sul versante europeo.

La Corte di giustizia si è occupata della questione con la sentenza c.d. Adeneler (4 luglio 2006, Grande Sezione, Adeneler, causa C – 212/04), sopra citata, con la quale, sembrava, avesse aperto la via ad una equiparazione tra lavoro pubblico e privato poiché aveva affermato il principio che “qualora l’ordinamento giuridico interno dello Stato mem-bro interessato non preveda nel settore considerato altra misura effettiva per evitare e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinati successivi, il detto accordo quadro osta all’applica-zione di una normativa nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo inde-terminato una successione di contratti a tempo determinato, che, di fat-to, hanno avuto il fine di soddisfare ‘fabbisogni permanenti e durevoli’ del datore di lavoro e devono essere considerati abusivi”.

Tuttavia tale prospettiva risulta abbandonata nella successiva sen-tenza Vassallo, 7 settembre 2006, Vassallo, causa C – 180/2004 38. In es-sa, con specifico riferimento alla normativa italiana (e cioè proprio all’art. 36, d.lgs. 165/2001) la Corte afferma che la sanzione risarcitoria, dalla suddetta normativa prevista per l’illegittima stipulazione di contratto a termine nel settore del lavoro pubblico, non possa ritenersi, a priori, uno strumento inadeguato, al fine di perseguire gli scopi della direttiva, tesa, come è noto, a sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo de-

poteri di rappresentanza degli organi preposti alla gestione dei rapporti di lavoro, a loro volta tecnicamente riconducibili, nello schema della rappresentanza, alla non imputabilità al rappre-sentato dell’attività negoziale compiuta dal rappresentante oltre il mandato conferitogli (ex artt. 1387 e ss. c.c.; cfr. Cass. 1° ottobre 1997, n. 9594).

37 Così Buffa, op. cit., osserva che, oltre all’ipotesi citata nel testo si dovrebbe ritenere la convertibilità anche “nei casi in cui siano comunque negativi gli esiti del giudizio circa la effi-cacia e la portata dissuasiva delle sanzioni applicabili alle pubbliche amministrazioni che abu-sino dello strumento contrattuale temporaneo”. In giurisprudenza, esclude l’applicabilità dell’art. 36 cit. alle società di gestioni di servizi pubblici, nate ex lege dai consorzi di enti pub-blici indicati nell’art. 2, d.lgs. 165/2001, facendo prevalere un criterio formale su quello so-stanzialitico, Trib. S. Maria Capua Vetere 27 marzo 2007 (ord.), est. Alfano.

38 In pari data la C. Giust. ha reso la citata analoga sentenza Marrosu e Sardino, 7 settem-bre 2006, c-53/04.

799

terminato stipulati in successione. In sostanza, afferma la Corte, l’art. 36 non sembra in contrasto con la direttiva; tuttavia spetta al giudice nazio-nale italiano valutare se esso è “uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica ammini-strazione di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo de-terminato” 39.

Segue: l’interpretazione della norma nella giurisprudenza interna, il si-gnificato della sanzione risarcitoria

Dunque la Corte di Giustizia, con un vero e proprio self-restraint 40 teso a non oscurare le scelte dei governi e dei parlamenti nazionali, ri-mette al giudice del lavoro la valutazione “sull’effettiva equivalenza in concreto tra il risarcimento monetario e la misura sufficiente effettiva e dissuasiva per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attua-zione dell’accordo quadro, alla luce della stessa giurisprudenza comuni-taria secondo la quale le misure per prevenire gli abusi e per reprimerli devono comunque essere adeguate all’obiettivo dell’uso ingiustificato dei contratti a termine e cancellare le conseguenze della violazione del diritto comunitario” 41.

E, il giudice italiano, come si vedrà, solo in pochi casi ha operato con chiarezza, allo stato, valutazioni di inadeguatezza, in astratto, con-centrandosi le sentenze esaminate, principalmente, sul problema pratico della determinazione concreta del quantum dovuto, in caso di illegittima stipula, al lavoratore, a titolo di risarcimento.

Sul piano della giurisprudenza di legittimità, invece, non risultano pre-se di posizione sul punto specifico, con riguardo al profilo comunitario.

39 In senso fortemente critico V. sPeziaLe, Relazione all’incontro di Studio “Tempo e La-voro”, p. 25, Roma, 16-18 ottobre 2006, in www.csm.it, che osserva come “ritenere che il me-ro risarcimento del danno costituisca una “sanzione di pari efficacia” a quella della conversio-ne dei contratti (in coerenza con quanto previsto dalla sentenza Adeneler) sia del tutto scorret-to, in considerazione della profonda differenza tra una tutela solo pecuniaria (limitata, oltretut-to, alla perdita di “chance” e senza un ristoro di tutto il pregiudizio subito) e quella prevista nel settore privato, che garantisce la stabilità dell’occupazione”; si veda, ancora C. Cost. n. 89/2003.

40 In tali termini sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Cor-te di giustizia europea. Un tassello nella ‘modernizzazione’ del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .INT – 52/2007.

41 Dagli atti del Convegno svolto all’Università di Napoli l’11 giugno 2008 nell’ambito del master in Diritto europeo e comparato del lavoro, Intervento di Antonella Di Florio, leg-gibile sul sito Magistraturademocratica.it.

800

Alcun riferimento, invero, neppure come obiter, a tale profilo, né al-la problematica dell’adeguatezza della sanzione, si rinvengono nella sen-tenza più recente, relativa proprio a questa fattispecie, della Suprema Corte, 11161/2008 del 7 maggio 2008 42 (anche perché non costituivano motivo esplicito di ricorso, nel caso portato all’esame del collegio).

In essa il collegio di legittimità si limita a richiamare tralaticiamen-te i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale affermando che… il giudice delle leggi ha rilevato che i principio dell’assunzione dei pubblici dipendenti mediante concorso, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, rende di per sé pa-lese la non omogeneità delle situazioni poste a confronto e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative ri-guardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte della p.a. con-seguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conver-sione in rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati. D’altro canto la scelta operata dal legislatore non contrasta con il canone della ragionevolezza, poiché la stessa norma costituzionale individua ap-punto nel concorso lo strumento di selezione del personale in linea di principio più idoneo a garantire l’imparzialità e l’efficienza della p.a. A ciò si aggiunga che, mirando il concorso a selezionare tra i concorrenti quelli che possiedono in misura maggiore i requisiti attitudinali e profes-sionali richiesti, non è irragionevole la norma che tuteli i vincitori in mo-do diverso dai concorrenti che, pur non essendone privi, tuttavia non han-no dimostrato di possedere un uguale grado di preparazione.

In dottrina si invoca prevalentemente, al fine di qualificare la fattispe-cie in oggetto, con specifico riferimento all’incidenza sul regime contrat-tuale, l’art. 2126 c.c., la cui disposizione è derogata, quanto alla possibi-lità di conversione, dal quinto comma dell’art. 36 del d.lgs. 165/2001.

In altre parole la dottrina 43 è portata a ritenere che, nascendo anche il rapporto di lavoro pubblico da contratto, la violazione di quelle norme im-perative, riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 36 comma 5, dovrebbe condurre alla nullità del contratto, per intero, con la conseguenza importante, rispet-to al precetto dell’art. 2126 c.c., della mancata conversione.

In giurisprudenza, invece, non ci si pronuncia tanto sulla validità o in-validità del contratto, affermando direttamente il diritto al risarcimento 44.

42 In «Giust. civ. mass.», 2008, 5.43 V. de marGheriti, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, 135; zoLi, Prestazione di

fatto e rapporto di lavoro pubblico, in «ADL», 2001, 474.44 Forse perché tutte le fattispecie esaminate dai giudici il termine era già spirato e la pre-

801

A ben vedere tale ricostruzione, se può avere un pregio teorico, ben poca rilevanza assume sul piano pratico, una volta che la prestazione sia stata già svolta (ed invero se non fosse svolta e si affermasse la nullità parziale il prestatore di lavoro potrebbe pretendere di eseguire la presta-zione lavorativa durante il tempo fino ad decorso del termine).

Ed infatti avrebbe rilievo solo qualora l’iniziativa giudiziaria fosse intrapresa in corso di rapporto dalla p.a., che facendo valere la nullità ri-fiutasse di ricevere la prestazione sino al termine.

Appare, a chi scrive, un’ipotesi più teorica che pratica il caso che sia la p.a. ad agire, e c’è la p.a. a far valere la nullità del contratto, con la con-seguenza dell’interruzione della prestazione lavorativa, così che, per il periodo lavorato al prestatore spetteranno le retribuzioni e la contribuzio-ne dipendenti dall’applicazione dell’art. 2126 c.c., mentre ulteriori danni potranno essere fatti valere dal lavoratore ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. 165/2001 45.

In ogni caso, infatti, ci si dovrebbe interrogare sulle conseguenze ri-sarcitorie, ferma restando, per norma cogente, l’impossibilità di conver-sione o di conservazione del contratto senza la clausola nulla.

Esaminando in particolare, le statuizioni dei giudici di merito, emer-ge una certa varietà delle soluzioni e delle conseguenze dell’illegittima stipula del contratto a termine nel lavoro pubblico 46-47.

Il problema risulta sostanzialmente aperto, anche se la giurispruden-za di merito sembra unanime nell’escludere la possibilità di pronunciare la conversione del contratto, con rare eccezioni.

In particolare, in un caso piuttosto isolato, si è ravvisato 48 un contra-sto insanabile tra l’art. 36, d.lgs. 165/2001, e la normativa comunitaria, giungendo a disapplicare la norma interna, giudicata illegittima, e quindi a dichiarare la conversione dei contratti illegittimamente prorogati con l’ente pubblico (nel caso di specie l’Inail) in contratti a tempo indetermi-nato.

stazione eseguita, di talché non avrebbe avuto senso parlare della validità o invalidità del con-tratto, concentrandosi, i giudici, pravalentemente sulle conseguenze risarcitorie.

In dottrina, nello stesso senso, vedasi BeLLocchi, Il contratto individuale di lavoro, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. carinci, vol. V, Il lavoro nelle pubbliche ammi-nistrazioni, a cura di F. carinci e L. zoPPoLi, Torino, 2004, p. 542. L’autrice ritiene che dall’art. 36, comma 2, derivi non la nullità del contratto atipico, ma solo la mancata conversione del rapporto (p. 543).

45 In questo senso v. GraGnoLi, Forme e nullità del contratto di lavoro con le p.a., p. 709.46 Sul punto, da ultimo, Perrino, op. cit.; v. altresì Buffa, op. cit. 47 Si veda, per la giurisprudenza, Trib. Trapani 30 gennaio 2007 (inedita).48 Trib. Reggio Emilia 18 aprile 2007, est. Strozzi.

802

Le altre sentenze di merito esaminate, invece, sembrano concorde-mente escludere, proprio sulla base dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 e del-la giurisprudenza comunitaria sopra riportata, la possibilità di ammettere sanzione diversa da quella risarcitoria. Si legge così 49, sul punto, che la norma dell’art. 36 cit. “è assolutamente chiara intanto nell’ampiezza del suo ambito applicativo, investendo ogni ipotesi di assunzione o impiego di manodopera contra legem”.

La stessa, per la sua collocazione nel contesto di disposizioni impe-rative speciali regolative del pubblico impiego, imposte dai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e di assunzione tra-mite concorso, rende impossibile al giudice la pronuncia costitutiva di un rapporto di pubblico impiego 50. “Dunque, anche a volere ammettere che la convenuta abbia impiegato la prestazione lavorativa del ricorrente in via di fatto in violazione di eventuali norme imperative regolative del ti-po contrattuale da utilizzare, nessun rimedio accertativo o costitutivo del rapporto può essere adottato dal giudice (...). Al lavoratore, in casi di tal fatta, compete in ipotesi un ristoro (solo) pecuniario connesso all’avve-nuto espletamento in via di mero fatto di prestazione di lavoro dipenden-te senza il rispetto da parte datoriale delle disposizioni inderogabili di legge. Secondo la norma citata, l’eventuale condanna a carico dell’am-ministrazione poi dovrebbe essere seguita dall’azione di rivalsa nei con-fronti dei dirigenti che si sono resi in concreto responsabili della costitu-zione di un rapporto di lavoro subordinato in dispregio delle norme im-perative vigenti”.

Per quanto attiene il profilo dell’adeguatezza, nonché sotto il profilo della qualificazione e quantificazione del danno si diversificano signifi-cativamente le opinioni dei giudici. Infatti mentre taluni applicano come meccanismo risarcitorio l’art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300 51, altri affermano la riconducibilità del danno alle comuni categorie civilistiche con specifici obblighi assertivi, allegativi e probatori dei danni concreta-mente riportati, giungendo al rigetto in mancanza del tempestivo adem-pimento a tali oneri 52.

In particolare, fanno esplicito riferimento all’invito rivolto dalla Corte europea la sentenza del Tribunale di Genova 53 (che aveva rimesso

49 Trib. Napoli 24 gennaio 2007.50 Così Trib. Napoli, ult. cit.51 Così, ancora Trib. Genova, 14 dicembre 2006, cit.52 Così Trib. Napoli, ult. cit.53 Così Trib. Genova 14 dicembre 2006, est. Basilico, in «Giur. mer.», 2007, con nt. di

sottiLe, Sanzioni per il contratto a termine nel lavoro pubblico e Corte di Giustizia europea,

803

la questione alla Corte) ove statuisce che “la misura dell’adeguatezza e dell’effettività è data non soltanto dalla idoneità dello strumento a ripara-re il danno sofferto, ma anche dalla forza dissuasiva che è propria dei meccanismi sanzionatori”.

Ancora, prende posizione al riguardo, il Tribunale di Rossano Cala-bro 54, e dopo aver ampiamente dissertato in ordine alla possibilità della sanzione risarcitoria di assicurare adeguatamente gli scopi della direttiva, secondo le indicazioni della Corte di Giustizia giunge a qualificare il ti-po di responsabilità come contrattuale. In particolare si osserva 55 che an-che verso la p.a. il contratto illegittimamente stipulato, o illegittimamen-te prorogato, debba considerarsi a tempo indeterminato. Tuttavia si risol-verebbe automaticamente per effetto del divieto legislativo, espresso dall’art. 36, d.lgs. n. 165/2001, con la conseguenza che la relativa respon-sabilità rivestirebbe natura contrattuale. In tale prospettiva, si osserva che “il danno di cui all’art. 36: – viene ad avere sufficiente efficacia dissua-siva, perché determina un reale diritto al risarcimento del danno; – non ha conseguenze di minor favore rispetto al settore privato (principio di equivalenza), perché aggancia il diritto del dipendente della p.a. alle re-tribuzioni cui avrebbe diritto in ipotesi di rapporto di lavoro a tempo in-determinato, come avviene per il dipendente privato che viene a percepi-re le stesse; – non rende praticamente impossibile o eccessivamente dif-ficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comuni-tario, ovvero ottenere tutela a fronte di una illegittima apposizione del termine, perché il diritto ad un rapporto di lavoro a tempo indetermina-to viene ad avere una reale tutela risarcitoria, ancorata alle retribuzioni che si verrebbero ad avere in ipotesi di rapporto di lavoro a tempo inde-terminato”.

Di diverso avviso, invece, altro Tribunale 56: “il danno risarcibile ex art. 36, d.lgs. n. 165/2001, se non merita la definizione di danno da ina-dempimento – per l’ovvia considerazione che non scaturisce dalla viola-zione di clausole pattizie pienamente vincolanti in quanto valide ed effi-caci – nemmeno può esaurire la propria giuridica rilevanza nella sola fa-se delle trattative contrattuali, ma viene ricollegato all’abusivo utilizzo

p. 131. Allo stato risulta sub iudice la questione in relazione alla quale, su eccezione del tribu-nale di Genova, fu rimessa la questione alla CGCE, nel caso Marrosu Sardinu; la Corte d’Ap-pello di Genova, con ordinanza del 22.4.2008, est. Ghinoy, ha ritenuto di sospenderne l’esecu-tività.

54 Tribunale Rossano 13 giugno 2007, «D.L. Riv. critica dir. lav.», 2008, 2, 736 (s.m.) (nota di: Martini).

55 Trib. Rossano 4 giugno 2007, est. Coppola.56 Trib. Foggia 6 novembre 2006, est. Quitadamo.

804

da parte della p.a. di una prestazione lavorativa, oltre i modi ed i tempi consentiti dalle norme imperative, rientrando a pieno titolo nella catego-ria dei danni da illecito aquiliano, fonte di pregiudizio risarcibile nei li-miti del danno emergente e del lucro cessante (c.d. interesse positivo)”.

Altra pronuncia individua il risarcimento sulla scorta della retribu-zione non percepita affermando che 57 “Posto che nel lavoro pubblico contrattuale l’illegittima successione di contratti a termine non può com-portare la conversione in contratto a tempo indeterminato, spetta al ri-corrente il risarcimento dei danni subiti ragguagliato al trattamento re-tributivo contrattuale non erogato nei periodi d’intervallo fra i contratti a termine intercorsi fra le parti”.

6. Conclusioni

Se la flessibilità è il terreno più delicato su cui si gioca la partita tra regola e deroga nel diritto del lavoro, ancor più delicato è il terrreno del lavoro pubblico, ove si scontrano carenze organizzative, discrasie di fun-zionamento portate da procedure farraginose, e ove, più che mai, ciò che appare flessibile può rappresentare, per anni ha rappresentato, un ingres-so di servizio al lavoro pubblico stabile, prestandosi ad abusi più o meno programmati, ma certamente prevedibili.

Se la sanzione, prevista dalla norma o generale insita nella responsa-bilità contabile, può costituire un deterrente contro i comportamenti do-losi, è pur vero che le pubbliche amministrazioni, per funzionare neces-sitano di uomini e mezzi, adeguati alle circostanze e alle esigenze, per cui la flessibilità deve essere entro certi limiti consentita, a favore dell’or-ganizzazione e della rispondenza del servizio pubblico all’interesse del-la collettività.

57 Tribunale Catania, 19 gennaio 2007, in «Foro it.» 2008, 1, 350.

805

EMANUELA DURANTECollaboratrice presso il Dipartimento di Diritto del lavoro

nell’Università degli Studi di Genova

IL NUOVO TESTO UNICO IN MATERIA DI TUTELADELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA SUL LAVORO

Il Consiglio dei Ministri il 1º aprile 2008, sulla base dell’articolo 1 della legge delega n. 123/2007, ha approvato in via definitiva il d.lgs. n. 81/2008, impropriamente detto “testo unico in materia di tutela della sa-lute e della sicurezza sul lavoro”, infatti giuridicamente non può essere qualificato come tale, data la non inclusione di alcune materie (ad esem-pio la legislazione aerea e marittima, quella sulle industrie estrattive e a cielo aperto e quelle sulla radioprotezione); questa definizione di “testo unico” costituisce, quindi, una semplificazione semantica derivante dall’uso comune.

Si tratta, quindi, di un intervento legislativo difficile da collocare in una precisa fonte di cognizione prevista nel nostro ordinamento: la nuova disciplina non rappresenta un mero testo compilativo, a riprova di ciò si consideri che la semplice compilazione avrebbe prodotto 800 articoli e 1391 sanzioni mentre il testo appare formato da 306 articoli e circa 400 sanzioni; esso però non è nemmeno un provvedimento di sola razionaliz-zazione e semplificazione, come le cifre anzidette potrebbero far pensare.

In ogni caso il decreto legislativo approvato rappresenta oggettiva-mente la fonte primaria della normativa sulla prevenzione alla quale fare riferimento per tutte le attività riguardanti la sicurezza sul lavoro: il de-creto, a presidio di un bene di rango costituzionale come la salute e la si-curezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, affronta il tema della sicurez-za del lavoro con l’obiettivo di migliorare il funzionamento dei tre siste-mi della prevenzione (sistema istituzionale, sistema delle imprese e siste-ma delle relazioni tra parti sociali) che hanno dato prova nel corso degli ultimi anni di diminuire il tasso infortunistico ma, certamente, non con la rapidità auspicata.

Da una lettura complessiva del provvedimento in esame emerge l’idea che il legislatore abbia voluto intervenire per rispondere all’opi-nione pubblica sempre più infastidita dalle numerose e tragiche morti sul lavoro: la parola d’ordine è lotta al lavoro sommerso, per sconfiggere le morti bianche e prevenire gli infortuni sul lavoro. Si è perseguito questo obiettivo, sostanzialmente, attraverso un inasprimento del sistema san-zionatorio con uno sproporzionato (e non rispondente ai criteri di coeren-

806

za, proporzionalità e rischiosità indicati dalla delega) aumento delle san-zioni.

è innegabile il nesso esistente fra immigrazione clandestina e lavo-ro sommerso, ma è del tutto evidente che se non si governa il flusso dei lavoratori extracomunitari, ma ci si limita a successive sanatorie interve-nendo, a valle, con un’attività ispettiva e sanzionatrice, pur intensificata ed inasprita, non si possono ottenere risultati pienamente soddisfacenti.

Non sono state introdotte, quindi, logiche innovative di prevenzione: la previsione di migliori e maggiori controlli aiuterebbe sicuramente a raggiungere con più efficacia l’obiettivo prevenzionale piuttosto che la previsione di forti penalità; invece il profilo degli aspetti sanzionatori ri-sulta fortemente sbilanciato in favore di un’impostazione fortemente re-pressiva, che enfatizza gli illeciti penali rispetto agli illeciti amministra-tivi e ai profili promozionali e prevenzionistici.

I limiti del presente testo normativo non sono, però, solo a livello di incompatibilità tra obiettivi proposti dal legislatore ed efficacia dei mez-zi adottati per il loro perseguimento; un’attenta lettura delle disposizioni rivela incoerenze e, in alcuni casi, assoluta impossibilità di applicazione efficace alla fattispecie concreta, quasi come se si trattasse di un mero te-sto compilativo, somma di vecchie norme sovrapposte e accorpate acriti-camente.

Nonostante questi limiti applicativi, se giudicato nel suo insieme, il nuovo testo unico in materia di sicurezza sul lavoro si può definire come un provvedimento avanzato, complessivamente innovativo e positivo, che in buona misura migliora e unifica la normativa vigente consenten-do, in astratto, ovvero se rettamente ed effettivamente applicato, signifi-cativi miglioramenti delle condizioni di lavoro e di esposizione al rischio lavorativo, partendo dal principio che la sicurezza non è negoziabile e viene prima della produzione. Ma è proprio quest’ultimo punto che fa sorgere la critica più significativa all’intervento del legislatore: in alcuni casi appare assai difficoltoso, se non addirittura impossibile, applicare in concreto ciò che astrattamente è stato prescritto; sovente l’obiettivo di semplificazione ha completamente assorbito ed annullato una delle ca-ratteristiche ontologiche della norma giuridica, ovvero la sua adattabilità al caso concreto cui la fattispecie astratta del dettato normativo fa riferi-mento. A rafforzare questa situazione di grande difficoltà interpretativa ed applicativa del testo in questione vi è il dato che la materia della salu-te e sicurezza sui luoghi di lavoro, come è bene precisato nell’articolo di apertura del decreto legislativo n. 81 del 2008, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, rientra nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni (art. 117, comma 3, Cost.). Come regola generale, rispetto

807

alle materie di legislazione concorrente, la determinazione dei principi fondamentali entro i quali deve esplicarsi la potestà legislativa concor-rente delle Regioni viene riservata alla legislazione dello Stato, tuttavia nell’articolo 1 del d.lgs. n. 81/2008 attraverso il richiamo ai “livelli es-senziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, il legislato-re dimostra di voler garantire l’assenza di diversificazioni di disciplina e assicurare, quindi, l’uniformità della disciplina legale in materia di sicu-rezza sul lavoro sull’intero territorio nazionale attraverso l’attribuzione allo Stato della legislazione sui “minimi di tutela” lasciando alle Regioni il compito di operare unicamente tramite deroghe migliorative.

Innanzitutto è opportuno sottolineare come il d.lgs. n. 81/2008 trovi applicazione generale sia nel settore privato che in tutta la pubblica am-ministrazione nonostante sia stato costruito tenendo presente essenzial-mente le caratteristiche dei rapporti di lavoro del primo tipo; è importan-te sottolineare come il legislatore definisca il “lavoratore” in maniera svincolata dalla tipologia contrattuale e dall’elemento della retribuzione, e agganciata funzionalmente all’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato.

Un sistema prevenzionistico particolare, per quanto riguarda la pub-blica amministrazione, è fissato dal legislatore all’ articolo 3, commi 2 e 3, solo per alcuni settori (si tratta di un insieme di amministrazioni pub-bliche tra loro eterogenee ovvero «le forze armate e di polizia, del dipar-timento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, dei servizi di protezione civile, nonché nell’ambito delle strutture giudi-ziarie, penitenziarie, di quelle destinate per finalità istituzionali alle atti-vità degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, delle università, degli istituti di istruzione universitaria, delle istituzioni dell’alta formazione artistica e coreutica, degli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado»). Non si tratta di settori esclusi dall’applicazione della norma, bensì di enti che perseguono particolari funzioni pubbliche per cui le disposizioni del d.lgs. n. 81/2008 sono « ap-plicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al ser-vizio espletato o alle peculiarità organizzative»; tuttavia, nonostante que-sta previsione il legislatore non dà una specifica regolamentazione ma rinvia (entro il termine di dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81 del 2008) all’emanazione di vari regolamenti, nella for-ma di decreti interministeriali, da parte dei Ministri competenti di con-certo con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, con il Ministro della salute e con il Ministro delle riforme ed innovazioni nella pubblica amministrazione. Particolarmente sconcertante risulta la previsione (arti-colo 3, comma 3) per cui se i Ministri competenti a provvedere superino

808

il termine di legge la conseguenza è che anche per i settori pubblici in esame troverà piena applicazione il decreto in questione, senza tenere conto delle difficoltà applicative che ne possono conseguire.

Occorre, però, tenere presente che la particolarità dell’attività svolta dalla pubblica amministrazione non è solo per i settori considerati all’art. 3, commi 2 e 3, ma è propria di ogni rapporto di lavoro che veda la pub-blica amministrazione stessa sul versante datoriale, ciò fa comprendere la difficoltà nel dover applicare a questo settore una normativa come quella della tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro risul-tante dal decreto legislativo n. 81 del 2008.

Il datore di lavoro nel sistema di sicurezza presente nel nostro ordi-namento giuridico a partire dal d.lgs. n. 626 /1994 ha un ruolo essenzia-le di tipo prevenzionistico ai fini di una efficace tutela della salute e del-la sicurezza dei lavoratori; questa funzione è anche in capo al datore di lavoro nelle amministrazioni pubbliche e a tale proposito la definizione di questo soggetto attore della sicurezza sui luoghi di lavoro resta inva-riata nel d.lgs. n. 81/2008 poiché nell’art. 2, comma 1, lett. b) è riprodot-ta tale quale era la formulazione presente all’art. 2, comma 1, lett. b), se-condo periodo, del d.lgs. n. 626 /1994. Questa definizione di datore di la-voro prevenzionistico nella pubblica amministrazione è legislativamente modulata sul potere di gestione, al quale, sul versante soggettivo, si ag-giunge il requisito della qualifica dirigenziale, ovvero dello svolgimento di mansioni direttive. Ai dirigenti pubblici è riconosciuta, per diretta at-tribuzione di legge, la titolarità degli stessi poteri di autonomia decisio-nale e di spesa propri dei datori di lavoro del settore privato; questi dun-que non sono per niente equiparabili ai “dirigenti” del settore privato ma si caratterizzano come datori di lavoro e come tali sono intesi anche nel d.lgs. n. 81/2008. Questa caratterizzazione del datore di lavoro pubblico prevenzionistico può così determinare, con riguardo a realtà di lavoro complesse, una pluralità di datori di lavoro ai fini della sicurezza; lo stes-so legislatore facendo riferimento all’autonomia gestionale del datore di lavoro pubblico, implicitamente, fa emergere la tendenziale pluralità del-le aree datoriali di lavoro in seno alle amministrazioni pubbliche. In altre parole si può dire che ad ogni espressione del potere di gestione corri-sponde una qualifica dirigenziale convenzionalmente assimilata a quella di datore di lavoro.

è importante sottolineare che per diretta attribuzione di legge (art. 2, d.lgs. n. 81/2008) i dirigenti pubblici titolari di poteri gestionali, ricondu-cibili quindi alla figura del datore di lavoro a fini prevenzionali, non han-no vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale, né devono sottosta-re alla decisione di altri organi dell’ente di governo, questo perché il le-

809

gislatore ha riconosciuto in capo a questi soggetti la titolarità degli stessi poteri di autonomia decisionale e di spesa propri dei datori di lavoro del settore privato. Inoltre nel settore pubblico il legislatore ha opportuna-mente stabilito che, in caso di omessa individuazione, o di individuazio-ne non conforme ai criteri indicati dal testo unico, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice.

Nonostante la nuova normativa in materia di tutela della salute e del-la sicurezza sul lavoro preveda, quindi, nel suo campo di applicazione anche i rapporti di lavoro pubblicistico si possono avere molti dubbi a li-vello applicativo poiché si tratta di una normativa pensata essenzialmen-te in relazione al rapporto di lavoro privato. Per comprendere la portata di quest’anomalia basti pensare alla sanzione della “chiusura dell’attivi-tà d’impresa” prevista, tra l’altro, dall’art. 14 del d.lgs. n. 81/2008, dun-que l’efficacia punitiva, ma anche deterrente, della sanzione di riferimen-to è chiara nel momento in cui viene applicata ad un datore di lavoro pri-vato ma i problemi iniziano a sorgere se si tratta di pubblico impiego. Se viene chiusa un’attività pubblicistica è difficile poter affermare che la sanzione possa rimanere a carico del datore di lavoro, ovvero della pub-blica amministrazione; appare più probabile che gli effetti negativi siano traslati automaticamente in capo ai fruitori del pubblico servizio, ovvero ai cittadini, perdendo, quindi, ogni funzione propria della sanzione e, so-prattutto, andando a creare un indebito disagio ai destinatari dell’attività oggetto dell’interdizione. Senza contare che si potrebbe anche trattare di un servizio pubblico essenziale, la cui sospensione non risulta così sem-plice ed automatica venendo ad essere coinvolti diritti fondamentali me-ritevoli di tutela proprio come la sicurezza sul lavoro (si pensi alla mate-ria dello sciopero e al fatto che il legislatore sia intervenuto per regola-mentarla specificamente nell’ambito dei servizi pubblici essenziali). Si tratta di un problema applicativo molto forte e davvero difficoltoso, se non impossibile, da sanare a mero livello interpretativo.

è interessante soffermare l’attenzione sull’art. 14 del d.lgs. 81/2008 (ex art. 5 della l. 123/2007): questa norma, in sostanza, prevede che l’or-gano di vigilanza competente possa emanare un provvedimento ammini-strativo di sospensione dell’attività imprenditoriale qualora riscontri de-terminate violazioni per cui il legislatore ha previsto tale tipo di sanzio-ne; questa disposizione ha la finalità essenziale di contrastare il lavoro ir-regolare e di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, come è espres-samente indicato nella rubrica dello stesso articolo 14. I dubbi applicati-vi di cui si è già fatto cenno non sono assolutamente trascurabili, innan-zitutto alla fine del primo comma l’articolo 14 recita testualmente: “Ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di

810

cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”, il legislatore, quindi, esclude l’ap-plicazione della normativa sugli atti amministrativi a questo tipo di prov-vedimento che, tuttavia, è a tutti gli effetti un provvedimento della pub-blica amministrazione poiché è emanato da organi pubblici di vigilanza competenti ex lege. Si tratta di un dubbio interpretativo ricco di forti ri-svolti pratici poiché la legge del 1990 sul procedimento amministrativo ha, essenzialmente, la funzione di regolamentare l’attività della pubblica amministrazione affinché questa rispetti i parametri di efficienza-effica-cia-proporzionalità che vanno a guidarne la discrezionalità nel rispetto generale degli interessi legittimi dei consociati; ora risulta difficile poter pensare che un provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoria-le quale quello previsto all’art. 14 non debba rispettare la disciplina ge-nerale degli atti della pubblica amministrazione, le conseguenze sarebbe-ro illogiche: per esempio un provvedimento di tale portata risulterebbe privo dell’obbligo di motivazione, allora si potrebbe pensare che si tratti di un provvedimento per cui non è necessaria la motivazione per ragioni di urgenza ma questa è solo una delle tante ipotesi interpretative che si possono formulare perché il legislatore si è limitato ad escludere l’appli-cazione dell’intero testo normativo.

Inoltre in questo articolo 14 si parla di “organi di vigilanza” del Mi-nistero del lavoro e delle Aziende sanitarie locali, mentre nell’art. 5 del-la legge delega si parlava di “autorità ispettive”: se questo cambiamento può trovare una ratio in relazione al Ministero del lavoro che ha più or-gani di vigilanza rispetto alle autorità ispettive, così non è per le Aziende sanitarie locali, anzi in questi casi ci si può trovare nella paradossale si-tuazione per cui soggetti (per esempio gli addetti al controllo dell’igiene degli alimenti) assolutamente incompetenti in relazione alla materia del-la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, così come disciplinata dal d.lgs. n. 81/2008, possano emanare provvedimenti di chiusura dell’at-tività ex articolo 14. Inoltre l’oggetto della sanzione prevista dall’artico-lo in esame è, testualmente, la “sospensione di un’attività imprenditoria-le” ma allora si potrebbe ipotizzare che se si rilevassero irregolarità in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in una singola unità produttiva di una grande azienda di portata nazionale, come potreb-be essere, per esempio, la FIAT, la sanzione potrebbe essere la chiusura dell’intera impresa, con le disastrose e diffuse ripercussioni economiche e sociali che si possono facilmente ipotizzare; ma allora ci si chiede per-ché il legislatore non abbia utilizzato un linguaggio normativo più chia-ro, ad esempio facendo riferimento alla singola “unità produttiva” in cui si è verificata l’irregolarità per l’applicazione della sanzione.

Un’altra norma fondamentale introdotta con il nuovo testo unico in

811

materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro è quella conte-nuta nell’art. 26 del decreto in esame: si tratta di una disposizione che mira a tutelare la salute e la sicurezza sul lavoro in caso di contratti di ap-palto e di subappalto e merita un breve cenno poiché i risvolti pratici, a livello applicativo, possono essere numerosi, sia nel settore privato che in quello pubblico. Come già sottolineato, nel dare attuazione alla delega legislativa, l’art. 304, d.lgs. n. 81/2008 ha esplicitamente abrogato il d.lgs. n. 626/1994, ma molte delle previgenti disposizioni sono confluite (in alcuni casi con modifiche) nel nuovo dettato legislativo. Con riferi-mento ai contratti d’appalto, d’opera o di somministrazione, l’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008 ha sostanzialmente confermato, nei commi da 1 a 5, l’impianto normativo già previsto dall’art. 7, d.lgs. n. 626/1994, cui sono state aggiunte ulteriori misure volte a migliorare l’effettività della prote-zione della salute e sicurezza.

In particolare al primo comma dell’art. 26 il legislatore ha inteso rendere più stringente, in caso di affidamento di lavori a un’impresa ap-paltatrice o a lavoratori autonomi all’interno dell’azienda, o di una singo-la unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo pro-duttivo dell’azienda medesima, la verifica da parte del datore di lavoro appaltante dell’idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto. Il secondo comma dell’art. 26, inoltre, ha imposto anche ai subappaltatori, oltre che agli altri datori di lavoro, di cooperare all’attuazione delle mi-sure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attivi-tà lavorativa oggetto dell’appalto e di coordinare gli interventi di prote-zione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. Il quarto comma rappresenta, invece, la vera novità ed è in riferimento alla responsabilità solidale in materia di infortuni sul lavoro: dalla nuova disciplina sembra emergere che i danni oggetto di responsa-bilità solidale (purché provocati da rischi “non specifici”, ovvero estranei all’attività tipica dell’appaltatore o del subappaltatore) siano ora i danni non indennizzati dagli istituti assicurativi obbligatori contro gli infortuni sul lavoro perché legati ad eventi infortunistici non coperti dalle relative tutele; i danni riguardanti soggetti non compresi nella tutela; i danni dif-ferenziali (biologico, morale ed esistenziale) derivanti da eventi comun-que di origine professionale, riconosciuti dalle relative assicurazioni ob-bligatorie. Alla luce del criterio distintivo posto dalla nuova disciplina, deve invece ritenersi esclusa la responsabilità solidale in ordine al risar-cimento dei medesimi danni se conseguenti ad infortuni derivanti da ri-

812

schi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici o subappalta-trici. L’azione per far valere la responsabilità solidale continua a non es-sere soggetta ad alcun termine di decadenza.

Infine, all’ultimo comma dell’art. 26 il legislatore ha inasprito la normativa previgente stabilendo che nei singoli contratti di subappalto, di appalto e di somministrazione devono essere espressamente indicati, a pena di nullità, i costi relativi alla sicurezza sul lavoro con particolare ri-ferimento a quelli propri connessi allo specifico appalto. In sostanza si può dare una valutazione positiva alla disciplina in materia di responsa-bilità solidali negli appalti alla luce del quadro giuridico presente a segui-to della riforma del 2008: la decisione del legislatore di prevedere la mol-tiplicazione dei centri di imputazione della responsabilità patrimoniale è certamente funzionale a garantire l’effettività della tutela per i lavoratori, quale che sia il punto nella filiera degli appalti in cui si colloca l’impresa o il datore di lavoro da cui dipende il singolo lavoratore. Si tratta di un aspetto significativo perché ben l’85% degli infortuni con esito mortale avviene proprio nell’ambito dei subappalti dove effettivamente non sem-pre si riesce a risalire alle effettive responsabilità.

Nel testo unico in analisi sono, inoltre, evidenti i passi in avanti ri-guardo ad un’ulteriore importante tematica: la formazione cui, tuttavia, non è dedicato un apposito Titolo.

Il nuovo decreto colma, infatti, diverse lacune precedenti e sottoli-nea l’importanza della formazione nel mondo del lavoro per riuscire a diffondere una cultura della sicurezza a tutti i livelli lavorativi. Importan-za che, ad esempio, è ribadita nel momento in cui, tra le “gravi violazio-ni” che diventano il presupposto per l’adozione del provvedimento di so-spensione dell’attività imprenditoriale, viene inserita (allegato I del testo unico) proprio la “mancata formazione e addestramento”.

Per affrontare le novità relative alla tematica della formazione è uti-le una breve analisi delle definizioni che la riguardano poiché spesso nei decreti legislativi queste ultime nascondono i veri intenti del legislatore.

Intanto nell’art. 2 (definizioni) non si parla solo di “formazione”, ma si definisce anche il significato di “informazione” (“complesso delle at-tività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzio-ne e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro”) e di “addestramento” (“complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”) così da sottolineare meglio le differenze tra queste attività e meglio chiarire il significato spe-cifico di formazione.

Nel testo unico alla lett. a) del comma 1 dell’art. 2 la “formazione”

813

viene definita come quel “processo educativo attraverso il quale trasfe-rire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e pro-tezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di com-petenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”.

Si parla, in questo caso, di “processo” il che fa pensare ad una plu-ralità di momenti e ad una sorta di aggiornamento periodico nell’ottica di una formazione continua. Concetto che è ribadito anche al comma 6 dell’art. 37 dove si ricorda (analogamente a quanto in parte già indicato nel d.lgs. n. 626/1994): “La formazione dei lavoratori e dei loro rappre-sentanti deve essere periodicamente ripetuta in relazione all’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi”.

Nella definizione di “formazione” non si parla solo di lavoratori ma anche degli “altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione azien-dale”, estendendo, in modo dichiarato, la necessità della formazione ad altri attori nell’ambito dell’azienda. Infatti le novità del testo unico ri-guardano anche l’obbligo formativo e l’aggiornamento di dirigenti e pre-posti, in maniera tale che a tutti i livelli aziendali venga diffusa una cul-tura della sicurezza per ottenere un sistema partecipato di prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Come già accennato, la novità più corposa introdotta dal d.lgs. n. 81/2008 riguarda la riformulazione e razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio (amministrativo e penale): si è inasprita notevolmente la portata delle singole sanzioni ai fini di un rafforzamento della loro effi-cacia deterrente. La revisione dell’apparato sanzionatorio ha notevol-mente semplificato il precedente sistema (il numero delle sanzioni è pas-sato dalle precedenti 1391 a circa 400); nell’intero provvedimento si è scelto, nella quasi totalità dei casi, di mantenere l’alternativa tra l’arresto e l’ammenda, le cui misure, come già sottolineato, sono state rispetto al passato inasprite, talvolta in modo sensibile; ad esempio, l’omessa valu-tazione del rischio, fino ad oggi punita dall’articolo 89 del decreto legi-slativo n. 626/1994 con la pena alternativa dell’arresto da tre a sei mesi o dell’ammenda da 1.549 a 4.131 euro, è, nello schema di decreto, sanzio-nata con l’arresto da quattro a otto mesi o con l’ammenda da 4.000 a 12.000 euro (art. 55).

La mancata effettuazione del documento di valutazione del rischio o la sua effettuazione gravemente incompleta comporta l’arresto (non più alternativo rispetto all’ammenda) da sei a diciotto mesi (art. 55, comma 2) per i datori di lavoro di aziende che svolgano attività con ele-vata pericolosità (aziende a rischio incidente rilevante o nelle quali vi siano rischi biologici, cancerogeni o ove si tratti, ove necessario per lo

814

smaltimento, di amianto); tale previsione costituisce la più importante novità in materia di sanzioni rispetto al passato. In queste ipotesi, è pe-raltro contemplato nel testo (art. 302) un meccanismo in forza del qua-le al contravventore è consentito sostituire la pena da irrogare con il pa-gamento di una somma compresa tra 8.000 e 24.000 euro alla impre-scindibile condizione che siano state ripristinate le regolari condizioni di lavoro.

Si tratta, dunque, di una procedura non utilizzabile per tutte le fatti-specie ma solo per quelle che consentono un ripristino delle condizioni di lavoro inoltre, per espressa previsione di legge (art. 302), non è con-sentito ricorrere a questo meccanismo neanche in quelle situazioni ove l’omissione abbia causato un infortunio sul lavoro e nei casi di condanne definitive per omicidio o lesioni gravi, se commessi con violazione di norme antinfortunistiche. Infine, si segnala l’introduzione della previsio-ne (articolo 60) di sanzioni (amministrative) anche a carico dei lavorato-ri autonomi, dei piccoli imprenditori (tra cui gli artigiani) e per i compo-nenti dell’impresa familiare, finora non ricompresi nel novero dei sog-getti obbligati e, quindi, nell’apparato sanzionatorio.

Un’ulteriore ed importante novità introdotta dal t.u. in materia di tu-tela della salute e della sicurezza nel lavoro è data dall’estensione della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connesse alla violazione della normativa di sicurezza e igiene sul lavoro.

Tale estensione, per la verità, non è una novità del testo unico appe-na approvato. La predetta responsabilità amministrativa, infatti, era già stata prevista dalla legge n. 123 del 2007. L’art. 30 del testo unico, tutta-via, completa la normativa citata, introducendo una serie di principi di-rettivi che, se adottati ed efficacemente attuati nel modello di organizza-zione e gestione dell’azienda, avranno efficacia esimente della responsa-bilità amministrativa della società datrice di lavoro ex d.lgs. n. 231/2001. Com’è noto, il d.lgs. n. 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento il principio della responsabilità amministrativa delle società per i reati com-messi, a loro vantaggio o interesse, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa o se il reato è stato commesso da persone soggette al-la loro direzione o vigilanza. Le sanzioni applicabili alle società per gli illeciti amministrativi dipendenti dal reato sono: pecuniarie, interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza. Particolarmente temibili sono le sanzioni interdittive: esse infatti possono arrivare a condizionare anche la stessa esistenza dell’ente (ad es. interdizione dall’esercizio dell’attività di impresa). La società, tuttavia, può essere esonerata dalla

815

predetta responsabilità qualora sia in grado di provare l’adozione e l’ef-ficace attuazione di misure di organizzazione, gestione e controllo, ispi-rate a linee guida elaborate dall’ordinamento internazionale ed idonee a prevenire la commissione di illeciti della specie di quello verificatosi.

L’adozione del modello è facoltativa. La sua mancata predisposizio-ne, infatti, non è sanzionata. Esso, tuttavia, è condizione necessaria per ottenere l’esenzione della responsabilità sopra descritta ma ciò può avve-nire se, e solo se, quest’ultimo tiene in considerazione tutti gli obiettivi programmatici previsti dall’art. 30 del d.lgs. n. 80/2008.

In questo senso, quindi, viene recepita la modifica del meccanismo introdotto dall’art. 9 della legge n. 123 del 2007, per il quale, in ogni ca-so di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi, se si tratta di fattispecie connesse alla violazione delle disposizioni in materia di salute e sicurez-za sul lavoro, si applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 231 del 2001. Infatti, l’art. 300 del provvedimento in commento prevede una maggiore gradualità nella applicazione delle sanzioni pecuniarie ed interdittive, atteso che unicamente per l’omicidio colposo con violazione delle disposizioni in tema di valutazione del rischio si prevede l’applica-zione della sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote (dove la sin-gola quota è pari, secondo la previsione originaria del decreto legislativo n. 231 del 2001, ad un valore compreso tra “500.000 lire” e “tre milioni”; ne deriva, che le 1.000 quote, parametrate all’euro, equivalgono ad una somma minima di circa 250.000 euro e massima di oltre 1.500.000 euro), mentre per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme an-tinfortunistiche è prevista l’applicazione della sanzione pecuniaria in mi-sura compresa tra le 250 e le 500 quote e per le lesioni gravi in misura non superiore alle 250 quote. Di conseguenza, si prevede che anche le sanzioni interdittive (tra le quali la sospensione dell’attività imprendito-riale) di cui all’articolo 9, comma 2, del citato decreto legislativo n. 231/2001, vengano diversificate quanto alla durata, la quale per l’omici-dio colposo è compresa tra tre mesi e l’anno e per le lesioni gravi non può superare i sei mesi.

è inoltre da tener presente che il documento di valutazione dei rischi ha natura propedeutica rispetto ad altri adempimenti; in altri termini, pro-prio tale processo che conduce a determinati risultati e all’adozione di specifiche misure di prevenzione e protezione costituisce le fondamenta di un complesso di adempimenti successivi quali, per esempio, l’infor-mazione e la formazione dei lavoratori (artt. 36-37) e la strutturazione di un idoneo modello di organizzazione e di gestione, al fine di garantirsi entro certi limiti l’esenzione dalla responsabilità amministrativa prevista per le persone giuridiche, le società e le associazioni anche prive di per-

816

sonalità giuridica di cui al d.lgs. n. 231/2001, come novellato dall’art. 300 del d.lgs. n. 81 del 9 aprile 2008.

Da questo quadro generale emerge come il nuovo testo unico in ma-teria di sicurezza sul lavoro sia un provvedimento di cui è possibile dare giudizi differenti a seconda dell’aspetto che viene esaminato, è pratica-mente impossibile valutarlo negativamente o positivamente nel suo insie-me: da un lato si potrebbero muovere molte critiche, sia sotto il profilo dei contenuti (tante le normative escluse, molti gli interventi parzialmen-te efficaci), che della tecnica di redazione delle norme (è lasciato un ruo-lo determinante all’attività dell’interprete per colmare le innumerevoli lacune legislative); dall’altro non ci si può assolutamente sottrarre dal ri-conoscere al provvedimento in esame il merito di aver tentato di raziona-lizzare la copiosa disciplina in materia, non solo ad un livello meramen-te formale ma anche sul piano sostanziale, attraverso una serie di inter-venti volti a dare un’efficace risposta all’opinione pubblica scossa dalle numerose morti bianche sul lavoro che si sono verificate negli ultimi an-ni nel nostro paese.

Sicuramente, nonostante i limiti evidenziati nel corso di questa bre-ve trattazione, non possono che essere valutate positivamente le disposi-zioni che prevedono un meccanismo premiale per le imprese virtuose, che sapranno ridurre in maniera consistente gli infortuni nelle proprie at-tività; oppure il coordinamento nella vigilanza e la campagna di informa-zione e formazione che sono alla base del testo normativo in esame e che mirano a predisporre una legislazione applicabile e moderna che, insie-me ad una nuova cultura della sicurezza, possa creare le condizioni indi-spensabili per un lavoro regolare e di qualità.

817

ALESSIA GATTOAssistente di Diritto del lavoro

nell’Università degli Studi di Genova

LA RESPONSABILITÀ DI RISULTATODEI DIRIGENTI PUBBLICI

Nel settore pubblico il primo riconoscimento legislativo di una cate-goria di prestatori di lavoro avente le caratteristiche dei dirigenti, di cui all’art. 2095 c.c., avvenne con il d.P.R. n. 748/1972, che, pur proponen-dosi di affievolire il legame gerarchico tra organi di direzione politica e classe dirigenziale – attraverso l’attribuzione di funzioni proprie agli esponenti di quest’ultima – non raggiunse lo scopo, a causa della ridotta autonomia concessa ai responsabili della gestione amministrativa nei confronti dei vertici politici.

è notorio come l’esigenza di superare il tradizionale rapporto di stretta subordinazione gerarchica intercorrente fra Ministri e dirigenti abbia costituito il filo conduttore delle riforme degli anni novanta, unita-mente all’urgenza di concepire in maniera del tutto nuova l’agire dell’am-ministrazione, intesa non più solo come organizzazione finalizzata all’adozione di atti e provvedimenti di diritto pubblico, ma come impar-ziale erogatrice di servizi all’utenza. A ciò si ricollegava chiaramente la finalità di recuperare una produttività ed un’efficienza della pubblica am-ministrazione almeno pari a quella delle imprese private, il perseguimen-to della quale sarebbe stato impossibile se il dirigente non fosse stato do-tato di ampi ed autonomi poteri organizzativi ed amministrativi e, conse-guentemente, sottoposto ad un giudizio sul complessivo risultato della gestione. Grazie ad una minore attenzione al profilo della legalità e delle garanzie giuridiche nella realizzazione dei fini pubblici, l’azione della pubblica amministrazione riuscì, pertanto, a porre in primo piano i prin-cipi di economicità, di efficienza e di pubblicità, quest’ultimo assicurato dalla partecipazione al procedimento amministrativo dei soggetti porta-tori di interessi giuridicamente rilevanti.

Nonostante le intenzioni che avevano animato il legislatore della pri-vatizzazione – convinto fautore della necessità di distinguere l’indirizzo politico dalla gestione amministrativa – nella legge n. 145/2002, recante numerose modifiche al d.lgs. n. 165/2001 soprattutto in materia di diri-genza pubblica, si assiste ad un’inversione di tendenza, ossia ad un ritor-no a forme di influenza della politica sulla classe dirigenziale, che si con-cretizzano in frequenti interferenze tese a limitare la sua indipendenza.

818

Le riferite preoccupazioni hanno alimentato un vivace dibattito fra gli studiosi, che si dividono fra due contrapposti orientamenti; da una parte vi è chi nega che la legge Frattini comporti una vera e propria alterazio-ne del modello precedente, i cui connotati rimangono sostanzialmente immutati e ribadisce, a sostegno di tale tesi, che l’intervento legislativo in esame ha confermato alcune scelte operate dal precedente d.lgs. n. 80/1998, concedendo al dirigente una maggiore autonomia nella gestio-ne della sua amministrazione, nonché il diritto alla conferma dell’incari-co – conferitogli temporaneamente – qualora i risultati ottenuti siano po-sitivi. Dall’altra parte si registra la posizione di coloro che rinvengono nella legge del 2002 un intento controriformatore, volto sia a reintrodur-re istituti, figure e moduli procedurali che erano stati abbandonati o mo-dificati dalle leggi di riforma della dirigenza e del lavoro pubblico so-pravvenute negli ultimi anni, sia a ricondurre le vicende del rapporto di lavoro dei dirigenti sotto il controllo degli organi politici. In particolare si denuncia la ripubblicizzazione della disciplina del rapporto dirigenzia-le, resa evidente dalle modifiche apportate in tema di incarichi, con la precisazione che esse non sono derogabili dai contratti o accordi colletti-vi; basti pensare alla natura di provvedimento dell’atto di conferimento o, a maggior ragione, al potere unilaterale e libero da vincoli dell’autori-tà di governo di scegliere i dirigenti attraverso vere e proprie tecniche di investitura fiduciaria. Quest’ultimo aspetto, insieme alla riduzione della durata massima degli incarichi dirigenziali, realizza un effetto di suddi-tanza del dirigente rispetto al potere politico, ponendo in una posizione di debolezza l’alta funzione pubblica, ben consapevole di dover avere il gradimento dei diversi Governi se vuole conservare il posto; se, infatti, in passato la durata congrua dell’incarico consentiva una valutazione, oltre che delle attitudini del dirigente, anche dei risultati conseguiti, attual-mente a causa della menzionata riduzione della durata risulta possibile soppesare le sole capacità, che vengono reinterpretate in termini di con-sonanza politica.

A prescindere dall’adesione all’una piuttosto che all’altra tesi, è in-negabile il rilievo attribuito negli ultimi anni all’attività di misurazione della gestione dei dirigenti, in un’ottica di responsabilizzazione del ma-nagement pubblico, cui ha fatto seguito, come ovvio corollario, l’instau-razione di una rete di controlli volti a verificare la funzionalizzazione dell’attività dirigenziale al perseguimento dei fini di interesse pubblico individuati in sede politica. Viene introdotto, pertanto, il concetto di re-sponsabilità dirigenziale (o di risultato), che, potendo essere intesa come la complessiva idoneità del manager a gestire con capacità il suo ruolo così da far funzionare in maniera efficace ed efficiente strutture e settori

819

di sua competenza, risulta propria tanto dei dirigenti privati quanto di quelli pubblici. Occorre, tuttavia, precisare che mentre i primi possono incorrere nella suddetta responsabilità, oltre che in quella penale ordina-ria e in quella civile per danni a terzi, per gli organi pubblici di gestione il quadro si presenta molto più gravoso e complesso: costoro sono infat-ti soggetti a quattro ulteriori forme di responsabilità, ossia quella penale speciale in relazione ai c.d. reati propri della pubblica amministrazione, quella contabile per maneggio di valori, quella amministrativa patrimo-niale, nonché quella disciplinare. Tendendo a soddisfare l’esigenza degli enti pubblici di rimuovere il manager che si è rivelato incapace o inido-neo – a prescindere dalla commissione di specifici atti o dalla produzio-ne di un danno – la responsabilità di risultato si differenzia chiaramente dall’ultima tipologia menzionata, che al contrario presuppone un com-portamento illecito e colposo del soggetto che non rispetta determinate regole giuridiche poste a tutela della propria attività; ciò nonostante, il mancato raggiungimento dei risultati si può avvicinare alla responsabili-tà per inadempimento e, quindi, può – almeno in alcune circostanze – avere risvolti disciplinari.

Per rimediare alla difficoltà riscontrata in passato nell’istituire ade-guati strumenti idonei a verificare e comparare i costi e i rendimenti del-la gestione, con il d.lgs. n. 286/1999 il legislatore ha dettato i principi e la procedura relativi all’attività di valutazione dei dirigenti, prevedendo un quadro organico e razionale delle funzioni di controllo, che si diffe-renziano a seconda delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative delle singole strutture pubbliche. Alla verifica della regolarità ammini-strativa – contabile e delle strategie impiegate si aggiunge un’attività di-retta ad esaminare le prestazioni e le competenze organizzative dei diri-genti, che deve tener conto anche dei risultati del controllo di gestione, in vista del fine unitario di perseguire il miglior grado di efficienza ed eco-nomicità dell’azione amministrativa; per quanto concerne gli aspetti pro-cedurali, dopo aver sancito la periodicità annuale della valutazione, il de-creto menzionato stabilisce che tale attività si svolga in contradditorio at-traverso la partecipazione del dirigente sottoposto a verifica, la quale de-ve essere approvata dall’organo competente o dal valutatore di seconda istanza, che nell’ambito delle strutture statali si identifica con il dirigen-te generale o il capo dipartimento, mentre per le altre amministrazioni viene individuato dagli ordinamenti degli stessi enti.

Nell’eventualità in cui il procedimento di valutazione si concluda con un giudizio finale negativo in merito all’operato del dirigente l’am-ministrazione adotta nei suoi confronti – in base alla gravità della fatti-specie riscontrata – una delle misure sanzionatorie previste dall’art. 21

820

del d.lgs. n. 165/2001; se prima della riforma del 2002 il legislatore di-stingueva tre livelli crescenti di responsabilità, ai quali collegava tre tipi di sanzioni, attualmente, con la scomparsa di ogni riferimento ai risulta-ti negativi dell’attività amministrativa, i presupposti di fatto della respon-sabilità sono ridotti al mancato raggiungimento degli obiettivi e all’inos-servanza delle direttive. L’importanza di quest’ultimo parametro è dimo-strata dalla prassi consolidata rivolta a considerare anche il semplice sco-stamento dalle direttive impartite sufficiente a configurare la violazione dell’obbligo di conformare la propria condotta agli indirizzi ricevuti; nel-la medesima logica, non è difficile cogliere un paradosso se si osserva che il mancato rispetto delle linee guida fornite dal potere politico espo-ne a gravi conseguenze anche il dirigente che abbia raggiunto gli obietti-vi prefissati, laddove l’osservanza delle direttive può essere causa di giu-stificazione del fallimento degli stessi.

Le due fattispecie di responsabilità dirigenziale sono ora equiparate ai fini della sanzione adottabile, che nella misura più lieve consiste nell’impossibilità di rinnovo dell’incarico di cui il manager è titolare; in relazione alla gravità dei casi, poi, l’amministrazione ha la possibilità di procedere alla revoca dello stesso incarico con conseguente collocamen-to a disposizione dei ruoli di cui all’art. 23 del decreto in esame, ovvero di recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni dei contratti collettivi. Alla luce di queste considerazioni, l’apparato sanzionatorio ri-sulta nel complesso meno gravoso ma più discrezionale rispetto alla pre-cedente disciplina, poiché, da una parte, la sanzione minore non è più co-stituita dalla revoca e, dall’altra, l’alternativa fra questa sanzione inter-media ed il licenziamento è lasciata alla libera scelta dell’amministrazio-ne datrice di lavoro. Se è vero che la massima misura sanzionatoria non è più intesa dalla legge come extrema ratio applicabile nelle sole ipotesi più gravi di violazione, tuttavia ancora oggi le differenze riscontrabili ri-spetto all’ambito del lavoro privato sono notevoli, in quanto mentre il manager privato che non raggiunge i risultati prefissati si espone al ri-schio di un atto di recesso intimato dall’imprenditore, nel settore pubbli-co accade più spesso che il dirigente venga assegnato ad un altro incari-co, in conseguenza della revoca di quello precedentemente svolto.

Al termine di questa breve analisi legislativa si rende necessaria una riflessione. Risulta evidente il ruolo della valutazione dei rendimenti di-rigenziali: si tratta di un elemento di sistema da cui dipende il successo e la coerenza delle politiche in materia di dirigenza pubblica. è chiaro che nessun sistema normativo che intenda costituire un’amministrazione davvero efficiente ed un dirigente effettivamente autonomo può permet-tersi di fare a meno di un apparato funzionante di verifica dei risultati. La

821

valutazione della dirigenza, infatti, non è solo in funzione del rendimen-to dell’amministrazione; è innegabile che attraverso le procedure del controllo si circostanzi e delimiti la sfera della discrezionalità ministeria-le nel conferimento e nella revoca degli incarichi dirigenziali. La misura-zione delle performance dirigenziali, pertanto, è – o dovrebbe essere – il presupposto sia dell’assegnazione dell’incarico sia della revoca, collega-ta a risultati negativi della gestione.

La situazione attuale è, tuttavia, sconsolante: come è stato da più parti affermato, l’apparato legale ipotizza “un processo fantasma di cui non esistono se non sporadicamente sperimentazioni pratiche” e, di fron-te a quella che appare quasi una rinuncia delle pubbliche amministrazio-ni (quantomeno statali) alla valutazione dei suoi massimi dipendenti, vie-ne da pensare se in realtà la stessa politica legislativa contenuta nella leg-ge n. 145/2002, che precarizza ulteriormente i rapporti di lavoro dirigen-ziale incidendo sulla loro durata, costituisca una reazione e nello stesso tempo una strategia per ovviare all’ineffettività del sistema della valuta-zione. Detto diversamente, potrebbe evincersi un’implicita volontà sotte-sa ad un sistema che, attraverso incarichi brevi che cessano automatica-mente, prescinde dalla costituzione di strumenti idonei e funzionanti di valutazione dei risultati conseguiti dal dirigente. In questo contesto an-che le nuove norme introdotte dalla legge Frattini in materia di responsa-bilità rischiano di rimanere inapplicate, perché l’attuazione di una strut-tura di valutazione e di controllo della gestione appare particolarmente complessa e, soprattutto, perché di essa non vi è realmente più bisogno.

Per quanto l’attenzione del legislatore che ha prodotto i testi di rifor-ma del lavoro pubblico si sia rivolta in via diretta ed immediata soltanto ai dirigenti delle amministrazioni centrali, ciò non impedisce di declina-re il termine dirigenza non al singolare, ma al plurale, tenendo conto dell’esistenza, delle specifiche caratteristiche e della crescente rilevanza di “corpi” dirigenziali o di soggetti preposti a funzioni di direzione nelle molteplici realtà amministrative diverse dagli apparati statali.

è indubbiamente interessante soffermarsi sulla situazione normativa della dirigenza degli enti territoriali, che dimostra una certa timidezza dei legislatori regionali – con qualche eccezione in favore di un sistema più “manageriale”, ma nello stesso tempo meno “garantista” – nel discipli-nare le proprie dirigenze secondo linee originali rispetto al modello sta-tale. è chiaro che da questa circostanza deriva un’attuazione riduttiva dei principi contenuti nel nuovo Titolo V della Costituzione, quale risultante dalla legge costituzionale di riforma n. 3/2001, che, nel ridefinire l’equi-librio costituzionale fra i diversi livelli di normazione e di governo, ha

822

auspicato il raggiungimento di una maggiore autonomia del regime del-la dirigenza regionale rispetto ai vincoli posti dal d.lgs. n. 165/2001.

L’esigenza di una rivisitazione della precedente disciplina di vari aspetti del rapporto di lavoro del dirigente è stata avvertita più sentita-mente a livello contrattuale ed ha costituito la principale, se non l’unica ed effettiva, ragione alla base dell’atto di indirizzo del Comitato di setto-re, in sede di rinnovo del contratto collettivo del personale con qualifica dirigenziale del Comparto Regioni-autonomie locali, per il quadriennio normativo 2002-2005 e per il biennio economico 2002-2003. Tale richie-sta del Comitato di settore era motivata, in primis, dall’oggettivo “invec-chiamento” progressivo del previgente quadro regolativo della materia, ormai divenuto inidoneo, in termini di efficacia, a dare adeguata risposta alle effettive esigenze gestionali degli enti; secondariamente, si era deter-minato uno stato di disallineamento fra regolamentazione contrattuale e disciplina legislativa, in quanto la norma cardine in materia di responsa-bilità dirigenziale – ossia il già citato art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 – era stata radicalmente modificata dal sopraggiungere delle prescrizioni della legge n. 145/2002, soprattutto con riferimento al delicato profilo degli ef-fetti connessi alla valutazione negativa del dirigente.

Nonostante l’urgenza di risolvere i problemi causati dalla situazione descritta, la sottoscrizione definitiva del CCNL è avvenuta in data 22 feb-braio 2006, vale a dire con oltre quattro anni di ritardo rispetto alla natu-rale scadenza dei precedenti contratti collettivi del Comparto di riferi-mento. Occorre precisare, tuttavia, che non si tratta certo di una “novità” e di una caratteristica peculiare della contrattazione di tale specifica area: anzi, è corretto ritenere che il ritardo – ormai quasi costante – nella suc-cessione temporale fra le discipline contrattuali sta assumendo connotati di evidente patologia all’interno del sistema di relazioni sindacali deline-ato dal legislatore con il decreto del 2001. Un dato è certo: rispetto al complessivo arco temporale di cinquanta mesi la trattativa sindacale in senso stretto ha richiesto un periodo di dieci mesi, pertanto non eccessi-vamente lungo se si considera la delicatezza di una delle materie oggetto di confronto, quale il recesso dall’amministrazione e le altre misure san-zionatorie applicabili nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale; di con-seguenza, si può affermare che il ritardo del rinnovo contrattuale non è dipeso tanto dalle inevitabili lungaggini determinate dalla necessità del Comitato di settore di procedere all’aggiustamento dei contenuti dell’ori-ginale atto di indirizzo, quanto dagli aspetti connessi alla quantificazione e definizione delle risorse da destinare al finanziamento del nuovo con-tratto collettivo.

Per quanto attiene al contenuto di quest’ultimo, una consistente par-

823

te delle innovazioni in materia di rapporto di lavoro del dirigente si in-centra, come già detto, sulla complessa materia della valutazione del me-desimo e degli effetti, sul piano sanzionatorio, dell’eventuale giudizio negativo; è da rilevare in primo luogo che ora, a differenza del passato, il contratto interviene a regolare direttamente e dettagliatamente il com-plesso delle sanzioni irrogabili, prevedendone quattro tipologie, sostan-zialmente corrispondenti a quelle richiamate, in ordine di afflittività cre-scente, dal nuovo testo dell’art. 21 più volte citato. Il contratto collettivo del 10 aprile 1996 si limitava, invece, in una logica di responsabilizzazio-ne e di piena valorizzazione dell’autonomia decisionale degli enti, a de-mandare agli stessi sia la predisposizione di un proprio sistema perma-nente di monitoraggio e di misurazione dei costi, dei rendimenti e dei ri-sultati dell’attività svolta dai dirigenti, sia la regolamentazione di un ade-guato apparato sanzionatorio correlato all’accertamento di un’eventuale responsabilità, del relativo procedimento e degli strumenti di tutela del manager. Di conseguenza gli enti avevano semplicemente il vincolo di attenersi ai principi indicati dall’allora vigente art. 21 del d.lgs. n. 29/1993, oltre a quello di privare della relativa retribuzione di posizione e di risultato il dirigente colpito dalla revoca dell’incarico.

Attualmente, invece, a fronte della piena autonomia riconosciuta al-le Regioni e agli enti locali circa la predisposizione della disciplina del procedimento di accertamento della responsabilità dirigenziale e dei mezzi di tutela del manager, gli enti medesimi conservano uno spazio di discrezionalità soltanto in merito all’individuazione delle fattispecie cui collegare le misure sanzionatorie, in quanto la tipologia delle stesse è dettagliatamente delineata dal contratto collettivo.

Tale accordo negoziale prevede, in primo luogo, una sanzione non avente carattere di generalità sotto il profilo applicativo, dal momento che essa può essere irrogata soltanto nelle ipotesi di conferimento da par-te degli enti di incarichi dirigenziali, con contratto a termine, al proprio personale della categoria D, caratterizzato dal fatto di non aver acquisito stabilmente la qualifica dirigenziale. Pertanto, nei confronti dei dirigenti rientranti nella precisa previsione contrattuale, l’ente, in caso di accerta-mento negativo dei risultati o di mancato raggiungimento degli obiettivi, potrà dare applicazione – in via esclusiva – alla sola specifica misura del-la cessazione dell’incarico, con la conseguente riassegnazione del sog-getto alle funzioni tipiche della categoria D menzionata, in cui era inqua-drato prima del conferimento dell’incarico dirigenziale. Senza dubbio, può suscitare perplessità la circostanza che, per questi dirigenti, sia stata prevista dalle parti negoziali l’unica e severa sanzione della revoca dell’incarico, a prescindere dal grado di responsabilità (e quindi anche se

824

non di grave entità); tuttavia, a favore della scelta del CCNL depone la specialità della condizione che connota tale tipologia di dirigenti. Si trat-ta, infatti, di lavoratori che – come già detto – non hanno una stabile qua-lifica dirigenziale, bensì sono stati ritenuti in possesso di requisiti cultu-rali e professionali, tali da giustificare la stipulazione di un contratto a termine di conferimento dell’incarico. E proprio l’eccezionalità di quest’assegnazione legittima la misura della revoca, potendo intendere l’accertamento di risultati negativi o il mancato raggiungimento degli obiettivi come equivalente al riconoscimento dell’inidoneità dei soggetti stessi a svolgere ulteriormente incarichi dirigenziali, senza contare, inol-tre, che questi particolari dirigenti a termine neppure potrebbero vantare un diritto al conferimento di un altro incarico, come invece avviene per la generalità degli altri manager.

Passando ora ad esaminare le ipotesi di responsabilità dei dirigenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la disciplina contrattuale della dirigenza del Comparto Regioni-autonomie locali ha delineato, in coerenza con quanto previsto dalla legge n. 145/2002, un complesso di misure sanzionatorie graduate secondo un ordine di progressiva e cre-scente entità, nell’ambito del quale l’affidamento al dirigente di un inca-rico con un valore della retribuzione di posizione più basso, rispetto a quello connesso alla funzione precedentemente attribuitagli, rappresenta certamente il livello iniziale. Tale sanzione dovrebbe, perciò, ricollegarsi ai casi nei quali l’accertamento negativo si fondi su elementi di lieve o, comunque, non significativa gravità.

Dalla lettura della clausola contrattuale appare evidente che la por-tata della stessa è simile, ma non identica alla previsione contenuta nel nuovo testo dell’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001, che fa, invece, riferimen-to all’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale per il ma-nager nei cui confronti siano stati accertati il mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero l’inosservanza delle direttive. Nella legge, l’espres-sione “stesso incarico” sembra ipotizzare solo il divieto, in capo alla pub-blica amministrazione, di affidare al dirigente il medesimo e specifico in-carico già rivestito; ciò induce a pensare che la norma in esame consen-tirebbe di assegnare, ugualmente, al soggetto incorso in responsabilità un altro incarico della stessa fascia di retribuzione di posizione di quella dell’incarico precedente.

Alla luce di queste considerazioni, emerge chiaramente la maggiore severità della disciplina contrattuale prevista per gli enti territoriali, che, al duplice fine di rendere la misura più rispondente alle effettive esigen-ze gestionali degli enti stessi e di evitare ogni possibile contenzioso futu-ro in una materia così delicata, legittima l’affidamento al dirigente di un

825

incarico di livello economico anche significativamente inferiore rispetto a quello precedente. Occorre, altresì, notare che per quanto una previsio-ne così rigida possa apparire in contrasto con norme imperative di legge, sotto il profilo del possibile demansionamento del dirigente, in realtà non si rinviene incompatibilità con il dettato legislativo, non trovando appli-cazione relativamente alla materia degli incarichi dirigenziali – ai sensi dell’art. 19, comma 1 del decreto del 2001 – il disposto dell’art. 2103 c.c., che, in generale, tutela la professionalità del lavoratore – sia privato sia pubblico – contro la dequalificazione posta in essere dal datore di la-voro. A tal proposito è necessaria una precisazione: posto che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17095 del 27 agosto 2004, ha avuto modo di affermare che la suddetta disciplina rientra nel regime generale dell’inapplicabilità diretta delle previsioni del capo II del d.lgs. n. 165/2001, in materia di dirigenza, alle amministrazioni diverse dallo Sta-to (per le quali esse si configurano solo come principi), si deve conclude-re che l’esclusione dell’applicazione della garanzia dell’art. 2103 c.c. può ritenersi effettivamente possibile solo nel caso in cui gli enti abbiano recepito nei propri strumenti regolamentari il “principio” in esame.

Resta ancora da evidenziare che il presupposto indispensabile per l’effettiva applicazione delle nuove regole è rappresentato ovviamente dalla disponibilità presso l’ente di un incarico dirigenziale con retribu-zione di posizione inferiore a quella correlata all’incarico oggetto di ac-certamento negativo. Nell’eventualità in cui non sussistesse tale disponi-bilità, si ritiene che l’ente potrebbe, comunque, individuare, e rendere conseguentemente disponibile l’incarico di livello economico inferiore da conferire al dirigente, anche attraverso il ricorso ad un riassetto orga-nizzativo, comportante la rotazione degli altri dirigenti.

Nella scala di progressiva gravità delle nuove misure sanzionatorie si colloca ad un livello intermedio tra quello, di base, dell’affidamento di un diverso incarico dirigenziale con un più basso valore della retribuzione di posizione, e quello massimo rappresentato dal recesso dell’amministra-zione, la sanzione della sospensione del dirigente da ogni incarico. In considerazione dell’esigenza di realizzare una concreta corrispondenza rispetto alla “revoca dell’incarico e conseguente collocamento a disposi-zione dei ruoli” prevista dal vigente art. 21 citato per le amministrazioni statali, il Comitato di settore del Comparto Regioni-autonomie locali ha dovuto procedere all’adeguamento della previsione generale alle caratte-ristiche degli enti territoriali, nei cui confronti non trova applicazione la disciplina dei ruoli. A tal fine, nella formulazione della clausola contrat-tuale la misura intermedia che può colpire il dirigente statale si è tradotta nella sospensione da ogni incarico dirigenziale, irrogabile a carico del

826

manager regionale o locale per una durata massima di due anni, con la precisazione che, entro tale limite, sarà poi l’ente a doverne determinare l’effettiva durata, sulla base dei contenuti dell’accertamento negativo e del relativo giudizio di gravità. Benché durante tutto il periodo di sospen-sione il dirigente si trovi in una situazione di forzata inattività, non poten-do svolgere alcuna prestazione lavorativa, ciò nondimeno ha diritto a per-cepire lo stipendio tabellare, ma non anche la retribuzione di posizione e di risultato, in quanto tali voci retributive sono strettamente connesse all’incarico. Nel medesimo periodo il manager è, inoltre, tenuto ad accet-tare eventuali incarichi dirigenziali proposti sia dall’ente di appartenenza sia da altre pubbliche amministrazioni, con il conseguente diritto a perce-pire nuovamente la retribuzione di posizione e quella di risultato ed è evi-dente che questa previsione è rivolta a soddisfare, in primis, le esigenze organizzative dell’ente e, secondariamente, l’interesse del dirigente, che, attraverso il conferimento di un altro incarico, può evitare gli effetti – de-rivanti dal periodo di sospensione – pregiudizievoli per la sua posizione professionale ed economica. Se è corretto evincere dalla formulazione te-stuale del contratto collettivo un preciso obbligo, in capo al dirigente, di accettare il nuovo incarico eventualmente propostogli, deve dedursi che la mancata accettazione non può configurarsi altrimenti se non in termini di inadempimento contrattuale, come tale sanzionabile anche attraverso la misura della risoluzione del rapporto di lavoro.

Non è neppure esclusa la possibilità per ciascuna delle parti (ente o dirigente) di proporre all’altra la risoluzione consensuale del rapporto, che, al fine di produrre effetti, deve essere poi formalizzata in un preciso accordo; perseguendo una logica di incentivazione del ricorso a tale stru-mento, le parti negoziali hanno stabilito che la misura massima di venti-quattro mensilità dell’indennità supplementare eventualmente erogata dagli enti ai fini della risoluzione – nell’ambito dell’effettiva capacità di spesa dei relativi bilanci – possa essere ulteriormente elevata fino a tren-tasei, calcolate con riferimento non solo allo stipendio tabellare, ma an-che al valore della retribuzione di posizione in precedenza fruita dal diri-gente. Di grande interesse per entrambi i soggetti del rapporto di lavoro – giusta la sua attitudine a valorizzare gli elementi di flessibilità tipici del rapporto stesso – l’accordo per la risoluzione anticipata è effettivamente praticabile solo nel caso in cui la durata della sospensione applicata al di-rigente sia stata fissata nel limite massimo di due anni. La ratio di tale previsione è chiara, se si riflette sulle inevitabili ripercussioni – derivan-ti da una sospensione così lunga – non solo sull’interesse organizzativo dell’ente, chiamato a garantire comunque la funzionalità dell’ufficio di cui era titolare il dirigente, ma anche sulla sfera soggettiva di quest’ulti-

827

mo, poiché la mancata attribuzione di ogni incarico può essere corretta-mente intesa come indizio dell’avvio del deteriorarsi del rapporto fidu-ciario intercorso tra le parti.

Al termine di quest’analisi, è naturale chiedersi che cosa avvenga al-la fine del periodo di sospensione e la risposta a tale interrogativo deve es-sere ricercata nei principi generali in materia di incarichi dirigenziali, in quanto il contratto collettivo non detta alcuna specifica disposizione. Se – come sostenuto da più parti – è vero che “l’affidamento dell’incarico co-stituisce l’oggetto del sinallagma contrattuale in adempimento del quale il dirigente svolge le funzioni di datore di lavoro ed in relazione all’esple-tamento del quale verrà valutato”, si deve concludere che l’ente ha un pre-ciso potere-dovere di conferire ad ogni manager in servizio un incarico tra quelli previsti dall’ordinamento organizzativo dello stesso: che sia di direzione, ispettivo, di consulenza, di studio oppure di ricerca. Ciò pre-messo, non si può negare come sia difficilmente compatibile con i princi-pi costituzionali di buon andamento ed economicità la permanenza nell’amministrazione di dirigenti retribuiti, ma concretamente inerti per-ché privi di incarico. Per non incorrere in una situazione di questo tipo, è pertanto assolutamente opportuno che, una volta decorso il periodo di so-spensione, l’ente affidi al manager un nuovo incarico dirigenziale, non necessariamente del medesimo livello e prestigio di quello di cui era tito-lare prima della sospensione, dato che questa è stata giustificata proprio ed esclusivamente dalla valutazione negativa del dirigente nell’espleta-mento del precedente incarico. E ciò costituisce un’ulteriore esemplifica-zione dell’inapplicabilità, in materia di dirigenza, della generale garanzia, anche retributiva, stabilita dall’art. 2103 c.c. per il caso di mutamento di mansioni del lavoratore disposto unilateralmente dalla parte datoriale.

Ma che cosa accade se alla data di cessazione della sospensione non vi siano incarichi di funzioni dirigenziali disponibili presso l’ente? Nel caso si verifichi una simile circostanza, si ritiene che l’ente debba indivi-duare l’incarico – anche inferiore – da conferire persino mediante il ri-corso ad un riassetto organizzativo, non potendo invece opporre al diri-gente la mancanza di incarichi disponibili a tale momento, per sottrarsi al conferimento allo stesso di nuove funzioni dirigenziali. Il comportamen-to dell’ente che rifiutasse l’incarico al dirigente potrebbe, infatti, essere considerato illegittimo in sede di eventuale contenzioso giudiziario, in quanto ritenuto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede nell’applicazione delle clausole contrattuali; il giudice potrebbe, quindi, convincersi che il datore di lavoro abbia utilizzato la disciplina della so-spensione per una finalità diversa rispetto a quella di semplice sanzione

828

di una valutazione negativa, traducendo così la misura in esame in una sorta di anticamera del licenziamento.

A proposito di questa massima sanzione, è interessante ricostruire l’evoluzione della disciplina contrattuale in materia per l’area dirigenzia-le del Comparto Regioni-autonomie locali; una specifica regolamenta-zione, anche sotto il profilo procedurale, del recesso dell’ente dal rappor-to di lavoro con il dirigente fu dapprima introdotta nel CCNL del 10 apri-le 1996, che, oltre a prevedere il licenziamento con o senza preavviso co-me unica misura disciplinare irrogabile in relazione a comportamenti dei manager integranti forme di inadempimento contrattuale, aveva preso, altresì, in considerazione l’ipotesi della responsabilità dirigenziale parti-colarmente grave e reiterata, priva di un rilievo intrinsecamente discipli-nare.

Sulla base del generico rinvio al codice civile disposto, nei confron-ti dei dirigenti, dall’allora vigente art. 20, comma 9 del d.lgs. n. 29/1993, le parti negoziali avevano ricondotto l’ipotesi suddetta di responsabilità – accertata nel rispetto delle procedure legali e contrattuali di valutazio-ne – alla fattispecie di licenziamento per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., piuttosto che al recesso ad nutum dell’art. 2118 c.c. Già il de-creto che ha dato avvio alla riforma di privatizzazione del pubblico im-piego negava, infatti, all’amministrazione la possibilità di procedere al li-cenziamento del dirigente anche quando costui avesse fallito ripetuta-mente il raggiungimento degli obiettivi assegnatigli, o, addirittura, aves-se violato gravemente le direttive impartitegli. In un simile contesto non poteva certamente postularsi l’esistenza in capo al datore di lavoro pub-blico di un generale potere di recedere liberamente da tali rapporti di la-voro: se la parte datoriale non poteva procedere al licenziamento nell’eventualità in cui il dirigente si fosse dimostrato ripetutamente inca-pace o avesse violato le direttive, a maggior ragione non avrebbe potuto licenziarlo senza alcuna giustificazione. Diversamente opinando, gli in-terpreti sarebbero stati costretti a concludere in maniera bizzarra che il dirigente che avesse operato bene avrebbe potuto essere licenziato, men-tre quello incorso in ripetute violazioni negative o in inosservanza delle direttive avrebbe rischiato solamente l’esclusione da nuovi conferimenti di incarichi per un periodo di tempo limitato.

Per quanto il contratto collettivo del 1996 si fosse mosso sostanzial-mente nell’alveo del d.lgs. n. 29/1993, tuttavia aveva inciso sullo stesso, modificando in qualche modo la configurazione della fattispecie di re-sponsabilità dirigenziale suscettibile di dare luogo al recesso dell’ente da questo prevista. Se l’art. 20 menzionato parlava di “responsabilità parti-colarmente grave o reiterata”, dove la congiunzione “o” indicava due di-

829

verse e distinte ipotesi che, conseguentemente, potevano essere valutate anche singolarmente e disgiuntamente ai fini dell’eventuale risoluzione del rapporto di lavoro, al contrario nella disciplina contrattuale la fatti-specie legittimante il recesso era stata individuata, come si è visto, nella “responsabilità particolarmente grave e reiterata”. Ciò stava a significare che, ai fini del recesso nei confronti del dirigente regionale o locale, si ri-chiedeva che i due aspetti fossero necessariamente presenti nello stesso momento, escludendo ogni possibilità di una loro valutazione disgiunta; in sostanza, l’accertamento di una forma di responsabilità dirigenziale, anche se di eccezionale gravità, da sola non giustificava il licenziamento, in mancanza dell’ulteriore requisito della reiterazione.

Rimasta praticamente invariata anche dopo l’emanazione dei decre-ti legislativi attuativi della legge n. 59/1997, la disciplina del recesso dell’ente connesso all’accertamento della sussistenza di ipotesi di re-sponsabilità dirigenziale ha subito, per effetto del CCNL di area dirigen-ziale del Comparto di riferimento del 22 febbraio 2006, rilevanti innova-zioni, che trovano il loro principale fondamento nel sopraggiunto muta-mento del quadro legale e, soprattutto, per l’entrata in vigore della legge n. 145/2002. Se si considera, infatti, la volontà del legislatore di circo-scrivere la responsabilità di risultato a due soli comportamenti persegui-bili del dirigente, emerge chiaramente l’interesse ad una piena corrispon-denza fra quanto chiesto dall’organo politico e le risposte offerte dalla di-rigenza tecnica, mentre passano in secondo piano la gestione e l’attività concretamente poste in essere dal soggetto. Alla luce di questa premessa, si può comprendere l’urgenza espressa dal Comitato di settore di rivisi-tare la precedente disciplina contrattuale in materia di recesso, in modo tale che la nuova regolamentazione – in linea con le novità apportate al testo dell’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 – sia maggiormente orientata a creare una dirigenza davvero capace di fornire un’adeguata soddisfazio-ne in chiave gestionale alle scelte operate a livello strategico. Indubbia-mente l’interesse organizzativo e funzionale degli enti è prioritario, ma deve necessariamente bilanciarsi con le esigenze di tutela della posizio-ne lavorativa del dirigente, al fine di evitare ogni forma di abuso o di uti-lizzo improprio del recesso per responsabilità dirigenziale; è innegabile che la sede ideale per realizzare queste mediazioni sia il contratto collet-tivo, dalla lettura del quale – in sede di rinnovo – rileva un’importante in-novazione, rappresentata dal fatto che, ai fini del recesso per giusta cau-sa, richiede solo l’accertamento di una “responsabilità particolarmente grave”. Sebbene la circostanza del venir meno del precedente requisito della “reiterazione” determini un evidente arretramento del livello di tu-tela prima garantito al dirigente regionale o locale, è pur vero che esso

830

viene contemperato nell’ambito delle nuove regole dalla garanzia di una più precisa e puntuale specificazione del parametro della “gravità” della responsabilità. La disciplina contrattuale, infatti, fa un esplicito riferi-mento sia al mancato raggiungimento di obiettivi formalmente assegnati al dirigente ed individuati nei documenti di programmazione come parti-colarmente rilevanti per il conseguimento dei fini istituzionali dell’ente, sia all’inosservanza delle direttive generali per l’attività amministrativa e la gestione – formalmente comunicate al manager – che siano state espressamente qualificate di notevole interesse per la struttura stessa.

A fronte dell’ampia discrezionalità riconosciuta al datore di lavoro pubblico nel precedente assetto sia legale che contrattuale, attualmente l’ente si trova vincolato a specificare gli obiettivi ed i contenuti delle di-rettive di rilevante interesse, così da essere in grado di portare a cono-scenza del dirigente – in modo completo – i comportamenti che saranno prioritariamente valutati, per stabilire se ricorra un’ipotesi legittimante il licenziamento per giusta causa.

Fin qui si è parlato delle diverse sanzioni che possono colpire il diri-gente nell’eventualità in cui sia accertata la c.d. responsabilità di risulta-to. Ma che dire del procedimento che sfocia nell’irrogazione di tali misu-re? Come recita l’art. 22 del d.lgs. n. 165/2001, esso è caratterizzato dall’intervento necessario del Comitato dei garanti, che si configura co-me un organo imparziale ed esterno alle amministrazioni, in origine cre-ato dal legislatore per controllare le decisioni del datore di lavoro pubbli-co in materia di recesso; l’esigenza era sorta in conseguenza dell’esten-sione al settore pubblico delle norme sul lavoro contenute nel codice ci-vile e nelle leggi speciali, ed in particolare dell’art. 10 della legge n. 604/1966, che esclude espressamente la categoria dirigenziale dall’appli-cazione delle restrizioni alla libertà di recesso. è chiaro che il rapporto lavorativo con il dirigente pubblico avrebbe dovuto perdere la tradiziona-le stabilità di cui aveva sempre goduto in passato, ma il tentativo di omo-geneizzazione al lavoro privato ha trovato un ostacolo nell’art. 21 del de-creto del 2001, che non ammette la recedibilità ad nutum, prevedendo che la valutazione dell’idoneità professionale del manager sia affidata a criteri e procedure di carattere oggettivo – assistite da un’ampia pubbli-cità e dalla garanzia del contradditorio – a conclusione delle quali soltan-to può essere esercitato il recesso. In seguito alla restrizione di tale pote-re ai soli casi più gravi di mancato raggiungimento degli obiettivi asse-gnati o di inosservanza delle direttive, il ruolo del Comitato dei garanti avrebbe dovuto logicamente indebolirsi, al contrario la riforma del 2002 ne ha rafforzato l’attività, estendendo la sua valutazione all’adozione di tutti i possibili provvedimenti sanzionatori.

831

Per ciò che attiene alla modalità di costituzione e di funzionamento del Comitati, è opportuno ricordare che la disciplina legale non trova di-retta ed automatica applicazione presso le amministrazioni non statali. A livello regionale e locale già la precedente regolamentazione contrattua-le, in conformità al principio della piena responsabilizzazione degli enti, aveva affidato agli stessi il compito di istituire l’organo in esame; spetta-va, perciò, alle Regioni ed agli enti locali la definizione della composi-zione e delle modalità di funzionamento del Comitato, assicurando in ogni modo la partecipazione di un rappresentante dei dirigenti dell’ente, la cui presenza nell’organo di controllo non riceve – ancora oggi – molti consensi, in quanto costituisce all’interno del rapporto di lavoro un evi-dente indebolimento della necessaria distinzione dei ruoli fra ente dato-riale pubblico e lavoratore, che la riforma di privatizzazione ha invece in-teso affermare.

Non potendosi negare l’eccessivo dispendio dei costi derivanti dalla costituzione dei Comitati, soprattutto per gli enti nei quali, di fatto, l’or-gano interviene raramente dato il numero ridotto di dirigenti, la nuova di-sciplina contrattuale ribadisce la possibilità del ricorso a forme di con-venzione tra più enti, in modo tale da agevolarne la creazione. Sotto il profilo contenutistico, il CCNL del 22 febbraio 2006 risulta pienamente conforme al dettato legislativo, dato che subordina l’irrogazione della sanzione ad un previo parere conforme del Comitato, che deve essere re-so entro trenta giorni dalla richiesta, con la precisazione che qualora non sia rispettato il suddetto termine l’ente può prescindere da esso. Ciò no-nostante, sono ora individuati esattamente i casi di possibile ricorso all’organo di controllo, e si identificano con i provvedimenti sanzionato-ri previsti per la responsabilità dirigenziale, ad eccezione della sola mi-sura della riassegnazione alle funzioni della categoria di provenienza del personale interno, al quale sia stato eventualmente conferito un incarico dirigenziale con contratto a termine. La ragione di tale esclusione è piut-tosto evidente e – ancora una volta – risiede nella specialità della condi-zione che caratterizza questa tipologia di dirigenti, non aventi una stabi-le qualifica dirigenziale.

Un ulteriore elemento di novità, di carattere sostanziale, è rappre-sentato dal riconoscimento di una nuova forma di tutela per la posizione del dirigente nell’ambito della complessiva procedura di intervento del Comitato dei garanti; viene, infatti, stabilito che, qualora il dirigente pre-senti una espressa e formale richiesta di audizione entro il termine previ-sto per l’emanazione del parere, l’organo ha il dovere di ascoltarlo, even-tualmente anche con l’assistenza di una persona di fiducia. Alla luce di questa previsione, è evidente che la richiesta dovrà essere formulata con

832

sollecitudine, in tempo utile, tenendo conto della circostanza che il ter-mine di trenta giorni è un termine massimo e nulla esclude che il Comi-tato possa pronunciarsi anche prima della scadenza dello stesso, senza at-tendere l’eventuale istanza di audizione.

Dal campo di applicazione della responsabilità dirigenziale e, di conseguenza, dal potere di controllo del Comitato, esulano quelle altre e diverse forme di recesso dell’amministrazione, che rappresentano le uni-che modalità di estrinsecazione del potere disciplinare del datore di lavo-ro pubblico nei confronti del dirigente. In questa materia, il CCNL di area dirigenziale del Comparto Regioni-autonomie locali non ha appor-tato alcuna modifica alla disciplina precedente, che continua, perciò, a trovare applicazione in tutti i casi di licenziamento del manager per mo-tivi soggettivi, fondati su un notevole inadempimento contrattuale in gra-do di incidere sul rapporto fiduciario tra le parti. Poiché la contrattazione collettiva non ha in alcun modo individuato le fattispecie di inadempi-mento riconducibili all’una o all’altra tipologia di recesso, è il singolo ente, nell’esercizio dei suoi poteri datoriali, che vanta – in relazione al singolo comportamento o alla singola situazione – la sussistenza o meno di un fatto tale da giustificare il recesso e se la gravità dello stesso possa configurare un licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa.

Sulla premessa per cui, in entrambe le ipotesi, il recesso deve essere comunque motivato e può essere irrogato solo a seguito della specifica procedura, con obbligo del contradditorio, si è fondata, senza dubbio, la recente sentenza n. 7880/2007 delle Sezioni unite di Cassazione, che ha riconosciuto nel mancato esercizio di un pieno diritto di difesa una lesio-ne della posizione dei dirigenti, talmente grave da compromettere la loro futura collocazione nel mercato del lavoro.

La Suprema Corte ha, pertanto, affermato che, sia nel caso in cui il datore di lavoro addebiti al manager una condotta negligente, sia se a ba-se del recesso ponga un comportamento suscettibile di far venir meno la fiducia, devono applicarsi le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7 stat. lav., a pena dell’illegittimità del licenziamento intimato in violazio-ne di esse. Non vi sono, infatti, valide ragioni per escludere dalla proce-dura suddetta la classe dirigenziale, data l’indubbia incidenza sulla sfera morale e professionale di qualsiasi lavoratore di un recesso disposto per motivi disciplinari.

Del licenziamento del dirigente non rispettoso del previo contraddi-torio si è a lungo dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, focalizzando l’attenzione soprattutto sul regime sanzionatorio applicabile in conse-guenza di esso, a seconda che il recesso in esame avvenga nel settore pubblico o nell’ambito di un’azienda privata. Di recente la Cassazione

833

con la sentenza n. 2233/2007, ha sciolto l’interrogativo in modo poco co-erente con la generale direttrice dell’unificazione normativa tra dirigen-za pubblica e privata, sostenendo che la tutela reale ex art. 18 stat. lav. de-ve applicarsi anche ai dirigenti pubblici, al pari degli impiegati non aven-ti qualifica dirigenziale del settore privato; si respinge, perciò, l’opposta tesi, che, muovendo dal presupposto che le conseguenze di carattere rein-tegratorio operino solo con riguardo ai licenziamenti in violazione della legge n. 604/1966, esclude dalla tutela prevista dallo Statuto dei lavora-tori il recesso dei dirigenti pubblici, in quanto regolato dall’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001. Ed è ancora una volta questa disposizione il nodo cru-ciale in materia, poiché la previsione di tre diverse e specifiche sanzioni connesse alla responsabilità dirigenziale pubblica impedisce l’applicabi-lità del regime di libera recedibilità, peculiare, invece, del lavoro dirigen-ziale privato.

Ripercorrendo l’iter decisionale dei giudici della Suprema Corte, emerge con chiarezza la loro convinzione che la disciplina della dirigen-za privata non sia sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica, sul presupposto che nel settore delle pubbliche amministrazioni esiste una scissione – ignota al diritto privato – fra l’acquisto della qualifica di diri-gente (con rapporto di lavoro a tempo indeterminato) ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali a tempo.

Sebbene in entrambi i contesti (pubblico e privato) il rapporto che lega il dirigente al vertice – politico o imprenditoriale – sia caratterizza-to da un comune connotato fiduciario, tuttavia il licenziamento illegitti-mo incide in maniera differenziata su una struttura pubblica rispetto ad un’azienda privata. Nelle amministrazioni pubbliche le disfunzionalità da esso provocate comportano, senza dubbio, la violazione dei principi di imparzialità e di buon andamento che circoscrivono la libertà gestio-nale dell’ente datoriale, nel senso che l’amministrazione si limita a va-lutare in termini oggettivi l’idoneità tecnica del dirigente, in relazione all’incarico cui è destinato ed in funzione degli obiettivi, dei programmi e degli indirizzi determinati dagli organi politici. Questo aspetto, che impedisce di qualificare il dirigente come un alter ego della struttura pubblica, costituisce la ragione per cui l’illegittimità del recesso lo ren-de inidoneo a demolire il rapporto di fiducia, con l’ovvia conseguenza della reviviscenza di quel rapporto a seguito dell’annullamento del li-cenziamento.

Al contrario, nelle imprese private si realizza una consonanza sog-gettiva fra imprenditore e dirigente, giacché il primo, nell’esercizio della libertà economica ed organizzativa che la Costituzione gli garantisce, può valutare dal punto di vista soggettivo la persona del dirigente, tenen-

834

do conto delle esigenze gestionali che egli stesso assegna all’impresa. Da ciò discende che l’illegittimità del licenziamento comporta l’interruzio-ne del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dirigente, che non riesce ad essere ripristinato nemmeno dopo l’eventuale annullamento del reces-so datoriale.

Nonostante quanto fin qui considerato, la soluzione giurisprudenzia-le che propende per la reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente pubblico non è affatto scontata e dovrebbe riconoscersi il dovuto peso al fatto che i contratti collettivi di area dirigenziale, sin dall’inizio, sono sta-ti stipulati sul presupposto che alla dirigenza pubblica in linea di princi-pio non trova applicazione la reintegrazione. In effetti una ricostruzione abbastanza lineare della riforma, considerata nella sua evoluzione, porta ad applicare alla dirigenza pubblica la legislazione generale in materia di dirigenza privata, che non prevede l’applicazione dell’art. 18 stat. lav., salvo che non si sia in presenza di un licenziamento discriminatorio. Al ri-guardo vi è da considerare che l’amministrazione che licenziasse un diri-gente non seguendo un procedimento trasparente ed oggettivo, si espor-rebbe ad un’azione giudiziaria per licenziamento discriminatorio. Sotto questo profilo non v’è dubbio che la disciplina di stampo privatistico ha in sé adeguati anticorpi per l’eventualità che il licenziamento del dirigen-te venga disposto per ragioni di discriminazione, soprattutto se politiche.

è vero però che, sin dall’inizio, il legislatore non ha mai dichiarato apertamente e lucidamente la preferenza per questo quadro legislativo; una tale scelta sarebbe quanto mai opportuna, magari anche accompa-gnando il chiarimento con una tutela rafforzata del dirigente pubblico li-cenziato per ragioni discriminatorie soprattutto di tipo politico, che val-ga ad alleggerire l’onere probatorio e circondare l’ordine di reintegrazio-ne di una particolare cogenza, scoraggiando così ulteriormente l’uso in-timidatorio o ultroneo dell’istituto.

835

PIETRO ICHINOProfessore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università

degli Studi di Milano

SUPERARE L’IRRESPONSABILITÀ DIFFUSANELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE:

CONCORRENZA E CONTROLLO

sommario: 1. Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90? – 2. L’opzione exit: introdurre nel rapporto fra utenti e amministrazioni pubbliche meccanismi di mer-cato, dove questi possono funzionare. – 3. L’opzione voice e il “tesoro nascosto” del ci-vic auditing. – 4. Perché (e come) una authority per la garanzia della trasparenza e del-la valutabilità delle amministrazioni pubbliche. – 5. Perché il sindacato confederale non può defilarsi.

1. Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90?

Che cosa non ha funzionato nelle riforme degli anni ’90 della nostra amministrazione pubblica, promosse dai ministri dell’epoca Sabino Cas-sese e Franco Bassanini?

Quando, nel 1993, si è esteso quasi interamente il diritto del lavoro privato al rapporto di impiego pubblico, l’idea da cui muoveva il legisla-tore era che il netto divario di efficienza tra i due settori fosse dovuto, per un verso, a un difetto di distinzione e separazione tra responsabilità di in-dirizzo politico e responsabilità di gestione, per altro verso a una discipli-na che configurava il rapporto di impiego come rapporto autoritativo, di natura pubblicistica, sottoposto a controlli ex ante di legittimità formale degli atti, i quali prevalevano nettamente sui controlli di produttività ex post. Si è dunque definita meglio la distinzione tra indirizzo politico e re-sponsabilità di gestione e si è sancita la natura contrattuale del rapporto, attivando l’autonomia negoziale delle parti sul piano collettivo come su quello individuale, così dando maggiori poteri e discrezionalità alla diri-genza pubblica e alla coalizione sindacale. Si è sancita esplicitamente la responsabilità dei dirigenti per il raggiungimento degli obbiettivi fissati dal potere politico, e si è affidato a quest’ultimo il compito di controlla-re che tali obbiettivi venissero effettivamente conseguiti.

La disciplina del rapporto di lavoro pubblico è stata così parificata quasi del tutto rispetto a quella vigente nelle aziende private. Non si è, però, tenuto adeguatamente conto del fatto che nel settore pubblico man-ca per lo più la “molla” potentissima che muove il dirigente privato a

836

esercitare le proprie prerogative: la concorrenza tra operatori diversi, che fa scattare la dura sanzione del mercato contro l’inefficienza; una “mol-la” che il potere politico, per sua natura, non è capace di sostituire con l’esercizio di un controllo rigoroso e imparziale.

Nel mercato l’utente/cliente/consumatore sanziona l’inefficienza ri-volgendosi altrove: egli esercita così quella che Albert O. Hirschman chiama l’opzione exit. Alternativa a questa è la possibilità di farsi senti-re, denunciare le inefficienze, interloquire nelle scelte: l’opzione voice (che nel paradigma hirschmaniano può essere favorita dall’attaccamento all’istituzione/organizzazione – loyalty – e può consentire a quest’ultima di individuare più rapidamente ed efficacemente i difetti di funzionamen-to). Il problema fondamentale della nostra amministrazione pubblica sta nel fatto che in essa al cittadino non si dà né l’una opzione né l’altra: né exit, né voice. La voice contro l’inefficienza dovrebbe essere esercitata dalla cittadinanza attraverso i propri rappresentanti politici; ma questi tendono a interferire con l’amministrazione per fini del tutto diversi da quelli del miglioramento della sua efficienza.

Non ci si può stupire, dunque, che ne risulti un gravissimo difetto di stimoli al miglioramento dell’efficienza dell’amministrazione stessa. Si sono dati al management pubblico gli stessi poteri, la stessa discreziona-lità, di cui dispone il management delle imprese private, ma in un conte-sto in cui – nella maggior parte dei casi – il cattivo o mancato esercizio degli stessi non è sanzionato né dal mercato, né dal controllo del cittadi-no-utente, strutturalmente mal rappresentato in questa funzione dal pote-re politico.

2. L’opzione exit: introdurre nel rapporto fra utenti e amministrazioni pubbliche meccanismi di mercato, dove questi possono funzionare

Quando la libertà di scelta dell’utente sia effettiva, cioè siano garan-tite concorrenza aperta tra operatori e simmetria di informazione, l’op-zione exit costituisce una grande garanzia di equità e di benessere per l’utente medesimo. Dovunque sia possibile offrire al cittadino questa op-zione, in un settore dei servizi pubblici, e collegare ad essa il flusso del-le risorse, questo consente di attivare uno stimolo assai efficace nei con-fronti della dirigenza di quel settore (anche se – avverte ancora Hirsch-man – questo sistema può presentare il difetto di privare il management della denuncia tempestiva del difetto di funzionamento da parte dell’uten-te, per il quale l’opzione exit può essere sovente più comoda e vantaggio-sa rispetto all’opzione voice; questo può portare al collasso e alla sostitu-

837

zione della struttura inefficiente, invece che al suo risanamento; tornere-mo sul punto fra breve).

Una libertà di scelta effettiva oggi è offerta all’utente, in qualche mi-sura, nel settore dell’istruzione e in quello della sanità; ma potrebbe es-sere offerta anche altrove, e anche in modo assai più esteso e incisivo. Se, per esempio, il finanziamento pubblico delle scuole e delle università av-venisse interamente attraverso il sistema dei vouchers (previa abolizione del valore legale dei titoli di studio), gli istituti e gli atenei dove si scel-gono male i professori, o comunque dove si insegna poco e male, sareb-bero costretti a chiudere; e se, nell’istituire quel sistema, si attribuisse ai rettori e ai presidi una piena discrezionalità nella selezione e nella gestio-ne delle risorse, allora li vedremmo assai più e meglio mobilitati di quan-to non siano oggi per scegliere i professori migliori, per stanare quelli inerti dalle loro nicchie; li vedremmo attivarsi dove possibile per sanzio-nare gli assenteisti e allontanare gli incompetenti, per spostare le perso-ne di cui dispongono dove esse sono più utili e non dove fa più comodo alle persone stesse.

Nel rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini si possono in-trodurre anche altri meccanismi di mercato che diano agli utenti, almeno in parte, un’opzione exit: per esempio, si può mettere gli sportelli di uno stesso servizio (anagrafe comunale, rinnovo della patente di guida, rinno-vo del passaporto, ecc.) in concorrenza tra loro, attribuendo un premio agli addetti allo sportello che riesce ad attirare più utenti o a dimostrarsi comunque più efficiente: qualche cosa di questo genere è previsto nella recentissima legge regionale lombarda sui servizi al mercato del lavoro (n. 22/2006, particolarmente articoli 16-17), emanata con un voto sostan-zialmente bi-partisan nel settembre scorso.

3. L’opzione voice e il “tesoro nascosto” del civic auditing

In molti settori dell’amministrazione pubblica, però, i meccanismi lato sensu “di mercato” del tipo di quelli menzionati nel paragrafo prece-dente non si possono introdurre. Per esempio, se un corpo municipale di vigili urbani funziona male, non si può consentire ai cittadini di avvaler-si di un altro corpo di vigilanza concorrente, o premiare con un maggio-re flusso di risorse un servizio alternativo. Si è anche visto, d’altra parte, come possa persino sostenersi, almeno in certi casi, la preferibilità dei meccanismi di voice rispetto ai meccanismi di exit, per la più rapida in-dividuazione dei difetti di funzionamento di un’amministrazione e la pre-venzione del suo deterioramento e del suo collasso.

838

Dare voce al cittadino-utente presuppone, innanzitutto, che egli sia compiutamente informato; questo richiede che le amministrazioni stes-se siano dotate di organi deputati a raccogliere ed elaborare tutti i dati ri-levanti, a valutarli, a farlo in piena indipendenza dal management che deve esserne valutato; e a farlo in modo trasparente, consentendo la pie-na accessibilità dei dati per chiunque vi sia interessato. Il panorama in-ternazionale ci offre su questo terreno molte esperienze di grande inte-resse: ad esempio nel settore scolastico, in quello della formazione pro-fessionale, in quello dei servizi nel mercato del lavoro, dove da decenni ormai vengono sperimentati e affinati metodi e tecniche di rilevazione degli indici di efficienza ed efficacia dei servizi, ovviamente diversi da settore a settore.

Un’esperienza di grande interesse, in questo campo, è costituita dall’Internet-based Reputation System: un sistema di rilevazione ed ela-borazione in tempo reale delle valutazioni degli utenti sulla qualità del servizio ricevuto, con immediata pubblicazione in rete delle valutazioni stesse, che diventano in questo modo una preziosa fonte di informazione per i nuovi utenti (e orientamento nella scelta, quando questa è loro con-sentita), ma anche per i dirigenti del comparto.

Un altro aspetto molto interessante di queste esperienze è la combi-nazione tra autovalutazione dell’amministrazione, che si esprime solita-mente nella pubblicazione di un annual report, e confronto con la valu-tazione dall’esterno, espressa spontaneamente dalla cittadinanza attra-verso i propri osservatori qualificati, secondo il metodo della public re-view.

Dove le associazioni degli utenti, i giornalisti specializzati, i centri di ricerca, dispongono dei dati necessari, essi sono capaci di controllare l’efficienza e produttività delle strutture pubbliche talora persino meglio di quanto ne siano capaci le strutture stesse. Questa capacità costituisce una risorsa preziosa, un grande “tesoro nascosto” che può essere attivato e utilizzato dalle amministrazioni pubbliche a costo zero: basta imporre il principio della totale accessibilità dei dati. L’introduzione di questo principio può avere un impatto positivo persino superiore rispetto all’isti-tuzione degli organi interni di valutazione, che pure sono indispensabili.

Di questa pratica del civil auditing non abbiamo soltanto alcuni esempi importanti nei Paesi del Nord-Europa, ma anche qualche primo esempio in casa nostra: si pensi, in particolare, all’esperienza che stanno svolgendo associazioni come Cittadinanzattiva e alcune altre nel settore sanitario, o in quello scolastico. Proprio alla valorizzazione di questo “te-soro nascosto” mira la legge emanata recentemente negli Usa, il Federal Funding Accountability and Transparency Act 2006, che obbliga chiun-

839

que operi con finanziamenti federali a porre in rete, a piena e immediata disposizione del pubblico, tutti i dati relativi alla propria attività.

Introdurre questo principio anche nel nostro sistema potrebbe avere un effetto tonificante straordinario. Immaginiamo, per esempio, che in una grande città – come Milano o Napoli – venga garantita la totale dispo-nibilità, per chiunque vi sia interessato, dei dati analitici sul funzionamen-to del servizio di vigilanza urbana: le retribuzioni degli agenti, gli orari di lavoro, le mansioni effettive, le assenze e i motivi che le giustificano, quanti si occupano del commercio, quanti del traffico, quante contravven-zioni ciascuno di questi ultimi ha verbalizzato, quante e quali sanzioni di-sciplinari sono state irrogate, per quali mancanze, e così via. Immaginia-mo poi che, applicandosi il metodo della public review, una volta all’an-no l’organo di controllo comunale sia tenuto a confrontare in un dibattito pubblico le proprie valutazioni con quelle espresse dalla società civile, at-traverso gli osservatori qualificati di cui si è detto sopra. Solo allora si in-comincerebbe a scoprire e a misurare con precisione, per esempio, di quanto l’impegno di alcuni vigili sia maggiore dell’impegno di altri, di quanto il tasso di assenteismo e quello dei vigili imboscati negli uffici sia superiore a quelli che si registrano nelle altre città europee, se e quanto le promozioni siano in rapporto con il merito effettivo, quanto più raro sia vedere un vigile in un quartiere periferico della città rispetto al centro, quanto sia difficile ottenere l’intervento di un vigile in piena notte, quan-to e quando sia esercitato effettivamente il potere disciplinare, quale sia il tasso di soddisfazione della cittadinanza per il servizio e tanti altri dati importanti ancora. E a quel punto anche gli obbiettivi di miglioramento del servizio, invece che essere negoziati tra potere politico e management nel chiuso di un ufficio, potrebbero essere discussi pubblicamente e deci-si dall’autorità politica sotto il controllo effettivo della cittadinanza.

Oggi i nostri ricercatori possono accedere a tutti i dati relativi alle amministrazioni della California o della Svezia, ma non a quelli relativi alle amministrazioni italiane, che si tratti della vigilanza urbana o della giustizia, di personale sanitario o di professori. Da noi vige di fatto il principio esattamente contrario a quello della trasparenza; la prassi (giu-ridicamente infondata) è quella del segreto. Questo viene sovente giusti-ficato con la protezione della privacy degli addetti al servizio; ma il prin-cipio della privacy – cioè della protezione della vita privata delle perso-ne – qui non c’entra per nulla: il riserbo con cui si occultano i dati anali-tici sul funzionamento delle nostre amministrazioni risponde semmai all’antico principio di inaccessibilità degli arcana imperii, che da sempre protegge i poteri autoritari, i sovrani assoluti. Oggi da noi esso protegge le posizioni di rendita diffusamente annidate nelle pieghe del pubblico

840

impiego, a cominciare da quelle dei dirigenti negligenti o inetti. In un re-gime veramente democratico, invece, dell’attività del civil servant, so-prattutto dove non operino meccanismi di mercato, deve potersi conosce-re tutto.

4. Perché (e come) una authority per la garanzia della trasparenza e del-la valutabilità delle amministrazioni pubbliche

Attivare la capacità di autovalutazione da parte delle amministrazio-ni pubbliche, garantire la trasparenza di tale valutazione e stimolare il pieno coinvolgimento della cittadinanza nel controllo sono i cardini del progetto di legge per l’istituzione di una Autorità indipendente per il pub-blico impiego, che è stato presentato nel dicembre scorso alla Camera e al Senato da parlamentari di maggioranza e di opposizione (lo si può leg-gere nel sito www.lavoce.info) ed è stato ripresentato, con alcune notevo-li integrazioni, dal Gruppo dei senatori del Pd al Senato nel giugno 2008 (d.d.l. n. 746/2008).

L’istituenda Autorità indipendente, secondo questo progetto, deve essere molto snella e poco costosa per lo Stato (essendo costituita quasi interamente con risorse provenienti da altri organismi centrali che vengo-no contestualmente sciolti): i compiti che il progetto si propone di asse-gnarle non sono, infatti, di valutazione diretta, “dall’alto” o “dall’ester-no”, bensì compiti – per così dire – di secondo grado o di “meta-valuta-zione”. In particolare, le si chiede di:

– sollecitare e controllare la costituzione, in ogni comparto ammi-nistativo e in ogni centro di servizi, dei nuclei di valutazione già previsti dalla “legge Bassanini” n. 286/1999 (nella maggior par-te dei casi a tutt’oggi disapplicata per questo aspetto): questo per stimolare la capacità di auto-valutazione delle amministra-zioni e non, di regola, per sovrapporre una valutazione esterna a quella che ciascuna amministrazione è in grado di produrre sul-la propria performance;

– garantire l’indipendenza dei nuclei di valutazione dal manage-ment che deve esserne controllato (è questo un aspetto che nel-la legge del 1999 è stato trascurato);

– garantire la trasparenza dell’operato dei nuclei di valutazione e l’accessibilità totale dei dati di cui essi dispongono, anche pri-ma che essi vengano elaborati (garanzia nella quale rientra an-che l’arbitrato tra il cittadino che chiede i dati e l’ufficio che op-pone il segreto, o fa difficoltà, o li dà in modo reticente);

841

– garantire il confronto pubblico periodico tra valutazione interna e valutazioni esterne, secondo il metodo della public review;

– diffondere benchmark, tecniche, esperienze straniere e nuove metodologie di valutazione;

– solo in via sussidiaria ed eccezionale, intervenire con la propria valutazione in sovrapposizione rispetto al nucleo di valutazione interno carente o inefficiente, o a sostegno dello stesso, per raffor-zare le misure tese a correggere la disfunzione amministrativa.

Un’Autorità indipendente può diventare il punto di riferimento per una società civile cui si chiede di attivarsi nell’opera di valutazione paral-lela e concorrente con quella di autovalutazione svolta dalle singole am-ministrazioni. “Concorrenza” assai utile, perché è importantissimo che intelligenze, tecniche e ottiche differenti di valutazione si attivino e si confrontino apertamente su questo terreno.

Dovunque non sia possibile attivare meccanismi di mercato nell’am-ministrazione pubblica – e con essi garantire agli utenti l’opzione exit contro l’amministrazione inefficiente – è essenziale che sia garantita agli utenti stessi, alla cittadinanza, almeno l’opzione voice. E come è ragio-nevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garan-zia dell’opzione exit, là dove il mercato può effettivamente operare, allo stesso modo e altrettanto è ragionevolmente necessario che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia della trasparenza e dell’opzione voi-ce, dove il mercato non può operare o si preferisce comunque che esso non operi.

5. Perché il sindacato confederale non può defilarsi

A questo progetto di riforma qualcuno obietta che nulla sarà possi-bile, per un miglioramento dell’efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche, finché i sindacati del settore manterranno una posizione di so-stanziale resistenza conservatrice. Ma anche su questo terreno vi è qual-che motivo per essere ottimisti.

Il memorandum sottoscritto dal Governo con le confederazioni sinda-cali maggiori il 18 gennaio scorso contiene alcune novità rilevanti, che non vanno sottovalutate: vi compaiono, per la prima volta in un documento di questo genere e livello, parole-chiave come “valutazione dell’efficienza”, “controllo della produttività individuale”, “trasparenza”, “piena accessibi-lità delle informazioni” per gli osservatori esterni. Certo, una lettura atten-ta ne rivela alcuni difetti, anche gravi; ma questo non toglie il significato di svolta che, almeno sul piano dei principi, questo accordo assume.

842

Ora tocca al Parlamento dire la sua. Nella parte migliore del memo-randum sono enunciati principi identici rispetto al progetto di legge che è oggi all’esame del Senato; la differenza sta nelle gambe che questo pro-getto di legge intende dare a quei principi per consentire loro di cammi-nare, cioè negli strumenti di controllo e valutazione che ci si propone di attivare, in aggiunta (non in contrapposizione) a quelli previsti nel docu-mento sottoscritto da Governo e sindacati. Il datore di lavoro pubblico deve essere libero di dotarsi di questi strumenti. Sarebbe comunque inam-missibile che il sindacato pretendesse di impedirglielo, sostenendo che il memorandum esaurisca ogni possibilità di iniziativa ulteriore: questa non è una materia sulla quale il potere legislativo possa essere limitato, né tanto meno vincolato, da un accordo sindacale.

Il sindacato, d’altra parte, non può permettersi l’immobilismo. Nel 1980 un evento che solo due o tre anni prima sarebbe stato considerato impossibile, la marcia dei 40.000 di Torino, segnò una svolta drastica ri-spetto agli eccessi di egualitarismo delle politiche retributive perseguite dai sindacati maggiori nel settore privato, nel corso del decennio prece-dente. Non è dunque impensabile che un’iniziativa politica incisiva, og-gi, segni una analoga drastica svolta rispetto all’eccesso evidentissimo di egualitarismo proprio del regime attuale dell’impiego pubblico, che è persino più spinto rispetto a quello che dominò nel settore privato negli anni ’70.

Oggi occorre far leva sulla crescente insofferenza, ben percepibile all’interno delle amministrazioni pubbliche, da parte di chi tira la carret-ta lavorando per due, nei confronti di questa grave doppia ingiustizia: es-sere pagato (poco) esattamente come chi non lavora affatto e al tempo stesso essere accomunato al nullafacente nel discredito generale che in-veste l’impiego pubblico. Far leva su questa sacrosanta insofferenza è possibile proprio attivando i meccanismi di autovalutazione delle struttu-re e di civic auditing, di cui si è detto sopra.

Un sindacato che ignorasse quel disagio diffuso sarebbe destinato a un declino forse lento, sicuramente accompagnato dal progressivo ab-bandono dei lavoratori pubblici migliori. Ma il movimento sindacale ita-liano oggi dispone delle risorse culturali e morali necessarie per evitare questo esito; il sindacato può, anche nel settore pubblico, recuperare la funzione di “intelligenza collettiva” che consente ai lavoratori di valuta-re la bontà di un progetto e investire su di esso il proprio consenso e il proprio lavoro.

843

GABRIELE MORODottore di ricerca in Diritto del lavoro e Relazioni industriali

nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano

LA RIFORMA DEL TITOLO V COST.:QUALE COLLOCAZIONE PER IL DIRITTO DEL LAVORO?

UN’ANALISI DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE

sommario: 1. Premessa. (Breve) inquadramento sistematico della riforma costituzionale – 2. Il tema del diritto del lavoro e la sua problematica riconduzione ad aree di competen-za differenti in un sistema dualistico di riparto. – 3. La dottrina di fronte alla riforma del Titolo V: le posizioni dei giuslavoristi. – 4. Ordinamento civile. – 5. Il principio di ugua-glianza tra proposte di ricontestualizzazione ed ineludibili esigenze di uniformità norma-tiva. – 6. La competenza concorrente: il nodo della tutela e sicurezza del lavoro. – 7. La sentenza della Consulta n. 50 del 2005. – 7.1. Le problematiche introduttive, i ricorsi re-gionali e le questioni preliminari. – 7.2. Ordinamento civile e tutela e sicurezza del lavo-ro. – 8. Considerazioni conclusive.

1. Premessa. (Breve) inquadramento sistematico della riforma costitu-zionale

La riforma costituzionale – realizzata con legge cost. n. 3 del 18 ot-tobre 2001 all’esito di un impegnativo iter 1 – ha, indubbiamente, realiz-zato una svolta epocale 2. In estrema sintesi, la nuova versione dell’art. 114, comma 1, Cost., determina un mutamento nella stessa fisionomia dello Stato: con terminologia eloquente, il nuovo dettato costituzionale stabilisce che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dal-

1 Quattro canoniche letture parlamentari con lo scarto di una manciata di voti, conferma-ta da un referendum a cui ha preso parte solo un terzo dell’elettorato, “fuor di ogni dubbio, un vulnus rispetto all’ispirazione fondamentale dei nostri Padri costituenti, di una Carta di princi-pi e di regole fondata sul consenso, come tale qualificata nel senso alto e nobile di un compro-messo costituzionale”: F. carinci, Una riforma rimasta orfana, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, suppl. n. 1, 1.

2 Com’è noto, la Commissione D’Alema non portò a compimento l’operazione intrapre-sa, ma la maggioranza parlamentare insediata nel corso della XIII legislatura valutò meritevo-le di definizione (almeno) parte del lavoro svolto, vale a dire le modifiche alle competenze le-gislative e amministrative delle Regioni e delle autonomie locali e delle forme di controllo sta-tuali, materie tutte disciplinate dal titolo V della Costituzione. L’intestazione originaria della riforma “Ordinamento federale della Repubblica” venne, di necessità, convertita in “Modifi-che al Titolo V della parte seconda della Costituzione”.

844

le Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, e pone, come si evin-ce facilmente dal suo tenore letterale, sullo stesso piano lo Stato e le auto-nomie in cui è articolata la Repubblica, preludio ad un capovolgimento della distribuzione di poteri e competenze 3. Ai fini della presente indagi-ne, va rilevato che tramite la legge cost. n. 3 del 2001 si è provveduto a ri-baltare, in omaggio ai principi del federalismo, il criterio del riparto delle competenze (non solo) legislative tra Stato e Regioni 4. L’art. 3 della leg-ge cost. citata, infatti, riscrivendo l’art. 117 della Costituzione, provvede a disporre sullo stesso piano di dignità la potestà legislativa statale e quel-la regionale, poiché “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” 5.

Tale dichiarazione di principio rappresenta il prologo ad una vera e propria rivoluzione metodologica, condotta nei commi successivi. La ri-forma inverte il precedente criterio di ripartizione delle materie di compe-tenza legislativa statale o regionale, rovesciandolo “come un guanto” 6. Vengono essenzialmente poste le basi per un nuova definizione dei rap-porti tra Stato e Regioni: il primo esercita la potestà legislativa nelle ma-terie espressamente indicate nel comma 2, sulle quali vige un divieto as-soluto di intervento da parte del legislatore regionale, mentre a quest’ul-timo compete l’area di potestà legislativa concorrente “salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione del-lo Stato” 7. Il ribaltamento di prospettive, tuttavia, si coglie ancor più si-gnificativamente nel comma 4, ove si afferma che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente ri-servata alla legislazione dello Stato” 8. Viene, sostanzialmente, in eviden-

3 R. tosi, Il sistema delle fonti regionali, in «Il diritto della Regione», n. 5/2002, 766, so-stiene trattarsi di una parità solo relativa, ovverosia limitata al comma 1 della norma che indi-vidua gli enti che costituiscono la Repubblica.

4 Cfr. torchia, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in «Le Regioni», 2002, 343.5 Formulazione del nuovo art. 117, comma 1, Cost. 6 roPPo, Diritto privato regionale?, in «Pol. dir.», 2002, 555.7 “Il nuovo testo dell’art. 117, al contrario del vecchio, dà luogo non ad una mera legitti-

mazione delle Regioni all’esercizio di una potestà legislativa, che solo in quanto esercitata po-ne una sia pure ridotta limitazione al potere legislativo dello Stato (che rimaneva in definitiva potenzialmente generale), ma ad un vero e proprio riparto di competenze tra Stato e Regioni nell’esercizio della funzione legislativa di rango ordinario”: faLcon, Modello e transizione nel nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, in «Le Regioni», 2001, 1249.

8 In tale ambito, la maggioranza dei commentatori non parla, invero, di competenza esclusiva regionale. Ciò può essere ragionevolmente spiegato considerando che alcune delle materie di esclusiva competenza statale (ed in primis il riferimento si rivolge alla determina-zione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ex art. 117,

845

za una modalità del riparto dei poteri normativi (ma anche delle funzioni amministrative) 9 tra autorità centrale e periferiche radicalmente nuovo, ove la dimensione territoriale regionale sembra acquisire maggiore con-sistenza 10.

comma 2, lett. m)), mal si conciliano con una loro limitazione d’oggetto essendo potenzial-mente in grado di interferire anche con materie non espressamente indicate nei commi 2 e 3, quindi gravitanti nell’orbita della competenza residuale regionale. Per tali aspetti, in partico-lare tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa e am-ministrativa, in «Le Regioni», 2001, 1233.

9 Al riguardo, si supera il cosiddetto principio di parallelismo tra legislazione ed ammi-nistrazione: il potere regolamentare spetta allo Stato, ma solo nelle materie in cui gode della potestà legislativa esclusiva, salva la possibilità di delega alle Regioni, le quali, peraltro, lo esercitano in ogni altra materia (art. 117, comma 6, Cost.). Le funzioni amministrative sono at-tribuite in via generale ai Comuni, salvo che la necessità di assicurarne l’esercizio unitario non ne renda necessario il conferimento a Province, Città metropolitane, Regioni, Stato.

10 Il rovesciamento del criterio di riparto dei poteri legislativi tra Stato e Regioni, nondime-no, non comporta “un vero limite di materia per lo Stato (che espressamente conserva titoli di le-gittimazione sostanzialmente trasversali alle materie, quale la ‘determinazione dei livelli essen-ziali delle prestazioni’ […])”, mentre “per le Regioni vi sono ormai solo delle materie escluse, e non delle materie assegnate alla potestà legislativa: la quale potrà dunque esercitarsi ovunque non sia esclusa”, faLcon, Il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, in «Le Re-gioni», 2001, 5. La competenza legislativa dello Stato, infatti, sembra andare al di là della mera elencazione di materie contenute nella nuova formulazione dell’art. 117. V. l’osservazione di torchia, La potestà legislativa residuale delle Regioni, op. cit., 363, la quale ha sottolineato co-me il dibattito dottrinale in merito al rovesciamento del criterio di attribuzione delle competen-ze normative fra Stato e Regioni si sia prevalentemente preoccupato “più di disegnare confini, li-miti e garanzie ultime che di interrogarsi sul merito della differenziazione possibile”, mentre “il nuovo assetto costituzionale richiede che il fuoco della riflessione si sposti sul grado di diffe-renziazione che il sistema può accogliere, sulle relazioni tra differenziazione e unità, sulle con-dizioni e strumenti dell’unità a fronte di una forte autonomia politica e amministrativa”. Al suo interno, invero, si riscontrano voci che non possono costituire ‘materie’ in senso stretto, bensì individuano, in ragione di principi e valori diversi, ambiti trasversali che legittimano l’interven-to statale, seppur in materie esulanti dall’elenco attribuito alla competenza, esclusiva o concor-rente che sia, dell’autorità centrale. In altre parole, la potestà legislativa dello Stato mantiene (in virtù delle cosiddette materie trasversali) una potenzialità tale da influire incisivamente in ogni ambito su cui la potestà legislativa regionale ha dominio. Esse rappresentano titoli di legittima-zione “su cui poggia l’esercizio della potestà normativa del legislatore statale, in alternativa all’altro titolo di legittimazione – non ‘trasversale’, bensì, per così dire, ‘verticale’ – costituito dagli oggetti propriamente ‘materiali’ di legislazione, cui alludono altre voci dell’elenco”, e tro-vano giustificazione nell’opportunità che funzioni e compiti propri dello Stato possano prescin-dere da una mera elencazione di competenze, dovendosi necessariamente tradurre, piuttosto, in interventi legislativi su discipline appartenenti alle materie più diverse, anche, eventualmente, affidate alla potestà normativa, concorrente o residuale, regionale. Per tali aspetti si v. in parti-colare faLcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzio-ne, op. cit., 1247 ss. e Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione), in «Pol. dir.», 2002, 354.

846

2. Il tema del diritto del lavoro e la sua problematica riconduzione ad aree di competenza differenti in un sistema dualistico di riparto di com-petenze

Il diritto del lavoro, a fronte dell’indiscutibile valorizzazione della dimensione regionale condotta con la riforma costituzionale, ha dovuto (e deve) misurare “il rapporto tra una potenziale divaricazione delle rego-le quale conseguenza del nuovo assetto delle competenze e i principi di solidarietà e coesione sociale posti alla base del nostro sistema costitu-zionale” 11. Così, la sua collocazione nel riparto di competenze legislati-ve è stata (ed è) al centro di un dibattito ermeneutico ampio ed approfon-dito, dovuto all’infelice circostanza che il legislatore costituente sembra collocare, al contempo, ambiti di disciplina lavoristica in contesti diffe-renti e, quel che più rileva, in regimi di competenza ineguale. Le difficol-tà interpretative derivano, in particolare, dalla circostanza che il nuovo Titolo V contiene un solo espresso riferimento al “lavoro” come oggetto di competenza legislativa, ove, più precisamente, si attribuisce alla com-petenza concorrente tra Stato e Regioni la materia “tutela e sicurezza del lavoro” 12.

L’elevato indice di approssimazione terminologica utilizzato dal le-gislatore costituzionale ha spinto parte della dottrina a rifiutare un’opera-zione ermeneutica volta all’individuazione del significato delle voci con-tenute nell’art. 117 Cost. “condotta per oggetti o materie definitesi nel tempo ad altri fini”, ricorrendo, invece, ad un “approccio integrato” ca-ratterizzato da un maggior ricorso a criteri funzionali, ritenuti maggior-mente idonei ad esprimere “l’intreccio dei rapporti tra mercato e contrat-to, come pure la complessità della regolazione e dell’intersezione già og-gi evidente fra le fonti” 13.

Appare sul punto condivisibile l’invito di chi, al contrario, ha soste-nuto la necessità di considerare la metodologia appena richiamata “con

11 saLomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tec-niche di regolazione territoriale, Padova, 2005, 94.

12 Tale formula risultava già collocata in regime di competenza concorrente Stato-Regio-ni in progetti di revisione costituzionale precedenti, a partire dal progetto licenziato dalla Commissione sugli emendamenti, presentato ai sensi del comma 5 dell’art. 2 legge cost. n. 1 del 24.1.1997 (atto Camera n. 3931-A, Atto Senato n. 2583-A del 4 novembre 1997), nonché dalle successive proposte fino alla sua definitiva collocazione nell’art. 3 legge cost. n. 3 del 18 ottobre 2001. Ne ricostruisce il percorso F. carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, in www.labourlawjournal.it.

13 treu, Diritto del lavoro e federalismo, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo si-stema delle fonti legislative, in «Quad. riv. trim. dir. proc. civ.», 2003, 44.

847

qualche cautela, dovendosi osservare che tale linea di ragionamento, se sviluppata fino alle sue estreme conseguenze, porterebbe a ridimensiona-re quasi del tutto il significato dell’enunciazione costituzionale”14 che, allo stato e seppur in via tendenziale, continua a proporre un’enumera-zione di voci competenziali per materia, e non per funzioni 15, nonostan-te appaia evidente “l’insoddisfazione per un riparto di materie (e non per funzioni) e per la mancanza di meccanismi procedurali e politici di rac-cordo tra potestà legislativa statale e potestà legislativa regionale” 16.

In adesione a tale impostazione, è possibile osservare che, nonostan-te l’unico esplicito riferimento citato, numerose sono le locuzioni ascri-vibili, in maggiore o minore misura, a tematiche attinenti al diritto del la-voro 17. Questa frammentazione, unitamente all’utilizzo di un termine quanto meno ambiguo come “tutela e sicurezza del lavoro”, rende appa-rentemente arduo il compito degli interpreti impegnati nella ricerca di un riscontro, formale e materiale, alla sistemazione del diritto del lavoro ri-spetto alle competenze legislative delineate nel nuovo Titolo V, così co-me l’individuazione degli spazi di intervento appannaggio, rispettiva-mente, del legislatore nazionale e di quello regionale.

Resta, ad ogni modo, che l’unico riferimento esplicito al lavoro si

14 Gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, in «Le Regioni», 2005, 515.

15 carinci, Rapporti tra Stato e Regioni nella riforma del mercato del lavoro, in La mac-chia (a cura di), Riforma del mercato del lavoro e federalismo, Messina, 2005, 18: “nel pas-saggio dal vecchio al nuovo Titolo V il criterio viene sì rovesciato, tanto da adattarlo al nuovo spirito federalista, per cui si parte dalla riserva a favore dello Stato e non più da quella a favo-re delle Regioni; ma mantenuto nella sua essenza, perché per materia era ieri e per materia è oggi”.

16 maGnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, valori e tecniche nel diritto del lavo-ro, Padova, 2006, 58.

17 Tra esse, nel comma 2 dell’art. 117 Cost. (in regime pertanto di competenza esclusiva del legislatore statale) si riscontrano: l’ordinamento civile (lett. l), la determinazione dei livel-li essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (lett. m), l’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Sta-to e degli enti pubblici nazionali (lett. g), la previdenza sociale (lett. o), la tutela della concor-renza e la perequazione delle risorse finanziarie (lett. e) ed anche, seppure in via indiretta, l’immigrazione (lett. b). Il comma 3 dell’art. 117, in ambito di competenza concorrente tra Sta-to e Regioni in cui al primo è rimessa, come detto, la determinazione dei soli principi fonda-mentali, rientrano, oltre alla tutela e sicurezza del lavoro, la previdenza complementare e inte-grativa, le professioni e l’istruzione. Infine, nell’area di competenza residuale in capo alle Re-gioni ex art. 117, comma 4, si collocano l’assistenza sociale, l’ordinamento e organizzazione amministrativa delle Regioni e, soprattutto, la formazione professionale (sulla quale già prece-dentemente, peraltro, vigeva un regime di competenza concorrente, ed il cui attuale transito nell’area di potestà residuale non pare legittimamente revocabile in dubbio).

848

collochi nell’area della competenza concorrente. Ciò, se ha suscitato le critiche per la scarsa considerazione che il legislatore costituzionale ha manifestato nei confronti del diritto del lavoro 18, è stato ritenuto, al con-tempo, criterio sufficientemente preciso per avvalorare una ricostruzione orientata a riconoscere alla competenza regionale in materia di lavoro – a fronte di una consolidata tradizione giuridica interna nella quale, come già rilevato, “il diritto del lavoro ha rappresentato, storicamente, un’espres-sione forte della statualità su base nazionale” 19 – ambiti precedentemen-te esclusi e quindi non più limitati solo agli aspetti amministrativi e pub-blici del rapporto di lavoro ma anche con riguardo ai profili privatistici della regolazione negoziale tra datore e lavoratore 20: “se qualcuno pensa (fedele, in qualche modo, a una certa tradizione consolidata) che per evi-tare i rischi di disgregazione si debba interpretare il 117 confermando in sostanza le competenze legislative di cui le Regioni oggi già dispongono, credo abbia sbagliato obiettivo. L’unico punto fermo è che tutte le Regio-ni hanno comunque rivendicato la necessità di trovare altre e diverse linee di confine tra la competenza statale e quella regionale” 21.

Valutazione, quest’ultima, suffragata dalla comparsa, ad opera del governo di centro destra insediatosi nel 2001, del Libro Bianco sul mer-cato del lavoro, organico documento programmatico ufficiale, che sem-brava prospettare il passaggio dell’intero ordinamento del diritto del la-voro alla competenza ripartita regionale (nella specie costituita dall’attri-buzione della “tutela e sicurezza del lavoro” alla competenza regionale concorrente). In tale documento, infatti, si afferma che la “potestà legi-slativa concorrente alle Regioni in materia di mercato e rapporti di lavo-ro costituisce un elemento che occorre pienamente valorizzare, respin-gendo interpretazioni riduttive che la limiterebbero ad una funzione me-ramente implementativa delle politiche nazionali” 22 (corsivo di chi scri-

18 Treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 37.19 deL Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, in «Lav. dir.», 2001, 431.20 “Nulla sarà più come prima”, scrisse BiaGi, Una svolta federale per le leggi sul lavo-

ro, in Il Sole 24 Ore del 5.8.2001.21 BiaGi, Intervento, in «Riv. giur. lav.», 2002, I, 186, il quale, tuttavia, prosegue: “se poi

qualcuno in pubblico avanza l’ipotesi sciocca dei venti statuti dei lavoratori o la tesi della pos-sibilità di un’abrogazione dell’art. 18 in alcune Regioni, credo abbia a mente solo la polemica politica e non un sereno e rigoroso ragionamento scientifico”.

22 Par. I.1.3, il quale prosegue: “sarà il principio di sussidiarietà (nel superamento del cri-terio di competenza, transitando dalla logica di garanzia a quella di funzionalità) a guidare un processo di riassetto istituzionale dell’impianto regolatore, così come è avvenuto e sta tuttora avvenendo nel dialogo tra diritto comunitario e diritto nazionale. Sarà così possibile realizza-re differenziazioni regionali che colgano le diversità dei mercati del lavoro locali, superando una stratificazione dell’ordinamento giuridico inadeguata rispetto ai mutamenti intervenuti

849

ve). Palese, dalla lettura del Libro Bianco, l’intenzione governativa di promuovere una frammentazione localistica regionale del diritto del la-voro, tale da consentire al legislatore regionale, nei limiti della compe-tenza concorrente, di scorporare frammenti di disciplina lavoristica dall’ambito di competenza esclusiva statale. Tale frammentazione sareb-be ipoteticamente temperata, si è osservato, dalla finalità di dettare stan-dard più elevati di quelli oggetto di legislazione statale 23.

La generale preoccupazione suscitata a causa delle proposte contenute nel Libro Bianco ha sostenuto “un’attività interpretativa frenetica (alimenta-ta dal nostro attivismo e dalla consistenza dei cultori della materia)” 24, sino a giungere al caustico commento di un autorevole Autore il quale senza mezzi termini ha biasimato “la stupefacente leggerezza interpretativa” della proposta governativa, riducendola ad una mera “interpretazione del tutto improvvisata e persino assurda della controversa riforma costituzionale” 25.

3. La dottrina di fronte alla riforma del Titolo V: le posizioni dei giusla-voristi

La dottrina giuslavorista italiana, ad ogni modo, si è affaticata a lun-

nell’organizzazione del lavoro. Un’occasione di modernizzazione che non può essere persa, pure perseguendo, nel contempo, la realizzazione di un più compiuto disegno federalista di ca-rattere generale”.

23 Si v., al riguardo, zoPPoLi, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, in «Lav. pubbl. amm.», 2001, suppl. fasc. 1, 153; ma v. anche di stasi, Notazioni sul lavoro tra diritto europeo, diritto statale e diritto regionale, in «Lav. giur.», 2003, 1108 ss., anch’egli orientato a riconoscere fondamento ad una visione integrata delle competenze normative fra Stato e Regioni, in cui a quest’ultime potrebbe essere concesso di derogare, ma esclusivamen-te in melius, alla disciplina statale, anche per quanto concerne particolari aspetti di natura pri-vatistica.

24 treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 36.25 mariucci, La forza di un pensiero debole, in «Lav. dir.», 2002, 3. Valga, però, sottoli-

neare come alcuni Autori abbiano sminuito la rilevanza dell’intenzione governativa di pro-muovere una differenziazione territoriale della regolamentazione del contratto di lavoro, es-sendo “chiaro che essa ha un valore soltanto politico, poiché non spetta ad un Libro Bianco e nemmeno allo stesso Governo decidere quali siano le conseguenze derivanti dalla modifica co-stituzionale” (naPoLi, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, in «Dir. rel. ind.», 2002, 366), mentre altri abbiano rilevato che, al di là di mere enunciazioni di carattere propagandistico, “il ruolo centrale della legislazione statale nell’impianto del Libro Bianco appare con chiarezza ancora maggiore se dal terreno dei principi fondamentali si scen-de nel dettaglio della loro programmata attuazione” (P. tosi, I nuovi rapporti tra Stato e Re-gioni: la disciplina del contratto di lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2002, 602).

850

go sulla spinosa questione dell’ammissibilità di un diritto del lavoro dif-ferenziato su base regionale.

Alcune voci minoritarie, talune delle quali verosimilmente più per scongiurare un avvertito pericolo che per autentica e genuina adesione, valorizzando il dato testuale della norma costituzionale, ravvisano nella competenza concorrente regionale in materia di tutela e sicurezza del la-voro una deroga alla competenza esclusiva in materia di ordinamento ci-vile attribuita al legislatore nazionale. In tal senso, la competenza regio-nale si troverebbe in un rapporto di specialità (di species a genus) con la legge statale con conseguente possibilità per le Regioni di legiferare in merito ad aspetti privatistici del rapporto di lavoro, seppur nel rispetto dei principi fondamentali dettati dalla prima parte della Costituzione e dal legislatore ordinario 26.

L’immediata reazione della maggioranza dei commentatori, tuttavia, al fine di scongiurare il pericolo di una deriva localistica del diritto del la-voro, si rende complice di un’imponente opera di restrizione del signifi-cato di una riforma dagli effetti potenzialmente esplosivi (almeno fino a quando alle indicazioni del Libro Bianco non è stata data attuazione legi-slativa che ha manifestato la scelta del legislatore statale di mantenere un modello di produzione normativa accentrato). La dottrina maggioritaria, infatti, ha escluso la lettura di cui si è appena detto nel tentativo di allon-tanare “il più che probabile effetto […] di promuovere una corsa al ribas-so degli standard protettivi, alimentando una sorta di competizione di-struttiva, micidiale per gli equilibri sociali del paese” 27, posto che i dirit-ti che si realizzano nel rapporto di lavoro “esigono l’assoluta uniformità dei trattamenti su tutto il territorio nazionale e tale uniformità può essere garantita soltanto dalla legge statale” 28.

A questa stregua, dal sintagma ‘tutela e sicurezza del lavoro’ vengo-

26 BiaGi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in «Dir. rel. ind.», 2002, I, 157 ss. Si v., tuttavia, la convincente argomentazione di M.G. GarofaLo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, in «Riv. giur. lav.», 2002, I, 411: “sarebbe ben strano un rapporto di regola genera-le a regola speciale tra la competenza esclusiva dello Stato e la competenza concorrente tra Stato e Regioni, quando la regola posta dal nuovo art. 117 è la competenza legislativa regiona-le (comma 4) e sia la competenza concorrente che la competenza statale si pongono formal-mente come regole speciali”.

27 rocceLLa, Il lavoro e le sue regole nella prospettiva federalista, in «Lav. dir.», 2001, 504, il quale sottolinea che il problema vero “non è rappresentato dall’alternativa centralismo vs. decentramento della fonte di produzione delle regole, quanto piuttosto dal fondamento ra-zionale o, se si preferisce, dall’equità sociale del processo di differenziazione normativa”.

28 PaLLini, Il sistema delle fonti del diritto del lavoro dopo la modifica del Titolo V della Costituzione, op. cit., 41.

851

no escluse aree del diritto del lavoro strettamente inteso e più propria-mente il diritto del contratto e del rapporto di lavoro, il diritto sindacale, la previdenza sociale, anche perché, si osserva, la voce “tutela e sicurez-za del lavoro” è stata ricompresa dal comma 3 dell’art. 116 Cost. tra le materie oggetto di possibili ulteriori e peculiari forme di autonomia nor-mativa regionale 29. Quindi, “qualora si adottasse l’interpretazione secon-do cui la materia “tutela e sicurezza del lavoro” si estende anche ai rela-tivi aspetti privatistici, si produrrebbe l’irrazionale conseguenza, difficil-mente conciliabile con i principi di eguaglianza e ragionevolezza delle differenziazioni normative affermati dalla prima parte della Costituzio-ne, per cui – ad esempio – mentre la disciplina privatistica dei contratti agrari […] non potrebbe essere regolata in modo totalmente o parzial-mente differenziato da ciascuna Regione, la tutela contrattuale del pre-statore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza dell’imprenditore potreb-bero essere legittimamente disciplinate dalle varie Regioni con previsio-ni radicalmente diverse nel caso in cui tale competenza venisse loro attri-buita con legge ordinaria così come previsto dall’art. 116 Cost.” 30.

Per quanto concerne la previdenza sociale, l’operazione è agevole: si è già rilevato, infatti, che la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. pre-vede, alla lett. o) del comma 2, la competenza esclusiva dello Stato in materia. Assai più difficoltosa appare, invece, la conduzione della mede-sima operazione per le restanti aree, complice l’assoluta mancanza di ogni esplicita indicazione in merito nella sua sedes materiae 31. Rifiutan-

29 L’art. 116, comma 3, Cost., infatti, consente l’attribuzione alle Regioni ordinarie di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” con riguardo alle materie di cui all’art. 117, comma 3, vale a dire quelle collocate nella competenza concorrente Stato-Regioni, e ad alcune materie elencate nell’art. 117, comma 2, di competenza esclusiva dello Stato. Ciò, ad avviso di alcuni, consentirebbe la sperimentazione di un modello di federalismo asimmetrico in cui le Regioni possono variare il numero e la portata delle proprie potestà tramite la “predi-sposizione di un impianto di ripartizione di funzioni-competenze tra Stato centrale e Regioni, che consente alle stesse di determinare la qualità e quantità della propria azione”: PaLermo, Federalismo asimmetrico e riforma della Costituzione italiana, in «Le Regioni», 1997, 291. Lo stesso A., Il regionalismo differenziato, in GroPPi-oLivetti (a cura di), La Repubblica del-le autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2002, 56, rileva che nel testo costituzionale riformato sono assenti meccanismi che consentano di accedere ad un modello di federalismo asimmetrico, nella specie eventualmente costituiti soprattutto da un possibile regime di finanziamento differenziato che agevoli l’accesso alla maggiore autonomia.

30 PaLLini, La modifica del Titolo V della Costituzione: quale federalismo per il diritto del lavoro?, in «Riv. giur. lav.», 2002, I, 31.

31 Circostanza, infatti, richiamata da BiaGi, Il lavoro nella riforma costituzionale, op. cit., 158, per lo meno per negare la competenza esclusiva statale in materia: “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit: si può dunque argomentare nel senso che il legislatore costituente non è sta-

852

do aprioristicamente di considerare la mancanza citata quale valido mo-tivo per trattare il diritto del lavoro alla stregua di una materia residuale – cosa che, come si è detto, avrebbe addirittura comportato il suo transi-to nell’area della competenza regionale, appunto, residuale – si tenta di individuare nelle materie esplicitamente affidate alla competenza esclu-siva statale un adeguato referente normativo, idoneo ad ospitare, al suo interno, l’area del diritto del lavoro strettamente inteso.

L’operazione viene condotta alla stregua di parametri di carattere storico-sistematico 32, i quali intendono attingere il significato delle voci di cui si compone il vigente art. 117 Cost. riferendosi al contesto norma-tivo al momento dell’intervenuta riforma costituzionale, ed all’uopo si sottolinea come la riconduzione del diritto del lavoro strettamente inteso alla formula ‘tutela e sicurezza del lavoro’ si collocherebbe in una posi-zione di sostanziale rottura con un passato in cui il diritto del lavoro era (ed è) incardinato nel testo costituzionale ed in parte disciplinato dal co-dice civile, con una vocazione evidentemente nazionale. La prospettiva governativa contenuta nel Libro Bianco costituirebbe una “svolta radica-le rispetto alla storia secolare, alla collocazione costituzionale, all’evolu-zione legislativa, collettiva, giurisprudenziale dell’ultimo cinquantennio, all’esperienza comunitaria, alla lezione comparata degli altri paesi fede-rali o neo-regionalisti” 33. Così, anche alla stregua della valutazione del panorama ordinamentale su cui insiste la riforma costituzionale 34, si ma-nifesta una forte vocazione unitaria del diritto del lavoro che valorizza il criterio ermeneutico della “continuità fino ‘a prova contraria’, cioè fino alla chiara ed esplicita costituzionalizzazione della discontinuità” 35.

to per nulla chiaro utilizzando la formula ‘ordinamento civile’ se essa deve riferirsi anche alla tematica giuslavoristica”.

32 d’atena, Materie legislative e tipologie delle competenze, in «Quad. cost.», 2003, 20. Metodo, peraltro, è stato utilizzato limpidamente dalla sent. n. 1 del 2004 della Corte Costitu-zionale (in «Giur. cost.», 2004, 6), rigettando il criterio finalistico prospettato dall’Avvocatura dello Stato.

33 V. f. carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit., in cui l’A. sottolinea come la formula “tutela e sicurezza del lavoro” paia emergere dal nulla, “co-sa che già di per sé mette in guardia da una lettura intesa ad equipararla al diritto del lavoro tout court, così scorporando tale diritto dall’ordinamento civile”.

34 In merito al criterio storico di interpretazione, si v. quanto affermato in Corte Cost. 10 novembre 1992, n. 429, in «Foro it.», 1993, I, 1774: “l’ermeneutica costituzionale non può in alcun modo prescindere dall’ispirazione che precedette al processo formativo della norma co-stituzionale, assumendo in essa particolare rilievo l’essenza storico-politica”.

35 carinci, Osservazioni sulla riforma del titolo V della Costituzione, in carinci-miscio-ne (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al disegno di legge delega, Milano, 2002, 8; va qui osservato che, sulla base del vecchio testo dell’art. 117 Cost., l’istruzione arti-

853

Inoltre, si ragiona, “l’individuazione delle competenze delle Regioni in materia di lavoro […] può avvenire soltanto dopo che sia stata effettua-ta una ricognizione rigorosa delle competenze esclusive dello Stato” 36, così che il rispetto dei commi di cui si compone il novellato art. 117 Cost. assurga a vincolante precetto interpretativo 37.

La ricerca di un riferimento per condurre la materia del diritto del la-voro al placido approdo della competenza esclusiva statale si risolve nel-la sua individuazione nella voce “ordinamento civile” (art. 117, comma 2, lett. l, Cost.), facendo leva sulla matrice civilistica tanto del rapporto di la-voro individuale quanto del sistema di relazioni industriali e collettive. La formula, per vero, si rinviene in una disposizione che riserva allo Stato an-che le norme del processo civile, penale ed amministrativo. In base all’as-sunto che l’ordinamento civile debba consistere in qualcosa di differente

giana e professionale era l’unica materia di tipo lavoristico che rientrava nella competenza concorrente delle Regioni alla stregua della legge-quadro 21.12.1978, n. 845, con la quale lo Stato aveva fissato i principi fondamentali a cui le Regioni avrebbero dovuto attenersi nell’eser-cizio di tale potere. In seguito, il d.lgs. 469/1997 – emanato sulla base della delega contenuta nella l. 15.3.1997, n. 57 – ha conferito alle Regioni funzioni e compiti (di natura amministra-tiva) in materia di collocamento e di politiche attive del lavoro (con esclusione, tuttavia, delle funzioni inerenti la vigilanza ed i servizi ispettivi in materia di lavoro, la cui perdurante spet-tanza in capo allo Stato non era revocabile in dubbio). Potestà legislative in materia di lavoro, dunque, concorrenti e delegate, ma non esclusive. Argomento ritenuto da BeLLavista, Ordina-mento civile, diritto del lavoro e regionalismo, in «Dir. merc. lav.», 2003, p. 507, “di pregio: se il legislatore della riforma avesse voluto spostare in capo alle Regioni ulteriori ambiti di com-petenza legislativa avrebbe dovuto usare formule molto più chiare rispetto a quelle, alquanto criptiche, contenute nelle nuove norme del Titolo V della parte seconda della Costituzione”.

36 naPoLi, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, op. cit., 633: “è vero che la riforma mette sullo stesso piano la legislazione statale e quella regionale, ma ciò avviene dopo avere sancito quali materie siano riservate allo Stato e quali alla legislazione con-corrente”. V., per l’applicazione del medesimo concetto, anche l’opinione di manGiameLi, Sull’arte di definire le materie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in «Le Regioni», 2003, 338, il quale valuta la riserva di una materia alla competenza legislativa esclusiva dello Stato un ostacolo ad ogni tentativo di comprimerne il contenuto, in quanto “il principio di attri-buzione fatto proprio dalla Costituzione […] non potrebbe portare ad un impoverimento della competenza esclusiva dello Stato, ma semmai di quella concorrente delle Regioni”.

37 Vale a dire, l’ordine di lettura discendente delle competenze (dallo Stato alle Regioni) proposto ed imposto dalla Costituzione prevede come punto di partenza obbligato l’elenco in-serito nel secondo comma, contenente materie e/o voci di competenza esclusiva statale, ed ivi pertanto andrebbe ricercato, tramite un’esaustiva indagine ricognitiva, il referente idoneo ad ospitare la materia “diritto del lavoro”. Si v. Corte Cost. 26 giugno 2002, n. 282, in «Foro it.», 2003, I, 394, ove si puntualizza che l’individuazione della competenza legislativa regionale di-scende ora non da uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento ma, al contrario, dall’indagine sull’esistenza, o meno, di riserve esclusive o parziali, alla competenza statale.

854

dall’ordinamento processuale, esso viene accostato al diritto sostanziale, riservato alla competenza esclusiva statale. Dall’altro lato, seppur nella mancanza di qualsivoglia riscontro semantico in tale senso – ciò, per quanto di utilità, va comunque rilevato – si identifica nel sintagma “tutela e sicurezza del lavoro”, in una logica di assoluta continuità con il più re-cente passato, la disciplina del mercato del lavoro, come noto area stori-camente oggetto di interventi regionali e delle autonomie locali 38.

Ora, ancor prima di valutare la portata della riconduzione del diritto del lavoro alla voce ordinamento civile e del mercato del lavoro alla vo-ce tutela e sicurezza del lavoro, preme sottolineare che tale operazione ermeneutica poggia le propria fondamenta giuridiche sulla giurispruden-za costituzionale pre-riforma, orientata, seppur con uno sviluppo non sempre ordinato, a negare competenza legislativa regionale in materia di diritto privato. In particolare, tralasciando per economia pregresse pro-nunce, solo due giorni prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001 di riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione la Corte Costituzionale afferma che “l’ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull’esi-genza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale un’uniformità della disciplina dettata per i rapporti fra privati”. Quindi, esso “identifica un’area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprendente i rapporti tradizional-mente oggetto di codificazione (…). Si tratta di un limite che attraversa le competenze legislative regionali, in ragione appunto del rispetto del fondamentale principio di uguaglianza”.

Tuttavia, i valori costituzionali a presidio dei diritti fondamentali delle persone non sarebbero posti a repentaglio da una differenziazione operata dalla legge regionale ove questa risulti “in stretta connessione con la materia di competenza regionale e risponda al criterio di ragione-volezza, che vale a soddisfare il rispetto del richiamato principio di egua-glianza” 39. Non molto lontano, in definitiva, dall’orientamento prece-dente volto a sottrarre alla legislazione regionale la possibilità di deroga-

38 Assai critico treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 40, il quale pur ritenendo condivisibile la necessità di sventare una minaccia alla compatezza “non solo della materia, ma dello stesso ordinamento nazionale”, sostiene, tuttavia, che tale esigenza “si alimenta an-che di un’inerzia istituzionale e culturale che porta a leggere la nuova realtà normativa con le vecchie categorie e quindi a tradire le innovazioni introdotte, sia pure con formule incerte e di-scutibili, dalla riforma”.

39 Corte Cost. n. 352 del 2001, cit. V. il commento di Lamarque, Aspettando il nuovo art. 117 della Costituzione: l’ultima pronuncia della Corte Costituzionale sul limite del diritto pri-vato della legislazione regionale, in «Le Regioni», 2002, 584.

855

re alle “norme dettate dal codice civile per regolare l’esercizio dell’auto-nomia negoziale privata, sia che si tratti di norme imperative, sia che si tratti di norme destinate a regolare direttamente i rapporti tra soggetti in assenza di diversa volontà negoziale delle parti” 40. La sentenza si segna-la, inoltre, per un aspetto assai “curioso”: il limite della legislazione re-gionale a cui la Corte ha da sempre inteso riferire l’espressione “diritto privato”, viene qui nominato “dell’ordinamento del diritto privato”, locu-zione inevitabilmente accostabile all’“ordinamento civile” che l’art. 117, comma 2, lett. l), del nuovo testo costituzionale assegna alla potestà legi-slativa esclusiva dello Stato 41.

Se la giurisprudenza costituzionale precedente aveva legato l’estro-missione del legislatore regionale dalla disciplina del diritto privato alla “esigenza, connessa al principio costituzionale di eguaglianza, di garan-tire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di di-ritto che disciplinano i rapporti fra privati” 42 ed alla necessità “che sia as-sicurata su tutto il territorio nazionale 1’uniformità di disciplina e di trat-tamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra i soggetti privati, trattando-si di rapporti legati allo svolgimento delle libertà giuridicamente garanti-te a detti soggetti ed al correlativo requisito costituzionale del godimen-to di tale libertà in condizioni di formale eguaglianza (artt. 2 e 3 della Co-stituzione)” 43, la menzionata riforma del Titolo V non ha di certo coin-volto valori costituzionali fondamentali quali l’uguaglianza e la libertà ampiamente richiamati dalla Consulta per esautorare da ogni competen-za in materia di diritto privato il legislatore regionale.

40 Corte Cost. 25 marzo 1998, n. 82, in «Giust. civ.», 1998, I, 1487.41 Nel limitato interesse che tale aspetto può rappresentare nel presente lavoro, la stessa

evoluzione della giurisprudenza costituzionale mostra tratti di evidenti ambiguità ed incoeren-ze che, probabilmente, sussistono solo in quanto si assuma un’aprioristica definizione di dirit-to privato. L’aspetto comune dello sviluppo della giurisprudenza costituzionale è costituito propriamente dall’assoluta intangibilità da parte della legislazione regionale della tipologia e della disciplina degli istituti dell’autonomia privata, derivandone che il potere normativo re-gionale non può infrangere il muro dei rapporti interprivati, che di quell’autonomia rappresen-tano l’espressione tipica. In realtà, una visione pragmatica delle soluzioni concrete fornite dal-la Corte consente di accogliere una definizione, seppur in negativo, di diritto privato, “inten-dendolo come tutto quel diritto che non regola specificamente l’organizzazione o l’attività di una pubblica amministrazione” (Lamarque, Regioni e ordinamento civile, Padova, 2005, 275) in quanto il potere legislativo regionale è limitato, tanto nel precedente assetto costituzionale quanto in quello attuale, alla disciplina di un fenomeno intrinsecamente amministrativo, vale a dire regolare i rapporti tra i cittadini e i poteri di pubblica amministrazione (anGioLini, Ordi-namento civile e competenza regionale, in «Riv. giur. lav.», 2004, II, 27).

42 Corte Cost., ord. 23 giugno 2000, n. 243, in «Riv. giur. edil.», 2000, I, 1019.43 Corte Cost. 24 luglio 1996, n. 307, in «Foro it.», 1996, I, 3596.

856

Pertanto, seppur l’ultima giurisprudenza costituzionale sul previ-gente Titolo V pare riproporre un diritto privato almeno parzialmente de-rogabile ad opera della legislazione regionale, la portata di tale svolta, tuttavia, non sembra in realtà inficiare in maniera significativa gli appro-di precedentemente raggiunti: le deroghe che la Consulta ritiene merite-voli di ammissione rappresentano pur sempre ipotesi del tutto marginali (ed oltre tutto riferite ad istituti specifici) 44, senza alterare l’impianto ge-nerale 45.

In definitiva, la riserva allo Stato dell’ordinamento civile, in questo senso, rappresenta l’emersione testuale per la potestà legislativa regiona-le del vecchio limite del diritto privato, coerentemente volta a superare in radice tutti i problemi di esatta definizione dei contenuti. La giurispru-denza prodotta dalla Corte nel vigore del testo costituzionale originario risponde, infatti, ad un disegno unitario non sottoposto ad alcuna modifi-ca od evoluzione negli anni più recenti o immediatamente antecedenti al-la riforma costituzionale. è possibile quindi legittimamente escludere che la diversa terminologia – ordinamento civile in luogo di diritto priva-to – consenta l’emersione di un differente significato, nel nuovo contesto, del vecchio limite 46.

4. Ordinamento civile

Il criterio della ragionevolezza, più sopra indicato dalla Corte Costi-tuzionale come ultimo – cronologicamente – grimaldello utilizzabile per intravedere una deroga alla esclusiva competenza statale in materia di di-ritto privato, non va considerato come mera clausola di rinvio ad ideali correnti nella società, in quanto tali mutevoli ed effimeri, ma deve consi-derarsi espressione, prioritariamente, di un sistema di valori e di principi

44 Nel caso di specie, alla materia condominiale.45 “La porta del diritto privato, dunque, viene solo socchiusa, non spalancata alle Regio-

ni”, Luciani, Regioni e diritto del lavoro. Note preliminari, op. cit., 68.46 Si v. ancora Lamarque, Regioni e ordinamento civile, op. cit., 276, ad avviso della qua-

le una lettura rigorosamente continuista della formula dell’ordinamento civile si impone quan-do si consideri la ragione “che in passato aveva originato e sostenuto una simile definizione giurisprudenziale del diritto privato sottratto alla potestà legislativa delle Regioni: e cioè l’esi-genza politico-istituzionale di far sì che tutte le manifestazioni dell’autonomia regionale, com-presa quella legislativa, fossero contenute nell’ambito dell’organizzazione e dell’attività della pubblica amministrazione”.

857

incorporati in altre norme costituzionali, dalle quali riceve, a sua volta, fondamento e validità 47.

In questo senso, seppur nella consapevolezza che il testo dell’art. 117 Cost. come riformato dalla novella del 2001 sia un testo oscuro, in-suscettibile di essere esaminato “con il sottile bisturi dell’elegante esege-si giuridica” 48, non può prescindersi dal rilevare che, ai sensi della nor-ma citata, lo Stato ha legislazione esclusiva nella materia dell’“ordina-mento civile e penale”. La locuzione “ordinamento civile” consente, in merito al suo significato, il dispiegarsi di un ampio ventaglio di opzioni interpretative che ne hanno messo in luce l’almeno apparente indetermi-natezza 49.

La prima, che si potrebbe definire massimalista, individua nell’ordi-namento civile l’elevazione a rango di autonoma e distinta materia del di-ritto privato, così come prospettato dalla Corte Costituzionale nella sua precedente elaborazione. La sua natura “ordinamentale”, quindi il suo essere al tempo stesso sistema di produzione di regole e sistema di rego-le prodotte ed effettive, non consentirebbe, ponendosi come obiettivo la salvaguardia dell’eguaglianza formale, deroghe o eccezioni che non sia-no generate dal sistema stesso 50.

Un’ipotesi minimalista, che si aggancia più o meno esplicitamente

47 Lo sottolinea incisivamente M.G. GarofaLo, Pluralismo, federalismo e diritto del la-voro, op. cit., 407.

48 Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in «Le Regioni», 2001, 620-21.

49 Si v. in particolare schLesinGer, Ordinamento civile, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, «Quad. riv. trim. dir. proc. civ.», 2003, 28, ad avviso del quale “se dovesse convenirsi che per la lett. l) di quel comma tutto il diritto privato va con-siderato riservato alla legislazione statale, perché mai si sarebbe sentito il bisogno di una di-sposizione specifica e ulteriore per le opere dell’ingegno? E la medesima osservazione potreb-be ripetersi con riguardo allo Stato civile, alla tutela della concorrenza, ai mercati finanziari, a mio sommesso avviso tutte materie che fanno parte del diritto privato”, giungendo quindi alla conclusione che “il nuovo lemma sia stato utilizzato in modo del tutto improprio”. Si v., inol-tre, aLPa, L’ordinamento civile nella recente giurisprudenza, in «I Contratti», 2004, 2, 186, il quale, partendo dalla complessità del sistema, afferma che “la definizione e la nozione stessa di ordinamento civile nei suoi rapporti con il diritto privato e nella dinamica delle rispettive competenze statuali e regionali, non può essere tracciata una volta per tutte, ma si espone ad aggiustamenti, ad affinamenti, a chiarimenti che nascono dal diritto vivente”. L’a. espone in quella sede almeno 13 possibili significati della formula in discorso, a seconda dei suoi possi-bili contenuti.

50 Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, in «Arg. dir. lav.», 2002, 79. Presuppo-sto obbligato di tale interpretazione è la valorizzazione (non funzionale ma) “oggettivistica” del riparto di competenze delineato dall’art. 117 Cost., che, nella sua distribuzione “dualisti-ca” (vale a dire afferente alle rispettive competenze esclusive), non consentirebbe di individua-

858

all’ultima fase della giurisprudenza costituzionale sul previgente Titolo V e sulle sue aperture, invece, ravvisa in tale formula una competenza esclusiva statale non sulla disciplina privatistica nella sua interezza, ben-sì limitatamente al sistema delle fonti delle obbligazioni di diritto civile ed ai suoi principi fondamentali 51.

La teoria minimalista non contrasta l’attribuzione allo Stato della po-testà legislativa esclusiva sulla regolazione dei rapporti di lavoro ma in-tende ammettere, al contempo, la possibilità di differenziazioni regionali su taluni aspetti aventi carattere residuale. In altre parole, lo Stato godreb-be di competenza esclusiva per quanto attiene alle “linee ordinamentali” della disciplina del rapporto di lavoro 52, rendendosi opportuno “ritagliare nella disciplina del rapporto di lavoro un’area di competenza esclusiva dello Stato non coestesa con tutti gli aspetti della disciplina del rapporto”, bensì riferibile ad un’area in cui si collocherebbero “le categorie qualifi-cative, gli schemi contrattuali tipici, gli istituti che incidono sulla struttu-ra del contratto, determinandone le vicende e l’estinzione”, mentre, paral-lelamente, “altri contenuti di carattere strumentale e accessorio della di-sciplina privatistica possono differenziarsi secondo le esigenze del territo-rio senza pregiudicare il valore dell’unità dell’ordinamento” 53.

Svolge una funzione rilevante in simile prospettazione, inoltre, la considerazione che dal nuovo riparto di competenze dovrebbe necessaria-mente derivare un ampliamento delle funzioni normative regionali in ma-terie lavoristiche rispetto al precedente assetto costituzionale: l’impossi-bilità di tracciare una netta linea di confine tra “il rapporto” ed “il merca-to” del lavoro 54 determinerebbe dunque che, ferma restando la necessità

re nell’area della materia “ordinamento civile” zone di permeabilità accessibili dal legislatore regionale.

51 In questo senso, quindi, non potrebbe individuarsi un rapporto di omogeneità tra dirit-to privato ed ordinamento civile, quanto, piuttosto, un piano geometrico a cerchi concentrici: il diritto privato ingloberebbe l’ordinamento civile, così che la competenza esclusiva statale sul secondo non inficierebbe una competenza regionale – seppur contenutisticamente residua-le – sul primo.

52 zoPPoLi, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, op. cit., 156.

53 treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 45. Il medesimo Autore aveva, in pre-cedenza, espresso un’opinione assai differente, espresso nella sua attività di coordinamento al documento astrid, La legislazione del lavoro tra Stato e Regioni, Roma, 2001, 21: “in altri ter-mini, dell’ordinamento civile fa parte tutto ciò che è definibile in termini di diritti ed obblighi delle parti e di disciplina degli strumenti negoziali (contratto individuale e contratto collettivo di lavoro)”.

54 treu, La riforma dei servizi per l’impiego e le competenze regionali, in maGnani-vare-si (a cura di), Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, Torino, 2005, 54.

859

del rispetto dei principi fondamentali, precludere alle Regioni la discipli-na di taluni profili di diritto del rapporto di lavoro equivarrebbe a negare, nella sostanza, la competenza in tema di mercato e politiche attive del la-voro. Una soluzione del genere, ad avviso di tale orientamento, non sareb-be poi coerente con il principio di sussidiarietà verticale che, già presente ed attivo a livello comunitario, ora lo è anche sul piano interno in quanto esplicitato nel nuovo Titolo V della Costituzione, e che svolgerebbe per-tanto principio ordinatore anche a livello endostatuale 55.

Gli assunti su cui si fonda l’ipotesi interpretativa in esame meritano di essere analizzati separatamente.

Per quanto concerne la prima argomentazione, pare opportuno sot-tolineare la difficoltà di individuare aspetti della disciplina del rapporto di lavoro che possano assumere “carattere strumentale ed accessorio” e siano quindi suscettibili di una differenziazione regionale. Al contrario, pare invece lecito sostenere che tutta la disciplina del contratto di lavoro sia strettamente inscindibile e comunque che incorpori valori fondanti e inderogabili tali da impedirne una graduazione o un’articolazione territo-riale 56.

Il secondo argomento utilizzato valorizza, come detto, l’intentio del legislatore costituzionale, che ha operato, certamente, una svolta signifi-cativa nel cammino verso un assetto istituzionale federalista. La riforma del 2001 sancisce, infatti, il riconoscimento in capo agli enti territoriali decentrati di competenze, anche in materia di diritto del lavoro ed in par-ticolare nell’offerta e nell’organizzazione dei servizi di politiche attive, assai più ampie e significative rispetto al passato. Si trascura di conside-rare, tuttavia, che tale mutamento pretende di essere apprezzato valutan-do complessivamente il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni. Il preteso ampliamento delle competenze regionali (anche) in materia di rapporto di lavoro si risolverebbe, pertanto, in una mera petizione di prin-cipio, essendo priva di sostegno l’argomentazione giuridica posta a suo fondamento.

Ancor prima dell’intervento della Consulta, tuttavia, la matrice pro-

55 Ciò in quanto “l’approccio più corretto ed in sintonia con i dati di evoluzione ordina-mentale, sia nella dimensione sopranazionale sia in quella infranazionale, non sembra […] quello della determinazione ex ante del ritaglio delle competenze attraverso improbabili ripar-tizioni per materie, istituti o discipline, ma di valutazione ex post del corretto esercizio della sussidiarietà come regolatore mobile delle competenze e di riscontro di ragionevolezza intrin-seca ed estrinseca, una volta che l’ente territoriale l’abbia esercitata”, così caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance multili-vello), in «Arg. dir. lav.», 2004, 852.

56 BeLLavista, Ordinamento civile, diritto del lavoro e regionalismo, op. cit., p. 513.

860

priamente civilistica del rapporto di lavoro aveva comunque indotto la maggior parte dei commentatori a ricondurlo nell’area della materia “or-dinamento civile”, almeno per la parte del diritto del lavoro costituita dal suo corpo classico, vale a dire dal diritto sindacale e dal diritto del con-tratto individuale di lavoro 57.

Il suo contenuto corrisponderebbe alla disciplina dei rapporti giuri-dici intercorrenti jure privatorum tra cives o persone giuridiche, anche tenendo conto della concreta dizione utilizzata che pare richiamare la no-zione di origine romanistica dello jus civile quale fonte di regolazione di ogni rapporto intercorrente tra cives e senza alcuna distinzione in ordine all’oggetto degli interessi perseguiti 58. Conseguentemente, se tale espres-sione pretende di ricondurre alla competenza statale (per lo meno) la di-sciplina dei rapporti intercorrenti tra soggetti privati non può che com-prendere al suo interno anche la materia dei rapporti di lavoro 59.

Di tutta evidenza, comunque, che il diritto del lavoro sia dotato di

57 Si v. ad esempio, M.G. GarofaLo, Federalismo, devolution e politiche dell’occupazio-ne, op. cit., 463, per il quale esistono “pochi dubbi che il significato di questa espressione in-cluda la regolamentazione giuridica dei rapporti tra soggetti privati e, quindi, dei rapporti indi-viduali e collettivi di lavoro”.

58 Critico nei confronti di tale impostazione aLPa, Il limite del diritto privato alla potestà legislativa regionale, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, «Quad. riv. trim. dir. proc. civ.», 2003, 114, il quale osserva come anche i rapporti tra soggetti privati ed enti pubblici ben possano essere retti e governati secondo una disciplina di natura privatistica.

59 Ciò in quanto “il diritto del lavoro è stato sempre considerato un sottosistema del dirit-to civile. Ciò è particolarmente accentuato nella tradizione italiana. Solo nella fase della matu-rità il diritto del lavoro ha superato la distinzione classica tra diritto privato e diritto pubblico, per abbracciare diversi profili di regolazione. Ma sin dalla nascita il diritto del lavoro è stato sempre vissuto come capitolo del diritto civile. Il peso della tradizione può impedire di dare all’espressione ordinamento civile il significato ristretto, con l’esclusione dei diritti secondi. In mancanza d’indicazione all’interno del testo costituzionale, l’interprete deve dare all’espres-sione ordinamento civile la più ampia latitudine, comprensiva di quella parte del diritto del la-voro attinente alla regolazione giuridica dei rapporti di lavoro, in quanto rapporti interprivati”, naPoLi, Disegno di legge delega e modifica al Titolo V della Costituzione, op. cit., 364, che po-co prima afferma: “l’ordinamento civile è il complesso delle norme sostanziali applicate nella giurisdizione civile e cioè il complesso delle norme concernenti i rapporti tra i privati. L’espres-sione ordinamento civile è equivalente dell’espressione “diritto civile”, purché non venga in-tesa in senso stretto, ma sia comprensiva anche dei cosiddetti diritti secondi (diritto commer-ciale, diritto agrario, diritto del lavoro ecc.). Se l’espressione ordinamento civile significa che allo Stato è demandata la legislazione concernente i rapporti tra cittadini, dobbiamo necessa-riamente inserire in essa la materia dei rapporti di lavoro”. Critico nei confronti di tale ricostru-zione caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nel-la governance multilivello), op. cit., 848, il quale le addebita di utilizzare la formula in discor-so “come barriera, piuttosto che come filtro adeguatamente selettivo nei confronti di ogni in-

861

una specificità che lo differenzia per tratti anche assai rilevanti dal dirit-to privato e dai modelli classici dell’autonomia privata. Il diritto del lavo-ro ha dovuto conquistarsi la propria autonomia ed indipendenza, anche scientifica, dal diritto privato 60, sì che, ad avviso di alcuni, “venuta me-no l’unità sistematica del diritto privato, ricondurre discipline dotate or-mai di una loro autonoma disciplina, come il diritto del lavoro e il diritto commerciale, al concetto di ordinamento civile potrebbe essere conside-rata un’inammissibile forzatura” 61. Ad avviso della maggioranza dei commentatori, ad ogni modo, tali specificità “non hanno alterato lo sche-ma privatistico del contratto e del rapporto che, del resto, ed è constata-zione non secondaria, è ancora parte integrante dei nostri manuali di di-ritto privato” 62. Infatti, il “diritto del lavoro, pur nella rivendicata specia-lità, ha sempre voluto preservare il collegamento ombelicale con la ma-trice civilistica per continuare a possedere coordinate di metodo e di si-stema e restare, quindi, diritto”, e pertanto la “contaminazione degli isti-tuti privatistici ad opera di normative inderogabili di stampo pubblicisti-co non esclude di certo la riconducibilità a quella nozione” 63.

Alla medesima conclusione si giungerebbe anche per la dimensione

tervento che possa riguardare la disciplina del contratto e del rapporto individuale di lavoro, nonché il diritto sindacale”.

60 Si v., ad esempio, BaLLestrero, Differenze e principio di uguaglianza, in «Lav. dir.», 2001, 424, ad avviso della quale l’espressione ordinamento civile non comprenderebbe l’inte-ro diritto del lavoro, in quanto “una soluzione in questo senso sarebbe certo tranquillizzante, ma difficile da accettare per lo studioso del diritto del lavoro, che non può dimenticare la sto-ria di una disciplina cresciuta intorno a principi propri, sviluppata grazie alla progressiva sepa-razione dal diritto privato e attraverso una compressione dell’autonomia contrattuale indivi-duale che trova la sua ragion d’essere nella funzione protettiva delle norme lavoristiche. Una disciplina dei rapporti tra diseguali, anziché, come il diritto privato, una disciplina dei rappor-ti tra eguali”.

61 Persiani, Devolution e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2002, 24.62 Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, op. cit., 80.63 maGnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, in «Arg. dir. lav.», 2002, 653. An-

che il CNEL ha sottolineato che l’impianto dell’ordinamento giuslavoristico italiano lascia propendere a favore di “una dimensione nazionale del diritto del lavoro”, ed in particolare per quanto attiene alla disciplina del contratto e del rapporto di lavoro, in quanto tali rientranti nel-la nozione di ordinamento civile e quindi rimessi alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. V. cneL, Osservazioni e proposte, la riforma del Titolo V della Costituzione, Assemblea del 24 gennaio 2002: “il diritto del lavoro trova nei principi fondamentali e nella prima parte della Costituzione le sue norme peculiari di giustificazione (artt. 1, 3 e 4), di autotutela e di autonor-mazione (artt. 39 e 40) e di disciplina dei diritti individuali (artt. 35, 36, 37 e 38)”, norme che “lasciano propendere a favore di una dimensione nazionale del diritto del lavoro”. Opzione pe-raltro ribadita dallo stesso autorevole consesso in occasione del Parere sul DDL S-848/2001, Assemblea 18 febbraio 2002.

862

collettiva della disciplina, vale a dire il diritto sindacale, poiché lo stesso rilievo attribuito a tali ambiti del diritto del lavoro dalla Carta Costituzio-nale (artt. 39, comma 1 e 40, letti in connessione con l’art. 3, comma 2), ne radica l’esclusiva competenza statale, anche con riguardo alla loro na-tura di strumenti essenziali predisposti dall’ordinamento per il riequili-brio delle condizioni di potere tra i contraenti del rapporto di lavoro, mentre la ricostruzione del diritto sindacale in chiave di autonomia priva-to-collettiva, utilizzando categorie civilistiche, non farebbe che confer-mare tale lettura 64.

La “delicatezza degli equilibri socio-politici cui i rapporti sindacali corrispondono”, nonché la “rilevanza immediatamente costituzionale de-gli svolgimenti cui essi si riferiscono” 65, sembrano dunque motivi di ine-vitabile preclusione alle Regioni circa la possibilità di legiferare in mate-ria sindacale. Tale preclusione comprenderebbe tanto il fronte regolativo quanto il versante promozionale dell’attività sindacale, quali ad esempio la selezione degli agenti negoziali, regole di efficacia della contrattazione collettiva, diritti di informazione, limiti al diritto di sciopero 66.

64 f. carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit.: “co-munque si intenda l’espressione “ordinamento civile”, di certo il diritto del lavoro ricade all’interno della nozione “ordinamento civile”, sia nella sua parte sindacale, tutta ricostruita in parziale difformità dalla Costituzione formale in chiave di autonomia collettiva-privata, sia nella sua parte individuale, tutta fondata sul contratto di lavoro”. Di contrario avviso caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance multilivello), op. cit., 848, nota 155, ad avviso del quale sia la contrattazione collettiva pubbli-ca (ma anche del settore privato) sia la regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici es-senziali, “evidenziano, invece, la funzionalizzazione del diritto sindacale alla regolazione di interessi generali e non privatistici, mettendo in tal senso in discussione l’afferenza del diritto sindacale all’ordinamento civile”. Ed ancora, 850-851, “nessuno si sentirebbe di mettere in di-scussione il fatto che il diritto di sciopero, sebbene riconosciuto e garantito in tutti gli ordina-menti europei a costituzione rigida, e ora pure nella Costituzione europea, possa essere rego-lato, quanto a modalità del suo esercizio, in modo differenziato a livello di singoli Stati, senza che ciò possa incidere sul suo riconoscimento come diritto. Non è, dunque, la differenziazio-ne regolativa dell’esercizio in quanto tale che ne fa presumere la violazione o il conculcamen-to del diritto. […] perché ritenere ammissibili difformità regolative tra territori statali e non ammissibili, invece, difformità tra territori infra statuali, posto che Stati e Regioni sono consi-derati entità istituzionalmente equipollenti come soggetti di regolazione sociale, sia nell’ordi-namento comunitario sia, dopo la riforma del 2001, nell’ordinamento costituzionale interno? Perché ritenere che la governance multilivello debba fermarsi alla “dogana” degli Stati nazio-nali e il pagar dazio?”.

65 saLomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tec-niche di regolazione territoriale, op. cit., 130.

66 treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 47: “l’intero equilibrio fra gli attori col-lettivi e fra i relativi poteri, quindi l’essenza stessa delle relazioni industriali, è interessato dal-la disciplina diretta alla attuazione dei principi costituzionali. Spetta dunque alla comunità na-

863

5. Il principio di uguaglianza tra proposte di ricontestualizzazione ed ineludibili esigenze di uniformità normativa

Per quanto dotato di indiscutibili argomenti testuali e sistematici – e di una persuasività che lo rende il più condiviso tra i commentatori – l’orientamento teso a ricondurre alla voce “ordinamento civile” l’intera disciplina lavoristica è affiancato da differenti letture della problematica sottesa, che tuttavia ne condividono gli afflati accentratori e di uniformi-tà. In particolare, pur valutando indiscutibile che la riforma costituziona-le abbia comportato una valorizzazione della dimensione territoriale con conseguente allargamento delle competenze anche normative delle Re-gioni, altrettanto indubitabilmente, tuttavia, il contesto di principi, di re-gole, di norme fondamentali costituito dalla prima parte della Costituzio-ne repubblicana non è stato minimamente intaccato dalla revisione, co-sicché non i primi si devono adattare a quest’ultima, ma quest’ultima ai primi. La revisione costituzionale, invero, ha interessato solo una frazio-ne della Carta della Repubblica, vale a dire il Titolo V della sua Parte se-conda, rendendosi necessaria un’armonizzazione con l’intero residuo te-sto, “che non è solo quantitativamente ma anche qualitativamente preva-lente, per ricomprendere i Principi fondamentali e tutta la Parte Prima dettata sui diritti e doveri dei cittadini, cioè la parte che la caratterizza co-me Costituzione lunga e sociale” 67.

Così, sul presupposto che oggetto della rilevazione è una norma co-stituzionale (l’art. 117), l’interpretazione di quest’ultima non può pre-scindere da quelli che sono i principi fondamentali enunciati nella Costi-tuzione stessa, “principi che non solo forniscono il criterio di interpreta-zione delle altre disposizioni costituzionali, ma costituiscono anche un limite a quell’interpretazione nel senso che essa non può condurre a ri-sultati che siano in contrasto con quei principi” 68. La necessità di anco-rare saldamente la competenza normativa statale sul tema oggetto della presente indagine acquista ulteriore vigore valutando la rilevanza che svolge il principio costituzionale di uguaglianza, principio più volte ri-chiamato dalla Consulta, ad avviso della quale esso consiste “nell’esi-genza che sia assicurata su tutto il territorio nazionale una uniformità di disciplina e di trattamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra soggetti privati, i quali attengono allo svolgimento delle libertà giuridicamente

zionale definire, nel contesto storico dato, le modalità di intervento e il mix di promozione/re-golazione, relativo alle relazioni collettive e in particolare alle azioni sindacali”.

67 F. carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costituzione, op. cit.68 Metodo di indagine prospettato da Persiani, Devolution e diritto del lavoro, op. cit., 26.

864

garantite e sono dunque legati al correlativo requisito costituzionale del godimento di tali libertà in condizioni di formale eguaglianza, ai senti de-gli artt. 2 e 3 della Costituzione” 69. Pertanto, pur nella consapevolezza che un’accurata indagine sulla complessiva valenza del principio in di-scorso esuli dai temi della presente indagine, è d’uopo richiamare, alme-no nei limiti del necessario, il particolare rilievo che esso assume nel di-ritto del lavoro: quest’ultimo, a differenza del diritto privato, non postula l’eguale forza contrattuale dei soggetti che danno vita ad un rapporto si-nallagmatico bensì, al contrario, partendo dal presupposto della sostan-ziale debolezza economica e sociale di uno dei contraenti, si pone preci-puamente l’obiettivo di riequilibrare l’impari rapporto di forze tra chi of-fre la propria prestazione lavorativa ai titolari dei mezzi di produzione in cambio della fornitura dei mezzi necessari a garantire la propria sussi-stenza. Ora, non possono sussistere dubbi che la valenza del principio di uguaglianza verrebbe gravemente messa a repentaglio da un impianto fe-deralista delle attribuzioni legislative che condizionasse il livello di ga-ranzia di condizioni di vita e di lavoro alla mera collocazione geografica dei lavoratori e che, conseguentemente, non ne garantisse un’uniforme applicazione sull’intero territorio nazionale. Il diritto del lavoro, infatti, risulta “particolarmente sensibile all’applicazione del principio di ugua-glianza e alle sue possibili rotture da parte di un modello federale non ab-bastanza attento alla garanzia di condizioni di vita e di lavoro uniformi sul territorio nazionale” 70. Tanto più che, sotto questa angolazione, sa-rebbe proprio l’applicazione del principio di sussidiarietà a condurre a tale soluzione: “se in una materia non sono ammissibili differenziazioni territoriali, l’uniformità di trattamento non può che essere assicurata da una legislazione nazionale; se così non fosse, dovremmo negare al prin-cipio di uguaglianza la natura di principio fondamentale conferitagli (ol-

69 Corte Cost., 26 ottobre 1995, n. 642, in «Giur. cost.», 1995, 3585. Giudica “incon-gruo” tale orientamento per escludere l’ammissibilità di un diritto del lavoro regionale, saLo-mone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di rego-lazione territoriale, op. cit, 104, poiché “pur chiamando in causa il c.d. limite del diritto priva-to, essa non riesce a dimostrare l’assunto principale della tesi che intende propugnare: l’impos-sibilità per le regole territoriali di entrare nel campo del diritto del lavoro strettamente inteso, cioè all’interno della disciplina del contratto di lavoro e del diritto sindacale”.

70 treu, Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 38. Contra, roPPo, Diritto privato regio-nale?, op. cit., 577, il quale, valutando l’antinomia tra uguaglianza ed autonomia sostiene che non sia possibile erigere il principio di uguaglianza a limite generale per l’autonomia privata, poiché sarebbe evidente che fare ciò “significherebbe negare l’autonomia stessa nella sua es-senza profonda”. Potrebbe, tuttavia, rilevarsi che qui non è in gioco l’autonomia, anzi la diffe-renziazione è legittima ed auspicabile ove avvenga tramite la contrattazione collettiva: in que-sta sede si tratta di atti normativi ed il contrasto tra autonomia ed uguaglianza non si pone.

865

tre che dalla storia del principio stesso) dalla sua collocazione topografi-ca nel testo costituzionale, ovvero giungere al paradosso che le Regioni hanno competenza legislativa su una certa materia, ma hanno anche l’ob-bligo di legiferare tutte nello stesso modo” 71.

Ad avviso di alcuni autori, tuttavia, la pregnanza del principio in di-scorso non apparirebbe, comunque, preclusiva in assoluto di possibili differenziazioni su base regionale del diritto del lavoro, dovendo “guar-darsi dall’attribuire una rilevanza direttamente normativa al principio di uguaglianza, che semmai può essere visto come un elemento della ratio esplicativa del positivo riparto delle competenze, ed in particolare dell’attribuzione dell’ordinamento civile alla competenza esclusiva del-lo stato” 72, posto che il federalismo, o comunque una valorizzazione scevra da pregiudizi delle competenze territoriali decentrate, imporreb-be ciò che è stata definita una “laicizzazione del diritto del lavoro”. Ope-razione, quest’ultima, che, sul presupposto di poter “distinguere ciò che è essenziale da ciò che lo è meno […], dovrebbe avere come logico co-rollario, anche un ripensamento, inteso come ricontestualizzazione, del principio di uguaglianza” 73.

Il processo di ricontestualizzazione così prospettato, che si pretende costituire coerente applicazione dei principi di sussidiarietà e di ragione-volezza, si esprime tramite una nuova delimitazione della competenza normativa tra Stato e Regioni, non più utilmente basata sulla rilevanza o meno della materia trattata; si afferma, infatti, che, all’interno di ogni singola materia oggetto di disciplina, occorrerebbe individuare un’area da ritenersi legata ad una regolamentazione statale in quanto diretta ma-nifestazione di principi di carattere fondamentale ed un’area, al contra-rio, suscettibile di possibili adattamenti e modifiche di carattere territo-riale, senza minare quegli stessi principi. Con l’avvertenza tuttavia che

71 M.G. GarofaLo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 405.72 maGnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, valori e tecniche nel diritto del lavo-

ro, op. cit., 58: “il principio di uguaglianza non è coordinante ma deve essere coordinato da quello di autonomia”.

73 Citazioni tratte da deL Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, op. cit., 433. Ma si v. an-che BiaGi, Il lavoro nella riforma costituzionale, op. cit., 12 e aLessi, Professionalità e contrat-to di lavoro, Padova, 2004, 44: “la riforma in senso federale dello Stato impone di impostare in termini diversi il giudizio di uguaglianza tra cittadini, non perché il criterio della residenza geografica diventi un elemento rilevante nel giudizio medesimo, ma perché cambia la stessa base di comparazione, cioè il trattamento da riservare ad ogni cittadino, indipendentemente dalla Regione in cui si trova. Fino alla riforma del Titolo V, in altre parole, si poteva certo rite-nere contraria all’art. 3 Cost. qualunque differenza di trattamento su base regionale, mentre oggi il giudizio di eguaglianza riguarda solo il contenuto essenziale dei diritti fondamentali”.

866

“se in molti casi potrà accadere che ciò che viene individuato come fon-damentale rimanga lasciato nelle mani dello Stato, questa sarà una scel-ta politica legata al mix di nazionalismo e regionalismo che si vuole in-trodurre; potrà essere fatta, in alcuni casi, una scelta diversa giacché an-che le leggi regionali sono vincolate al rispetto delle norme costituziona-li” 74. Un’eventuale scelta diversa, in sostanza, riceverebbe copertura co-stituzionale dall’accentuata valorizzazione delle prerogative territoriali scaturita dalla riforma del Titolo V, seppur nel contesto dell’assetto costi-tuzionale vigente 75.

Chi ha inteso valorizzare l’acquisizione di maggiori ambiti di inter-vento del legislatore regionale in materie lavoristiche avrebbe dunque ri-levato come “la concezione del diritto del lavoro come diritto statuale uniforme nel nostro assetto costituzionale è in crisi, in qualche modo, ab origine, dalla presenza dell’articolo 39 Cost. (e dell’articolo 40 Cost.) e per l’esistenza della contrattazione collettiva, tutelata a livello costituzio-nale in tutte le sue forme ed applicazioni” 76 e che, per altro verso, non sa-rebbe stata ancora dimostrata “l’esistenza di una relazione univoca tra uniformità regolativa sul territorio nazionale, principio di eguaglianza formale e livelli (alti) di tutela sostanziale” 77.

Principio di uguaglianza, quindi, che non potrebbe fungere da crite-rio guida per l’attribuzione di competenze tra i diversi livelli dell’ordina-mento, essendo indubitabile che esso “costituisca – a prescindere da qua-le debba esserne l’effettiva portata – regola generale e fondamentale dell’intero sistema, senza distinzioni di materie e senza contrapposizioni tra legislatore statale e regionale” 78. Allora la questione che dovrebbe in-vestire maggiormente il giuslavorista non sarebbe l’inerenza o meno del principio di uguaglianza alle materie oggetto di differenziazione territo-riale, quanto, piuttosto, la giustificabilità delle diversità in ragione della loro riconducibilità a principi (che si traducono in disciplina di materie o di porzioni di materia) che non possono sopportare differenziazioni re-gionali o, viceversa, in materie che invece possono tollerarne in qualche

74 deL Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, op. cit., 433.75 BartoLe, Bin, faLcon, tosi, Diritto regionale. Dopo le riforme, Bologna, 2003, 157 ss.76 saLomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tec-

niche di regolazione territoriale, op. cit., 96-97. 77 caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali

nella governance multilivello), op. cit, 846, sostiene, anzi, che tramite interpretazioni della ri-forma del Titolo V in materia giuslavoristica dominate dal principio di eguaglianza l’egua-glianza sostanziale andrebbe a scapito di quella formale.

78 schLesinGer, Ordinamento civile, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, op. cit., 29.

867

misura. In altre parole, “l’attribuzione di un’area alla competenza legi-slativa statale o regionale trova la sua giustificazione dalla valutazione delle dimensioni di interessi coinvolti, frutto in larga misura, anche ri-spetto al lavoro, di una valutazione politica dei soggetti chiamati ad ap-prezzarla” 79, senza che ciò, tuttavia, possa dipendere da “pregiudizi aprioristici” 80.

Seppur intesa come ricontestualizzazione in senso dinamico del prin-cipio di uguaglianza, tale ricostruzione incontra ostacoli che non possono essere trascurati. La variabilità geografica dei diritti che ne discenderebbe pare comunque costituire un vulnus all’espressione dell’uguaglianza, in-tesa tanto nella sua accezione formale che sostanziale. Sembra infatti cor-retto affermare che per legittimare una differenziazione territoriale del re-gime giuridico applicabile al rapporto di lavoro non sia validamente so-stenibile richiamare la situazione di disparità economico-sociale nelle dif-ferenti aree del Paese, perché le difformità che darebbero origine al tratta-mento differenziato, in realtà, sarebbero indotte da “diversità che non hanno direttamente a che fare con la condizione del lavoratore ma semmai con la collocazione geo-politica dell’impresa” 81.

In questo senso, la funzione di tutela del lavoratore emerge in parti-colare in un contesto ben preciso del settore giuslavoristico, vale a dire quello del mercato del lavoro. Le condizioni geo-politiche nelle quali il lavoratore svolge la propria attività, infatti, variano a seconda del conte-sto territoriale. Pertanto, tali differenze di condizioni appaiono idonee a giustificare, in conformità al principio di uguaglianza inteso in termini sostanziali, la predisposizione da parte delle autorità locali di mezzi e strumenti differenziati, in modo da poter offrire, nel mercato del lavoro interessato, un ventaglio specifico e mirato di soluzioni volte alla collo-cazione o ricollocazione del lavoratore in cerca di occupazione 82. Peral-tro, pur nella necessità di ribadire ulteriormente la particolarità del prin-cipio di uguaglianza in ambito lavoristico 83 – che coglie “un principio etico, il principio della personalità del lavoro, il quale fa valere l’imma-

79 saLomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tec-niche di regolazione territoriale, op. cit., 101.

80 schLesinGer, Ordinamento civile, in aa.vv., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, op. cit., 29.

81 BaLLestrero, Differenze e principio di uguaglianza, op. cit., 426.82 In questo senso, è evidente come la disomogeneità territoriale delle tecniche di produ-

zione determini un processo di segmentazione del mercato del lavoro, tale per cui sembra cor-retto ritenere che il “massimo di giustizia” coincida con il “massimo di diversificazione nor-mativa”: BarBera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, 27.

83 Che pare tutelare “una parte contro l’altra in palese contrasto con il dogma dell’egua-

868

nenza della persona del lavoratore nel contenuto del rapporto contro la concezione patrimoniale ed egualitaria del diritto civile, che considera il rapporto di lavoro alla stregua di un rapporto di scambio tra due proprie-tari” 84 – e nell’ottica di una complessiva valorizzazione dei principi co-stituzionali, non può prescindersi, tuttavia, dal rilevare che anche il dirit-to di iniziativa economica, e quindi il diritto di impresa, sia meritevole di riconoscimento, apprestato all’uopo dall’art. 41 Cost. 85. Se così non fos-se, “dovremmo affermare che la regolamentazione del contratto di lavo-ro sia esclusivamente diretta alla tutela del lavoro, mentre – evidente-mente – è teso a realizzare l’equilibrio (politicamente desiderato) tra i contrapposti interessi delle parti in causa, e, più in radice, a legittimare il potere dell’imprenditore sull’organizzazione produttiva” 86.

In altre parole, si può sostenere che “la funzione del diritto del lavo-ro consiste nella realizzazione del reciproco ed equilibrato contempera-mento del valore proprio del lavoro umano e del valore dell’impresa in quanto la realizzazione di quest’ultimo condiziona necessariamente quel-la del primo” 87. Chiamato ad assolvere tale funzione, il diritto del lavoro deve necessariamente misurarsi con una realtà economica e sociale che non può essere confinata ad una dimensione localistica e particolare ma deve semmai riferirsi ad un contesto sostanzialmente omogeneo per tut-to il territorio nazionale, “in quanto caratterizzat[o] dal conflitto di inte-

glianza dei contraenti”, Gaeta-zoPPoLi (a cura di), Il diritto diseguale. La legge sulle azioni po-sitive. Commentario alla legge 10 aprile 1991, n. 125, Torino, 1992, 6.

84 menGoni, Diritto civile, in L’influenza del diritto del lavoro su diritto civile, diritto processuale civile, diritto amministrativo, in «Giorn. dir. lav. rel. ind.», 1990, 6.

85 V. d’antona, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in «Giorn. dir. lav. rel. ind.», 1991, 464: “Autonomia negoziale e fonti eteronome […] fanno parte di un me-desimo processo regolativo, internamente complesso ma unitario quanto alla funzione, che è quella di bilanciare potere e consenso nella sfera della produzione, il potere di chi organizza il lavoro per il profitto proprio, e il consenso di chi, per quanto determinato dalla necessità, pre-sta lavoro volontariamente”.

86 M.G. GarofaLo, Federalismo, devolution e politiche dell’occupazione, op. cit., 463. Ma v., più diffusamente, del medesimo A., Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in Scrit-ti in onore di Gino Giugni, t. I, Bari, 1999, 453.

87 Persiani, Devolution e diritto del lavoro, op. cit., 27: “se la funzione del diritto del la-voro fosse quella di assegnare priorità assoluta alla tutela di chi lavora sarebbe illegittimamen-te mortificato il valore dell’impresa che finirebbe per essere considerata un luogo di occupa-zione e non già come è e deve essere un luogo di produzione della ricchezza”. Si v. santucci, Parità di trattamento, contratto di lavoro e razionalità organizzative, Torino, 1997, 2, ad avvi-so del quale il principio di uguaglianza “deve tradursi in regole e vincoli attraverso un percor-so argomentativo che rispetti tanto l’autonomia negoziale, quanto la libertà di impresa, anch’es-se costituzionalmente protette”.

869

ressi connaturato al sistema di produzione capitalistico” 88, insuscettibile di adattamento localistico poiché radicato all’interno dei rapporti di pro-duzione, e quindi dell’impresa 89.

L’elemento territoriale, in altre parole, non determinerebbe una va-riazione dei termini di quello stesso conflitto, la cui tipicità sociale si esprime proprio nel riferirsi ad interessi costantemente coinvolti nel con-flitto industriale, senza essere condizionato né dalla posizione geografi-ca né dalle condizioni socio-economiche dei territori nei quali si svolge. Una disciplina regionale del diritto del lavoro differenziata per territorio, pertanto, non potrebbe trovare ragionevole giustificazione sulla base del-le peculiarità di carattere socio-economico inevitabilmente legate ad ogni contesto territoriale, proprio perché sulla base di tali differenze non po-trebbe legittimamente sostenersi una diversità di interessi coinvolti nell’esercizio dell’impresa e nel corrispondente svolgimento di un’attivi-tà di lavoro subordinato.

Le stesse differenze, richiamate da chi ha preteso dedurne una ne-cessaria ricontestualizzazione del principio di uguaglianza, dunque, non costituirebbero né violazioni del principio stesso né strumenti per soste-nere la legittimità di discipline differenziate territorialmente. Esse, senza sottintendere particolarismi locali di interessi a rilevanza nazionale, sono state ritenute semmai ragionevoli proprio perché giustificabili dalle pe-culiari caratteristiche degli interessi in conflitto 90 e dagli specifici valori, anche pubblici, che ad essi sono connessi 91.

88 Persiani, Devolution e diritto del lavoro, op. cit., 28.89 L’impresa, dunque, sarebbe il luogo del conflitto ove le caratteristiche del territorio, nel

quale l’attività imprenditoriale è di fatto esercitata, scoloriscono a condizioni ambientali, senza pregiudicarne la natura. Ciò, pur nella consapevolezza che, nell’accezione del termine ugua-glianza in senso verticale, ossia tra l’imprenditore ed i suoi dipendenti, “se l’impresa è il luogo di massima rifrazione delle disuguaglianze, al tempo stesso è il luogo in cui è impossibile abo-lirle. In effetti, si fa presto a dire che gli abitanti del pianeta impresa sono pur sempre cittadini di una Repubblica democratica e come tali vanno trattati. Poi, bisogna realisticamente ricono-scere che lo stesso Lavoro – quello con la elle maiuscola – che conferisce la cittadinanza, ripro-duce immancabilmente dentro l’impresa le asimmetrie che ne pregiudicano l’essenza paritaria e il diritto che […] dal lavoro “prende nome e ragione” non ha risolto la contraddizione: ha pre-ferito metabolizzarla”: romaGnoLi, Il diritto del lavoro nel prisma del principio di eguaglianza, in naPoLi (a cura di), Costituzione, Lavoro, Pluralismo sociale, Milano, 2001, 22.

90 Persiani, Devolution e diritto del lavoro, 28: “la contrattazione collettiva articolata a differenza di una eventuale legislazione regionale del lavoro esprime valutazioni che hanno pur sempre riguardo esclusivo al conflitto industriale e non già ad interessi locali connessi al territorio. Oltretutto l’eventuale diversità della disciplina prevista dalla contrattazione colletti-va articolata rispetto a quella nazionale è espressamente legittimata dal principio costituziona-le della libertà sindacale”.

91 è questa, probabilmente, la corretta applicazione del criterio della ragionevolezza, pre-

870

Senza trascurare che, come si è già avuto modo di sottolineare più volte, un’applicazione del diritto del lavoro uniforme sul territorio si ren-de necessaria considerando il pericolo che il legislatore regionale alteri l’assetto degli interessi coinvolti nel conflitto industriale dato dalla legi-slazione nazionale, determinando da un lato ingiustificabili restrizioni dell’esercizio del diritto al lavoro su tutto il territorio nazionale infran-gendo l’unità giuridica ed economica del sistema e, d’altro lato, inevita-bili disparità di trattamento per la tutela dei lavoratori o per la libertà di iniziativa economica 92. In conclusione, consentire la diversificazione ter-ritoriale delle regole relative ai contratti ed alle obbligazioni dello stesso diritto del lavoro appare inaccettabile 93.

6. La competenza concorrente: il nodo della tutela e sicurezza del lavoro

Alla luce delle considerazioni esposte nei paragrafi precedenti appa-re evidente la premessa metodologica da cui parte l’orientamento espres-so dalla dottrina maggioritaria: tra le materie “ordinamento civile” e “tu-tela e sicurezza del lavoro” il rapporto è di reciproca autonomia. Si pro-cede, pertanto, ad un sostanziale ridimensionamento della formula “tute-la e sicurezza del lavoro”, collocata in regime di competenza concorren-

dicato anche dalla Corte Costituzionale, che si intende positivamente adempiuto “dimostran-do che la disparità di trattamento non è arbitraria e anzi è arbitrario disinserirla da un’ottica di bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, per cui i suoi effetti lesivi – per quanto innegabili – non sono perciò solo censurabili”, romaGnoLi, Il diritto del lavoro nel prisma del principio di eguaglianza, in naPoLi (a cura di), Costituzione, Lavoro, Pluralismo sociale, op. cit., 26. Si v. anche PaLadin, Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano, 1965, 213.

92 Come incisivamente sottolineato da BaLLestrero, Differenze e principio di uguaglian-za, op. cit., 426: “a me pare fuori discussione che, almeno nell’area dei diritti sociali fonda-mentali ai quali si lega buona parte della legislazione in materia di tutela e sicurezza del lavo-ro, le ragioni dell’eguaglianza debbano superare le spinte verso una diversificazione”.

93 Anche perché, come autorevole dottrina sottolinea, “sostenere il contrario significhe-rebbe consentire una forte diversificazione di regole e tutele sul territorio nazionale che […] appare pericolosa e foriera di pesanti conseguenze sul piano dell’unità sociale e politica del Paese. E ciò non solo perché si svilupperebbero fenomeni di dumping regolativi assai depreca-bili dal punto di vista di un equilibrato ed omogeneo sviluppo delle diverse aree regionali, ma soprattutto perché si rischierebbe di giungere ad una insostenibile differenziazione dei tratta-menti normativi (nonché, direttamente o indirettamente, economici) dei lavoratori delle diver-se regioni, in barba ad un principio di eguaglianza che, confesso, mi sembra sia sempre più fre-quentemente percepito, da alcune aree culturali del Paese, solo come una rigidità fastidiosa, da eliminare, piuttosto che come un ambizioso progetto di sviluppo della società italiana posto dai Padri della Repubblica a fondamento dell’ordinamento giuridico costituzionale”, cara-BeLLi, Federalismo e diritto del lavoro: brevi riflessioni a margine di un seminario, in di sta-si (a cura di), Diritto del lavoro e federalismo, Milano, 2004, 12.

871

te e sulla quale, occorre ricordare, incide il limite dei principi fondamen-tali di matrice statale che fa da cornice agli interventi normativi regiona-li. Di essa, come ormai ampiamente evidenziato, si esclude categorica-mente ogni interferenza con il diritto del lavoro o almeno con il suo cor-po classico, vale a dire la disciplina del rapporto di lavoro e del diritto sindacale. Al tempo stesso, tuttavia, sorge il problema dell’esatta defini-zione del significato da attribuire alla formula utilizzata dal legislatore della revisione costituzionale. Formula, infatti, che pare emergere “dal nulla, senza alcuna storia alle spalle” 94 con una “novità pari solo alla sua ambiguità” 95 e di cui viene fin da subito lamentato l’insufficiente grado di univocità, specie a fronte della tradizione giuridica che ha contraddi-stinto il diritto del lavoro in Italia 96.

I due termini utilizzati non sono mai stati, nell’ordinamento interno, posti in relazione fra loro né, tanto meno, l’espressione è mai stata utiliz-zata come endiadi riassuntiva del diritto del lavoro. Nella logica di una possibile eterogeneità semantica dei due termini, la “tutela” sembrereb-be porsi in termini teleologicamente orientati, potendo evocare le norme inderogabili poste a presidio della dignità del lavoratore e a limitazione del potere del datore di lavoro. La cripticità ed ambiguità della nozione, inoltre, emerge in tutta la sua ampiezza valutando la “tutela del lavoro” alla stregua di un richiamo all’art. 35 Cost., norma ritenuta per certi ver-si fondativa dell’intero diritto del lavoro: se, in questo senso, la tutela in-dica il tutto (comprensivo quindi anche della disciplina dei rapporti di la-voro), quale il significato del termine “sicurezza” che l’accompagna 97?

A sua volta, il termine “sicurezza”, che si presta con maggiore facili-tà ad una ricostruzione in termini oggettivistici ed a cui pare conseguen-temente applicabile il criterio storico-normativo, è suscettibile di un si-gnificato comunque variegato, potendo consistere, evidentemente, nella specifica tutela della salute del lavoratore nell’ambito dell’organizzazio-ne delle condizioni materiali nelle quali si esplica la sua attività lavorati-va, e così nell’igiene e sicurezza del lavoro 98, come complesso di prescri-

94 F. carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 52.95 trojsi, Prime indicazioni su “tutela e sicurezza del lavoro” nella recente giurispru-

denza costituzionale, in «Dir. lav. merc.», 2003, 194. 96 In particolare si v. F. carinci, La materia del lavoro nel nuovo Titolo V della Costitu-

zione, op. cit., 74.97 F. carinci, Osservazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione, in carinci-mi-

scione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al disegno di legge delega 2002, Mi-lano, 2002, 7; rileva che se si optasse per tale interpretazione il riferimento alla sicurezza sa-rebbe ridondante anche maGnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, op. cit., 649.

98 GariLLi, Diritto del lavoro e nuovo assetto dello Stato, in «Riv. giur. lav.», 2004, I, 350.

872

zioni normative di origine interna e comunitaria, ed allora il termine stes-so potrebbe evocare il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, di cui l’art. 2087 c.c. rappresenta senza dubbio alcuno l’architrave della disci-plina 99. Da sottolineare ulteriormente che la legislazione antinfortunisti-ca è assistita, in caso di violazione, da sanzioni di carattere penale: “non è dunque ipotizzabile che su di essa si possa intervenire con regolazioni dissimili su base regionale, in virtù del principio costituzionale (ex art. 25, comma 2) di riserva di legge statale in materia penale” 100. Evidente, inol-tre, un’ulteriore obiezione che può muoversi: se, come rilevato, l’art. 2087 c.c. rappresenta il fulcro delle obbligazioni contrattuali che il datore di la-voro assume in tema di sicurezza intesa come obbligo di predisporre le migliori garanzie a difese dell’incolumità, fisica e psichica, dei lavorato-ri, la norma, destinata comunque a regolamentare un aspetto, per quanto specifico, del rapporto di lavoro, disciplina un rapporto tra privati e sareb-be pertanto riconducibile alla materia ‘ordinamento civile’.

Di fronte a tali obiettive difficoltà ricostruttive, si è privilegiata un’at-tività interpretativa che abbandona l’ottica di un’analisi separata dei due termini e che, viceversa, ne valuta il significato tramite un approccio in-tegrato, alla stregua di un’endiadi riassuntiva di un medesimo concetto. Converge su questa metodica la convinzione pressoché unanime della

99 L’area della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, tuttavia, è quella che meno si presta ad essere compresa tra le materie di competenza legislativa concorrente. Militano a fa-vore di tale conclusione alcune osservazioni: prima di tutto, la sicurezza del lavoro è diretta espressione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e pertanto pre-tende un’applicazione uniforme dei suoi tratti sostanziali su tutto il territorio nazionale. In se-condo luogo, la citata produzione normativa comunitaria impone una responsabilità primaria, in merito alla sua trasposizione nell’ordinamento interno, da parte dello Stato si v., in partico-lare, rocceLLa, Il lavoro e le sue regole nella prospettiva federalista, op. cit., 506: “sarebbe al-quanto stravagante, dunque, che possano crearsi le condizioni di un’applicazione differenzia-ta da una Regione all’altra delle direttive comunitarie in materia: tenuto conto, oltre tutto, che ad essere chiamato in causa davanti alla Corte di giustizia, nel contesto di un’eventuale proce-dura d’infrazione, sarebbe sempre e comunque lo Stato”.

100 Lai, Flessibilità e sicurezza del lavoro, Torino, 2006, 220. Il medesimo Autore, poco oltre, 227, afferma che “la soluzione proposta non preclude del resto la possibilità di interventi da parte delle regioni nella materia qui considerata. A titolo esemplificativo, le aree di interven-to delle regioni e degli altri enti autonomi territoriali in materia di salute e sicurezza del lavoro […] potranno in primo luogo riguardare la garanzia di una efficace attività di informazione, consulenza ed assistenza nei confronti delle imprese e dei lavoratori, assicurata direttamente dall’ente pubblico territoriale o tramite un raccordo tra gli organismi a ciò deputati. Altro terre-no di intervento è quello degli incentivi e delle norme premiali a sostegno delle iniziative azien-dali, specie di piccola e media impresa, volte al miglioramento delle condizioni di igiene e si-curezza o finalizzati al riconoscimento ed alla diffusione di buone prassi applicative”, mentre “altro aspetto di rilievo è poi quello relativo allo sviluppo della cultura della prevenzione”.

873

dottrina: l’ipotesi maggiormente qualificata del significato della materia in esame, infatti, all’indomani della revisione costituzionale (ed oggi molto più che una mera congettura dottrinale, per vero), interpreta la no-zione in commento, pur tra numerose differenziazioni al suo interno, nel senso che essa riguarderebbe innanzitutto il mercato del lavoro, soprat-tutto in considerazione dell’esperienza anteriore alla riforma del 2001. Tale interpretazione, dotata di una indubbia razionalità ed organicità in-terne 101, presenta, come si accennava, profonde divergenze in merito al-la nozione di mercato del lavoro accolta 102.

101 Ma parla anche di “ragionevole e per così dire “naturale” attribuzione alle Regioni, in un progetto inteso a valorizzare l’intervento di queste ultime e delle autonomie locali (senza però stravolgere l’assetto precedente)”, Lassandari, La disciplina del mercato del lavoro nel nuovo disegno costituzionale, in «Riv. giur. lav.», 2002, 238.

102 Pur nella medesima tendenza ad intendere la materia in termini maggiormente “ogget-tuali”, infatti, ad avviso di alcuni essa comprenderebbe “la parte più propriamente amministra-tiva del diritto del lavoro (servizi per l’impiego, agenzie di mediazione e intermediazione, in-centivi all’occupazione, promozione di commissioni di conciliazione individuali e collettive, igiene e sicurezza del lavoro)”, (cneL, Osservazioni e proposte, la riforma del Titolo V della Costituzione, op. cit.), vale a dire la disciplina di attività amministrative di regolazione e con-trollo del mercato del lavoro che soddisfano un interesse immediato del lavoratore (servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, sostegno alle politiche attive), o che siano tese a ve-rificare l’esatta applicazione delle norme a carattere pubblicistico come l’attività di vigilanza (in questo senso, M.G. GarofaLo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 410; Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, op. cit., 80) e, conclusivamente, nelle quali il soggetto pubblico sia titolare di una posizione di potere nei confronti dei privati. L’attribuzio-ne alla competenza regionale della parte amministrativa del diritto del lavoro è stata censura-ta da chi l’ha ritenuta “un’espressione non solo equivoca, ma anche datata, dal momento che non rappresenta compiutamente le moderne caratteristiche dell’intervento pubblico in materia di lavoro, più rivolto alle politiche attive che a quelle passive, più incline alle tecniche regola-tive promozionali che a quelle vincolistiche”, maGnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzio-ne, op. cit., 655, e pertanto ricomprende nella formula tutela e sicurezza del lavoro la discipli-na di tutti i servizi – in qualsiasi forma erogati – di supporto all’ingresso o al ritorno di lavora-tori nel mercato, quindi i servizi per l’impiego, le politiche attive all’avviamento delle compo-nenti deboli, il miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione, il rispetto di stan-dard di trattamento economico e normativo e di igiene e sicurezza, nonché la previdenza com-plementare ed integrativa con esclusione dei profili legati alla disciplina degli ammortizzatori sociali (che rientrerebbero nella materia “previdenza sociale” di esclusiva spettanza dello Sta-to ex art. 117, comma 2, lett. o), Cost.): in questo senso, carinci, Riforma costituzionale e di-ritto del lavoro, op. cit., 76; si v., in proposito, anche saLomone, Il diritto del lavoro nella ri-forma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 140, il quale giustamente rileva che “le funzioni regionali considerate sono funzioni legislative e non funzioni amministrative. Come tali esse non sono da svolgersi necessariamente tramite stru-menti pubblicistici: l’ente territoriale Regione svolge qui un ruolo da protagonista nel proces-so di regolazione e non è necessariamente l’attore nell’attività di erogazione del servizio og-getto della regolazione stessa”.

874

L’adozione delle diverse accezioni della formula tutela e sicurezza del lavoro, alle quali corrispondono differenti calibrazioni delle compe-tenze regionali in materia di mercato del lavoro, implica, evidentemente, modulazioni differenziate del riparto di competenze tra Stato e Regioni. Ciò tuttavia non pare revocare legittimamente in dubbio che, in ogni ca-so, la collocazione della formula in discorso nell’ambito di legislazione concorrente e la sua asserita inerenza al mercato del lavoro autorizzino la regione ad attivarsi legislativamente, per lo meno, “per fornire una nor-mativa unitaria e coordinata dei servizi, reali e monetari, di supporto all’ingresso e al ritorno sul mercato del lavoro, all’avviamento delle com-ponenti deboli, al miglioramento del livello qualitativo/quantitativo dell’occupazione, al rispetto degli standard di trattamento economico e normativo e di igiene e sicurezza” 103.

La formula tutela e sicurezza del lavoro, dunque, consentirebbe al legislatore regionale di disciplinare in maniera differenziata il proprio mercato del lavoro 104 che, in conformità al disposto dell’art. 4 Cost., ne-cessariamente pretende una politica del lavoro differenziata al variare della concreta situazione ambientale. Con riguardo a tali funzioni e alle politiche del lavoro sono infatti integrati i parametri che legittimano una differenziazione regionale delle regole che può giungere fino a lambire, ma senza invadere, la disciplina privatistica del contratto di lavoro 105.

La lettura proposta della materia in discorso presenta indubbi van-taggi anche nell’ottica della sistematica generale del diritto. Al di là del maggior grado di certezza che è in grado di offrire all’interprete alle pre-

103 carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 76; si v., ancora, l’auto-revole posizione di naPoLi, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, op. cit., 366, ad avviso del quale l’espressione “tutela e sicurezza del lavoro” “sta a significa-re che è demandata alle Regioni la legislazione che ha ad oggetto la protezione dei lavoratori sul mercato del lavoro mediante la predisposizione di servizi per l’impiego e l’adozione di po-litiche attive del lavoro […] accanto alla formazione professionale, l’orientamento professio-nale e l’osservatorio del mercato del lavoro, già da tempo di spettanza regionale”.

104 Sottolinea che il diritto del lavoro non solo concerne il rapporto contrattuale, ma è sempre più “organizzazione giuridica del mercato del lavoro”, naPoLi, intervento al convegno Diritto al lavoro e politiche per l’occupazione, in «Riv. giur. lav.», 1999, suppl. n. 3, 60.

105 In questa prospettiva, la preoccupazione che dovrebbe trovare soddisfazione sarebbe individuare, in concreto, gli strumenti più efficaci per realizzare quel fine, “a sua volta come mezzo al fine ulteriore della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limi-tando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della per-sona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e so-ciale”. V. M.G. GarofaLo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, op. cit., 409, il quale avverte sostanzialmente che “si tratta di un problema di efficacia delle politiche, non di valo-rizzazione delle differenze”.

875

se con il confuso riparto di competenze normative attuato dal legislatore costituzionale 106, essa consente di fornire copertura costituzionale alle ri-forme legislative ordinarie avviate con la legge n. 59 del 1997, tramutan-do in competenza legislativa le potestà essenzialmente amministrative concesse alle Regioni ed agli enti locali dal d.lgs. 469/1997. L’esistenza di un nesso tra le due riforme in senso federalista del nostro sistema “può ritenersi acquisita” 107, posto che le disposizioni normative da ultimo ci-tate hanno predisposto una disciplina sul decentramento in base ad una “Costituzione materiale provvisoria” 108, in attesa della riforma costitu-zionale (da lì a breve a venire) ritenuta necessaria ed idonea ad imprime-re a quella amministrativa una validazione formale ex post 109.

La riforma costituzionale attua una vera e propria attribuzione e non un mero “conferimento” di potestà: appare pertanto condivisibile l’opi-nione di chi ha rilevato che “costituisce una soluzione corretta, nell’am-bito di una revisione costituzionale di carattere devolutivo e non regola-tivo come quella del 2001, aver costituzionalizzato le recenti acquisizio-ni regionali di competenza fondate sulla più incerta base degli atti di le-gislazione ordinaria” 110. Ciò costituirebbe l’ambito (giuslavoristico) in cui si riflette lo spirito di maggiore apertura nei confronti del legislatore regionale che anima il revisore costituzionale, determinando la transizio-ne da una competenza amministrativa devoluta dal legislatore statale ad una competenza legislativa, seppur concorrente, in un rapporto di conti-nuità, quindi, con il disegno di decentramento delle funzioni amministra-tive del mercato del lavoro condotto con il d.lgs. 469/1997 111.

106 Che ha fatto uso, ad avviso di aLBi, di un “discutibile livello di approssimazione”, La ri-forma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, in «Riv. it. dir. lav.», 2005, II, 531.

107 D. GarofaLo, Mercato del lavoro e regionalismo, in di stasi (a cura di), Diritto del lavoro e federalismo, op. cit., 231.

108 Per la relativa nozione, mortati, La Costituzione materiale, 1942.109 naPoLi, Disegno di legge delega e modifiche al Titolo V della Costituzione, op. cit., 365.110 Gianfrancesco, La ripartizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tute-

la e sicurezza del lavoro, op. cit., 535. Lo stesso A. rimanda a manGiameLi, Sull’arte di defini-re le materie dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, op. cit., 342, per una valutazione della riforma costituzionale nei termini di ampliamento delle preesistenti competenze regiona-li ed in modo da escludere riappropriazioni di funzioni da parte statale.

111 Essendo collocata in regime di competenza concorrente, la capacità normocreativa delle Regioni rimane pur sempre limitata dalla delimitazione dei principi fondamentali ad ope-ra del legislatore statale. Per vero, tuttavia, la dottrina non si è esercitata approfonditamente nella loro individuazione, stante l’obiettiva difficoltà preliminare di comprendere l’ontologica distinzione del principio dalla norma di dettaglio. In termini di contenuto minimo dei principi fondamentali in tema di tutela nel mercato del lavoro si è ipotizzato che esso assorba le quote d’obbligo e di riserva per i disabili e i lavoratori delle c.d. fasce deboli, il principio di non di-

876

Infine, un’osservazione conclusiva: come già osservato, la competen-za concorrente in materia di tutela e sicurezza del lavoro, traducendosi nel-la gestione del mercato del lavoro, imporrebbe un’azione dei pubblici po-teri regionali destinata a favorire le condizioni di massima occupazione ma, allo stesso tempo, limita a ciò la competenza degli enti locali, confer-mando in tal modo, in altre parole, un tratto generale tipico della compe-tenza legislativa regionale, circoscritta “nell’ambito della disciplina dell’azione amministrativa” 112, nell’area, quindi, del diritto pubblico 113.

7. La sentenza della Consulta n. 50 del 2005

7.1. Le problematiche introduttive, i ricorsi regionali e le questioni preli-minari

La sentenza Corte Cost. 28 gennaio 2005, n. 50 114 ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale, promosso dalle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna, Basilicata e dalla Provincia autonoma di Trento, della riforma del mercato del lavoro operata con la legge delega n. 30/2003 ed il successivo d.lgs. 276/2003 (novellato dal d.lgs. 251/2004), gravemente lesiva, ad avviso delle Regioni ricorrenti, delle competenze loro attribuite dall’art. 117 Cost., tanto nelle (asserite) materie oggetto di competenza esclusiva regionale, quanto nelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni 115.

Le Regioni ricorrenti non pongono mai in discussione l’esito del

scriminazione, l’assunzione nominativa, l’ammissibilità della gestione dei servizi da parte dei privati. V. al riguardo tosi, I nuovi rapporti tra Stato e Regioni: la disciplina del contratto di lavoro, op. cit., 601 ss.; la stessa Consulta ha mostrato di voler procedere ad una ricognizione empirica dei principi fondamentali, calibrandone la precisione in funzione della materia e del-la evoluzione della normativa: si v. il § 3 delle considerazioni in diritto della sentenza n. 50 del 28.1.2005, oggetto di ampia analisi nel capitolo successivo.

112 faLcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costitu-zione, op. cit., 1252. Il medesimo autore, in Le funzioni, in aa.vv., Diritto Regionale. dopo le Riforme – Parte Terza, Bologna, 2003, 135, osservando le materie per cui è escluso qualsiasi tipo di intervento da parte della Regioni, afferma che “ci si avvede che l’oggetto primario e quasi esclusivo delle funzioni regionali è costituito […] dalla disciplina delle politiche pubbli-che e dai rapporti amministrativi in genere”.

113 Si v., in particolare, Corte Cost. 13 giugno 1988, n. 691, cit. 114 Vedila, ad esempio, pubblicata in «Riv. it. dir. lav.», 2005, II, 525.115 La Corte, peraltro, ha disposto la trattazione separata delle questioni di legittimità costi-

tuzionale relative all’art. 8 e art. 1, comma 2, lett. d) prima parte, della legge n. 30 per essere di-scusse ed esaminate insieme a quelle aventi ad oggetto le disposizioni del decreto legislativo 23

877

lungo dibattito dottrinale che ha affaticato la dottrina all’indomani della riforma costituzionale 116.

Semmai, obiettivo delle ricorrenti è vedersi garantito, principalmen-te, quello spazio normativo già a suo tempo riconosciuto loro (ed agli en-ti locali) dal d.lgs. n. 469/1997, derivato dal “federalismo amministrativo a Costituzione invariata” inaugurato dalla c.d. Legge Bassanini, n. 59/1997, e che oggi troverebbe un autonomo referente costituzionale nel-la voce “tutela e sicurezza del lavoro”, e rivolgono pertanto le loro do-glianze a presunte violazioni delle loro competenze normative in tema di politiche attive del lavoro, mercato del lavoro, servizi per l’impiego, agenzie di mediazione e di lavoro interinale, ammortizzatori sociali e in-centivi all’occupazione, nonché dei contratti a contenuto formativo. Co-me è stato osservato, le Regioni così facendo “non spiccano per origina-lità” 117, tuttavia occorre tenere presente il radicale revirement che, nel breve volger di un paio di anni, il medesimo soggetto (vale a dire la mag-gioranza parlamentare di centro destra) ha compiuto sul medesimo tema, passando come si è rilevato, da un’impostazione teorica largamente de-bitrice di convinzioni federaliste 118 ad un, invece, concreto esercizio di poteri normativi (ritenuto) dal sapore fortemente accentratorio 119-120.

aprile 2004, n. 124 in materia di riordino delle funzioni ispettive. Tali aspetti sono trattati nella sentenza della Consulta n. 384 del 2005, vedila pubblicata in «Prev. ass. pubbl. priv.», 2006, 87.

116 In altre parole, esse non nutrono dubbio alcuno che l’impianto di competenze norma-tive, così come ora previsto dalla Carta repubblicana, non consenta loro alcuna ingerenza per quanto attiene alla dimensione contrattualistica del rapporto di lavoro, e convengono anch’es-se che quest’ultimo aspetto inerisca alla (e trovi la sua sede naturale nella) voce “ordinamento civile”, di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. Così come rilevato dalla stessa Consulta, la quale nel punto 1 delle Considerazioni in fatto della sentenza in commento afferma: “le ricor-renti non contestano, peraltro, la competenza esclusiva dello Stato prevista, in materia di “or-dinamento civile”, dall’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., la quale giustifica la disciplina di prin-cipio relativa ai rapporti interprivati che si instaurano nell’ambito della contrattazione tra lavo-ratori e datori di lavoro; rilevano, però, che la legge in questione è tale, in concreto, da interfe-rire in modo illegittimo con la citata competenza residuale delle Regioni in materia di istruzio-ne e formazione professionale”.

117 fiLì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto cor-rettivo ed il vaglio costituzionale, in «Lav. giur.», 2005, 406.

118 Convinzione, come sopra evidenziato, fatta propria nell’originaria impostazione go-vernativa espressa nel Libro Bianco.

119 Ci si riferisce, naturalmente, al contenuto della legge delega e, conseguentemente, del decreto delegato.

120 In relazione alle censure rivolte alla disciplina del mercato del lavoro si v., tra gli altri, GraGnoLi, sub. art. 3, in GraGnoLi-PeruLLi, La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali, in Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Padova, 2004, 84 ss.; anGioLini, Le agenzie del lavoro tra pubblico e privato, in Ghezzi (a cura di), Il lavoro tra progresso e merci-

878

7.2. Ordinamento civile e tutela e sicurezza del lavoro

Escluse piccole operazioni di maquillage, il cui impatto risulta del tutto irrilevante, la Corte Costituzionale promuove in modo inequivoco la riforma 121 ed emette, al riguardo, una sentenza dalle dimensioni piut-tosto cospicue 122, valutata, nel suo impianto sistematico, “di non agevo-le lettura” 123, ma “tutto sommato lineare nei principi affermati, [e che] ha fatto strame delle censure sollevate, ribadendo e talora radicalizzando la chiave di lettura minimalista del federalismo introdotto dalla legge costi-tuzionale n. 3/2001” 124.

La Consulta privilegia senza alcuna esitazione un assetto di compe-tenze tale da ridurre drasticamente gli spazi disponibili per l’esercizio dell’autonomia legislativa regionale. L’impostazione adottata dalla Cor-te, tuttavia, non appare scevra da rilievi critici: con metodo “poco argo-mentativo, tendenzialmente fideistico” 125, la Consulta prende posizione

ficazione, Commento critico al d.lgs. n. 276/2003, Roma, 2004, 34 ss.; per quanto concerne i con-tratti con finalità formative d’onGhia, I contratti con finalità formativa: apprendistato e contrat-to di inserimento, in curzio, Lavoro e diritti dopo il d.lgs. n. 276/2003, Bari, 2004, 279 ss.

121 La promozione citata nel testo si riferisce esclusivamente all’esame di costituzionalità dell’impianto normativo, sorta di “convalida” della legge operata dalla Consulta (v. miscione, Introduzione, in carinci (coord. da), Il correttivo alla legge di riforma del mercato del lavoro, Milano, 2005, XX); “su questo e non su altro la Corte si è pronunciata”: curzio, La legge 30 due anni dopo alla luce delle pronunce giurisprudenziali, in «Riv. giur. lav.», 2006, I, 289.

122 Il notevole numero delle questioni trattate dalla Corte è certamente alla base della lun-ghezza della sentenza, “infrequente per una pronuncia del giudice delle leggi, e [dovuta] non certo alla ricchezza delle argomentazioni esposte dalla Consulta, che, su molti punti, al contra-rio, motiva succintamente, se non apoditticamente, una decisione, pure nel merito […] ampia-mente condivisibile”, scaGLiarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema di regolazione del mercato del lavoro, in «Dir. rel. ind.», 2006, 183; saLomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 190, nota 68, attribuisce la scarsa attenzione dedicata dalla sentenza alla ricostruzione teorica “dei diversi problemi sul tappeto” alla circostanza che “l’estensore della sentenza in questione sia un magistrato, un pratico e non un teorico del diritto”.

123 maLfatti, La Corte Costituzionale al cospetto delle deleghe in materia di lavoro: quando la decisione (e la relativa massimazione) diventa difficile, in «Foro it.», 2006, I, 2, 369, la quale addebita alla sentenza una mancanza di scorrevolezza “anche per una scelta re-dazionale che suscita qualche perplessità, perché determina una sorta di esame ad intermitten-za delle norme censurate ed una trattazione altrettanto sfilacciata dei dubbi di costituzionalità, conducendo tra l’altro ad una serie di evidenti errori, alcuni di carattere materiale, altri di na-tura sostanziale”, che l’A. elenca nella sua trattazione.

124 GariLLi, La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte Costituzionale, in «Riv. Giur. Lav.», 2005, 441.

125 fiLì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto cor-rettivo ed il vaglio costituzionale, op. cit., 407.

879

e riconduce il rapporto contrattuale di lavoro alla materia “ordinamento civile”, ma sembra esimersi dal sostanziale momento motivazionale di tale scelta, parimenti operando ove fornisce una propria valutazione del significato della espressione ‘tutela e sicurezza del lavoro’ 126. L’iter ar-gomentativo sviluppato dalla Corte sembra palesare una scelta ideologi-ca che si sovrappone al percorso giuridico vero e proprio: afflitta dalle medesime preoccupazioni della dottrina dominante, vale a dire evitare la frammentazione localistica e ricondurre la disciplina contrattuale del rapporto di lavoro al rassicurante approdo della competenza esclusiva statale rappresentato dall’‘ordinamento civile’, la Consulta pare richia-mare tutte le argomentazioni addotte a sostegno di tale obiettivo. Non so-lo, quindi, l’ordinamento civile, ma anche la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali 127, nonché il fondamentale principio di uguaglianza 128, vengono adoperati, in assen-za di un esplicito referente normativo, a difesa di un assetto che se da un lato prevede e valorizza la differenziazione anche normativa, dall’altro lato non può tollerare la rottura dell’uniformità di trattamento, assicurata dalla legge statale e posta a presidio dell’eguaglianza e della tutela dei di-ritti, individuali e collettivi. Strumenti, nel ragionamento della Corte, funzionali a scardinare, ove puntualmente ed opportunamente calibrati, la pericolosa formula ‘tutela e sicurezza del lavoro’.

La Corte procede quindi, nel merito, ad un’analisi dettagliata delle censure di legittimità costituzionale sollevate, nonostante su alcune di es-se non indugi con particolare attenzione, limitandosi a liquidarle con po-che battute ed a statuire la legittimità costituzionale delle relative dispo-sizioni. La Consulta, infatti, individua il limite invalicabile per il legisla-tore regionale nella voce ordinamento civile, vale a dire nell’esigenza di uniformità territoriale legata alla garanzia del rispetto dei diritti inviola-bili dell’uomo (art. 2 Cost.) e alla parità di tutti i cittadini davanti alla leg-ge (art. 3 Cost.): adattamenti localistici delle tutele determinerebbero

126 Formula di incerte ed oscure origini “che pare emergere dal nulla”, meritevole proba-bilmente di ben più approfondita indagine cognitiva, v. carinci, Riforma costituzionale e dirit-to del lavoro, op. cit., 52.

127 Appare evidente l’estrema genericità di tali nozioni, che non sembrano rappresentare “materie”, ma fasci di rapporti, di competenza esclusiva statale, di ambiti concettuali che “de-finiscono il riparto di competenze statali e regionali non già in ragione della tipologia di beni, relazioni, situazioni sociali su cui le norme incidono, bensì in ragione della tipologia di valori, principi, tecniche, obiettivi che le norme sottendono”: roPPo, Diritto privato regionale? op. cit., 553.

128 V. Ghirardi, La Corte Costituzionale interviene sulla competenza legislativa regiona-le in materia di lavoro, in «Riv. it. dir. lav.», 2004, II, 241.

880

inevitabilmente una rottura di tali principi; in altre parole, “i legislatori non possono legare la persona all’inevitabile destino di un luogo, giacché la garanzia dei beni fondamentali della persona non può conoscere varia-zioni territoriali ed è pertanto inammissibile uno statuto giuridico diffe-renziato dei diritti fondamentali” 129. La Corte, soprattutto, ribadisce, in occasione di un passaggio argomentativo che dovrà essere riesaminato afferendo anche ad una differente tematica assai rilevante ed affrontata nella sentenza, che la categoria generale dei rapporti di lavoro appartiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, inerendo alla voce “or-dinamento civile”, sgombrando il campo da ogni possibile malinteso. Replicando, infatti, alla lamentata illegittimità dei criteri fissati con l’art. 3 della legge n. 30 (con oggetto le norme per promuovere il ricorso a pre-stazioni di lavoro a tempo parziale ritenute idonee a favorire l’incremen-to dei tassi occupazionali) 130 sostenuta dalla Regione Marche secondo cui il contratto part time sarebbe una misura di politica attiva e quindi ri-entrerebbe nella competenza concorrente in materia di tutela e sicurezza del lavoro, la Consulta afferma che la disciplina intersoggettiva di qual-siasi rapporto di lavoro rientra nella materia “ordinamento civile” ed ap-partiene quindi alla competenza esclusiva statale, a prescindere dalle fi-nalità perseguite dalla normativa in questione 131. Le Regioni, in altre pa-

129 aLBi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, op. cit., 535-36.130 I criteri sottoposti al vaglio di costituzionalità erano: lett. a) agevolazione del ricorso

a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto oriz-zontale; lett. b) agevolazione di forme flessibili ed elastiche di lavoro a tempo parziale cosid-detto verticale e misto; lett. c) estensione delle forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a tempo parziale a tempo determinato.

131 Viene conseguentemente rigettato il motivo di doglianza in merito al part-time: non pare sufficiente, ad avviso della Corte, che la normativa miri a favorire l’occupazione per far-la rientrare nella voce “tutela e sicurezza del lavoro”. Come sottolinea BarBieri, Il diritto del lavoro tra competenze statali e competenze regionali secondo la Corte Costituzionale, in «Mass. giur. lav.», 2005, 290, “le finalità perseguite da una norma non valgono, infatti, a mo-dificarne la natura, essendo il fine perseguito estraneo al contenuto della norma. Se, dunque, essa incide sulla disciplina intersoggettiva dei rapporti di lavoro non può che rientrare nella le-gislazione esclusiva dello Stato, benché utile ai fini della tutela del lavoro”. V., tuttavia, l’opi-nione di trojsi, La potestà regionale in materia di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 2007, I, 656, ad avviso della quale “senza dubbio corretto è l’intento della Corte di circoscrivere il campo del-la “tutela del lavoro”, al fine di evitare l’indeterminatezza di questa; ed è parimenti condivisi-bile l’esclusione dall’ambito di tale materia degli strumenti e delle discipline attinenti alla re-golamentazione dei rapporti interprivati e quindi all’ “ordinamento civile”. Quello che non convince fino in fondo è l’argomentazione utilizzata dalla Corte per ottenere tali effetti: soste-nendo soltanto che una disciplina deve essere valutata “per ciò che dispone, e non già in base alle finalità perseguite dal legislatore”, la Corte considera, in realtà, semplicemente alternativi l’“ordinamento civile” e la “tutela del lavoro” (li pone cioè sullo stesso piano logico-cronolo-

881

role, non possono occuparsi di una materia che, inerendo al rapporto con-trattuale tra datore di lavoro e lavoratore, concerne il diritto privato, di esclusiva competenza statale 132.

La parte fondamentale della sentenza è quella che la Corte dedica all’esame della voce “tutela e sicurezza del lavoro” ed alla regolamenta-zione e disciplina del mercato del lavoro, oggetto, ad avviso delle Regio-ni ricorrenti, di illegittimo intervento ad opera del legislatore statale con la legge delega prima, e con il decreto delegato poi. Il modello organiz-zativo predisposto dal legislatore statale è, invece, ad avviso della Con-sulta, pienamente rispettoso del riparto di competenze, con l’unica e po-co rilevante eccezione dell’art. 22, comma 6, del d.lgs. 276, per contra-rietà alle disposizioni costituzionali in materia di uguaglianza, di diritto al lavoro, di eccesso di delega, nonché di lesioni delle prerogative regio-nali in materia legislativa ed amministrativa 133.

A parte tale marginale declaratoria di incostituzionalità, la Corte va-luta conforme a Costituzione l’impianto delineato, promuovendo la rifor-ma del mercato del lavoro, per lo meno sotto lo stretto scrutinio del giudi-zio di legittimità costituzionale. In particolare, prendendo posizione sulla censura avente ad oggetto i servizi per l’impiego (collocamento, pubblico

gico), non fornendo alcun criterio interpretativo coordinatore del rapporto tra le materie; non individua, in sostanza, la successione logica del ragionamento, il percorso da seguire nella “in-clusione/esclusione” dagli ambiti dell’art. 117 Cost., non aiutando in tal modo a capire quale sia la vera relazione tra una materiale competenza concorrente Stato-Regione, e lasciando nel-la più totale ambiguità la valenza da attribuire alla tutela e sicurezza del lavoro”.

132 Ad avviso di vaLLeBona, Leggi regionali ed ordinamento del lavoro, in «Mass. giur. lav.», 2007, 4, 229, ciò avviene “opportunamente”. Ma v. l’opinione dissenziente di saLomo-ne, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze, modelli e tecniche di regola-zione territoriale, op. cit., 192, il quale ritiene l’argomento della Corte “di rilievo, eppure non invincibile, perché fondato sul presupposto – […] non del tutto condivisibile – che al legisla-tore regionale debba sempre ritenersi precluso qualsiasi intervento, anche quando esso sia in stretta connessione con la dimensione locale delle politiche occupazionali e di sviluppo del singolo territorio infra-statuale”.

133 La norma dichiarata incostituzionale veniva a prevedere che nelle ipotesi di fornitura professionale di manodopera non si applicasse la riserva stabilita in materia di assunzioni ob-bligatorie, nonché la riserva di cui all’art. 4-bis, comma 3, del d.lgs. 181/2000. Tale disposizio-ne stabilisce espressamente che le Regioni possano prevedere che una quota delle assunzioni effettuate dai datori di lavoro privati e dagli enti pubblici economici sia riservata a particolari categorie di lavoratori a rischio di esclusione sociale. La Consulta ritiene irragionevole la de-roga introdotta “rispetto a un principio fondamentale, [e] lede, nel contempo, le attribuzioni di competenze regionali. Pertanto, rilevato che la disposizione considerata dalla norma censura-ta concerne poteri normativi delle Regioni – sui quali la stessa deroga viene a incidere, limi-tandoli – non si è potuto che dichiarare l’incostituzionalità del comma de qua”, Parisi, La co-stituzionalità della riforma Biagi, in «Guida lav.», 2005, 7, 29-30.

882

e privato, e somministrazione di manodopera, art. 1, comma 1, l. n. 30/2003, ovvero la regolazione e organizzazione del mercato del lavoro regionale, art. 3, comma 2, d.lgs. n. 276/2003), ad avviso dei giudici co-stituzionali “quale che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia ‘tutela e sicurezza del lavoro’, non si dubita che in essa rien-tri la disciplina dei servizi per l’impiego ed in specie quella del colloca-mento” . Peraltro, già ai sensi dell’art. 1 della legge n. 59/1997, il d.lgs. n. 469/1997, a Costituzione invariata, aveva conferito alle Regioni ed agli enti locali le “funzioni e i compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro, nell’ambito di un ruolo generale di indirizzo, promozio-ne e coordinamento dello Stato”. Ciò indurrebbe fondatamente a ritenere che la materia disciplinata dal Titolo II del d.lgs. n. 469/1997 non possa non rientrare tra le materie di competenza concorrente delle regioni. E conseguentemente, alle Regioni spetterebbero compiti e funzioni che con-templino non solo l’organizzazione amministrativa dei servizi per l’im-piego, “ma l’intero asse delle politiche attive del lavoro rivolte all’inseri-mento professionale degli inoccupati e disoccupati con particolare atten-zione ai giovani, alle donne e ai lavoratori svantaggiati”.

La Consulta, pertanto, tramite tale piuttosto sfuggente valutazione – che lascia, purtroppo, ampio margine all’immaginazione dell’interprete – consente per lo meno di intendere che nella voce “tutela e sicurezza del lavoro” rientrano gli istituti finalizzati a favorire la ricerca del lavoro e l’incontro tra domanda e offerta, e quindi in particolare i servizi per l’im-piego. Ma se così fosse, la delega legislativa avrebbe dovuto limitarsi al-la determinazione dei principi fondamentali, con attribuzione alle Regio-ni del compito di tradurre tali principi in norme di dettaglio.

Proprio a questo punto del momento motivazionale della sentenza ir-rompe, nel ragionamento della Corte, la necessità di rimarcare la funzio-ne tipica del collocamento e degli altri strumenti funzionali alla ricerca di occupazione, i quali perseguono, secondo una ben nota definizione, “l’obiettivo della tutela dell’interesse collettivo […] dei lavoratori al so-stegno e alla promozione dell’occupazione […], costituzionalmente pro-tetta attraverso il riconoscimento del diritto al lavoro” 134. La Corte, infat-ti, afferma recisamente che “essendo i servizi per l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro 135, possono verificarsi i pre-

134 Ghera, Lavoro (collocamento), in «DDPComm.», 1992, vol. VIII, 103.135 Non potendosi negare, ad avviso di deLL’oLio, Mercato del lavoro, decentramento,

devoluzione, in «Arg. dir. lav.», 2002, 176, “che tale sia il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), o me-glio la sua quota di effettività, che appunto deve essere promossa con l’organizzazione di un efficiente mercato”.

883

supposti per l’esercizio della potestà statale di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., co-me pure che la disciplina dei soggetti comunque abilitati a svolgere ope-ra di intermediazione può esigere interventi normativi rientranti nei pote-ri dello Stato per la tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e), Cost.)” 136. D’altro lato, come evidenziato, la Corte non si esime dal rile-vare che, ad ogni modo, l’attività di intermediazione può essere osservata dall’angolo visuale del soggetto che la esercita, e quindi sotto l’ottica im-prenditoriale: in questo senso, come qualsiasi altra libera attività econo-mica, anche l’intermediazione è soggetta alle norme che tutelano la con-correnza, e quindi la disciplina dei soggetti che esercitano tale attività può esigere interventi normativi rientranti nei poteri dello Stato 137.

Se il lavoro rappresenta un diritto sociale, spetta dunque allo Stato la predisposizione dei mezzi necessari volti alla realizzazione di tale dirit-to, vale a dire tramite strategie per l’occupazione e politiche attive 138. Dunque anche la regolazione del mercato del lavoro ricade nell’ambito di operatività del legislatore statale: e ciò in virtù dell’operatività della

136 Piuttosto evidenti risultano, in tale contesto, i richiami alla garanzia all’interno del mercato del lavoro nazionale a prestazioni adeguate e uniformi per l’accesso al lavoro, a fron-te di “una gamma di strumenti di intermediazione individuati nei modelli predefiniti sul piano strutturale e funzionale delle agenzie, con un unico regime autorizzatorio e di accreditamen-to”, in modo tale da rispondere all’esigenza di “garantire su un mercato del lavoro, che deve avere dimensioni almeno nazionali, prestazioni adeguate e uniformi per l’accesso al lavoro”: GariLLi, La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte Costituzionale, op. cit., 444, il quale aggiunge che “la scelta, poi, di affidare i servizi in questione anche a privati comporta la necessità di tutelare con norme statali un’attività di natura economica in regime di concor-renza”: v. oltre, nel testo.

137 Si v. però la critica di saLomone, Il diritto del lavoro nella riforma costituzionale, esperienze modelli e tecniche di regolazione territoriale, op. cit., 198, nota 93: “ragionamen-to, questo, invero resistibile. Con tale argomentazione, infatti, si finisce ancora una volta per riconoscere che il legislatore ordinario può discrezionalmente incidere sulla ripartizione della competenza fissata in Costituzione, riconducendo di fatto una disciplina dall’una all’altra “eti-chetta” costituzionale”.

138 Si v. menGoni, I diritti sociali, in «Arg. dir. lav.», I, 1998, 6, ad avviso del quale il di-ritto al lavoro espresso dall’art. 4, comma 1, Cost., “non è soltanto un principio fondamentale che impone ai pubblici poteri una politica economica di promozione della massima occupazio-ne, ma obbliga lo Stato a istituire servizi pubblici di formazione e di orientamento professio-nale nonché di avviamento al lavoro, cioè di mediazione della domanda e dell’offerta di lavo-ro. Questi servizi, erogatori di prestazioni pubbliche di carattere (non direttamente) economi-co, concorrono pure a integrare i presupposti fattuali di possibilità di esercizio del diritto di scelta della professione, sancito dall’art. 4, comma 1, che di per sé presenta una struttura ugua-le a quella dei diritti di libertà”.

884

competenza trasversale in merito alla “determinazione dei livelli essen-ziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” 139.

Si aggiunga, ulteriormente, che l’art. 120 Cost. vieta l’istituzione di barriere alla circolazione dei lavoratori tra le Regioni e ciò non può che costituire un ulteriore impulso per il legislatore statale a regolare in mo-do uniforme la materia, per lo meno onde impedire intollerabili spere-quazioni territoriali. In definitiva, “la stessa materia del collocamento, astrattamente ricompresa nella potestà concorrente, è dunque soggetta a limitazioni derivanti da competenze statali trasversali incidenti su di es-sa, giustificandosi, così, l’adozione di disposizioni di dettaglio” 140 e, quindi, “poiché il diritto al lavoro è diritto essenziale e primario di tutti i cittadini della Repubblica, il diritto all’accesso al mercato del lavoro de-ve essere garantito a livello nazionale in egual misura in tutto il territorio dello Stato, sicché risulta comunque giustificata la compressione delle potestà legislative e regolamentari delle Regioni” 141.

Così, se l’art. 4 del d.lgs. 276/2003 esclude ogni prerogativa regio-nale, attribuendo all’esclusiva competenza statale la disciplina dell’auto-rizzazione all’esercizio dell’attività di intermediazione, sia sotto il profi-lo dell’adozione del provvedimento sia sotto quello della disciplina della sua emanazione, tale assetto viene ritenuto assolutamente legittimo dalla Corte: il regime autorizzatorio o di accreditamento unico per le agenzie per il lavoro costituisce idoneo criterio direttivo “a dar luogo alla formu-

139 Altrimenti detto, “se è vero che astrattamente la disciplina recata dalla riforma è inqua-drabile nella tutela e sicurezza del lavoro, è altresì vero che lo Stato ben può – ed anzi deve – intervenire su di essa invadendo la competenza regionale, ogniqualvolta si manifesta la neces-sità di garantire quel nucleo minimo del diritto sociale al lavoro coessenziale al concetto stesso di cittadinanza, che in quanto tale deve essere assicurato, in condizioni di eguaglianza, sull’in-tero territorio nazionale”: scaGLiarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema di regolazione del mercato del lavoro, op. cit., 186. Cfr. caruso-aLaimo, Il conflitto tra Stato e Regioni in tema di lavoro e la mediazione della Corte Costituzionale: la recente giuri-sprudenza tra continuità e innovazione, in «Riv. it. dir. lav.», 2007, II, 574, ad avviso dei quali la Consulta considera “il proprio ruolo come un ruolo di mediazione tra esigenze di unità e di autonomia in un ordinamento considerato ormai multilivello. Sembra così schierarsi nettamen-te a favore del primo corno dell’alternativa (l’eguaglianza formale) quando rilevano questioni riconducibili al rapporto di lavoro […], meno quando si tratta di questioni inerenti l’organizza-zione amministrativa del mercato del lavoro e, in particolare, i sistemi regionali di servizi all’impiego: in tali casi essa riesce meglio ad assecondare le esigenze di differenziazione nor-mativa su base regionale, pur non mancando, anche qui, di sposare (attraverso l’uso delle “com-petenze trasversali”) una certa tendenza al centralismo del legislatore nazionale”.

140 scaGLiarini, Competenze dello Stato e competenze delle Regioni in tema di regolazio-ne del mercato del lavoro, op. cit., 186.

141 Leone d’aGata, C.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronun-cia, in «D&L, Riv. crit. dir. lav.», 2005, 79.

885

lazione di un principio fondamentale, sul quale basare la disciplina della complessa materia” 142.

Connessa alla scelta dell’unicità del regime di accreditamento e co-essenziale ai principi fondamentali suindicati è, infatti, la scelta dell’albo delle agenzie del lavoro nelle sue diverse articolazioni di cui all’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, nonché quella relativa ai procedimenti di rilascio, di verifica del corretto andamento e di revoca dell’autorizza-zione (e di “ogni altro profilo relativo all’organizzazione e alle modalità di funzionamento dell’albo”) di cui all’art. 4, comma 2, d.lgs. 276 del 2003 143.

Coerente è quindi anche la dichiarazione di infondatezza delle cen-sure riferite ai restanti commi dell’art. 4, d.lgs, n. 276/2003, nonché di quelle riferite ai commi dal primo al settimo dell’art. 6, d.lgs. 276/2003 “in quanto la disciplina è espressione ragionevole del principio di un so-lo mercato nazionale del lavoro, rispetto al quale la previsione di ambiti regionali è complementare e ausiliaria” 144.

Ne deriva che il ruolo delle Regioni sarebbe puramente eventuale ed

142 In altre parole, l’unico regime giuridico predisposto per chiunque voglia svolgere ta-le attività costituisce misura necessaria e strumentale alla garanzia che il mercato del lavoro abbia dimensioni nazionali, motivo che trova esplicito riconoscimento costituzionale nell’art. 120, “la cui osservanza costituisce la premessa perché siano garantiti anche altri interessi co-stituzionalmente garantiti, quali quelli inerenti alle prestazioni essenziali per la realizzazione del diritto al lavoro da un lato, e allo svolgimento di attività che possono avere natura econo-mica in regime di concorrenza dall’altro. In buona sostanza la normativa di dettaglio è giusti-ficata da ragioni superiori, attinenti a interessi costituzionalmente garantiti”: Leone d’aGata, C.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronuncia, op. cit., 81. Ancora, la Corte rileva che il regime di autorizzazione e accreditamento delle agenzie per il lavoro è con-nesso all’attività svolta dai soggetti cui si riferisce ossia alla somministrazione del lavoro e, per questa via, alla disciplina sostanziale di matrice civilistica che la riguarda, e al regime sanzio-natorio previsto in caso di violazione della mediazione privata nei rapporti di lavoro: materie tutte che rientrano in competenze esclusive dello Stato. Viene qui introdotto dalla Corte un ar-gomento che costituirà un rilevante passaggio motivazionale della sentenza n. 384 del 2005, sui cui ampiamente nel prosieguo del capitolo.

143 V. vizioLi, La giurisprudenza costituzionale sulla ripartizione della competenza in materia di collocamento tra Stato e Regioni, in «Riv. it. dir. lav.», 2007, II, 489, la quale con-clusivamente afferma come “l’intelaiatura generale del Titolo II del d.lgs. n. 276/2003 disegni una competenza legislativa dello Stato pienamente rispondente al nuovo riparto di attribuzioni stabilito dal Titolo V Cost., in quanto, per un verso stabilisce principi fondamentali sui quali dovrà svolgersi la competenza legislativa concorrente delle Regioni e, per altro verso, assicu-ra la conformità della disciplina alla realizzazione dei principi di concorrenza (art. 117, com-ma 2, lett. e) e al godimento delle prestazioni indispensabili in materia di diritti civili e socia-li (art. 117, comma 2, lett. m)”.

144 A. Pessi, Formazione e politiche attive dell’impiego nella giurisprudenza costituzio-nale, in «Arg. dir. lav.», 2005, 330.

886

integrativo e ad ogni modo limitato alla possibilità di regolamentare e promuovere un mercato del lavoro in ambito locale. Lo Stato, infatti, sa-rebbe l’unico soggetto abilitato a poter operare quel bilanciamento di in-teressi contrapposti ma tutti contestualmente e parimenti tutelati a livel-lo costituzionale. Se, infatti, lo Stato ha l’onere di garantire a tutti i citta-dini le condizioni fondamentali per l’esercizio del diritto al lavoro di cui all’art. 4 della Carta costituzionale, “le Regioni più virtuose o che di-spongono di maggiori disponibilità hanno la possibilità di integrare – e non derogare – le tutele assicurate dallo Stato” 145.

8. Considerazioni conclusive

La sentenza n. 50 del 2005 riveste un’importanza notevole non solo per il contributo che essa arreca rispetto alla definizione delle materie contenute nel catalogo costituito dall’art. 117 Cost. (almeno per quanto attiene alle materie di contenuto lavoristico), ma anche perché essa impo-sta in una direzione inequivoca l’impatto della riforma costituzionale del 2001 sul diritto del lavoro italiano. Come verificato, infatti, la pronuncia della Corte affonda definitivamente tanto le teorie panregionaliste che a suo tempo trovarono accoglimento nel Libro Bianco sul mercato del lavo-ro in Italia 146, quanto quelle posizioni dottrinali, per vero assai meno ra-dicali, che consideravano la voce “tutela e sicurezza del lavoro” – conte-nuta nell’elenco delle potestà normative concorrenti regionali – capace di ampliare notevolmente la sfera di intervento dei legislatori regionali 147.

L’assetto normativo delineato dalla sentenza, infatti, sterza incisiva-mente ed opta senza mezzi termini in favore di una regolazione statale che, peraltro, non si limita ai meri profili contrattuali, ma coinvolge per-

145 Leone d’aGata, C.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronun-cia, op. cit., 81.

146 V. carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, op. cit., 81, ad avviso del qua-le, in fin dei conti, la vicenda mostra come “un Governo di qualsiasi colore è portato inevita-bilmente a coltivare ed esprimere una sua forte vocazione centralista”.

147 Si v. maGnani, Il diritto del lavoro e le sue categorie, valori e tecniche nel diritto del lavoro, op. cit., 62, ad avviso della quale “allo stato attuale del dibattito le valutazioni conclu-sive possono essere nel senso che nel nostro sistema si è realizzato un temperato, anche se non privo di sbavature, assestamento della dislocazione del potere legislativo statale e di quello re-gionale. Certo esso non è nel senso di chi auspicava una accentuata regionalizzazione vista quale espressione di sussidiarietà del diritto del lavoro. Il disegno costituzionale delle compe-tenze in materia di lavoro esprime un quadro frastagliato derivante dalla distribuzione della materia lungo tutto l’asse delle possibili combinazioni delle competenze Stato-Regione con inevitabili intersezioni e sovrapposizioni”.

887

sino il settore del mercato del lavoro, il quale resta, ad ogni modo, quel-lo in cui le Regioni hanno maggiore autonomia normativa, seppur in un contesto assai ridimensionato rispetto alle loro aspettative.

Punti oscuri, nonostante l’intervento della Consulta, rimangono: un po’ affrettata o, per lo meno, esageratamente ottimistica, l’opinione di chi ha ritenuto il dibattito sulla riforma del Titolo V in materia di diritto del la-voro “superato” in ragione della sentenza 50 148. Certo l’autorevolezza dell’interprete e la sostanziale coerenza logica manifestata da quest’ultimo nelle pronunce successive rendono la sentenza appena commentata il pun-to di riferimento cardine per ogni valutazione sul riparto di competenze normative in materie lavoristiche dettato dal nuovo Titolo V della Cost.

Valga ancora qui rimarcare come il limite del diritto privato, che l’evoluzione dalla giurisprudenza costituzionale ha individuato come ineludibile argine all’ampliarsi delle competenze normative regionali, ha trovato come proprio fondamento, pur con oscillazioni che ne hanno evi-denziato la propria difficile determinazione, il principio di uguaglianza. L’incidenza di tale ultimo principio sulle prerogative normative regiona-li, come è stato osservato, “non opera in modo assoluto in quanto anche la disciplina dei rapporti privatistici può subire un qualche adattamento” ad opera delle competenze legislative regionali. Tuttavia, una simile eventualità presuppone che l’adattamento operato dalla legislazione re-gionale sia sottoposto, come imposto dalla Corte Costituzionale, alla ve-rifica tanto della sua ragionevolezza intrinseca quanto di quella estrinse-ca 149. In questa prospettiva appare allora chiaro che “l’impronta centrali-stica del legislatore nazionale non può essere cancellata a valle dalle spinte centrifughe dal sistema normativo manifestate dalle Regioni, in assenza di adeguati principi fondamentali che segnino un minimum di mantenimento del sistema stesso: ciò determinerebbe la rottura del prin-cipio di eguaglianza ed il sistema normativo si collocherebbe ben oltre il punto massimo di tensione che può esprimere” 150.

Conclusivamente, l’ineludibilità, specie in ambito lavoristico, delle esigenze di regolazione unitaria sul territorio nazionale, che si esprimo-

148 Leone d’aGata, C.d. riforma Biagi e federalismo: la Corte Costituzionale si pronun-cia, op. cit., 78.

149 V. roPPo, Diritto privato regionale? op. cit., 555, secondo cui “una stessa norma re-gionale di diritto privato può da un lato essere intrinsecamente ragionevole sotto i profili di connessione con qualche materia di competenza regionale, e dell’adeguatezza quanto ai fini e quanto a nesso tra fini i mezzi; ma essere, d’altro lato, non ragionevole sotto il profilo della ge-nerale esigenza di uniformità territoriale del diritto privato in quanto rompe questa uniformità in modo troppo profondo, o in misura troppo ampia o in misura troppo sensibile”.

150 aLBi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, op. cit., 537.

888

no essenzialmente nella necessità di garantire la libera circolazione dei lavoratori tra le varie Regioni, nell’effettività del diritto al lavoro, princi-pe dei diritti sociali garantiti dalla Carta costituzionale e, più in generale, nel godimento per tutti i cittadini ed in condizioni di uguaglianza dei di-ritti riconosciuti nella parte prima della Costituzione non possono che giustificare il mantenimento allo Stato della regolazione dei rapporti pri-vati tra i cittadini 151.

è questa, con estrema probabilità, la preoccupazione della Corte, protesa a mantenere ben salda l’unità giuridica ed economica dello Stato alla stregua di un argomentare che, per la verità, sembra non trascurare il tentativo di salvare dalla minaccia di illegittimità costituzionale “un com-plesso normativo che la dottrina italiana, a ragione, taccia di ipercentra-lismo” 152.

151 Ed infatti, come afferma scaGLiarini, Competenze dello Stato e competenze delle Re-gioni in tema di regolazione del mercato del lavoro, op. cit., 187, “nonostante il tenore lettera-le dell’articolo 117 Cost., particolarmente infelice proprio nell’ambito lavoristico […] possa aver suscitato aspettative, va riconosciuta, ad avviso di chi scrive, la sostanziale correttezza dell’opera ermeneutica della Corte, che ben ha individuato e tutelato, sia pure, come si diceva in precedenza, con argomentazioni che avrebbero potuto sicuramente essere maggiormente ar-ticolate, quell’interesse nazionale esistente in materia, interesse che la riforma costituzionale del 2001 non ha eliminato, ma semplicemente garantito con soluzioni diverse rispetto al pas-sato, tra cui le competenze trasversali dello Stato e il principio della leale collaborazione”.

152 aLBi, La riforma del mercato del lavoro al bivio del neoregionalismo, op. cit., 537.

889

GIOVANNI RUSSOMagistrato

LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO CON LA REGIONE

sommario: 1. Premessa. – 2. Le fonti. – 3. Le modifiche del titolo V della Costituzione. – 4. Principi generali in materia di assunzione. – 5. L’assunzione a mezzo concorso. – 6. Contratto a termine. – 7. I limiti derivanti dall’ordinamento comunitario. – 8. Brevi note conclusive. – 9. Bibliografia.

1. Premessa

Si è ormai completata la riforma degli aspetti normativi dei rapporti di lavoro nel pubblico impiego tanto che è diventato pacifico che il rela-tivo contenzioso sia di regola ormai di competenza del giudice ordinario, e che è ristretto l’ambito di applicazione delle forme eccezionali che so-no ancora attribuite al T.A.R. ed alla Corte dei Conti, queste ultime rela-tivamente alla materia pensionistica.

Invero negli anni ’80 l’evoluzione della funzione svolta dalla pub-blica amministrazione in ente erogatore di servizi, ha creato e formato l’opinione, prima in dottrina e poi a livello politico e quindi legislativo, di considerare non dissimile tale funzione da quella che viene svolta nell’ambito prettamente privatistico per la erogazione di servizi: e le due aree, privata e pubblica, avendo la stessa funzione non dovevano avere una regolamentazione totalmente diversa e, per certi versi, addirittura an-titetica. Ed è proprio dall’esigenza di pervenire ad una omogeneizzazio-ne dei trattamenti normativi delle due aree (oltre che da esigenze di mi-glior funzionamento, per adeguare la pubblica amministrazione agli stan-dard europei) che è sorta la necessità di “privatizzare” il rapporto di lavo-ro, contrattualizzandolo.

Le pressanti esigenze di bilancio hanno posto come prioritario l’ob-biettivo del contenimento, della razionalizzazione e del controllo della spesa per il settore del pubblico impiego ed a tal fine la legge 23 ottobre 1992, n. 421, che costituisce il fondamento normativo del d.lgs. n. 29 del 1993, all’art. 2, comma 1, ha conferito al Governo la delega per una nuo-va regolamentazione autorizzandolo a prevedere la riconduzione dei rap-porti di lavoro e di impiego sotto la disciplina del diritto civile con rego-lazione contrattuale collettiva e individuale e con una disciplina transito-ria del passaggio dal precedente al nuovo regime.

890

Successivamente la legge 15 marzo 1997, n. 59, che è il fondamen-to normativo del d.lgs. n. 80 del 1998, con l’art. 11, n. 4, lett. a) ha auto-rizzato il Governo a “completare l’integrazione della disciplina del lavo-ro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rap-porti di lavoro privato nell’impresa”.

Come è noto, accanto al rapporto di lavoro nei confronti della pub-blica amministrazione, coesistevano altre forme di lavoro, già soggette al regime privatistico (basti por mente ai rapporti con le aziende autonome). Ne consegue che il presupposto delle due normative sopra richiamate è che esistano rapporti di lavoro la cui regolazione deve mutare radical-mente con trasformazione dell’intero sistema delle fonti che li disciplina-no. Tale deduzione è confermata dalla circostanza che le originarie esclu-sioni dall’applicazione delle nuove regole dettate in attuazione delle de-leghe in esame (d.lgs. n. 29 del 1993, art. 73, comma 5, corrispondente all’attuale d.lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 4) riguardavano spesso casi nei quali i relativi rapporti di lavoro erano già soggetti al regime pri-vatistico essendosi sganciati dalla disciplina dei comparti prevista nella legge quadro sul pubblico impiego (l. n. 93 del 1983).

Appare ovvio, conseguentemente, che nulla è innovato in materia di rapporti di lavoro che già erano disciplinati in modo privatistico e che ta-le limitazione costituisce il primo “paletto” da tener presente nella inter-pretazione della normativa sul rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

è, poi, intuitivo che i principi fondamentali sono sostanzialmente eguali per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, sia-no a livello centrale, regionale o locale. Pertanto, man mano che si pre-senteranno, verranno poste in evidenza le differenze esistenti per le pecu-liarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Regioni.

2. Le fonti

Il processo normativo relativo al rapporto di pubblico impiego si è articolato in una serie di provvedimenti legislativi a partire dalla fonda-mentale legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 “Delega al governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e finanza locale”, all’attuativo d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 “Razionalizzazione dell’organizzazione delle am-ministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubbli-co impiego”, successivamente modificato ed integrato dalle l. 15 marzo

891

1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127, dai d.lgs. 4 novembre 1997, n. 396, 6 marzo 1998, n. 59, 31 marzo 1998, n. 80, 29 ottobre 1998, n. 387 e dal-la l. 23 dicembre 1998, n. 448; il complesso normativo è stato poi, in lar-ga misura, riunito e coordinato dal d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, nelle in-tenzioni del legislatore costituente un testo unico, se non fosse avvenuto che di seguito una impressionante serie di normative lo ha reso se non inutile, quantomeno quasi subito in larga parte sorpassato, ridefinendo i principali istituti giuridici del pubblico impiego.

Come rilevato dalla giurisprudenza della Suprema Corte e dalla dottrina più attenta, il nocciolo delle questioni attinenti alla riforma del rapporto di la-voro nel pubblico impiego, risiede nella difficoltà di adattare il predetto rap-porto ed i diritti del dipendente alle esigenze di buon funzionamento della amministrazione, che è strumento per assicurare “economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’attività degli uffici dipendenti”.

In effetti l’art. 2, lett. g), n. 1, della legge n. 421 del 1992, cit. ha con-ferito la delega al governo indicando come fondamentale il criterio della integrazione del lavoro pubblico in quello privato con l’estensione al pri-mo delle disposizioni del codice civile e delle leggi sul rapporto di lavo-ro nell’impresa e con il conseguente affidamento ai dirigenti di autonomi poteri di gestione e controllo.

La legge n. 59 del 1997 contiene una ampia ed articolata delega per il riordino delle amministrazioni statali, sempre all’insegna della razio-nalizzazione degli apparati e delle procedure allo scopo di incrementare l’efficienza.

La linea di indirizzo è stata osservata dal legislatore delegato che ha strettamente collegato fin dall’art. 1 del d.lgs. n. 29 del 1993, la riforma dei rapporti di lavoro a quella dell’ organizzazione.

Come è stato osservato in dottrina ed in giurisprudenza (ex plurimis, Cass. 27 giugno 2007, n. 14809) la predetta normativa “assegna al decre-to il compito di regolare l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavo-ro e di impiego. Viene così in rilievo, anche sul piano formale, la priorità dell’intervento organizzativo al quale è comunque correlato strettamente l’ulteriore intervento sul rapporto di lavoro. Anzi, come pure è stato sot-tolineato, l’originaria versione del decreto n. 29 del 1993, manifestava una specifica attenzione agli aspetti organizzativi degli uffici prevedendo in proposito numerose disposizioni di dettaglio.

L’operazione innovativa si svolge con l’obiettivo dell’efficienza pa-rametrata sugli standard europei, o più esattamente dei corrispondenti uf-fici e servizi offerti dai paesi membri dell’Unione. L’intervento sul per-sonale è diretto alla migliore utilizzazione di tale risorsa nelle pubbliche amministrazioni”.

892

In effetti l’art. 2 del d.lgs. 165/2001 riguarda entrambi gli aspetti, e dispone che le pubbliche amministrazioni definiscono le linee fonda-mentali di organizzazione degli uffici al comma 1 e, in funzione di un mi-glior funzionamento della pubblica amministrazione, prevedono criteri di funzionalità, flessibilità, imparzialità e trasparenza. Criteri tutti che devono caratterizzare non tanto il rapporto di lavoro quanto il funziona-mento della pubblica amministrazione: le nuove regole sui rapporti di la-voro hanno un significato e si spiegano solo se vengono inserite nel qua-dro della riforma della pubblica amministrazione, del quale costituisco-no un elemento essenziale, ma pur sempre solo uno dei vari elementi che fanno parte del disegno complessivo della riforma per l’adeguamento al livello europeo.

è questo il criterio fondamentale (anche se non l’unico, ma soltanto il primo) che deve essere applicato per l’interpretazione della normativa sul rapporto di pubblico impiego.

Ulteriore motivo di complessità del sistema normativo è determina-to dalle fonti, che spaziano da quelle comunitarie, alle norme del codice civile, alle leggi statali, alla contrattazione collettiva e a quella individua-le, agli atti organizzativi interni dei dirigenti apicali, ai codici di compor-tamento, alla legislazione regionale, come si vedrà successivamente con particolare e specifico riferimento a tale fonte normativa.

Come sopra indicato, vi è stata la emanazione del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che nelle intenzioni del legislatore costituiva un vero e pro-prio testo unico.

Orbene, dispone l’articolo 1 del predetto decreto legislativo sotto il titolo “Finalità ed àmbito di applicazione”:

1. le disposizioni del presente decreto disciplinano l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle am-ministrazioni pubbliche, tenuto conto delle autonomie locali e di quelle delle Regioni e delle Province autonome, nel rispetto dell’articolo 97, comma 1, della Costituzione, al fine di:

a) accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quel-la dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi dell’Unione europea, anche mediante il coordinato sviluppo di sistemi informativi pubblici;

b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica;

c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pub-bliche amministrazioni, curando la formazione e lo sviluppo professiona-le dei dipendenti, garantendo pari opportunità alle lavoratrici ed ai lavora-tori e applicando condizioni uniformi rispetto a quello del lavoro privato.

893

2. Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministra-zioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad or-dinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, arti-gianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non econo-mici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli en-ti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza nego-ziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le Agenzie di cui al decre-to legislativo 30 luglio 1999, n. 300.

3. Le disposizioni del presente decreto costituiscono princìpi fonda-mentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione. Le Regioni a statuto or-dinario si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti. I princìpi desumibili dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, e dall’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, costi-tuiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le Province auto-nome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica”.

La mera lettura della norma rende evidente che viene riconosciuto un notevole grado di autonomia agli enti locali e che la normativa del d. lgs. 165/2001 regolamenta il rapporto tra il suo contenuto e quello delle Re-gioni a statuto ordinarie disponendo che il primo detta i principi ai quali i secondi devono adeguarsi. La Corte Costituzionale 5 luglio 1995, n. 292 ha ritenuto, conformemente a quanto enfaticamente enunciato dal riporta-to articolo 1, che tali principi sono norme fondamentali di riforma econo-mico sociale, vincolanti sia per le Regioni a statuto ordinario sia per le Regioni a statuto speciale. Il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 ha poi, in ma-teria di lavoro alle dipendenze di enti pubblici locali, effettuato un rinvio generalizzato al d.lgs. 29/1993, confluito anch’esso nel t.u. 165/2001.

3. Le modifiche del Titolo V della Costituzione

La situazione è però stata innovata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che ha disposto che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli de-rivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

è poi stata divisa la potestà legislativa tra quella dello Stato in via esclusiva, quella “residuale” delle Regioni e quella concorrente tra le

894

due. Appare inutile ripercorrere tutte le questioni dottrinarie che si sono accavallate negli anni successivi alla riforma per stabilire la competenza legislativa in materia di pubblico impiego alle dipendenze degli enti lo-cali, tenendo presente che la legge di modifica costituzionale, 18 ottobre 2001, n. 3 ha, tra l’altro, abrogato l’art. 128 Cost. che disponeva che le province e i comuni sono enti autonomi, ma solo nell’ambito dei princi-pi fissati dalle leggi generali della Repubblica.

L’inutilità deriva dalle decisioni che ripetutamente ha pronunciato la Corte Costituzionale. Invero il giudice delle leggi, con la sentenza n. 373 del 23 luglio 2003, nel giudizio di legittimità promossa dalla regione Sar-degna, ha affermato che la materia del personale della Regione rientra nella competenza esclusiva della Regione stessa sia per quanto riguarda lo stato giuridico sia relativamente al trattamento economico e, per di più, non continuano ad essere applicabili i precedenti limiti – che in pas-sato vigevano persino per le Regioni a statuto speciale – di fissazione da parte dello Stato dei principi fondamentali “essendo la materia dello sta-to giuridico ed economico del personale della Regione Sardegna, e degli enti regionali, riservata dall’art. 3, lett. A), dello statuto alla legislazione esclusiva della Regione, ed essendo l’analoga materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art. 117 – la tesi so-stenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avrebbe dovuto rispet-tare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di riforme econo-mico sociali, non può essere accolta”.

Ciò che occorre sottolineare è che a seguito dell’entrata in vigore della riforma costituzionale, in particolare dell’art. 117, e dei procedi-menti di “delegificazione e di semplificazione” di vari procedimenti am-ministrativi e di adempimenti, i regolamenti di delegificazione continua-no a trovare applicazione solo fino a quando la Regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia.

In altri termini, è stato riaffermato – anche da numerose decisioni del-la Corte Costituzionale – il principio di continuità dell’ordinamento giuri-dico, il quale determina (relativamente all’applicazione del nuovo riparto di competenze relativamente alle leggi regionali che sono sopravvenute alla riforma della Costituzione) il perdurare dell’efficacia delle leggi statali, fi-no a quando non vengano effettivamente sostituite da quelle regionali.

4. Principi generali in materia di assunzione

Deve innanzi tutto porsi la distinzione, in materia di assunzione di lavoratori alle dipendenze delle Regioni, tra quelle a statuto speciale e

895

quelle ordinarie: per le prime (così come per le Province di Trento e Bol-zano) la normativa è spesso ben differente rispetto a quella prevista per i dipendenti dello Stato sia nella regolamentazione della costituzione del rapporto, sia dello svolgimento, nei diritti sindacali, nella contrattazione collettiva che, infine, nelle regole sulla risoluzione del rapporto.

Basti far riferimento alla regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, ove vi è un Aran regionale (Areran) che ha cercato, in larga misura riu-scendovi, di parificare i trattamenti normativi ed economici dei dipen-denti (della Regione, delle Province e degli altri enti locali), anche per fa-vorire la mobilità tra i vari organismi, in tal modo contribuendo a risolve-re il problema degli organici e delle assunzioni. Tutto ciò con notevoli contrasti con le organizzazione sindacali dei dipendenti della Regione (v. relazione di A. Zilli in convegno del centro D. Napoletano 9 e 10 marzo 2007 all’Università di Calabria in «Lavoro e Previdenza oggi», suppl. al n. 6/2007) che non volevano veder ridurre il migliore trattamento dei la-voratori in questione rispetto a quello dei comuni, dopo una serie di in-terventi della Corte dei Conti regionale che aveva impedito l’allineamen-to “al rialzo”.

La pluralità di fonti e delle relative discipline trova però una serie di “paletti” sia nell’ordinamento comunitario, sia nella Costituzione ed in particolare (ma non solo) nella norma relativa all’accesso nel pubblico impiego mediante concorso.

Vanno, naturalmente, distinte, dal pubblico impiego tutte le altre for-me di attività lavorativa svolta in favore dell’ente pubblico,

Sin dalla storica decisione delle sezioni unite del 25 novembre 2004, n. 22231 la S.C. ha ripetutamente affermato (sia pure con specifico rife-rimento ed ai fini della distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdi-zione esclusiva amministrativa), che si è in presenza di un rapporto di pubblico impiego ogni volta che “tra un ente pubblico ed un soggetto pri-vato venga costituito un rapporto non occasionale di locazione di opere, con il conseguente inserimento del secondo nell’organizzazione ammini-strativa del primo, per il perseguimento di finalità attribuite al medesimo dalla legge” (così anche Cass. 28 giugno 2006, n. 14847).

Ha precisato il giudice di legittimità che l’assenza di stabilità nel rapporto di lavoro, l’apposizione di un termine alla durata del rapporto, la mancanza di un atto formale di nomina o l’assoggettamento alla disci-plina del contratto collettivo di diritto privato non escludono la natura pubblicistica dell’impiego ove le prestazioni abbiano carattere continua-tivo anche se provvisorio, purché la prestazione venga effettuata in favo-re di un ente pubblico e non di un’azienda autonoma o, comunque, in una struttura separata dall’ente pubblico e che sia governata dal principio

896

economico del bilanci “ovvero, ancora, nel caso in cui sia la legge a qua-lificare privato il rapporto di lavoro (conf., Cass., sez. un., 15 ottobre 2002, n. 14614; Cass., sez. un., 23 novembre 2000, n. 1202).

In particolare Cass. n. 14614/2002 cit. ha ritenuto decisivo al fine dell’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario che la l.r. Pu-glia 18 aprile 1994, n. 15, art. 5 (recante disposizioni per l’affidamento degli impianti irrigui ai consorzi di bonifica), facesse espresso riferimen-to, per la gestione e la manutenzione degli impianti e delle opere di siste-mazione idraulica, a rapporti di lavoro sorti con contratto di natura priva-tistica; ha quindi precisato che dovesse attribuirsi efficacia di qualifica-zione in senso privatistico di tali rapporti, con conseguente devoluzione al giudice ordinario delle relative controversie”. Nello stesso senso v. Cass. 28 giugno 2006, n. 14847 a proposito di direttori di agenzie per l’impiego, scelti dalla pubblica amministrazione tra personale della stes-sa pubblica amministrazione in possesso di elevata professionalità ed as-sunti con contratto di diritto privato a termine e rinnovabile.

Relativamente ai dipendenti della Regione, non essendo di regola at-tribuita potestà legislativa alle province ed agli enti territoriali minori, la Corte Costituzionale – esaminando un ricorso promosso dalla Regione Sardegna contro la Stato in materia di pubblico impiego, sostenendo la stessa che la riforma costituzionale ha fatto venir meno il suo obbligo di rispettare le norme fondamentali delle riforme economiche sociali – ha accolto il ricorso raffrontando il potere legislativo attribuito alle Regioni ordinarie rispetto a quelle autonome e stabilendo che se per le prime vi-gono – nelle materie di cui al quarto comma art. 117 – solo i limiti di cui al primo comma, ciò deve valere anche per le regioni autonome: “Da questa ricostruzione (pienamente conforme al criterio interpretativo enunciato dalla sentenza n. 103 del 2003) discende che – essendo la ma-teria dello stato giuridico ed economico del personale della Regione Sar-degna, e degli enti regionali, riservata dall’art. 3, lett. a), dello statuto al-la legislazione esclusiva della Regione, ed essendo l’analoga materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art. 117 – la tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avreb-be dovuto rispettare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di riforme economico-sociali, non può essere accolta”.

Come sopra accennato, la fluidità e la complessità della materia di-pende in larga misura dalla circostanza che non vi è un concetti fissi ed immodificabili di “principi fondamentali” che costituiscono il limite na-turale della competenza legislativa da parte della Regione, nemmeno in materia di assunzione di lavoratori, in relazione all’attribuzione allo sta-to del potere legislativo.

897

Invero la stessa Corte Costituzionale nella monumentale sentenza n. 50 del 28 gennaio 2005 ha chiarito che la nozione di “principi fondamen-tali” nella materia della competenza legislativa concorrente tra attribu-zioni statali e attribuzioni regionali “non ha e non può avere caratteri di rigidità e universalità”, dato che le varie materie hanno livelli di defini-zione diversi, che con il trascorrere del tempo sovente mutano e che con-tenuto e limiti rientrano nella competenza esclusiva del legislatore, il quale regola ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali.

Da tale affermazione la Corte Costituzionale ha fatto derivare la re-gola che “Il rapporto tra la nozione di principi e criteri direttivi, che con-cerne il procedimento legislativo di delega, e quello di principi fonda-mentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà sta-tuale nelle materie di competenza concorrente, non può essere stabilito una volta per tutte.” (Corte Cost. 50/2005).

In materia di costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze di enti locali – ed in particolare delle Regioni – la normativa fondamentale è la legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 ed il decreto legislativo 10 set-tembre 2003, n. 276. Orbene, il comma 1 dell’art. 1 della legge delega di-spone:

“Allo scopo di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e a mi-gliorare le capacità d’inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con particolare riguardo alle donne e ai giovani, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentito il Ministro per le pa-ri opportunità ed entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigo-re della presente legge, uno o più decreti legislativi diretti a stabilire, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni in materia di tutela e sicu-rezza del lavoro dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, e degli obiettivi indi-cati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occu-pabilità, i principi fondamentali in materia di disciplina dei servizi per l’impiego, con particolare riferimento al sistema del collocamento, pub-blico e privato, e di somministrazione di manodopera”.

Il comma 2 dello stesso articolo contiene la determinazione dei prin-cipi e criteri direttivi e l’art. 2 delega il governo di concerto con vari mi-nisteri, tra cui quello per gli affari regionali, ad emanare decreti legislati-vi diretti a stabilire, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro e di occupazione, la revisione e la razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto formativo, preci-sando poi vari principi e criteri direttivi.

Appare conseguentemente evidente che il legislatore ritiene che i

898

servizi per l’impiego ed in particolare il collocamento e la somministra-zione di mano d’opera rientrino nella tutela e sicurezza del lavoro, che sono ricompresse nelle materia di competenza concorrente: da ciò conse-gue che la delega è limitata alla determinazione dei principi fondamenta-li per attuare il rispetto delle attribuzioni regionali.

Dalle considerazioni di cui sopra deriva, per ripetere esattamente il contenuto della sentenza n. 50/2005 della Corte Costituzionale che: “qua-le che sia il completo contenuto che debba riconoscersi alla materia ‘tu-tela e sicurezza del lavoro, non si dubita che in essa rientri la disciplina dei servizi per l’impiego ed in specie quella del collocamento. Lo scruti-nio delle norme impugnate dovrà quindi essere condotto applicando il criterio secondo cui spetta allo Stato la determinazione dei principi fon-damentali ed alle Regioni l’emanazione delle altre norme comunemente definite di dettaglio; occorre però aggiungere che, essendo i servizi per l’impiego predisposti alla soddisfazione del diritto sociale al lavoro, pos-sono verificarsi i presupposti per l’esercizio della potestà statale di deter-minazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117 Cost., secondo comma, lett. m), come pure che la disciplina dei soggetti co-munque abilitati a svolgere opera di intermediazione può esigere inter-venti normativi rientranti nei poteri dello Stato per la tutela della concor-renza (art. 117 Cost., comma 2, lett. e))”.

5. L’assunzione a mezzo concorso

Dispone il comma 3 dell’art. 97 Cost. che “Agli impieghi nelle pub-bliche amministrazioni si accede mediante concorso”.

Ricordato che la Corte Costituzionale (n. 274/2003) ha ormai defini-tivamente e ripetutamente affermato che lo stato giuridico ed il tratta-mento economico del personale regionale è attribuito alla competenza delle Regioni e che in siffatta materia non valgono i limiti, che in passa-to vigevano per le Regioni a statuto speciale, della fissazione con legge statale delle norme fondamentali di riforma economico sociale, si richia-ma il dettato del giudice delle leggi n. 3/2004 e 4/2004. Con tali decisio-ni è stato affermato che dopo la riforma del 2001 in materia di potestà le-gislativa delle Regioni, le leggi statali sulla formazione professionale dei dipendenti di pubbliche amministrazioni sono solo quelle relative ai di-pendenti dello Stato o di altri enti pubblici nazionali, ai sensi della lett. g) del secondo comma dell’art. 117 Cost. “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.

Peraltro, la stessa Corte (n. 373/2002) ha chiaramente indicato che

899

l’attribuzione alle regioni della competenza legislativa in materia di pub-blico impiego non ha fatto venir meno l’obbligo del rispetto del principio dell’accesso mediante concorso.

In effetti, si rileva, che il sistema di selezione del personale da assu-mere più coerente con il principio, contenuto nello stesso art. 97 Cost., di buon andamento degli uffici è quello di ampliare al massimo la parteci-pazione alla selezione stessa attraverso il concorso esterno pubblico.

Anche il richiamo effettuato dal comma 1 dell’art. 97 alla “imparzia-lità della amministrazione” si realizza, come dispone d’altronde l’art. 51 Cost. – secondo il quale “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso pos-sono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” – a mezzo del pub-blico concorso.

Come nella maggioranza delle decisioni della Corte Costituzionale, il discrimine tra legittimo ed illegittimo è costituito dal criterio principe della “ragionevolezza”. Posto che è possibile derogare al criterio base del concorso come metodo di selezione per l’accesso al pubblico impiego, l’indagine deve accentrarsi sulla legge regionale che – derogando a tale criterio fondamentale – preveda altra forma di selezione.

Proprio al criterio di “ragionevolezza” il giudice delle leggi si è più volte richiamato nella materia in esame (v. ordinanza n. 517/2002, sen-tenza 24 luglio 2003, n. 274).

La giurisprudenza della Corte, richiamata la regola secondo cui è il pubblico concorso il metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci per il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione per consentirle la migliore efficienza possibile, ha riconosciuto la possi-bilità per le Regioni di apportare deroghe solo ove sussistano particolari situazioni che le rendano non irragionevoli.

Così, la citata sentenza n. 274 del 24 luglio 2003, ad esempio, aven-do la Presidenza del Consiglio dei ministri impugnato la legge regionale che aveva immesso nei ruoli organici sia persone addette a lavori social-mente utili sia quelle assunte con contratto a tempo determinato, onde accertare la ragionevolezza della deroga al criterio fondamentale di ac-cesso al pubblico impiego secondo il regime del concorso pubblico ester-no, aveva tenuto conto della circostanza che i lavoratori in oggetto erano da tempo inseriti nell’organizzazione e “quindi verosimilmente avevano, nella precarietà, acquisito l’esperienza necessaria a far ritenere la stabi-lizzazione della loro posizione funzionale alle esigenze di buon anda-mento dell’amministrazione (art. 97, comma 1, della Costituzione)”.

D’altronde era stata proprio l’amministrazione centrale a disporre l’assunzione di soggetti impiegati a titolo precario nei ruoli organici: la

900

legge finanziaria del 2001 (n. 388/2000) aveva autorizzato il Ministero del lavoro e della previdenza sociale a stipulare convenzioni con le Re-gioni per realizzare programmi di stabilizzazione di alcune categorie di lavoratori con l’indicazione di una quota predeterminata di soggetti da stabilizzare.

Ma il limite della “ragionevolezza” aveva indotto la stessa Corte a stabilire l’illegittimità per violazione dell’art. 97 Cost. della norma regio-nale, relativa alla dirigenza per l’accesso nell’amministrazione della Re-gione, che aveva derogato al principio del concorso in modo irragionevo-le, ampliando oltre misura la deroga consentita dall’art. 97, non solo pre-vedendo l’accesso alla dirigenza di non laureati ed attribuendo la qualifi-ca dirigenziale anche al personale non apicale, ma soprattutto aumentan-do dal 75 al 90 per cento la percentuale dei posti rimasti vacanti che ve-nivano riservati al concorso interno ed eliminando del tutto la previsione del concorso pubblico per la copertura della pur minima quota residua di posti.

La Corte (274/2003) ha infatti ribadito i principi contenuti in prece-denti decisioni secondo cui l’accesso dei dipendenti delle pubbliche am-ministrazioni a funzioni più elevate “non sfugge, di norma, alla regola del pubblico concorso, cui è possibile apportare deroghe solo se partico-lari situazioni ne dimostrino la ragionevolezza; ed ha precisato che, di re-gola, questo requisito non è configurabile – con conseguente violazione del parametro evocato – a proposito di norme che prevedano scivolamen-ti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque sen-za adeguate selezioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la co-pertura della totalità dei posti vacanti (da ultimo, sentenza n. 373 del 2002)”.

Pertanto doveva ritenersi violato l’art. 97 Cost. dalla normativa che con-sentiva l’accesso al pubblico rapporto nella qualifica dirigenziale per l’effet-to congiunto della mancanza di concorso per la stragrande maggioranza dei candidati e della esistenza per la parte residua di concorso riservato.

Conclusivamente, l’assunzione tramite concorso pubblico esterno resta la forma assolutamente principale per la costituzione di un rappor-to di pubblico impiego a tempo indeterminato con la pubblica ammini-strazione.

6. Contratto a termine

Relativamente alle assunzioni con forme flessibili, giova ricordare la norma fondamentale che è costituita dall’art. 36 della l. 165/2001 come

901

modificato dall’art. 4, d.l. 10 gennaio 2006, n. 4, come modificato dalla relativa legge di conversione, e poi così sostituito dal comma 79 dell’art. 3, l. 24 dicembre 2007, n. 244.

Il predetto articolo dispone che le pubbliche amministrazioni posso-no assumere esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di regola non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. è poi prevista la mobilità orizzontale con altre amministrazioni per periodi non superiori a 6 mesi; tale ultima norma non appare, però, realizzare l’ipotesi di un contratto a termine con la Regione presso la quale avviene il comando, perché datore di lavoro effettivo resta l’ente distaccante.

L’assunzione con forme flessibili è autorizzata non solo per la diri-genza – per la quale vige un articolato regime giuridico che per la sua complessità esorbita dalle possibilità di esame in questa sede – ma anche per esigenze stagionali e per periodi non superiori a tre mesi, nonché per le sostituzioni per maternità: ma il provvedimento di assunzione deve contenere l’indicazione del nominativo della persona che viene sostitui-ta, analogamente a quanto era disposto per il contratto a termine nel rap-porto di lavoro privato dalla l. 230/1962.

Solo agli enti locali che non siano sottoposti al patto di stabilità in-terno e che comunque abbiano una dotazione organica non superiore al-le quindici unità è concessa la possibilità di avvalersi di forme contrat-tuali di lavoro flessibile, per la sostituzione di lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel con-tratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione.

Altra eccezione riguarda gli enti del Servizio Sanitario, che possono avvalersi di forme contrattuali di lavoro flessibile, per la sostituzione di lavoratori assenti o cessati dal servizio, per urgenti e indifferibili esigen-ze correlate alla erogazione dei livelli essenziali di assistenza in relazio-ne al personale medico, limitatamente alle figure infungibili, al persona-le infermieristico e di supporto alle attività infermieristiche.

La normativa di cui si tratta stabilisce il divieto di rinnovare il con-tratto ovvero di stipulare con lo stesso lavoratore altra tipologia contrat-tuale e viene esclusa l’applicazione del principio generale vigente nel pubblico impiego della derogabilità delle leggi da parte della contratta-zione, stabilendo il citato art. 1 che le regole sopra enunciate non posso-no essere derogate dalle norme contrattual-collettive.

Con norma inapplicabile al diritto privato, (ma recentemente ema-nata per le assunzioni a termine effettuate soprattutto dalle Poste Italia-

902

ne s.p.a.) il comma 6 dell’art. 36 dispone che la violazione di disposizio-ni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da par-te delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione con le stesse di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ed il lavorato-re interessato ha diritto al mero risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione delle sopra riportate disposizioni im-perative.

Allo scopo di scoraggiare ogni possibilità di assunzione in cotal mo-do, si afferma la responsabilità del dirigente che ha disposto l’assunzio-ne, con l’obbligo dell’amministrazione di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta non solo a dolo ma anche a colpa grave.

Alle amministrazioni pubbliche che operano in violazione delle di-sposizioni di cui sopra è fatto divieto di effettuare assunzioni ad alcun ti-tolo per il triennio successivo alla suddetta violazione.

La violazione delle dette disposizioni inderogabili è causa di nullità del provvedimento.

Dubbi di legittimità costituzionale e di violazione della normativa comunitaria sono sorti in relazione al divieto di assunzione in queste ipo-tesi, essendo previste per il lavoratore solo forme risarcitorie del danno subito.

Con riferimento alla legittimità costituzionale della normativa (per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.) la Corte Costituzionale è stata chiama-ta ad esaminare le norme di cui si tratta nella parte in cui escludono che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’im-piego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, possa com-portare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni.

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 3, veniva denunciata la violazione del principio di eguaglianza in quanto, nonostante l’interve-nuta privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e la dichiarata applicabilità della l. 18 aprile 1962, n. 230, così come più volte modificata, i dipendenti pubblici sarebbero pe-santemente discriminati rispetto a quelli privati essendo i primi esclusi dalla possibilità della conversione del rapporto a termine in uno a tempo indeterminato.

L’illegittimità ex art. 97 Cost. risiederebbe nella violazione del prin-cipio di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto la stabilità del rapporto di lavoro renderebbe più motivati e più efficienti i dipendenti pubblici, attualmente in condizioni di precariato.

La Corte Costituzionale ha respinto le eccezioni di illegittimità rile-

903

vando che presupposto del ricorso proposto era l’identità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in seguito alla contrattualizzazione del 1993 rispetto al rapporto con il lavoro alle dipen-denze di datori di lavoro privati, e da tale tesi deriverebbe la violazione del principio di eguaglianza. In effetti, ha rilevato la Corte, siffatto assun-to, nei termini assoluti nei quali è formulato, non può ritenersi corretto.

Va infatti considerato – limitando l’esame al solo profilo genetico del rapporto, che nella specie viene in considerazione – che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle di-pendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo al-la disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enuncia-to dall’art. 97, comma 3, della Costituzione.

L’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di impar-zialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omo-geneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto dal giudice rimettente e giustifica, invece, la scelta del legislatore di ricol-legare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conse-guenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversio-ne (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati.

è appena il caso di sottolineare, al riguardo, che, seppure lo stesso art. 97, comma 3, della Costituzione, contempla la possibilità di deroga-re per legge a miglior tutela dell’interesse pubblico al principio del con-corso, è tuttavia rimessa alla discrezionalità del legislatore, nei limiti del-la non manifesta irragionevolezza, l’individuazione di siffatti casi ecce-zionali (sentenze n. 320 del 1997, n. 205 del 1996), senza che alcun vin-colo possa ravvisarsi in una pretesa esigenza di uniformità di trattamen-to rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del con-corso è, come si è detto, del tutto estraneo.

Il giudice delle leggi ha fatto derivare da tali considerazioni anche la manifesta infondatezza della questione anche in relazione al denunciato parametro di cui all’art. 97 della Costituzione.

Non appare fondato, secondo la regola enunciata dalla Corte Costi-tuzionale, quanto era stato dedotto dal giudice remittente – secondo il quale, attraverso la conversione dei rapporti a termine irregolari in rap-porti a tempo indeterminato e la conseguente stabilizzazione del rappor-to di lavoro dei lavoratori precari, si realizzerebbe il principio di buon an-damento della pubblica amministrazione: invero la smentita deriva diret-tamente dalla stessa norma costituzionale dato che proprio l’art. 97, al terzo comma, individua appunto nel concorso lo strumento di selezione

904

del personale, in linea di principio più idoneo a garantire l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione.

Un particolare contratto a termine che soventemente è utilizzato dal-le pubbliche amministrazioni, ed in particolare da quelle regionali e loca-li, è quello con i funzionari onorari; si pensi alle numerosissime commis-sioni attraverso la cui attività la p.a. persegue i suoi fini.

Non sempre appare agevole la distinzione tra la figura del funzionario onorario da quella del pubblico dipendente, anche a causa della estrema varietà delle figure di funzionario onorario: dal giudice onorario al presi-dente dell’autorità portuale, al componente di commissioni previste dallo statuto dell’ente pubblico: può soltanto affermarsi che in tutti i settori del-la pubblica amministrazione il ricorso a tale figure appare consueto.

La Suprema Corte ha delineato una serie di elementi specifici e carat-terizzanti la figura del funzionario onorario, in contrappostone a quella del pubblico dipendente, anche se entrambe sono accomunate dall’esistenza di un rapporto di servizio con l’attribuzione di funzioni pubbliche.

Peraltro il pubblico dipendente è inserito in modo strutturale nell’ap-parato organizzativo della pubblica amministrazione, mentre il funziona-rio onorario ha un inserimento meramente funzionale. Per il primo lo svolgimento del rapporto di lavoro è analiticamente regolato dallo statu-to del pubblico impiego, mentre per il secondo è disciplinato dall’atto di conferimento dell’incarico e dalla natura dello stesso; il primo ha durata tendenzialmente indeterminata, mentre il secondo ha durata normalmen-te temporanea, trattandosi di un lavoro a termine. Quest’ultimo riceve so-lo indennità e rimborsi spese, mentre il primo percepisce un compenso correlato al carattere sinallagmatico del rapporto.

Ultima differenza, ma è quella che in questa sede appare più rilevan-te, è che la scelta del dipendente avviene sulla base di valutazione di pa-rametri tecnico amministrativi, mediante un pubblico concorso, mentre il funzionario onorario viene individuato con una procedura ed una scelta politica ed eminentemente discrezionale.

Di recente, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte che hanno affermato il principio secondo cui il servizio volontariamente prestato su incarico di una pubblica amministrazione, attribuisce al sog-getto privato che al rapporto partecipi o la qualifica di “pubblico impie-gato” o quella di “funzionario onorario”, senza alcuna possibilità di indi-viduare un tertium genus, costituito cioè da un rapporto non pubblico né autonomo, caratterizzato dalla parasubordinazione o dalla collaborazio-ne continuativa e coordinata, sia perché la figura del funzionario onora-rio si presenta come residuale rispetto a quella del pubblico dipendente, sia perché la parasubordinazione o la collaborazione continuativa e coor-

905

dinata non può riconoscersi nel rapporto che lega il componente di un or-gano collegiale all’ente, (Cass. n. 2033/1985).

Ne consegue che a seconda dell’effettivo petitum sostanziale, si de-terminerà la giurisdizione dell’A.G.O. o quella del giudice amministrati-vo, con assoluta prevalenza di quest’ultimo dato che di norma il tratta-mento giuridico ed economico, in mancanza di specifiche disposizioni di legge, “resta affidato alle libere e discrezionali determinazioni dell’auto-rità che procede alla investitura” (Cass., sez. un., n. 4887/1983; Cass., sez. un., n. 1687/1981) ed è esclusivamente finalizzato al pubblico inte-resse.

7. I limiti derivanti dall’ordinamento comunitario

In materia di assunzione alle dipendenze della pubblica amministra-zione, ed in particolare delle Regioni, appare evidente che la competen-za alla emanazione di norme, che disciplinano la costituzione del rappor-to, compete alle Regioni stesse, ma con i limiti imposti dalla stessa Co-stituzione, e specificatamente dall’articolo 97, comma 3 Cost., secondo il quale “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede me-diante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”, e dianzi si è visto che le leggi possono derogare a tale criterio fondamentale solo nell’ambito dei limiti della ragionevolezza.

Peraltro, deve richiamarsi il principio fissato dal primo comma dell’art. 10 Cost. secondo il quale “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciu-te”. Immediata conseguenza di tale criterio, è che anche le norme regio-nali non possono essere in contrasto con le direttive comunitarie.

L’affermazione della supremazia del diritto comunitario su quello interno presenta peculiarità nei riguardi delle assunzioni con forme di la-voro flessibile.

La materia è disciplinata prevalentemente dall’art. 36, d.lgs. 165/2001, il quale dispone che le pubbliche amministrazioni possono as-sumere con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che di regola, pertanto, non si possono avvalere delle forme contrattuali di la-voro flessibile previste dal codice civile e dalle altre leggi relative ai rap-porti di lavoro subordinato nell’impresa: peraltro la stessa norma dispo-ne che sono possibili le assunzioni con forma di lavoro flessibile per esi-genze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi, sempre fatte sal-ve le sostituzioni per maternità relativamente alle autonomie territoriali, prescrivendo altresì che il provvedimento di assunzione deve contenere

906

l’indicazione del nominativo della persona da sostituire; è ancora pre-scritto, diversamente da quanto stabilito di regola per il rapporto di lavo-ro subordinato alle dipendenze della pubblica amministrazione, che la contrattazione collettiva non possa derogare alle norme di cui si tratta.

Le forme e le tipologie contrattuali previste dai rapporti di lavoro nell’impresa sono essenzialmente il contratto a termine, i contratti for-mativi e la fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo.

Per rafforzare il divieto di assunzione al di fuori dello schema con-corsuale è stabilito che “in ogni caso” la violazione delle disposizioni imperative (tra le quali vi è il divieto di rinnovo del contratto o l’utilizzo del medesimo lavoratore con altra tipologia contrattuale) riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche ammini-strazioni al di fuori del concorso, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche am-ministrazioni, ed il lavoratore interessato ha diritto solo al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposi-zioni imperative.

Se vi è stata assunzione irregolare dovuta a dolo o colpa grave da parte dei dirigenti, le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo e non possono effettuare assunzioni ad alcun titolo per il triennio successivo.

Da tali norme sono esclusi, tra gli altri, i contratti relativi agli incari-chi dirigenziali ed alla preposizione ad organi di direzione, consultivi e di controllo delle amministrazioni pubbliche.

Peraltro le pubbliche amministrazioni possono avvalersi di contratti di lavoro flessibile per lo svolgimento di programmi o attività i cui oneri sono finanziati con fondi dell’Unione europea e gli enti del Servizio sa-nitario nazionale possono avvalersi di contratti di lavoro flessibile per lo svolgimento di progetti di ricerca finanziati.

Anche in questo caso, se i predetti lavoratori vengano utilizzati per fini diversi da quelli che ne consentono l’assunzione, è stabilita la nullità del contratto e la responsabilità amministrativa del dirigente e del re-sponsabile del progetto.

Tralasciando i problemi relativi ai lavoratori socialmente utili, per i quali di volta in volta sono stati emanati provvedimenti normativi ad hoc da parte della legislazione statale, va rilevato che le argomentazioni e la giurisprudenza che di seguito viene riportata, pur se riferita a contratti a termine, ha validità anche per i contratti formativi e di somministrazione di mano d’opera temporanea, che per le modalità dell’assunzione o per le caratteristiche dello svolgimento potranno essere inquadrate come rap-porti di lavoro subordinato, ma che non potranno diventare a tempo inde-

907

terminato. La questione si è posta recentemente con riferimento alle ASL ed alle aziende ospedaliere, che avevano ripetutamente assunto lavorato-ri con contratti a termine. è giurisprudenza ormai costante della Corte di Giustizia dell’Unione europea che le direttive comunitarie sono applica-bili non solo nei confronti dello Stato ma anche di enti pubblici territoria-li e di qualsiasi ente pubblico munito di poteri che normalmente non so-no concessi ai privati o che, comunque, sono assoggettati al potere di controllo dello Stato. Conseguentemente nei confronti di qualsiasi ente pubblico territoriale – al quale è stato affidato dalla legislazione statale o regionale il potere di rendere un servizio di pubblico interesse – possono essere fatte valere le direttive comunitarie. In tal senso le sentenza 22 giugno 1989, causa 103/1988, fratelli Costanzo; 12 luglio 1990, causa C 188/1989, Foster e A; 5 febbraio 2004 causa C 157/2002 Rieser Interna-zionale Tranporte; 4 luglio 2006, Adeneler; 7 settembre 2006, C 180/2004 Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova.

La Corte di Giustizia, in particolare in questa ultima sentenza, a pro-posito dell’assunzione in organico di dipendenti che avevano stipulato una pluralità di contratti a termine, rilevato che la clausola 5 dell’accor-do quadro sul lavoro 18 marzo 1999 allegato alla direttiva 28 giugno 1999 appare applicabile anche nei confronti del predetto ente, ha osser-vato che quando si rileva che sono stati commessi abusi e la normativa comunitaria non prevede specifiche sanzioni, compete allo stato membro irrogare sanzioni adeguate alla gravità del danno subito dal lavoratore e idonee a garantire l’efficacia preventiva, cioè dissuasiva, della sanzione stessa; in effetti, ha stabilito la Corte di Giustizia, spetta ai singoli Stati “prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla detta direttiva”.

Giova rammentare che il Tribunale di Genova, dopo la sentenza della Corte di Giustizia ha ritenuto la validità dell’esclusione della assunzione a tempo indeterminato dei dipendenti con contratto a termine ed ha stabilito che sanzione adeguata al precetto comunitario fosse rinvenibile nella nor-mativa giuslavoristica applicabile ai rapporti di lavoro privati e nell’art. 18 statuto lavoratori, che stabilisce un minimo di 5 mensilità ed inoltre ne at-tribuisce altre 15 al dipendente illegittimamente licenziato per la rinuncia alla reintegra nel posto di lavoro, in tal modo ritenendo realizzata anche l’efficacia dissuasiva del divieto di abuso del contratto a termine.

Appare conseguente a quanto sopra esposto che disponendo la nor-ma dell’art. 36 del d.lgs. 165/2001 al comma 6 che, in ogni caso, la vio-lazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può compor-tare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le

908

medesime pubbliche amministrazioni, ma ciò “ferma restando ogni re-sponsabilità e sanzione” si deve operare una distinzione tra responsabili-tà contrattuale ed extracontrattuale (in tal senso De Angelis, Lavoro e Previdenza citato) e che si è in presenza della prima ove il contratto sia nullo e si dovrà applicare la normativa relativa alla responsabilità precon-trattuale, mentre il secondo caso si verificherà quando il contratto stipu-lato è valido e non sia nullo, ma solo privo della stabilizzazione. In tal ca-so dovrà farsi riferimento all’art. 1372 cod. civ.: “Il contratto ha forza di legge tra le parti: non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge” e non sarà applicabile l’art. 2126 cod. civ. “Prestazione di fatto con violazione di legge”; il dipendente avrà diritto al compenso spettante e alla regolarizzazione previdenziale, ma alla sca-denza del termine (sia che si tratti di contratto a tempo determinato, o di somministrazione irregolare di mano d’opera o di contratto formativo, che sono tutti a termine) non avrà diritto alla stabilizzazione ma solo al risarcimento del danno.

8. Brevi note conclusive

Volendo concludere questo breve lavoro, appare degna di menzione la ratio che è sottesa, e che si può compendiare nella necessità di porre in evidenza il problema dell’efficienza della pubblica amministrazione, che è oggi al centro del dibattito politico, istituzionale ed economico. La li-nea di demarcazione tra pubblico e privato diventa sempre più grigia e meno netta e la contrapposizione tra i due sistemi – in particolare nel mondo del lavoro – è entrata in crisi, per la commistione tra diritti indi-viduali, pubblico interesse, tra situazioni individuali e collettive che han-no diritto alla tutela da parte dell’ordinamento, insieme, peraltro, ad esi-genze non solo di efficienza ma anche di economicità.

Questa contrapposizione tra interessi diversi ma tutti meritevoli di tutela è stata complicata da tre fattori: in primo luogo dal passaggio da strumenti di regolazione del rapporto di lavoro autoritativi a quelli con-trattuali e, dunque, fondati su basi paritarie, con il rafforzamento del si-stema di tutele individuali, e questo mentre nel rapporto di lavoro priva-to la flessibilizzazione del rapporto di lavoro apriva spazi, spesso preclu-si nel rapporto di lavoro pubblico.

Il secondo elemento che ha creato un ulteriore motivo di complessi-tà è l’attribuzione alle Regioni del potere legislativo anche – ma non sol-tanto – nel rapporto di pubblico impiego): si tratta della più rilevante in-novazione contenuta nella Costituzione in questi suoi primi 60 anni di vi-

909

ta ed avvicina il potere di amministrare agli amministrati, consentendo loro di gestirsi direttamente.

L’autonomia regionale, anche nel rapporto di lavoro, dovrebbe con-sentire un costante adeguamento alla realtà economica e sociale locale, dell’ordinamento civile tutto, ed in specie di quello relativo al problema dell’occupazione e del rapporto di pubblico impiego: in tal senso, l’am-piezza dell’autonomia riconosciuta alle Regioni dovrebbe essere strumen-to idoneo per la realizzazione dell’efficienza della locale pubblica ammi-nistrazione, mantenendo inalterati, o migliorando, le tutele dei dipendenti pubblici locali. La sfasatura tra le realtà economiche tra le diverse Regio-ni, tra Nord e Sud e (in misura minore) tra Nord Est e Nord Ovest dovreb-be trovare nelle diverse realtà regionali adeguate soluzioni regolative.

Il terzo elemento è costituito dalla (relativa) mancanza di autonomia finanziaria delle Regioni, (in attesa dell’annunciato federalismo fiscale) che determina un pesante condizionamento delle trattative contrattuali, alle quali, come sopra posto in evidenza, è attribuito il maggior potere di regolamentazione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente delle Regioni.

Allo stato, atteso il sistema dei controlli della Corte dei conti – disci-plinato dall’art. 7, comma 7, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposi-zioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3), e dall’art. 3, comma 8, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) sussiste l’obbligo di comunicare ad un organo statale il referto del controllo interno di gestione e, dunque, i dati relativi alla si-tuazione finanziaria degli enti locali.

Le sentenze della Corte Costituzionale, n. 376 del 2003 e nn. 35 e 417 del 2005, hanno ribadito la legittimità dell’obbligo di trasmissione che, di per sé, non è tale da pregiudicare l’autonomia delle Regioni e de-gli enti locali, in quanto esso deve essere considerato “espressione di un coordinamento meramente informativo, che è finalizzato a consentire il funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di Regioni ed enti locali, onde realizzare il principio fondamentale del coordinamento del-la finanza pubblica con quella denominata finanza pubblica allargata”.

Allo scopo di realizzare la finalità fondamentale del buon andamen-to delle pubbliche amministrazioni devono essere utilizzati i criteri ed i principi dell’esigenza di contenimento della spesa pubblica e del rispetto del patto di stabilità interno.

All’uopo dovrà essere realizzata la distribuzione delle risorse dispo-nibili dalla contrattazione collettiva che disciplina il rapporto di pubblico impiego privatizzato con le Regioni, ma tenendo presente il principio di

910

“continuità” e realizzando così entro i limiti della variabilità e differenza tra le varie Regioni esistente nella Repubblica una tendenza che appare antitetica a quella che ha caratterizzato il Risorgimento.

9. Bibliografia

aa.vv., “Atti del convegno: Lavoro e previdenza oggi”, suppl. al n. 6 de Il lavoro nelle amministrazioni regionali e locali. In particolare ziLLi, Spunti critici in tema di contrattazione collettiva per i dipendenti di autono-mie locali.

de Luca, Privato e pubblico nei rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze di Regioni ed enti locali, in «Foro it.», 2007, V, 149.

de Luca, Prospettive di riforma degli enti privatizzati di previdenza e assistenza, in «Foro it.», 2000, V, 329.

de Luca, Il lavoro nel diritto regionale: tra statuto della regione si-ciliana e recenti modifiche al Titolo V della parte seconda della Costitu-zione, in «Foro it.» 2002, V, 260.

Il lavoro nel diritto regionale: recenti modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione e Regioni a statuto speciale, in «Dir. lav.», 2003, I, 199.

fioriLLo, Le fonti del lavoro pubblico nella elaborazione di dottrine e giurisprudenza, in «Lavoro nella p.a.», 2004, 569.

aPiceLLa, curcuruto, sordi, tenore, Il pubblico impiego privatiz-zato nella giurisprudenza. Rassegna ragionata della giurisprudenza nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Profili sostanziali e processuali, Giuffrè, Milano, 2005.

de siervo, Il sistema delle fonti, il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni, in «Regioni», 2004, 1245.

saLomone, Il lavoro pubblico regionale e il nuovo art. 117 all’esa-me della Corte Costituzionale, in «Lavoro nelle p.a.», 2003, 595.

Parisi, nota a Corte Cost. 5 giugno 2003, n. 196, in «Foro it.», 2004, I, 1995.

amoroso, di cerBo, fioriLLo, maresa, Il diritto del lavoro III Il la-voro pubblico, Giuffrè, Milano 2004.

nesPor, La derogabilità delle disposizioni normative da parte del contratto collettivo: l’art. 2, comma 2 del t.u. 165/2001, in «RIP La rivi-sta dell’impiego e della dirigenza pubblica», 2005, 19.

cavaLeri, La nuova autonomia legislativa delle Regioni, in «Foro it.», 2004, V, 61.

martini, Abuso dei contratti a termine da parte della p.a.: il danno risarcibile e un’equivalenza impossibile, in «D&L», 2008, 2, 743.

911

ALESSANDRA SARTORIDottoranda di ricerca in Scienze del lavoro

nell’Università statale di Milano

LE ESPERIENZE DI MISURAZIONE E DI VALUTAZIONE DELLA PRODUTTIVITÀ DEI SERVIZI PER L’IMPIEGO:

RIFLESSIONI SUL QUADRO COMPARATO 1

sommario: 1. Introduzione. – 2. La valutazione: nozione, finalità, tipologie. – 3. La valu-tazione dei servizi per l’impiego: nozioni generali. – 3.1. La valutazione di efficacia, effi-cienza e impatto; la categoria anglosassone della performance; gli indicatori. – 3.2. Con-siderazioni conclusive sull’impiego dei diversi tipi di valutazione. – 4. Esperienze inter-nazionali di valutazione. – 5. Stati Uniti. – 5.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Lo sviluppo e la diffusione degli One-Stop Career Centers. – 5.2. La valutazione dei servizi per l’impiego. – 5.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performance dal Job Training Partnership Act … – 5.2.2. … al Work Investment Act. – 5.2.3. La valu-tazione di sistema. – 6. Australia. – 6.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Centerlink e il Job Network. – 6.2. La valutazione dei servizi per l’impiego. – 6.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La Job Network Provider Star Rating Methodology. – 6.2.2. La valu-tazione di sistema. – 7. Gran Bretagna. – 7.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Net-work dei Jobcentre Plus. – 7.2. La valutazione dei servizi per l’impiego. – 7.2.1. La va-lutazione degli enti erogatori. La valutazione di performance del Jobcentre Plus. – 7.2.2. La valutazione di sistema. – 8. Svezia. – 8.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Dall’Ar-betsmarknadstyrelsen all’Arbetsförmedlingen. – 8.2. La valutazione dei servizi per l’im-piego. – 8.2.1. La valutazione degli enti erogatori. Gli studi dell’IFAU e del Riksrevisio-nen. – 8.2.2. La valutazione di sistema. – 9. Conclusioni. I limiti dell’esperienza italia-na e i suggerimenti provenienti dal quadro comparato. – 9.1. La valutazione delle poli-tiche del lavoro e dei servizi per l’impiego in Italia: iniziative tardive, limitate ed in fase ancora sperimentale. – 9.2. I suggerimenti (di metodo e di merito) provenienti dall’espe-rienza comparata.

1. Introduzione

La valutazione delle politiche sociali pubbliche è un fenomeno rela-tivamente recente nel nostro Paese: in passato ci si accontentava di un controllo di carattere giuridico-formale degli interventi di politica socia-le, sostanzialmente disinteressandosi degli effetti concreti sulla realtà su cui essi incidevano e dei risultati conseguiti. La situazione era analoga

1 Il saggio rielabora ed approfondisce le tematiche trattate dall’autrice nella relazione “Le esperienze di misurazione e di valutazione della produttività dei servizi per l’impiego: una rassegna comparata” presentata al Convegno “II Conversazione sul lavoro” in data 4 maggio 2007 presso il Centro Congressi Hotel Cristallo a Cerese di Virgilio – Mantova.

912

anche nell’ambito delle politiche dell’occupazione, benché già dagli an-ni ’80 vi siano state interessanti esperienze di valutazione delle politiche attive del lavoro in alcune Regioni a statuto speciale, segnatamente Tren-tino-Alto Adige e Valle d’Aosta 2. La situazione comincia a evolversi ne-gli anni ’90: tuttavia, le pratiche valutative si appuntano sulle politiche di formazione professionale, probabilmente trainate dalla crescente enfasi che la Comunità europea pone sulla valutazione degli interventi dei fon-di strutturali, in primo luogo del Fondo sociale europeo 3. Il vero e pro-prio decollo della valutazione delle politiche occupazionali diverse dalla formazione, nonché dei servizi per l’impiego tout court avviene però a cavallo del nuovo secolo. Le cause principali di questa evoluzione sono probabilmente due: da un lato, gli ulteriori sviluppi della strategia euro-pea dell’occupazione, sempre più basata su obiettivi da raggiungere e sull’utilizzo delle risorse del Fondo sociale europeo 4; dall’altro lato, la riforma del collocamento e il conseguente passaggio dalla concezione burocratico-amministrativa a quella di servizio per l’impiego personaliz-zato e finalizzato al raggiungimento di obiettivi predeterminati 5.

La riforma federale attuata con la legge costituzionale del 2001 ha attribuito importanti competenze legislative alle Regioni in materia di re-golazione del mercato del lavoro: tra le Regioni che hanno maggiormen-te raccolto la sfida della valutazione dei servizi per l’impiego vi è sicura-mente la Lombardia. L’art. 16 della l.r. 28 settembre 2006, n. 22 prevede la valutazione di tutti i servizi di istruzione, formazione e lavoro finanzia-ti o comunque gestiti dalla Regione, mentre l’art. 17 attribuisce questo compito a un organo indipendente (il valutatore indipendente, per l’ap-punto) individuato tramite procedura a evidenza pubblica. In particolare, la legge stabilisce che almeno il 75% dei finanziamenti regionali sia at-tribuito sulla base dei risultati della valutazione dell’ultimo anno 6.

2 Sull’esperienza valutativa della Valle D’Aosta v. infra la nota 204. 3 V. infra la nota 196.4 Per questa evoluzione v. M. BarBera (a cura di), Nuove forme di regolazione: il meto-

do aperto di coordinamento delle politiche sociali, Giuffré, Milano, 2006; F. raveLLi, Il coor-dinamento delle politiche comunitarie per l’occupazione e i suoi strumenti, in «Diritti Lavori, Mercati», n. 1, 2006, 67ss.

5 Cfr. per tutti P.A. varesi, I Servizi per l’impiego: un nuovo ruolo delle strutture pubbli-che nel mercato del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1999; V. fiLì, L’avviamento al lavoro tra liberalizzazione e decentramento, Milano, iPsoa, 2002; G. faLasca, I servizi privati per l’im-piego, Giuffrè, Milano, 2006; S. sPattini, Il governo del mercato del lavoro tra controllo pub-blico e neocontrattualismo. Analisi storico-comparata dei sistemi di regolazione e governo at-tivo del mercato, Giuffrè, Milano, 2008.

6 Per un primo commento alla l.r. n. 22 del 28 settembre 2006 cfr. P.A. varesi, Regione Lombardia: la legge di politica del lavoro, in «Diritto e pratica del lavoro, Inserto n. 7», 2007;

913

Questa normativa ha suscitato qualche perplessità in taluni ambienti politici e sindacali, e, in qualche caso, anche aperta opposizione. Tutta-via, prassi valutative di questo tipo non sono eccentriche nel panorama comparato: nell’ambito dei servizi per l’impiego, la tecnica del manage-ment by objectives, nella quale il momento valutativo è centrale, si sta diffondendo sempre di più a livello europeo, dopo essere stata già utiliz-zata per lungo tempo nei Paesi anglosassoni (segnatamente Stati Uniti d’America e Australia). Si deve tuttavia precisare che la rigida correla-zione risultati/finanziamenti, stabilita nella legge regionale lombarda, non è altrettanto ampiamente diffusa altrove.

In questo saggio si analizzeranno alcune significative esperienze di valutazione dei servizi per l’impiego nel panorama comparato al fine di trarne utili indicazioni in termini di potenzialità e criticità. Poiché tutta-via le categorie della valutazione e gli strumenti utilizzati per effettuarla rimangono tuttora poco usuali per il giurista del nostro Paese, giova pre-mettere alcune considerazioni introduttive sulla valutazione in generale e sulla valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi all’impiego in particolare.

2. La valutazione: nozione, finalità, tipologie

Valutazione è concetto multidimensionale e multidisciplinare di cui sono state fornite svariate definizioni 7. Pur nella diversità degli approcci

sulla valutazione, in particolare, v. VIII. Sulla l.r. 22/2006 cfr. anche G. faLasca, Regione Lombardia: nuova legge sul mercato del lavoro, in «Guida al lavoro», 2006, 40, 34.

7 v. ad esempio N. stame, L’esperienza della valutazione, Seam, Roma, 1998, 9: «Valu-tare significa analizzare se un’azione intrapresa per uno scopo corrispondente ad un interesse collettivo abbia ottenuto gli effetti desiderati o altri, ed esprimere un giudizio sullo scostamen-to che normalmente si verifica, per proporre eventuali modifiche che tengano conto delle poten-zialità manifestatesi. La valutazione è quindi un’attività di ricerca sociale al servizio dell’inte-resse pubblico, in vista di un processo decisionale consapevole»; M. PaLumBo, Il processo di valutazione. Decidere, programmare, valutare, Franco Angeli, Milano, 2001, 61, e in id., Qua-lità ed efficacia nei servizi: convergenza o coincidenza?, in «Qualità e servizi alla persona, Po-litiche sociali e servizi», gennaio-giugno 2001, 66: «la valutazione è un complesso di attività coordinate, di carattere comparativo, basate sulla ricerca delle scienze sociali e ispirate ai suoi metodi, che ha per oggetto interventi intenzionali […] con l’obiettivo di produrre un giudizio su di essi in relazione al loro svolgersi o ai loro effetti». Volendo fare riferimento, per completez-za, ad alcune definizioni classiche di teorici americani conviene partire da Suchman, autore del primo vero manuale sull’argomento. Questi distingue la valutazione (scopo) dalla ricerca valu-tativa (strumento): la valutazione è «il processo generale di giudicare, in qualsivoglia modo, il merito di qualche attività», mentre la ricerca valutativa è «il tentativo di utilizzare il metodo

914

scientifici e dell’ampiezza attribuita al concetto e al suo oggetto 8, ele-mento comune a tutte le impostazioni è la formulazione di un giudizio di carattere comparativo sul merito o valore di un programma o di un inter-vento 9. Fondamentali sono inoltre le finalità e i destinatari (committen-

scientifico al fine di stabilire se una attività meriti di essere intrapresa». Cfr. E. suchman, Eval-uative research, Russel Sage Foundation, New York, 1967, 20, riportato da stame, op. cit., 38. Secondo un’altra impostazione classica «la valutazione è il processo di determinazione del me-rito, la validità (worth) e valore (value) delle cose e le valutazioni sono i prodotti di questo pro-cesso» (cfr. M. scriven, Evaluation Thesaurus, Sage, Newbury Park, Ca, 1991, 1, riportata da M. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 62; e con qualche lieve differenza in N. stame, L’esperienza della valutazione, cit., 52). Contorni più definiti ha la definizione di Rossi e Fre-eman, che considerano interscambiabili le espressioni di valutazione e di ricerca valutativa e le applicano al campo delle politiche sociali: «La ricerca valutativa è l’applicazione sistematica delle procedure di ricerca sociale alla valutazione della concettualizzazione del disegno, dell’implementazione e dell’utilità dei programmi di intervento sociale». (cfr. P.H. rossi, h.e. freeman, Evaluation. A Systematic Approach, 5a ed., Sage, Newbury Park, Ca, 1993, 5; defini-zione riportata da m. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 66-67).

Secondo la definizione comunitaria elaborata nell’ambito del Programma MEANS «la valutazione di un intervento pubblico consiste nel giudicare il suo valore in relazione a criteri espliciti e sulla base di informazioni che sono state specificamente raccolte e analizzate». Cfr. commission euroPéenne, Evaluer les programmes socio-économiques. Choix et utilisation des indicateurs pour le suivi et l’évaluation. Collection Means, Luxembourg, Office des Publica-tions officielles des Communautés européennes, 1999, I, 17.

Per una trattazione esaustiva del problema della definizione della valutazione e per una rassegna delle differenti ricostruzioni prospettate nella letteratura, anche internazionale, v. M. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 59 ss. Per una ricostruzione storica del pensiero sul-la valutazione e delle sue principali elaborazioni v. stame, op. cit., soprattutto 31 ss.

8 Infatti, come si evince dalle definizioni riportate nella nota che precede, si spazia da im-postazioni restrittive che riferiscono la valutazione esclusivamente agli interventi di politica sociale (cfr. Rossi e Freeman) a impostazioni molto più ampie e generali che la associano a qualsiasi azione razionale (cfr. quelle di Stame e Palumbo). In particolare Palumbo, pur soste-nendo un concetto quanto più ampio possibile di valutazione, riconosce tuttavia che nel caso italiano sia più consono parlare di valutazione di politiche pubbliche, poiché esse (considera-te globalmente o in relazione a specifici aspetti) costituiscono l’oggetto privilegiato dell’atti-vità valutativa. V. PaLumBo, op. cit., 63. Secondo una classificazione di matrice comunitaria (precisamente quella di MEANS) sono individuabili tre oggetti della valutazione in ordine di generalità discendente: le politiche pubbliche tout court (tese al perseguimento di fini genera-li o goals), i programmi (caratterizzati da durata limitata nel tempo, budget prestabilito e obiet-tivi definiti con precisione), i progetti (sottocategoria dei programmi finalizzati al raggiungi-mento di obiettivi di carattere operativo). Cfr. A. LiPPi, La valutazione delle politiche pubbli-che, Il Mulino, Bologna, 2007, 92.

9 Cfr. M. franchi, m. PaLumBo, La valutazione delle politiche del lavoro: questioni aperte, riflessioni, esperienze, in M. franchi, m. PaLumBo (a cura di), La valutazione delle po-litiche del lavoro e della formazione, Sociologia del lavoro, 77, 2000, 14; M. franchi, Dalla valutazione delle politiche alle politiche della valutazione: spunti di riflessione sulla base di un caso regionale, in franchi-PaLumBo, op. cit., 151.

915

ti) di questo giudizio, da cui dipendono sia l’utilizzo che ne verrà fatto sia le domande specifiche che orienteranno il valutatore 10.

Per conseguenza, non costituiscono valutazione tutti i procedimenti di sorveglianza e monitoraggio, che sono volti esclusivamente a racco-gliere sistematicamente dati e informazioni, quantitativi e/o qualitativi, necessari alla verifica dello stato di attuazione di una politica, di un pro-gramma o di un’azione 11. Il monitoraggio risulta dunque un momento propedeutico ed essenziale alla valutazione, costituendone la base infor-mativa: si può dire che «le informazioni generate dalle attività di monito-raggio sono la materia prima principale delle attività valutative vere e proprie» 12. Esso, in particolare, deve garantire la raccolta di dati suffi-cienti a misurare lo stato e la modalità di implementazione e gestione delle azioni; le caratteristiche della popolazione destinataria dell’inter-vento (c.d. target di utenza); i risultati ottenuti al termine dell’azione stessa (output); i costi 13. Come è stato incisivamente sottolineato, «il mo-nitoraggio fa riferimento a risultati lordi, mentre la valutazione fa riferi-mento a risultati netti» 14.

Dunque, benché nella prassi si registri talora confusione terminolo-gica tra le due attività, queste vanno nettamente distinte: «il monitorag-gio presenta una natura essenzialmente informativa e descrittiva, mentre la valutazione implica un giudizio, indaga le ragioni degli esiti che si so-no prodotti» 15. Non essendo qui il caso di soffermarsi ulteriormente su questo tema, si rimanda all’abbondante letteratura in materia 16.

10 M. PaLumBo, Qualità ed efficacia nei servizi: convergenza o coincidenza?, cit., 66.11 Cfr. franchi-PaLumBo, La valutazione delle politiche del lavoro…, cit., 14; I. sPeziaLi,

Sistemi di monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro, in aGenzia deL Lavoro deLLa Provincia di trento, Analisi e proposte per la politica provinciale del lavoro. Linee della Com-missione provinciale per l’impiego per l’elaborazione del documento degli interventi di politica del lavoro 2002-2004, Trento, 2001, 142-146; D. oLiva, m. samek Lodovici, La struttura del si-stema di monitoraggio, in «a.t.i. ismeri euroPa-irs» (a cura di), Servizio di monitoraggio del-le politiche del lavoro, della formazione, dell’orientamento e integrazione con la scuola e rile-vazione degli indicatori di impatto occupazionale, Rapporto metodologico, 2002, 97.

12 Così P. sestito, Fonti statistiche per il monitoraggio delle politiche del lavoro, in G. antoneLLi, M. nosveLLi (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per una «nuova economia», CEIS, Il Mulino, Bologna, 2002, 40.

13 oLiva-samek Lodovici, La struttura del sistema di monitoraggio, cit., 97.14 G. caineLLi, a. montini, Fonti statistiche e monitoraggio delle politiche locali del la-

voro in Emilia-Romagna, in G. antoneLLi-m. nosveLLi (a cura di), op. cit., 158-159.15 m. franchi, Il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro: il caso

dell’Emilia-Romagna, in G. antoneLLi, m. nosveLLi (a cura di), op. cit., 122.16 Sulla distinzione fra monitoraggio e valutazione v. stame, L’esperienza della valuta-

zione, cit., 144-145. Sulle caratteristiche di un’attività di monitoraggio e sulla costruzione di

916

Per quanto riguarda le finalità di un processo valutativo, queste pos-sono essere varie. A tale proposito è piuttosto comune la distinzione tra valutazione (intesa qui in senso ampio e comprensivo anche del monito-raggio) come controllo (accountability) e valutazione come apprendi-mento (learning) 17. Nel primo caso la valutazione, intesa come strumen-to di management pubblico, si pone il fine di consentire alla struttura ge-rarchicamente superiore il controllo dell’operato di chi gestisce un inter-vento o un servizio pubblico nell’ottica di garantire il raggiungimento degli obiettivi stabiliti e/o migliorare la performance, identificare sprechi e disfunzioni, imporre sanzioni e distribuire risorse. Nel secondo caso la valutazione è invece uno strumento di policy, finalizzato ad offrire al po-litico o agli altri stakeholders coinvolti elementi utili per decidere se mantenere, modificare, ampliare o eliminare una determinata politica. Come è stato opportunamente notato, il concetto di valutazione come ac-countability coincide sostanzialmente con quello di monitoraggio, men-tre la nozione di valutazione come learning con quella di valutazione d’impatto 18. Di conseguenza diversa ne è la tempistica: l’attività di con-trollo deve svolgersi in modo sistematico, su base continua o almeno con cadenze regolari, la valutazione-apprendimento ha carattere episodico od

idonei indicatori, quali strumenti operativi essenziali, v. ad es. oLiva-samek Lodovici, op. cit., 79 ss.; cfr. anche f. oriGo, m. samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento: una rassegna della letteratura internazionale, in G. BotticeLLi, d. PaPareLLa, (a cura di), La valu-tazione dei servizi di orientamento, Franco Angeli, Milano, 2002, 79 ss.

In argomento v. altresì a. LiPPi, La valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bo-logna, 2007, 135 ss., che descrive i «sistemi di monitoraggio della performance» quale mo-mento fondamentale della valutazione in itinere o di processo.

17 Cfr. martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà: que-stioni di metodo e studi di casi, Collana della Commissione di indagine sulla povertà e l’emar-ginazione sociale, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1997, consultabile sul sito www.commissionepoverta-cies.it, 8-16. V. anche E. rettore, u. triveLLato, Come disegnare e valutare le politiche attive del lavoro, in «Il Mulino», 1999, 48, 5, 899; E. zucchetti, Le po-litiche del lavoro a livello regionale e locale: il quadro in cambiamento e le esigenze di valu-tazione, in M. franchi, m. PaLumBo (a cura di), La valutazione delle politiche del lavoro, cit., 84; e più recentemente B. dente, Analisi delle politiche pubbliche e valutazione, in «Rassegna italiana di valutazione», 2006, vol. 34, n. 1, 105; A. LiPPi, La valutazione delle politiche pub-bliche, Il Mulino, Bologna, 2007, 40.

18 F. oriGo, m. samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento: una rasse-gna della letteratura internazionale, in G. BotticeLLi, d. PaPareLLa, (a cura di), op. cit., 79. Cfr anche martini, Valutazione dell’efficaca…, cit., 12-13, il quale specifica che la valutazio-ne come accountability tende a focalizzarsi sull’aspetto dell’efficienza (ovvero sul rapporto tra costi e servizio realizzato), mentre la valutazione come learning predilige gli aspetti legati all’impatto dell’intervento/servizio.

917

occasionale ed è posteriore all’erogazione del servizio o della misura che ne costituiscono oggetto.

Oltre a quelle principali di learning/accountability il processo valu-tativo può dispiegare ulteriori finalità, che riflettono diversi bisogni in-formativi: compliance (cioè verifica della regolarità e conformità degli atti alle procedure, alle regole o alle norme, ovvero controllo di legittimi-tà), management control (controllo di gestione manageriale o di gestione finalizzato a elaborare informazioni sugli aspetti cruciali dell’organizza-zione), policy e program design (forma di valutazione ex ante tesa a sup-portare future decisioni o scelte tra alternative di azioni possibili) 19.

La valutazione, a seconda delle finalità e degli obiettivi conoscitivi che si propone, può essere effettuata in tre diversi momenti 20: prima dell’inizio di un intervento o di una data politica (valutazione ex ante), durante l’intervento stesso (valutazione in itinere o di processo) 21, o

19 Cfr. A. martini, G. cais, Controllo (di gestione) e valutazione (delle politiche): un (en-nesimo ma non ultimo) tentativo di sistemazione concettuale, in M. PaLumBo (a cura di), Valu-tazione 2000. Esperienze e riflessioni, Primo Annuario dell’Associazione italiana di valutazio-ne, Angeli, Milano, 2000, altresì consultabile sul sito www.prova.org. Vedi anche A. martini-m. sisti, A ciascuno il suo. Cinque modi di intendere la valutazione in ambito pubblico, in «In-formaires», n. 33, dicembre 2007 (anche consultabile su www.prova.org). Per una rassegna dei diversi approcci in materia v. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 76 ss.

20 Su questa triplice scansione temporale si trova concorde la maggioranza degli autori, nonché la convenzionale classificazione comunitaria Means (cfr. commission euroPéenne, Evaluer les programmes socio-économiques, cit., 52-54). Taluno tuttavia evidenzia il limite di tale semplificazione e propone una periodizzazione molto più articolata del processo valutati-vo. Ad es. Bezzi, dopo aver specificato che la valutazione si dovrebbe fare in tutti i momenti del ciclo decisionale (dalla fase della programmazione a quella dell’implementazione), indivi-dua otto fasi in cui si combinano le tre tradizionali (ex ante, in itinere, ex post) con i diversi og-getti valutati/tipi di valutazione. Cfr. C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, Angeli, Mi-lano, 2003, 123 ss. Per una posizione «parallela e non confliggente», v. PaLumBo, Il processo di valutazione, 201 ss., che specifica per ogni fase il tipo di valutazione, precisando che in tut-te e tre le fasi può assumere rilievo tanto la valutazione di efficacia quanto quella di efficienza. In tal modo si riesce a prendere in considerazione «la più ampia gamma possibile di aspetti del valutare, uscendo da schemi angusti del tipo obiettivi-risultati, sia nella fase ex ante che in quella ex post» (così PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 208). All’opposto un’altra im-postazione individua due momenti della valutazione: all’inizio del programma/politica e al ter-mine, riconducendo sostanzialmente la valutazione in itinere a quella ex post; in tal modo quest’ultima non si appunterebbe solo sui risultati ma anche sui processi di attuazione. Cfr. G. vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, in M. morisi, a. LiPPi, Manuale di scienza dell’amministrazione. La valutazione, Giappichelli, Torino, 2001, 242-243.

21 La valutazione in itinere va nettamente distinta dalla cd. mid-term evaluation (valuta-zione intermedia): quest’ultima può essere assimilata ad una valutazione ex post, ma è condot-ta nel corso dell’attuazione del programma/politica ed è finalizzata a sue modifiche (predeter-minate). Invece la valutazione in itinere è volta a verificare il corretto funzionamento del pro-

918

all’esito dell’intervento, o un certo tempo dopo il suo termine (valutazio-ne ex post o di risultato) 22. Molto sinteticamente 23 la prima è volta a ve-rificare l’opportunità degli obiettivi o la congruenza tra questi e gli stru-menti da utilizzare in modo tale da orientare i decisori nella scelta tra più alternative; la seconda si avvale della base informativa fornita dal moni-toraggio per verificare il corretto funzionamento di una politica; da ulti-mo la valutazione ex post può riguardare sia l’analisi delle politiche a re-gime sia interventi pilota condotti su una popolazione target ed è finaliz-zata alla rilevazione dei risultati in termini di efficacia/efficienza al fine di apportare modifiche nel primo caso o di verificarne la fattibilità e la generalizzabilità nel secondo.

Secondo un altro punto di vista la valutazione si distingue in valuta-zione di efficacia e di efficienza sui cui contenuti, per l’economia del saggio, si rinvia al paragrafo seguente. A queste categorie generali vanno ricondotte, secondo l’impostazione più diffusa 24, altre eventuali sottoca-tegorie 25, che ne sono specificazione.

gramma o politica in vista di futuri aggiustamenti, ma non ne mette in discussione né gli obiet-tivi, né le modalità attuative»; cfr. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 197-198. è stato evidenziato che, mentre la valutazione di processo riguarda direttamente coloro cui è affidata la gestione del programma e segue una logica di controllo manageriale e di learning, la valu-tazione intermedia di risultato concerne gli stakeholder e gli utenti secondo una mera logica di accountability. Cfr. a riguardo PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 203.

22 Peraltro alcuni autori ulteriormente distinguono la valutazione ex post dalla valutazio-ne conclusiva, sul presupposto che spesso (in particolare nel campo delle politiche del lavoro e della formazione e dei servizi per l’impiego) alcuni effetti si verificano solo dopo un notevo-le lasso di tempo dal termine di un intervento o di una politica. La valutazione ex post concer-ne proprio questi ultimi, mentre quella conclusiva riguarda gli effetti immediati o quasi. Cfr. a tal proposito M. PaLumBo, m. vecchia, La valutazione: teoria ed esperienze, in C. Bezzi (a cu-ra di), Valutazione 1998, Giada, Narni, 1998, 88.

23 Ma è opportuno precisare che le sintesi sono spesso riduttive e incomplete e che, del resto, non si registra concordanza di opinioni sul contenuto specifico di queste fasi della valu-tazione.

24 Cfr. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 184.25 Infatti, secondo alcuni autori, i tipi (o meglio criteri) di valutazione sono più numero-

si. Ad es. taluno aggiunge la responsiveness (ovvero la rispondenza dell’intervento alle attese dell’utenza), l’appropriatezza rispetto ai bisogni di partenza, l’accessibilità. Cfr. G. Bertin (a cura di), Valutazione e processo decisionale, in «Valutazione e sapere sociologico. Metodi e tecniche di gestione dei processi decisionali», Franco Angeli, Milano, 1995, 28-29. Il pro-gramma MEANS, oltre alla valutazione di efficacia (effectiveness) e di efficienza (efficiency), introduce le categorie della rilevanza (relevance), dell’utilità (utility) e dell’equità (equity): la rilevanza fa riferimento alla congruità obiettivi/bisogni, l’utilità riguarda la soddisfazione dei destinatari, diretti o indiretti, e l’equità attiene alla distribuzione dei costi e dei benefici dell’in-tervento e alle sue conseguenze sull’equilibrio sociale. (commission euroPéenne, Evaluer les programmes socio-économiques, cit., 71 ss.).

919

Infine sembra opportuno concludere questo discorso generale sof-fermandosi brevemente sulla figura del valutatore. Mentre l’attività di monitoraggio è generalmente condotta dallo stesso soggetto che gestisce o amministra l’intervento o la politica, la valutazione vera e propria può essere condotta anche da soggetti esterni. Anzi è questa la soluzione pre-feribile, onde garantire il più possibile l’indipendenza del giudizio 26. Spesso capita che nel processo valutativo partecipino in fasi diverse e a diversi livelli una pluralità di attori (c. valutazione multilivello e multi-stakeholders) 27, come ad esempio specialisti esterni durante la valutazio-ne ex ante o ex post, soggetti interni durante l’implementazione.

è di tutta evidenza come la natura e le caratteristiche degli autori della valutazione si ripercuotano sul metodo utilizzato: se i politici sono poco propensi all’uso di metodi sperimentali, per i connessi problemi eti-ci e legali 28, gli studiosi prediligono questi ultimi per la maggiore atten-dibilità dei risultati.

Il quadro comparato mostra significative differenze al riguardo: men-tre in Europa la valutazione è effettuata sia da soggetti esterni sia da orga-nismi pubblici e si avvale prevalentemente di metodi quasi-sperimentali, oltreoceano (USA e Australia) essa è condotta prevalentemente da istitu-zioni esterne e indipendenti e utilizza anche metodologie sperimentali 29.

3. La valutazione dei Servizi per l’impiego: nozioni generali

3.1. La valutazione di efficacia, efficienza e impatto; la categoria anglo-sassone della performance; gli indicatori

In questa sede ci si occuperà esclusivamente della valutazione ex

26 Di questa opinione: rettore-triveLLato, op. cit., 902; franchi, Dalla valutazione del-le politiche..., cit., 160; G. moro, La valutazione della formazione in Italia: dal metodo all’uti-lità, in franchi-PaLumBo, op cit., 109; sPeziaLi, op. cit., 146.

27 Il tema della valutazione multistakeholder è molto valorizzato nella letteratura degli ultimi anni. Cfr. M. mark, r.L. shotLand, Stakeholder-based evaluation and value judge-ments, in «Evaluation Review», 1985, 9, 605 ss.; J.C. Greene, Stakeholder participation and utilization in program evaluation, in «Evaluation Review», 1988, 12, 91 ss.; M.C. aLkin, c.h. hofstetter, X. ai, Stakeholder concepts in program evaluation, in A. reynoLds, h. WaLBerG (eds.), Advances in educational productivity, vol. 7, 87 ss., JAI Press, Greenwich, 1998.

28 V. paragrafo seguente.29 Cfr. D. ciraveGna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, in

D. ciraveGna et al., La valutazione delle politiche attive del lavoro: esperienze a confronto, Utet, Torino, 1995, 60-61.

920

post o di risultato, in quanto la misurazione della performance (produtti-vità) dei servizi per l’impiego (oggetto del saggio) implica necessaria-mente un apprezzamento a consuntivo del loro operato.

Giova premettere che, quando si parla di risultato, bisogna distin-guere, a seconda del tipo di valutazione, tra: realizzazioni, ovvero il pro-dotto immediato (output); risultati, ovvero le conseguenze dopo un certo periodo di tempo (outcomes); impatti, ovvero, le conseguenze in un lun-go arco temporale (impacts o outreaches) 30. Ad es., con riferimento a un intervento di formazione professionale, l’output consiste nel numero de-gli allievi formati; l’outcome nel numero degli allievi che, al termine del corso, hanno trovato un’occupazione; l’impact o outreach nell’incre-mento della competitività delle imprese che si possono avvalere di risor-se meglio addestrate e nel conseguente aumento del benessere sociale nell’area interessata dalla misura formativa 31.

Precisato che l’output è comunque oggetto del monitoraggio piutto-sto che del momento valutativo vero e proprio, la valutazione di risulta-to, genericamente intesa, può riguardare essenzialmente l’efficacia o l’ef-ficienza della misura in esame.

In merito alla valutazione di efficacia si segnala una varietà, spesso una confusione, terminologica e concettuale oltre che metodologica, so-prattutto nella letteratura italiana 32. è di uso comune la distinzione tra ef-ficacia interna (o gestionale), intesa come misura del grado di raggiungi-mento degli obiettivi posti in sede di progettazione dell’intervento (pre-scindendosi quindi dai reali cambiamenti prodotti sui destinatari) ed effi-cacia esterna (o sociale), intesa come insieme degli effetti prodotti sul contesto economico-sociale con particolare riferimento alla soddisfazio-ne dei bisogni originari degli utenti 33.

30 Cfr. C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, Franco Angeli, Milano, 2003, 132; v. PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 191. Nel linguaggio comunitario vengono utilizzati termini simili, seppure con significati parzialmente diversi; inoltre gli impatti vengono distin-ti in «impatti specifici» (che riguardano gli effetti a breve-medio termine sui destinatari del programma) e «impatti globali» (che definiscono gli effetti su popolazioni non destinatarie). V. commission euroPéenne, Evaluer les programmes socio-économiques, cit., 106-107, ripor-tato da PaLumBo, op. cit., 191-192.

31 Cfr. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, cit., 132.32 In tal senso A. martini, P. GariBaLdi, L’informazione statistica per il monitoraggio e

la valutazione degli interventi di politica del lavoro, in «Economia&Lavoro», 1993, n. 1, 21, dove si segnala che spesso si qualifica come valutazione di efficacia una serie di attività pura-mente descrittive, che costituiscono invece monitoraggio; C. Bezzi, Il disegno della ricerca va-lutativa, cit., 129.

33 C. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, cit., 190-193; analogamente cfr. L. resmi-ni, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico: alcuni metodi di analisi, in «Economia e di-

921

Nel primo caso ci si riferisce agli effetti “lordi” della politica o al suo processo di implementazione (c.d. efficacia “lorda”), nel secondo al suo contributo netto (c.d. efficacia “netta”). Le posizioni più radicali, particolarmente in auge fra gli economisti, riconducono tout court l’effi-cacia a questa seconda opzione: in tal caso l’efficacia indica «il contribu-to netto dell’intervento alla modifica della situazione preesistente» 34 o, secondo una definizione equivalente, «la capacità di un intervento di pro-durre gli effetti desiderati» 35. Pertanto, secondo questa impostazione, il termine è da considerare come sinonimo di «impatto».

La valutazione d’impatto si presenta come assai problematica 36. In-fatti per poter individuare gli effetti netti di un dato intervento è necessa-rio stabilire cosa sarebbe avvenuto nel caso in cui lo stesso non avesse avuto luogo. Così, per esempio, per valutare l’impatto di un programma di formazione professionale, non è sufficiente limitarsi a rilevare il nu-mero degli studenti che ha trovato lavoro entro un determinato periodo dalla fine dell’azione formativa (efficacia lorda); è necessario individua-re se ed in che misura l’intervento abbia favorito la posizione occupazio-nale dei soggetti formati (efficacia netta o impatto).

A tal fine si deve procedere alla costruzione di una situazione con-trofattuale 37, confrontando il gruppo dei soggetti destinatari dell’inter-vento (gruppo dei “trattati”) con un gruppo di controllo, costituito da soggetti che non sono stati inclusi nell’ambito dell’intervento (gruppo dei non trattati) 38. L’ipotesi controfattuale può essere creata sperimental-

ritto del terziario», n. 1, 1993, 97; franchi-PaLumBo, La valutazione delle politiche del lavo-ro: questioni aperte, riflessioni, esperienze, cit., 17; PaLumBo, Il processo di valutazione, cit., 187; vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 248.

34 a. martini-P. GariBaLdi, L’informazione statistica…, cit., 4.35 martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 13.36 Sulla valutazione d’impatto e sulle problematiche metodologiche connesse v. M. sa-

mek Lodovici, La valutazione delle politiche del lavoro: l’Italia nel contesto internazionale, in «Economia e Lavoro», n. 1, 1995, 64 ss.; v. altresì D. ciraveGna, La valutazione microecono-mica, cit., 76 ss.; martini, Valutazione dell’efficacia…, cit., 21 ss.; vecchi, La valutazione del-le politiche pubbliche, cit., 277 ss.; oriGo-samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orien-tamento, cit., 85 ss.

37 Con linguaggio matematico, la valutazione d’impatto può essere resa così: impatto = fenomeno osservato – controfattuale. Cfr. martini, Valutazione dell’efficacia…, cit., 22-23.

38 Per avere una stima attendibile, i due gruppi devono essere globalmente omogenei (con riferimento a tutte le variabili che possono influenzare il raggiungimento dell’obiettivo dell’intervento), tranne che per la variabile relativa al trattamento. La costruzione dei gruppi deve cioè avvenire in modo da eliminare possibili distorsioni da selezione (selection bias), ov-vero ripartire equamente tra i due gruppi le variabili non osservabili che possono condurre a sottostimare o sovrastimare l’impatto dell’intervento (come ad es. la motivazione nell’ambito

922

mente, estraendo in modo casuale gli individui appartenenti ai due grup-pi 39. Tale via è stata spesso percorsa soprattutto in passato negli Stati Uniti, ma in Europa l’utilizzo del metodo sperimentale è avvenuto meno frequentemente per motivi etici e legali (la via dell’esclusione arbitraria di soggetti aventi titolo a partecipare ad una determinata politica del la-voro non appariva percorribile, perché i servizi stessi sono concepiti co-me un obbligo istituzionale), nonché di costo (infatti, per eliminare le possibili distorsioni i due campioni devono essere comunque statistica-mente rappresentativi, quindi necessariamente ampi) 40. Anche negli Sta-ti Uniti, tuttavia, l’utilizzazione del metodo sperimentale è stata progres-sivamente ridotta alla valutazione dei progetti-pilota (c.d. demonstra-tions) che precedono il lancio di programmi di politica attiva del lavoro, per la quale il metodo sperimentale puro sembra in effetti più adatto.

In alternativa l’ipotesi controfattuale può essere creata anche in mo-do non sperimentale o quasi sperimentale. In entrambi i casi, il processo di selezione degli appartenenti ai due gruppi non è manipolabile dal va-lutatore, ma dipende dalle decisioni degli utenti e dei gestori dell’inter-vento 41.

La valutazione degli impatti netti si presenta particolarmente utile per i policy makers, in quanto permette di apprezzare gli effetti di una de-terminata politica del lavoro depurandoli almeno in parte da quelli di di-spersione. Tra gli effetti di dispersione sono ricompresi quelli di spreco (ovvero i risultati che avrebbero avuto luogo anche in assenza dell’inter-vento); quelli di sostituzione (i soggetti partecipanti all’intervento sosti-tuiscono altri che non ne hanno fruito, ma il tasso occupazionale rimane invariato); quelli di spiazzamento (ovvero gli effetti indiretti dell’inter-vento attuato su altri lavoratori, imprese, settori estranei all’ambiente mi-cro considerato) 42.

degli interventi di formazione professionale). Cfr. samek Lodovici, La valutazione delle poli-tiche attive…, cit., 65.

39 In questo modo il selection bias è nullo per costruzione.40 samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive…, cit., 64-65; martini, Valuta-

zione dell’efficacia…, cit., 40.41 Pertanto per eliminare le differenze di partenza degli individui trattati si utilizzano so-

fisticate tecniche statistico-econometriche. Nei disegni non sperimentali tout court sono utiliz-zati dati longitudinali o panels che consentono di tener conto quanto meno delle variabili os-servabili, mentre nei metodi quasi sperimentali il gruppo di controllo è sovente costruito uti-lizzando i soggetti non ammessi al trattamento più simili a quelli che invece vi hanno parteci-pato. Cfr. samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive..., cit., 64-65; martini, Valuta-zione dell’efficacia…, cit., 41-43.

42 ciraveGna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 74-

923

Per concludere sull’argomento, la valutazione d’impatto può essere condotta su un piano microeconomico o su un piano macro 43. Nel primo caso essa si propone di misurare gli effetti specifici di ciascun interven-to, analizzandone le relative interazioni nonché l’impatto sulla popola-zione target. Con riferimento ai servizi per l’impiego questa tecnica ha consentito di verificare quale fosse la risposta di determinate fasce di utenza ai programmi offerti e ha orientato scelte organizzative e strategi-che significative 44. La valutazione dell’impatto macro fa riferimento agli effetti delle politiche attive del lavoro tout court o del sistema servizi per l’impiego sul mercato del lavoro, con particolare riferimento all’occupa-zione e ai salari. Si tratta di una valutazione piuttosto complessa. Infatti gli indicatori generalmente utilizzati (il numero dei partecipanti ai pro-grammi e la spesa destinata alle politiche del lavoro) possono dipendere da svariati fattori estranei al fenomeno valutato (quali fattori istituziona-li, bilancio pubblico, shock esterni, e così via) e possono conseguente-mente portare a conclusioni fuorvianti.

Il secondo tipo di valutazione è quello di efficienza, che presenta si-curamente meno problemi dell’efficacia. Essa mette in relazione le risor-se (finanziarie, materiali, tecnologiche, umane) utilizzate per realizzare l’intervento (input) e i benefici ottenuti (output, outcome, impact). Si ba-di bene che, a seconda della nozione di efficacia di partenza (al lordo o al netto delle variabili intervenienti), conseguirà una differente nozione di efficienza. Così si avrà efficienza lorda, che appartiene alla fase del mo-nitoraggio, o efficienza netta che fa parte del momento più propriamente valutativo. In letteratura si distinguono due differenti tecniche di valuta-zione dell’efficienza. L’analisi costi-benefici compara i costi con i risul-tati ottenuti, economicamente considerati; l’analisi costi-efficacia valuta un risultato predeterminato in termini di costo per unità di servizio o pro-dotto 45. In sintesi, la prima mira a massimizzare l’output per un dato in-put, la seconda è tesa a minimizzare l’input per un dato output 46.

è sovente utilizzata anche la distinzione tra efficienza gestionale ed efficienza tecnica (o produttiva): l’una si riferisce alla minimizzazione

75; samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive…, cit., 66; martini, La valutazione dell’efficacia…, cit., 30.

43 Cfr. a tal proposito la trattazione di samek Lodovici, La valutazione delle politiche at-tive…, cit., 67 ss.

44 Nello specifico si veda il paragrafo 9.2.45 stame, L’esperienza della valutazione, cit., 73. Cfr. anche LiPPi, La valutazione delle

politiche pubbliche, cit., 156 ss., che tuttavia distingue tra tre approcci: analisi costi-benefici, analisi costi-efficacia e analisi costi-utilità.

46 Cfr. ciraveGna, La valutazione micoeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 66.

924

dei costi, l’altra misura il razionale utilizzo dei fattori produttivi (che vie-ne a mancare se si realizza un prodotto inferiore a quello possibile o si utilizza una quantità di risorse superiore al necessario) 47.

Sempre più spesso, soprattutto in ambienti anglosassoni (ma non so-lo) assume rilevanza la valutazione di performance (performance eva-luation). Si tratta di un’espressione dal significato variamente definito, spesso usata a sproposito nel linguaggio comune. Secondo alcuni teorici della valutazione la performance coincide con l’efficienza 48, secondo al-tri con l’efficacia lorda 49, mentre secondo l’interpretazione più ricorren-te essa è un concetto più complesso che implica un mix di efficacia e di efficienza 50 o, utilizzando una definizione ancora più ampia, un “insieme delle caratteristiche desiderabili dell’operare di un’organizzazione (i suoi costi; la qualità delle prestazioni; i volumi di attività; la ricaduta sull’am-biente esterno verso cui agisce)” 51. In quest’ultimo senso la valutazione di performance comporta una rilevazione sistematica della qualità e quantità del prodotto, al fine di verificarne la corrispondenza a predeter-minati standard (indicatori) quantitativi e qualitativi 52. Dunque, secondo tale prospettiva, si tratta di un’analisi che permette di integrare «informa-zioni relative sia all’andamento delle politiche sia alle prestazioni delle organizzazioni»: in sintesi essa riguarda la «capacità di governo di un’isti-tuzione» rispetto ai fenomeni rientranti nella sua sfera discrezionale 53. Come si vedrà più avanti, nella legislazione americana, britannica e au-straliana sui servizi per l’impiego si fa riferimento esclusivamente alla valutazione di performance 54; del resto, tale terminologia è caratteristica dei sistemi di management by objectives che, a partire dalle esperienze anglosassoni, si stanno diffondendo nell’organizzazione dei servizi per

47 resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico, cit., 95; vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 248.

48 m. PaLumBo, Qualità ed efficacia nei servizi…, cit., 78; L. tronti, Il benchmarking dei mercati del lavoro. Una sfida per le regioni italiane?, in antoneLLi-nosveLLi (a cura di), Mo-nitoraggio e valutazione…, cit., 82.

49 Cfr. A. me, La valutazione dell’impatto di politiche sociali, in «Economia & Lavoro», 3-4, 1994, 104.

50 resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico, cit., 95; PaLumBo, Il processo di valutazione…, cit., 195 e 207.

51 Così A. martini, m. sisti, Indicatori o analisi di performance? Implicazioni dell’espe-rienza statunitense di performance measurement, in «Rivista trimestrale di Scienza dell’am-ministrazione», n. 2, 2002, 32.

52 Cfr. martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 14.53 Così vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, cit., 295.54 V. infra parr. 5.2 e 7.2.

925

l’impiego in tutta Europa (v. infra il par. 4, in particolare alle note 61 e 62).

Per concludere, la valutazione, come il monitoraggio, si basa sulla misurazione di indicatori di risultato che traducono quantitativamente («operazionalizzano», nel linguaggio tecnico) gli obiettivi prefissati e le dimensioni di successo di una determinata politica occupazionale (ad es. il numero di disoccupati intermediati che hanno trovato un lavoro). Un corretto processo valutativo deve altresì tener conto di indicatori di con-testo e di differenti tipologie di utenza: tali strumenti vengono utilizzati per correggere gli esiti della valutazione prendendo in considerazione fattori influenti, quali il contesto del mercato locale del lavoro (condizio-ni del mercato del lavoro locale, tasso di occupazione, di disoccupazio-ne, composizione della domanda di lavoro, e così via) e le caratteristiche della popolazione-obiettivo (ad es., sesso, età, titolo di studio, background familiare, condizione di disoccupato di breve o lunga durata, eventuale disabilità, ecc.) 55. In particolare, indicatori di contesto e tipologie di utenza entrano nel processo di valutazione attraverso l’utilizzo di sofisti-cati metodi statistici ed econometrici che ne misurano l’impatto sugli in-dicatori di risultato.

3.2. Considerazioni conclusive sull’impiego dei diversi tipi di valutazione

A questo punto, definite le categorie essenziali della valutazione, conviene svolgere qualche breve considerazione sull’utilizzo in concreto dei diversi tipi di valutazione sinora descritti.

Anzitutto, si nota spesso nella prassi la tendenza a soffermarsi sull’efficacia senza prendere in considerazione l’efficienza, quasi si trat-tasse di due dimensioni separate. In realtà si tratta di due aspetti comple-mentari che vanno verificati congiuntamente 56. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per realizzare un intervento efficace è il conte-stuale raggiungimento della massima efficienza 57. Non vale l’inverso: è

55 oLiva-samek Lodovici, La struttura del sistema di monitoraggio, cit., 100-101; in par-ticolare sugli indicatori per valutare l’attività di orientamento professionale erogata dai centri per l’impiego v. R. BotticeLLi, m. catani, Il modello di valutazione della qualità dei servizi di orientamento professionale, in G. BotticeLLi, d. PaPareLLa, (a cura di), op. cit., 170 ss. Per un’esaustiva trattazione sui sistemi di indicatori di performance v. vecchi, La valutazione del-le politiche pubbliche, cit., 295 ss.

56 stame, L’esperienza della valutazione, cit., 130; PaLumBo, Il processo di valutazione cit., 185.

57 resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico, cit., 97.

926

possibile operare con efficiente allocazione delle risorse impiegate senza raggiungere gli obiettivi prefissati. Ad es. nel caso di una misura di for-mazione professionale o di un altro servizio erogato al disoccupato, la minimizzazione dei costi non garantisce (anzi spesso inibisce) il succes-so dell’intervento (cioè la formazione di qualità e l’outcome occupazio-nale dei partecipanti). Pertanto, a sua volta, l’efficienza ha significato so-lo se si accompagna all’efficacia 58.

In secondo luogo, si può osservare che la valutazione d’impatto si ri-ferisce più proficuamente ai caratteri complessivi di un intervento o di una politica del lavoro o ai servizi per l’impiego globalmente considera-ti (valutazione di sistema), mentre la valutazione di efficienza (intesa in senso lordo) si attaglia meglio ai singoli enti o centri erogatori dell’inter-vento o del servizio 59. Nel primo caso (valutazione di sistema) si perse-gue una logica di learning tramite l’apprezzamento dell’impatto delle varie politiche: più precisamente, questo tipo di valutazione sarà utilizza-to dal policy maker al fine di valorizzare le politiche esistenti, identifica-re eventuali criticità in esse presenti, realizzare cambiamenti o soppres-sioni, introdurne di nuove. Nel secondo caso (livello dei singoli enti ero-gatori del servizio), invece la valutazione (intesa in senso ampio e com-prensivo anche del monitoraggio) sarà soprattutto finalizzata all’ac-countability tramite la verifica dell’efficacia ed efficienza lorde dei sog-getti erogatori: a seconda dei risultati ottenuti nell’erogazione dei servi-zi, potrebbe conseguire, in relazione al contesto politico-istituzionale di riferimento, una disciplina premiale o sanzionatoria in termini di attribu-zione delle risorse pubbliche, fino al limite estremo dell’espulsione dal sistema 60.

4. Esperienze internazionali di valutazione

Nel quadro comparato la valutazione dei servizi per l’impiego è col-legata al diffondersi di pratiche di management by objectives (MBO) nel settore pubblico 61. In quel contesto essa è prevalentemente finalizzata a

58 PaLumBo-vecchia, La valutazione: teoria ed esperienze, cit., 87; PaLumBo, Il proces-so di valutazione, cit., 185.

59 martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 10.60 La corrispondenza tra monitoraggio e accountability e, rispettivamente, valutazione

d’impatto e learning trova ampi riscontri in letteratura: cfr. ad es. martini, Valutazione dell’ef-ficacia di interventi pubblici contro la povertà, cit., 12; oriGo-samek Lodovici, La valutazio-ne nei servizi di orientamento…, cit., 79.

61 La tecnica del management by objectives (MBO) comincia a svilupparsi nel contesto

927

indirizzare gli enti pubblici operanti nel sistema dei servizi per l’impiego verso gli obiettivi stabiliti, evidenziando e rimuovendo le aree di ineffica-cia ed inefficienza. In Europa questa prassi si sviluppa solo dalla fine an-ni 80/inizi anni 90 62, mentre negli Stati Uniti la cultura della valutazione è diffusa già dagli anni 60. Tuttavia, mentre nel contesto americano la va-lutazione si presenta generalmente funzionale a un’ottica di reward/san-ction dei soggetti che gestiscono le politiche pubbliche per l’impiego, nei Paesi europei tale prassi è meno diffusa: la valutazione, quando riguarda le singole strutture pubbliche, ha solo finalità di benchmarking 63.

Le più significative esperienze straniere di valutazione delle politiche per l’occupazione e dei servizi per l’impiego si sono esercitate prevalen-temente sulla valutazione (rectius monitoraggio) dell’efficacia ed effi-

americano agli inizi del ’900 nel settore privato, ma la sua definizione organica e compiuta ri-sale alla metà degli anni ’50 (per la stessa v. P. drucker, The practice of management, Harper&Row, New York, 1955, 104 ss.). Tale approccio richiede la preventiva determinazione di obiettivi nonché del peso relativo di ciascuno di essi, la definizione di criteri di valutazione, la fissazione di standard o parametri di riferimento, la valutazione dei risultati ottenuti e infine la correlazione di questi ultimi ad un sistema di incentivi. (Cfr. morisi-LiPPi, Manuale di scien-za dell’amministrazione, cit., 128). L’MBO progressivamente, con tempistiche diverse nei va-ri Paesi, trova applicazione nel settore pubblico in cui agisce come catalizzatore di un radica-le rinnovamento in termini di una più efficiente ed efficace gestione. (Si parla appunto di New Public Management). Sul tema la letteratura è sterminata: si veda per tutti ch. PoLLit, G. Bouckaert, Public Management Reform. A comparative analysis, Oxford, Oxford University Press, 2000.

62 I servizi per l’impiego che adottano il modello del MBO sono tenuti ad individuare fi-nalità strategiche generali (goals), ad identificare obiettivi operativi tesi al loro conseguimen-to (operational objectives o targets), e ad adottare indicatori per misurare il raggiungimento di tali obiettivi (performance indicators). Nel dibattito sul funzionamento ottimale dei sistemi di MBO nei servizi pubblici per l’impiego viene messa in evidenza l’opportunità che il numero degli obiettivi considerati sia quanto più possibile limitato e che essi siano determinati a livel-lo decentrato (regionale o locale): in tal modo viene assicurato un sistema più efficiente ed adattabile alle situazioni del mercato del lavoro locale (cfr. H. mosLey, h. schütz, n. Breyer, Management by Objectives in European Public Employment Services, Discussion paper FS I 01-203, Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung, Berlin, 2001, 19). Per uno studio sull’applicazione del modello di MBO nei servizi per l’impiego dei diversi Stati europei v. mosLey-schütz-Breyer, op. ult. cit. Sul MBO quale tecnica di governo del mercato del lavo-ro v. anche S. sPattini, Il governo del mercato del lavoro tra controllo pubblico e neocontrat-tualismo. Analisi storico-comparata dei sistemi di regolazione e governo attivo del mercato, cit., 87 ss.

63 Qualche decisivo passo nella direzione di un sistema di valutazione finalizzato a distri-buire premi o irrogare sanzioni era stato intrapreso in Svizzera, ma, a quanto consta, il mecca-nismo non è mai andato a regime a causa di forti resistenze politiche. Sull’esperienza svizzera v. l’approfondito paper di C. hiLBert, Performanzmessung und Anreize in der regionalen Ar-beitsvermittlung: Der Schweizer Ansatz und eine Modellrechnung für Deutschland, 2004, con-sultabile sul sito www.wz-berlin.de/ars/ab.

928

cienza lorde, in misura più rara sulla valutazione degli impatti: in effetti, quest’ultima per i motivi già illustrati 64, si presenta particolarmente com-plessa e richiede tempi lunghi. Negli ambienti anglosassoni è ovunque diffusa la misurazione sistematica della performance, che, come già ac-cennato, compendia la valutazione di efficacia/efficienza (lorde) alla rile-vazione di aspetti legati alla qualità del servizio erogato (quale ad esem-pio la customer satisfaction, sia dei datori di lavoro che si rivolgono ai servizi per l’impiego sia dei soggetti in cerca di occupazione).

Inoltre il quadro comparato mostra anche che le esperienze valutati-ve più diffuse si sono appuntate in particolare sull’intermediazione, assai spesso abbinata ad interventi formativi mirati. Infatti, l’orientamento e la formazione professionale sono di problematica valutazione, in quanto il loro esito è difficilmente apprezzabile, e comunque i loro effetti si mani-festano spesso soltanto dopo un certo lasso di tempo dall’intervento 65. Invece, l’esito dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro è im-mediatamente quantificabile, e quindi la sua traduzione in indicatori (c.d. “operazionalizzazione”) è abbastanza agevole. Va altresì considerato che l’orientamento e la formazione professionale sono entrambi assai spesso propedeutici all’inserimento lavorativo, cosicché la valutazione della lo-ro efficacia risulta assai di frequente inestricabile da quella del servizio di mediazione tout court 66.

Qui di seguito saranno analizzate le esperienze dei Paesi stranieri in cui la cultura della valutazione ha prodotto risultati più avanzati: Stati Uniti, Australia, Gran Bretagna, Svezia. Per ciascuno di essi, prima di procedere all’analisi delle pratiche valutative, si ritiene opportuno deli-neare nei tratti essenziali il rispettivo sistema di servizi per l’impiego. Le pratiche di valutazione non sono mai fini a se stesse, bensì risultano in-scindibilmente legate ai contesti nei quali si collocano. In effetti, il loro utilizzo è finalizzato al migliore governo dei servizi stessi, ovvero alla lo-ro riforma o riorientamento, cosicché la mera analisi delle pratiche valu-tative disgiunta dalla considerazione del sistema in cui vengono effettua-te sarebbe di scarsa utilità. Dopo la sintetica introduzione di carattere istituzionale, si procederà ad analizzare da un lato i modelli di valutazio-ne degli enti erogatori dei servizi, dall’altro le esperienze di valutazione dei sistemi di servizi per l’impiego globalmente intesi, nonché della loro

64 Cfr. il paragrafo 3.1.65 Cfr. a tale proposito F. oriGo, m. samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orien-

tamento: una rassegna della letteratura internazionale, in G. BotticeLLi, d. PaPareLLa (a cu-ra di), op. cit., 76-77.

66 Cfr. oriGo-samek, op. cit., 75-76.

929

struttura, organizzazione e funzioni (valutazione di sistema), secondo la distinzione operata nel paragrafo precedente, particolarmente comoda a fini espositivi.

5. Stati Uniti

5.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Lo sviluppo e la diffusione degli One-Stop Career Centers

Negli anni ’90 il Dipartimento del lavoro del governo degli Stati Uniti ha favorito la diffusione degli One-Stop Centers (di seguito: OSC), organismi pubblici che erogano in un’unica struttura integrata (one-stop shop) una vasta gamma di servizi per l’occupazione, quali orientamento, bilancio di competenze, informazioni sull’opportunità di istruzione e for-mazione, supporto all’ottenimento dell’indennità di disoccupazione e all’accesso all’istruzione e formazione, assistenza per la ricerca di un po-sto di lavoro, consultazione di banche-dati sul mercato del lavoro 67.

Tali strutture sono state formalmente introdotte nel 1998 con il Work Investment Act (WIA) 68, che sostituisce il precedente Job Training Part-nership Act (JTPA) del 1982. Tuttavia già dal 1994 il governo federale aveva cominciato a distribuire finanziamenti ad alcuni Stati perché costi-tuissero e sviluppassero in via sperimentale one-stop centers addestran-do il relativo personale. Secondo quanto previsto dalla legge, entro il lu-glio 2000 ogni Stato doveva dotarsi di una workforce investment area in cui fosse presente almeno un one-stop center 69. Tuttavia alcuni Stati han-no mantenuto strutture autonome, a volte affiliate al sistema degli OSC, a volte completamente separate dalla rete degli One-stop shops, costi-tuendo in tal modo un sistema parallelo di erogazione di servizi per l’im-piego (regolato e finanziato dal Wagner-Peyser Act) 70. Probabilmente an-

67 Per una trattazione puntuale sul sistema dei servizi per l’impiego negli USA v. oecd, The Public Employment Service in the United States, Paris, 1999.

68 Public Law 105-220 del 7 agosto 1998.69 Nel 2007 erano presenti complessivamente 563 local investment areas, distribuite in

misura eterogenea fra i diversi stati, col numero massimo in California (50 aree). Per i dati pre-cisi sulle aree e i relativi one-stop centers cfr. GeneraL accountinG office, Workforce Invest-ment Act. One Stop Infrastructure continues to evolve, but Labour should take action to re-quire that all employment service offices are part of the system, GAO-07-1096, Washington, D.C., september 2007, sopr. Appendix III, 44 (consultabile sul sito www.gao.gov).

70 Si tratta dei c.d. stand-alone Employment offices. Il Ministero del lavoro, pur espri-mendo preoccupazione per il rischio di confusione, duplicazione di servizi, e di conseguenza

930

che in relazione a tali prassi nelle proposte del 2007 di emendamenti al WIA, al fine di assicurare una maggiore flessibilità del sistema, la sud-detta previsione viene stralciata, cosicché possono esistere anche aree prive di OSC, purché, però, le stesse siano in grado di garantire servizi al-ternativi ed efficienti a chi è in cerca di lavoro 71.

Il sistema degli OSC è piuttosto articolato: esso comprendeva origi-nariamente 17 programmi obbligatori, ora ridotti a 16 72, facenti capo a quattro differenti agenzie federali: Ministero del lavoro, dell’istruzione, della sanità e dello sviluppo urbano (Department of Labor, of Education, of Health and Human Services, e of Housing and Urban Development). Di tali programmi 3 sono stati introdotti, disciplinati e finanziati dallo stesso WIA, in sostituzione di quelli previsti dal JTPA. Inoltre fanno par-te del sistema l’Employment Service, regolato e finanziato dal Wagner-Peyser Act del 1933 e l’Unemployment Insurance introdotto nel 1935 dal Social Security Act 73. Accanto ai programmi-partners obbligatori, i sin-goli stati federali e le diverse aree hanno la facoltà di introdurne altri al fine di contribuire meglio alle necessità locali 74. L’accesso ai servizi for-niti tramite i programmi non è più basato sul reddito, come nella prece-dente disciplina 75, ma è garantito alla generalità degli utenti, sia disoccu-pati sia imprenditori 76.

per l’inefficiente uso delle risorse, constata che non ha l’autorità sufficiente a proibirli. Secon-do una ricerca condotta dal GAO (General Accounting Office) nel 2007, ben 18 Stati riporta-no di avere almeno uno o più stand-alone Employment Service office, e tra questi 9 dichiara-no di averne almeno uno completamente scollegato dal sistema degli one-stop center. Per quanto riguarda gli one stop centers, il loro numero è diminuito del 7% negli ultimi 6 anni, probabilmente a causa della scarsità di fondi: si passa dalle 1756 unità del 2001 alle 1637 del 2007. Tuttavia il trend non si è mantenuto costante in tutti gli Stati: infatti in una decina di es-si si è verificato un incremento. Cfr. GAO-07-1096, cit., 8-9, nonché, per dati precisi e com-pleti, la tabella contenuta nell’Appendix IV, 46 e VI, 50. Cfr. altresì GeneraL accountinG of-fice, Workforce Investment Act. Additional Actions Would Further Improve the Workforce Sys-tem, GAO-07-1051 T, Washington, D.C., June 28, 2007, consultabile sul sito www.gao.gov.

71 Cfr. Sec. 108 (b).72 Infatti il programma Welfare to work, gestito dal Ministero del lavoro, è stato interrotto.73 Per una tabella sinottica dei differenti programmi partner e delle agenzie di riferimen-

to v. per es. GAO-07-1096, cit., p. 7. Per una descrizione degli stessi cfr. G. PeLLicano, Le po-litiche per l’occupazione negli USA, Spinn-Adapt-Italialavoro, 2005, 39 ss.

74 Le proposte di emendamento hanno rivisto la lista dei programmi in partnership con gli OSC, eliminando alcuni dei tradizionali partner obbligatori (per es. il Wagner-Peyser Act Program) ed aggiungendone altri, prima solo opzionali (come il Temporary Assistance for Ne-edy Families Program –TANF). Cfr Sec 108 (a).

75 Il JTPA prevedeva, infatti, che potessero fruire dei servizi solo le persone con un bas-so reddito.

76 Però per i giovani anche il WIA mantiene fermo il requisito reddituale.

931

I servizi offerti si articolano in tre pilastri (o livelli): servizi base (co-re services) 77, servizi intensivi (intensive services) 78 e formazione profes-sionale (training) 79. I primi (come per esempio le facilitazioni alla ricer-ca del lavoro o informazioni sul mercato del lavoro) sono per lo più acces-sibili self-service, nelle apposite aree degli OSC a ciò adibite o tramite in-ternet nella propria abitazione, ma possono richiedere una minima intera-zione con lo staff; gli altri due richiedono invece una significativo coin-volgimento degli operatori. è previsto che, per poter fruire del servizio di assistenza intensiva, il disoccupato abbia sperimentato senza successo i core services (self-service); e ulteriormente che, per poter partecipare al-le attività di training, sia risultata vana l’assistenza intensiva: solo in tal caso i disoccupati ricevono dei vouchers, detti Individual Training Ac-counts, con i quali possono rivolgersi ad un provider privato di loro scel-ta. Tuttavia nelle proposte di emendamento al WIA del 2007 questa pro-gressione forzata viene eliminata, cosicché il cliente può, se necessita, di-rettamente accedere a servizi più complessi, quali il training 80.

Il sistema degli OSC è inserito in un contesto organizzativo alquan-to articolato. A livello federale il Governo è competente per l’attribuzio-ne delle risorse tra i diversi Stati, per la formulazione degli indicatori di performance (d’accordo con gli Stati), per la valutazione dei risultati e quindi per l’applicazione delle sanzioni o dei benefici. Invece l’imple-mentazione dei programmi è operata a livello statale e locale. In partico-lare in ogni Stato è presente un comitato esecutivo (State Workforce In-vestment Board-SWIB) 81 che assiste il Governatore, predispone il piano quinquennale (approvato in seguito dal Department of Labour), indivi-dua le aree locali di intervento (Local workforce Investment Areas-LWIA) basandosi sui mercati del lavoro territoriali, provvede alla distribuzione delle risorse, definisce e rileva gli indicatori di performance a livello lo-

77 Le proposte di emendamento al WIA del 2007 ampliano la gamma di servizi di base che l’OSC può fornire, includendo per es. servizi di reclutamento per i datori di lavoro, la som-ministrazione del work test ai fini dell’erogazione dell’indennità di disoccupazione, la previ-sione di servizi di reintegrazione al lavoro per coloro che richiedono tale indennità. Cfr. Sec. 112 (e) (4).

78 Gli emendamenti proposti includono servizi aggiuntivi, quali l’apprendistato e la work experience, le attività di scrittura e lettura, l’assistenza nella ricerca di un lavoro fuori zona. Cfr. Sec. 112 (e) (3) (C).

79 Le proposte di emendamento istituiscono dei fondi ad hoc (Career Advancement Ac-counts) che gli utenti possono utilizzare per acquistare i servizi dai providers oltre che per pa-gare libri e spese varie. Cfr. Sec. 112 (e) (3) (D).

80 Cfr. Sec. 112 (e) (3).81 Cfr. WIA, Title I, Sec. 111.

932

cale. Infine le LWIA 82 sono costituite in zone con almeno 500.000 abi-tanti 83 e caratterizzate dall’omogeneità del mercato del lavoro. In ciascu-na è costituito un comitato locale (Local Workforce Investment Board-LWIB) 84 che ha un ruolo decisivo nella gestione degli OSC: infatti si oc-cupa della selezione degli operatori degli uffici, dell’accreditamento dei providers dei diversi servizi, della negoziazione dei livelli di performan-ce attesi con l’autorità statale 85.

5.2. La valutazione dei servizi per l’impiego

5.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performan-ce dal Job Training Partnership Act …

Negli Stati Uniti la cultura della valutazione di efficacia/efficienza 86 dell’amministrazione pubblica, e in particolare dei servizi sociali, è risa-lente 87, tanto questo Paese è stato definito come la culla della valutazio-ne 88. Da un lato infatti la valutazione è stata istituzionalizzata con la cre-

82 Cfr. WIA, Title I, Sec. 116.83 Tuttavia le proposte di emendamento al WIA del 2007 limitano tale automatica desi-

gnazione ad un periodo di 2 anni e richiedono per queste aree solidità finanziara e performan-ce positiva. Cfr. Sec 105 (a).

Secondo l’attuale disciplina inoltre le LWIA sono ammissibili in via temporanea altresì in zone popolate da 200.000 abitanti che, sotto la vigenza del JTPA, costituivano Service De-livery Areas purché abbiano conseguito per due anni gli obiettivi di performance stabiliti e non abbiano manifestato deficit finanziari.

84 Cfr. WIA, Title I, Sec. 117. Tali comitati hanno una composizione molto ampia e com-prendono managers, enti formativi locali, rappresentanti aziendali, terzo settore, programmi partner degli OSC. Tuttavia gli emendamenti proposti, al fine di facilitare il processo decisio-nale, prevedono una drastica riduzione del numero dei componenti, e non richiedono più la presenza dei programmi partner degli OSC. Cfr. Sec 106 (a).

85 Per la descrizione del sistema v. G. PeLLicano, Le politiche per l’occupazione negli USA, Spinn-Adapt-Italialavoro, 2005, 8 ss.

86 Ma nella terminologia anglosassone è più diffuso il termine performance.87 Si sviluppa infatti negli anni ’60 in relazione agli interventi sociali volti a contrastare

la povertà (c.d. Guerra alla Povertà). Cfr. c.f. manski, i. GarfinkeL, Valutazione strutturale e valutazione in forma ridotta, in N. stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Ange-li, Milano, 2007, 249.

88 In tal senso v. N. stame, Introduzione, in N. stame (a cura di), Classici della valuta-zione, Franco Angeli, Milano, 2007, XI. Per la descrizione di alcune risalenti esperienze v. per es. ciraveGna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 83; M. fa-vro-Paris, La formazione professionale, in D. ciraveGna et al., La valutazione delle politiche

933

azione di organismi appositi 89, dall’altro la maggior parte delle leggi americane che prevedono l’impiego di fondi pubblici contengono nume-rose disposizioni in materia di valutazione, specificandone gli obiettivi, i criteri e le metodologie da adottare nonché le risorse stanziate ad hoc 90. Inoltre essa costituisce parte integrante dell’implementazione delle varie politiche.

Di grande importanza nel radicamento della pratica valutativa è sta-ta l’approvazione del Government Performance and Results Act (di se-guito GPRA) nel 1993, che impone alle più importanti Agenzie federali l’adozione di sistemi di rilevazione e valutazione della performance. Più precisamente queste, oltre a sviluppare piani strategici pluriennali, devo-no formulare piani annuali di performance in cui siano specificati obiet-tivi generali (goals) quantitativamente misurabili, risorse e strategie ne-cessarie per raggiungerli, criteri e metodi di rilevazione della performan-ce. Al termine di ciascun anno devono inoltre presentare reports accura-ti sul livello di performance raggiunto 91.

L’attuazione del GPRA e l’implementazione di tali sistemi di valu-tazione è avvenuta per gradi e ha richiesto numerosi esperimenti-pilota. Una funzione essenziale in questo processo è stata svolta dal General Ac-counting Audit (GAO), che costituisce organo di supporto al Congresso con funzioni ispettive, di controllo e valutative e contribuisce al miglio-ramento della performance e accountability del Governo federale: esso controlla l’utilizzo delle risorse pubbliche, valuta i programmi e le poli-tiche del governo federale e fornisce pareri, analisi e raccomandazioni al Congresso. In particolare, in tema di politica del lavoro, è intervenuto con frequenti rapporti e valutazioni indirizzate al Congresso e con racco-mandazioni metodologiche per le agenzie federali coinvolte.

Tra le diverse agenzie governative, il Department of Labor ha avuto un ruolo «pionieristico» 92 nell’introduzione e sviluppo di modelli di ge-stione basati sulla performance. Già negli anni ’70, e dunque ancora pri-

attive del lavoro: esperienze a confronto, Utet, Torino, 1995, 139 ss.; martini-sisti, Indicato-ri o analisi di performance?, cit., 40 ss.

89 A tale proposito va osservato che in passato la valutazione era affidata ad istituzioni esterne alla pubblica amministrazione, come ad esempio la Manpower Demonstration Research Corporation, finanziata dal governo federale, o fondazioni private. Negli anni più recenti, accan-to a questi organismi, si assiste ad un rafforzato ruolo delle autorità statali e locali in materia. Cfr. ciraveGna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del lavoro, cit., 84.

90 rettore, triveLLato, op. cit., 893.91 Cfr. J. dorrer, The US: Managing Different Levels of Accountability, in OECD, Man-

aging Decentralisation. A new Role for Labour Market policy, Paris, 2003, 195-196.92 Così B. BarnoW, Exploring the relationship between performance management and

934

ma dell’emanazione del summenzionato GPRA, in diversi atti legislativi era prevista una valutazione dei programmi ivi disciplinati. Per esempio il Comprehensive Employment and Training Act (CETA) del 1973, che introduceva e regolava programmi di formazione professionale e di so-stegno all’occupazione, richiedeva che gli stessi fossero oggetto di valu-tazione. Di conseguenza il Dipartimento del Lavoro promosse più valu-tazioni di tipo quasi sperimentale (utilizzando una banca-dati longitudi-nale), volte a verificare le maggiori capacità reddituali e occupazionali dei partecipanti. Tuttavia i risultati di tali studi sono contraddittori e, a causa del metodo utilizzato, non sono stati ritenuti attendibili 93.

Più significativo ai nostri fini è il Job Training Partnership Act (JTPA) che, introdotto nel 1982 in sostituzione del CETA, prevedeva ser-vizi e programmi mirati a favorire il reinserimento lavorativo delle fasce deboli, erogati da apposite agenzie pubbliche denominate Service Deli-very Areas. Anch’esso istituiva un sistema di misurazione della perfor-mance finalizzato a “valutare la capacità delle agenzie di ottenere buoni esiti occupazionali per gli utenti dei servizi” 94. Dato che i principali obiettivi del programma erano identificati nell’inserimento occupaziona-le dei partecipanti entro un certo periodo di tempo dalla fruizione del ser-vizio, nonché nel miglioramento del loro livello retributivo, tali obiettivi sono stati tradotti operativamente nei seguenti indicatori, calcolati sepa-ratamente per diverse combinazioni di età e sesso dell’utenza: la percen-tuale di occupati per almeno 20 ore la settimana tra gli allievi (rilevata mediante un’indagine a 13 settimane dalla conclusione del corso/fruizio-ne del servizio); la retribuzione settimanale di coloro che sono occupati alla tredicesima settimana dalla conclusione del corso/fruizione del ser-vizio. Sono questi gli unici indicatori considerati in quanto la valutazio-ne era stata volutamente focalizzata soltanto sull’efficacia intesa come capacità di produrre gli outcomes desiderati (ovvero l’occupazione/retri-buzione), prescindendo dall’efficacia intesa come outputs (clienti servi-ti), dalla qualità del processo (ore di lezione) e dall’efficienza (costo per utente servito).

Il meccanismo immaginato prevedeva la fissazione di livelli minimi di performance, opportunamente aggiustati per ciascuna agenzia per te-

program impact: a case study of the Job Training Partnership Act, in «Journal of policy anal-ysis and management», 2000, vol. 19, n. 1, 119 e 137.

93 Per una rassegna critica di tali studi v. D.B. muhLhausen, Do Job Programs work? A Review Article, in «Journal of Labur research», 2005, n. 2, 307-311. Cfr. anche ciraveGna, La valutazione microeconomica…, cit., 84; rettore-triveLLato, op. cit., 896.

94 Cfr. martini, sisti, Indicatori o analisi di performance?, cit., 40.

935

ner conto dei seguenti indicatori di contesto: condizioni socio-economi-che della zona; utenza servita con caratteristiche meno appetibili. Lo sco-po era quello di evitare da un lato il c.d. creaming, ovvero la selezione dell’utenza più facilmente collocabile da parte delle agenzie; dall’altro, di consentire il raggiungimento del livello minimo di performance anche al-le agenzie operanti in contesti difficili e con utenza particolarmente svan-taggiata. Il calcolo dello standard minimo per ogni agenzia era effettuato applicando un modello statistico di regressione che identificava l’effetto marginale di ciascun fattore di svantaggio sull’indicatore e provvedeva a correggerlo mediante l’applicazione di un moltiplicatore. L’elaborazione e l’implementazione del modello erano affidate ad un istituto di ricerca.

La finalità della valutazione era quella di erogare benefici alle agen-zie che si collocassero al di sopra degli standard minimi stabiliti, nonché di irrogare sanzioni alle agenzie la cui performance si fosse rivelata per 2 anni consecutivi al di sotto di tali livelli minimi 95. Tuttavia, un recente studio, volto a verificare la congruenza tra la performance misurata così come previsto nel JTPA e l’impatto del programma sul mercato del lavo-ro, conclude che la congruenza è statisticamente debole e che, pertanto, il Ministero del lavoro non dovrebbe irrogare sanzioni né applicare misu-re premiali sulla base di tal sistema 96.

Anche in conseguenza di tale valutazione non pienamente positiva (sia per il metodo sia per il merito) nel 1998 il JTPA è stato sostituito dal Workforce Investment Act (WIA).

5.2.2. … al Work Investment Act

Il WIA riforma in misura rilevante la materia del mercato del lavo-ro: oltre a disciplinare il nuovo sistema di servizi per l’impiego (workfor-ce investment system), esso regola diversi programmi per i disoccupati nonché le tecniche di valutazione da adottare. A tale proposito, il WIA dedica una intera sezione del Titolo I (Sec. 136, Performance Accounta-bility System) alle disposizioni in materia di valutazione, prevedendo un sistema organico di misurazione della performance, costituito da un set di 17 indicatori, distinti in indicatori-chiave (core indicators), indicatori relativi alla soddisfazione dei clienti (customer satisfaction indicators),

95 Cfr. BarnoW, Exploring the relationship between performance management and pro-gram impact…, cit., 124.

96 BarnoW, Exploring the relationship between performance management and program impact…, cit.,135-136.

936

indicatori addizionali (additional indicators); e differenziati per i giova-ni 97 e per gli adulti, in relazione alle diverse finalità dei programmi a lo-ro destinati. Tali indicatori si applicano a tutti e tre i programmi discipli-nati e finanziati dal WIA 98: Adult, Youth, Dislocated workers 99. Precisa-mente i core indicators per gli adult e i dislocated workers sono gli stes-si: tasso di occupazione in un lavoro non sussidiato, tasso di manteni-mento in un lavoro non sussidiato dopo 6 mesi dall’assunzione, reddito percepito per un lavoro non sussidiato a 6 mesi dall’inizio, tasso di otte-nimento di un credito formativo relativo ad un diploma scolastico o tito-lo equivalente o abilità professionali acquisite. Tali indicatori sono ripro-dotti per i giovani fra i 19 e i 21 anni con la sola differenza che per que-sti viene presa in considerazione anche l’istruzione post-secondaria e la formazione professionale. Invece i core indicators previsti per i giovani di età inferiore a 18 anni sono: tasso di ottenimento delle abilità di base e, eventualmente, attitudine al lavoro e abilità professionali; tasso di ot-tenimento del diploma di scuola secondaria o titolo equivalente; tasso di partecipazione e di mantenimento relativi a percorsi di istruzione secon-daria o formazione avanzata; tasso di partecipazione al servizio militare, all’apprendistato o tasso di occupazione.

Il WIA prescrive che i dati relativi alla performance debbano essere tratti obbligatoriamente dagli archivi dell’indennità di disoccupazione (Unemployment Insurance records-UI), in quanto ritenuti più attendibili rispetto ad altri data-base: tali archivi contengono, per ogni soggetto re-gistrato, informazioni relative alla nuova occupazione, al tasso di mante-nimento, alle modifiche reddituali 100. Tuttavia per raccogliere dati sui la-voratori esclusi dagli archivi UI, è ammesso il ricorso a fonti supplemen-tari, come indagini follow-up sui partecipanti ai programmi, ma non per acquisire informazioni sul reddito e le sue variazioni 101.

97 I giovani sono suddivisi dal WIA in due categorie, alle quali si applicano indicatori dif-ferenti: giovani di età inferiore ai 18 anni e giovani di età compresa fra i 19 e i 21 anni, questi ultimi assimilati agli adulti.

98 Per una puntuale descrizione v. G. PeLLicano, Le politiche per l’occupazione negli USA, cit., 45 ss.

99 Quest’ultimo programma è riservato ai soggetti che sono rimasti disoccupati in segui-to a chiusura d’azienda o a licenziamenti collettivi e con grande probabilità non potranno ri-tornare allo stesso tipo di occupazione.

100 Invece il JTPA prevedeva che tali dati fossero raccolti tramite indagini follow-up con i disoccupati, con notevole dispendio di risorse e tempo e col rischio di ottenere informazioni non uniformi e poco attendibili.

101 V. la circolare del Ministero del lavoro: Training and Employment Guidance Letter (TEGL) n. 7/99 (march 3, 2000), consultabile sul sito www.doleta.gov.

937

Indicatore trasversale a tutti i programmi è la soddisfazione dei clienti (customer satisfaction), sia disoccupati, sia imprenditori, che vie-ne misurata attraverso surveys condotte al termine della partecipazione alle attività previste dal WIA.

Gli Stati, che sono chiamati ad applicare uniformemente tali indica-tori-chiave, hanno la facoltà di integrarli con altri a loro scelta (additional indicators), rispondenti alla peculiare situazione locale: si tratta di un ele-mento di flessibilità che smussa la rigidità del sistema di accountability.

Nel WIA, rispetto al JTPA, si rilevano due significative novità: anzi-tutto viene introdotta, quale decisiva misura di rilevazione della perfor-mance, la soddisfazione dei clienti (Customer satisfaction); in secondo luogo vengono previsti notevoli spazi per la negoziazione della perfor-mance, che avviene a due livelli. Per un verso, gli Stati federati sono in-vitati a negoziare col governo centrale gli standard attesi di performance per ciascuno dei 17 indicatori. A loro volta anche le aree locali negozia-no questi livelli con lo Stato di riferimento 102. Tali accordi hanno durata triennale, ma possono essere rinegoziati se intervengono imprevisti mu-tamenti significativi nelle condizioni economiche e del mercato del lavo-ro, nonché nella popolazione target. In ogni caso, come specifica la nor-mativa, i livelli programmati o negoziati devono “tenere conto” dei fatto-ri di contesto menzionati, quali le condizioni economiche, demografiche, le caratteristiche dei partecipanti e i servizi da erogare. Nella disciplina precedente, come si è visto, non era previsto alcuno spazio per la nego-ziazione fra gli attori coinvolti, ma i fattori di contesto erano inclusi nel modello di valutazione attraverso la rigida applicazione di formule stati-stico-matematiche.

La valutazione persegue una logica di reward/sanctions: è cioè fina-lizzata ad attribuire incentivi economici o irrogare sanzioni in relazione al livello di performance ottenuta sia a livello statale sia a livello locale. A tal fine, ciascuno Stato federato ogni anno deve preparare e trasmette-re alla Segreteria del Governo federale un rapporto in cui riferisce sui li-velli di performance raggiunti e sui progressi riscontrati a livello statale e locale, e dà conto dei processi valutativi condotti autonomamente dai singoli Stati sui programmi del WIA realizzati all’interno dello Stato stesso 103. Il report contiene infine ulteriori informazioni aggiuntive sui

102 La legge prescrive che i livelli attesi siano definiti in un forma «oggettiva, quantifica-bile, misurabile» e, una volta raggiunto l’accordo, siano inclusi nel piano statale pluriennale.

103 Infatti gli Stati, come previsto dal WIA sec. 136, subsec. e), in coordinamento con i comitati locali, devono procedere a continui studi valutativi dei programmi previsti dal WIA ed erogati nel loro ambito territoriale. Tali analisi devono includere la rilevazione della custo-

938

partecipanti alle attività autorizzate dal WIA 104. è interessante rilevare che le informazioni non sono utilizzate esclusivamente dal Governo fe-derale, ma vengono rese disponibili alla collettività tramite pubblicazio-ne e altri metodi appropriati: si realizza così un principio di trasparenza delle attività pubbliche e si instaurano al contempo prassi di mutuo con-fronto e apprendimento tra i diversi Stati.

Per quanto riguarda le conseguenze della valutazione, è da notare che l’applicazione di eventuali sanzioni non è mai immediata: qualora lo Sta-to ottenga uno scarso risultato, prima di procedere all’irrogazione della sanzione, è previsto che il livello federale fornisca, su richiesta, assisten-za tecnica nella predisposizione di un piano di miglioramento della per-formance. Solo se lo Stato realizza una performance insufficiente per due anni consecutivi (alternativamente omette di presentare il rapporto annua-le), il Governo può ridurre fino al 5% le risorse pubbliche ad esso destina-te per l’anno successivo. Nel caso in cui la performance attesa non venga raggiunta a livello locale (in una workforce investment area), è lo Stato (il governatore) cui l’area appartiene che deve assumersi la responsabilità di richiedere l’assistenza tecnica. Se la situazione di inefficacia/inefficienza si prolunga per due anni, il Governo può adottare decisioni radicali che possono andare dalla ristrutturazione del consiglio del lavoro locale (wor-kforce investment board), alla eliminazione dal sistema OSC dei soggetti ritenuti responsabili del fallimento della performance 105.

Se invece lo Stato federato (o l’area locale) raggiunge o supera il li-vello di performance richiesto riceve dal Governo federale dei finanzia-

mer satisfaction, degli outcomes nonché misure di processo e possono avvalersi dell’utilizzo di gruppi di controllo. Il WIA dispone l’allocazione di fondi ad hoc per tali attività e richiede che esse siano il più possibile coordinate con le valutazioni avviate a livello federale. Gli Sta-ti federali, sulla base delle disposizioni contenuti nel WIA hanno elaborato indicatori addizio-nali e costruito autonomi sistemi di valutazione interni. In alcuni tale processo era stato avvia-to addirittura già prima della riforma del 1998. Non tutti però si sono adeguati alla logica di re-ward-sanctions sottesa alla valutazione. Comunque, laddove introdotti, i meccanismi di incen-tivi e sanzioni variano da Stato a Stato. Cfr. sociaL PoLicy research associates (sPr), The Workforce Investment Act after five years: results from the National Evaluation Implementa-tion of WIA, Report prepared as part of the National Evaluation of the implementation of WIA, June 2004,V-21 (consultabile sul sito www.doleta.gov/reports), dove vengono proposti alcuni esempi di incentivi e sanzioni adottati in alcuni Stati.

104 Tasso di inserimento in lavori non sussidiati, salario d’ingresso, tasso di mantenimen-to e salario a distanza di 12 mesi, costi delle attività realizzate per i partecipanti, performance relative ad alcune categorie di soggetti nominate.

105 è tuttavia previsto che l’area locale soggetta a riorganizzazione possa entro 30 giorni dalla comunicazione presentare un appello al governatore dello Stato che dovrà decidere defi-nitivamente entro i successivi 30 giorni.

939

menti (incentive grants). A tal fine è però necessario che lo Stato totaliz-zi un punteggio cumulativo del 100% per ognuno dei tre programmi fi-nanziati dal WIA nonché per i programmi di Adult Education and Lite-racy; e che raggiunga l’80% della performance negoziata per tutti i 17 in-dicatori, poiché il fallimento relativo anche a uno solo di essi comporta la perdita del diritto al finanziamento 106. Dal momento che questo ap-proccio separa il sistema premiale dalla performance realizzata in ogni singolo programma, così disincentivando gli operatori, le proposte di emendamento suggeriscono di collegare i finanziamenti anche solo ad una «performance esemplare» (dello Stato o delle aree locali) riferita al raggiungimento o al superamento delle misure negoziate nell’ambito dei programmi finanziati dal WIA, o alla performance realizzata con riguar-do a particolari gruppi target 107.

Il GAO, in una serie di rapporti presentati al Congresso, ha analizza-to il sistema di valutazione del WIA evidenziando una serie di nodi pro-blematici e notevoli spazi di miglioramento 108.

In particolare ha rilevato che, quantunque il Ministero del lavoro sia intervenuto a più riprese con circolari esplicative, alcune misure restano di difficile definizione: i crediti formativi (credentials) e le abilità acqui-site si prestano a molteplici interpretazioni nei diversi Stati e dunque comportano il rischio di disparità di trattamento 109. Tra l’altro una delle prime circolari interpretative 110 contribuisce ad accrescere la confusione, prescrivendo che debbano essere registrati (ai fini valutativi) i disoccupa-ti che abbiano ricevuto dallo staff un’assistenza significativa: è di tutta evidenza come anche questo concetto, nella sua vaghezza, possa dare adito a una preoccupante discrezionalità. Per questo motivo il Depart-ment of Labor è intervenuto nuovamente sull’argomento definendo il concetto 111. Ciononostante, le misure di performance prodotte dai diver-si Stati permangono difficilmente comparabili.

106 V. la circolare del Ministero del lavoro TEGL n. 7-99, cit.107 Section 113 (f).108 V. per es. GeneraL accountinG office, Workforce Investment Act: Improvements

Needed in Performance Measures to Provide a More Accurate Picture of WIA’s Effectiveness, GAO-02-275, Washington D.C., february 2002, consultabile sul sito www.gao.gov.

109 Per esempio alcuni Stati forniscono una nozione molto restrittiva di credito formati-vo, includendo solo diplomi rilasciati da istituzioni accreditate; altri ne delineano confini mol-to più ampi, includendo anche la generica abilità al lavoro, esperienze on the job, la partecipa-zione a workshop.

110 TEGL 7-99, cit.111 Costituisce assistenza significativa qualsiasi forma di assistenza dello staff che vada

oltre le mere attività informative e a prescindere dal tempo dedicato. Cfr. TEGL 17-05, 29.

940

Inoltre l’utilizzo dei dati della UI, se da un lato garantisce uniformi-tà e attendibilità delle informazioni raccolte, dall’altro presenta diversi inconvenienti: anzitutto sono disponibili solo dopo un consistente lasso di tempo (9 mesi o più) e così non consentono una verifica dei program-mi nel breve periodo; in secondo luogo non forniscono notizie su alcune categorie di lavoratori (es. gli autonomi, il personale militare, gli impie-gati del Governo federale, i lavoratori delle poste) e su quelli che svolgo-no un’occupazione fuori dal luogo di residenza 112.

Va aggiunto che la valutazione, come configurata nel WIA, non for-nisce un quadro completo e realistico dell’attività degli OSC, in quanto non valuta i servizi self-service e quelli meramente informativi, benché questi costituiscano una quota assai significativa del volume di attività degli OSC. Per questo motivo con gli emendamenti proposti nel 2007 ta-li servizi sono stati inclusi fra gli aspetti da valutare.

Anche il criterio della customer satisfaction non permette di apprez-zare alcuni aspetti: in particolare esso misura la soddisfazione dei disoc-cupati e dei datori di lavoro riguardo ai singoli programmi a cui hanno partecipato, ma non rileva il loro giudizio sul servizio complessivamente erogato dal sistema.

Pertanto la critica di maggior peso è probabilmente che tale impian-to valutativo non permette di valutare il sistema OSC nel suo complesso, ma solo i singoli programmi che ne fanno parte.

Tra l’altro, poiché ogni programma partner viene valutato sulla ba-se di definizioni, criteri e metodi differenti 113, e i risultati in seguito inse-riti in separati reports, ne risulta un quadro confuso e frammentato.

Per questo motivo, al fine di realizzare un sistema maggiormente in-tegrato, l’Office of Management and Budget (OMB) già dal 2002 aveva proposto l’adozione di una serie di misure (indicatori) comuni alla tota-

(consultabile sul sito www.doleta.gov). Si noti che tale circolare definisce tutti i principali ter-mini chiave per l’implementazione della valutazione.

112 Per superare o almeno ridurre tali inconvenienti gli Stati possono ricorrere ad altre fonti, concludere fra loro accordi finalizzati allo scambio dei dati, o servirsi di uno strumento in grado di permettere una trasmissione reciproca dei dati (c.d. Wage Record Interchange Sy-stem-WRIS). Tali espedienti non sono, però, risolutivi: le fonti supplementari non devono for-nire informazioni sui redditi, non tutti gli Stati sono disponibili alla conclusione di detti accor-di; il WRIS, a sua volta, richiede la predisposizione di sistemi di protezione della privacy e al-tri aggiustamenti amministrativi o tecnici che non tutti gli Stati sono in grado di affrontare.

113 Anche quando le misure di performance utilizzate nei vari programmi appaiono simi-li, possono essere diverse le definizioni di base. Per es. il gruppo dei giovani che nel WIA com-prende i soggetti di età fra 14 e 18 anni, in altri programmi comprende gli individui fra i 16 e i 24 anni.

941

lità dei programmi 114. Nel 2005 il Ministero del lavoro, raccogliendo questi suggerimenti, ha adottato ufficialmente tali misure, specificando-le e spiegandole in dettaglio in una apposita circolare (c.d. Training Gui-dance Employment Letter-TEGL) 115. Si tratta di sei indicatori, tre appli-cabili agli adulti e tre ai giovani. I primi sono: tasso di occupazione, tas-so di mantenimento dell’occupazione, reddito medio; i secondi riguarda-no il tasso di partecipazione all’occupazione o all’istruzione, il tasso di ottenimento di un diploma o equivalente, le abilità linguistiche o aritme-tiche. Rispetto alle misure individuate dal OMB è stata eliminata, sia per i giovani sia per gli adulti, l’efficienza (misurata in termini di costo per partecipante): questo perché, alla luce dell’esperienza negativa maturata sotto il JTPA, si temeva che l’introduzione di tale criterio avrebbe favo-rito l’erogazione di servizi di bassa qualità a scapito di un addestramen-to più intensivo e investimenti in capitale umano.

Gli Stati, con modalità e tempistiche differenti, si stanno muovendo nella direzione indicata.

Il WIA avrebbe dovuto essere riautorizzato entro il 2003, ma il pro-cedimento non si è ancora concluso. Nel 2007 sono stati proposti vari emendamenti, alcuni dei quali rappresentano una netta rottura con i prin-cipi guida del 1998.

In particolare viene accantonato uno degli elementi caratterizzanti del sistema anglosassone, cioè la rilevazione della customer satisfac-tion 116, che aveva cominciato ad essere utilizzata come misura di per-formance già dagli anni ’80.

Del resto sin dal 2005, con l’adozione delle misure comuni, il Mini-stero del lavoro aveva concesso agli Stati ampie facoltà di deroga, esen-tandoli in particolare dalla rilevazione della soddisfazione dell’utente.

Altra importante modifica è l’inclusione dei core services nella rile-vazione della performance: in tal modo si ottiene un risultato più attendi-bile dato che tali servizi sono molto utilizzati dagli utenti 117.

In terzo luogo si prevede che i fattori di contesto abbiano un peso as-sai maggiore nella negoziazione sugli standard attesi di performance, a livello sia locale sia statale: mentre nel WIA è previsto semplicemente che questi fattori siano «presi in considerazione» ora si richiede che su

114 Cfr. ray marshaLL center for the study of human resources, Proposed approa- ches to workforce development performance measurement, Occasional Brief series, vol. 1, n. 1 (consultabile sul sito www.utexas.edu/reseach/cshr.).

115 TEGL 17-05, attachment a) (consultabile sul sito www.doleta.gov).116 Cfr. Section 113 (a) (1).117 Cfr. Sec. 113 (a) (2).

942

questi (più chiaramente specificati) si basi fondamentalmente la negozia-zione 118.

Da ultimo anche negli emendamenti si dispone che il Governo uti-lizzi gli indicatori base per verificare l’efficacia di tutti i programmi fe-derali 119. In tal modo verrebbe rafforzato ulteriormente il processo di co-struzione di misure di performance comuni, in atto da qualche anno.

5.2.3. La valutazione di sistema

Gia il JTPA era stato sottoposto ad un’approfondita valutazione di si-stema, con metodo sperimentale, confrontando gruppi di partecipanti ai tre diversi tipi di formazione previsti con i rispettivi gruppi di controllo 120: l’obiettivo era quello di valutare l’impatto complessivo (netto) del pro-gramma sul mercato del lavoro. Gli indicatori considerati sono stati il tasso occupazionale e il livello salariale, verificati nei 30 mesi successivi allo svolgimento dell’esperimento. I risultati sono compositi: mentre l’impatto sull’occupazione è di 2-3 punti percentuali senza differenze tra uomini e donne, l’impatto retributivo è maggiore per le donne (15%) ri-spetto agli uomini (8%), è nullo per i giovani ed è diverso a seconda del programma considerato (la formazione in aula ha risultati peggiori di quella on the job).

Anche il sistema del WIA nella sua globalità è stato oggetto di ap-profondita valutazione. Anzi, nel 2002 il Governo ha lanciato una strate-gia valutativa denominata «National Evaluation of the implementation of the WIA». In questa cornice la società di ricerca Social Policy Research Associates (SPR) ha condotto un ampio studio su un campione di Stati federati a 5 anni di distanza dall’entrata in vigore della legge 121. L’inda-gine si è valsa sia del metodo qualitativo che di quello quantitativo, e ha prodotto un cospicuo numero di reports intermedi 122. Con riferimento al

118 Cfr. Sec. 113 (a) (3) e Sec. 113 (b).119 Cfr. Sec. 113 (g).120 Si tratta di un’analisi di impatto molto ampia, che ha coinvolto un campione di circa

20.000 persone distribuite in 16 sedi diverse sul territorio nazionale. La valutazione è stata ef-fettuata da L. orr, h.s. BLoom et al., Does Training for the Disadvantaged Work? Evidence from the National JTPA Study, Urban Institute Press, Washington D.C., 1996. Per una sintesi esaustiva v. D.B. muhLhausen, Do Job Programs work?, cit., 312-314. V. anche favro Paris, La valutazione della formazione professionale, cit., 143.

121 Cfr. sociaL PoLicy research associates, The Workforce Investment Act after five years, cit.

122 Cfr. sociaL PoLicy research associates, cit., I-21 ss.

943

primo, sono state effettuate visite presso le local workforce investment areas e i relativi One-Stop Shops e sono state condotte interviste ai sog-getti competenti per l’amministrazione del WIA a livello statale e locale, ai rappresentanti dei boards, agli esponenti dei programmi partners, non-ché ai manager e agli operatori degli One-Stop Shops. La ricerca qualita-tiva si è snodata longitudinalmente in 3 fasi per dar meglio conto del pro-gresso nell’attuazione del WIA: essa si è focalizzata in particolare sulla gestione, anche informatica, del nuovo sistema, sulle modalità di eroga-zione del servizio, sulla costruzione di una partnership funzionante, sui programmi offerti, sul modello di valutazione della performance previ-sto. L’indagine quantitativa, avvalendosi di apposite banche dati naziona-li, si è concentrata su tematiche più specifiche quali il coinvolgimento dei soggetti privati, l’erogazione di un servizio efficace al mondo delle im-prese, nonché la capacità del sistema di soddisfare le esigenze di gruppi specifici della popolazione, tra i quali i senzatetto, i disoccupati con in-sufficienti conoscenze linguistiche, i lavoratori delle campagne.

La valutazione condotta dal SPR ha messo in luce le notevoli diffi-coltà connesse al processo di passaggio dal JTPA al WIA, ma ha verifi-cato al contempo che i vantaggi connessi al nuovo sistema sono reali: ac-cessibilità universale del servizio; razionalizzazione e semplificazione mediante l’accorpamento in un’unica struttura delle funzioni facenti ca-po ad enti diversi (in particolare quella di sostegno al reddito e l’eroga-zione dei servizi per l’impiego); accresciuta flessibilità nel rispondere al-le esigenze specifiche delle comunità locali; più efficaci (seppur miglio-rabili) meccanismi di valutazione.

Anche il General Accounting Office ha periodicamente elaborato rapporti in cui ha via via evidenziato i progressi e gli aspetti critici nell’implementazione del sistema fornendo contestualmente raccoman-dazioni e suggerimenti ai policy makers 123.

6. Australia

6.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Centerlink e il Job Network

L’Australia ha riformato radicalmente il proprio sistema di servizi per l’impiego a partire dalla seconda metà degli anni ’90 124. Nel 1997, in

123 V. rapporti GAO citati retro.124 Per una descrizione dettagliata del sistema australiano v. oecd, Innovations in labour

Market Policies. The Australian Way, Paris, 2001. V. anche, in una prospettiva comparata, de-

944

seguito allo smantellamento del sistema pubblico dei servizi per l’impie-go (Commomwealth Employment Service- CES) è stato costituito il Cen-terlink, organismo pubblico che si configura come one stop shop, ramifi-cato localmente in 1000 siti d’accesso e coniuga la funzione di sostegno al reddito con alcune delle funzioni del disciolto CES: in particolare si occupa del colloquio iniziale con i disoccupati, verifica il diritto ai bene-fits, ne amministra l’erogazione, provvede allo screening dei clienti per identificare più facilmente, con un sofisticato strumento ad hoc (Jobse-eker Classification Instrument-JSCI) quelli con maggiori barriere al la-voro, monitora il comportamento attivo dei disoccupati (c.d. activity test), irroga le eventuali sanzioni, infine costituisce il punto d’accesso per la fruizione dei servizi del Job Network.

Nel 1998, all’esito della riforma, la funzione pubblica di assistenza ai disoccupati con attività di orientamento, mediazione e formazione vie-ne attribuita, mediante periodiche gare di appalto organizzate su base re-gionale 125, ad enti (providers) privati, pubblici ed appartenenti al terzo settore che insieme costituiscono appunto il Job Network (JN). Quest’evo-luzione è in linea con la tendenza internazionale dell’introduzione di meccanismi di mercato (rectius quasi-mercato) nel settore delle politiche del lavoro, costituendone l’esempio più radicale 126.

Partment for Work and Pensions, The use of contestability and flexibility in the delivery of welfare services in Australia and Netherlands, DWP, Research Report n. 288, Corporate Do- cument Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

125 Con la riforma l’Australia era stata inizialmente divisa in 29 Regioni del mercato del lavoro, che dal 2000 sono state ridotte a 19, a loro volta distinte in Employment service Areas (ESA), in modo che le offerte delle gare d’appalto riflettessero meglio le condizioni del mer-cato locale.

126 Uno Stato in Europa decisamente avviato in questa direzione è l’Olanda, dove, a par-tire dal 2002, l’intero servizio di reintegrazione dei disoccupati è stato appaltato ai privati. Cfr. L. struyven, G. steurs, Design and redesign of a quasi market for the reintegration of job-seekers: empirical evidence from Australia and the Netherlands, in «Journal of European So-cial Policy», 2005, 15, 211 ss. In Inghilterra, benché la presenza dei privati sia consistente da decenni, non ci si è spinti così oltre. Le Employment Zones (che implicano l’affidamento dei disoccupati più svantaggiati a providers privati per un periodo di 26 settimane, sia per i servi-zi al lavoro sia per l’erogazione dei benefits) costituiscono esperienze limitate a zone determi-nate del Paese e ad alcune fasce di disoccupati, benché sia in discussione l’estensione del pro-getto (comunque non su scala nazionale). Sul quasi-mercato in generale la letteratura è abbon-dante: v. in particolare J. Le Grand, W. BartLett, Quasi-markets and social Policy, The Mac-Millan Press, London, 1993; K. WaLsh, Public Services and Marchet Mechanisms. Competi-tion, Contracting and the New Public Management, The MacMillan Press, London, 1995; M. considine, Enterprising States. The Public Management of Welfare-to-Work, Cambridge Uni-versity Press, Cambridge, 2001; con specifico riguardo ai Servizi per l’Impiego v. O. BrutteL, Contracting-out and the Governance Mechanisms in the Public Employment Service, WZB,

945

Il numero e le caratteristiche dei providers sono variati nel corso de-gli anni, in relazione agli esiti delle gare d’appalto. Sino ad oggi sono sta-te organizzate quattro tornate contrattuali (Employment Service Con-tracts-ESC), di cui l’ultima si concluderà nel 2009 127. Inizialmente (ESC 1) il servizio era stato affidato a circa 300 organizzazioni; in seguito (ESC 2) ridotte a 200, di cui una buona parte a carattere religioso e vo-lontario, e, infine, a un centinaio (ESC 3). Nei primi due stadi faceva par-te del sistema anche Employment National, compagnia privatizzata par-tecipata dal Governo (quale unico azionista), derivante dal disciolto CES: la ratio sottesa era di assicurare un servizio a copertura universale anche dopo lo smantellamento del servizio pubblico per l’impiego. La compa-gnia partecipava alle gare d’appalto in posizione paritaria rispetto agli al-tri providers nelle zone trascurate da questi in quanto considerate com-mercialmente poco convenienti. Inizialmente essa si era assicurata un terzo dei contratti, ma a causa della scarsa performance la sua quota di mercato è stata progressivamente ridotta da ESC 1 a ESC 2 sino alla de-finitiva scomparsa in ESC 3.

Con la terza tornata contrattuale, al fine di ridurre i costi di transa-zione associati al meccanismo della gara d’appalto 128, sono state intro-dotte novità di significativo rilievo: in particolare è stato deciso che il 60% dei contratti venisse automaticamente attribuito sulla base della va-lutazione della performance, rilevata con un nuovo metodo (c.d. Star Ra-ting, v.infra), fissando la soglia minima a 3,5 punti; il restante 40% con-tinuasse ad essere assegnato mediante gare d’appalto. Inoltre è stato con-testualmente stabilito che i singoli contratti debbano specificare il nume-ro massimo di clienti che ogni provider può servire.

In ogni caso è mantenuta ferma la regola inderogabile secondo la quale un provider non possa aggiudicarsi più del 50% del mercato e in ogni zona debba essere garantita almeno la presenza di 5 provider.

Per aumentare la competitività e l’efficienza del sistema in via di

Discussion Paper n. 109, Berlin, 2005; E. soL-m. WesterWeLd (eds.), Contractualism in Em-ployment Services. A New Form of Welfare Governance, Kluwer Law International, The Hague, 2005.

127 Precisamente ESC 1 si è svolto dal maggio 1998 al febbraio 2000; ESC 2 dal febbra-io 2000 al luglio 2003; ESC 3 dal luglio 2003 al giugno 2006; ESC 4, iniziato il luglio 2006 si svolgerà sino a maggio 2009.

128 Tali costi sono molto elevati in quanto nel sistema australiano non è prevista, come in-vece per es., in Olanda, una fase filtro che selezioni preliminarmente i partecipanti alla gara. Cfr. L. struyven, G. steurs, Design and redesign of a quasi-market…, cit., 217-218. Sui co- sti di transazione tipici dei quasi mercati v. in generale O. WiLLiamson, The Economic Institu-tions of Capitalism, The Free Press, New York, 1985, 15 ss.

946

principio i disoccupati possono scegliere il provider cui affidarsi: tuttavia solo nel 20-30% dei casi essi sono in grado di effettuare una tale scelta; per il resto il Centrelink provvede ad assegnarli in maniera automatica sulla base della vicinanza geografica.

Il Job Network si focalizza sull’attività di placement, che è alla base dello schema retributivo dei soggetti partecipanti. Più specificatamente ha la funzione di aiutare i disoccupati nella ricerca del lavoro, anche se-gnalando nuove opportunità, offrire ai datori di lavoro un servizio di ele-vata qualità, la possibilità di una scelta più ampia a copertura delle posi-zioni vacanti, nonché incentivi consistenti per il collocamento dei disoc-cupati più svantaggiati. Originariamente erano previsti 3 principali e di-stinti servizi/programmi (denominati rispettivamente FLEX1, FLEX2, FLEX3): la mediazione semplice (ora Job Placement-Basic Job Matching in ESC1 e 2), il servizio di orientamento (Job Search Training), l’assi-stenza intensiva per i lavoratori più svantaggiati (ora Customised Assi-stance-Intensive Assistance in ESC1 e 2) 129. A questi vanno aggiunti gli incentivi per la creazione di nuove imprese (the New Incentives Enterpri-ses Scheme-NEIS) e i lavori di pubblica utilità (Project Contracting). I disoccupati venivano assegnati all’uno o all’altro programma a seconda delle caratteristiche, identificate dal Centerlink tramite l’ISCI: quelli pronti al lavoro venivano inseriti nel Job Placement, quelli bisognosi di un certo addestramento al Job training, quelli più lontani dal mondo del lavoro alla Customised Assistance, che comprende oltre alle attività tipi-che di altri programmi anche formazione più intensiva, work experience, lavori sussidiati. Tuttavia, a partire da ESC 3, questa distinzione è stata sostituita da un continuum di servizi, per cui tutti i disoccupati seguono il medesimo percorso per la reintegrazione al lavoro, che inizia con l’orientamento e culmina nell’assistenza intensiva.

A partire dal 2003 il livello di flessibilità, efficienza, qualità ed equi-tà nell’erogazione dei servizi è stato migliorato grazie all’introduzione dei Jobseeker Accounts, che sono fondi di cui i providers possono disporre, in misura proporzionale al numero di disoccupati che hanno in carico e al ri-spettivo livello di svantaggio, per fornire assistenza mirata (training, sus-sidi, vestiti, attrezzature trasporto, ecc.), in particolare ai più bisognosi.

129 I disoccupati inseriti in questo programma erano classificati in distinte categorie (in origine tre, poi ridotte a due) in relazione al grado di svantaggio e di lontananza dal mercato del lavoro: i compensi erogati ai providers per il placement erano più consistenti per i gruppi difficilmente collocabili con la precipua finalità di incentivare l’assistenza di questi soggetti.

947

6.2. La valutazione dei servizi per l’impiego

6.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La Job Network Provider Star Rating Methodology

La valutazione dell’efficacia degli enti nello svolgimento delle fun-zioni loro attribuite riveste un’importanza centrale nel sistema, dal mo-mento che, a tacer d’altro, il rinnovo dell’appalto viene concesso agli en-ti che presentano i risultati migliori. Poiché l’efficienza del sistema è già garantita dai meccanismi concorrenziali presenti nella gara di appalto, la valutazione si appunta soltanto sull’efficacia, intesa prevalentemente co-me outcome, ovvero risultato occupazionale.

Il modello di valutazione 130, predisposto da un ente di ricerca (South Australian Centre for Economic Studies) dell’Università di Adelaide è chiamato Job Network Provider Star Ratings Methodology poiché attri-buisce un certo numero di stelle a seconda della performance dell’ente esaminato.

Gli indicatori di performance sono differenziati a seconda del servi-zio cui si fa riferimento.

Per il Job Placement sono considerati: la quota di lavoratori occupa-ti (per più di 15 ore su cinque giorni consecutivi) sul numero complessi-vo degli utenti; la quota di lavoratori occupati con contratti di lavoro a tempo indeterminato; la quota di disoccupati di lunga durata (più di 6 o rispettivamente 12 mesi) ai quali è stata trovata un’occupazione; la quo-ta di lavoratori occupati appartenenti alle categorie svantaggiate (disabi-li, soggetti che provengono da famiglie che non parlano l’inglese, abori-geni).

Per il Job Search Training vengono in rilievo: la quota di disoccupa-ti collocati entro 3 mesi dalla loro partecipazione alla sessione orientati-va; la quota di disoccupati per i quali è stato pagato il bonus previsto; la quota di disoccupati che non ricevono più il sussidio di disoccupazione 3 mesi dopo la partecipazione alla sessione di orientamento; la quota di di-soccupati appartenenti alle categorie svantaggiate sopra menzionate che sono stati collocati dopo la loro partecipazione alla sessione orientativa.

Per la Customised Assistance si calcolano: la quota di destinatari del servizio collocati in un lavoro di almeno 13 settimane consecutive, con una riduzione dell’indennità di disoccupazione pari almeno al 70%; la quota di destinatari del servizio collocati in un lavoro di almeno 26 setti-

130 Cfr. access economics, Final Report. Indipendent review of the job network provider star ratings method, march 2002, 9 ss., consultabile sul sito www.workplace.gov.au.

948

mane consecutive, con una riduzione dell’indennità di disoccupazione pari almeno al 70%; la quota di destinatari del servizio collocati; la quo-ta di destinatari del servizio appartenenti alle categorie deboli, che sono stati collocati.

Il modello australiano tiene ovviamente conto di indicatori di conte-sto e tipologie di utenza. Essi riguardano due ordini di fattori: in primo luogo le condizioni del mercato locale del lavoro, misurate mediante la ri-levazione del tasso di disoccupazione nell’area di residenza e la crescita delle opportunità di impiego nel mercato regionale; inoltre le caratteristi-che del disoccupato, identificate in sesso, età, appartenenza all’etnia abo-rigena, condizione di disabile, provenienza da famiglia che non parla l’in-glese, genitori single, livello di istruzione, durata della disoccupazione.

La valutazione viene effettuata attribuendo a ogni indicatore un pe-so relativo; le variabili influenti (indicatori di contesto e tipologie di uten-za) sono utilizzate per correggere con un metodo di regressione statistica le performance degli enti facenti parte del servizio pubblico per l’impie-go. All’esito della valutazione a ogni ente viene attribuito un numero di stelle che va da 1 a 5, e che indica la sua performance complessiva: il ri-sultato si considera positivo se il punteggio totalizzato è di 3,5 star ra-tings, e in tal caso viene concesso o rinnovato il contratto.

Poiché la valutazione ha un’importanza centrale per la permanenza degli operatori pubblici e privati nel sistema dei servizi per l’impiego au-straliani, non stupisce la circostanza che lo stesso modello valutativo, nel 2001, sia stato, a sua volta, sottoposto a valutazione, e con esito positivo, da un soggetto indipendente (Access Economics) 131. In particolare il mo-dello statistico è stato definito valido, accurato, oggettivo, affidabile, tut-tavia suscettibile di affinamenti. A tal fine si propone di aggiungere un li-mitato set di variabili in modo da tenere maggiormente conto delle diffe-renze urbane e regionali e di ridurre gli intervalli star rating, eliminando i mezzi punti e calcolando solo i numeri interi da 1 a 5. Si suggerisce inoltre di prendere in considerazione, accanto alla star ratings perfor-mance, altri elementi importanti, attualmente esclusi dall’assessment,

131 L’indagine, commissionata dal Department of Employment and Workplace Relations, si propone di sottoporre a revisione le proprietà statistiche del modello verificando possibili ampliamenti del data set utilizzato; si focalizza espressamente sui servizi di Intensive Assi-stance e di Job Search Training, ma ritiene i risultati estensibili anche al Job Matching. Lo stu-dio ha richiesto due sessioni di lavoro, parallele e interattive. Da un lato il team di ricerca ha organizzato consultazioni con 450 rappresentanti del Job network nelle principali città e sele-zionati centri regionali per individuare i nodi problematici ed elaborare proposte e suggeri-menti; dall’altro lato, contemporaneamente, procedeva l’analisi tecnica del modello statistico, che si giovava degli apporti di tali consultazioni. Cfr. access economics, Final Report, cit.

949

quali il prezzo pagato ai providers nelle diverse regioni (dato che riflette le difficoltà attese degli outcomes occupazionali), nonché la qualità dei servizi erogati.

6.2.2. La valutazione di sistema

Anche il Job Network (nel suo complesso e nei singoli servizi offer-ti), secondo gli impegni presi dal Governo, è stato oggetto di continue va-lutazioni, che hanno progressivamente permesso di apportare modifiche migliorative al sistema. Si tratta di studi elaborati da soggetti diversi, non sempre univoci nei risultati.

In primo luogo il Department of Employment and Workplace Rela-tions (DEWR) al fine di verificare l’efficacia, l’efficienza, la qualità, l’equità del JN, ha lanciato una complessa «strategia valutativa» a tre sta-di (pubblicandone i reports), che comprende sia ampie indagini qualita-tive multi-stakeholder (disoccupati, datori di lavoro, membri del JN), sia surveys con i partecipanti, sia indagini quantitative con gruppi di control-lo. Il primo stadio riguarda l’implementazione iniziale (nei primi 17 me-si) del JN 132, il secondo rileva i progressi del nuovo sistema, soprattutto in relazione all’equità nell’accesso all’assistenza e negli outcomes 133, il terzo valuta l’efficacia globale (con riferimento alla sostenibilità degli esiti occupazionali, all’impatto dei servizi sulle probabilità lavorative, al-la soddisfazione dei clienti, alla capacità di risposta alle necessità parti-colari di alcuni segmenti dell’utenza, agli impatti macroeconomici) 134.

132 In particolare sono stati analizzati i punti di vista di circa 1000 stakeholders sul nuo-vo sistema, realizzate indagini sulla soddisfazione dei clienti, esaminate le pratiche di recluta-mento e l’utilizzo del JN relativamente a 11.000 datori di lavoro, raccolti dati sugli outcomes occupazionali a tre mesi dalla conclusione dell’assistenza, condotti studi di caso con gli indi-geni aborigeni partecipanti all’Intensive Assistance. Cfr. dePartment of emPLoyment and WorkPLace reLations (di seguito DEWR), Job Network evaluation Stage one: implementation and market development, Evaluation and Programme Performance Branch, Labour Market Policy Group, february 2000, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.

133 Questo studio è costituito da due surveys sui comportamenti dei disoccupati in Assi-stenza Intensiva: la prima condotta nel febbraio 2000 su 596 disoccupati e 60 operatori del ser-vizio, la seconda nel mese di giugno su 582 partecipanti. Sono stati inoltre utilizzati dati am-ministrativi del DEWR nonché dati sullo status occupazionale o formativo, raccolti tramite il monitoraggio dei partecipanti ai programmi tre mesi dal termine. Cfr. DEWR, Job Network evaluation Stage two: Progress report, Evaluation and Programme Performance Branch, La-bour Market Policy Group, february 2001, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.

134 La ricerca consiste anzitutto in una survey con i partecipanti al JN, realizzata in due fasi: nella prima, fra aprile e giugno 2001, sono state effettuate interviste telefoniche con 6.000

950

Gli esiti della valutazione sono piuttosto «positivi e incoraggianti» 135.Dall’analisi qualitativa è emerso un miglioramento della qualità del

servizio rispetto al sistema del CES: da un lato i disoccupati si dichiara-no soddisfatti di un servizio professionale, individualizzato, che li fa sen-tire trattati come persone e non come numeri, e utile nel migliorare le lo-ro chances occupazionali; dall’altro i datori di lavoro sono soddisfatti di un servizio personalizzato, veloce e in linea con l’evoluzione del merca-to. L’analisi quantitativa ha dimostrato in primo luogo che l’efficienza del sistema è aumentata, in quanto i costi per partecipante sono decisa-mente più bassi (addirittura dimezzati) in tutti i programmi 136. Tuttavia la diminuzione dei costi non sempre si associa ad una maggiore efficacia del servizio, rectius ad un accresciuto tasso di placement: si può parlare di più elevato costo-efficacia per i programmi di Job matching e di Job search training, ma non per l’assistenza intensiva.

Per quanto riguarda l’efficacia si registrano incrementi negli outco-mes occupazionali in seguito alla partecipazione ai programmi, che si co-niugano con un miglioramenti della qualità dei lavori (tipologia, durata) nel lungo periodo 137. Tuttavia, l’impatto netto appare modesto: gli evi-denziati incrementi occupazionali sono riconducibili in gran misura al c.d. motivation effect (o compliance effect o threat effect), che comporta un’intensificazione della ricerca del lavoro con l’avvicinarsi della data di inserimento obbligatorio in un programma di politica del lavoro; e solo in misura minore costituiscono l’effetto precipuo della partecipazione al

disoccupati volte a rilevare il loro status occupazionale, i procedimenti di ricerca del lavoro, le esperienze con il JN; la seconda, alla fine di settembre 2001, implica una survey follow-up (mediante interviste telefoniche) su 4100 soggetti già intervistati nello stadio 1 per verificarne i miglioramenti occupazionali. In secondo luogo è stata realizzata un’indagine esplorativa con gli stakeholders mediante focus groups e interviste individuali a 454 disoccupati e 128 mem-bri de JN di differenti aree metropolitane, rurali e regionali di tutta l’Australia. Altri dati per la valutazione sono stati tratti dai sistemi amministrativi del DEWR e dal monitoraggio effettua-to 3 mesi dopo la partecipazione ai programmi (1 anno nel caso di Job matching). Cfr. DEWR, Job Network evaluation Stage Three: effectiveness report, Evaluation and Programme Per-formance Branch, Labour Market Policy Group, May 2002, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.

135 Cfr. DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 17 ss.136 Per i dati precisi v. DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 19.137 Gli outcomes positivi associati alla partecipazione al programma di Job matching era-

no del 71%, (di cui il 66% impegnato in un’occupazione, il resto in istruzione e formazione pro-fessionale); quelli associati al Job training raggiungevano la percentuale del 52% (di cui il 45% occupato); quelli derivanti dall’Intensive Assistance sfioravano il 45% (di cui il 39% inseriti in un lavoro). V. più dettagliatamente DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 18.

951

programma (programme effect) 138. Un altro aspetto della valutazione quantitativa riguarda la quota di mercato realizzata e mantenuta dal JN: nelle successive tornate contrattuali si rileva un progressivo allargamen-to del mercato, accompagnato da un costante miglioramento della quali-tà dei providers, dato che i meno performanti venivano eliminati dal si-stema 139. A tale proposito si ricorda che, per dotare il mercato di maggio-re stabilità, a partire da ESC 3 è stato cambiato il meccanismo contrattua-le: se da principio i contratti venivano stipulati o rinnovati mediante gare d’appalto nelle quali la performance passata era solo uno degli elementi di giudizio, a partire da questo momento ai soggetti che hanno ottenuto una valutazione positiva della performance viene attribuito direttamente il 60% della quota di mercato. Tale sistema, se garantisce la stabilità de-siderata eliminando confusione e incertezza per i providers e i disoccu-pati, dall’altro lato impedisce o comunque rende difficoltoso l’ingresso nel mercato di nuovi soggetti ed inoltre indebolisce il meccanismo com-petitivo del quasi-mercato.

La strategia valutativa del DEWR è completata da uno studio indi-pendente condotto nel 2002 dall’Australian Productivity Commission, organo consultivo che si occupa di una serie di questioni economiche, so-ciali, ambientali attinenti al welfare, coadiuvando il Governo nell’attivi-tà decisionale 140. La commissione, confermando i risultati della ricerca del DWR, conclude che l’introduzione di meccanismi di mercato ha au-mentato l’efficienza del sistema, gli outcomes occupazionali (lordi), la soddisfazione dei clienti, ma che l’impatto netto è molto basso. Tuttavia riconosce che tali risultati sono destinati a migliorare col tempo man ma-no che i provider inefficaci/inefficienti sono eliminati dal sistema.

Inoltre sia le ricerche del DEWR, sia quelle della Productivity Com-mission, mettono in luce preoccupanti fenomeni di risk-selection, conna-turati al funzionamento dei quasi-mercati: a causa della struttura retributi-va, basata sugli outcome occupazionali dei clienti, i provider sono incenti-vati a focalizzarsi solo sui disoccupati più facili da collocare e quindi per

138 Ad es. per i partecipanti al Job Search Training, che avevano lasciato il programma nell’agosto 1999, il beneficio netto (in termini di uscita dal sistema dei benefici sociali) era del 3%, ma l’effetto compliance del 10%; per coloro che avevano lasciato l’Intensive Assistance il beneficio post-programma era del 10% e l’effetto compliance incideva per il 3%. Cfr dePart-ment of emPLoyment, WorkPLace reLations and smaLL Business (DEWRSB), Job Network: a net impact study, EPPB Report 1/2001, Canberra, april 2001, consultabile sul sito www.de-wrsb.gov.au.

139 DEWR, Job Network evaluation Stage Three, cit., 20-21.140 Productivity commission, Indipendent Review of Job Network, Inquiry Report n. 21,

Canberra, 2002, consultabile sul sito www.pc.gov.au.

952

loro più profittevoli (creaming) offrendo ai più svantaggiati il minimo dei servizi necessario per ottenere il pagamento fisso iniziale (parking).

In realtà diversi elementi del Job Network sono congegnati ab origi-ne in modo da limitare tali rischi: in particolare la netta separazione tra il Centrelink (che introduce disoccupati nel sistema) e gli enti erogatori, l’assegnazione ai diversi servizi in modo oggettivo, tramite punteggi ela-borati da un sistema statistico (JSCI), la regola per cui i providers non possono rifiutare i disoccupati a loro inviati. Tuttavia, anche così non era stato eliminato il rischio che i providers si concentrassero su quelli – fra i disoccupati loro assegnati – dotati di maggiori chances occupazionali: infatti gli studi hanno rilevato segnali che può verificarsi creaming in questa fase. Tale pericolo riguardava soprattutto il programma di intensi-ve assistance, in quanto questo, così come inizialmente configurato, of-friva un pagamento iniziale non correlato agli outcomes ed inoltre non specificava condizioni e standard minimi per il servizio da offrire. Sulla base di tali rilievi, nella terza tornata contrattuale sono stati introdotti al-cuni aggiustamenti. Anzitutto, come già detto, è stata eliminata la rigida divisione tra i servizi, per cui tutti i disoccupati seguono in ugual misura un medesimo percorso caratterizzato da un continuum di servizi; in se-condo luogo il pagamento iniziale sganciato dalla performance è sostitu-ito con un sistema di incentivi erogati in diverse tranches lungo l’arco temporale in cui il soggetto è affidato al servizio: in particolare una som-ma iniziale è erogata a condizione che il servizio rispetti certi standard, specificati in un apposito accordo (activity agreement), un’altra parte è versata al provider quando il disoccupato è collocato in un’occupazione da almeno 13 settimane (interim placement fee), il saldo dopo 26 setti-mane (final placement fee). Infine è stato istituito un fondo per finanzia-re i costi per l’assistenza e il training dei disoccupati, congegnato in mo-do da non permettere ai providers di trattenere a loro profitto le somme risparmiate, cosicché questi siano incentivati a spenderle esclusivamente per garantire un servizio di qualità 141.

7. Gran Bretagna

7.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Il Network dei Jobcentre Plus

L’attuale struttura del sistema dei servizi per l’impiego britannico ri-

141 Sulla valutazione del Jobseeker Account v. deWr, Job network. Jobseeker Account Evaluation, August 2006, consultabile sul sito www.dewr.gov.au.

953

sale al 2002, quando, nel contesto del work-first welfare state, caratteriz-zato da un nuovo equilibrio fra diritti e responsabilità 142, è stato creato il Jobcentre Plus (JCP). Si tratta di un’ agenzia esecutiva del neo costituito Department for Work and Pensions, e deriva dalla fusione di due agenzie preesistenti: la Benefit Agency, responsabile dell’erogazione delle presta-zioni sociali e l’Employment Service competente per i servizi al lavoro ed in particolare per il matching. Pertanto essa, sulla base del modello ame-ricano, si configura come punto unico d’accesso (single gateway o one-stop shop) per i disoccupati: infatti provvede tanto all’attività di interme-diazione e all’offerta dei vari programmi di politica attiva (le differenti ti-pologie in cui si articola il New Deal 143), quanto all’erogazione dell’in-dennità di disoccupazione (Jobseeker’s Allowance-JSA) e delle altre pre-stazioni sociali (es. Income Support, Disability Allowance). La nuova or-ganizzazione, pur essendo fortemente centralizzata, è articolata local-mente in numerosi distretti (Jobcentre Plus Districts) in cui sono divise le 11 regioni (Jobcentre Plus Regions).

Tale assetto è la conclusione di un processo che si sviluppa attraver-so una serie di progetti pilota (pilots) e diverse tappe intermedie 144, che hanno coinvolto nel sistema del JCP un numero progressivamente mag-giore di vecchi uffici per l’impiego. La riforma avviata nel 2002 avrebbe

142 Non è questa la sede per trattare l’argomento. Si rinvia pertanto all’ampia letteratura al riguardo citata da A. tursi, Disoccupazione e lavori socialmente utili. Le esperienze di Sta-ti Uniti, Germania e Italia, Angeli, Milano, 1996. Più recentemente v. anche J. Peck, Workfare states, The Guilford Press, New York-London, 2001.

143 Più precisamente il New Deal comprende diversi programmi, alcuni obbligatori ed al-tri facoltativi, introdotti a partire dal 1997. Tra i primi troviamo il New Deal for Young People (NDYP), per i giovani fra i 18 e i 24 anni, disoccupati da almeno 6 mesi; il New Deal 25 Plus (ND25), destinato agli adulti disoccupati da più di 18 mesi. Fra i secondi si annoverano il New Deal 50+, riservato agli ultracinquantenni dopo sei mesi di disoccupazione, il New Deal for Disabled People (NDDP), riservato ai disoccupati invalidi che percepiscono l’incapacity be-nefit, e il New Deal for Lone Parents (NDLP), destinato ai genitori disoccupati singles, che percepiscono l’income support. Per una descrizione delle caratteristiche di tali programmi v. C. hasLuck, Better off in work or on benefit: income support, work incentives and welfare re-form in the United Kingdom, paper of the Warwick Institute for Employment Research (IER), 2007, 17 ss.; cfr. anche R. WaLker, m. Wiseman, Making welfare work: UK activation policies under New Labour, in International Social Security Review, vol. 56, 1/2003, 9 ss.

144 In un primo momento l’iniziativa fu lanciata in 12 aree della Gran Bretagna tramite l’istituzione dell’agenzia One, che fu operativa dal giugno 1999 all’ottobre 2001; in seguito il progetto fu esteso in 56 Pathfinder Offices sparsi in 17 zone del Paese. Solo nell’aprile 2002, dopo avere avuto conferma del successo dell’esperimento, questo fu avviato su scala naziona-le. Cfr. E. karaGiannaki, Jobcentre Plus or Minus? Exploring the performance of jobcentre plus for non jobseekers, Centre for Analysis of social exclusion, CASE Paper n. 97, march 2005, consultabile sul sito www.eprints.lse.ac.uk.

954

dovuto completarsi nel 2006, con la trasformazione della totalità delle strutture preesistenti in 1000 Jobcentre Plus offices 145; tuttavia, per diffi-coltà nell’implementazione, è stata decisa una dilazione nel tempo non-ché una riduzione del numero programmato 146. Il nuovo sistema è fina-lizzato al raggiungimento della maggior efficienza possibile nell’eroga-zione del servizio. Nel 2004 il Governo ha introdotto il cd. programma di efficienza (The efficiency savings programme) che prevede l’eliminazio-ne degli sprechi con un risparmio del 2,8% all’anno entro il 2008, otte-nuto grazie allo sviluppo e al perfezionamento di una piattaforma IT in grado di garantire la flessibilità ed il collegamento fra tutte le strutture, alla diminuzione dei membri del comitato direttivo da 8 a 6, del numero dei distretti da 70 a 50, nonché alla soppressione di 15.000 posti di lavo-ro tra il 2004 e il 2008 (20.000 in tutto a partire dal 2002) 147.

Il Jobcentre Plus, come ogni agenzia pubblica, è vincolato da una convenzione con il Ministero da cui dipende (c.d. Public Service Agree-ment) a raggiungere una serie di targets annuali entro un budget assegna-to: pertanto il suo funzionamento si caratterizza per un costante monito-raggio e conseguente valutazione dei risultati raggiunti, effettuati ai di-versi livelli. Di questo si darà conto nel paragrafo che segue. Come è emerso nel corso di alcune interviste condotte in loco da chi scrive 148, il margine di discrezionalità dei manager nel raggiungimento degli obietti-vi e nella distribuzione di risorse tra i vari programmi è alquanto ristret-to. Tuttavia negli ultimi anni si assiste a un tentativo di rafforzare il loro ruolo decisionale (con la creazione di figure apposite, quali i district ma-nagers) 149.

145 Nel 2001 si contavano 1500 vecchi Employment Offices con uno staff globale di 90.000 persone. Cfr. finn et al., Reinventing the Public Employment Service: the changing role of employment assistance in Britain and Germany, Anglo-German Foundation for the study of Industrial Society, London, 2005, 23, consultabile sul sito www.agf.org.uk.

146 Alla fine del mese di settembre 2007 l’obiettivo era stato raggiunto per il 99%: erano, infatti stati costituiti 858 uffici degli 865 previsti in seconda istanza. Entro il 2008 è prevista l’organizzazione dei rimanenti 7 centri. Cfr. nationaL audit office, The roll-out of the Job-centre Plus Office Network, 11, consultabile sul sito www. nao.org.uk.

147 Con una conseguente riduzione del personale complessivo di supporto e direttivo dal 13% all’8% del totale. Cfr. house of commons-Work and Pensions committee, The Efficien-cy Savings Programme in Jobcentre Plus, Second report of session 2005-6, march 2006, 7-9. (consultabile sul sito www.publications.parliament.uk).

148 Le interviste si sono svolte a Leicester nelle West Midlands nei mesi di novembre/di-cembre 2007 e hanno coinvolto rispettivamente i manager di due centri, uno locale e uno di-strettuale.

149 Sull’accresciuto potere discrezionale dei district mangers nel quadro di un progressi-vo decentramento nell’organizzazione del JCP v. C. hasLuck, a.e. Green, What works for

955

7.2. La valutazione dei servizi per l’impiego

7.2.1. La valutazione degli enti erogatori. La valutazione di performan-ce del Jobcentre Plus

La valutazione della performance dei servizi per l’impiego britanni-ci è elemento centrale della gestione per obiettivi che, in linea con quan-to richiesto dal Public Service Agreement, caratterizza il sistema e si svi-luppa a vari livelli. In tale convenzione sono fissati gli obiettivi operativi (targets) che l’agenzia è obbligata a raggiungere nel corso dell’anno di riferimento, nonché gli indicatori per misurare la performance.

Gli obiettivi elaborati per l’anno 2007/2008 riguardano cinque ma-croaree che interessano sia gli utenti disoccupati, sia gli utenti-imprese, sia l’organizzazione tout court.

Il job outcome target (JOT) è stato introdotto a partire dall’aprile 2006 in sostituzione del precedente criterio (job entry target) e compor-ta un’evoluzione significativa nella misurazione della performance 150. Esso misura il numero di disoccupati che escono dal sistema dei benefits per entrare nel mercato del lavoro 151 prescindendo da un intervento diret-to degli operatori dei centri, ma computando altresì coloro che si avval-gono dei canali self-service o delle risorse informatiche, di pertinenza del JCP, laddove in precedenza era considerato esclusivamente il numero di occupazioni registrate derivanti da una specifica attività di intermedia-zione dello staff.

Inoltre il nuovo obiettivo permette di misurare la performance a li-vello del distretto, e non consente di isolare l’apporto del singolo ufficio o tanto meno del singolo operatore, al contrario di quel che succedeva in passato, quando il risultato era misurato individualmente.

Nel JOT per ogni disoccupato che trova collocazione lavorativa vie-ne assegnato al distretto un certo punteggio, variabile da 1 a 12 a secon-da del gruppo di appartenenza, ovvero più elevato se l’utente rientra in una categoria più debole 152. Sono previsti punteggi addizionali per il col-

whom?, Department for Work and Pensions, Research Report n. 407, Corporate Document Services, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

150 I relativi vantaggi/svantaggi del nuovo approccio saranno illustrati più avanti nel cor-so di questo paragrafo.

151 Tali dati sui nuovi occupati sono tratti dagli archivi di Her Majesty’s Revenue and Cu-stoms; la performance è misurata confrontando queste informazioni con i data bases dei clien-ti a disposizione del JobcentrePlus.

152 Precisamente sono assegnati 12 punti per ciascuno degli appartenenti al primo grup-po (genitori single, disoccupati che ricevono un sussidio di incapacità o altro sussidio che non

956

locamento di disoccupati residenti in aree svantaggiate (sulla base di un’alta proporzione di minoranze etniche o di redditi molto bassi). Co-sicché il target globale stabilito (11.200.000 punti) può essere raggiunto indifferentemente collocando un gran numero di disoccupati con buone chances lavorative o un numero limitato di disoccupati problematici o provenienti da zone disagiate.

L’Employer Outcome Target misura l’efficacia/efficienza dei servizi per l’impiego con riguardo all’altro fondamentale segmento dell’utenza costituito dai datori di lavoro. Precisamente sono valutate tre aree-chiave (indicatori): la capacità di soddisfare le richieste di avviamento per posi-zioni vacanti (resolution), la capacità di provvedere nei tempi utili per le imprese (responsiveness), la congruenza tra le competenze dei lavoratori avviati e quelle richieste dalle aziende (matching). L’analisi è condotta da un ente di ricerca indipendente che provvede a effettuare interviste su un campione di imprese.

Altro obiettivo di fondamentale importanza fa riferimento alla sod-disfazione dei clienti, imprese e disoccupati (Customer Service Target) e si articola in un set di standard, relativi alle tre essenziali modalità di ac-cesso al servizio per l’impiego, ovvero di persona, per telefono, per via telematica. Tali standard riguardano la professionalità dello staff nella gestione dei rapporti con i clienti, la tempestività e la disponibilità al ri-scontro delle richieste, direttamente o per telefono, l’accuratezza e la chiarezza delle informazioni fornite, sia in loco sia al telefono sia sul si-to web: ognuna di queste dimensioni contribuisce in misura diversa al raggiungimento dell’obiettivo globale che deve essere l’84% 153.

A sostituzione del Business delivery target (che misurava l’efficien-za nello svolgimento di ciascuna delle attività cardine) nel 2007 è stato previsto un nuovo target, definito Interventions Delivery Target, volto a rilevare la tempestività con cui i personal advisers provvedono alle inter-viste obbligatorie (work-focused interviews) con determinate categorie di disoccupati 154.

richiede attivazione del beneficiario), 8 punti per ciascuno degli appartenenti al secondo grup-po (disoccupati che ricevono JSA e partecipano al programma New Deal, disoccupati affidati ai servizi gestiti dai privati-Employment Zones, disabili non appartenenti al primo gruppo, di-soccupati che richiedono la JSA da 6 mesi e più, clienti svantaggiati, come alcolizzati, rifugia-ti, drogati, senza-tetto), 4 punti per ciascuno di coloro che reclamano la JSA da un periodo in-feriore ai 6 mesi (3° gruppo), 2 punti per i disoccupati che non ricevono alcun beneficio (4° gruppo), 1 punto per ogni soggetto già occupato che cambia impiego. Cfr. la tabella sul sito www.jobcentreplus.gov.uk.

153 Per il peso relativo di ciascun indicatore v. la tabella sul sito www.jobcentreplus.gov.uk.154 In particolare l’80% delle interviste con i percettori dell’Incapacity Benefit deve svol-

957

Inoltre l’Average Actual Clearance Target (AACT), introdotto per l’anno 2006-2007 misura il tempo (numero medio di giorni lavorativi) impiegato dallo staff per esaminare le richieste degli utenti relative alle varie prestazioni sociali. Per raggiungere l’obiettivo, devono essere ri-spettati i termini relativi a ciascuna delle prestazioni qui di seguito men-zionate e precisamente 18 giorni per l’Incapacity Benefit, 11 per l’Inco-me Support, 12 per la Jobseeker’s Allowance. Il monitoraggio viene ef-fettuato ogni mese, sia a livello nazionale sia a livello di distretto.

Da ultimo il Monetary Value of Fraud and Error Target si propone di ridurre (del 15% entro il marzo 2010) le perdite economiche derivanti da frodi dei clienti o da errori materiali degli stessi o dei componenti del-lo staff. Esso viene misurato su un campione estratto a caso di disoccu-pati percettori di indennità sociali, quali la JSA o l’Income Support.

Per l’anno 2008/2009 sono stati fissati obiettivi analoghi, ma eleva-ti i livelli di performance richiesta 155.

La valutazione della performance costituisce parte integrante della strategia di un continuo miglioramento del servizio, ma non comporta l’applicazione di sanzioni o di premi, in termini di una differente alloca-zione di risorse ai centri per l’impiego locali o distrettuali. Per quanto ri-guarda invece meccanismi per premiare la performance dello staff, a par-tire dal 2000, in base alle indicazioni contenute nel Makinson Report 156, commissionato dal Public Services Productivity Panel 157 col fine di in-durre, motivare e diffondere comportamenti virtuosi dei pubblici impie-gati, sono state sperimentate forme di retribuzione incentivante in diver-

gersi dopo la fine dell’8a settimana ed entro la 13a dalla richiesta della prestazione sociale, l’85% delle interviste ai genitori singles in Income Support deve avvenire entro 3 mesi, l’85% delle interviste con i fruitori della Jobseeker’s Allowance deve svolgersi entro 6 settimane. La performance da totalizzare (85%) risulta dalla media di tali componenti di uguale peso (cfr. www.jobcentreplus.gov.uk).

155 Per es. con riguardo al JOT si richiede una maggiorazione della performance del 5% rispetto a quella prevista per l’anno precedente; per L’Employer Outcome Target, che prende il nome di Employer Engagement Target si richiede uno score del 92%, per il Customer Servi-ce Target un risultato dell’86%. Cfr. joBcentre PLus, Business Plan 2008-2009, 2008, 10 (con-sultabile sul sito www.jobcenterplus.gov.uk).

156 Questo studio, intitolato Incentives for Change, analizza i comportamenti di 150.000 front-line staff delle più importanti agenzie governative, quali Benefit Agency, HM Customs &Excise, Inland Revenue, e l’Employment Service (l’attuale Jobcentre Plus) e fornisce propo-ste e raccomandazioni ad hoc, poi accolte per avviare esperimenti pilota. Cfr. j. makinson, In-centives for Change. Rewarding Performance in National Government Networks, Public Ser- vice Productivity Panel, 2000.

157 Si tratta di un organismo creato nel 1998 al fine di migliorare l’efficienza e la produt-tività della pubblica amministrazione.

958

se agenzie pubbliche, tra cui il Jobcentre Plus 158. In particolare sono sta-ti introdotti incentivi di gruppo (team-based incentives), usualmente a li-vello di ufficio (comprendente un centinaio di persone), più raramente a livello di intere divisioni o regioni (comprendente anche migliaia di per-sone): essi consistono in una percentuale significativa del salario, (il 5% e più) e sono corrisposti quando viene superato un certo standard-soglia sulla base di target misti (quantitativi e qualitativi) legati a quelli previsti dal Public Service Agreement. L’applicazione di tali schemi, come è sta-to evidenziato in recenti valutazioni, ha avuto un impatto positivo sulla efficacia ed efficienza dei centri per l’impiego 159.

Lo stesso sistema di valutazione della performance è stato a sua volta oggetto di valutazione. Come conseguenza alcuni dei target originariamente previsti sono stati ridisegnati. In particolare il passaggio dal job entry target al job outcome target (JOT), prima di essere lanciato su scala nazionale, ha comportato una valutazione qualitativa e quantitativa dei progetti pilota, im-plementati a partire dal 2005 in sette Distretti in due differenti versioni 160. La

158 Sulle forme di retribuzione incentivante nella pubblica amministrazione introdotte in Gran Bretagna cfr. S. BurGess, m. ratto, The role of incentives in the public sector: issues and evidence, in «Oxford Review of Economic policy», vol. 19, n. 2, 2003, 285 ss., e ulteriori riferimenti bibliografici ivi indicati.

159 In particolare l’effetto è stato positivo rispetto al numero di avviamenti al lavoro, so-prattutto negli uffici piccoli e nei distretti con pochi uffici, meno significativo negli uffici di maggiori dimensioni o nei distretti con molti uffici; invece non si è osservato alcun impatto sulla soddisfazione dei clienti. Questi risultati sono stati depurati dei fattori che possono di-storcere la rilevazione della performance, quali differenze soggettive dei membri dello staff, delle condizioni dei mercati del lavoro locali e fattori stagionali. Per una descrizione più det-tagliata di questi schemi ed una correlativa valutazione v. S. BurGess et al., Evaluation of the Introduction of the Makinson Incentive Scheme in Jobcentre Plus. Final report, january 2004, consultabile sul sito www.bristol.ac.uk/cmpo. Cfr. altresì id., Incentives in the Public Sector: Evidence from a Government Agency, CMPO Working paper Series n. 04/103, march 2004, consultabile sul sito www.bris.ac.uk /depts/CMPO/workingpapers.

160 Precisamente nella prima versione (Option 1), pilotata in quattro distretti, il numero dei disoccupati che escono dal sistema di sicurezza sociale e trovano un’occupazione è rileva-to utilizzando gli studi longitudinali del DWP (WPLS), che combinano i dati dei JCP con quel-li delle tasse (Inland Revenue); nella seconda versione (Option 2), che è stata avviata in tre di-stretti, tali dati sono ricavati tramite accertamenti e controlli del JCP. Entrambi i sistemi pre-sentano vantaggi e svantaggi: nel primo caso, poiché tutti i dati sono tratti da una fonte centra-le, non c’è bisogno di controlli locali circa il numero di avviamenti al lavoro, ma i dati sulla performance sono disponibili solo con un certo ritardo, visto che occorrono molti mesi per in-crociare gli outcomes su entrambi i sistemi e riportarli nel WPLS; nel secondo caso la situazio-ne è opposta: è necessario un tracking locale, ma i dati sulla performance attuale sono dispo-nibili tempestivamente, anche se non sono completi (infatti questo sistema non permette di for-nire notizie sugli outcomes occupazionali dei disoccupati che non richiedono i benefits o che hanno solo sporadici contatti con i centri per l’impiego).

959

valutazione qualitativa 161, tramite molteplici interviste a staff, manager, utenti e providers esterni, ha messo in luce i decisivi vantaggi che tale si-stema presenta rispetto al JET.

Precedentemente, a causa delle modalità di computo del punteggio, focalizzato sulla quantità degli outputs realizzati, si erano instaurate al-cune pratiche perverse e tutt’altro che efficienti: lo staff per assicurasi una job entry si concentrava sui clienti più pronti al lavoro (cherry pi-cking), fornendo spesso servizi inutili e non richiesti, scoraggiava l’uti-lizzo di canali self-service (che non venivano computati), trascurava i soggetti più svantaggiati e difficilmente collocabili, operava in una con-dizione di costante competizione, spendeva tempo e risorse per contatta-re i datori di lavoro al fine di provare il proprio diretto contributo all’as-sunzione del disoccupato. Il JOT, al contrario, ha introdotto un approccio basato più sulla qualità che sugli outcomes numerici: in tal modo ha per-messo allo staff di focalizzarsi sui disoccupati più svantaggiati e lontani dal mercato del lavoro, indirizzando al contempo i più autonomi verso i canali di ricerca self-service. Inoltre ha eliminato il clima di competizio-ne fra i componenti dello staff, permettendo lo sviluppo di proficue pra-tiche di team working.

Questi cambiamenti hanno accresciuto il livello di motivazione di molti advisers, rendendone il lavoro più stimolante. Tuttavia su tale aspetto le opinioni dello staff non sono univoche: infatti una parte denun-cia una maggiore confusione e incertezza nell’identificare gli obiettivi da perseguire. Anche i manager, pur dichiarandosi generalmente soddisfatti del cambiamento, rivelano una certa difficoltà nel passaggio da un siste-ma con obiettivi giornalieri e individuali ad uno caratterizzato da obietti-vi collettivi e dati non prontamente disponibili e lamentano una mancan-za di adeguata preparazione al riguardo. Per quanto riguarda l’impatto sui clienti non si evidenziano particolari effetti negativi su alcuno dei gruppi: molti soggetti si dichiarano soddisfatti del potenziamento dei nuovi canali self-service; una minoranza, soprattutto fra quelli apparte-nenti ai gruppi a bassa priorità, critica la perdita di un rapporto diretto

161 Tale indagine si è sviluppata attraverso tre fasi: prima del lancio del JOT sono stati or-ganizzati 14 gruppi di discussione con lo staff per verificarne le opinioni, le aspettative sul nuovo sistema nonché il livello di conoscenza; tre mesi dopo l’implementazione si sono rile-vati gli impatti iniziali tramite focus groups con 50 membri dello staff e interviste a 25 rappre-sentanti del management; sei mesi dopo focus groups e interviste hanno coinvolto una platea più ampia di attori (oltre allo staff, 70 fra datori di lavoro e training providers, 211 clienti di-soccupati). Cfr. S. johnson, a. nunn, Evaluation of the Job Outcome target pilots: findings from the qualitative study, Department for Work and Pensions, Research Report n. 302, Cor-porate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

960

(face to face) con il personale. Per ciò che concerne infine l’impatto sui datori di lavoro e sui providers, questo sembra nullo, anzi spesso il cam-biamento non è neanche a conoscenza degli intervistati.

L’indagine quantitativa 162 compara gli outcomes occupazionali dei distretti in cui è stato pilotato il JOT con quelli in cui esso non è stato in-trodotto. Conclude che, considerati i numerosi fattori coinvolti, l’impat-to di tale target sugli outcomes occupazionali dei clienti è molto difficile da quantificare, ma in ogni caso non sembrano esserci stati effetti negati-vi, se non minimi, su alcuno dei gruppi svantaggiati 163. Va segnalato co-munque che il JOT permette di fornire una misura della performance più corretta, in quanto cattura anche le cifre relative ai disoccupati che si ser-vono dei canali self-service, dati che invece rimanevano ignoti al sistema JET. L’analisi quantitativa comprende altresì una dettagliato resoconto sull’efficienza (value for money) del nuovo sistema e anche da questo punto di vista l’evidenza non mostra alcun effetto negativo 164. Tuttavia, nell’analisi della performance globale va sottolineato da un lato che i da-ti sono stati raccolti in un lasso di tempo troppo breve perché siano pie-namente attendibili, dall’altro che qualsiasi innovazione può comportare nel periodo di start up aspetti negativi di carattere transitorio, suscettibi-li di miglioramento nel tempo.

Sei mesi dopo l’implementazione del JOT su scala nazionale, è stata avviata un’ulteriore valutazione, che ha sostanzialmente confermato i ri-sultati delle prime analisi sui progetti pilota, evidenziando cambiamenti ancora più marcati nell’erogazione del servizio, nelle prassi lavorative, nei comportamenti e nella motivazione dello staff. Tuttavia, poiché l’introdu-zione del JOT è parte di una trasformazione organizzativa del JCP di più ampio respiro e si combina tra l’altro con mutamenti profondi nel merca-to del lavoro, è molto difficile isolare uno specifico «effetto JOT» 165.

162 Cfr. J. frankham et al., Evaluation of the Job Outcome Target Pilots:quantitative Study, Final report, DWP Research Report n. 316, Corporate Document Services, Leeds 2006, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

163 Va tuttavia precisato che i risultati differiscono nelle due varianti del JOT: la valuta-zione della prima indica un minimo effetto negativo, ascrivibile principalmente ad uno dei Di-stretti considerati, ma nessun impatto differenziato per i diversi gruppi di disoccupati; invece la valutazione della seconda opzione mostra un effetto negativo sulla performance globale.

164 In particolare l’Opzione 1 ha registrato migliori risultati in termini di efficienza, so-prattutto perché evita la raccolta e il monitoraggio locale dei dati, con notevole risparmio di tempo e denaro.

165 Tale ricerca valutativa ha comportato interviste con più di 110 operatori del JCP (fra manager e staff) di 11 distretti, con 25 datori di lavoro selezionati da una banca dati naziona-le, 22 providers privati tratti da un campione nazionale; focus groups con clienti dei primi tre gruppi prioritari; interviste negli uffici del JCP con i disoccupati appartenenti ai Gruppi 4 e 5;

961

Un’altra valutazione attinente il sistema di misurazione della perfor-mance ha riguardato la struttura del Business Delivery Target (BDT) ed è stata realizzata tramite interviste e focus groups che hanno coinvolto i principali livelli, politici e operativi, all’interno del JCP e del DWP 166. Le diverse risposte hanno messo in luce punti di criticità e fornito sugge-rimenti di policy. In primo luogo si è rilevato che la struttura composita del target (che conteneva 5 elementi ugualmente importanti riguardanti l’accuratezza, l’efficacia e la qualità di specifiche attività del JCP) impe-diva di prendere adeguatamente in considerazione alcune importanti di-mensioni, come per esempio l’accuratezza nell’erogazione del servizio. In secondo luogo è stato osservato che il BDT, così come era configura-to, si presentava più come uno strumento di management che come uno di accountability del sistema: infatti esso misurava i processi, mentre è opinione condivisa che i target dovrebbero concentrarsi sugli outcomes. Tali critiche, accompagnate da suggerimenti di modifiche radicali, hanno portato l’Agenzia a eliminare l’obiettivo, che nel 2007/2008 è stato sosti-tuito dall’Interventions Delivery Target.

7.2.2. La valutazione di sistema

Dopo aver analizzato il modello di valutazione della performance dei PES inglesi, è opportuno ricordare che la stessa configurazione attua-le è frutto di numerosi esperimenti e progetti pilota accompagnati da va-lutazioni di impatto. Il sistema britannico, al pari di quello statunitense, è infatti caratterizzato da un approccio decisamente empirico all’imple-mentazione delle politiche: introdotte certe misure in aree circoscritte si procede alla valutazione degli effetti e, se l’esito è positivo, gli elementi di successo vengono applicati gradualmente ad aree più estese o anche a livello nazionale. Molte di queste ricerche valutative sono state commis-sionate dal Department for Work and Pensions o dallo stesso Jobcentre

311 interviste telefoniche con precedenti clienti JCP che avevano lasciato il sistema di sicurez-za sociale dal novembre 2006. Cfr. A. nunn et al., Job Outcome Target National Evaluation, Department for Work and Pensions, Research Paper n. 462, Corporate Document services, Le-eds, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

166 Più precisamente durante una prima fase sono state condotte interviste con i rappre-sentanti politici a livello regionale e nazionale del JCP e del DWP, in seguito sono stati orga-nizzati focus groups con le diverse componenti dello staff (managers, personal advisers e per-sonale amministrativo). Cfr. dePartment for Work and Pensions, Review of the structure of the Jobcentre plus Business delivery Target, DWP, Research Report 233, february 2005, con-sultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

962

Plus ad enti di ricerca esterni. Altre sono state promosse dal National Au-dit, un organismo indipendente dall’esecutivo, che controlla l’attività di Ministeri, agenzie e altri organismi pubblici al fine di riferire al Parla-mento circa l’efficacia e l’efficienza nell’utilizzo delle risorse statali.

Già prima dell’introduzione del Jobcentre Plus, erano stati condotti studi per verificare l’efficacia del servizio pubblico nel matching. In par-ticolare uno studio dei primi anni 90 167, commissionato dall’Employ-ment Service, basandosi sui dati delle Forze Lavoro dal 1984 al 1992, ac-certava che il servizio era utilizzato soprattutto durante i periodi di reces-sione economica e in particolare dai disoccupati meno qualificati e da quelli di lunga durata e che proprio questi ne beneficiavano in misura più consistente; mentre i disoccupati con maggiori possibilità occupazionali si rivolgevano preferibilmente ad altri canali di ricerca del lavoro e solo in tempo di crisi al servizio pubblico.

Altre valutazioni risalenti, condotte con metodo sperimentale, ave-vano per oggetto il Programma Restart, introdotto nel 1987: esso impli-cava l’obbligo per i disoccupati di lungo periodo di sottoporsi ogni 6 me-si, presso gli Employment Offices, a interviste durante le quali veniva ve-rificata la loro disponibilità al lavoro e offerte occasioni formative e di la-voro ad hoc. L’esito del programma è stato abbastanza positivo nono-stante gli osservati effetti di spiazzamento: a fronte di bassi costi si è re-gistrato un certo aumento del tasso di assunzioni 168. Per tale motivo det-to procedimento è divenuto parte integrante del funzionamento del servi-zio attuale: tutti i disoccupati, dopo il primo contatto col centro per l’im-piego, sono obbligati a recarvisi ogni due settimane per un breve collo-quio di controllo e ogni 6 mesi devono sostenere una intervista più appro-fondita (c.d. Restart interview) col personal adviser.

Prima di rendere operativa l’attuale struttura, come sopra accennato, sono state avviate più valutazioni della performance di One, la prima agenzia ad avere integrato in via sperimentale i servizi al lavoro e le pre-stazioni sociali 169. I risultati hanno messo in luce alcuni aspetti positivi,

167 Cfr. P. GreGG, j. WadsWorth, How effective are state employment agencies? Jobcen-tre use and Job Matching in Britain, in «Oxford Bulletin of economics and Statistics», vol. 58, 3, 1996, 443 ss.

168 V. m. matto, I servizi pubblici per l’impiego, in ciraveGna et al., op. cit., 126.169 Le valutazioni, promosse dal Department for Work and Pensions, sono state condotte

con metodo sperimentale e si sono concentrate sui disoccupati che percepivano benefici diver-si dall’indennità di disoccupazione (JSA), non condizionati all’obbligo di attivazione (income support e incapacity benefit). Tali valutazioni si sono sviluppate in diverse fasi. Durante il pri-mo stadio della ricerca, in cui la partecipazione a One era volontaria per coloro che non perce-pivano la JSA, sono state condotte interviste in quattro aree pilota di One e quattro aree di con-

963

altri negativi 170: un effetto positivo riguarda il flusso di informazioni, che non è più frammentato dal passaggio attraverso differenti uffici, col ri-schio di doppioni, contrapposizioni, confusione sia per gli utenti sia per gli operatori; in secondo luogo, il nuovo sistema permette di fornire più incisivi aiuti e consigli sulle questioni legate ai benefici e al lavoro. Tut-tavia, poichè gli effetti positivi non sono così elevati come ci si aspette-rebbe, si evidenziano margini per ulteriori miglioramenti. Dall’altro lato, un aspetto sicuramente negativo, relativo a tutte le tipologie di clienti, è associato al prolungamento dei tempi necessari per ottenere i benefici so-ciali, causato soprattutto dal nuovo generale obbligo di sottoporsi alle work-focused interview col personal adviser. Inoltre le ricerche hanno dimostrato che i clienti erano più interessati alle pratiche per ottenere le prestazioni sociali che ai servizi per il lavoro, contestualmente offerti du-rante l’intervista. Per questo motivo, quando è stato implementato il Job-centre Plus, è stata introdotta, accanto al personal adviser, una diversa fi-gura professionale con specifiche competenze, il Financial assessor. In tal modo i disoccupati affrontano preliminarmente un colloquio con il Fi-nancial assessor, che spiega loro tutto ciò che concerne i benefici. Solo successivamente ha luogo l’intervista (work-focused interview) con il personal adviser, che può così concentrarsi esclusivamente sugli aspetti riguardanti il lavoro.

In seguito all’introduzione del Jobcentre Plus, durante il periodo transitorio, caratterizzato dalla coesistenza dei vecchi Employment offi-ces con i nuovi uffici, diversi studi hanno messo a confronto le due strut-ture al fine di verificare se l’integrazione, in un’unica agenzia, dell’ero-gazione delle prestazioni sociali con l’erogazione dei servizi al lavoro ha aumentato l’efficacia/efficienza del sistema. Uno dei primi studi 171 com-para gli effetti occupazionali dei distretti integrati (ovvero quelli in cui è compreso almeno un nuovo Jobcentre Plus office) con quelli non integra-ti (dove sono presenti solo i vecchi Employment Offices); e giunge alla conclusione che i Jobcentre Plus offices realizzano una performance mi-gliore nella collocazione di persone disabili, ma non incidono su altri

trollo; nella seconda fase, sei mesi dopo, gli stessi soggetti sono stati sottoposti ad interviste follow-up; nel terzo e quarto stadio della ricerca, quando ormai gli incontri con il personal ad-viser erano divenuti obbligatori per tutti i disoccupati registrati in One, sono state realizzate in-terviste in 12 aree pilota e 12 aree di controllo.

170 Per una sintesi sulla ricerca e sui principali risultati v. E. karaGiannaki, Jobcentre Plus or Minus?, cit.

171 J. corkett et al., Jobcentre Plus evaluation: Summary of evidence, IAD Social Re-search Division, Research Report n. 252, Department for Work and Pensions, Corporate Doc-ument Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

964

gruppi, quali disoccupati comuni e genitori single. Questo risultato viene spiegato con la circostanza che per gli ultimi due gruppi il nuovo sistema non ha comportato una significativa differenza di regime: infatti già in precedenza essi erano soggetti alle work-focused interviews che costitui-scono elemento caratterizzante dei nuovi JCP.

Una ricerca successiva, caratterizzata da un approccio metodologi-co più complesso 172, al fine di misurare l’impatto dei nuovi JCP, si sof-ferma sul differente livello di integrazione (definito dalla percentuale di JCP presenti) di ogni distretto in un certo periodo di tempo. Per fornire un quadro più completo essa prende in esame i tre elementi chiave del si-stema: gli esiti occupazionali (job entry), la soddisfazione dei clienti (cu-stomer service) e l’accuratezza e rapidità nella corresponsione dei bene-fici (benefit service delivery). La conclusione è che il Jobcentre Plus ha un marcato effetto positivo sugli outcomes occupazionali, nessun effetto (né positivo né negativo) su qualità e standard del servizio clienti 173 e un effetto negativo sull’erogazione dei benefici. Ciò perché il nuovo sistema è focalizzato sulle attività front-line di matching secondo l’approccio work-first del governo laburista e pone meno enfasi sulle attività di back office relativa alla somministrazione dei benefici sociali 174.

Altre valutazioni, sia quantitative sia qualitative, commissionate dal DWP, si appuntano su ulteriori aspetti cardine del sistema del JCP (quali i programmi offerti ai disoccupati, le work focused interviews, la soddi-sfazione degli utenti e dello staff, gli impatti occupazionali, il ruolo del Financial assessor, del Personal adviser, dei District Managers, il siste-ma di valutazione della performance) in modo da monitorare costante-mente il raggiungimento degli obiettivi nell’erogazione del servizio e l’impatto sul mercato del lavoro 175.

172 Cfr. e. karaGiannaki, Exploring the effects of integrated benefit systems and active labour market policies: evidence from Jobcentre Plus in the Uk, Centre for Analysis of Social exclusion, CASE Peper n. 107, february 2006 (consultabile sul sito www.sticerd.lse.ac.uk); ripubblicato e aggiornato in id., Exploring the Effects of Integrated Benefit Systems and Active Labour Market Policies: Evidence from Jobcentre Plus in the UK, in «Journal of Social Poli-cy», vol. 36, n. 2, 2007, 177 ss.

173 In realtà la ricerca ha messo in luce un effetto negativo sul servizio clienti, ma questo sa-rebbe propriamente di tipo transitorio e da ricondurre al periodo di start up del nuovo sistema.

174 Come si sottolinea in D. finn et al., Reinventing Public Employment service: the changing role of employment assistance in Britain and Germany, cit., 22 ss.

175 V. ex plurimis N. coLeman, n. rousseau, h. carPenter Jobcentre Plus Service Deliv-ery Survey (Wave 1), Department for Work and Pensions, Research Report n. 223, Corporate Document Services, 2004, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk; id., Jobcentre Plus Service Delivery Wave two: findings from quantitative research, Department for Work and Pensions, Research Report n. 284, Corporate Document Services, 2005, consultabile sul sito www.dwp.

965

Tra gli studi invece promossi dal National Audit Office conviene qui menzionare quello dedicato al ruolo del personal adviser, in quanto figu-ra chiave del nuovo sistema dei servizi per l’impiego. In particolare si va-luta la sua efficacia nell’aiutare i disoccupati nella ricerca del lavoro, la capacità del Jobcentre Plus di sfruttarne al massimo le potenzialità, infi-ne la possibilità di migliorarne ulteriormente il rendimento. L’indagine si avvale di ricerche indipendenti (qualitative e quantitative) promosse per lo più dal DWP, delle ricerche comparate dell’OCSE e di interviste effet-tuate presso i centri con i clienti e lo staff.

Complessivamente emerge che l’impatto dei personal advisers, so-prattutto per alcune categorie di utenti (quali genitori singles e disoccu-pati percettori di benefici di incapacità), è stato positivo, anche se non fa-cilmente quantificabile poiché non è possibile separare il loro ruolo spe-cifico dal sistema di cui sono parte. Gli utenti durante le interviste hanno manifestato un elevato grado di soddisfazione rispetto al servizio fornito, con particolare riguardo alla gentilezza, empatia e professionalità del personale, all’utilità dei colloqui al fine dell’ accrescimento delle compe-tenze, dell’autoconsapevolezza e della motivazione.

Il Jobcentre plus si adopera per un continuo miglioramento della produttività di tali figure, cercando di aumentare il tempo che essi posso-no dedicare all’attività loro propria di consulenza e di eliminare i fattori dispersivi: a tal fine, in particolare, ha apportato significativi cambia-menti al sistema dei target, ha potenziato il sistema IT e nello stesso tem-po ha cercato di semplificare e ridurre il carico di lavoro puramente bu-rocratico e amministrativo. In quest’ultima direzione si delineano gli spazi per un continuo perfezionamento nel tempo 176.

gov.uk; corkett j. et al., Jobcentre Plus Evaluation…, cit.; c. hasLuck et al., The use and de-velopment of alternative service delivery channels in Jobcentre Plus: a review of recent evi-dence, Department for Work and Pensions, Research Report n. 280, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk; s. davis, L. james, s. tuohy, Qualitative assessment of Jobcentre Plus delivery of Jobseeker’s Allowance and New Deal In-terventions, Department for Work and Pensions, Research Report n. 445, Corporate Document Services, Leeds, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk; C. hasLuck, a.e. Green, What works for whom?, cit.

176 V. più in dettaglio nationaL audit office (nao), Delivering effective services through Personal Advisers, London, novembre 2006, consultabile sul sito www.nao.org.uk

966

8. Svezia

8.1. Il sistema dei servizi per l’impiego. Dall’Arbetsmarknadstyrelsen all’Arbetsförmedlingen

La Svezia ha recentemente riformato in modo radicale il sistema dei servizi per l’impiego al fine di ridurre le inefficienze e gli sprechi. Per lo stesso fine ha contestualmente operato una draconiana riduzione delle politiche attive offerte dai centri, lasciando in vita le più efficaci e intro-ducendone delle nuove.

Fino allo scorso anno il sistema era strutturato secondo tre livelli. Precisamente l’amministrazione nazionale per il mercato del lavoro (Ar-betsmarknadsverket-AMV) si articolava in un’Agenzia nazionale per il mercato del lavoro (Arbetsmarknadsstyrelsen – AMS), e in ramificazioni periferiche per ogni Regione: di queste ultime facevano parte i centri pub-blici per l’impiego. L’agenzia era organo indipendente dal governo, ma doveva riferire ad esso circa gli esiti delle politiche occupazionali e in ge-nere l’andamento del mercato del lavoro. Essa, sulla base delle regole ge-nerali, dei target quantitativi 177 fissati dal governo e del budget ricevuto, aveva il compito di dirigere, sviluppare e coordinare le politiche del lavo-ro. In particolare definiva obiettivi, regolamenti, istruzioni per le strutture regionali (Consigli di Contea per il mercato del lavoro), distribuiva le ri-sorse ripartendole tra fondi di disoccupazione, politiche attive e misure per l’integrazione dei disabili 178. Inoltre indirizzava direttive e regola-menti ai 325 centri locali per l’impiego e ne monitorava l’operato.

A livello regionale i 21 Consigli di Contea (Länsarbetsnämnd-Lan), nell’ambito delle risorse e dei target prefissati a livello nazionale, erano responsabili del funzionamento dei centri locali e fornivano rapporti e re-soconti all’AMS. I Consigli di Contea avevano emanazioni locali in qua-si tutte le municipalità: si trattava di Comitati locali per i servizi per l’im-piego (Local Employment Service Committees), che avevano il compito

177 Tali target con i rispettivi outcomes sono riportati nella brochure informativa AMS, The Public employment service. Fact and figures, 2005, 14-15, messa a disposizione di chi scrive dall’AMS e altresì scaricabile dal sito www.ams.se.

178 Nel 2005 il bilancio dell’AMV ammontava a 5.2 miliardi di euro, pari al 2.3% del PIL. Esso è stato destinato per il 53% ai sussidi di disoccupazione, il 26% ai programmi di po-litica attiva del lavoro, il 12% all’integrazione delle persone disabili e l’8% a spese varie di am-ministrazione. Tali dati sono stati tratti dal dossier messo a disposizione da Samuel Engblom, già Deputy Head of Analysis dell’AMS, ora dirigente sindacale della TCO (sindacato degli im-piegati svedesi). Cfr. S. enGBLom, La politica del mercato del lavoro svedese e il ruolo dell’am-ministrazione nazionale per il mercato del lavoro (AMV), 2005, dattiloscritto.

967

di adattare le politiche per il lavoro alle esigenze del mercato locale. I Lan erano in gran parte modellati sull’esempio dell’AMS: anche per questo motivo erano oggetto di discussione e venivano percepiti dagli ad-detti ai lavori come un inutile oneroso doppione 179, tanto che il nuovo go-verno ne ha subito previsto l’eliminazione.

I 325 uffici locali erano dislocati nei vari Comuni. La loro funzione principale consisteva nell’agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, avvalendosi a tal fine dell’ampio ventaglio di politiche attive di-sponibili: essi costituivano e ancora costituiscono la “pietra angolare” del sistema dei servizi per l’impiego e presso tali uffici avviene il primo con-tatto col disoccupato.

Dal 1° gennaio 2008 è divenuta effettiva la nuova organizzazione per il mercato del lavoro, che cambia anzitutto denominazione (Arbetsförme-dlingen). A livello centrale essa è costituita da un Comitato direttivo, no-minato dal governo e costituito da 9 membri fra cui un direttore genera-le. è pure presente un Consiglio degli stakeholder, organismo a carattere consultivo, presieduto dal direttore generale e costituito in eguale pro-porzione da rappresentanti di lavoratori e datori di lavoro. Sono stati eli-minati i LAN e sono state invece create quattro macro-aree suddivise in 68 regioni del mercato del lavoro, individuate sulla base dei percorsi dei pendolari e delle preferenze regionali delle imprese nelle assunzioni. A livello locale operano i centri per l’impiego, variamente distribuiti nelle diverse zone, ma presenti in ogni città. Completano il quadro due grandi divisioni, l’una competente per i servizi destinati ai diversi settori indu-striali e ai gruppi prioritari (disabili, giovani, immigrati, disoccupati di lunga durata), l’altra di carattere operativo, competente per i servizi di supporto alle funzioni fondamentali (servizi legali, IT services, risorse umane, ecc.).

8.2. La valutazione dei servizi per l’impiego

8.2.1. La valutazione degli enti erogatori. Gli studi dell’IFAU e del Riksrevisionen

La Svezia presenta una delle esperienze più mature di valutazione a livello europeo.

Anzitutto il funzionamento dei servizi per l’impiego è incentrato su

179 è quanto è emerso nell’intervista rilasciata a Stoccolma il 5 ottobre 2006 da Paola Moscatelli, incaricata del programma integrazione disabili presso un centro per l’impiego.

968

un continuo meccanismo di monitoraggio e valutazione delle performan-ces. Come già esposto, a livello centrale vengono elaborati gli obiettivi (target) che l’amministrazione nel suo complesso e i centri in particolare devono raggiungere ogni anno 180. Periodicamente l’AMS rende pubblici i dati aggregati relativi alle diverse politiche del lavoro e ai servizi offer-ti dal PES (ovvero essenzialmente numero di partecipanti, risultati occu-pazionali). Allo stesso tempo essa distribuisce ai vari centri locali perio-dici prospetti in cui sono riportate le rispettive performances e gli even-tuali scostamenti dal target prestabilito. Il mancato raggiungimento non determina conseguenze sanzionatorie né per i manager né per gli opera-tori, ma la circostanza che tali dati siano fatti circolare incentiva di per sé, soprattutto in un sistema improntato ad un alto grado di civicness quale quello svedese, il mantenimento degli standard richiesti. In ogni caso so-no organizzati incontri di indirizzo e coordinamento fra il livello centra-le e i manager dei centri. Analogamente a livello locale sono organizzati frequenti meeting fra lo staff e i manager: in queste occasioni sono di-scussi eventuali problemi e individuate di comune accordo soluzioni ap-propriate, eventualmente assegnando ai membri meno produttivi altri ruoli, affiancandoli ad altri colleghi o organizzando brevi iniziative di training mirato. Un sistema di retribuzione incentivante, sperimentato in passato, non è infatti bene accettato in un sistema coeso ed egualitario come quello svedese. Né a maggior ragione è prevista una diversa distri-buzione di risorse fra i centri sulla base delle performances raggiunte. Per quanto riguarda invece le valutazioni sulle politiche nel complesso esse sono tenute in gran considerazione a livello governativo nel disegno di riforme e perfezionamenti 181.

La centralità dell’attività di valutazione del sistema dei servizi per l’impiego è dimostrata anche dalla circostanza che a questo fine sia stato

180 Per esempio per l’anno 2005 sono stati elaborati i seguenti obiettivi: 1) almeno l’85% dei datori di lavoro dovrà avere un numero di candidati sufficiente a consentire l’assunzione in tempi ragionevoli dei lavoratori di cui ha bisogno; 2) la quota di persone che hanno stipulato un piano di azione e che dichiarano che esso fornisce un supporto utile o abbastanza utile per trovare lavoro dovrà essere almeno del 70%; 3) almeno il 70% delle persone che abbia com-pletato l’addestramento professionale dovrà aver trovato un’occupazione entro 90 giorni; 4) nel corso dell’anno non dovranno mediamente essere registrate come disoccupati di lunga du-rata più di 36.000 persone; 5) dovrà aumentare rispetto al 2004 il numero di persone disabili che transitino da un posto di lavoro incentivato a uno non incentivato. Tali obiettivi, secondo le stime dell’AMV, sono stati brillantemente raggiunti. Cfr. AMS, The Public employment service. Fact and figures, cit., 14-15.

181 Quanto sopra esposto è frutto di interviste e colloqui con i manager del centro Globen di Stoccolma, dove chi scrive è stata ospitata per un periodo di studio e osservazione diretta nell’ottobre 2007.

969

costituito un organo apposito, l’Istituto per la valutazione delle politiche del mercato del lavoro (IFAU). Si tratta di un organismo indipendente dal Governo i cui studi sono considerati un punto di riferimento importante nell’introduzione e realizzazione di riforme. La maggior parte delle ri-cerche riguarda l’impatto delle politiche del lavoro o di singoli program-mi sui differenti segmenti dell’utenza dei centri per l’impiego. Ma sono pure abbastanza frequenti gli studi sull’efficacia del sistema dei servizi per l’impiego nel suo complesso, mentre sono piuttosto rari quelli sull’ef-ficacia dei servizi resi dai singoli centri per l’impiego.

Uno studio molto ampio, condotto tra il 2000 e il 2005 e commissio-nato dal Riksrevisionen 182, indaga l’efficienza di un vasto campione di uf-fici per l’impiego con lo scopo di confrontarli e individuare quelli caratte-rizzati da un alto grado di produttività, che possano servire come esempio agli altri. Il modello di valutazione si basa sulla misurazione di tre variabi-li: inputs di base, outputs intermedi e outputs finali 183. Si considerano co-me input di base (su cui l’ufficio esercita un controllo) le tre diverse cate-gorie di personale (assistenti, addetti all’intermediazione e dirigenti), l’am-piezza dei locali in mq e l’indice FAI, che indica l’aspettativa di disoccu-pazione ed esprime il tempo medio dalla registrazione alla conclusione del processo di intermediazione, prendendo in considerazione fattori di contesto (quali il background del disoccupato e le condizioni del mercato locale) 184. Gli outputs intermedi implicano la permanenza all’interno del sistema dei servizi per l’impiego, e precisamente sono la collocazione dei disoccupati in misure di politica del lavoro o in un posto incongruente con la formazione ricevuta/aspettative ed esigenze; gli outputs finali (o varia-bili di fine servizio) fanno riferimento all’inserimento in di qualsiasi tipo di lavoro permanente o temporaneo, al rientro nel sistema scolastico rego-lare o alla cancellazione dalle liste di disoccupazione 185.

182 Su ruolo e funzioni del Riksrevisionen v. più avanti questo stesso paragrafo.183 riksrevisionen, Den offentliga arbetsförmedlingen, Stockholm, RiR 2006:22, 51-52,

consultato su www.riksrevisionen.se184 Più in dettaglio tale indice è calcolato tenendo conto di caratteristiche personali del

disoccupato, quali sesso, età, livello di istruzione, stato civile e carichi di famiglia, eventuale handicap, condizione di immigrato di prima o seconda generazione, previa esperienza lavora-tiva, disponibilità esclusivamente ad un lavoro part-time, disponibilità al trasferimento, even-tuale iscrizione presso un fondo di sostegno alla disoccupazione (c.d. a-kassan). Per quanto ri-guarda le condizioni del mercato locale l’indice tiene conto della relazione tra la quota dei di-soccupati e quella dei posti vacanti nell’area di riferimento.

185 Si può essere cancellati dalla lista dei soggetti assistiti per mancata risposta o rifiuto in-giustificato dell’offerta lavorativa/formativa, per trasferimento all’assistenza di un’altra autorità pubblica o per altri motivi stabiliti dalla legge (Unemployment Insurance Act n. 238 del 1997).

970

Nel calcolare l’efficienza (definita come la riduzione dell’uso degli inputs mantenendo costante la quantità di outputs) vengono confrontati solo gli uffici comparabili, ovvero quelli caratterizzati dalla stessa quan-tità di inputs (es. le stesse unità di personale), tenendo conto altresì delle differenti condizioni locali e delle differenti caratteristiche dei disoccu-pati che si rivolgono ai centri, indicatori di contesto sintetizzati nell’indi-ce FAI 186. Tuttavia, malgrado la considerazione di tali fattori ed i relativi correttivi econometrici apportati nel modello, dallo studio emerge una preoccupante disparità fra i vari uffici svedesi.

Oltre all’IFAU, altro soggetto di rilievo è il Riksrevisionen (Swedish National Audit Office), che ha più generalmente il compito di supervisio-nare tutte le attività statali, valutando l’efficacia e l’efficienza delle diver-se agenzie pubbliche. Uno degli ultimi studi valutativi riguarda, appunto, i servizi per l’impiego ed è stato reso pubblico nell’agosto del 2006 187. La parte del rapporto che qui interessa è quella che illustra le modalità con le quali è stata misurata l’efficienza dei singoli centri per l’impiego nell’in-termediazione della forza lavoro: sul punto viene riproposto nel rapporto lo studio commissionato dal Riksrevisionen all’IFAU e sopra descritto 188. Benché l’efficienza dei singoli centri per l’impiego avesse mostrato in quello studio, come si è detto, preoccupanti eterogeneità nei diversi ango-li del Paese, a questa valutazione non è stata ricollegata alcuna immedia-ta conseguenza in termini di allocazione delle risorse pubbliche.

186 Per l’abstract in inglese del progetto v. reg. n. 18/1998, Dynamic analysis of efficien-cy and productivity in Swedish employment offices 1992-1997, sul sito www.ifau.se; per una descrizione sintetica in italiano v. E. meLLander, Analisi dinamica dell’efficienza negli uffici pubblici svedesi dell’impiego, in M. curtareLLi (a cura di), La valutazione delle politiche per il lavoro, Atti del Convegno tenutosi all’Università La Sapienza di Roma, Facoltà di Sociolo-gia, il 26 giugno 2000, 2001, 119 ss., consultabile sul sito www.isfol.it

L’indagine dell’IFAU sopra descritta costituisce lo sviluppo e il perfezionamento di un precedente studio, che si proponeva di valutare l’efficienza tecnica di 253 uffici nel periodo 1992-1995. Esso concludeva nel senso che nel periodo considerato il valore medio dell’effi-cienza degli uffici era stato abbastanza costante, ma fra i diversi uffici si registrava una grande varianza. Gli uffici inefficienti si caratterizzavano per un utilizzo sub-ottimale delle risorse ri-spetto ai prodotti, dovuto soprattutto all’incapacità di adeguarsi ai cambiamenti interni ed ester-ni. Tuttavia nell’analisi non erano considerati, per scarsità di dati disponibili, alcuni fattori in grado di incidere sul prodotto dei centri per l’impiego (condizioni locali del mercato e tipolo-gia di utenza). Cfr. R. aLthin, L. Behrenz, Efficiency and productivity of employment offices: evidence from Sweden, in «International Journal of Manpower», vol. 26, n. 2, 2005, 196 ss.

187 riksrevisionen, Den offentliga arbetsförmedlingen, cit.188 riksrevisionen, cit., 51-52. V. supra.

971

8.2.2. La valutazione di sistema

Una seconda sezione dello studio valutativo del Riksrevisionen men-zionato alla fine del paragrafo precedente misura l’efficacia del servizio pubblico, inteso nella sua globalità. A tal fine gli indicatori utilizzati dal rapporto sono: la quota di assunzioni che vengono comunicate ai centri per l’impiego sul totale di quelle effettuate nell’anno (questo indicatore segnala la fiducia che il mondo imprenditoriale nutre per il sistema dei servizi per l’impiego); la quota di lavoratori disoccupati e occupati in cerca di un nuovo impiego che si rivolgono ai centri per l’impiego (que-sto indicatore segnala la fiducia che i lavoratori nutrono nei confronti del sistema dei servizi per l’impiego); la quota di lavoratori che hanno rice-vuto informazioni sul proprio attuale lavoro dai centri (questo indicatore misura più direttamente l’efficacia del servizio pubblico sul mercato del lavoro).

Sulla base della valutazione effettuata, il rapporto del Riksrevisionen conduce una serrata critica al sistema dei servizi per l’impiego, la cui ef-ficacia (misurata in termini di quota di disoccupati intermediata) è anda-ta calando nel corso degli ultimi decenni.

Deve segnalarsi infine che sono tuttora in corso una serie di proget-ti di valutazione dei vari aspetti del servizio per l’impiego, promossi dall’AMS ed affidati all’IFAU o ad altri istituti di ricerca. Qui si menzio-nano i più significativi.

Nel 2004 l’AMS, nell’ambito di una serie di progetti di sviluppo su scala regionale volti a migliorare il servizio per l’impiego, ha introdotto in tre Regioni selezionate una nuova tipologia di servizio caratterizzato da un maggiore assistenza e orientamento nell’intermediazione, destina-to a un certo numero di disoccupati individuati su base casuale. Il proget-to, utilizzando metodi sperimentali classici, si proponeva di verificare gli effetti sui disoccupati, con particolare riguardo ai risultati occupazionali, formativi e al rischio di futura perdita del lavoro 189.

Il servizio di intermediazione è stato oggetto di un altro esperimen-to, finalizzato all’analisi dello specifico ruolo svolto dagli operatori dei centri con riferimento all’aumento delle future chances lavorative e dei futuri guadagni 190.

Un altro progetto, iniziato il 2007 e destinato a concludersi nel 2009,

189 Reg. n. 103/2005, Effects of intensified intermediary activities at the employment of-fice, abstract consultabile sul sito www.ifau.se

190 Reg. n. 100/2003, Intermediary effects and programme evaluations, abstract consult-abile sul sito www.ifau.se

972

si propone di verificare se le agenzie private per l’impiego siano più effi-caci, in termini di accresciute possibilità occupazionali, rispetto al servi-zio pubblico. Lo studio, che utilizza il metodo sperimentale, indaga spe-cificamente le popolazioni target di adolescenti, disabili, immigrati con lo scopo di comparare il gruppo di trattati, estratti casualmente e affidati al servizio privato, con soggetti rimasti a carico del pubblico 191.

Infine, rientra nell’ambito della valutazione di sistema anche l’ab-bondantissima attività di ricerca svolta dall’IFAU per monitorare costan-temente l’impatto dei programmi di politica attiva del lavoro 192, che tan-ta importanza hanno tradizionalmente rivestito nell’intervento statale sul mercato del lavoro svedese.

191 Reg. n. 92/2007, Are private jobcentres more effective than the public employment of-fice?, abstract consultabile sul sito www.ifau.se

192 Uno studio recente per es. indaga l’impatto a breve e a lungo periodo delle politiche del lavoro su salari, durata della disoccupazione e partecipazione a futuri programmi: conclu-de che i programmi di formazione professionale non solo non hanno effetti positivi sui parte-cipanti, ma, al contrario, allungano i periodi di disoccupazione (effetto lock-in); invece sono molto più efficaci i lavori sussidiati, in quanto, oltre a rendere più fluido il mercato del lavoro, aumentano la durata dei periodi occupati e l’entità dei salari. Cfr. J. adda et al., Labour mar-ket programmes and labour market outcomes: a study of the Swedish active labour market in-terventions, IFAU, Uppsala, Working Paper 2007:27 In passato altre ricerche hanno dimostra-to che i programmi caratterizzati da forme di addestramento pratico (work experience e on the job training) sono di gran lunga più efficienti ed efficaci rispetto ai tradizionali corsi di forma-zione. V. per es. B. sianesi, Essays on the evaluation of social programs and eduactional qual-ifications, IFAU, Uppsala, Dissertation series, 2002:3, in particolare capp. 2 e 3, altresì pubbli-cati in una versione sintetica in «Swedish Economic Policy Review», 2001, 8, 2, 133 ss., col titolo Swedish Active Labour Market Programmes in the 1990s: Overall Effectiveness and Dif-ferential Performance. Ad analoghi risultati giunge un’altra valutazione dalla quale emerge al-tresì come gli effetti positivi siano superiori per i giovani. (A. forsLund, o. nordstrom skans, Swedish Youth Labour Market Policies Revisited, IFAU, Uppsala, Working Paper 2006:6.) Per un’ analisi puntuale dei diversi programmi con una comparazione dei rispettivi effetti v ackum aGeLL s. et al., Follow-up EU’s recommendations on labour market policies, IFAU, Uppsala, Report 2002:3. Alcune indagini si sono poi concentrate su un intervento di politica attiva, l’Ac-tivity Guarantee, un umbrella program di durata indeterminata e perciò da subito molto con-troverso. La conclusione è che il programma aveva registrato bassi tassi di adesione, comun-que non aveva prodotto alcun miglioramento delle probabilità occupazionali dei partecipanti, e, al contrario, sembrava favorirne un incremento del tasso di disoccupazione. (Cfr. A. for-sLund, d. fröBerG, L. Lindqvist, The Swedish Activity Guarantee, IFAU, Uppsala, Report, 2004:4). Sulla scorta di tali risultati negativi il nuovo governo nel 2007 ha deciso l’eliminazio-ne di detta misura, sostituendola con un’altra: il Job and Development Guarantee Scheme, pro-gramma finalizzato al rapido reinserimento lavorativo dei disoccupati di lunga durata. Su tale politica è attualmente in corso un progetto di ricerca volto ad indagarne l’implementazione e gli esiti occupazionali. (V. l’abstract in inglese sul sito www.ifau.se, reg. n. 19/2008, A study on the Job and Development Guarantee Scheme). Tutti i rapporti di ricerca dell’IFAU citati nella presente nota sono consultabili sul sito www.ifau.se

973

9. Conclusioni: i limiti dell’esperienza italiana e i suggerimenti prove-nienti dal quadro comparato

9.1. La valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per l’impiego in Italia: iniziative tardive, limitate ed in fase ancora sperimentale

L’Italia rispetto agli altri Paesi, anche europei, registra un certo ritar-do nell’avvio di pratiche valutative, dovuto soprattutto a fattori culturali e istituzionali, fra cui, in primis, la vischiosità del diritto amministrativo ancorato a meccanismi di verifica della legalità formale. Alla fine degli anni ’80 la drammatica situazione di inefficienza della farraginosa mac-china burocratica statale impone un cambio di direzione. Il nuovo corso dell’azione amministrativa è segnato da rilevanti interventi legislativi, quali il decreto legislativo 286/1999, attuativo dell’art. 17 della l. 59/1997 (c.d. Bassanini 1) intitolato «meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dal-le amministrazioni pubbliche» 193. A distanza di più di un decennio la va-lutazione dell’operato della pubblica amministrazione è ancora di scot-tante attualità, anche perché l’auspicata svolta efficientista è ancora di là da venire: sull’opportunità di fare della valutazione l’elemento centrale per cambiare in profondità l’attività della p.a. e l’atteggiamento dei suoi dipendenti si riscontra ormai identità di vedute tra maggioranza e oppo-sizione 194.

Nello specifico ambito delle politiche per il lavoro, già a partire dal-la fine degli anni ’80 in una serie di provvedimenti si prevedono attività di monitoraggio e valutazione degli interventi da attuarsi per mezzo del-le Agenzie per l’impiego e degli Osservatori sul mercato del lavoro 195.

193 è stato tuttavia osservato che, nonostante il titolo faccia riferimento alla valutazione tout court, nella sostanza il decreto si occupa di disciplinare varie forme di controllo di gestio-ne della p.a. Cfr. martini, cais, Controllo (di gestione) e valutazione (delle politiche), cit., 3.

194 Le cronache riportano giornalmente le dichiarazioni del Ministro della funzione pub-blica Renato Brunetta sulla necessità di una svolta meritocratica nella p.a., mentre il Partito de-mocratico ha appena presentato al Senato (5 giugno 2008) un disegno di legge, primi firmata-ri onn. Ichino e Treu, intitolato “Trasparenza e valutazione delle strutture pubbliche e dei loro dipendenti”.

195 Cfr. samek Lodovici, La valutazione delle politiche attive del lavoro, cit., 82. In par-ticolare, l’art. 8 della legge n. 56/1987 contemplava la costituzione di un osservatorio naziona-le sul lavoro, che nello svolgimento della propria attività doveva raccordarsi con gli osservato-ri già costituiti a livello regionale (sull’esperienza di questi ultimi v. varesi, Regioni e merca-to del lavoro. Il quadro istituzionale e normativo, Franco Angeli, Milano, 1986, 154 ss.; na-PoLi, Regioni e organizzazione del mercato del lavoro, «Quad. dir. lav. rel. ind.», 1987, 2, 47-49, ove anche ulteriori indicazioni bibliografiche). Tuttavia, all’indomani della riforma costi-

974

Successivamente ha svolto un ruolo decisivo la legge sul decentramento territoriale (d.lgs. n. 469/1997), completata dalla riforma costituzionale (l.n. 3/2001), che attribuisce alle regioni le competenze in materia di mercato del lavoro e dei servizi per l’impiego. Fa da cornice ed elemen-to catalizzatore la normativa comunitaria, da un lato con la creazione dei fondi strutturali ove si impone la valutazione dei progetti finanziati spe-cificandone i criteri 196, dall’altro lo sviluppo della strategia europea per l’occupazione 197, che richiede agli Stati precisi target da raggiungere e la diffusione di buone pratiche (best practices) in un’ottica di benchmar-king, ovvero di autoapprendimento 198.

Le esperienze italiane più mature sono quelle del Trentino-Alto Adi-ge e della Valle D’Aosta, che iniziano a sviluppare pratiche di valutazio-ne sin dagli anni ’80. Fra le altre regioni particolarmente evolute in quest’ambito si segnalano l’Emilia Romagna e la Lombardia. Tali attivi-tà sono gestite dagli Osservatori Regionali o da Centri di ricerca regiona-li (es. IReR: Istituto di ricerca Regione Lombardia) 199. A latere vanno menzionati gli studi valutativi prodotti da numerose istituzioni di caratte-re pubblico e privato (ISFOL, CESOS, IRS) 200. Si deve però precisare fin

tuzionale attuata con l. n. 3/2001, che ha trasferito alla competenza concorrente la materia dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro, il d.lgs. n. 297/2002 ha abrogato l’art. 8 della l. n. 56/1987. Le Regioni non si sono invece private dello strumento degli osservatori: cfr. ad es. l’art. 6 della l.r. Lombardia n. 22/2006. Per quanto riguarda le Agenzie per l’impiego v. l’art. 24, l. n. 56/1987, anch’esso tuttavia abrogato dall’art. 8, d.lgs. n. 297/2002. Nell’ambito delle riforme c.d. Bassanini fu prevista la costituzione a livello regionale di un’“apposita strut-tura […] dotata di personalità giuridica”, con funzione di “assistenza tecnica e monitoraggio nelle materie” di politica attiva del lavoro [v. l’art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 469/1997]. An-che in questo caso l’organismo è stato conservato nella legislazione regionale posteriore alla riforma costituzionale ex l. n. 3/2001: cfr. ad es. l’art. 11, l.r. Lombardia n. 22/2006 che istitu-isce l’Agenzia regionale per l’istruzione, la formazione e il lavoro.

196 In particolare, sul funzionamento del Fondo sociale europeo v. M. naPoLi, La riforma del Fondo sociale europeo, in «Riv. giur. lav.», 2000, I, 899 ss.

197 Sulla SEO v. gli autori citati retro alla nota 4. 198 Sullo sviluppo delle tecniche di benchmarking v. L. tronti, Il benchmarking dei mercati

del lavoro. Una sfida per le regioni italiane?, in antoneLLi, nosveLLi (a cura di), op. cit., 71 ss.199 Per una rassegna degli studi sui vari interventi di politica del lavoro in Italia v. samek

Lodovici, La valutazione delle politiche attive del lavoro, cit., 82 ss. Per una trattazione appro-fondita si rimanda all’ampia monografia di ciraveGna, et al., op. cit.

200 A titolo meramente esemplificativo si indicano qui di seguito: i numerosi rapporti di monitoraggio sui Centri per l’impiego nonché le indagini sulla soddisfazione dell’utenza con-tenute nella collana dell’ISFOL, Monografie sul mercato del lavoro e le politiche per l’impie-go, consultabili sul sito www.isfol.it; lo studio sull’ efficienza ed efficacia dei prodotti e dei servizi di orientamento professionale, promosso ed attuato dal CESOS nel 2002, riportato in BotticeLLi, PaPareLLa, La valutazione dei servizi di orientamento, cit.; v. il rapporto metodo-

975

d’ora che l’esperienza di valutazione italiana, oltre a presentare un carat-tere geograficamente frammentato che la vede concentrata soprattutto in alcune Regioni più progredite del Paese, si focalizza soprattutto sui pro-grammi di politica attiva del lavoro, soffermandosi assai di rado e soltan-to di recente sulla valutazione di efficacia ed efficienza dei servizi e dei centri per l’impiego.

Il Trentino-Alto Adige ha avuto in Italia un ruolo pionieristico in quest’ambito. Infatti è stato sede della prima Agenzia per il lavoro, dove sono state effettuate le prime esperienze di valutazione dei risultati. Pre-cisamente si è trattato di una serie di valutazioni di efficacia (o impatto) condotte con metodo non sperimentale: si segnalano ad esempio l’inda-gine del 1988 sugli effetti dei sussidi all’occupazione 201, nonché due stu-di sul contratto di formazione e lavoro, rispettivamente del 1987 e del 1988 202. Più recentemente è stata realizzata una approfondita valutazio-ne dell’efficacia e efficienza del Progetto di «inserimento lavorativo di lavoratori svantaggiati in cooperative sociali», parte integrante degli in-terventi di politica del lavoro per il biennio 1998-2000 203.

In Valle d’Aosta alla fine degli anni ’90 l’Osservatorio Regionale ha intrapreso un’ampia opera di valutazione delle politiche del lavoro ine-renti il piano di azione 1995-97. Si è trattato di una valutazione di impat-to incentrata sulle singole politiche (servizi di orientamento, mediazione domanda-offerta, formazione professionale), attuata con metodo preva-lentemente qualitativo tramite interviste e finalizzata alla programmazio-ne delle nuove azioni 204.

logico sul monitoraggio delle politiche del lavoro e della formazione in Emilia-Romagna del 2002, a cura dell’IRS (a.t.i. ismeri euroPa-irs, Servizi di monitoraggio, cit.); infine il recen-tissimo rapporto dell’IRS sul sistema dei servizi per l’impiego in alcune regioni italiane ed al-cune nazioni europee: cfr. irs, Servizi al lavoro e rete degli operatori pubblici e privati: la Lombardia nel contesto italiano ed europeo. Azioni di sistema a sostegno del mercato del la-voro e del sistema educativo di istruzione e formazione professionale, la Fenice Grafica, Bor-ghetto Lodigiano, 2007.

201 Cfr. A. ichino, L. feLLi, I sussidi all’occupazione: gli effetti sull’offerta di lavoro in CIGS, in Le politiche del lavoro a livello locale: valutazione dei risultati, Agenzia di Trento, 1988. Per una sintesi sull’esperienza v. martini, GariBaLdi, L’informazione statistica, cit., 19 ss.

202 Sinteticamente descritti in e. raGazzi, Le politiche in favore dei giovani, in cirave-Gna et al., op. cit., 315 ss.

203 Cfr. G. marocchi, Integrazione lavorativa, impresa sociale, sviluppo locale. L’inseri-mento lavorativo in cooperative sociali di lavoratori svantaggiati come fattore di crescita dell’economia globale, Franco Angeli, Milano, 1999.

204 Cfr. l’ampia monografia di D. ceccareLLi, Valutare le politiche del lavoro. La valuta-zione d’impatto come fattore di programmazione, Angeli, Milano, 2000; M. naPoLi, Le politi-che attive del lavoro al vaglio della valutazione d’impatto, in M. naPoLi, Lavoro, diritto, mu-

976

In Emilia-Romagna la valutazione costituisce un paradigmatico esempio di partnership fra amministrazioni locali, università, sistema di istruzione-formazione. Progressivamente negli anni è stato messo a pun-to un vero e proprio «pacchetto di politiche per la valutazione», che ha avuto essenzialmente ad oggetto la valutazione dell’efficacia della for-mazione professionale sull’occupazione, la valutazione di specifici stru-menti di politica del lavoro (quali aiuti all’occupazione, tirocini formati-vi, misure per l’inserimento dei disabili), la valutazione dell’impatto dei servizi per l’impiego, con particolare riferimento alla soddisfazione degli utenti (disoccupati e imprese) 205.

La Regione Lombardia, infine, costituisce un caso sui generis nel quadro non solo italiano, ma anche europeo: qui la valutazione è associa-ta e finalizzata a meccanismi premiali e sanzionatori, che trovano riscon-tro solo nell’esperienza americana e australiana. Il termine di raffronto più appropriato è però quello australiano, caratterizzato, come si è visto, dalla creazione di un quasi-mercato in cui organismi pubblici competono con enti privati nell’aggiudicazione di gare d’appalto ai fini dell’eroga-zione dei servizi all’impiego: le quote di mercato attribuite a ciascun en-te sono consequenziali alla performance da esso realizzata.

In Lombardia la l.r. 22/2006 istituisce un analogo meccanismo con-correnziale. Infatti essa impone la valutazione dei servizi di formazione, istruzione, lavoro erogati da enti pubblici e privati 206, considerandone l’esito positivo quale condicio sine qua non per l’attribuzione di risorse pubbliche nell’anno successivo: in tal modo pubblico e privato si trova-no a competere per la stessa sopravvivenza nel mercato, in quanto gli en-ti meno performanti possono essere addirittura esclusi dal sistema 207.

tamento sociale (1997-2001), Giappichelli, Torino, 2002, 90 ss.; M. naPoLi, Le politiche del lavoro della Valle d’Aosta, in «Jus», settembre-dicembre 2004, 360-361.

205 Cfr. m. franchi, Il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro: il caso dell’Emilia-Romagna, 121 ss.; sul monitoraggio e valutazione della performance dei Servizi per l’Impiego v. in particolare PoLeis (a cura di), Il sistema dei servizi pubblici per l’impiego in Emilia-Romagna. Valutazione di efficacia e monitoraggio della performance, Agenzia Emi-lia-Romagna Lavoro, Bologna, 2004.

206 Per un esempio di valutazione del ruolo dei centri per l’impiego nel contesto lombar-do precedente alla legge 22/2006 v. reGione LomBardia, I centri per l’impiego lombardi: ruo-lo di cerniera tra i sistemi della formazione, dell’istruzione e del lavoro nell’attivazione dell’approccio preventivo e analisi dei servizi erogati in favore dei soggetti svantaggiati – Va-lutazione indipendente del POR Ob. 3 della Regione Lombardia per il periodo 2000-2006, gennaio 2005.

207 Cfr. l’art. 16, comma 5, secondo periodo, l.r. n. 22/2006: “gli operatori che hanno ot-tenuto risultati non rispondenti agli obiettivi fissati nel piano d’azione” regionale “e punteggi inferiori agli standard definiti per tutti i profili considerati, sono esclusi dai finanziamenti”. Le

977

Precisamente la legge prevede due tipi di valutazione: nell’art. 16, comma 4 fa riferimento alla valutazione di «ciascun operatore accredi-tato o autorizzato, pubblico o privato» (valutazione dei singoli enti ero-gatori); nell’art. 17, comma 3 richiede la predisposizione di una «rela-zione annuale sul funzionamento dei servizi di istruzione, formazione e lavoro» (valutazione di sistema). Nel primo caso si persegue l’ottica di reward/sanction dei singoli enti erogatori: per quelli privati accreditati si tratterà di penalizzazioni nella distribuzione dei finanziamenti regionali 208; per quelli pubblici inoltre «i risultati negativi […] sono considerati ai fini della responsabilità dirigenziale, della riorganizzazione degli uffici e delle procedure di mobilità» (art. 16, comma 6). Il secondo tipo di va-lutazione è funzionale all’indirizzo del sistema di istruzione, formazio-ne e lavoro da parte della Regione; in particolare i risultati serviranno per programmare gli interventi contenuti nel piano d’azione regionale ex art. 3 stessa legge.

La Lombardia costituisce, almeno sulla carta, sicuramente la punta oggi più avanzata per quanto riguarda l’incidenza della valutazione dei servizi per l’impiego in Italia: è però assai sintomatico che a quasi due anni dall’approvazione della l.r. n. 22/2006, a quanto consta nel momen-to in cui si scrive, il sistema di valutazione non sia ancora entrato a regi-me. I processi valutativi sono estremamente complicati da gestire e ri-chiedono di essere calibrati molto attentamente, in particolare quando vengono utilizzati come perno per la creazione di un quasi-mercato che abbraccia non soltanto il mercato del lavoro, ma anche quello dell’istru-zione e formazione professionale 209.

conseguenze dell’applicazione di questa disposizione non sono chiare per gli operatori pubbli-ci, nella misura in cui essi non sono finanziati esclusivamente tramite le risorse destinate all’erogazione dei servizi per l’impiego, e la valutazione negativa comporta l’esclusione dai fi-nanziamenti, ma non la cancellazione dall’albo dei soggetti accreditati. V. poi con riferimento più specifico alle conseguenze della valutazione negativa per gli operatori pubblici il tenore piuttosto sibillino dell’art. 16, comma 6, l.r. Lombardia infra nel testo.

208 Più precisamente l’art. 16, comma 5 prevede che “una quota non inferiore al 75% dei finanziamenti regionali per i servizi per il lavoro” sia “assegnata sulla base dei risultati della valutazione relativa all’ultimo anno”. Tra gli operatori non esclusi dai finanziamenti, questi ul-timi “sono distribuiti in base alla collocazione nella graduatoria”.

209 L’art. 16, comma 1 della l.r. n. 22/2006 sancisce che “la valutazione concerne tutti i servizi per l’istruzione, la formazione e il lavoro”. V. anche l’art. 27 della l.r. Lombardia 6 ago-sto 2007, n. 19, recante norma sul sistema educativo di istruzione e formazione.

978

9.2. I suggerimenti (di metodo e di merito) provenienti dall’esperienza comparata

L’analisi delle esperienze straniere permette di evidenziare caratteri comuni e criticità di un modello di valutazione, fornendo indicazioni es-senziali per l’auspicabile fase di decollo della valutazione dei servizi per l’impiego nel nostro Paese.

Anzitutto qualsiasi esperienza valutativa richiede la preventiva indi-viduazione delle finalità generali e degli obiettivi operativi della politica, o programma o servizio che si vuole valutare nonché la costruzione di adeguati indicatori, atti a rendere misurabili i predetti obiettivi. Tuttavia, la valutazione risulterebbe inevitabilmente distorta se non si tenesse con-to del contesto in cui l’intervento si colloca e delle caratteristiche della popolazione target (tramite la predisposizione di indicatori di contesto e tipologie di utenza, come si è già accennato). Inoltre, la considerazione di tali dimensioni intervenienti permette di ovviare ai tipici problemi co-nosciuti nella letteratura economica come di principal-agent, che emer-gono in particolar modo laddove la valutazione si proponga di irrogare sanzioni (o concedere benefici). Ci si riferisce in primo luogo ai rischi di creaming, pratica per cui gli operatori dei centri, per non segnalarsi come soggetti meno performanti nel sistema, tendono a seguire le persone che ab origine appaiono più agevolmente collocabili sul mercato del lavoro e ad escludere i soggetti maggiormente svantaggiati 210. Prassi complemen-tare, ugualmente diffusa, è quella del parking, per cui gli operatori, assi-curatisi una certo numero di soggetti più promettenti, si concentrano su questi e di fatto parcheggiano gli altri, senza offrir loro alcuna proposta significativa di formazione o di impiego.

Il che – è evidente – frustra la ratio della esistenza stessa dei servizi per l’impiego e vanifica la loro mission, che è quella di aiutare la transi-zione al lavoro in particolar modo delle fasce deboli. L’esempio anglo-sassone indica con chiarezza la via percorribile per superare questi in-convenienti: attribuendo punteggi elevati nel caso di collocamento di di-soccupati più svantaggiati e punteggi inferiori ai clienti più facili si in-centivano i centri a farsi carico dei primi.

Altro problema che rileva quando la valutazione segue una logica di reward/sanction è il cheating, ovvero la tendenza ad adottare comporta-menti opportunistici volti a conseguire valutazioni positive anche in as-

210 Cfr. M. samek Lodovici, Politiche attive e flessibilità del lavoro in Lombardia: alcu-ni spunti di riflessione per l’intervento regionale alla luce dell’esperienza europea, Paper IRS, 2006, 52.

979

senza di risultati effettivi coerenti con tali valutazioni 211. In particolare si segnala la diffusa inclinazione degli operatori a manipolare i dati di par-tenza o a interpretare in maniera strumentale il significato degli indicato-ri 212 (si pensi all’indicatore “numero dei contatti”, che ben si presta ad interpretazioni tanto estensive quanto restrittive). Anche per evitare que-sto rischio, gli indicatori devono essere il più possibile chiari e univoci, e le fonti dei dati scelte con oculatezza; in particolare è necessario che i da-ti non provengano dai database dei soggetti valutati.

A questo proposito sono illuminanti le esperienze statunitense e au-straliana, che, non a caso, utilizzano la valutazione anche a fini di alloca-zione delle risorse pubbliche. Negli Stati Uniti ha grande rilievo (anche se le proposte di futuri emendamenti hanno apportato cambiamenti sul punto) la misurazione della customer satisfaction, che viene rilevata tra-mite interviste telefoniche a campione effettuate entro un breve periodo (60 giorni) dall’utilizzazione del servizio. Inoltre, per quanto riguarda la base-dati di riferimento la legge prevede che si possa attingere solo dagli archivi dell’Unemployment Insurance: in tal modo il centro per l’impie-go non è in grado di manipolare i dati relativi alla permanenza nello sta-to di disoccupazione del soggetto da lui assistito, e conseguentemente non ha la possibilità di influire sulla valutazione della performance effet-tuata dal valutatore indipendente. Infine nei Paesi analizzati i dati relati-vi all’intermediazione sono il perno degli indicatori di risultato, in quan-to più univoci e più difficili da manipolare/equivocare.

Da ultimo tra le buone prassi mutuabili dall’esperienza internazio-nale vi è quella relativa all’indipendenza del valutatore: si suggerisce che questo debba essere distinto dal soggetto responsabile dell’attuazione della politica o dell’erogazione del servizio per garantire gli indispensa-bili requisiti di imparzialità e di professionalità. Ovviamente l’indipen-denza del valutatore pare ancor più necessaria quando la sua attività fini-sca per incidere sui finanziamenti pubblici diretti agli enti che fanno par-te del sistema sottoposto a valutazione.

è solo il caso di notare che le esperienze valutative condotte nel no-stro Paese molto spesso non si sono conformate alle prassi più evolute presenti nel quadro comparato. Così per esempio è frequentissimo l’uso di dati provenienti dai centri per l’impiego ai fini della valutazione, con tutti i problemi di manipolazione dei dati (cheating) che si possono veri-ficare in una situazione di questo tipo. Inoltre, per vari motivi anche con-

211 P. ichino, Finanziamenti distribuiti in base all’efficienza, intervista pubblicata in «Il Giornale», 23 ottobre 2006, 44.

212 Cfr. M. samek Lodovici, Politiche attive e flessibilità del lavoro in Lombardia, cit., 53.

980

nessi al nostro sistema di previdenza sociale, i dati relativi allo stato di di-soccupazione di un soggetto, elemento evidentemente chiave nella valu-tazione di qualsiasi sistema di servizi per l’impiego, non sono attendibi-li. Per un verso, il nostro sistema di tutela contro la disoccupazione, no-nostante le recenti modifiche 213, presenta un carattere ancora frammen-tario, che talora non ricollega alcun vantaggio di carattere patrimoniale allo status di disoccupato: capita così che soggetti privi di impiego non abbiano alcun incentivo a registrarsi come disoccupati presso i centri per l’impiego, né a controllare che l’ufficio non li cancelli abusivamente dall’elenco. Anche la formulazione e l’utilizzo degli indicatori, vera chia-ve di volta di tutto il sistema della valutazione, non sono sempre appro-priati. Talvolta, poi, la scarsa cultura del nostro Paese in materia di valu-tazione si manifesta anche con riguardo alla corretta delimitazione dell’oggetto stesso del processo valutativo. Ad es., come è stato puntual-mente rilevato in dottrina, la l.r. Lombardia n. 22/2006 ha ingenuamente indicato tra gli oggetti della valutazione anche una realtà che non appar-tiene al momento valutativo, quanto piuttosto a quello ispettivo: in parti-colare, infatti, l’art. 16, comma 2, lett. b), prescrive al valutatore indipen-dente di valutare “l’effettivo svolgimento delle attività di istruzione e for-mazione professionale” 214. Quanto all’indipendenza del valutatore, tale caratteristica non è normalmente presente nelle valutazioni effettuate in Italia, anche perché esse non sono solitamente effettuate in un’ottica di reward/sanction, il che rende meno cruciale la predicata indipendenza. Non a caso in Lombardia, dove la valutazione si prefigge di orientare i fi-nanziamenti pubblici, la legge si premura di sottolineare espressamente l’indipendenza del valutatore.

Le valutazioni condotte all’estero sui servizi per l’impiego hanno messo in luce una serie di circostanze, che hanno orientato strategie e de-cisioni vincenti dei soggetti competenti (sia i manager dei centri per l’im-piego sia i politici).

In primis, si è dimostrato che proprio i servizi per l’impiego, fra le politiche per il lavoro, si sono rivelati abbastanza efficaci e efficienti (po-co costosi). In particolare ciò vale per gli interventi rivolti alle fasce più

213 Cfr. l’art. 1, comma 25, l. n. 247/2007. Sulla legge di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 sul Welfare v. per tutti cineLLi-ferraro (a cura di), Welfare, mercato del lavoro e competitività. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247, «Suppl. a GLav», n. 2/2008; M. Persiani, G. Proia (diretto da), La nuova disciplina del Welfare: legge 24 dicembre 2007, n. 247. Commentario, Cedam, Padova, 2008.

214 Cfr. varesi, Regione Lombardia: la legge di politica del lavoro, cit., VIII, nota 10.

981

deboli della forza lavoro 215. Pertanto, sulla scorta di tali risultati, nei Pa-esi più avanzati proprio tali gruppi sono i principali destinatari delle mi-sure (priority o target groups): per esempio, in Svezia le popolazioni-obiettivo sono i giovani, i disoccupati di lunga durata, gli extracomunita-ri e i disabili; in Gran Bretagna i genitori single, i disabili, i disoccupati di lunga durata e i giovani. A tal fine sia in Australia sia negli Stati Uniti sono state introdotte e progressivamente perfezionate tecniche statistiche di profiling, che permettono preventivamente di segmentare l’utenza in-dividuando i disoccupati più bisognosi: è di tutta evidenza l’utilità di questo screening nel senso del risparmio di tempi e di costi.

Inoltre si è evidenziato che i centri per l’impiego sono più efficaci ed efficienti nella misura in cui riescono ad integrare in un’unica struttura diverse funzioni per i disoccupati: servizi di consulenza ed orientamento, matching, erogazione dell’indennità di disoccupazione (one-stop shop). Questa prassi, risultata vincente in America, sta diventando progressiva-mente un trend comune in Europa.

Infine gli studi valutativi hanno messo in rilievo l’importanza di un approccio customer-oriented e quanto più possibile personale con lo staff dei centri. Pertanto i paesi più evoluti hanno cercato di diminuire il nu-mero di clienti per ogni operatore ed hanno creato figure di tutor (Svezia) o di personal adviser (Gran Bretagna).

Un utilizzo più intenso della valutazione in Italia avrebbe permesso di mettere all’ordine del giorno a tempo debito riforme in linea con ciò che accade nei Paesi che gestiscono con maggiore efficienza i propri mercati del lavoro. Si può discutere se il sistema dello One stop shop sia il migliore per massimizzare l’efficacia/efficienza dei servizi per l’impie-go, ma una riforma degli ammortizzatori sociali che uniformi e genera-lizzi i vantaggi patrimoniali connessi con lo status di disoccupato, anche al fine di creare gli incentivi più opportuni per uscire da esso con una nuova occupazione, è sicuramente indilazionabile 216. Inoltre, nella mag-gior parte delle esperienze dei nostri centri per l’impiego è per certi ver-si anche tristemente nota l’assenza delle più moderne tecniche di gestio-

215 Cfr. samek, La valutazione delle politiche attive del lavoro, cit., 69; R. fay, Making the public employment service more effective through the introduction of market signals, La-bour Market an Social policy occasional Papers, n. 25, OECD, Paris, 1997, 6-7.

216 Nel senso indicato nel testo si muove la delega per la riforma degli ammortizzatori so-ciali contenuta nell’art. 1, comma 28, l. n. 247/2007. Sulle speranze di una rapida attuazione, però, è lecito esprimere qualche dubbio: la prima delega in materia di ammortizzatori sociali era prevista già dalla l. n. 144/1999, ma il susseguirsi di ben tre governi (escludendo dal con-teggio l’attuale, appena entrato in carica) non ha condotto finora ad alcuna riforma di sistema, ma soltanto a qualche correzione marginale.

982

ne 217 sperimentate e applicate su larga scala, anche in esito alle risultan-ze di processi valutativi, nei Paesi dove i servizi per l’impiego funziona-no meglio: management by objectives, tecniche di profiling, utilizzo ade-guato (nella qualità e nel numero) di tutor e personal adviser, ecc. 218.

In conclusione, non si può nascondere l’estrema complessità dei processi valutativi. Ma questo non significa tout court affermarne l’im-possibilità. Anzi, il successo di alcune esperienze straniere prima illustra-te dimostra che questa via è percorribile, anche se impegnativa: come è stato efficacemente sottolineato, “la valutazione non si risolve mai in un pacchetto chiavi in mano, ma in un abito che deve essere cucito addosso, alla situazione e all’oggetto che si deve valutare” 219. La valutazione è uno strumento sofisticato e costoso, che necessita di continue sperimen-tazioni e affinamenti per funzionare correttamente. Esso pare tuttavia in-dispensabile per garantire efficacia ed efficienza agli interventi pubblici su di un mercato del lavoro così complesso come quello che si sta dise-gnando in questo inizio di ventunesimo secolo.

Bibliografia

a.t.i. ismeri euroPa-irs (a cura di), Servizio di monitoraggio delle politiche del lavoro, della formazione, dell’orientamento e integrazione con la scuola e rileva-zione degli indicatori di impatto occupazionale, Rapporto metodologico, 2002.

access economics, Final Report. Indipendent review of the job network pro-vider star ratings method, 2002, consultabile nel sito www.workplace.gov.au

ackum aGeLL s. et al., Follow-up EU’s recommendations on labour market policies, IFAU, Uppsala, Report 2002:3, consultabile sul sito www.ifau.se

j. adda, et al., Labour market programmes and labour market outcomes: a study of the Swedish active labour market interventions, IFAU, Uppsala, Work-ing Paper 2007:27, consultabile sul sito www.ifau.se

m.c. aLkin, c.h. hofstetter, X. ai, Stakeholder concepts in program evaluation, in A. reynoLds, h. WaLBerG (eds.), Advances in educational pro-ductivity, vol. 7, 87 ss., JAI Press, Greenwich, 1998.

r. aLthin, L. Behrenz, Efficiency and productivity of employment offices:

217 Per un affresco, non certamente esaltante, dell’attuale situazione dei servizi per l’im-piego in Italia v. sestito-Pirrone, Disoccupati in Italia. Tra Stato, Regioni e cacciatori di te-ste, Il Mulino, Bologna, 2006, in partic. 114 ss.

218 Queste tematiche sono assenti dai principi e criteri direttivi per l’attuazione della de-lega per la (ennesima) riforma dei servizi per l’impiego contenuta nell’art. 1, comma 30, lett. a), l. n. 247/2007 (art. 1, comma 31).

219 Così in morisi-LiPPi, Manuale di scienza dell’amministrazione, cit., 42.

983

evidence from Sweden, in «International Journal of Manpower», vol. 26, n. 2, 2005, 196 ss.

AMS, The Public employment service. Fact and figures, consultabile sul si-to www.ams.se.

antoneLLi, nosveLLi (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per una «nuova economia», CEIS, Il Mulino, Bologna, 2002.

m. BarBera (a cura di), Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali, Giuffré, Milano, 2006.

B. BarnoW, Exploring the relationship between performance management and program impact: a case study of the Job Training Partnership Act, in «Jour-nal of policy analysis and management», 2000, vol. 19, n. 1, 118 ss.

G. Bertin (a cura di), Valutazione e sapere sociologico. Metodi e tecniche di gestione dei processi decisionali, Franco Angeli, Milano, 1995.

G. Bertin, Valutazione e processo decisionale, in G. Bertin (a cura di), Va-lutazione e sapere sociologico. Metodi e tecniche di gestione dei processi deci-sionali, Franco Angeli, Milano, 1995, 13 ss.

c. Bezzi (a cura di), Valutazione 1998, Giada, Narni, 1998.c. Bezzi, Il disegno della ricerca valutativa, Angeli, Milano, 2003.G. BotticeLLi, d. PaPareLLa (a cura di), La valutazione dei servizi di orien-

tamemento, Franco Angeli, Milano, 2002.r. BotticeLLi, m. catani, Il modello di valutazione della qualità dei servizi

di orientamento professionale, in G. BotticeLLi, d. PaPareLLa (a cura di), La va-lutazione dei servizi di orientamemento, Franco Angeli, Milano, 2002, 155 ss.

o. BrutteL, Contracting-out and the Governance Mechanisms in the Public Employment Service, WZB, Discussion Paper n. 109, Berlin, 2005.

s. BurGess et al, Evaluation of the Introduction of the Makinson Incentive Scheme in Jobcentre Plus. Final report, january 2004, consultabile sul sito www.bristol.ac.uk/cmpo

s. BurGess et al., Incentives in the Public Sector: Evidence from a Gover-nment Agency, CMPO Working paper series n. 04/103, march 2004, consultabile sul sito www.bris.ac.uk/depts/CMPO/workingpapers

s. BurGess, m. ratto, The role of incentives in the public sector: issues and evidence, in «Oxford Review of Economic policy», vol. 19, n. 2, 2003, 285 ss.

G. caineLLi, a. montini, Fonti statistiche e monitoraggio delle politiche lo-cali del lavoro in Emilia-Romagna, in G. antoneLLi, m. nosveLLi (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per una «nuova econo-mia», CEIS, Il Mulino, Bologna, 2002, 155.

d. ceccareLLi, Valutare le politiche del lavoro. La valutazione d’impatto come fattore di programmazione, Angeli, Milano, 2000.

cineLLi, ferraro (a cura di), Welfare, mercato del lavoro e competitività. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247, «Suppl. a GLav», n. 2/2008.

d. ciraveGna et al., La valutazione delle politiche attive del lavoro: espe-rienze a confronto, Utet, Torino, 1995.

984

d. ciraveGna, La valutazione microeconomica delle politiche attive del la-voro, in D. ciraveGna et al., La valutazione delle politiche attive del lavoro: esperienze a confronto, Utet, Torino, 1995, 57 ss.

n. coLeman, n. rousseau, h. carPenter, Jobcentre Plus Service Delivery Wave two: findings from quantitative research, Department for Work and Pen-sions, Research Report n. 284, Corporate Document Services, Leeds, 2005, con-sultabile sul sito www.dwp.gov.uk

n. coLeman, n. rousseau, h. carPenter, Jobcentre Plus Service Delivery Survey (Wave 1), Department for Work and Pensions, Research Report n. 223, Cor-porate Document Services, Leeds, 2004, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

commission euroPéenne, Evaluer les programmes socio-économiques. Choix et utilisation des indicateurs pour le suivi et l’évaluation. Collection Means, Luxembourg, Office des Publications officielles des Communautés euro-péennes, 1999.

m. considine, Enterprising States. The Public Management of Welfare-to-Work, Cambridge University Press, Cambridge, 2001.

j. corkett et al., Jobcentre Plus evaluation: Summary of evidence, IAD Social Research Division, Research Report n. 252, Department for Work and Pensions, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk.

s. davis, L. james, s. tuohy, Qualitative assessment of Jobcentre Plus de-livery of Jobseeker’s Allowance and New Deal Interventions, Department for Work and Pensions, Research Report n. 445, Corporate Document Services, Leeds, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

B. dente, Analisi delle politiche pubbliche e valutazione, in Rassegna ita-liana di valutazione, 2006, vol. 34, n. 1, 105 ss.

dePartment for Work and Pensions (dWP), Review of the structure of the Jobcentre plus Business delivery Target, DWP, Research Report 233, february 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

dePartment for Work and Pensions (DWP), The use of contestability and flexibility in the delivery of welfare services in Australia and Netherlands, DWP, Research Report n. 288, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consulta-bile sul sito www.dwp.gov.uk

dePartment of emPLoyment and WorkPLace reLations (DEWR), Job Net-work evaluation Stage one: implementation and market development, Evalua-tion and Programme Performance Branch, Labour Market Policy Group, februa-ry 2000, consultabile sul sito www.dewr.gov.au

dePartment of emPLoyment and WorkPLace reLations (DEWR), Job Net-work evaluation Stage two: Progress report, Evaluation and Programme Perfor-mance Branch, Labour Market Policy Group, february 2001, consultabile sul si-to www.dewr.gov.au

dePartment of emPLoyment and WorkPLace reLations (DEWR), Job Net-work evaluation Stage Three: effectiveness report, Evaluation and Programme Performance Branch, Labour Market Policy Group, may 2002, consultabile sul sito www.dewr.gov.au

985

dePartment of emPLoyment and WorkPLace reLations (DEWR), Job net-work. Jobseeker Account Evaluation, august 2006, consultabile sul sito www.dewr.gov.au

dePartment of emPLoyment, WorkPLace reLations and smaLL Business (DEWRSB), Job Network: a net impact study, EPPB Report 1/2001, Canberra, april 2001, consultabile sul sito www.dewrsb.gov.au

j. dorrer, The US: Managing Different Levels of Accountability, in OECD, Managing Decentralisation. A new Role for Labour Market policy, Paris, 2003, 189 ss.

P. drucker, The practice of management, Harper&Row, New York, 1955.s. enGBLom, La politica del mercato del lavoro svedese e il ruolo dell’Am-

ministrazione nazionale per il mercato del lavoro (AMV), 2005, dattiloscritto.G. faLasca, I servizi privati per l’impiego, Giuffrè, Milano, 2006.G. faLasca, Regione Lombardia: nuova legge sul mercato del lavoro, in

«Guida al lavoro», 2006, 40, 34 ss.m. favro-Paris, La formazione professionale, in D. ciraveGna et al., La

valutazione delle politiche attive del lavoro: esperienze a confronto, Torino: Utet, Torino, 1995, 132 ss.

r. fay, Making the public employment service more effective through the introduction of market signals, «Labour Market and Social policy occasional Papers», n. 25, OECD, Paris, 1997.

v. fiLì, L’avviamento al lavoro tra liberalizzazione e decentramento, Mila-no, iPsoa, 2002.

finn et al., Reinventing the Public Employment Service: the changing role of employment assistance in Britain and Germany, Anglo-German Foundation for the study of Industrial Society, London, 2005, 23, consultabile sul sito www.agf.org.uk

a. forsLund, d. fröBerG, L. Lindqvist, The Swedish Activity Guarantee, IFAU, Uppsala, Report, 2004:4, consultabile sul sito www.ifau.se

a. forsLund, o. nordstrom skans, Swedish Youth Labour Market Policies Revisited, IFAU, Uppsala, Working Paper 2006:6, consultabile sul sito www.ifau.se

m. franchi, m. PaLumBo, La valutazione delle politiche del lavoro: que-stioni aperte, riflessioni, esperienze, in M. franchi, m. PaLumBo (a cura di), La valutazione delle politiche del lavoro e della formazione, «Sociologia del lavo-ro», 77, 2000, 7 ss.

m. franchi, Dalla valutazione delle politiche alle politiche della valutazio-ne: spunti di riflessione sulla base di un caso regionale, in M. franchi, m. Pa-LumBo (a cura di), La valutazione delle politiche del lavoro e della formazione, «Sociologia del lavoro», 77, 2000, 147 ss.

m. franchi, Il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro: il caso dell’Emilia-Romagna, in antoneLLi-nosveLLi (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per una «nuova economia», CEIS, Il Mu-lino, Bologna, 2002, 121 ss.

986

m. franchi, m. PaLumBo (a cura di), La valutazione delle politiche del la-voro e della formazione, «Sociologia del lavoro», 77, 2000.

j. frankham et al., Evaluation of the Job Outcome Target Pilots: quantita-tive Study, Final report, DWP Research Report n. 316, Corporate Document Services, Leeds 2006, consultabile sul sito www.dwo.gov.uk

GeneraL accountinG office, Workforce Investment Act. Additional Actions Would Further Improve the Workforce System, GAO-07-1051 T, Washington, D.C., june 28, 2007, consultabile sul sito www.gao.gov

GeneraL accountinG office, Workforce Investment Act. One Stop Infra-structure continues to evolve, but Labour should take action to require that all employment service offices are part of the system, GAO-07-1096,Washington, D.C., september 2007, consultabile sul sito www.gao.gov

GeneraL accountinG office, Workforce Investment Act: Improvements Needed in Performance Measures to Provide a More Accurate Picture of WIA’s Effectiveness, GAO-02-275,Washington D.C., february 2002, consultabile sul sito www.gao.gov

j.c. Greene, Stakeholder participation and utilization in program evalua-tion, in «Evaluation Review», 1988, 12, 91 ss.

P. GreGG, j. WadsWorth, How effective are state employment agencies? Jobcentre use and Job Matching in Britain in «Oxford Bulletin of economics and Statistics», vol. 58, 3, 1996, 443 ss.

c. hasLuck et al., The use and development of alternative service delivery channels in Jobcentre Plus: a review of recent evidence, Department for Work and Pensions, Research Report n. 280, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

c. hasLuck, Better off in work or on benefit: income support, work incen-tives and welfare reform in the United Kingdom, paper of the Warwick Institute for Employment Research (IER), 2007.

c. hasLuck, a.e. Green, What works for whom?, Department for Work and Pensions, Research Report n. 407, Corporate Document Services, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

c. hiLBert, Performanzmessung und Anreize in der regionalen Arbeitsver-mittlung: Der Schweizer Ansatz und eine Modellrechnung für Deutschland, 2004, consultabile sul sito www.wz-berlin.de/ars/ab

house of commons-Work and Pensions committee, The Efficiency Sav-ings Programme in Jobcentre Plus, Second report of session 2005-6, march 2006, consultabile sul sito www.publications.parliament.uk

a. ichino, L. feLLi, I sussidi all’occupazione: gli effetti sull’offerta di lavo-ro in CIGS, in Le politiche del lavoro a livello locale: valutazione dei risultati, Agenzia di Trento, 1988.

irs, Servizi al lavoro e rete degli operatori pubblici e privati: la Lombardia nel contesto italiano ed europeo. Azioni di sistema a sostegno del mercato del lavoro e del sistema educativo di istruzione e formazione professionale, la Feni-ce Grafica, Borghetto Lodigiano, 2007.

987

joBcentre PLus, Business Plan 2008-2009, 2008, 10 (consultabile sul sito www.jobcentreplus.gov.uk)

s. johnson, a. nunn, Evaluation of the Job Outcome target pilots: findings from the qualitative study, Department for Work and Pensions, Research Report n. 302, Corporate Document Services, Leeds, 2005, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

e. karaGiannaki, Exploring the effects of integrated benefit systems and active labour market policies: evidence from Jobcentre Plus in the Uk, Centre for Analysis of Social exclusion, «CASE Peper» n. 107, february 2006 (consult-abile sul sito www.sticerd.lse.ac.uk)

e. karaGiannaki, Exploring the Effects of Integrated Benefit Systems and Active Labour Market Policies: Evidence from Jobcentre Plus in the UK, in «Journal of Social Policy», vol. 36, n. 2, 2007, 177 ss.

e. karaGiannaki, Jobcentre Plus or Minus? Exploring the performance of jobcentre plus for non jobseekers, Centre for Analysis of social exclusion, «CASE Paper» n. 97, march 2005, consultabile sul sito www.eprints.lse.ac.uk

j. Le Grand, W. BartLett, Quasi-markets and social Policy, The MacMil-lan Press, London, 1993.

a. LiPPi, La valutazione delle politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2007.

j. makinson, Incentives for Change. Rewarding Performance in «National Government Networks», Public Service Productivity Panel, 2000.

c.f. manski, i. GarfinkeL, Valutazione strutturale e valutazione in forma ridotta, in N. stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Angeli, Mila-no, 2007, 249 ss.

m. mark, r.L. shotLand, Stakeholder-based evaluation and value judge-ments, in «Evaluation Review», 1985, 9, 605 ss.

G. marocchi, Integrazione lavorativa, impresa sociale, sviluppo locale. L’inserimento lavorativo in cooperative sociali di lavoratori svantaggiati come fattore di crescita dell’economia globale, Franco Angeli, Milano, 1999.

a. martini, P. GariBaLdi, L’informazione statistica per il monitoraggio e la valutazione degli interventi di politica del lavoro, in «Economia &Lavoro», 1993, n. 1, 3 ss.

a. martini, G. cais, Controllo (di gestione) e valutazione (delle politiche): un (ennesimo ma non ultimo) tentativo di sistemazione concettuale, in M. Pa-LumBo (a cura di), Valutazione 2000. Esperienze e riflessioni, Primo Annuario dell’Associazione Italiana di Valutazione, Angeli, Milano, 2000, 404 ss.

a. martini, m. sisti, A ciascuno il suo. Cinque modi di intendere la valu-tazione in ambito pubblico, in Informaires, n. 33, dicembre 2007 (anche consul-tabile su www. prova.org).

a. martini, m. sisti, Indicatori o analisi di performance? Implicazioni dell’esperienza statunitense di performance measurement, in «Rivista trimestra-le di scienze dell’amministrazione» n. 2/2002, 31 ss. (consultabile altresì sul si-to www.uniurb.it/nucleovalutazione).

988

a. martini, Valutazione dell’efficacia di interventi pubblici contro la po-vertà: questioni di metodo e studi di casi, Collana della Commissione di indagi-ne sulla povertà e l’emarginazione sociale, Presidenza del Consiglio dei Mini-stri, Roma, 1997, consultabile sul sito www.commissionepoverta-cies.it

m. matto, I servizi pubblici per l’impiego, in D. ciraveGna et al., La valu-tazione delle politiche attive del lavoro: esperienze a confronto, Utet, Torino, 1995, 115 ss.

a. me, La valutazione dell’impatto di politiche sociali, in «Economia & Lavoro», 3-4, 1994, 103 ss.

e. meLLander, Analisi dinamica dell’efficienza negli uffici pubblici svede-si dell’impiego, in M. curtareLLi (a cura di), La valutazione delle politiche per il lavoro, Atti del Convegno tenutosi all’Università La Sapienza di Roma, Facol-tà di Sociologia, il 26 giugno 2000, 2001, 119 ss., consultabile sul sito www.isfol.it

m. morisi, a. LiPPi (a cura di), Manuale di scienze dell’amministrazione. La valutazione, Torino: Giappichelli, 2001.

m. morisi, a. LiPPi, I presupposti storici e teorici. Un’introduzione, in M. morisi, a. LiPPi (a cura di), Manuale di scienze dell’amministrazione. La valu-tazione, Torino: Giappichelli, 2001, 1 ss.

G. moro, La valutazione della formazione in Italia: dal metodo all’utilità, in M. franchi, m. PaLumBo (a cura di), La valutazione delle politiche del lavo-ro e della formazione, Sociologia del lavoro, 77, 2000, 103 ss.

h. mosLey, h. schütz, n. Breyer, Management by Objectives in European Public Employment Services, Discussion paper FS I 01-203, Wissenschaftszen-trum Berlin für Sozialforschung, Berlin, 2001.

d.B. muhLhausen, Do Job Programs work? A Review Article, in «Journal of Labur research», 2005, n. 2, 299 ss.

m. naPoLi, La riforma del Fondo sociale europeo, in «Riv. giur. lav.», 2000, I, 899 ss.

m. naPoLi, Le politiche attive del lavoro al vaglio della valutazione d’im-patto, in M. naPoLi, Lavoro, diritto, mutamento sociale (1997-2001), Giappi-chelli, Torino, 2002, 90 ss.

m. naPoLi, Le politiche del lavoro della valle d’Aosta, in «Jus», settembre-dicembre 2004, 353 ss.

m. naPoLi, Regioni e organizzazione del mercato del lavoro, «Quad. dir. lav. rel. ind.», 1987, 2, 33 ss.

nationaL audit office (nao), Delivering effective services through Perso-nal Advisers, London, novembre 2006, consultabile sul sito www.nao.org.uk

nationaL audit office (nao), The roll-out of the Jobcentre Plus Office Network, 11, consultabile sul sito www. nao.org.uk

a. nunn et al., Job Outcome Target National Evaluation, Department for Work and Pensions, Research Paper n. 462, Corporate Document services, Le-eds, 2007, consultabile sul sito www.dwp.gov.uk

oecd, Innovations in labour Market Policies. The Australian Way, Paris, 2001.

989

oecd, The Public Employment Service in the United States, Paris, 1999.d. oLiva, m. samek Lodovici, La struttura del sistema di monitoraggio, in

a.t.i. ismeri euroPa-irs (a cura di), Servizio di monitoraggio delle politiche del lavoro, della formazione, dell’orientamento e integrazione con la scuola e rile-vazione degli indicatori di impatto occupazionale, Rapporto metodologico, 2002, 79 ss.

f. oriGo, m. samek Lodovici, La valutazione nei servizi di orientamento: una rassegna della letteratura internazionale, G. BotticeLLi, d. PaPareLLa (a cura di), La valutazione dei servizi di orientamemento, Milano: Franco Angeli, 2002, 73 ss.

L. orr, h.s. BLoom et al., Does Training for the Disadvantaged Work? Ev-idence from the National JTPA Study, Urban Institute Press, Washington D.C., 1996.

m. PaLumBo, Il processo di valutazione. Decidere, programmare, valutare, Franco Angeli, Milano, 2001.

m. PaLumBo, Qualità ed efficacia nei servizi: convergenza o coincidenza?, in «Qualità e servizi alla persona, Politiche sociali e servizi», gennaio-giugno 2001.

m. PaLumBo, m. vecchia, La valutazione: teoria ed esperienze, in C. Bez-zi (a cura di), Valutazione 1998, Giada, Narni, 1998, 81 ss.

j. Peck, Workfare states, The Guilford Press, New York-London, 2001.G. PeLLicano, La valutazione delle performance degli one-stop centers ne-

gli Stati Uniti d’America, Paper presentato al Congresso L’istituzionalizzazione della valutazione. Una sfida per lo sviluppo di strumenti e metodi valutativi, Bo-logna 5-11 maggio 2002, 2002, consultabile sul sito www.valutazioneitaliana.it.

G. PeLLicano, Le politiche per l’occupazione negli USA, Spinn-Adapt-Ita-lialavoro, 2005.

m. Persiani, G. Proia (diretto da), La nuova disciplina del welfare: legge 24 dicembre 2007, n.247. Commentario, Cedam, Padova, 2008.

PoLis (a cura di), Il sistema dei servizi pubblici per l’impiego in Emilia-Ro-magna. Valutazione di efficacia e monitoraggio della performance, Agenzia Emilia-Romagna Lavoro, Bologna, 2004.

ch. PoLLit, G. Bouckaert, Public Management Reform. A comparative analysis, Oxford, Oxford University Press, 2000.

Productivity commission, Indipendent Review of Job Network, Inquiry Re-port n. 21, Canberra, 2002, consultabile sul sito www.pc.gov.au

e. raGazzi, Le politiche in favore dei giovani, in D. ciraveGna et al., La va-lutazione delle politiche attive del lavoro: esperienze a confronto, Utet, Torino, 1995, 304 ss.

f. raveLLi, Il coordinamento delle politiche comunitarie per l’occupazione e i suoi strumenti, in «Diritti lavori, mercati», n. 1, 2006, 67 ss.

ray marshaLL center for the study of human resources, Proposed ap-proaches to workforce development performance measurement, Occasional Brief series, vol. 1, n. 1 (consultabile sul sito www.utexas.edu/reseach/cshr)

reGione LomBardia, I centri per l’impiego lombardi: ruolo di cerniera tra

990

i sistemi della formazione, dell’istruzione e del lavoro nell’attivazione dell’ap-proccio preventivo e analisi dei servizi erogati in favore dei soggetti svantaggia-ti –Valutazione indipendente del POR Ob. 3 della Regione Lombardia per il pe-riodo 2000-2006, gennaio 2005.

L. resmini, L’efficienza e l’efficacia del settore pubblico: alcuni metodi di analisi, in «Economia e diritto del terziario», n. 1, 1993, 93 ss.

e. rettore, u. triveLLato, Come disegnare e valutare le politiche attive del lavoro, in «Il Mulino», 1999, 48, 891 ss.

riksrevisionen, Den offentliga arbetsförmedlingen, Stockholm, RiR 2006:22, consultato su www.riksrevisionen.se

P.h. rossi, h.e. freeman, Evaluation. A Systematic Approach, 5 ed., Sage, Newbury Parc, Ca, 1993.

m. samek Lodovici, La valutazione delle politiche del lavoro: l’Italia nel contesto internazionale, in «Economia e Lavoro», n. 1, 1995.

m. samek Lodovici, Politiche attive e flessibilità del lavoro in Lombardia: alcuni spunti di riflessione per l’intervento regionale alla luce dell’esperienza europea, Paper IRS, 2006.

m. scriven, Evaluation Thesaurus, Sage, Newbury Park, Ca, 1991.P. sestito, Fonti statistiche per il monitoraggio delle politiche del lavoro, in

G. antoneLLi, m. nosveLLi (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per una «nuova economia», CEIS, Il Mulino, Bologna, 2002, 35 ss.

sestito-Pirrone, Disoccupati in Italia. Tra Stato, Regioni e cacciatori di teste, Il Mulino, Bologna, 2006.

B. sianesi, Essays on the evaluation of social programs and educational qualifications, IFAU, Uppsala, Dissertation series, 2002:3, consultabile sul sito www.ifau.se

B. sianesi, Swedish Active Labour Market Programmes in the 1990s: Over-all Effectiveness and Differential Performance, in «Swedish Economic Policy Review», 2001, 8, 2, 133 ss.

sociaL PoLicy research associates (sPr), The Workforce Investment Act after five years: results from the National Evaluation Implementation of WIA, Report prepared as part of the National Evaluation of the implementation of WIA, June 2004, consultabile sul sito www.doleta.gov/reports

e. soL, m. WesterWeLd (eds.), Contractualism in Employment Services. A New Form of Welfare Governance, Kluwer Law International, The Hague, 2005.

s. sPattini, Il governo del mercato del lavoro tra controllo pubblico e neo-contrattualismo. Analisi storico-comparata dei sistemi di regolazione e governo attivo del mercato, Giuffrè, Milano, 2008.

i. sPeziaLi, Sistemi di monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro, in aGenzia deL Lavoro deLLa Provincia di trento, Analisi e proposte per la po-litica provinciale del lavoro. Linee della Commissione Provinciale per l’impie-go per l’elaborazione del documento degli interventi di politica del lavoro 2002-2004, Trento, 2001, 141 ss.

991

n. stame (a cura di), Classici della valutazione, Franco Angeli, Milano, 2007.n. stame, Introduzione, in N. stame, L’esperienza della valutazione, Seam,

Roma, XI ss.n. stame, L’esperienza della valutazione, Seam, Roma.L. struyven, G. steurs, Design and redesign of a quasi market for the re-

integration of jobseekers: empirical evidence from Australia and the Nether-lands, in «Journal of European Social Policy», 2005, 15, 211 ss.

e. suchman, Evaluative research, Russel Sage Foundation, New York, 1967.

L. tronti, Il benchmarking dei mercati del lavoro. Una sfida per le regioni italiane?, in G. antoneLLi, m. nosveLLi (a cura di), Monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro per una «nuova economia», CEIS, Il Mulino, Bologna, 2002, 71 ss.

a. tursi, Disoccupazione e lavori socialmente utili. Le esperienze di Stati Uniti, Germania e Italia, Franco Angeli, Milano, 1996.

P.a. varesi, I servizi per l’impiego: un nuovo ruolo delle strutture pubbli-che nel mercato del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1999.

P.a. varesi, Regione Lombardia: la legge di politica del lavoro, Diritto e pratica del lavoro, Inserto n. 7, 2007.

varesi, Regioni e mercato del lavoro. Il quadro istituzionale e normativo, Franco Angeli, Milano, 1986.

G. vecchi, La valutazione delle politiche pubbliche, in M. morisi, a. LiPPi, Manuale di scienza dell’amministrazione. La valutazione, Giappichelli, Torino, 2001, 231 ss.

r. WaLker, m. Wiseman, Making welfare work: UK activation policies under New Labour, in «International Social Security Review», vol. 56, 1/2003, 3 ss.

k. WaLsh, Public Services and Market Mechanisms. Competition, Con-tracting and the New Public Management, The MacMillan Press, London, 1995.

o. WiLLiamson, The Economic Institutions of Capitalism, The Free Press, New York, 1985.

e. zucchetti, Le politiche del lavoro a livello regionale e locale: il quadro in cambiamento e le esigenze di valutazione, in M. franchi, m. PaLumBo (a cu-ra di), La valutazione delle politiche del lavoro e della formazione, in «Sociolo-gia del lavoro», 2000, n. 77, 71 ss.

992

993

ANNA ZILLIDottore di ricerca in Diritto del lavoro,

Professore a contratto nell’Università degli Studi di Udine

IL LAVORO PUBBLICO LOCALE TRA STATO E REGIONI

sommario: 1. Il lavoro pubblico locale: una materia “in cerca di autore”. – 2. Il lavoro al-le dipendenze di Regioni ed autonomie locali nella l. n. 93/1983. – 2.1. (segue) … e nel-la privatizzazione (d.lgs. n. 29/1993). – 3. La riforma costituzionale del 2001 e il suo im-patto sul lavoro pubblico locale. – 3.1. La prima tesi: la disciplina del lavoro pubblico lo-cale come diritto del lavoro tout court, ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost. – 3.2. La se-conda tesi: il lavoro pubblico locale come organizzazione delle amministrazioni, ex art. 117, comma 4, Cost. – 4. La funzione dirimente della Corte Costituzionale nel conflit-to tra Stato e Regioni sul lavoro pubblico locale. – 5. La ricomposizione del conflitto: il difficile cammino della «leale collaborazione» tra Stato e Regioni, ex art. 120 Cost. – 6. Osservazioni conclusive.

1. Il lavoro pubblico locale: una materia “in cerca di autore”

Il tema del miglioramento della qualità delle pubbliche amministra-zioni, attraverso la loro razionale e profonda riorganizzazione, è di nuovo al centro del dibattito politico: esso, infatti, è affrontato sia congiunta-mente tra il (vecchio) Governo di centro-sinistra (Prodi secondo) e le tre Confederazioni CGIL, CISL e UIL con il «Memorandum d’intesa su la-voro pubblico e riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» del 18 gennaio 2007 1, sia unilateralmente dal (nuovo) Esecutivo di centro-de-stra (Berlusconi quarto), che il 16 giugno 2008 ha approvato il d.d.l. «De-lega al Governo per ottimizzare la produttività del lavoro pubblico» 2.

Entrambi i documenti 3 evidenziano la necessità di un coinvolgimen-to delle Regioni ed autonomie locali nella rifondazione della “macchina amministrativa”, nella consapevolezza che, a seguito della riforma di ti-po neoregionalista o federalista 4 del Titolo V, Parte II della Costituzione,

1 Il Memorandum è reperibile sul sito www.fmb.unimore.it. 2 Il d.d.l. di iniziativa governativa «Delega al Governo per ottimizzare la produttività del

lavoro pubblico» è reperibile sul sito www.governo.it.3 Per il contenuto dei quali si rinvia alle Osservazioni conclusive (§ 6) del presente lavoro.4 B. caravita di toritto (in Tra federalismo e regionalismo: la Costituzione italiana do-

po le riforme del Titolo V, in aa.vv., Federalismo e regionalismo in Italia dopo la riforma del Titolo V, Roma, 2004, 5 ss., Pubblicazione finale del progetto “Scenari del Federalismo” coor-

994

attuata con la legge costituzionale n. 3/2001, nessuna trasformazione del-la pubblica amministrazione può prescindere dall’azione della “perife-ria” della Repubblica, sul doppio versante dell’organizzazione e della ge-stione del proprio personale.

Non sono però né chiari né ben definiti il ruolo e l’importanza da ri-conoscere e garantire alle Regioni ed autonomie locali nella riorganizza-zione degli apparati pubblici: ciò indubbiamente deriva (anche) dalla mancanza di riferimenti in merito alle conseguenze del nuovo riparto di competenze legislative sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche ammi-nistrazioni, ed in particolare sul pubblico impiego locale, inteso come in-clusivo dei lavoratori alle dipendenze sia delle Regioni, sia delle autono-mie locali.

Se, infatti, la discussione sulla collocazione del genus “diritto del la-voro” ha finito per rappresentare un caso emblematico delle difficoltà sorte in sede di traduzione in pratica del nuovo riparto di competenze ex art. 117 Cost., la species del lavoro pubblico costituisce forse il caso-li-mite, in cui vengono ad intricarsi non una, ma due storiche riforme: la privatizzazione, o contrattualizzazione 5, del lavoro pubblico, avviata con

dinato da M. covino per il Formez) dà conto delle diverse opinioni sul “tipo” di decentramen-to (federalista ovvero regionalista) attuato con la l. cost. n. 3/2001. Si v. amplius le approfon-dite analisi di S. BartoLe, Devolution o federalismo? O soltanto regionalismo?, in «Le Regio-ni», 2002, 1233 ss. e. G. roLLa, Incertezze relative al modello di regionalismo introdotto dal-la legge costituzionale 3/2001, in «Quad. reg.», 2004, 627 ss. Per gli orientamenti emersi ante rifoma costituzionale si rinvia a F. Bencardino (a cura di), Federalismo e regionalismo in Ita-lia: prospettive di riassetto politico-ammnistrativo, Napoli, 1997.

5 La querelle su come denominare la riforma (se chiamarla “contrattualizzazione” ovve-ro “privatizzazione” del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) è richiamata da f. carinci [in Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa, in F. carinci e L. zoPPoLi (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario, Tomo I, Torino, 2004, I, spec. XLVI] che evidenzia come, in prima battuta, risultò privilegiata la prima definzione, lanciata e sostenuta dal sindacalismo confederale, di modo che «venne fatto cadere l’accento non solo e non tanto sul contratto individuale, quale fonte costitutiva, ma anche e soprattutto sul contratto collettivo (…) con un’esplicita e netta discontinuità rispetto alla legge-quadro». La dizione «più fortunata» (id., L, corsivo mio) di “privatizzazione” è suc-cessiva, ma non diminuisce lo sbilanciamento della riforma a favore della contrattazione col-lettiva. M. rusciano [in Relazione di sintesi, in G. de martin (a cura di), Il nuovo assetto del lavoro pubblico, Milano 1999, 216] ritiene che si debba parlare di “contrattualizzazione”, in-vece di utilizzare il termine “privatizzazione”, ritenuto «fuorviante, sia sul piano per così dire culturale, sia sul piano più strettamente tecnico-giuridico», ed appropriato soltanto allorché si parli della «vendita a privati di imprese pubbliche, di banche, ecc.» ovvero del «mutamento strutturale (da pubblica a privata) di aziende che gestiscono servizi pubblici». Avvalersi dell’espressione “contrattualizzazione” pare idoneo ad evitare l’errore di credere che la rifor-ma del rapporto di pubblico impiego abbia mutato la natura giuridica dei rapporti, che riman-

995

la l. delega n. 421/1992 e «conclusa» 6 con il d.lgs. 31 marzo 2001, n. 165 (e succ. modd.), e la modifica costituzionale successiva soltanto di pochi mesi.

Le grandi riforme che hanno modificato radicalmente le competen-ze, l’organizzazione ed il rapporto di lavoro nelle Regioni ed autonomie locali non sono state però in alcun modo coordinate tra loro: infatti, quel-la del pubblico impiego (anche locale) attraverso l’«integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato» 7 non ha su-bito alcuna esplicita revisione da parte della l. cost. n. 3/2001. Nonostan-te il mutato contesto, i modelli regolativi del lavoro alle dipendenze di Regioni ed autonomie locali non sono stati messi in discussione e le re-gole del lavoro pubblico locale continuano ad essere le medesime dise-gnate per una Repubblica assai diversa da quella attuale, caratterizzata da rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie locali improntati ad una preva-lenza del primo sulle seconde. Il principio della supremazia dello Stato rispetto a quello della pariordinazione tra Stato e Regioni ha permesso al-lo Stato di incidere profondamente sulla struttura organizzativa delle Re-gioni ed autonomie locali, che debbono tener conto dei vincoli imposti “dall’esterno” nell’utilizzo delle risorse umane per esplicare le proprie funzioni e realizzare le assegnate competenze, nonché di imporre precisi modelli regolativi per il lavoro pubblico alle dipendenze delle stesse 8.

Anche la riforma delle relazioni sindacali nel lavoro pubblico è sta-ta di stampo “centralizzato”, modellata su quella realizzata con il Proto-collo Ciampi del 1993 9, seppur adattata alle peculiarità del settore pub-blico. Ne è risultato un sistema regolato dalla legge, accentrato, uguale in

gono “pubblici”, pur se ricondotti ad una «relazione paritaria e antagonistica (anziché autori-taria e protezionistica)» fra pubblica amministrazione e singolo lavoratore. Nella presente trat-tazione, così come avvenuto sino ad oggi in dottrina, i due termini sono utilizzati indifferente-mente come sinonimi, a fronte delle precisazioni cennate.

6 Il riferimento è all’espressione usata da f. carinci, Una riforma “conclusa”. Fra nor-ma scritta e prassi applicativa, cit., I.

7 Art. 11, comma 4, lett. a), l. n. 59/1997. La scelta di privilegiare questa espressione, an-ziché utilizzare i termini correnti quali “contrattualizzazione” e/o “privatizzazione” è fatta pro-pria da E. aLes, Contratti di lavoro e pubbliche amministrazioni, Torino, 2007, 1.

8 Circa il tema dei vincoli imposti alle Regioni quali “datori di lavoro” sia consentito rin-viare a A. ziLLi, Modelli negoziali per il lavoro pubblico locale, Udine, 2008.

9 Sul Protocollo d’intesa tra Governo e sindacati del 23 luglio 1993, c.d. Protocollo Ciampi, si v. amplius C. deLL’arinGa e S. neGreLLi (a cura di), Le relazioni industriali dopo il 1993. Un decennio di studi e ricerche, Milano, 2005. Sull’evoluzione della concertazione c.d. sociale F. carinci, Riparlando di concertazione, in aa.vv., Diritto del lavoro. I nuovi pro-blemi. L’omaggio dell’accademia a Mattia Persiani, Padova, 2005. Per l’attuazione nel pub-blico impiego si rinvia a m. d’antona, L’accordo del 23 luglio 1993 nel settore pubblico, in

996

tutti i Comparti di contrattazione, in cui le amministrazioni sono rappre-sentate nella negoziazione da un unitario agente tecnico e autonomo (ARAN) il quale opera attuando le indicazioni provenienti dal Comitato di settore (imago degli enti datori di lavoro), variamente composto a se-conda delle amministrazioni coinvolte, ma in cui la maggioranza dei membri è espressione del Governo statale. Da tale sistema sfuggono sol-tanto le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, la cui discre-zionalità nel regolare la materia è stata però sino ad oggi limitata dalle di-sposizioni che pongono i principi della contrattualizzazione quali «nor-me fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica» cui at-tenersi nell’esercizio delle proprie prerogative (art. 1, comma 3, d.lgs. n. 165/2001).

Il sistema centralistico sopra descritto vale anche per le Regioni ed autonomie locali, unite nell’omonimo Comparto nazionale: tali previsioni, costruite quando le autonomie si trovavano in posizione subordinata ri-spetto allo Stato [art. 114 Cost., versione originale 10], non sono state mo-dificate né quando la “periferia” è divenuta destinataria di maggiori fun-zioni ed autonomia con il c.d. federalismo amministrativo a Costituzione invariata (introdotto con le ll. nn. 59/1997 e 127/1997, c.d. leggi Bassani-ni), né, successivamente, con la l. cost. n. 3/2001. In modo dunque inop-portuno, le medesime regole vigono anche a fronte di potestà (legislative, regolamentari) ed autonomia statutaria tali da far ritenere il complessivo peso costituzionale di Regioni ed enti locali assolutamente nuovo e mag-giore rispetto al passato, nel segno del «principio di parità tra i diversi li-velli di governo» 11 sancito dal nuovo art. 114 Cost. 12.

Il pubblico impiego vive tutte le tensioni ereditate dalle difficoltà politico-istituzionali del recente passato, reo di aver determinato quei «nodi irrisolti» che oggi si ripropongono amplificati nell’approccio con il lavoro pubblico locale 13.

C. de martin (a cura di), Il nuovo assetto del lavoro pubblico. Bilanci della prima tornata contrattuale, nodi problematici, prospettive, Milano, 1999, 309.

10 Il testo originario dell’art. 114 Cost. recitava che «La Repubblica si riparte in Regio-ni, Province e Comuni» (corsivo mio).

11 Così il parere del CNEL, Osservazioni e proposte. La riforma del Titolo V della Costi-tuzione, Assemblea del 24 gennaio 2002, è riportato integralmente nell’appendice a M.T. ca-rinci (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano, 2003, 411.

12 Sulla parità (assoluta o relativa) tra Stato, Regioni ed autonomie locali si v. R. tosi, Il sistema delle fonti regionali, in «Il dir. della Regione», 2002, 766.

13 L. zoPPoLi [in Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, in F. carinci e L. zoPPoLi (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazio-

997

A causa del mancato coordinamento tra la prima privatizzazione (1993) e il c.d. “federalismo” amministrativo (1997) già si era determi-nata un’incongruenza tra il modello negoziale del pubblico impiego, for-temente incentrato sul livello nazionale e poco incline a concedere spazi significativi alla sede decentrata, e la maggiore autonomia (allora non le-gislativa, ma amministrativa) riconosciuta alle Regioni. Nelle riforme ci-tate non vi era alcuna apertura in favore di una vera regolamentazione “periferica” del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Regioni ed auto-nomie locali, cioè proprio quelle amministrazioni interessate dal cambia-mento, affidandosi alla contrattazione di secondo livello soltanto alcuni aspetti marginali, comunque vincolati dalle scelte (e dalla dotazione fi-nanziaria) stabilite a livello centrale.

Si assiste oggi ad un lento e faticoso processo di aggiustamento di nuovi e difficili equilibri: in primis, tra il “centro” e la “periferia” della Repubblica; in secundis, tra le diverse “periferie”, o tra i vari livelli delle stesse (si pensi al dibattito sulle ragioni della “specialità” delle autono-mie differenziate, nonché alla crisi del rapporto tra le Regioni e gli enti locali). Ma, usando una metafora, a “quadri” nuovi, si è cercato di adat-tare “cornici” vecchie, come già accaduto sia nel 1997, sia nel 2001.

Le forti disarmonie che hanno investito le amministrazioni e, conse-guentemente, il personale pubblico delle Regioni ed autonomie locali (che più degli altri ha vissuto il “work in progress” del cambiamento co-stituzionale) riflettono la non conformità 14 delle regole di gestione delle risorse umane pensate per un modello amministrativo e costituzionale con lo Stato al “centro” all’odierna «Repubblica delle autonomie» 15, ca-ratterizzata dalle sue forze centripete, quali le Regioni e gli enti locali,

ni. Commentario, Tomo I, Torino, 2004, 54] osserva come l’elaborazione delle c.d. leggi Bas-sanini (ll. nn. 59 e 127/1997) si sia intrecciata con i lavori della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali e che da questa, legittimamente, ci si attendeva il riassetto del Titolo V, Parte II della Costituzione in senso più fortemente regionalista o federalista. Il naufragio della Commissione nel maggio 1998 ha lasciato drammaticamente incompiuto il disegno neo-regionalista: le conseguenze più evidenti sono rappresentate dal mancato completamento del-la riforma del pubblico impiego, che pure sarebbe stato possibile attraverso il d.lgs. n. 387/1998, ultimo correttivo al d.lgs. n. 29/1993, e che, al contrario, neppure si accosta alle problematiche di attuazione dell’art. 11, comma 4, l. n. 59/1997 per coordinare la c.d. prima privatizzazione con la c.d. seconda.

14 Particolarmente critica è l’opinione di G. d’auria, Il lavoro pubblico dopo il nuovo Titolo V (Parte II) della Costituzione, in «Lav. pubbl. amm.», 2001, 753 circa la compatibilità dei meccanismi di controllo del Governo statale oggi previsti sull’autonomia di Regioni ed en-ti locali con il modificato assetto costituzionale.

15 L’espressione è ripresa da T. GroPPi e M. oLivetti (a cura di), La Repubblica delle au-tonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2001.

998

che rivendicano i propri spazi anche come datori di lavoro del proprio personale, al fine di poter operare una (ri)organizzazione degli apparati burocratici che, necessariamente, costituisce il punto di partenza per l’esplicazione delle nuove funzioni acquisite a seguito della riforma co-stituzionale.

Al fine di individuare l’esatta collocazione della materia del lavoro pubblico locale (cioè dell’ “autore” istituzionale che l’ambito va cercan-do) tra Stato e Regioni, si procede alla trattazione degli argomenti secon-do la sequenza cronologica degli eventi, trattando prima la riforma del pubblico impiego e poi la riforma costituzionale, per dar conto dell’im-patto di quest’ultima sull’humus del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

2. Il lavoro alle dipendenze di Regioni ed autonomie locali nella l. n. 93/1983

Il tema del riparto tra Stato e Regioni della competenza sul pubblico impiego non statale riguardò inizialmente il solo lavoro pubblico regiona-le: il rapporto di impiego negli enti locali era infatti disciplinato attraverso i regolamenti delle amministrazioni stesse, suscettibili di recepire gli even-tuali accordi collettivi intercorsi tra il Governo centrale ed i sindacati (art. 220, l. n. 384/1934, c.d. testo unico dei comuni e delle province) 16.

La quaestio sull’individuazione delle competenze in materia di im-piego pubblico locale affonda le proprie radici in un momento antece-dente non solo la riforma costituzionale del 2001, ma addirittura la c.d. privatizzazione, emergendo sin dal progetto di riforma sfociato nella l. n. 93/1983 (c.d. legge quadro sul pubblico impiego).

Parte della dottrina 17 si era interrogata sulla legittimità costituziona-le di un procedimento di negoziazione centralizzato, in cui la disciplina del rapporto di pubblico impiego regionale doveva attenersi ai principi fondamentali stabiliti con legge statale ma essere successivamente inse-rito in disposizioni di legge regionale. Ciò sembrava contrastare con il ri-parto di competenze stabilito dall’originario art. 117 Cost., che demanda-va alla potestà legislativa (secondaria) delle Regioni la disciplina dell’«or-dinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regio-

16 s. BartoLe, f. mastraGostino e L. vandeLLi, Le autonomie territoriali, Bologna, 1991, 440 e, spec. 445 per ampi riferimenti bibliografici.

17 A. romano, Pubblico impiego e contrattazione collettiva: aspetti pubblicistici, in «Giust. civ.», 1980, 851.

999

ne» da esercitarsi «nei limiti dei principî fondamentali stabiliti dalle leg-gi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’in-teresse nazionale e con quello di altre Regioni» (art. 117, comma 1, Cost.). Poiché il rapporto di pubblico impiego dei dipendenti regionali ante privatizzazione veniva ricondotto alla materia dell’ordinamento de-gli uffici e degli enti datori di lavoro, si poneva all’attenzione degli inter-preti la criticità rappresentata dalla vincolatività per le Regioni di una de-terminazione centralizzata e negoziale degli aspetti economici e norma-tivi del rapporto di impiego del personale, che avrebbe impedito alla leg-ge regionale di disporre trattamenti più favorevoli per i lavoratori regio-nali rispetto a quanto già stabilito a livello nazionale.

Questa preclusione era vista come «garanzia di effettività degli esiti della contrattazione nazionale» e perciò idonea ad «acquistare quel carat-tere di principio fondamentale» dal quale far derivare «il suo valore vin-colante per il legislatore regionale»; al contempo, però, si sottolineava come il fatto di privare le Regioni di ogni margine di scelta sulla regola-mentazione del proprio personale finisse per svilire l’autonomia che già la Costituzione riconosceva a tali enti, sacrificata ad «esigenze economi-che congiunturali, di carattere antinflazionistico, e per il contenimento della spesa pubblica» 18.

La traduzione dei principi cennati nel testo della l. n. 93/1983 19 spinse le Regioni (sia a Statuto ordinario sia speciale) a ricorrere avanti alla Corte Costituzionale contro il modello di contrattazione centralizza-ta previsto dalla legge, ritenuto invasivo della competenza regionale in materia di organizzazione dei pubblici uffici.

La risposta della Consulta giunse con la sentenza n. 219/1984 20 che prestò grande attenzione alle ragioni dell’autonomia. Pur salvando l’im-pianto complessivo della legge quadro, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 10, l. n. 93/1983, ove si preve-deva che «al fine del rispetto dei principi della presente legge la discipli-na contenuta nell’accordo è approvata con provvedimento regionale in

18 A. romano, op. cit., 860, 569.19 Sulla quale si v., per gli snodi critici relativi al pubblico impiego regionale: M. ruscia-

no e T. treu (a cura di), La legge quadro sul pubblico impiego, Padova, 1985; G. Pastori, Ver-so la legge quadro sul pubblico impiego: i problemi della contrattazione collettiva, in Atti del XXV convegno di Scienza dell’amministrazione di Varenna (CO), Milano, 1980, 289.; M.S. Giannini, Considerazioni sulla legge quadro per il pubblico impiego, in «Pol. dir.», 1983, 529.; A. orsi BattaGLini ed aLtri, Accordi sindacali e legge quadro sul pubblico impiego dalle esperienze di settore alla riforma, Milano, 1984.

20 C. Cost., n. 219/1984, in «Giust. civ.», 1984, 1490. e con nota di A. romano in «Giust. civ.», 1985, 72.

1000

conformità ai singoli ordinamenti». Nella cennata decisione si riconob-be, infatti, che la norma non lasciava alcuno spazio all’autonomia regio-nale, a tal punto compressa da tradursi in una «perfetta corrispondenza delle leggi regionali al contenuto dell’accordo. Il che non può essere con-siderato conforme all’art. 117 Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potestà di emanare nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leg-gi dello Stato norme legislative relative agli ordinamenti degli uffici».

La Corte ebbe altresì ad affermare che la disciplina del rapporto di pubblico impiego tramite accordi (art. 3, l. n. 93/1983) doveva essere conciliato col principio secondo cui nelle Regioni l’ordinamento degli uffici e del personale è regolamentato con legge, ex art. 97 Cost. e art. 2, l. n. 93/1983. La conseguenza di tale ragionamento è che alla legge re-gionale non spetta il mero recepimento dell’accordo negoziale, ma il suo adattamento alle peculiarità dell’ordinamento e alle disponibilità finan-ziarie della Regione interessata, fermo però il divieto di concedere tratta-menti ulteriori rispetto agli accordi nazionali che comportino oneri di bi-lancio (art. 11, l. n. 93/1983) 21.

Il dictum del giudice delle leggi venne recepito dal Parlamento che, con la l. n. 426/1985 22 modificativa della legge quadro del 1983, ammi-se la possibilità per i provvedimenti regionali di disporre «i necessari adeguamenti alle peculiarità dell’ordinamento degli uffici regionali e de-gli enti pubblici non economici dipendenti dalle Regioni entro il limite delle disponibilità finanziarie all’uopo stanziate nel bilancio regionale» (art. 10, l. n. 93/1983, come modificata dall’art. 2, l. 426/1985).

L’ampiezza del margine di incidenza concesso alle Regioni rispetto agli accordi nazionali venne chiarito dalle pronunce costituzionali nn. 290/1984 e 72/1985 23, rese su due ricorsi del Governo avverso leggi re-gionali in materia di pubblico impiego regionale (rispettivamente, delle Regioni Veneto e Lombardia).

Con la prima sentenza la Consulta rigettò il ricorso statale, dichia-rando la legittimità costituzionale della legge regionale che introduceva un’ipotesi di inquadramento non prevista dal vigente contratto collettivo

21 Secondo V. caianieLLo, Legge quadro sul pubblico impiego: contrasti reali e contrasti apparenti nei rapporti tra Stato e Regioni, in «Foro it.», 1985, 74, il rigetto dei ricorsi regio-nali volti ad eliminare i “tetti” massimi di retribuzione previsti dagli accordi si è reso necessa-rio per evitare lo scardinamento dell’intero sistema, fondato sul contenimento delle dinamiche retributive all’interno della fase negoziale.

22 L’iter di formazione della legge è dettagliatamente descritto da A. Bardusco, Vicende costituzionali del pubblico impiego regionale, in «Quad. reg.», 1986, 395, spec. 406.

23 C. Cost., n. 290/1984; C. Cost., n. 72/1985, entrambe considerate da A. Bardusco, op. ult. cit., 408.

1001

nazionale, nonché un trattamento economico migliorativo rispetto a quel-lo negoziato. La Corte, respingendo le censure del Governo, ritenne che l’intervento regionale fosse ascrivibile alle competenze in materia di adattamento della contrattazione nazionale attribuite al legislatore regio-nale (ex art. 11, l. n. 93/1983), prerogativa che in primis incide sull’in-quadramento giuridico del personale e solo indirettamente sul trattamen-to economico. Venne, dunque, considerato conforme alle legge quadro un inquadramento diverso comportante emolumenti differenti ed anche migliori per il personale regionale.

Anche nel giudizio conclusosi con la seconda sentenza citata il Go-verno risultò soccombente. La disposizione regionale (in specie, di un compenso per il lavoro straordinario dei dipendenti della Regione Lom-bardia, migliorativo rispetto a quanto previsto nel CCNL) fu fatta salva in quanto adattamento dell’accordo sindacale alle peculiarità locali nell’ambito delle disponibilità di bilancio. In questo caso, la Corte Costi-tuzionale si dimostrò attenta sia al rispetto dell’autonomia regionale che alla necessità (già evidente con la legge quadro n. 93/1983) di contenere la spesa per il personale entro parametri certi.

2.1. (segue) … e nella privatizzazione (d.lgs. n. 29/1993)

Sebbene il modello della legge quadro n. 93/1983 abbia rappresen-tato soltanto una tappa intermedia nella riforma del pubblico impiego, le preoccupazioni e considerazioni emerse all’entrata in vigore della legge quadro si riproposero anche al momento di realizzare la progettata con-trattualizzazione (o privatizzazione) del pubblico impiego, acutizzate pe-rò dalla forza (di legge) del contratto collettivo nazionale anche nei con-fronti delle Regioni, contemporaneamente private della possibilità di adattarlo ai propri ordinamenti attraverso il filtro (legittimato dalla Con-sulta) della legge regionale.

Sin dai primi commenti circa gli effetti sul lavoro alle dipendenze delle Regioni ed autonomie locali del d.lgs. n. 29/1993, emanato in attua-zione della l. delega n. 421/1992 (c.d. prima privatizzazione) e poi modi-ficato in seguito alla l. n. 59/1997 (c.d. seconda privatizzazione) 24, emer-

24 In forza della l. n. 421 del 1992 (art. 1, comma 2) è stato emanato il d.lgs n. 29/1993, successivamente modificato dai dd.lgs. nn. 247, 470 e n. 546 del 1993 (c.d. prima privatizza-zione). Su tale decreto è intervenuta la l. n. 59 del 1997 (art. 11, comma 4), in attuazione del-la quale sono stati emanati altri tre decreti legislativi: il d.lgs. n. 396 del 1997 ed i dd.lgs. n. 80 e n. 387 del 1998 (la c.d. seconda privatizzazione). Da ultimo, il d.lgs. n.165 del 2001 (emana-

1002

sero due orientamenti tra loro discordanti, che perdurarono anche nelle successive versioni della legge sino alla vigilia della riforma costituzio-nale.

Secondo un primo orientamento dottrinale, la potestà legislativa re-gionale sul personale delle Regioni ed autonomie locali usciva fortemen-te ridimensionata dalla contrattualizzazione, dovendosi ritenere assorbi-ta nella materia del diritto del lavoro di esclusiva competenza statale 25; sicché, le Regioni avrebbero dovuto limitare il proprio intervento all’or-ganizzazione amministrativa dei propri uffici, definendone funzioni e competenze, senza poter intervenire sul trattamento economico-giuridi-co del personale.

Secondo una diversa lettura, viceversa, mettendo l’accento sull’au-tonomia delle Regioni in tema di «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi», quale materia di competenza regionale secondaria sog-getta ai limiti dei «principî fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato» e dell’ «interesse nazionale e… di altre Regioni» (art. 117, comma 1, Cost.), si sarebbe potuto creare uno spazio per la legge regionale in ma-teria di lavoro pubblico 26.

I due orientamenti cennati sono separati da una grande distanza, cau-sata dalla grande difficoltà di operare una ripartizione netta tra l’organiz-

to sulla base dell’art. 1, comma 8, l. n. 340 del 2000) ha accolto il complesso dei decreti legi-slativi citati, sostituendo integralmente il d.lgs. n. 29 del 1993 ed assumendo il ruolo ed il si-gnificato di “testo unico” del rapporto di lavoro privatizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Sul d.lgs. n. 165/2001 si sono successivamente innestate, attraverso la tecni-ca della “novellazione”, la l. n. 145 del 2002 in materia di dirigenza ed altre norme, special-mente di legge finanziaria. Come osserva F. carinci [in Una riforma conclusa, Fra norma scritta e prassi applicativa, in f. carinci e L. zoPPoLi (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche am-ministrazioni. Commentario, Tomo I, Torino, 2004, XLVI] il d.lgs. n. 165/2001 era stato pen-sato quale corpus normativo «destinato a razionalizzare e a rafforzare il tutto» e poi risultato invece «del tutto compilativo» e limitato alla rinumerazione del d.lgs. n. 29/1993, con poche modifiche.

25 In questo senso S. Battini, Autonomia regionale e autonomia negoziale nella discipli-na del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, in «Le Regioni», 1996, 689; M.T. carinci, Il contratto collettivo del settore pubblico tra riserva di regime pubblicistico e riserva di leg-ge, in «Riv. it. dir. lav.», 1994, I, 557.

26 L. zoPPoLi, Neoregionalismo e contrattualizzazione del lavoro pubblico, in F. carinci e M. d’antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche dal d.lgs. 29/1993 ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998. Commentario, Milano, 2000, To-mo I, 75; A. Loffredo, La legislazione regionale in materia di dirigenza ed ordinamento degli uffici, in G. LiseLLa e L. zoPPoLi (a cura di), Nuovi strumenti giuridici nelle autonomie locali, Napoli, 2000, 207; V. BaLdini, Sub art. 1, comma 3, in a. corPaci, m. rusciano e L. zoPPoLi (a cura di), La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle ammi-nistrazioni pubbliche, in «Le nuove leggi civili commentate», 1999, 5-6, 1016.

1003

zazione degli uffici ed il lavoro pubblico. Infatti, se, da un lato, la disci-plina del rapporto organico di ufficio compete alla legge ed ai regola-menti degli enti, mentre quella del rapporto di lavoro spetta, oltre che al-la legge, al contratto collettivo (nazionale e integrativo-decentrato), dall’altro, il legislatore ha conferito ad ogni amministrazione la compe-tenza ad adottare sia gli atti di organizzazione, sia quanto necessario alla gestione dei rapporto di lavoro «con la capacità e i poteri del privato da-tore di lavoro» (art. 5, d.lgs. n. 165/2001), cioè con determinazioni uni-laterali che incidono sulle posizioni giuridiche soggettive dei lavoratori.

Nel modello di contrattualizzazione adottato, i rapporti tra la norma-tiva statale e quella regionale sono formalmente risolti attraverso la qua-lificazione delle disposizioni del d.lgs. n. 29/1993 come vincolo per il le-gislatore regionale, diversamente declinata a seconda del tipo di Regione (e Provincia autonoma). Si impone, infatti, una coazione apparentemen-te più debole alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome, per le quali il d.lgs. n. 29/1993 rappresenta un insieme di «norme fonda-mentali di riforma economico-sociale»; a cui si contrappone un’imposi-zione a prima vista più forte per le Regioni a Statuto ordinario, per le quali le disposizioni del d.lgs. n. 29/1993 costituiscono «principi fonda-mentali ai sensi dell’art. 117 Cost.» cui attenersi «tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti» (art. 1, comma 3, d.lgs. n. 165/2001, già art. 1, comma 3, d.lgs. n. 29/1993).

Le Regioni, dunque, non sarebbero state vincolate alla legislazione statale di riforma del pubblico impiego, ma soltanto alle «norme fonda-mentali» ovvero ai «principi» da quella espressi, con piena salvaguardia della propria autonomia organizzativa 27. Ma la traduzione della “grande riforma” del pubblico impiego nella realtà “materiale” 28 è stata però ben diversa. Da un lato, le previsioni del d.lgs. n. 29/1993 (ed oggi quelle ri-fluite nel d.lgs. n. 165/2001) si sono rivelate assai più penetranti dei me-ri “principi” che avrebbero dovuto essere, imponendosi invece alle Re-gioni il percorso standardizzato immaginato unitariamente per tutto il pubblico impiego; dall’altro, le Regioni non hanno reagito all’esproprio

27 Sul punto si v. diffusamente G. roLLa, L’autonomia delle Regioni in materia di orga-nizzazione e di disciplina del personale: profili costituzionali del d.lgs. 29/1993, in «Le Regio-ni» 1993, 660 e ss., qui spec. 671.

28 Richiamando l’insegnamento di C. mortati, La Costituzione in senso materiale, Mi-lano, 1940, parrebbe potersi identificare (in assonanza con l’ermeneutica della Legge fonda-mentale dello Stato) una riforma del pubblico impiego “formale” cui contrapporre la sua con-cretizzazione “materiale” o “vivente”.

1004

perpetrato in loro danno, avallando l’attrazione al “centro” della discipli-na del rapporto di lavoro regionale e locale.

Anche nel procedimento di contrattazione collettiva il ruolo riserva-to alle Regioni ed alle autonomie locali è marginale ed insoddisfacente; solo formalmente la disciplina che consegue all’intesa negoziale è impu-tabile anche alla volontà della “periferia” (che via via nell’evolvere del-la riforma partecipa sempre più all’ARAN ed al Comitato di settore), ma in realtà nella formazione della volontà negoziale il ruolo delle Regioni ed Autonomie locali non è mai di primattore, quanto al massimo di com-primario rispetto al Governo, che regge i destini del Comparto delle au-tonomie 29.

3. La riforma costituzionale del 2001 e il suo impatto sul lavoro pubbli-co locale

Allorché con il c.d. “federalismo” amministrativo (ll. nn. 59 e 127/1997) si conferì un maggior peso alle Regioni ed autonomie locali, esse non colsero l’opportunità offerta per incidere sull’organizzazione 30 e, attraverso questa, sul rapporto di lavoro alle proprie dipendenze 31. L’atteggiamento della “periferia” della Repubblica è radicalmente muta-to a seguito della novella costituzionale del 2001. La “carica” suonata dalle Regioni ha percorso due strade: da un lato, le autonomie hanno in-trapreso un aspro contenzioso costituzionale avverso le leggi dello Stato, ritenute lesive della propria competenza piena (residuale) sull’organizza-zione degli enti non statali (Regioni ed autonomie locali) (sul quale v. in-fra); dall’altro, le Regioni hanno iniziato a legiferare negli ambiti “di confine”, disponendo strumenti regionali di gestione delle risorse umane locali, specialmente in tema di dirigenza 32 e procedure selettive 33. Si è

29 Contra G. roLLa, L’autonomia delle Regioni…, cit., 679.30 Le Regioni avrebbero potuto provvedere con leggi e regolamenti; gli enti locali avreb-

bero invece dovuto seguire le linee tracciate dal d.lgs. n. 276/2000 (c.d. testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e far leva sulla propria autonomia statutaria.

31 Ritiene che le Regioni avrebbero potuto approfittare della situazione R. saLomone, Il lavoro pubblico e la legge ‘Finanziaria 2002’: verso il primo conflitto di attribuzioni tra Sta-to e Regioni?, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, 237, spec. 244.

32 Si v. l’ampia casistica esplorata da A. Loffredo, La legislazione regionale in materia di dirigenza…, cit., 225.

33 Sul punto amplius V. fiLì, Concorsi pubblici e riserve per i lavoratori precari, in «Lav. pubbl. amm.», 2004, 415. Si evidenzia che, in relazione all’introduzione di procedure di stabi-lizzazione del personale c.d. precario introdotto ex ll. nn. 296/2006 (l. finanziaria 2007) e

1005

innescato così un meccanismo di moltiplicazione dei conflitti tra Stato e Regioni, affidato alla funzione dirimente della Corte Costituzionale 34, incaricata di definire il confine della disciplina dei rapporti di lavoro pub-blico rispetto a quella dell’organizzazione degli enti, per chiarire le com-petenze, rispettivamente, del Parlamento e dei consigli regionali 35.

La materia del «lavoro pubblico» non è prima facie di facile collo-cazione nel riparto di competenze definito nel nuovo art. 117 Cost. pro-prio per l’assenza di riferimenti espressi nel testo costituzionale alla ma-teria del pubblico impiego.

Com’è noto, l’art. 117 Cost. contiene la ripartizione delle competen-ze legislative tra Stato e Regioni elencando le materie attribuite al primo in via esclusiva (comma 2), alle seconde in via residuale (comma 4), ov-vero destinate alla competenza concorrente, in cui il legislatore statale pone i principi fondamentali e quello regionale la disciplina di dettaglio (comma 3). La novità rispetto alla formulazione originaria della disposi-zione è rappresentata dal rovesciamento del verso della clausola di enu-merazione delle materie, nel senso che la competenza legislativa esclusi-va dello Stato concerne le materie tassativamente elencate al comma 2 dell’art. 117 Cost., spettando invece alle Regioni la potestà legislativa «in riferimento ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legi-slazione dello Stato» come espresso dalla clausola residuale (anche det-ta “generale” 36) contenuta nel nuovo comma 4 dell’art. 117 Cost.

Il nuovo art. 117 Cost. ha generato molti dubbi e perplessità per la difficoltà di riconoscere negli elenchi dei commi 2 e 3 le discipline ed i settori “classici”, generalmente riconosciuti come materie autonome. Tra le lacune più evidenti, si è ampiamente sottolineata la mancata individua-zione del “diritto del lavoro” tra le materie tassativamente elencate e per far fronte a tale silenzio (ed evitarne l’attrazione sic et simpliciter nella competenza residuale regionale ex art. 117, comma 4, Cost. 37) la dottri-

244/2007 (l. finanziaria 2008), le Regioni ed autonomie locali hanno utilizzato gli strumenti legislativo e regolamentare per disciplinare la materia.

34 Sul ruolo dirimente della Corte Costituzionale si v. da ultimo e. d’orLando, La fun-zione arbitrale della Corte Costituzionale tra Stato centrale e governi periferici, Bologna, 2006.

35 Invero, l’enorme massa di ricorsi per conflitto di attribuzioni avanzati sin dai primi me-si del 2002 era stata prevista dalla dottrina, in particolare da R. Bin, Le potestà legislative re-gionali, dalla Bassanini ad oggi, in «Le Regioni», 2001, 613.

36 Così F. carinci, Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in aa.vv., Diritto e libertà. Scritti in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, 188.

37 A favore di questa soluzione, invece, M. BiaGi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in «DRI», 2002, 157.

1006

na ha ricercato nel testo dell’art. 117 Cost. i “frammenti” del diritto del lavoro sparsi nelle materie espressamente enumerate, al fine di ricompor-re i tasselli di un «difficile puzzle» 38. Sono così emersi principalmente due orientamenti interpretativi: il primo ha ricondotto il lavoro pubblico locale al diritto del lavoro in generale; il secondo, invece, ne ha accentua-to il carattere pubblicistico e l’ha fatto rifluire nell’organizzazione delle amministrazioni.

3.1. La prima tesi: la disciplina del lavoro pubblico locale come diritto del lavoro tout court, ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost.

Secondo ampia parte della dottrina giuslavoristica, la c.d. privatizza-zione del pubblico impiego ha condotto il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni nell’alveo del diritto del lavoro tout court 39. Si tratterebbe delle estreme conseguenze dell’applicazione dello strumen-to scelto (il contratto) per riformare il pubblico impiego e rappresentato dal progressivo avvicinamento di questo al diritto del lavoro privato 40, pur senza dimenticare «la differenza intrinseca alla natura del soggetto pubblico» 41 che è chiamato ad essere datore di lavoro 42.

Ritenendo il precetto costituzionale dell’art. 97 quale vincolo per la pubblica amministrazione al rispetto della riserva di legge (solo) nell’eser-cizio del potere di organizzazione degli uffici 43, a seguito della privatiz-zazione l’organizzazione sarebbe definitivamente scissa dalla gestione dei rapporti di lavoro «attratti nell’orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pub-blico dell’azione amministrativa» in un «equilibrato dosaggio di fonti re-

38 L’espressione è di L. zoPPoLi, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regola-zione del lavoro nelle pubbliche Amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puz-zle?, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, suppl. 1, 159.

39 F. carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, cit., 23; F. Liso, Art. 117 e lavo-ro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in www.astridonline.it; L. de anGeLis, Fe-deralismo e rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in «Foro it.», 2003, V, 25.

40 Ma per D. BoLoGnino, La collocazione del “lavoro pubblico” tra Stato e Regioni nel nuo-vo Titolo V, Parte II, della Costituzione, in «Dir. lav.», 2005, 12, invero l’avvicinamento sarebbe la ratio della riforma.

41 M. d’antona, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in «Lav. pubbl. amm.», 1998, 57.

42 E. aLes, La pubblica Amministrazione quale imprenditore e datore di lavoro. Un’in-terpretazione giuslavoristica del rapporto di lavoro tra indirizzo e gestione, Milano, 2002.

43 G. roLLa, L’autonomia delle Regioni…, cit., 674-675.

1007

golatrici» con cui «il legislatore ha garantito, senza pregiudizio per l’im-parzialità, il valore dell’efficienza contenuto nello stesso precetto costi-tuzionale» (C. Cost., sentenza n. 309/1997) 44.

Nell’affermare la legittimità costituzionale della riforma del pubbli-co impiego, la Consulta ha evidenziato, infatti, come essa si realizzi «in-torno all’accentuazione progressiva della distinzione tra aspetto organiz-zativo della pubblica amministrazione e rapporto di lavoro con i suoi di-pendenti» di modo che «l’organizzazione, nel suo nucleo essenziale, re-sti necessariamente affidata alla massima sintesi politica espressa dalla legge nonché alla potestà amministrativa, nell’ambito di regole che la stessa pubblica amministrazione previamente pone; mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell’orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa».

Nel modello adottato dalla Corte Costituzionale, il sistema di regola-zione del lavoro pubblico prevede la contestuale presenza di fonti pubbli-cistiche e privatistiche: le prime informano i soli atti di c.d. macro-orga-nizzazione 45, cioè di quel «nucleo essenziale» dell’aspetto organizzativo che rimane nell’ambito dei poteri unilaterali dell’amministrazione; alle seconde, invece, è demandata l’intera disciplina del rapporto di lavoro, nei suoi aspetti individuali e collettivi, nonché la c.d. micro-organizzazio-ne, dove la pubblica amministrazione agisce «con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) 46.

Ove si aderisca all’interpretazione in esame e si ritenga che il lavoro pubblico locale rientri a pieno titolo nel diritto del lavoro tout court, nel-la varietà delle posizioni emerse 47 si ritiene assai convincente la posizio-ne espressa da illustre dottrina 48 e confermata anche dalla Corte Costitu-

44 C. Cost., n. 309/1997, in «Lav. pubbl. amm.», 1998, 131, con nota di M. BarBieri, Corte Costituzionale e lavoro pubblico: un passo avanti e uno a lato.

45 C. d’orta, Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubbli-co e diritto privato, in F. carinci e M. d’antona (diretto da), Il lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche dal d.lgs. 29/1993 ai d.lgs. nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998. Commentario, Milano, 2000, Tomo I, 149.

46 D. BoLoGnino, op. cit., 13; L. de anGeLis, op. cit., 30.47 Per una rassegna critica delle posizioni emerse si v. M.T. carinci, La legge delega n.

30/2003 e il sistema delle fonti, in M.T. carinci (a cura di), La legge delega in materia di oc-cupazione e mercato del lavoro, Milano, 2003, 6.

48 F. carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2003, 75; Id., Una svolta tra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio se-colo, in M. miscione e M. ricci (a cura di), Organizzazione e disciplina del mercato del lavo-ro, in f. carinci (coord. da), Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Tomo I, Mila-no, 2004, XXXV.

1008

zionale nella sentenza n. 50/2005 49, che colloca la regolamentazione giu-ridica dei rapporti individuali e collettivi di lavoro nell’ambito dell’«or-dinamento civile» di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., riconducen-dola alla potestà legislativa esclusiva dello Stato 50. Rimarrebbero dunque allo Stato sia il diritto sindacale, in forza del suo rilievo costituzionale (art. 39, Cost.), sia il rapporto di lavoro individuale, in relazione alla de-bolezza del prestatore di fronte al datore di lavoro. Alla competenza legi-slativa concorrente ex art. 117, comma 3 Cost. sarebbero invece attribui-te la «previdenza complementare ed integrativa» 51 la «tutela della salu-te» e la «tutela e sicurezza del lavoro» 52.

Questa lettura della Carta costituzionale ha evitato in prima battuta l’indiscriminata regionalizzazione della delicata materia del lavoro in generale 53, fuggendo il pericolo di una feroce concorrenza (al ribasso)

49 Sulla sentenza C. Cost., n. 50/2005, individuata da A.trojsi (in La potestà regionale in materia di lavoro, in «RGL», 2007, 651, qui spec. 652) come la «più significativa» di un va-sto novero di decisioni sul tema del riparto di competenze in materia di lavoro, si v. V. fiLì, La “Riforma Biagi” corretta e costituzionalizzata. Appunti dopo il decreto correttivo ed il vaglio costituzionale, in «Lav. giur.», 2005, 405.

50 Così F. carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, cit., 17, secondo il quale ri-marrebbero comunque fuori dall’“ordinamento civile” il diritto pubblico del lavoro, previden-ziale, amministrativo, penale; così anche F. fracchia, Il pubblico dipendente nella “formazio-ne sociale” “organizzazione pubblica”, in «Lav. pubbl. amm.», 2003, 5, 769; P.A. varesi, Re-gioni e politiche attive del lavoro dopo la riforma costituzionale, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, suppl. 1, 123. Contra L. zoPPoLi, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, suppl. 1, pag. 149, che definisce questa orientamento semplificante e per-sino pericoloso. I limiti della formula ordinamento civile non sono sfuggiti, tanto che una par-te della dottrina ha tentato di ricondurre tutta la materia lavoristica allo Stato, attraverso l’iden-tificazione della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civi-li e sociali (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.) che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale con il corpus di norme (inderogabili) che il datore di lavoro è tenuto a rispettare: M. Persiani, Devolution e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2002, 1, 19; M. rusciano, Il dirit-to del lavoro italiano nel federalismo, in «Lav. dir.», 2001, 3, 491. Questa lettura della lett. m) dell’art. 117, comma 2 Cost. sembra però in contrasto con l’art. 39, comma 1, Cost., nel caso in cui le garanzie dei diritti dei lavoratori si trasformassero in vero e proprio dovere (e non potere, com’è oggi) in forza di un intervento del legislatore statale: così F. carinci, Riforma costituzio-nale e diritto del lavoro, cit., 19; F. fracchia, op. ult. cit., 782; L. zoPPoLi, La riforma del Tito-lo V, cit., 151. Una ricostruzione dei vari orientamenti emersi si ritrova, da ultimo, in F. carin-ci, Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa, cit., LXXII-LXXIII.

51 G. BaLandi, Il sistema previdenziale nel federalismo, in «Lav. dir.», 2001, 479.52 F. carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in «Arg. dir. lav.», 2003, 17 ss.

qui spec. 22, afferma che «questa espressione pare emergere dal nulla, senza alcuna storia al-le spalle».

53 Un orientamento favorevole alla “regionalizzazione” del diritto nel lavoro emergeva invece nel Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per

1009

tra i diversi modelli regolativi regionali, realizzabili qualora ogni Regio-ne potesse dar vita ad un proprio ordinamento dei rapporti di lavoro 54.

Considerando dunque il lavoro pubblico locale quale species del di-ritto del lavoro, l’attrazione di quest’ultimo nella materia dell’ «ordina-mento civile» comporterebbe la competenza esclusiva del legislatore sta-tale sia sulle fonti privatistiche di regolamentazione di tutto il lavoro pub-blico contrattualizzato [ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost.], sia sull’«or-dinamento e organizzazione amministrativa» ma limitatamente a quella «dello Stato e degli enti pubblici nazionali» [art. 117, comma 2, lett. g), Cost.], intesa quale attività di macro-organizzazione, sottratta al diritto del lavoro ed attratta al diritto pubblico.

In virtù di queste distinzioni, lo spazio regolativo per le Regioni ed autonomie locali in materia di lavoro pubblico locale parrebbe dunque assai ristretto, confinato tra la competenza legislativa residuale in tema di «ordinamento e organizzazione amministrativa» degli enti non nazionali (ex art. 117, comma 4, Cost.) e la potestà regolamentare di Comuni, Pro-vince e Città metropolitane (ex art. 117, comma 6, Cost.) 55.

3.2. La seconda tesi: il lavoro pubblico locale come organizzazione del-le amministrazioni, ex art. 117, comma 4, Cost.

Invero, la ricostruzione sopra esposta non ha convinto tutti, special-

un lavoro di qualità, Roma, 2001, allorché al punto I.1.3. (Lavoro e federalismo) affermava che, alla luce del nuovo art. 117, Cost., «la potestà legislativa concorrente delle Regioni riguar-da non soltanto il mercato del lavoro, in una logica di ulteriore rafforzamento del decentramen-to amministrativo in atto, bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro, quindi l’intero or-dinamento del lavoro». Così anche M. BiaGi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in «Dir. rel. ind.», 2002, 157.

54 R. Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, in «Arg. dir. lav.», 2002, 81, indivi-dua un possibile «effetto deflagrante per il mercato del lavoro» nel caso in cui si affermasse la piena competenza delle Regioni sul lavoro pubblico non statale. Ma, invero, la concorrenza tra le Regioni è possibile, operando sul diverso piano della fiscalità anziché della regolamentazio-ne dei rapporto di lavoro. Infatti, ex art. 1, comma 43, l. n. 244/2007 (l. finanziaria 2008) si pre-vede che «in attesa della completa attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, con partico-lare riferimento alla individuazione delle regole fondamentali per assicurare il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario di livello substatuale, l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) assume la natura di tributo proprio della Regione e, a decorrere dal 1° gennaio 2009, è istituita con legge regionale». La possibilità per le Regioni di incidere sulla determinazione dell’Irap (finanche a prevederne l’eliminazione) innesca una competizione tra le “periferie”, che hanno la facoltà di rendersi più allettanti per gli investimenti.

55 L. de anGeLis, op. cit., 28.

1010

mente sul versante della dottrina amministrativistica. Di essa si è critica-ta la concezione “pan-privatistica” e “centralista”/“statalista” del lavoro pubblico, che finisce per svilire le peculiarità del pubblico impiego, non-ché l’importanza e l’autonomia che la Costituzione ha riconosciuto alle Regioni e alle autonomie locali, sacrificate sull’ “altare” della contrattua-lizzazione del rapporto di lavoro con negazione di una loro piena signo-ria sul governo delle risorse umane, in virtù dei vincoli derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva nazionale 56.

Stando alla citata dottrina, dunque, le prerogative in tema di stato giuridico ed economico del personale della Regione e degli enti locali dovrebbero essere intese come lavoro pubblico locale e riservate alle Re-gioni, in quanto aspetto inscindibile dall’organizzazione degli enti. Tale competenza sarebbe ricavabile a contrario facendo leva sul dato lettera-le del nuovo Titolo V, Parte II della Costituzione ove si prevede la pote-stà legislativa esclusiva dello Stato solo nella materia dell’«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazio-nali» [art. 117, comma 2, lett. g), Cost.]; da ciò la dottrina in commento ricava la piena e residuale competenza legislativa (ex art. 117, comma 4, Cost.) delle Regioni sull’ordinamento e l’organizzazione amministrativa propria e degli altri enti territoriali diversi da quelli nazionali 57. La rico-nosciuta ed incontestata competenza regionale sull’«ordinamento e orga-nizzazione amministrativa» viene, quindi, “dilatata” sino a comprendere anche la competenza sulla regolamentazione del personale, in quanto in qualche modo “funzionalizzata” all’organizzazione.

Come noto, la “funzionalizzazione” rappresenta nel diritto pubblico un’attività di cura di interessi alieni giuridicamente rilevante 58, compor-tante l’apposizione di un «vincolo formale di scopo» cui indirizzare la re-golazione legislativa 59. Il richiamo alla “funzionalizzazione” nella disci-

56 M. cammeLLi, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costitu-zione, in «Le Regioni», 2001, 1283; A. corPaci, Revisione del Titolo V della Parte II della Co-stituzione e sistema amministrativo, in «Le Regioni», 2001, 1389; E. Gianfrancesco, La ri-partizione di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro, in «Le Regioni», 2005, 513; L. torchia, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in «Le Regio-ni», 2002, 343, spec. 360. La tesi proposta è accolta, tra i giuslavoristi, da E. M. mastinu, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni regionali nel Titolo V della Costituzione, in «Riv. giur. lav.», 2007, 371.

57 Sul punto si v. G. faLcon, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi art. 118 e 117 della Costituzione, in «Le Regioni», 2002, 383, spec. 395; F. merLoni, Il destino dell’or-dinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in «Le Regioni», 2002, 409, spec. 428-430).

58 M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 7 ed anche 445.59 F. moduGno, voce Funzione, in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 301, spec. 303.

1011

plina del rapporto di lavoro pubblico non sembra prima facie condivisibi-le, in quanto tende a riportare il pubblico impiego nell’alveo del diritto amministrativo da cui si è invece espressamente discostato attraverso la contrattualizzazione 60; essa presenta però degli argomenti di suggestione. Non vi è dubbio che anche il lavoro pubblico partecipa alla costituzione dell’organizzazione: in questo senso, dalla realtà fattuale si ricava che es-so, in quanto parte dell’amministrazione, ne realizza gli scopi di interesse pubblico 61. Ciò però non consente di affermare che nella disciplina del la-voro pubblico debba riconoscersi l’esercizio di poteri (funzionalmente) vincolati all’affermazione di un fine: si tratta di un’estremizzazione del ragionamento non condivisibile ove si rammenti che, a seguito della c.d. privatizzazione, anche il pubblico impiego è retto secondo gli strumenti dell’autonomia negoziale privata (collettiva ed individuale) di per sé in-compatibile con l’esercizio di una “funzione” in senso pubblicistico 62.

L’utilizzo del termine e delle logiche della “funzionalizzazione” sembrano invece richiamabili allorché al termine si attribuiscano i diver-si significati di “finalizzazione” immediata della riforma del lavoro pub-blico alla definizione delle misure «inerenti all’organizzazione ed alla gestione dei rapporti di lavoro» 63 e di “finalizzazione” mediata degli obiettivi economico-politici sottesi alla contrattualizzazione 64. In tale ac-cezione, sembra potersi affermare che nel settore pubblico è l’autonomia privata ad essere “funzionalizzata” in quanto orientata ad un fine.

60 Contra M. rusciano (in Contratto, contrattazione e relazioni sindacali nel «nuovo » pubblico impiego, in «Arg. dir. lav.», 1997, n. 5, 97 ed id. in La riforma del lavoro pubblico: fonti della trasformazione e trasformazione delle fonti, in AIDLASS, Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, L’Aquila, 31 maggio-1 giugno 1996, Milano, 1997, 82 e, da ultimo, in Contratto col-lettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003, 239), a parere del quale il legislatore, con la rifor-ma attuata con il d.lgs. n. 29/1993, avrebbe voluto «legificare il metodo per delegificare i rap-porti», da cui si farebbe derivare la funzionalizzazione di tutto l’assetto contrattuale, naziona-le e decentrato. Sul tema della “funzionalizzazione” del contratto agli scopi della riforma del lavoro pubblico si v. amplius U. romaGnoLi, La revisione della disciplina del pubblico impie-go: dal disastro verso l’ignoto, in «Lav. dir.», 1993, 231; M. Grandi, L’assetto della contrat-tazione collettiva: un ballo in maschera, in «Lav. dir.», 1993, 575.

61 F. Liso, Art. 117…, cit., 1.62 M. deLL’oLio, Legge e contratto collettivo; autorità, funzione, libertà, in AIDLASS,

Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, L’Aquila, 31 maggio-1 giugno 1996, Milano, 1997, 253.

63 G. Ghezzi, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e la ridefinizio-ne delle fonti, in AIDLASS, Le trasformazioni, cit., 110.

64 M. Grandi, La posizione del contratto collettivo nell’impiego pubblico privatizzato, in aa.vv., Diritto e libertà. Scritti in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, 704, spec. 714.

1012

4. La funzione dirimente della Corte Costituzionale nel conflitto tra Stato e Regioni sul lavoro pubblico locale

Le due tesi proposte presentano entrambe elementi condivisibili. Se-condo il primo orientamento, a seguito della c.d. privatizzazione, il lavo-ro pubblico locale assurge a species del genus diritto del lavoro, del qua-le condivide gli strumenti (l’autonomia negoziale) e la disciplina (espres-samente richiamata ex artt. 2 e 5, d.lgs. n. 165/2001), fatti salvi i neces-sari tratti di specialità. La potestà legislativa delle Regioni troverebbe spazio, dunque, soltanto per ciò che concerne i profili pubblicistici, di or-ganizzazione ed ordinamento degli enti. Ma proprio attraverso il pertugio dell’«organizzazione» il secondo orientamento “regionalista” consente l’ingresso del legislatore regionale nella regolamentazione del lavoro pubblico locale, inteso come strumento affinché l’amministrazione rea-lizzi i propri scopi.

A tracciare il solco entro cui, da un lato, lo Stato e, dall’altro, le Re-gioni possono legittimamente legiferare in materia di lavoro pubblico lo-cale è stata chiamata (ancora una volta) la Corte Costituzionale.

In prima battuta, la Consulta è parsa sbilanciarsi verso la tesi “regio-nalista”: nella sentenza n. 274 del 2003, sembra, infatti, pronunciarsi in fa-vore di una possibile regionalizzazione del lavoro pubblico non statale 65. In tale occasione la Corte era stata chiamata a valutare la legittimità del-la l.r. n. 11/2002 della Regione Sardegna con cui si disponeva l’immis-sione in ruolo di lavoratori socialmente utili in attività presso l’ammini-strazione regionale. Il ricorso promosso dal Governo si fondava sulla pretesa violazione di norme di riforma economico-sociale desumibili dalla legislazione statale (quale d.lgs. n. 468/1997 di disciplina dei lavo-ratori socialmente utili), ritenute vincolanti per le Regioni a Statuto spe-ciale ex art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001. Nel respingere il ricorso sta-tale, la Corte Costituzionale affermava l’inopponibilità del vincolo delle norme di riforma economico-sociale alla legislazione sarda in materia di «stato economico e giuridico del personale» in seguito alla riforma co-stituzionale.

Per risolvere il conflitto, il giudice delle leggi ha fatto leva sull’art. 10, l. cost. n. 3/2001, ove si dice che «sino all’adeguamento dei rispetti-vi statuti le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a Statuto speciale ed alle Province autonome di Tren-

65 I profili in esame sono analizzati da R. saLomone, Il lavoro pubblico locale e il nuovo art. 117 Cost. all’esame della Corte Costituzionale, nota a C. Cost., n. 274/2003, in «Lav. pub-bl. amm.», 2003, 595.

1013

to e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più am-pie rispetto a quelle già attribuite» con gli statuti vigenti. Secondo la Cor-te, la materia del lavoro pubblico locale dovrebbe ricadere nella piena competenza delle Regioni (anche) a Statuto speciale «essendo l’analoga materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto com-ma dell’art. 117» e cioè alla potestà legislativa piena ex art. 117, comma 4, Cost., trattandosi di una materia non presente negli elenchi tassativi dei commi 2 e 3.

Nella decisione della Corte Costituzionale, ciò che rileva ai fini del riparto di competenze in tema di impiego è la natura del datore di lavo-ro: se questo è privato, si rientra nella materia dell’«ordinamento civile» di esclusiva competenza statale; se invece è un ente pubblico, il rappor-to di impiego attiene ad un’altra materia, quella definita come «ordina-mento ed organizzazione amministrativa» e riguarda, per i rispettivi am-biti, lo Stato [ex art. 117, comma 2, lett. g) Cost.] ovvero le Regioni (ex art. 117, comma 4, Cost.).

L’essenzialità della distinzione tra datore di lavoro “privato” e “pub-blico” ai fini del riparto di competenze è sottesa anche alla successiva sentenza n. 359/2003, con cui la Corte Costituzionale censura la l.r. n. 16/2002 della Regione Lazio in tema di mobbing 66, nella parte in cui pre-vede una particolare forma di diffida ad adempiere da effettuarsi nei con-fronti del datore di lavoro: tale diffida configura un elemento del possibi-le inadempimento del datore, con invasione della competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile» quando il datore di lavoro sia privato ed in punto di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali … quando il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico nazionale».

Nelle argomentazioni della Corte, la disciplina del rapporto di lavo-ro è ricondotta all’«ordinamento civile» [art. 117, comma 2, lett. l), Cost.] soltanto per il lavoro privato, viceversa ritenendo attratta la stessa mate-

66 La decisione della C. Cost., n. 359/2003 è richiamata da F. Ghera, Il lavoro alle dipen-denze delle Regioni alla luce del nuovo art. 117 Cost., nota a C. Cost., n. 2/2004, in «Giust. civ.», 2005, 44. Si v. altresì G. manfredi, Impiego pubblico e riforme costituzionali, in www.impiegopubblico.it; A. Loffredo, Mobbing e regionalismo: chi deve tutelare il piacere di la-vorare?, in «Lav. pubbl. amm.», 2003, 1208; R. saLomone, Titolo V della Costituzione e lavo-ro pubblico privatizzato: i primi orientamenti della Consulta, in «Lav. pubbl. amm.», 2004, 1147; L. Gaeta e S. verdoLiva, I difficili percorsi giurisprudenziali del mobbing negli enti lo-cali: notizie dalla Toscana, in aa.vv., Diritto e libertà. Scritti in onore di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, 568, spc. 572. Sulle decisioni più recenti si v. P. tuLLini, Nuovi interventi della Corte Costituzionale sulla legislazione regionale in materia di mobbing, in «Riv. it. dir. lav.», 2006, II, 502.

1014

ria lavoristica alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli en-ti pubblici nazionali » [art. 117, comma 2, lett. g), Cost.] nel caso in cui il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico nazionale.

Invero, l’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale nelle due decisioni ricordate non può essere condiviso; qualora si devolvesse alle Regioni la piena potestà sul pubblico impiego non statale, l’attuale siste-ma delle fonti indicato dal d.lgs. n. 165/2001 sarebbe travolto nei suoi principi fondamentali, con effetti dirompenti sulla regolazione del lavoro pubblico locale 67.

In primis, l’affermazione di una competenza regionale piena ed esclusiva sul lavoro pubblico locale determinerebbe il superamento del principio secondo cui la «regolazione mediante contratti individuali e collettivi dei rapporti di lavoro nel settore pubblico» rappresenta «una norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica» (art. 2, l. delega n. 421/1992, recepita nell’art. 1, comma 3, d.lgs. n. 165/2001), vincolante per le Regioni a Statuto ordinario «tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti» e per le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano, limitatamente ai principi desumibili dagli artt. 2, l. 421/1992 ed 11, comma 4, l. n. 59/1997, (art. 1, comma 3, d.lgs. n. 165/2001). Tali vincoli non potrebbero, infat-ti, essere richiamati nel caso in cui il lavoro pubblico locale, attratto nel-la materia dell’organizzazione, ricadesse nella potestà piena delle Regio-ni (art. 117, comma 4, Cost.), soggetta soltanto al «rispetto della Costitu-zione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» ex (nuovo) art. 117, comma 1, Cost.

Caduta la vincolatività per le Regioni del sistema previsto dal d.lgs. n. 165/2001 mancherebbe un fondamento positivo alla previsione di un contratto collettivo nazionale uguale per le tutte le amministrazioni dell’odierno Comparto delle Regioni ed autonomie locali (art. 40, com-ma 1, d.lgs. n. 165/2001) stipulato dall’ARAN quale rappresentante le-gale di tutte le amministrazioni (art. 46, d.lgs. n. 165/2001) e sotto il con-trollo del Comitato di settore (espressione fondamentalmente del Gover-no statale e, solo in minima parte, delle Regioni ed autonomie locali) e conseguentemente di un ruolo soltanto integrativo giocato dalla contrat-

67 A. BeLLavista (in Federalismo e lavoro pubblico locale, in www.di-elle.it, ed anche, con modifiche, in aa. vv., Diritto del lavoro. I nuovi problemi. L’omaggio dell’accademia a Mattia Persiani, Padova, 2005, 1), evidenzia il rischio di una “balcanizzazione” del diritto del lavoro, se frammentato tra Stato e Regioni.

1015

tazione di secondo livello, tenuta a svolgersi sulle materie e con le risor-se indicate dal contratto nazionale, a pena di nullità delle disposizioni in contrasto (art. 40, comma 3, d.lgs. n. 165/2001).

Proseguendo nel ragionamento, anche il Comparto delle Regioni ed autonomie locali sarebbe probabilmente destinato alla disgregazione, “esplodendo” in tanti Comparti autonomi di lavoro pubblico locale, even-tualmente separati in lavoro pubblico alle dipendenze delle Regioni e de-gli enti locali, corrispondenti alle diverse realtà regionali. Non si potreb-be certo escludere a priori la formazione di un Comparto che riunisse il personale alle dipendenze di più Regioni, se adeguato rispetto all’assetto di queste: ma detta ipotesi pare difficilmente conciliabile con il desiderio di affermazione di autonomia manifestato dalle “periferie” della Repub-blica, nonché con i diversi orientamenti politici di cui le Regioni posso-no essere espressione 68.

Dalla “regionalizzazione” conseguirebbe la messa in discussione del rapporto tra le fonti unilaterali (statuti, leggi e regolamenti regionali; de-terminazioni delle amministrazioni quali datori di lavoro ex art. 5, com-ma 2, d.lgs. n. 165/2001) e negoziali, soprattutto per la parte in cui oggi si dispone la derogabilità della disciplina unilaterale (e quindi anche del-la legge regionale) attraverso «successivi contratti o accordi collettivi» salvo che la legge stessa non disponga in senso contrario (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165/2001).

Qualora si ritenesse che la forza vincolante del complesso delle fon-ti di disciplina del lavoro pubblico nei confronti delle Regioni (basata sulla possibilità per lo Stato di indicare con legge i principi generali del-la materia e sul dovere di conformazione a questi da parte delle Regioni) sia venuta meno con la riscrittura dell’art. 117 Cost., si potrebbe addirit-tura mettere in discussione la stessa “privatizzazione”, operata attraverso

68 La proposta di articolare la contrattazione collettiva per macroregioni è stata avanzata sia per il settore privato (t. Boeri e P. GariBaLdi, Standard minimi e nuove tipologie contrat-tuali, in www.lavoce.info del 9 gennaio 2006), sia per il pubblico impiego (secondo quanto suggerito dall’allora Presidente dell’ARAN G. fantoni, L’esperienza contrattuale sul versan-te pubblico, in www.ildiariodellavoro.it del 18 luglio 2005), anche con richiami espressi alla differenziazione per Regioni (G. viesti, Gabbie salariali tra federalismo e contrattazione, in www.nelmerito.it del 12 giugno 2008). La riforma della struttura contrattuale è oggetto di un intenso dibattito scientifico, sul quale si v. P. ichino, A che cosa serve il sindacato, Milano, 2005; il Forum su «La riforma della contrattazione collettiva: quale riforma», in «Riv. it. dir. lav.», 2006, con interventi di r. deL Punta, L. mariucci, r. scoGnamiGLio, a. tursi, L. zoP-PoLi (n. 3, 259-325) e M. deL conte, o. mazzotta, a. Pizzoferrato, a. vaLLeBona (n. 4, 417-447); il numero monografico della rivista www.nelmerito.it del 12 giugno 2008, con interven-ti di S. BeLLomo e A. maresca, C. deLL’arinGa, a. Lassandari, t. treu, L. tronti, a. tursi, G. viesti.

1016

l’estensione al pubblico impiego delle «disposizioni del capo I, Titolo II del libro V del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordi-nato nell’impresa» ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001. Infatti, se la materia fosse interamente attribuita alla potestà legislativa delle Regioni, queste potrebbero addirittura individuare un nuovo e diverso rapporto tra fonti unilaterali e fonti negoziali, sin anche optando per una “ripubbliciz-zazione” del lavoro pubblico locale se ritenuta più funzionale all’orga-nizzazione amministrativa degli enti, ovvero per un modello “misto” in cui taluni aspetti siano regolati unilateralmente ed altri attraverso la con-trattazione 69. Entrambe le ipotesi sembrano però destinate (fortunata-mente) ad arrestarsi di fronte all’impossibilità per le Regioni di attrarre nuovamente alla giurisdizione amministrativa la competenza sul conten-zioso del pubblico impiego, ex art. 117, comma 2, lett. l), Cost., (che ri-serva alla competenza statale «giurisdizione e norme processuali» e «giustizia amministrativa») 70.

Delle possibili (e sconcertanti) ripercussioni derivanti dalle pronun-ce citate la stessa Corte Costituzionale è parsa rendersi conto e, con due decisioni depositate il 13 gennaio 2004, ha cambiato orientamento.

Con la sentenza n. 2/2004 71 il giudice delle leggi ha respinto il ricor-so dello Stato, teso a far dichiarare l’illegittimità costituzionale dello Sta-tuto regionale della Calabria con cui «la Regione disciplina con provvedi-menti normativi il regime procedimentale della contrattazione con i pro-pri dirigenti» 72. Avverso le pretese governative, la Consulta ha reputato che il legislatore regionale si fosse espresso soltanto «per la parte di pro-pria competenza» e in modo «compatibile con la disciplina costituziona-le e con la legislazione statale vigente in tema di ordinamento della diri-genza pubblica», in quanto «la intervenuta privatizzazione e contrattua-lizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici vincola anche le Regioni, tuttavia la stessa legislazione statale in materia … non esclude una, seppur ridotta, competenza normativa regionale»; alle Regioni sem-bra pertanto rimessa l’individuazione delle modalità della contrattazione collettiva con i propri dirigenti, senza però che il metodo negoziale possa essere messo in discussione dalla Regione medesima, obbligata ad esso in

69 Per le “combinazioni” possibili, in chiave comparata, si v. E. aLes, Modelli di lavo-ro pubblico in Europa, Milano, 1996; S. sciarra, L’evoluzione della contrattazione colletti-va. Appunti per una comparazione nei Paesi dell’Unione europea, in «Riv. it. dir. lav.», 2006, I, 447.

70 Così A. toPo, Legge e autonomia collettiva nel lavoro pubblico. (Riflessione sul lavo-ro nella pubblica amministrazione), Padova, 2008, in corso di stampa, 36 del dattiloscritto.

71 C. Cost., n. 2/2004, in «Giust. civ.», 2006, 10, con nota di F. Ghera, cit.72 Così testualmente nel ricorso del Governo avverso lo Statuto calabrese.

1017

virtù della contrattualizzazione «pur (se) dotate, ai sensi del quarto com-ma dell’art. 117 della Costituzione, di poteri legislativi propri in tema di organizzazione amministrativa e di ordinamento del personale» 73.

La Corte, però, non chiarisce come i due enunciati possano stare in-sieme: il primo (la vincolatività della contrattualizzazione) fondato sulla qualificazione della privatizzazione come «principio fondamentale» per la competenza esclusiva regionale ai sensi del “vecchio” art. 117, comma 1, Cost., ovvero come «norma fondamentale di riforma economico-so-ciale» ai sensi del d.lgs. n. 29/1993; il secondo (la competenza esclusiva regionale in materia ordinamentale ed amministrativa) desumibile dall’odierno comma 4 dell’art. 117 della Costituzione riformata. In so-stanza, la decisione della Consulta innesta la “retromarcia” rispetto alle affermazioni rese nella sentenza n. 274/2003, pur senza (riuscire a) mo-tivare in modo convincente.

La coeva sentenza n. 4/2004 74 vede pronunciarsi la Corte Costitu-zionale sui ricorsi proposti da più Regioni 75 avverso gli artt. 16, 17 e 18 della l. n. 448/2001 (c.d. legge finanziaria per il 2002) intervenuti in ma-teria di contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni. Se-condo le ricorrenti, le disposizioni sarebbero state lesive della loro com-petenza ex art. 117, comma 4, Cost., a cui il lavoro pubblico locale avreb-be dovuto essere ricondotto «per esclusione» 76, in quanto non compre-so tra le materie riservate allo Stato 77 né tra quelle di competenza con-corrente 78.

Nel dichiarare infondate le questioni di legittimità sollevate dalle Regioni, la Corte Costituzionale non prende posizione sulla collocazione

73 L’opzione della contrattazione collettiva come «metodo di disciplina» assurge sino al rango di norma costituzionale in C. Cost., n. 308/2006, costituendo un effettivo limite per le opzioni possibili in capo al legislatore regionale.

74 C. Cost., n. 4/2004, in «Giust. civ.», 2006, 56, con note di A. Perino, ivi, 75 e G. deL-La cananea, Il coordinamento della finanza pubblica alla luce dell’Unione economica e mo-netaria, ivi, 77; ed anche di D. BoLoGnino, op. cit., 7.

75 Ricorso n. 10/2002 della Regione Marche; n. 12/2002 della Regione Toscana; n. 20/2002 della Regione Basilicata; n. 23/2002 della Regione Emilia-Romagna; 24/2002 della Regione Umbria.

76 D. BoLoGnino, op. cit., 8.77 In particolare, sono richiamate sia la competenza statale sull’«ordinamento e organiz-

zazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» (art. 117, comma 1, lett. g), Cost.), sia la potestà in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concer-nenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, comma 1, lett. m), Cost.).

78 Il riferimento è alla competenza legislativa concorrente sulla «tutela e sicurezza del la-voro» (art. 117, comma 3, Cost.).

1018

del lavoro pubblico locale nel nuovo riparto di competenze, sembrando invece impegnata a “salvare” la legge finanziaria avallando l’intervento statale, ascritto, per l’occasione, alla materia (di competenza concorren-te) dell’«armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della fi-nanza pubblica» (art. 117, comma 3, Cost.) e non, come sostenuto dalle ricorrenti, alla materia dell’«impiego presso la Regione stessa e gli enti locali».

Si è trattato, indubbiamente, di un utile escamotage, attraverso cui la Consulta – evitando di pronunciarsi sul riparto di competenze in tema di lavoro pubblico locale – ha risolto il dubbio di legittimità (pur se in mo-do non appagante) salvando la legge statale e conservando, dunque, la medesima distribuzione delle competenze del Titolo V ante riforma del 2001 79. Lo stesso espediente (utile, ma poco convincente) è stato utiliz-zato anche in sentenze successive, ove l’intervento statale è stato ricon-dotto a materie di competenza concorrente (ad es. «istruzione» nel caso del personale della scuola, v. sentenze n. 13/2004, n. 34/2005, n. 37/2005; «tutela della salute» per ammettere gli interventi “centralistici” sul per-sonale sanitario, v. sentenze n. 36/2005, n. 145/2005 80).

Alla Corte Costituzionale è stato affidato il difficile compito di ri-comporre il quadro delle competenze (statali e regionali) in tema di lavo-ro pubblico locale. La giurisprudenza della Consulta mostra, da un lato, aperti slanci verso le ragioni della “periferia” (sentenze nn. 274/2003 e 359/2005) e, dall’altro, prudenti arretramenti in favore delle affermazio-ni dello Stato (sentenze nn. 2 e 4/2004).

L’atteggiamento oscillante della Corte può forse essere spiegato (e, in qualche modo, giustificato) dalle opposte esigenze che la Consulta si trova a dover contemperare, sospesa com’è tra le legittime aspirazioni delle “periferie” post riforma costituzionale del 2001 ad una maggior au-tonomia regolativa e la necessità di contenere a livello “centrale” la spe-sa pubblica entro limiti certi.

Lo snodo critico può allora individuarsi nel tema della fiscalità de-centrata, prevista dal novellato art. 119 Cost. come «autonomia finan-ziaria di entrata e di spesa» ma ad oggi non attuata, con le Regioni ed autonomie locali che rivendicano più ampi spazi nella gestione delle ri-

79 Sull’orientamento conservativo della Corte Costituzionale si v. per tutti F. carinci, Giurisprudenza costituzionale e c.d. privatizzazione del pubblico impiego, in «Lav. pubbl. amm.», 2006, 499.

80 Le decisioni cennate sono commentate da A. trojsi, Lavoro pubblico e riparto di po-testà normativa, in «Lav. pubbl. amm.», 2005, 491, spec. 512-515.

1019

sorse 81, pur essendo ancora ad autonomia finanziaria derivata e control-lata dallo Stato 82. La richiesta di maggior indipendenza proveniente dalla “periferia” trova un saldo aggancio nel nuovo modello di Repub-blica disegnato dall’art. 114 Cost., al contempo però la mancanza di au-tonomia finanziaria “costringe” la Corte ad utilizzare il vincolo dei «principi di coordinamento della finanza pubblica» (art. 119, comma 6, Cost.) al fine di salvaguardare la sostenibilità del sistema nel suo com-plesso.

5. La ricomposizione del conflitto: il difficile cammino della «leale col-laborazione» tra Stato e Regioni, ex art. 120 Cost.

I dilemmi ermeneutici sollevati, tanto in dottrina quanto nella giuri-sprudenza costituzionale, dalla riforma operata con la l. cost. n. 3/2001, sono probabilmente destinati a non trovare un definitivo chiarimento in tempi rapidi, come dimostra anche l’enorme contenzioso costituzionale ormai stratificato tra il “centro” e la “periferia” 83. Presa coscienza di ciò, si è autorevolmente evocato uno “spirito conciliativo” tra lo Stato e le Re-gioni, invocando espressamente il principio costituzionale della «leale collaborazione» (art. 120, comma 2, Cost.), quale «regola aurea di pre-venzione e soluzione delle jurisdictional disputes» in una Repubblica “federalista” priva di spazi e luoghi istituzionali di compensazione tra lo Stato e le Regioni 84.

Del principio della leale collaborazione la Consulta cominciò a far uso sistematico sin dagli anni Ottanta 85, intendendolo inizialmente qua-

81 Si v. il Rapporto di ricerca unioncamere veneto, I costi del “non” federalismo, Trevi-so, 2007, 6, in www.unioncameredelveneto.it/ pubblicazioni.

82 Fatta salva la previsione di “regionalizzazione” dell’Irap, prevista dall’art. 1, comma 43, l. n. 244/2007 (l. finanziaria 2008), che dispone «in attesa della completa attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, con particolare riferimento alla individuazione delle re-gole fondamentali per assicurare il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tribu-tario di livello substatuale, l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap) assume la natu-ra di tributo proprio della Regione e, a decorrere dal 1° gennaio 2009, è istituita con legge re-gionale».

83 Al 31 dicembre 2007, sul sito della Corte Costituzionale si contavano circa quattrocen-to sentenze e centocinquanta ordinanze relative al nuovo riparto di competenze tra Stato e Re-gioni.

84 F. carinci, Regola maggioritaria, alternanza e bulimia riformatrice, in «Lav. pubbl. amm.», 2002, 837, qui spec. 850.

85 L’espressione appare in C. Cost., n. 94/1985. Da C. Cost., n. 359/1985 in poi, si segna-la il frequente riferimento al principio della leale collaborazione tra Stato e Regioni.

1020

le auspicio a che «i rapporti tra Stato e Regioni ubbidiscano … a quel modello di cooperazione e integrazione nel segno dei grandi interessi unitari della Nazione» 86 e successivamente quale indiretto corollario proprio dell’art. 97 Cost. 87. Soltanto in un secondo momento la Corte ap-prodò alla consacrazione della leale collaborazione come diretta emana-zione dell’art. 5 Cost. in quanto «espressione del principio costituziona-le fondamentale per cui la Repubblica, nella salvaguardia della sua unità “riconosce e tutela le autonomie locali” alle cui esigenze “adegua i prin-cipi e i metodi della sua legislazione” (art. 5 Cost.)» in grado di andare «al di là del mero riparto delle competenze per materia ed opera dunque su tutto l’arco delle relazioni istituzionali fra Stato e Regioni» 88.

Non stupisce, dunque, che di fronte alla difficoltà di collocazione della materia del lavoro pubblico locale gli interpreti invochino la leale collaborazione (come già si era fatto, con successo, in tema di servizi per l’impiego 89), affinché si possa addivenire ad un ragionevole tentativo di contemperamento degli interessi di Stato e Regioni 90, che soddisfi le au-tonomie della Repubblica (ex art. 5 Cost.). La ricerca della leale collabo-razione rappresenta sempre di più non una mera affermazione di princi-pio, ma una necessità di fronte al nuovo riparto di competenze, nel qua-le «non c’è più molto spazio per il vecchio pubblico impiego» 91 ma in cui pare assai ostico anche individuare spazi per il nuovo lavoro pubbli-co locale.

La necessità di mettere la parola “fine” alla «pericolosissima incer-tezza sui principi e sulle regole di fondo» 92 del lavoro alle dipendenze di Regioni ed autonomie locali ha spinto verso la neo-costituzionalizzata «leale collaborazione» come panacea di tutti i mali, senza però spiegare come essa possa effettivamente essere utilizzata per garantire «la pacifi-ca coesistenza e l’efficace ed appropriato svolgimento delle attribuzioni

86 C. Luciani, Un regionalismo senza modello, in «Le Regioni», 1994, 1321.87 aa.vv., L’ordinamento regionale. Materiali di giurisprudenza costituzionale, Bolo-

gna, 1996, 28.88 C. Cost., n. 242/1997. 89 v. fiLì, L’avviamento al lavoro fra liberalizzazione e decentramento, Milano, 2002, 95.90 R. saLomone, Nuova riforma costituzionale e lavoro pubblico. Osservazioni a margi-

ne della c.d. devolution (legge cost. 18 novembre 2005), in «Lav. pubbl. amm.», 2006, 53, qui spec. 58, il quale sottolinea l’insoddisfazione rispetto alla mera attrazione del lavoro pubblico locale alla competenza statale sul lavoro.

91 L. zoPPoLi, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma co-stituzionale, cit., 65.

92 L. zoPPoLi, La ricerca di un nuovo equilibrio tra contrattazione nazionale e contratta-zione integrativa. Il Comparto Regioni/autonomie locali, in «Quad. rass. sind.», 2002, 99, spec. 110.

1021

centrali e locali» 93 nell’ambito del lavoro pubblico. Non pare affatto semplice trasformare la compresenza/competizione sul territorio degli ordinamenti statale e regionale in una «coesistenza attiva» 94, ove il “cen-tro” e la “periferia” della Repubblica integrano le proprie reciproche at-tribuzioni per trovare una soluzione alla problematica in esame. Nondi-meno, l’urgenza di dare risposte alle questioni supra descritte impone l’intervento del legislatore statale d’intesa con le Regioni, affinché lo scoglio della definizione delle competenze sul lavoro pubblico locale possa essere superato di comune accordo, mettendo fine allo stillicidio dei ricorsi (e relativi controricorsi) proposti da ambo le parti avanti alla Corte Costituzionale.

6. Osservazioni conclusive

La rivoluzione copernicana nei rapporti tra Stato e Regioni, determi-nata dalla riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione, non ha avuto, sino ad oggi, alcuna evidente conseguenza sulla disciplina del lavoro pubblico regionale. Infatti, al personale alle dipendenze delle Regioni ed autonomie locali, unito nell’omonimo Comparto, continuano ad appli-carsi sia la legislazione previgente alla revisione della Carta fondamenta-le (compresi il procedimento di contrattazione collettiva regolato dal d. lgs. n. 165/2001 ed il d.lgs. n. 267/2000), sia i CCNL del relativo Com-parto. I (pochi) tentativi delle Regioni di appropriarsi di spazi più ampi rispetto a quelli concessi, ovvero di difendersi dagli interventi dello Sta-to in materia di pubblico impiego, sono stati compressi dalla Corte Costi-tuzionale, che ha contribuito al mantenimento dello status quo ante in materia di impiego regionale e locale.

Tale situazione può essere ricondotta alla difficoltà di individuare gli esatti contorni della materia del lavoro pubblico regionale all’interno del nuovo riparto di potestà tra Stato e Regioni: il lavoro alle dipendenze di Regioni ed autonomie locali pare quasi “sospeso” tra l’«ordinamento ci-vile» e l’«ordinamento e organizzazione amministrativa» degli enti non statali. Di fronte alle difficoltà del riparto per materie (che però costitui-sce la via ‘obbligata’ dalla struttura dell’art. 117, Cost.) pare emergere anche l’inadeguatezza di quel criterio per circoscrivere le competenze

93 A. anzon, Leale collaborazione tra Stato e Regioni, modalità applicative e controllo di costituzionalità, in «Giust. civ.», 1998, 3532.

94 L’espressione è di v. fiLì, L’avviamento al lavoro fra liberalizzazione e decentramen-to, cit., 99.

1022

sul lavoro pubblico regionale. Esso rappresenta il luogo naturale dell’in-contro-scontro tra amministrazione e rapporti di lavoro, ove si può con-cretamente verificare come il potere di ordinare ed organizzare gli enti non possa prescindere dalla possibilità di incidere sul trattamento del personale ivi occupato. Ciò a pena dell’inevitabile incompiutezza dell’azione di riorganizzazione (di nuovo) intrapresa per modernizzare il Paese, fine sotteso alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego (1993-2001), alla riforma neoregionalista (2001) ed ai recenti Memorandum (2007) e d.d.l. delega per «Ottimizzare la produttività del lavoro pubbli-co» (2008).

L’obiettivo del miglioramento qualitativo della pubblica ammini-strazione sembra poter essere raggiunto attuando appieno il regionalismo (o federalismo) “all’italiana”, attraverso la ridefinizione delle regole che disciplinano il pubblico impiego regionale e locale, senza escludere le pubbliche amministrazioni della “periferia” dal governo del proprio per-sonale.

Alla luce dell’analisi svolta nel presente studio, sembra dunque pos-sibile proporre alcune riflessioni sulle prospettive per il lavoro pubblico locale.

In primo luogo, pare doversi escludere una competenza esclusiva (piena) regionale sulla materia del pubblico impiego alle proprie dipen-denze. Il “confine estremo” della competenza regionale viene posto per relationem dalla privatizzazione stessa: sussiste, infatti, l’impossibilità per le Regioni di ripubblicizzare il rapporto di lavoro alle proprie dipen-denze delle Regioni, essendo sicuramente sottratta al legislatore “perife-rico” la capacità di incidere sulla materia della giurisdizione [art. 117, comma 2, lett. l), d.lgs. n. 165/2001]. A seguito della contrattualizzazio-ne, dunque, il rapporto di lavoro, esplicitamente separato dall’ammini-strazione, deve essere collocato nell’alveo dell’«ordinamento civile» di potestà esclusiva statale [art. 117, comma 2, lett. l), Cost.]. In tale ambi-to, il legislatore statale dovrà però tener conto del mutato assetto della Repubblica, per intervenire sulle fonti di disciplina del lavoro pubblico regionale in modo coerente e rispettoso delle autonomie.

Le (legittime) aspirazioni delle autonomie potrebbero trovare soddi-sfazione nella riscrittura, da parte del legislatore nazionale, delle “regole del gioco” in tema di contrattazione collettiva, la quale rappresenta il principale strumento di gestione delle risorse umane (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) e di controllo della spesa per il datore di lavoro “pub-blico” (artt. 45 e 47, d.lgs. n. 165/2001), con una essenziale differenza ri-spetto al settore privato, in cui assume maggiore importanza il contratto individuale di lavoro.

1023

L’azione riformatrice potrebbe attuarsi sia intervenendo sui mecca-nismi di rappresentanza della parte pubblica (Comitato di settore e ARAN), sia incidendo sui rapporti tra contratto collettivo nazionale (ne-cessario al contenimento della spesa pubblica) e livello decentrato-inte-grativo (imprescindibile strumento di gestione del personale). Proprio sul contratto di secondo livello del Comparto Regioni ed autonomie locali potrebbe “giocarsi” la partita delle riforme: attraverso una sua regionaliz-zazione, si permetterebbe alle amministrazioni “periferiche” l’adatta-mento delle regole e la caratterizzazione degli istituti in relazione all’or-dinamento ed all’organizzazione degli enti (entro i vincoli di spesa san-citi dal contratto nazionale).

Sicché, la “rifondazione” della pubblica amministrazione si realiz-zerebbe agendo a livello regionale, attraverso un riassetto della contratta-zione collettiva. In tale modello le Regioni assumerebbero un ruolo cen-trale, che pare in linea sia con l’equilibrio tra i soggetti territoriali dise-gnato dal riformato Titolo V, Parte II della Costituzione (art. 114, Cost), sia con la previsione di una competenza piena e residuale delle Regioni (art. 117, comma 4, Cost.), architrave del nuovo assetto repubblicano.

La necessità di fare chiarezza nell’eterna contesa sul riparto di com-petenze in materia di lavoro pubblico locale si coglie, riprendendo gli spunti di apertura 95, anche allorché si approfondisca l’esame degli atti all’ordine del giorno nell’agenda politica.

Nel Memorandum del 2007, le parti hanno concordato sulla necessi-tà di dare corso ad una (ennesima) stagione di riforme che incidano sul pubblico impiego «per una nuova qualità dei servizi e delle funzioni pub-bliche». Secondo gli stipulanti, quest’obiettivo potrà essere raggiunto agendo su più fronti, con il concorso coordinato (tra l’altro) «I) della le-gislazione a sostegno della piena contrattualizzione del rapporto di lavo-ro pubblico; II) delle disposizioni contrattuali del settore pubblico; III) della disciplina delle procedure e del sistema di contrattazione (naziona-le e integrativa)» (Punto 3, Memorandum). Non si tratta, invero, né di te-mi, né di intenti nuovi; al contrario, vi è una sostanziale riproposizione delle ragioni e delle tecniche della privatizzazione, i cui effetti positivi stentano ancora a vedersi.

Il rinnovato interesse per il tema della contrattazione collettiva nel pubblico impiego nasconde però un atteggiamento assai preoccupante. Il Memorandum è un accordo “di programma” stipulato, ancora una volta,

95 Si v. il § 1 di questo scritto.

1024

«a palazzo» 96 tra il Governo e le Confederazioni, con l’esclusione delle Regioni e delle autonomie locali dal tavolo della concertazione. Esse so-no viste soltanto come destinatarie di scelte fatte da altri, che, in modo autoreferenziale, si qualificano come gli unici attori coinvolti nella rifor-ma della pubblica amministrazione. Questo pericoloso révirement verso un’idea della “res publica” centralista e “centralizzata” pare del tutto in-compatibile con l’attuale assetto del Paese e della pubblica amministra-zione: modernizzare la “periferia” con decisioni prese al ‘centro’ sembra una via non solo difficile e defatigante, ma anche impercorribile e forie-ra di un nuovo e ampio contenzioso tra Stato e Regioni.

Nel disegno di legge delega del 2008 si prevede invece il (terzo) ri-ordino delle procedure della contrattazione collettiva e la (quarta) rifor-ma dell’ARAN, con un’espressa menzione al «potenziamento del potere di rappresentanza delle Regioni e degli enti locali» nell’ottica di una «ri-definizione delle strutture e delle competenze dei Comitati di settore», nonché alla «definizione degli ambiti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati rispettivamente alla contrattazione collettiva e alla leg-ge» ed alla «regolamentazione con legge dell’organizzazione del lavoro, del sistema di valutazione del personale e di tutto il regime delle respon-sabilità (infrazioni, relative sanzioni e procedimento disciplinare)».

De iure condendo, si può osservare, in primo luogo, che lo Stato centrale si appresta a legiferare nuovamente in materia di procedure ne-goziali per il lavoro pubblico anche locale, evidentemente ritenendo che tale ambito di competenza legislativa sia sottratto alle Regioni. In secon-do luogo, si evidenzia una notevole spinta verso la rilegificazione del la-voro nelle pubbliche amministrazioni nella materie dell’«organizzazione del lavoro» e del «rapporto di lavoro». Sul punto, si sottolinea la difficol-tà di tracciare un solco tra l’«ordinamento ed organizzazione ammini-strativa» che riguarda, per i rispettivi ambiti, lo Stato [ex art. 117, comma 2, lett. g) Cost.], ovvero le Regioni (ex art. 117, comma 4, Cost.), e l’«or-ganizzazione del lavoro» 97 cui si riferisce il disegno di legge in esame e che potrebbe, quindi, essere foriera di un nuovo conflitto avanti alla Cor-te Costituzionale.

Ultima, ma non per importanza, si segnala il favore del delegando legislatore alle “periferie” della Repubblica attraverso l’attenzione ad un rafforzamento del «potere di rappresentanza» delle Regioni e gli enti lo-

96 Così F. carinci, Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno, in «Lav. pubbl. amm.», 2006, 1043.

97 Per un chiarimento sulla definizione di “organizzazione del lavoro” si v. la relativa vo-ce in L. GaLLino (a cura di), Dizionario di sociologia, Torino, 1983.

1025

cali, che potrebbe aprire, insieme al riordino dell’ARAN, ad un riequili-brio dei rapporti tra Stato e “Autonomie” ex art. 114 Cost.

In conclusione, se dal riparto costituzionale di competenze previsto dalla l. cost. n. 3/2001 non pare discendere una competenza legislativa regionale sulla materia del lavoro pubblico locale tout court, si ritiene in-vece debba affermarsi a gran voce la legittimità della pretesa di Regioni ed autonomie locali affinché il legislatore nazionale, che si appresta alla nuova stagione di riforme, modifichi il quadro delle fonti, ed in partico-lare il modello negoziale da cui non può né vuole prescindere, tenendo conto del nuovo “peso” della “periferia” della Repubblica rispetto al “centro”.

DIBATTITI E ATTUALITÀ

1029

RENATO BALDUZZIProfessore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università

del Piemonte Orientale

SUL RAPPORTO TRA REGIONALIZZAZIONE E AZIENDALIZZAZIONE IN CAMPO SANITARIO

sommario: 1. Le aziende sanitarie e la dottrina: incomprensioni e dimenticanze. – 2. Il le-game tra la regionalizzazione, l’aziendalizzazione e la garanzia del diritto alla salute. – 3. Il “nucleo essenziale” non comprimibile del diritto alla salute, i livelli essenziali di as-sistenza sanitaria e la revisione costituzionale del 2001. – 4. Le funzioni statali in sani-tà come garanzia istituzionale della regionalizzazione e dell’aziendalizzazione. Le “co-erenze di sistema” alla prova dell’autonomia e delle sue anche problematiche declina-zioni. – 5. Tecniche e istituti di coesione in un modello decentrato e aziendalizzato. – 6. Verso il consolidamento del Servizio sanitario nazionale o il suo progressivo e striscian-te indebolimento?

1. Le aziende sanitarie e la dottrina: incomprensioni e dimenticanze

Trascorsi quindici anni dal suo ingresso ufficiale nel Servizio sanita-rio nazionale, è normale che si tenti di tracciare un bilancio della trasfor-mazione in azienda delle unità sanitarie locali, cioè dei principali enti del Servizio stesso, la cui natura giuridica e collocazione istituzionale hanno da sempre costituito un difficile banco di prova per costituzionalisti e amministrativisti.

Nei primi anni successivi all’entrata in vigore del d.lgs. n. 502 del 1992 i commentatori per lo più avevano sottolineato che l’introduzione dell’aziendalizzazione fosse da intendere soprattutto per la sua pars de-struens, cioè come esclusione di compiti gestionali da parte dei comuni, dei quali le unità sanitarie locali disegnate dalla riforma sanitaria del 1978 costituivano organismi operativi 1.

Si trattava di un orientamento all’epoca già consolidato, se è vero che l’esclusione dei comuni da compiti diretti di gestione e amministra-

1 Si v. la ricostruzione di G. sanviti, Art. 3, in aa.vv., Il nuovo servizio sanitario nazio-nale, a cura di F. roversi monaco, Rimini, Maggioli, 2000, p. 110; cfr. anche R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario nazionale tra razionalizzazione delle strutture e assestamento normativo (riflessioni sulla legge 30 novembre 1998, n. 419), in Quad. reg., 1998, pp. 954 ss. Sul dibatti-to intorno alla natura giuridica delle u.s.l. immediatamente a valle dell’istituzione del Ssn v. per tutti F. merusi (a cura di), Unità sanitarie locali e istituzioni, Bologna, il Mulino, 1982.

1030

zione compariva già nelle proposte dell’allora ministro Carlo Donat-Cat-tin (si vedano in particolare i dd.ll. 25 marzo 1989, n. 111 e 29 maggio 1989, n. 199, entrambi non convertiti): una scelta dunque da intendersi come in qualche modo neutrale rispetto ai diversi approcci di politica sa-nitaria dei quali si discuteva tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del de-cennio successivo e volta prevalentemente a correggere il principale di-fetto della legge di riforma, cioè la ridotta governabilità del sistema a causa dell’esistenza di una molteplicità di centri di gestione autonoma e poco coordinabile, e dunque scarsamente in grado di assicurare un ade-guato controllo sulla pur crescente spesa sanitaria 2. I contenuti “positivi” dell’aziendalizzazione, quando emergevano, erano per lo più circoscritti alla generica esigenza di adottare metodi e tecniche propri delle aziende private, quali la contabilità economica.

Sarebbero dovuti passare alcuni anni prima di vedere apparire nella trama legislativa una nozione positiva specifica di aziendalizzazione, sin-tetizzata, da un lato, nell’accostamento della personalità giuridica pub-blica e dell’autonomia imprenditoriale e, dall’altro, nella sottolineatura della natura privatistica degli atti adottati dalle aziende e in particolare dell’atto aziendale sull’organizzazione e sul funzionamento (art. 3, com-ma 1-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e s.m.) 3. Per quanto parte della dottrina abbia sottolineato l’ambiguità di tali disposti normativi 4, la loro considerazione complessiva consente di rinvenirne una ratio univo-ca, consistente proprio nella volontà di far fuoriuscire il più possibile le aziende sanitarie dalla sfera del diritto (e del giudice) amministrativo per assoggettarle alla normativa (e al giudice) di diritto comune, nel contem-po rafforzandone la dipendenza rispetto all’ente Regione.

Proprio il legame tra le due prospettive è il profilo che la riflessione dottrinale ha stentato a cogliere e a ricostruire in modo convincente: se è comprensibile che l’attenzione dottrinale si sia soffermata più sulla pro-blematica dell’aziendalizzazione che su quella della regionalizzazione (la prima costituendo una novità, la seconda già scritta con chiarezza nel-la formulazione originaria dell’art. 117 della Costituzione, ancorché nel-la pratica fortemente inattuata), più sorprendente è la difficoltà a coglie-

2 V. già R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario, cit., p. 951.3 Il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) ha, all’art. 256, inopina-

tamente abrogato l’intero comma 1-ter dell’art. 3 e non soltanto il suo ultimo periodo, relativo ai contratti sotto soglia comunitaria.

4 Da ultimo F. merLoni, Gli incarichi dirigenziali nelle Asl tra fiduciarietà politica e competenze professionali, in Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilan-cio, a cura di A. PioGGia, M. duGato, G. racca, S. civitarese matteucci, Milano, FrancoAn-geli, 2008, p. 118.

1031

re il legame tra i due princìpi, e in particolare la circostanza che l’affida-mento alla Regione dei compiti non solo di programmazione, ma anche, tout court, delle funzioni amministrative nella materia dell’assistenza sa-nitaria e ospedaliera 5 avrebbe comportato l’instaurarsi di molteplici e di-verse “aziendalizzazioni” in dipendenza delle scelte organizzative delle diverse Regioni e Province autonome.

Né si può dire che il legislatore non avesse sottolineato tale nesso, a partire dall’affinità delle formule circa il “completamento” della regiona-lizzazione e dell’aziendalizzazione, introdotto con la legge delega 30 no-vembre 1998, n. 419 e il successivo d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229.

Tale “disattenzione” dottrinale ha concorso, tra l’altro, al manteni-mento di una rilevante incertezza circa i profili concernenti le relazioni tra aziende e regioni e quelli concernenti l’esistenza e l’ampiezza di un generale potere regionale di direttiva nei confronti delle aziende (potere forse non esplicitamente conferito dai principi fondamentali statali, ma indirettamente ricavabile dal potere di dare indirizzi in ordine all’atto aziendale, la cui portata è molto ampia, concernendo sia l’organizzazio-ne sia il funzionamento delle aziende).

2. Il legame tra la regionalizzazione, l’aziendalizzazione e la garanzia del diritto alla salute

Per quanto nel sistema normativo non manchino indizi sufficienti per concentrare l’attenzione sul ruolo di governo da parte della Regione, sugli strumenti con cui esercitarlo e sulle conseguenze che questo com-porta circa la natura e il ruolo delle aziende sanitarie, il legame tra regio-nalizzazione e aziendalizzazione è spesso rimasto nell’ombra.

Eppure l’art. 3, comma 6, ult. periodo del d.lgs. n. 502 (introdotto con norma diretta dalla stessa legge di delegazione, art. 3, l. 30 novembre 1998, n. 419), laddove prescriveva che “le Regioni determinano in via generale i parametri di valutazione dell’attività dei direttori generali del-le aziende, avendo riguardo al raggiungimento degli obiettivi assegnati nel quadro della programmazione regionale con particolare riferimento

5 Così, con particolare chiarezza, l’art. 3 del d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, che costitui-sce, com’è noto, la riforma della riforma della riforma, in quanto esprime il ritrovato accordo tra Stato e Regioni dopo la generalizzata impugnazione da parte di queste ultime del decreto legislativo di riordino 30 dicembre 1992, n. 502 (sui rapporti tra i due testi normativi v. R. BaL-duzzi, Le “sperimentazioni gestionali” tra devoluzione di competenze e fuoriuscita dal siste-ma, in questa Rivista, 2004, pp. 534 ss.).

1032

alla efficienza, efficacia e funzionalità dei servizi sanitari” (disposizione parzialmente ripresa e “corretta” nell’art. 3-bis, comma 5, dove si è ag-giunto che “all’atto della nomina di ciascun direttore generale, esse defi-niscono e assegnano, aggiornandoli periodicamente, gli obiettivi di salute e di funzionamento dei servizi, con riferimento alle relative risorse, ferma restando la piena autonomia gestionale dei direttori stessi” e completata dal comma 13 dello stesso articolo, che ha previsto l’applicazione della disposizione testé riportata in sede di revisione del d.P.C.M. sui contenu-ti del contratto dei direttori generali), fornisce un quadro sufficientemen-te chiaro del legame tra aziendalizzazione e regionalizzazione.

Si tratta di disposizioni che permettono di inquadrare esattamente il potere-dovere regionale di “governo” del sistema: il limite dell’interven-tismo regionale è dato, in primo luogo, dalle necessarie garanzie proce-durali in termini di risoluzione del contratto e di revoca dei direttori ge-nerali (anche allo scopo di coinvolgere quei particolarissimi stakeholders che sono gli enti locali, del cui “ritorno” a un ruolo più spiccato in sani-tà si trovano molte tracce nella normativa successiva al d.lgs. n. 502 del 1992, insieme peraltro a qualche segnale di tipo contrario) 6; in secondo luogo, dall’esigenza di assicurare non genericamente l’autonomia ge-stionale dei direttori generali, ma la loro “piena” autonomia, secondo quanto prescritto dal menzionato comma 5 dell’art. 3-bis, limitata dai po-teri regionali, compreso quello di direttiva, da intendersi non tanto come potere generale o generico, ma riferito puntualmente ai termini e ai mo-di stabiliti dalla normativa nazionale e regionale, compresa quella, come si è visto importantissima, sull’atto aziendale. Una nozione, quella di “piena autonomia” che certamente non può essere intesa alla lettera 7, ma alla luce del complessivo quadro normativo, che vede appunto la presen-za di indirizzi e obiettivi regionali, con la conseguenza di far diventare parametrabile il rendimento dei singoli direttori e conseguentemente la mancata conferma e la revoca dei medesimi 8.

6 Si v. R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario, cit., pp. 954-955; Id., Titolo V e tutela della sa-lute, in questa Rivista, 2002, p. 72, nt. 15.

7 In senso diverso v. F. merLoni, Gli incarichi dirigenziali, cit., pp. 104 ss.8 Il rapporto Regioni-aziende viene talvolta assimilato a quello privatistico tra impresa

capo-gruppo e controllate. Si veda per esempio, tra i documenti più recenti, il Piano socio-sa-nitario regionale piemontese 2007-2010, secondo il quale il processo di aziendalizzazione del-le organizzazioni sanitarie pubbliche deve essere coerente con l’appartenenza ad un “gruppo”, a due livelli: rispetto alla Regione, l’autonomia imprenditoriale delle aziende sanitarie va inte-sa nell’organizzazione dei processi assistenziali (come fare), nell’ambito della missione defi-nita dalla programmazione regionale, in coerenza con le linee guida definite nell’ambito della funzione di “capo gruppo” (ovviamente con la partecipazione delle aziende) e con il rispetto

1033

Nonostante dunque fosse possibile ricavare pianamente dal sistema normativo un quadro di riferimento univoco cui ricollegare l’attenzione ai profili del governo regionale della sanità come strettamente connessi alla scelta dell’aziendalizzazione e alla tipologia della medesima, questi rima-sero sottovalutati almeno sino a quando, in seguito alla revisione costitu-zionale recata dalla legge cost. 24 ottobre 2001, n. 3, la questione della ef-fettiva regionalizzazione della sanità e dei suoi limiti costituzionali venne riproposta, già a partire dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, soltanto a poche settimane dall’entrata in vigore delle modifiche costituzionali, ebbe a inviare un preciso segnale al legislatore regionale circa la portata dei cambiamenti costituzionali (sent. n. 510 del 1992) 9.

La regionalizzazione italiana va compresa entro il quadro di riferi-mento costituito dai princìpi fondamentali della legge n. 833, ribaditi nell’ultima importante sistemazione normativa del Servizio sanitario na-zionale (appunto il complesso legge delega n. 419 del 1998 e decreto le-gislativo n. 229 del 1999), in particolare quanto alla filosofia di fondo del sistema e al rapporto tra livelli di assistenza e risorse finanziarie, contro applicazioni e interpretazioni dei decreti n. 502 del 1992 e n. 517 del 1993 che erano apparse in contrasto con i capisaldi della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Si tratta di un quadro oggi apparente-mente consolidato dopo un decennio di oscillazione, ma in realtà sogget-to a continue tensioni e torsioni, derivate dai diversi quando non opposti approcci di politica sanitaria che si confrontano nel nostro Paese 10.

è importante liberare la lettura dell’evoluzione della legislazione sa-nitaria da ipoteche legate a specifiche concezioni del diritto alla salute e delle modalità attraverso cui soddisfarlo le quali, seppure in astratto so-stenibili, non trovano appigli nel sistema costituzionale italiano.

Negli anni di stesura del decreto di riordino del 1992 era venuta in-fatti affermandosi la costruzione del diritto alla salute come diritto finan-ziariamente condizionato, elaborata anche sulla base di alcune sentenze della Corte Costituzionale. A dire il vero, la Corte non sembra aver mai aderito in toto a tale controversa nozione, limitandosi per lo più ad affer-

dei vincoli di bilancio; rispetto alle altre aziende sanitarie, l’autonomia delle aziende sanitarie deve essere intesa in coerenza con l’organizzazione a rete di tutti i servizi, sanitari, ammini-strativi e di supporto.

9 Cfr. R. BaLduzzi, Considerazioni di sintesi, in La sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, a cura di R. BaLduzzi, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 404-405.

10 Su cui rinvio a R. BaLduzzi, I livelli essenziali nel settore della sanità, in G. Berti, G.C. de martin, Le garanzie di effettività dei diritti nei sistemi policentrici, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 247 ss.

1034

mare che, nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore compie al fine di dare attuazione al diritto alla salute, debba rientrare an-che la considerazione delle esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica: il diritto alla salute, che implica il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la sua tutela, si configura allora, secondo espressioni larga-mente presenti nella giurisprudenza costituzionale, come diritto costitu-zionalmente condizionato all’attuazione che il legislatore ne dà attraver-so il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri in-teressi costituzionalmente protetti, “tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e fi-nanziarie di cui dispone” (così, tra le molte, la sent. n. 267 del 1998) 11.

Si trattò di una costruzione non priva di qualche aggancio sul piano normativo. L’attenzione per le esigenze della finanza pubblica era stata infatti espressamente presente, ancorché con espressioni non prive di qualche ambiguità, nella legge delega n. 421 del 1992, in particolare nell’art. 1, comma 1, primo periodo, dove il contenimento della spesa sa-nitaria era indicato tra gli scopi da raggiungere, e nell’art. 1, comma 1, lett. g), secondo cui le prestazioni di assistenza sanitaria dovevano esse-re assicurate “in coerenza con le risorse stabilite dalla legge finanziaria”: la legge delega del 1992 sembrava cioè considerare l’equilibrio economi-co-finanziario ora come obiettivo autonomo da raggiungere, ora (più cor-rettamente, dal punto di vista costituzionale) come vincolo da rispettare. E se è vero che l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 avrebbe eli-minato tale ambiguità (come immediatamente rilevato dalla Corte Costi-tuzionale nella sent. n. 355 del 1993, che respinse una censura di parte re-gionale fondata sull’assunto che il contenimento della spesa pubblica fosse l’unico obiettivo per la determinazione dei livelli uniformi di assi-stenza sanitaria), è altresì vero che dall’insieme della normativa di riordi-no emergeva un’oscillazione di significato, la quale, se pure risolta (co-me si è visto) dal legislatore delegato e dalla giurisprudenza costituzio-nale attraverso la distinzione tra obiettivi di salute e vincoli di bilancio, sarebbe rimasta sullo sfondo dell’attuazione operativa delle riforme del 1992/1993. Questa circostanza, insieme a periodici aggiustamenti della normativa (soprattutto in sede di “collegati” alla legge finanziaria) detta-ti dalla necessità di tenere sotto controllo una spesa tendente alla conti-nua espansione, ha concorso a determinare una situazione di fatto e una mentalità degli operatori più propensa a concentrare il proprio interesse e la propria attenzione sul vincolo anziché sulla risorsa.

11 R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario, cit., pp. 954 ss.

1035

Era pertanto evidente che, al fine di potersi parlare di vera e propria regionalizzazione, occorreva superare tale mentalità ed è proprio su que-ste basi che si svilupperà la reazione normativa, della quale appunto la legge n. 419 del 1998 e il relativo decreto legislativo delegato n. 229 del 1999 sono stati l’espressione.

3. Il “nucleo essenziale” non comprimibile del diritto alla salute, i livel-li essenziali di assistenza sanitaria e la revisione costituzionale del 2001

La reazione legislativa cui si è fatto cenno si fondava sulla necessità di dare un contenuto più preciso a quel “nucleo essenziale” del diritto al-la salute che dottrina e giurisprudenza (soprattutto, ma non solo, costitu-zionale) avevano comunque individuato come non comprimibile: in que-sta prospettiva, si comprende anche bene perché l’art. 1, comma 3, del medesimo d.lgs. nel testo introdotto dal d.lgs. n. 229/1999, abbia stabili-to che l’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza ven-ga effettuata “contestualmente” all’individuazione delle risorse finanzia-rie destinate al Ssn, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite dal D.p.e.f.

Con una formula di sintesi potremmo ribadire che, per la legge dele-ga del 1998, in principio ci stiano “i livelli uniformi ed essenziali di assi-stenza e le prestazioni efficaci ed appropriate da garantire a tutti i cittadi-ni a carico del Fondo sanitario nazionale”: questa formula, tratta dalla lettera aa) dell’art. 2, comma 1, della legge e riferita al contenuto del Pia-no sanitario nazionale, ben può rappresentare il cuore della riforma del 1999, la sfida cioè a dare dimensione organizzativa al contenuto essen-ziale del diritto alla salute.

L’attuazione di tale riforma è venuta poi a intersecarsi con l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, e ciò ha consentito alla regionalizzazione di potersi compiutamente esplicitare.

La revisione costituzionale, se da un lato ha facilitato il superamen-to delle discussioni degli anni Novanta sia (a) sulla portata del diritto al-la salute e sul rapporto tra la sua tutela e i vincoli economico-finanziari, sia (b) sulla qualificazione dei livelli di assistenza sanitaria come “mini-mi” o come “essenziali”, dall’altro ha riproposto con rinnovata forza (c) il tema delle relazioni tra garanzia del diritto alla salute e predisposizio-ne delle condizioni organizzative che lo rendono effettivo, e dunque del-le relazioni tra livelli territoriali di governo cui competono le prime e le seconde.

1036

(a) Sul primo punto, la discussione si è concentrata sulla portata e sui limiti della nozione del diritto alla salute come diritto finanziariamen-te condizionato, in connessione con la più ampia problematica del ripen-samento dello Stato sociale. Gli svolgimenti successivi della giurispru-denza costituzionale hanno confermato la tendenza del giudice costitu-zionale a sottolineare il condizionamento finanziario nei casi in cui vie-ne in rilievo non direttamente il diritto individuale alla salute da tutelare, quanto piuttosto la distribuzione delle risorse finanziarie tra i vari sogget-ti che operano nel Ssn (si veda, a titolo di esempio, la sent. n. 200 del 2005) e a rimarcare, negli altri casi, che le esigenze della finanza pubbli-ca non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso tal-mente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (così già la sent. n. 309 del 1999).

(b) Sotto il secondo e connesso profilo, la previsione della compe-tenza esclusiva statale in ordine alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere ga-rantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lettera m); la me-desima espressione viene ripresa all’art. 120, comma 2, Cost., dove, nel-lo stabilire i presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo statale, si prevede che ciò possa avvenire quando lo richieda “la tutela dei livelli es-senziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”) ha condot-to la giurisprudenza costituzionale a rispondere alla domanda se il nucleo irriducibile coincida con i livelli essenziali oppure i livelli essenziali del-le prestazioni e il contenuto costituzionale dei diritti siano concetti di-stinti. Qui la Corte, pur non rinunciando a formule generali come il “go-dimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali dirit-ti” (sent. n. 88 del 2003), tende a distinguere tra il profilo dei livelli es-senziali, i profili organizzativi e i profili attinenti all’appropriatezza del-la pratica terapeutica (si vedano, rispettivamente, le sentt. n. 88 del 2003, 120 del 2005 e 282 del 2002), con un orientamento compatibile con l’ap-proccio del legislatore ordinario per il quale, come si è visto, in materia sanitaria i livelli essenziali di assistenza definiscono il tetto massimo, il livello massimo, non la soglia, cioè il livello minimo, delle garanzie of-ferte a tutti i consociati 12.

(c) Pur non contenendo la Costituzione disposizioni che espressa-

12 Sul punto R. BaLduzzi, I livelli essenziali, cit.; id., voce Salute (diritto alla), in Dizio-nario di diritto pubblico, diretto da S. cassese, Milano, Giuffrè, 2006, vol. VI, pp. 5397 ss.; L. cuocoLo, La tutela della salute tra neoregionalismo e federalismo. Profili di diritto interno e comparato, Milano, Giuffrè, 2005, spec. pp. 116 ss.

1037

mente riguardino i profili organizzativi della sanità (a differenza di quan-to stabilito negli artt. 33, comma 2, Cost. e 38, comma 4, Cost.), la previ-sione di livelli essenziali e uniformi di assistenza quale oggetto di com-petenza esclusiva statale implica conseguenze importanti anche sull’or-ganizzazione dei servizi sanitari: è arduo immaginare un sistema capace di assicurare tali livelli senza un’organizzazione ultraregionale. Si tratta però di chiarire bene, in primo luogo, che il Servizio sanitario nazionale di cui si parla è quello disegnato dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 229/1999, che ha così sostituito il precedente art. 1, comma 1, dei decre-ti di riordino del 1992/1993, e che lo qualifica come il “complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali” (oltre che “delle altre funzioni e attività svolte dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale, nell’ambito dei conferimenti previsti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, nonché delle funzioni conservate allo Stato dal medesimo decreto”); e, in secondo luogo, che l’ultimo comma dell’art. 118 Cost. e il rilievo da esso dato alla cosiddetta sussidiarietà orizzonta-le, impongono ai pubblici poteri di favorire l’autonoma iniziativa dei cit-tadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse gene-rale, e dunque il riconoscimento e la promozione delle forme no-profit di prestazione di servizi sanitari. Il richiamo alla pregnanza di significato del richiamo alla Repubblica trova oggi conferma indiretta nell’inclusio-ne della tutela della salute tra le materie di legislazione concorrente ai sensi del secondo comma dell’art. 117 Cost.

Bisogna a questo punto ricordare che parlare di regionalizzazione in sanità non può mai essere dato per scontato, nonostante la formula origi-naria dell’art. 117 Cost. demandasse alle regioni la potestà legislativa concorrente per quanto concerne l’assistenza sanitaria e ospedaliera, in quanto la materia sanitaria è caratterizzata nel nostro Paese, a partire dal 1978, dalla presenza di un’organizzazione a carattere nazionale, il Servi-zio sanitario nazionale, attuativa del diritto costituzionalmente garantito alla salute, nonché dall’esistenza di una cornice programmatoria nazio-nale: è proprio in questa materia che la giurisprudenza costituzionale aveva affermato il principio che “quando si tratti di organizzare un servi-zio a carattere nazionale, o di regolare una programmazione, o di dettare norme sostitutive anticipatrici della medesima (…) le regole del riparto fra Stato e soggetti di autonomia in tema di legislazione concorrente non possono essere interpretate in modo così rigido da impedire alla legisla-zione statale di porre in essere strumenti normativi ed organizzatori diret-ti al perseguimento dei fini generali del servizio o della programmazio-ne, trattandosi in definitiva di norme di coordinamento e sul coordina-mento”. A tale orientamento corrispondeva la qualificazione della rifor-

1038

ma sanitaria come riforma economico-sociale, anche se la Corte Costitu-zionale ha sempre evitato di utilizzare questa definizione per coprire tut-te le disposizioni del d.lgs. n. 502 del 1992 e non soltanto i principi da es-so ricavabili (v. rispettivamente la sent. n. 341 del 1992 e la sent. n. 354 del 1994).

Con l’entrata in vigore del nuovo Titolo V la situazione è però pro-fondamente mutata.

Anche ammettendo che gli orientamenti della Corte Costituzionale ora menzionati valessero a confermare la degradazione della potestà le-gislativa delle Regioni in presenza di interessi nazionali infrazionabili (tale, per la potestà concorrente, da averla trasformata in molti casi in at-tuativo-integrativa), una tale conseguenza è oggi impensabile, a causa della diversa tecnica di attribuzione di competenze legislative e della più netta distinzione tra riserva statale dei principi fondamentali e spettanza alle regioni della competenza legislativa in tali materie (in senso confor-me Corte Cost., sentt. n. 282 del 2002 e n. 370 del 2005). Fondamentale è poi la constatazione che oggi il sindacato di costituzionalità sulle leggi regionali, mutando da preventivo in successivo, ha ormai come oggetto norme entrate in vigore, cioè norme che hanno già avuto un impatto con-creto sugli interessi disciplinati, consentendo al giudice delle leggi un sindacato altrettanto “concreto” su norme che vivono già in un determi-nato modello di Servizio sanitario regionale.

Anche il cambiamento terminologico (da “assistenza sanitaria e ospedaliera” alla formula, di tipo teleologico-funzionale, “tutela della sa-lute”) è importante, sia perché è venuto a confermare a livello costituzio-nale quanto già l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale aveva immes-so nell’ordinamento, sia perché la stretta affinità con la formulazione dell’art. 32 Cost. induce a considerare rafforzata la competenza ricono-sciuta alle Regioni, attuativa di un bene oggetto di tutela da parte della Repubblica.

Da quanto detto consegue, in ordine alla distinzione tra principi fon-damentali e legislazione regionale cosiddetta di dettaglio (terminologia essa stessa oggi inadeguata), che, fatte salve le disposizioni statali di det-taglio “interpretative”, rivolte cioè a definire con maggiore precisione il senso del principio – per le quali diventa un problema di interpretazione delle concrete fattispecie lo stabilire se stiano o meno dentro il modelli-no dei principi fondamentali –, altre categorie di disposizioni statali di dettaglio (come quelle relative a disposizioni che stabiliscano standard minimi meramente organizzativi rispondenti a un interesse nazionale, o che siano poste al fine di soddisfare l’esigenza di una più sollecita opera-tività delle nuove regole organizzative) non sembrano più compatibili

1039

con il nuovo assetto, che non pare ammettere, quanto alla prima catego-ria, una tutela dell’interesse nazionale non ricondotta a una precisa fatti-specie di competenza ovvero unilateralmente individuata dallo Stato mentre, quanto alla seconda, è proprio la posizione da parte statale di re-gole organizzative e non di soli principi, prima ancora che l’urgenza dell’operatività delle medesime, a costituire problema (fatta salva l’attra-zione in sussidiarietà, secondo il concetto e i limiti contenuti nella nota sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003).

4. Le funzioni statali in sanità come garanzia istituzionale della regiona-lizzazione e dell’aziendalizzazione. Le “coerenze di sistema” alla prova dell’autonomia e delle sue anche problematiche declinazioni

Dalla revisione costituzionale si ricava allora un ampliamento dell’autonomia regionale, specialmente per quanto attiene al profilo or-ganizzativo dei Servizi sanitari regionali, chiamati ad autoconfigurarsi e a caratterizzarsi (e dunque anche ad autodefinirsi come ambito di “gover-no” nel quale sperimentare concrete ipotesi di aziendalizzazione).

Parallelamente a questa direzione di sviluppo del sistema, dalla revi-sione costituzionale si ricava però anche la necessità di una maggiore ca-ratterizzazione della funzione statale, chiamata non soltanto a individua-re, d’intesa con le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolza-no, i livelli essenziali di assistenza sanitaria, ma soprattutto a promuover-ne il monitoraggio e la progressiva “manutenzione”.

In proposito, è importante evitare una lettura, per dir così, pre-rifor-ma del rapporto tra la regionalizzazione e l’aziendalizzazione, da un la-to, e le funzioni statali, dall’altro, nel senso che le prime costituiscano un mero limite per l’esercizio delle seconde. Dopo la revisione costituziona-le del 2001, tale lettura non è più accettabile, in quanto le funzioni di in-teresse unitario o si radicano espressamente nell’elenco delle competen-ze legislative di cui al secondo comma dell’art. 117, oppure trovano fon-damento nell’art. 118, ma in tal caso sono assoggettate a scrutinio stretto di costituzionalità e a regole precise della leale collaborazione (accordo, intesa).

Ciò non significa che il ruolo statale abbia perso di significato, per contro esso assume il senso della garanzia istituzionale che consente l’eser-cizio decentrato di funzioni strettamente connesse con un fondamentale diritto di cittadinanza; e ciò proprio in forza della previsione e del puntua-le esercizio di funzioni statali volte ad assicurare la garanzia dei livelli es-senziali su tutto il territorio nazionale. Dunque, accanto alla regionalizza-

1040

zione e alla connessa aziendalizzazione, sorge il problema delle “coerenze di sistema” 13 che possono essere assicurate sia da un migliore esercizio della funzione statale, sia da forme di autocoordinamento tra le regioni (arg. ex art. 1, comma 5, d.lgs. n. 502/1992 e s.m.), sia da forme di coordi-namento verticale fondate sul principio della leale collaborazione.

La riflessione dottrinale ha mostrato che le Regioni hanno general-mente risposto alla nuova situazione creata dalla revisione costituzionale del 2001 e dall’attuazione, per molti aspetti problematica, della riforma sanitaria del 1999 con l’impegno a consolidare i rispettivi “modelli” sa-nitari (impiego tale nozione in senso del tutto descrittivo e non valoriale), confermando il pieno inserimento degli stessi dentro il Servizio sanitario nazionale e le coerenze di sistema che esso genera 14.

Quanto appena riassunto si evince sia direttamente, attraverso dispo-sizioni che espressamente ciò stabiliscono (l’esempio più significativo, tenuto anche conto del rango della fonte in cui è inserito, è l’art. 9 del nuovo Statuto del Piemonte, secondo cui “il sistema sanitario regionale opera nel quadro del sistema sanitario nazionale”) oppure che riconosco-no attività normative regionali come esplicitamente poste “in attuazione” di norme di principio statali (un esempio, fra i tanti, è l’art. 10 l.r. Vene-to 16 agosto 2002, n. 22, in tema di autorizzazione e accreditamento del-le strutture); sia indirettamente, attraverso la declinazione e lo svolgi-mento, in sede regionale, di scelte caratterizzanti del modello statale, com’è il caso della nozione di aziendalizzazione, intesa come “piena ca-pacità e assunzione di responsabilità nell’impegnare e valorizzare il pa-trimonio affidato, ottemperando alla missione aziendale di tutela della salute delle popolazioni di riferimento”, secondo quanto recita, non sen-za qualche enfasi, il Piano sanitario regionale della Campania.

Il consolidamento del modello passa, nelle regioni storicamente me-no favorite, attraverso la decisa critica delle pratiche passate e l’assunzio-ne di concreti impegni. Un esempio è fornito dalla Regione Calabria, do-ve già il Piano regionale per la Salute 2004/2006 (in allegato alla l. r. 19 marzo 2004, n. 11) denotava la consapevolezza dell’esigenza di un salto di qualità (che l’emergenza di questi ultimi mesi rende ancora più urgen-te), indispensabile dopo l’entrata in vigore della revisione costituzionale del Titolo V e consistente in un nuovo slancio programmatico e normati-vo, capace di incidere su tutti i profili dell’assistenza sanitaria, dalla ri-

13 V. sul punto I Servizi sanitari regionali tra autonomia e coerenze di sistema, a cura di R. BaLduzzi, Milano, Giuffrè, 2005.

14 Indicazioni ulteriori in R. BaLduzzi, Quanti sono i sistemi sanitari italiani? Un’intro-duzione, in I Servizi sanitari regionali, cit., pp. 9 ss.

1041

strutturazione della rete ospedaliera alla ridefinizione dell’assistenza ter-ritoriale, dalla razionalizzazione delle prestazioni farmaceutiche alla ri-forma del sistema integrato di interventi e servizi socio-sanitari. Sempre all’interno della problematica degli squilibri fra Centro-Nord e Sud, è da segnalare l’orientamento della Regione Basilicata, volto a riqualificare la spesa per prestazioni effettuate in strutture private e a cercare di riequili-brare lo sbilancio della mobilità sanitaria interregionale (si veda in parti-colare la l.r. 7 agosto 2003, n. 29).

E se è vero che, in ordine a molte delle situazioni regionali cui si è fatto cenno, diviene decisivo il confronto tra obiettivi prefissati e risulta-ti conseguiti e tra disposizioni normative o provvedimenti amministrati-vi e concreta effettività degli stessi, è pur vero che proprio l’odierna vi-cenda dei Piani di rientro dai disavanzi testimonia, pur nella faticosa at-tuazione, le coerenze di sistema.

Introdotta come principio poco più che declamatorio all’interno del-la prima esperienza del cosiddetto “patto di stabilità interno” dall’art. 28 della l. 23 dicembre 1998, n. 448 (attraverso la previsione che il Ministro della sanità si avvalesse dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali per la valutazione delle situazioni regionali, individuando le regioni deficita-rie e definendo le linee generali degli interventi di rientro e di ripiano), e corredata di valenze procedimentali dall’art. 19-ter del d.lgs. 502/1992 nel testo introdotto dalla riforma del 1999, la previsione di una collabo-razione Ministero-Regioni diviene più stringente con l’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, secondo cui, in caso di disa-vanzo di gestione a fronte del quale non sono stati adottati adeguati pia-ni di rientro, la regione interessata procede alla ricognizione delle cause ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione o potenziamento del Servizio sanitario regionale, sulla cui base stipulare con i Ministri della salute e dell’economia un apposito Accordo che indi-vidui gli interventi necessari per il perseguimento dell’equilibrio econo-mico. Con la l. 27 dicembre 2006, n. 296, si stabilisce all’art. 1, comma 796, lett. b), che il Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, assicuri l’attività di affiancamento alle re-gioni che hanno sottoscritto l’Accordo sopra menzionato, “comprensivo di un piano di rientro dai disavanzi, sia ai fini di monitoraggio dello stes-so, sia per i provvedimenti regionali da sottoporre a preventiva approva-zione da parte del Ministero della salute e del Ministero dell’economia e delle finanze, sia per i Nuclei da realizzarsi nelle singole regioni con fun-zioni consultive di supporto tecnico, nell’ambito del Sistema nazionale di verifica e controllo dell’assistenza sanitaria di cui all’articolo 1, com-ma 288, della l. 23 dicembre 2005, n. 266”.

1042

Si tratta, come si vede, di un sistema complesso e non sempre di age-vole decifrazione, nel quale si intrecciano elementi di segno diverso (dal tradizionale controllo sugli atti al più attuale controllo-consulenza), ma che denota il peso crescente delle necessarie coerenze di sistema.

Se a fronte della normativa statale esaminiamo quella regionale, pos-siamo facilmente constatare che, salvo isolate eccezioni, non si è verifica-ta sinora la corsa a nuovi modelli legislativi (forse perché i “modelli” già preesistevano, in forza del carattere largamente decentrato del Servizio sanitario nazionale almeno a partire dalla fine degli anni Ottanta), il che conferma il peso delle coerenze di sistema. Il tentativo forse più impor-tante di “occupazione” della disciplina, attraverso la determinazione di norme generali regionali, quello della l.r. Emilia-Romagna 23 dicembre 2004, n. 29, “Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del Servizio sanitario nazionale”, non mira a configurare un modello alterna-tivo a quello nazionale, ma a “prendere sul serio” la riforma del 1999 e a declinarla secondo la sensibilità regionale. Quella emiliano-romagnola è la punta massima di un approccio che ha coinvolto tutte le regioni: la ri-forma del 1999, anche quando non vi è stato un apposito atto di recepi-mento o adeguamento legislativo, ha comunque dato origine a modifica-zioni rilevanti negli ordinamenti dei Servizi sanitari regionali 15.

Quanto detto vale dunque anche per quelle situazioni nelle quali la riforma del 1999 non è stata compiutamente recepita e dunque dove, per esempio, non hanno avuto ingresso lo strumento dell’atto aziendale di di-ritto privato o l’autonomia imprenditoriale delle aziende, come è il caso della Provincia autonoma di Trento. Qui il regolamento dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari ricalca peraltro, anche nel procedimento di formazione, il modello dell’atto aziendale e le “deroghe” rispetto al modello nazionale paiono determinate non dall’intendimento di costrui-re un modello alternativo, quanto piuttosto dal voler adeguare il modello nazionale alle peculiari caratteristiche provinciali. Si spiega così la disso-nanza tra profili strutturali, per così dire, di retroguardia e profili funzio-nali di avanguardia. Discorso analogo per l’Umbria, dove il mancato re-cepimento dell’autonomia imprenditoriale delle aziende va letto per quello che esso realmente significa, cioè il riflesso della preoccupazione di assicurare l’effettività sia del governo e della programmazione regio-nali, sia della stessa programmazione attuativa locale: una preoccupazio-ne di sistema, coerente con lo spirito della riforma del 1999, anche se con

15 Per sviluppi sul punto devo rinviare a R. BaLduzzi, Cinque anni di legislazione sanita-ria decentrata: varietà e coesione di un sistema nazional-regionale, in “Le Regioni”, 2005, pp. 717 ss.

1043

una strumentazione in parte differente (a conclusioni analoghe è possibi-le giungere a proposito del sistema sanitario marchigiano e, in parte, mo-lisano e della loro scelta per un’unica azienda Usl regionale).

La differenza tra le realtà regionali, più che ricollegarsi a modelli ri-gidi, sembra così riassumibile: da una parte, Servizi sanitari regionali che rimarcano il loro essere dentro il Servizio sanitario nazionale, introdu-cendo scostamenti, anche importanti (la recezione del d.lgs. n. 229 ben raramente è integrale), ma non tali da fuoriuscire dal sistema; dall’altra, alcune eccezioni (la più consolidata e l’unica che possa aspirare a porsi come tipo a sé è quella lombarda).

Il quadro che emerge non deve però far pensare a una legislazione regionale di mero aggiustamento, reattiva soltanto alle sollecitazioni di natura budgetaria e avente per obiettivo esclusivo il contenimento della spesa, soprattutto ospedaliera e farmaceutica: se così fosse, il ruolo delle coerenze di sistema sarebbe modesto. In realtà, alcune Regioni si sono mosse da tempo nella direzione della auto-assunzione della garanzia dell’effettività dei diritti sociali in campo sanitario, percorrendo la strada della promozione di tecniche di uso appropriato delle risorse e di appro-priatezza delle prestazioni (strada peraltro pressoché obbligata, se è vero che l’unico modo per arrivare in posizione di forza ai pressoché settima-nali “vertici” con i ministeri interessati e contrattare vantaggiosamente i profili budgetari consiste nel “mettere ordine in casa propria”), puntando sul rafforzamento e sull’affinamento dell’assetto organizzativo quali pre-messe e fattori del miglioramento qualitativo 16 .

16 Così, il già citato legislatore emiliano-romagnolo concentra i propri sforzi nella costru-zione di una condivisa programmazione locale dei servizi e delle prestazioni, potenziando il modello organizzativo distrettuale, si preoccupa di rivisitare sperimentazioni gestionali avvia-te negli anni Novanta a livello aziendale in numero e importanza consistente (verificandone motivazioni originarie di qualità dei servizi e convenienza economica), riconduce alle esigen-ze della programmazione regionale l’attività sanitaria delle università (prevedendo un’apposi-ta Conferenza Regione-Università) e degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico aventi sede nel territorio regionale: non senza introdurre variazioni originali, quali il conferi-mento della qualità di organo aziendale al Collegio di direzione o l’introduzione del parere ob-bligatorio dell’Ufficio di presidenza della Conferenza territoriale sociale e sanitaria sulla no-mina regionale del direttore generale.

Dal canto suo, il legislatore lombardo, avendo scelto sin dal 1996 e formalizzato nella l.r. 11 luglio 1997, n. 31 (“Norme per il riordino del Servizio sanitario regionale e sua integrazio-ne con le attività dei servizi sociali”) una diversa strada, la ha via via progressivamente preci-sata, giungendo a un modello di separazione delle funzioni di produzione e di acquisto dei ser-vizi portato alle sue conseguenze massime, con la previsione che le aziende sanitarie locali concentrino il proprio ruolo nelle funzioni di programmazione finanziaria, acquisto e control-lo, smettendo quelle funzioni di tutela attiva anche in quei settori (es. prevenzione) nei quali

1044

Per altro verso, le tendenze della legislazione regionale paiono asso-lutamente coerenti con l’evoluzione stessa del quadro normativo statale: nel momento in cui l’ordinamento consente l’articolazione organizzativa e gestionale, la tenuta del sistema sembra risiedere nella condivisione del modello di fondo, con una forte insistenza, negli ultimi anni, su quello che costituisce, alla fine, lo snodo fondamentale del modello sistemico, cioè una concezione forte dell’appropriatezza.

Sin dal suo primo apparire nel nostro ordinamento, l’appropriatezza, questo singolare neologismo introdotto nella legislazione italiana nel 1997 17, ha presentato due caratteristiche, quella di essere un’integrazione e una specificazione della nozione di qualità, cui è strettamente connessa, e quella di fondere il profilo clinico con quello organizzativo, l’appropria-tezza della prestazione sanitaria in quanto tale e delle modalità con le qua-li è resa nel contesto strutturale e organizzativo in cui è inserita. Dimen-sioni, queste, descritte con chiarezza nel Piano sanitario nazionale 1998-2000, nel quale la nozione di appropriatezza è stata connessa con quella di livelli essenziali di assistenza: sia indicando nell’appropriatezza l’ele-mento determinante della definizione stessa dei Lea (livelli di assistenza non soltanto necessari, ma altresì appropriati, “rispetto sia alle specifiche

continuavano a conservarla. Le inversioni di marcia pur verificatesi (soprattutto quella volta a ridisegnare le relazioni tra ente Regione e soggetti erogatori delle prestazioni, aderendo al mo-dello nazionale delle cosiddette 4 A, si vedano soprattutto le ll.rr. 19 dicembre 2001, n. 26 e 16 febbraio 2004, n. 2), si spiegano più a causa delle difficoltà budgetarie incontrate dal modello lombardo della separazione (il quale, in assenza di correzioni, ha finito per enfatizzare com-portamenti opportunistici degli operatori, oltre che generare cospicui conflitti di interesse, co-me vicende anche recentissime confermano) che non in forza di un ripensamento della strada intrapresa.

In posizione ancora diversa, la regione Toscana (tra le prime ad adeguare il proprio Ser-vizio sanitario al d.lgs. n. 229, con la l. r. 8 marzo 2000, n. 22, “Riordino delle norme per l’or-ganizzazione del Servizio sanitario regionale”) ha avviato, a partire dal Piano sanitario regio-nale 2002-2004, la sperimentazione delle cosiddette “Società della salute” (anche se, almeno inizialmente, una siffatta denominazione appare ultronea per qualificare consorzi di diritto pubblico tra comuni e aziende unità sanitarie locali ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 267 del 2000). Di rilevante significato simbolico in quanto rappresenta un ritorno dell’ente locale a funzioni di gestione in campo sanitario, tale scelta trova una giustificazione forte nella revisio-ne costituzionale del 2001 proprio a causa della costituzionalizzazione del principio della spet-tanza in via generale delle funzioni amministrative ai comuni (art. 118, comma 1 Cost.). I suoi esiti saranno importanti non soltanto per l’assetto del settore sanitario e sociosanitario, ma al-tresì per il comparto dei servizi sociali.

17 Non è possibile in questa sede ripercorrere il cammino legislativo della nozione di ap-propriatezza; si fa rinvio sul punto a R. BaLduzzi, L’appropriatezza in sanità. Il quadro di ri-ferimento legislativo, in Fondazione Smith Kline, Rapporto Sanità 2004, a cura di N. faLci-teLLi, M. traBucchi, F. vanara, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 73 ss.

1045

esigenze di salute del cittadino, sia alle modalità di erogazione delle pre-stazioni”), sia quale criterio per raggiungere l’auspicato ridimensiona-mento della diagnostica strumentale attraverso appunto “l’introduzione di profili di appropriatezza delle richieste”, sia soprattutto quale principale criterio di esclusione dai Lea di quegli interventi che non rispondono al requisito della appropriatezza clinica (“la cui efficacia non è dimostrabile in base alle evidenze scientifiche disponibili” e/o sono relativi a “sogget-ti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccoman-date”) e organizzativa (cioè quelle forme di assistenza le quali “pur ri-spondendo al principio dell’efficacia clinica, risultano inappropriate ri-spetto alle specifiche necessità assistenziali, in quanto sproporzionate nei tempi, nelle modalità di erogazione o nella quantità di prestazioni forni-te”, per questa via descrivendo un altro profilo dell’appropriatezza, quel-lo “temporale”, l’erogazione cioè delle prestazioni e dei servizi in tempi adeguati alle necessità assistenziali degli utenti).

La strada dell’appropriatezza e del puntuale controllo della medesi-ma allo stato attuale appare, alla luce dei periodici scandali che la crona-ca ci presenta, anche in contesti regionali pur “virtuosi”, la sola che può consentire al sistema di autocontrollarsi senza stravolgersi.

5. Tecniche e istituti di coesione in un modello decentrato e aziendaliz-zato

Si apre a questo punto il problema dei “collanti”, cioè degli istituti, delle tecniche e dei metodi capaci di produrre pratiche condivise di re-sponsabilizzazione dei diversi soggetti territoriali che compongono, ai sensi del rinnovato art. 114 Cost., la Repubblica, in una materia dove le esigenze unitarie si sono storicamente fatte sentire con particolare cogen-za, sin quasi a giustificare la fuga dai principi fondamentali in nome del principio di coordinamento. Si tratta di un principio che è stato frettolo-samente considerato superato dal nuovo sistema (si veda l’esplicito di-vieto contenuto nell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131), un po’ perché nel suo nome si sono consumate in passato significative compressioni dei poteri regionali, un po’ perché la sua applicazione con-creta ne ha dilatato oltre misura senso e contenuti, un po’ perché non era stata del tutto metabolizzata dalla stessa dottrina la metaformosi di cui questo principio è stato protagonista a seguito delle riforme amministra-tive della seconda metà degli anni Novanta (se l’atto di indirizzo e coor-dinamento è esercitato d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o la

1046

Conferenza Unificata, in pratica viene a coincidere con un provvedimen-to ugualmente frutto di intese nel sistema delle Conferenze) 18.

A) Strettamente connesso con tale profilo è la scelta sulle caratteri-stiche organizzative della struttura amministrativa cui affidare la cura de-gli interessi nazionali in materia. In proposito, se sembra condivisibile la tendenza (già affermata nel d.lgs. n. 300 del 1999, e ribadita, almeno im-plicitamente, nella legge finanziaria per il 2008) ad accorpare i ministeri o almeno a ridurre il numero dei ministri, problematica appare la scelta di unificare in un unico ministero le competenze in tema di lavoro, quel-le in tema di salute e quelle sulle politiche sociali. è vero, infatti, che il passaggio dalla considerazione della mera assistenza sanitaria alla tutela della salute quale oggetto della competenza concorrente si iscrive in una più generale tendenza, da tempo presente anche a livello internazionale, volta a intendere la nozione di salute in un significato più ampio rispetto a quello di semplice contrasto alle malattie, e che dunque la cura dell’in-teresse “salute”, al pari di quella dell’interesse “lavoro” viene a conno-tarsi come attività promozionale e non soltanto prestazionale; ed è altret-tanto vero che, all’interno del concetto di salute, al pari di quanto accade per la nozione di lavoro, sono compresenti sia il profilo del diritto sog-gettivo inteso come libertà, sia quello del dovere.

Ma da qui a inferire l’opportunità di concentrare le competenze in ordine a questi due diritti (fondamentali, ex artt. 1, 4 , 32 e 117 Cost.), il passo è tutt’altro che breve: la struttura dell’attività amministrativa volta a soddisfare i due diritti è diversa, a cominciare dalla scelta del tipo di unità operativa chiamata ad assicurare i livelli essenziali di assistenza sa-nitaria e delle sue caratteristiche strutturali (aziende dotate di autonomia imprenditoriale, funzionalmente correlate al decisore regionale), in una logica di decentramento istituzionale cui fa da contraltare la scelta, in materia di lavoro, per modelli di decentramento burocratico e di delega all’ente Provincia. Senza contare che l’accento in materia di lavoro vie-ne posto sulla capacità della pubblica amministrazione centrale di prati-care o favorire modelli di composizione di controversie interprivate, mentre in materia di salute è posto sulla capacità del livello centrale di implementare politiche della salute il più possibile condivise tra i diversi attori istituzionali.

Il carattere trasversale del bene salute rispetto alla generalità delle politiche pubbliche imporrebbe per contro la specializzazione dell’appa-

18 Si veda l’art. 8 della l. 15 marzo 1997, n. 59 e il commento di R. BaLduzzi, Tutela del-la salute, cit., pp. 79 ss.

1047

rato amministrativo centrale preposto a fungere da elemento di tenuta del sistema e della relativa responsabilità politica ministeriale. Al più, un eventuale accorpamento sarebbe configurabile tra le politiche sanitarie e quelle sociali, che già trovano nel campo del sociosanitario un terreno di lavoro comune.

(B) Se l’amministrazione centrale quale perno ed elemento di tenu-ta del sistema rappresenta in qualche modo il profilo soggettivo dei “col-lanti” di cui si è detto, la lett. m) del secondo comma dell’art. 117 Cost. ne costituisce il pendant sostanziale.

Essa rappresenta la costituzionalizzazione di una nozione già pre-sente nella legislazione ordinaria, proprio nelle materie sanitaria e socia-le (per la prima v. l’art. 1 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni). Non a caso, è nel campo sanitario che si registra la prima “declaratoria” di tali livelli, data dal combinato disposto del citato art. 1, commi 6-8 (nel testo introdotto dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229) con il d.P.C.M. 29 novembre 2001; la nozione è peraltro conosciuta anche nel campo dell’assistenza, con la differenza che la specificazione degli stes-si è demandata alla “pianificazione nazionale, regionale e zonale” del si-stema integrato di interventi e servizi sociali (artt. 2 e 22 della l. 8 novem-bre 2000, n. 328).

In campo sanitario la locuzione “livelli essenziali” aveva già trovato un’interessante esplicazione in sede di Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000, che definiva “essenziali i livelli di assistenza che, in quanto necessari (per rispondere ai bisogni fondamentali di promozione, mantenimento e recupero delle condizioni di salute della popolazione) ed appropriati (rispetto sia alle specifiche esigenze di salute del cittadino sia alle modalità di erogazione delle prestazioni), debbono essere uniforme-mente garantiti su tutto il territorio nazionale e all’intera collettività, te-nendo conto delle differenze nella distribuzione delle necessità assisten-ziali e dei rischi per la salute”; il menzionato art. 1 del d.lgs. n. 229 del 1999 darà veste legislativa alla definizione contenuta nel Piano e sarà a sua volta ripreso dal legislatore costituzionale.

Conviene subito sottolineare che la formula costituzionale, proprio perché tratta dalla legislazione ordinaria e dagli atti di programmazione generale, si presenta, almeno nella materia sanitaria, con un contenuto tutt’altro che generico: nell’oscillazione, riscontrabile nella legislazione ordinaria degli anni Novanta, tra livelli “minimi” e livelli “essenziali” (ri-cordo che la necessità che in sede di attuazione della delega si precisasse comunque “l’individuazione della soglia minima di riferimento” era evi-denziata nell’art. 1, comma 1, lett. g) della l. n. 421 del 1992, recante de-

1048

lega per la riforma della legge n. 833 del 1978), il legislatore costituzio-nale opera una scelta precisa, che ha notevoli conseguenze in sede rico-struttiva sostanziale. Prescrivere livelli essenziali e uniformi di assisten-za sanitaria (quali definiti dal menzionato Piano sanitario e dalla cosid-detta riforma-ter del 1999) è infatti altra cosa che prescrivere livelli mi-nimi di tutela, tracciati secondo un arbitrario razionamento: (almeno) nella materia sanitaria non è ammessa confusione tra le due nozioni: ri-chiamare i livelli minimi (come già accennato al § 1) significa ammette-re che il programmatore dei servizi possa arbitrariamente fissare il nove-ro delle prestazioni garantite, mentre il riferimento all’essenziale foto-grafa il massimo di tutela che la scienza medica tempo per tempo può as-sicurare, purché, come si è detto, necessaria e appropriata 19.

Quanto all’uniformità dei livelli essenziali, si tratta a tutta evidenza del problema di fondo in un ordinamento decentrato, una tensione conti-nua tra il livello di tutela (che si vuole “uniforme”) e il livello gestionale e organizzativo (per definizione autonomo, dunque non necessariamente orientato all’uniformità). Come passare dalla “doverosità” di siffatta uni-formità di tutela alla sua “effettività” è un obiettivo cui tendere e non un dato della situazione, a quest’ultima concorrendo una serie complessa di fattori ambientali, culturali, socioeconomici e organizzativi che rende del tutto irrealistico pensare che la formulazione di principi e regole costitu-zionali possa da sola (anche se accompagnata da atti di normazione su-bordinata) realizzare compiutamente il valore e l’interesse tutelato.

Il punto allora sembra essere il seguente: verificare se, in un deter-minato ordinamento decentrato e in relazione a determinati diritti, siano presenti, da un lato, condizioni finanziarie e organizzative di partenza idonee a consentire di percorrere un cammino verso l’obiettivo procla-mato e, dall’altro, tecniche e strumenti di monitoraggio e di intervento idonei a correggere eventuali scostamenti rispetto a tale percorso. Ri-prendendo uno spunto tratto di Konrad Hesse, sulle condizioni per il fun-zionamento ottimale di un siffatto sistema, vengono in rilievo sia la già accennata procedura che la normativa statale delinea per l’individuazio-ne di risorse certe per i Servizi sanitari regionali (la contestualità tra indi-viduazione dei livelli essenziali e uniformi e l’individuazione delle risor-se finanziarie), sia, ancora una volta, l’esigenza di strumenti e tecniche di raccordo verticale e di autocoordinamento orizzontale.

19 Cfr. F. taroni, Livelli essenziali di assistenza, ipotesi” federali” e futuro del Servizio sanitario nazionale, in La sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, a cura di R. BaLduzzi, Milano, Giuffrè, 2004, p. 339; L. cuocoLo, La tutela della salute, cit., pp. 116 ss.

1049

6. Verso il consolidamento del Servizio sanitario nazionale o il suo pro-gressivo e strisciante indebolimento?

Un sistema decentrato quale l’attuale Ssn italiano, con forti coeren-ze interne e collanti sostanziali e organizzativi, ma con grandissime dif-ferenze di rendimento dei diversi sistemi sanitari regionali (confermati dai dati sulla mobilità sanitaria interregionale), pur confortato da positivi giudizi internazionali (che ne evidenziano a livello macro un buon rap-porto tra risorse pubbliche impegnate e outcome di salute), richiede co-stanti sforzi di consolidamento. Se è vero che, almeno sino ad oggi e no-nostante le molte difficoltà, l’alternanza di maggioranze governative non ha indotto particolari sconquassi nell’assetto normativo quale risultante dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229 e persino le modifiche più significative (d.l. 18 settembre 2001, n. 347, conv., con modificazioni, in l. 16 novem-bre 2001, n. 405; n. 347 del 2001 e d.l. n. 138/2004) sono state metabo-lizzate dal sistema 20, è altresì vero che le difficoltà di tenuta finanziaria e le vicende non facili dei Piani di rientro rischiano di compromettere l’attuazione delle linee di intervento contenute nel “Patto per la salute” del 2006 21: la predeterminazione e la certezza delle risorse assegnate in un’ottica di medio periodo (triennale), la responsabilizzazione finanzia-ria dei centri decisionali di spesa, l’aumento delle risorse finalizzate alla riqualificazione tecnologica delle strutture, il controllo di efficienza nel-la gestione delle risorse e del livello della qualità dei servizi e il monito-raggio basato sul principio del costo delle pratiche più efficienti.

Il consolidamento del Servizio sanitario nazionale potrebbe avveni-re probabilmente anche attraverso alcune modifiche normative, senza

20 Si considerino due esempi: l’istituto delle sperimentazioni gestionali sembra aver con-cluso la sua parabola nella funzione di copertura del modello sanitario lombardo, il quale a sua volta è sempre meno derogatorio per via della progressiva accettazione del sistema delle auto-rizzazioni, dell’accreditamento e degli appositi rapporti di cui agli artt. 8-ter e seguenti del d.lgs. n. 502/1992, nel testo introdotto dal d.lgs. n. 229/1999; il d.l. n. 81/2004, conv. in l. 138/2004, in tema di libera professione intramuraria, ha trovato a livello regionale un’attuazio-ne legislativa soltanto parziale oppure una vera e propria messa tra parentesi pratica, mante-nendosi l’esclusività di rapporto come criterio di preferenza per incarichi di responsabile di struttura. Né, a conclusioni diverse, sembra potersi giungere a seguito delle disposizioni con-tenute nell’art. 79, comma 1-quinquies del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. nella l. 6 agosto 2008, n. 133.

21 Sul Patto, siglato nel settembre 2006 e recepito nella legge finanziaria per il 2007, si è espresso in senso positivo il documento “Libro verde sulla spesa pubblica. Spendere meglio: alcune prime indicazioni” (pubblicato dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica del settembre 2007).

1050

stravolgerne l’assetto di fondo 22. In questa prospettiva, vengono in rilie-vo anzitutto: a) il miglioramento dell’organizzazione e del funzionamen-to dell’organo di gestione e degli altri organi e organismi consultivi del-le aziende unità sanitarie locali e delle altre aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale; b) la precisazione delle funzioni e del ruolo degli or-ganismi e degli strumenti che a livello nazionale svolgono compiti di supporto e di monitoraggio del Ssn, con particolare riferimento all’Agen-zia nazionale per i servizi sanitari regionali, della quale andrebbe sottoli-neato il carattere di ente pubblico nazionale, collocato in posizione di ter-zietà tra Stato e Regioni, snodo della ricerca applicata e del monitoraggio delle funzioni 23; c) il coinvolgimento partecipativo dei cittadini e degli utenti delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie; d) la precisazione dei doveri e delle responsabilità del personale del Servizio medesimo ai fini del raggiungimento degli obiettivi di tutela della salute; e) la migliore de-finizione dei tempi e dei percorsi per pervenire a un modello unico di azienda ospedaliero-universitaria.

Il profilo sub a) è quello dove più diffusamente si avvertono esigen-ze di aggiornamento normativo.

Si tratta anzitutto di dare una più precisa definizione della responsa-bilità gestionale del direttore generale, di cui all’art. 3, comma 1-quater, del d.lgs. n. 502 del 1992 e s.m. Già la riforma del 1999, definendo tale responsabilità come “complessiva”, si era mossa nel senso di conferire un contenuto più preciso alla formula originaria secondo cui al direttore generale sarebbero spettati tutti i poteri di gestione. Ora si tratta di fare un passo più in là, specificando ambiti e limiti dei poteri del d.g. e della loro delegabilità. La situazione regionale in materia è alquanto caotica, serve un quadro di principi condiviso che possa essere adattato in ciascu-

22 Come sarebbe probabilmente accaduto ove fosse stata confermata nel referendum co-stituzionale del 2006 la legge di revisione costituzionale contenente, tra l’altro, la cosiddetta devolution: indicazioni in R. BaLduzzi, La creazione di nuovi modelli sanitari regionali e il ruolo della Conferenza Stato-Regioni (con una digressione sull’attuazione concreta del prin-cipio di sussidiarietà “orizzontale”), in questa Rivista, 2004, pp. 17 ss.; id., Quanti sono i si-stemi sanitari, cit., pp. 23 ss.

23 Si veda sul punto il d.d.l. Atto Camera n. 1441-quater, in particolare l’art. 24 recante delega per la riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e, fra questi, dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali: la previ-sione, tra i principi e criteri di delega, di direttive ministeriali sembra però contrastare con il carattere di terzietà dell’Agenzia (alla quale, non a caso, gli indirizzi sull’attività sono dati dal-la Conferenza Unificata: art. 9, comma 2, lett. g) del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281).

1051

na Regione sia da direttive di fonte regionale, sia conseguentemente in sede di atto aziendale 24.

In secondo luogo, vanno potenziati il ruolo e le funzioni del Colle-gio di direzione di cui all’art. 17 del citato d.lgs., configurandolo quale vero e proprio organo (anche sulla scorta di alcune legislazioni regionali anticipatrici) e prevedendone il parere obbligatorio in ordine alla nomina del direttore sanitario, nel contempo ammettendo una pluralità di model-li per la disciplina regionale della scelta del presidente del Collegio di di-rezione. Si tratta di introdurre correttivi che non snaturino la logica della catena di responsabilità che caratterizza il sistema e che impone la coin-cidenza dell’attribuzione di un potere con la relativa responsabilità e re-ciprocamente, ma che assicurino una maggiore coesione intra-aziendale e lo stabilirsi di relazioni virtuose tra i diversi soggetti che in essa opera-no. L’ottica da cui muovere non è infatti quella che vede nell’espressio-ne “governo delle attività cliniche” di cui all’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 502 un sinonimo di “governo dei clinici”, quanto piuttosto l’invito a un governo “con” i clinici. Dando poi continuità a quanto già detto circa l’accennata migliore definizione dei poteri del direttore generale, potreb-bero essere previste forme e modalità di trasparenza nella procedura di selezione dei candidati ad incarichi di direzione di struttura complessa, nonché criteri cui informare la selezione dei candidati ad incarichi di na-tura professionale e di direzione di struttura semplice, anche quali indi-cazioni da specificare in sede di contrattazione collettiva nazionale.

La diffusa insoddisfazione in ordine alle troppe e troppo acclarate interferenze di tipo politico-partitico nella nomina regionale dei direttori generali delle Aziende sanitarie non può poi essere sottaciuta. La circo-stanza che la normativa vigente faccia riferimento alla natura fiduciaria del rapporto del direttore generale e alla conseguenza che la sua nomina debba riferirsi ai soli requisiti di legge, senza necessità di valutazioni comparative, non significa che queste nomine siano nomine “politiche” nel senso usuale del termine. Adottare questo approccio condurrebbe a dar ragione a chi sostiene che, siccome le nomine dei direttori generali hanno natura fiduciaria, è normale che se ne occupi la “politica”; se non si vuole ciò, occorre cambiare sistema e dunque, alternativamente, sot-trarre alla “politica” tali nomine oppure sopprimerne il carattere fiducia-rio. In realtà, il carattere fiduciario della nomina serve a escludere o a li-mitare controversie giurisdizionali sui provvedimenti di nomina da parte

24 Sul punto v. da ultimo la ricognizione di A. PioGGia, Il ruolo del top management e del-la dirigenza di line in sanità: modelli di distribuzione del potere decisionale negli atti azien-dali, in Oltre l’aziendalizzazione, cit., pp. 71 ss.

1052

dei candidati non nominati. Non a caso, il sistema nazionale non prevede la revoca ad nutum, cioè libera, dell’incarico stesso, ma che essa sia mo-tivata, foss’anche soltanto con l’indicazione del mancato raggiungimen-to degli obiettivi puntualmente fissati. E la Corte Costituzionale (sent. n. 104 del 2007) ha dichiarato incostituzionale una legge regionale che estendeva lo spoil system a tali nomine, quasi a voler appunto sottolinea-re che fiducia non significa arbitrio 25.

Come rendere ciò maggiormente evidente potrebbe essere il compi-to di un intervento riformatore, volto a chiarire che il potere di nomina in questione è comunque funzionalizzato al migliore rendimento dei servi-zi sanitari e non direttamente all’attuazione di un determinato indirizzo politico. Per parafrasare ancora la già menzionata sentenza della Corte Costituzionale n. 104 del 2007, si tratta di acclarare il carattere di diri-genza tecnico-professionale, più che politica, dei manager sanitari. L’obiettivo va perseguito evitando di scompaginare le coordinate di fon-do del sistema, e in particolare di reintrodurre forme di valutazione com-parativa dei candidati alla nomina a direttore generale, già adottate in passato e che non hanno dato generalmente buona prova, soprattutto per la difficoltà di adottare provvedimenti sufficientemente e comparativa-mente motivati in un settore nel quale la sintonia sugli obiettivi della pro-grammazione sanitaria regionale conta evidentemente almeno quanto le abilità strettamente manageriali.

Per quanto attiene al profilo sub c), sul coinvolgimento partecipativo dei cittadini e degli utenti, qui l’aggiornamento dei principi contenuti nel Titolo IV del d.lgs. n. 502 (art. 14, cui va affiancato ratione materiae l’art. 10 del medesimo), rubricato come “partecipazione e tutela dei dirit-ti dei cittadini”, potrebbe consistere nella previsione dell’inserimento di un rappresentante delle organizzazioni di tutela dei diritti degli utenti del Ssn all’interno del Collegio di direzione, così da consentire un ponte tra interno ed esterno dell’azienda, evitandone possibili tentazioni autorefe-renziali.

Ora, sebbene i meccanismi di rappresentanza di interessi scontino in gran parte una certa inadeguatezza, poiché ben difficilmente il rappre-sentante riesce a impersonare fino in fondo tale ruolo rinunciando a un coinvolgimento attivo e dunque potenzialmente stravolgente, una siffatta soluzione potrebbe essere di notevole utilità, proprio in quanto volta a in-serire dentro a una dinamica tutta intra-aziendale una voce portatrice di

25 Indicazioni in F. merLoni, Gli incarichi dirigenziali, cit., pp. 107 ss.

1053

interessi e valori diversamente sacrificati all’interno delle ordinarie logi-che che presiedono alle relazioni intercategoriali sui luoghi di lavoro.

Per quanto attiene al profilo sub e), è forse tempo di verificare lo sta-to di attuazione del d.lgs. n. 517 del 1999, essendo i rapporti sanità-uni-versità un nodo delicatissimo di qualunque Servizio sanitario regionale. Accanto all’inevitabile proroga del termine previsto dall’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 517 del 1999, si potrebbe prevedere, in luogo degli strumen-ti ivi ipotizzati per introdurre eventuali adattamenti al modello unico alla luce delle esperienze realizzate (atto di indirizzo e coordinamento, ovve-ro provvedimento legislativo), un’intesa ai sensi dell’art. 8, comma 6, della l. n. 131 del 2003. In tal modo, le realtà regionali nelle quali il mo-dello deve ancora consolidarsi avrebbero lo spazio temporale per farlo, mentre quelle in cui il modello si è già consolidato potrebbero concorre-re alla definizione finale del medesimo. Si tratta di un terreno dalla quan-to mai comprovata delicatezza, in ragione della compresenza in esso di due tipi di autonomia, entrambi costituzionalmente previsti: quella regio-nale, rafforzata dal nuovo Titolo V e che ha visto estendersi la competen-za legislativa (concorrente) sulla materia della ricerca scientifica; quella universitaria, cui pure il nuovo Titolo V potenzia l’autonomia (a volerla considerare, almeno in parte, rientrante nell’ambito materiale dell’istru-zione) 26.

è però il profilo sub b) quello forse più decisivo, ai fini del consoli-damento del sistema. Si tratta di affiancare, ai risultati importanti cui è pervenuta l’indagine economico-aziendale in ordine alla valutazione di sistemi complessi come il sistema sanitario, altri risultati, ottenuti a parti-re da un’analisi sistemica di tipo giuridico-istituzionale e giuridico-orga-nizzativo. Se teniamo presente che il Rapporto mondiale sulla salute del 2000 ha individuato quattro componenti chiave nelle prestazioni dei ser-vizi sanitari (la fornitura di servizi, la creazione di risorse per investimen-ti e formazione, il finanziamento e la funzione di governo-amministrazio-ne-controllo), è facile rendersi conto che nel nostro Paese l’elemento di debolezza, conoscitiva e reale, si concentra proprio nell’ultima compo-nente. Ciò che manca è l’attenzione e la predisposizione di modelli di co-noscenza e valutazione che superino la sola prospettiva economico-azien-dale e che riescano a misurare non soltanto il complesso delle prestazioni fornite (Lea) e il complessivo output, ma altresì la capacità di governo del

26 Sul punto cfr. R. BaLduzzi, L’autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V del-la Costituzione, in «Le istituzioni del federalismo», 2004, pp. 263 ss.; id., L’università tra Sta-to e Regioni, in L’autonomia del sistema universitario. Paradigmi per il futuro, a cura di A. d’atena, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 27 ss.

1054

sistema, sia come capacità di dare obiettivi e indirizzi al medesimo e di monitorarne e verificarne la realizzazione, sia come promozione di Linee guida e Protocolli diagnostico-terapeutici (che assumono, in un sistema basato sul legame tra qualità e appropriatezza delle prestazioni, un rilievo decisivo per il funzionamento del medesimo).

è evidente che un siffatto modello di conoscenza e di valutazione si rende indispensabile in un contesto come quello italiano che vede la combinazione di regionalizzazione e aziendalizzazione, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti, unitamente ai livelli essenziali delle pre-stazioni concernenti il diritto alla salute, a livello statale. Se la regionaliz-zazione comporta, soprattutto dopo la revisione costituzionale del 2001, una forte autonomia dei singoli Servizi sanitari regionali, dentro un qua-dro di coerenze di sistema assicurate da meccanismi legislativi e finan-ziari e da un rinnovato quadro costituzionale che, se ha confermato il principio-cardine della regionalizzazione, ne ha nel contempo chiarito, come si è visto al n. 2, i limiti, ne consegue che un sistema sanitario re-gionalizzato non può essere conosciuto (e dunque valutato, e dunque mi-gliorato) se non conoscendo le peculiarità dei ventuno sottosistemi (tra Regioni e Province autonome) di cui si compone. L’aziendalizzazione, a sua volta, comporta una relativa diversità infraregionale, connessa con l’autonomia imprenditoriale delle aziende stesse e con la maggiore o mi-nore incisività del governo regionale. Un sistema aziendalizzato non può allora essere conosciuto senza la conoscenza delle caratteristiche delle aziende regionali e del tipo di aziendalizzazione che il singolo Servizio sanitario regionale prevede e applica.

è possibile che l’attenzione ai profili messi in evidenza possa atte-nuarsi, nei prossimi mesi, in conseguenza dell’intensificarsi del dibattito sul cosiddetto federalismo fiscale, al momento in cui scrivo ancora inde-terminato quanto a conclusioni concrete, ma certamente incidente in mi-sura rilevante sui sistemi sanitari regionali e che coesiste con la tenden-za, riscontrabile nella normativa sui piani di rientro, a sottoporre a stret-to controllo amministrativo i servizi sanitari regionali meno “virtuosi”. La partita del consolidamento è pertanto una partita aperta, dall’esito non facilmente prevedibile.

Si potrebbe dunque concludere che è forse davvero venuto il mo-mento, a trent’anni esatti dall’entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978, n. 833, di aprire una reale discussione, tecnica e politica, sul Servi-zio sanitario nazionale e sulle sue prospettive.

1055

ALESSANDRO CANDIDO Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale

nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano

NORME CEDEVOLI E POTERI SOSTITUTIVI LEGISLATIVI NEL NUOVO ASSETTO COSTITUZIONALE

sommario: 1. Introduzione. – 2. Cenni sulla dottrina delle norme cedevoli. – 3. Principio di continuità e norme cedevoli dopo la l. cost. n. 3/2001. – 4. Un tentativo di dare fonda-mento costituzionale alla cedevolezza normativa: l’intervento sostitutivo governativo ex art. 120, comma 2, Cost. – Conclusione.

1. Introduzione

Scopo del presente lavoro è esaminare, senza pretesa di esaustività, – data l’enorme mole di problemi e spunti cui il tema oggetto di disami-na si presta – uno dei più discussi meccanismi di snodo presenti nel no-stro sistema delle fonti: il criterio della cedevolezza normativa. In rela-zione a quest’ultimo, prenderemo le mosse dalle origini del regionalismo italiano, per poi risalire sino alle più recenti pronunce giurisprudenziali che, a quanto sembra, lo hanno dichiarato incostituzionale. Nella secon-da parte della trattazione, invece, proveremo a spiegare le ragioni per cui oggi la suddetta clausola potrebbe ben confluire nell’art. 120, comma 2, Cost., probabilmente una delle più lacunose norme introdotte dalla l. cost. n. 3/2001. In particolare, cercheremo di rinvenire un fondamento costituzionale per la c.d. dottrina delle norme cedevoli, individuando nell’art. 120, comma 2, vale a dire nella possibilità di adottare poteri so-stitutivi in via anche legislativa (sebbene quest’ultimo inciso, non speci-ficato in Costituzione, sia tutt’altro che pacifico), la norma di chiusura dell’ordinamento.

Parlando di norme cedevoli 1 ci si riferisce all’adozione, da parte dello Stato, di disposizioni di normazione di dettaglio in materie di com-petenza legislativa concorrente, norme aventi un’efficacia provvisoria e limitata al periodo in cui le Regioni non abbiano ancora esercitato le pro-prie attribuzioni 2. Le norme “suppletive” o “cedevoli”, dunque, rappre-

1 C’è anche chi parla di clausola “di dissolvenza”. v. f. Pizzetti, Le autonomie locali nel-la riforma costituzionale e nei nuovi statuti, in «Le Regioni» 2002, 944.

2 La Corte Costituzionale ha utilizzato per la prima volta l’aggettivo “cedevole”, sia pure

1056

sentano (così come la clausola dell’interesse nazionale 3, forse troppo frettolosamente depennata dal testo costituzionale con la riforma del Ti-tolo V) uno strumento connesso alla salvaguardia e al funzionamento del sistema giuridico, essendo esso volto a evitare la presenza di vuoti nor-mativi all’interno delle Regioni, in seguito al mutamento dei principi fondamentali 4 delle materie da parte dello Stato 5.

in modo del tutto casuale e con un senso completamente diverso rispetto al suo attuale signi-ficato, nella sent. n. 1/1981. Ma è solo con la sent. n. 304/1987 che esso viene a identificare quel fenomeno che la stessa Corte ha dichiarato legittimo a partire dalla sentenza n. 214/1985 (v. infra). Sul tema cfr. tra gli altri m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V, in «Effettività» e «seguito» delle tecniche decisorie della Corte Costituzionale, a cura di r. Bin, G. BruneLLi, a. PuGiotto e P. veronesi, Napoli 2006, 439 ss.

3 Sul tema, cfr. G. faLcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in «Le Regioni» 2001, 1251 ss. L’A. sostiene che, l’interesse nazionale, sebbene a seguito della riforma del Titolo V sia venuto meno nel testo della Costituzione, si manifesta oggi in specifiche riserve di competenza dello Stato ex artt. 117, 119 e 120 Cost. Cfr. anche c. PineLLi, I limiti alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordina-mento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in «Foro it.» 2001, 199, L. cuocoLo, Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coordinamento e potere sosti-tutivo del Governo, in «Quad. Reg.» 2002, fasc. 2, 427 e. P. cavaLeri, La nuova autonomia legislativa delle Regioni, in Le modifiche al Titolo V della parte II della Costituzione, ibidem, 2001, 202. C’è invece chi (cfr. a. BarBera, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, in «Quad. cost.», 2001, 345-346) ritiene che con la l. cost. n. 3/2001 il Parlamento abbia inteso non eliminare l’interesse nazionale (il quale permarrebbe come limite implicito), bensì radi-care la sua difesa in capo alla Corte Costituzionale. Altri ancora (cfr. sul punto r. tosi, A pro-posito dell’«interesse nazionale», in «Quad. cost.» 2002, 86-88) demandano la precisazione dell’interesse nazionale alla continua collaborazione tra il Parlamento e il giudice delle leggi, a seconda della situazione concreta. Vi è poi una tesi ulteriore (cfr. r. Bin, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in «Le Regioni» 2001, 1219) in base alla quale non si può dire che il nuovo Titolo V abbia escluso ogni riferimento all’interesse nazionale. Più semplicemente, quest’ultimo si è trasfor-mato sulla base dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione, per cui l’allocazione delle competenze avviene oggi secondo una valutazione concreta della dimensione degli interessi da tutelare. Della stessa idea f. BeneLLi, Interesse nazionale, istanze unitarie e potestà legisla-tiva regionale: dalla supremazia alla leale collaborazione, «Giur. cost.» 2006, 933 ss.; id., La “smaterializzazione” delle materie, Milano 2006, 53 ss.

4 Sulla complessa nozione di “principio” – spesso definito, a partire dalla definizione fornita da Ronald Dworkin, quale norma dal carattere non precisamente determinato e quale fondamento di norme dal carattere più dettagliato – cfr. r. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in «Tr. dir. civ. comm.», dir. da A. Cicu e F. Messineo, cont. da L. MenGoni, vol. I, t. I, Milano 1998, 276 ss.; cfr. anche W. TWininG e D. Miers, Come far cose con regole, trad. it. a cura di C. GarBarino, Milano 1990, 181 ss.; ancora, cfr. e. BaLBoni, I livelli essenziali e i pro-cedimenti per la loro determinazione, in «Le Regioni» 2003, 1183 ss.; dello stesso autore, Gli standard strutturali delle relazioni di assistenza tra livelli essenziali e principi fondamentali, in «Giur. cost.» 2007, 974 ss.

5 Cfr. m. santini, Il tema della cedevolezza e le sue residue applicazioni dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, in www.federalismi.it

1057

Com’è noto, le leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001 hanno, nel loro complesso, abrogato o modificato la maggior parte degli articoli che componevano in origine il Titolo V della parte seconda della Costi-tuzione, ridisegnando il quadro delle fonti statali e i loro rapporti con le fonti regionali 6. In passato, infatti, tutto il sistema delle fonti si reggeva – salvo alcune deroghe (artt. 76, 77, 117 Cost.) – sull’art. 70 della Costi-tuzione, ossia sul principio della generale e illimitata competenza legi-slativa attribuita al Parlamento, ragion per cui la vecchia legislazione re-gionale assumeva carattere derogatorio ed episodico 7. A conferma di ciò, mentre la legge dello Stato non appariva sottoposta ad alcun limite che non fosse quello di compatibilità con la Costituzione, la potestà le-gislativa regionale era fortemente compressa, in quanto doveva essere esercitata nel rispetto della Costituzione, degli Statuti di autonomia e delle leggi-quadro.

Tutto questo è invalso sino alla l. cost. n. 3/2001, che ha costituzio-nalizzato il principio di sussidiarietà 8 (nelle due accezioni “verticale” e “orizzontale”), peraltro già prefigurato dalla legge n. 59 del 1997 a Co-stituzione invariata 9. Ciò ha portato, quantomeno a livello di principi, a un capovolgimento radicale del sistema delle fonti, anche se poi – nella sostanza – la produzione normativa statale e regionale non è granché mu-tata rispetto al passato.

6 Cfr. u. de siervo, Il sistema delle fonti: il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni, in www.federalismi.it

7 Basti pensare che il vecchio art. 127 della Costituzione sottoponeva la legge regionale a un controllo preventivo di legittimità al punto che, come sosteneva Crisafulli (cfr. v. crisa-fuLLi, La legge regionale nel sistema delle fonti, in «Riv. trim. dir. pubbl.» 1960, 285-286), i principi posti dalla legge statale condizionavano “la stessa immissione nell’ordinamento delle norme di fonte regionale”.

8 Cfr. sul tema a. ruGGeri, a. morrone, q. camerLenGo, e. d’arPe, f. cintioLi per il Forum di Quaderni Costituzionali; anche r. dickmann, La Corte Costituzionale attua (ed integra) il Titolo V, in www.federalismi.it; L. Torchia, In principio sono le funzioni (ammini-strative): la legislazione seguirà, in www.astridonline.it; L. VioLini, I confini della sussidiarie-tà: potestà legislativa «concorrente», leale collaborazione e strict scrutiny, in «Le Regioni» 2004, 587 ss.; O. Chessa, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e mo-delli teorici a confronto, ibidem 2004, 941 ss.; e. BaLBoni, P. G. rinaLdi, Livelli essenziali, standard e leale collaborazione, ibidem 2006, 1029 ss.; sempre di e. BaLBoni, Livelli essen-ziali: il nuovo nome dell’eguaglianza? Evoluzione dei diritti sociali, sussidiarietà e società del benessere, in E. BaLBoni, B. Baroni, a. mattioni, G. Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali, Milano 2007, 27 ss.

9 Cfr. G. Pastori, La redistribuzione delle funzioni: profili istituzionali, in «Le Regioni» 1997, 749 ss.

1058

2. Cenni sulla dottrina delle norme cedevoli

Proviamo ora a ripercorrere, sia pure in estrema sintesi, il tema del-le norme cedevoli, considerando il rapporto intercorrente tra leggi statali e leggi regionali, così come descritto dalla l. n. 62/1953 (c.d. Legge Scel-ba) 10.

In particolare, l’art. 10 della l. n. 62/1953 prende in considerazione l’ipotesi della successione delle leggi nel tempo laddove si verifichi un mutamento dei principi fondamentali delle materie: in tal caso, dispone il comma 1, “le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamen-tali [...] abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse” 11.

Chiaro che qui – poiché nulla si dice in tema di nuova legislazione

10 L. 10 febbraio 1953, n. 62, recante “Costituzione e funzionamento degli organi regio-nali”. Interessante è l’art. 9 della legge in questione, ove si stabiliva – nella originaria formula-zione – che il Consiglio regionale non avrebbe potuto legiferare se preventivamente non fosse-ro state promulgate le leggi della Repubblica contenenti, singolarmente per ciascuna materia, i principi fondamentali cui la legislazione regionale avrebbe dovuto attenersi. Dopodiché, al suddetto criterio veniva posta una deroga, in base alla quale le Regioni, in attesa dell’approva-zione delle leggi-quadro, avrebbero potuto legiferare in alcuni settori di secondaria importan-za, quali circoscrizioni comunali, fiere e mercati, musei e biblioteche di enti locali, istruzione artigiana e professionale, caccia e pesca. Secondo questa logica, il rapporto tra legge statale e legge regionale era inteso in un’ottica di separazione, per cui le Regioni avrebbero emanato norme di dettaglio nell’ambito di una disciplina statale uniforme. L’ostacolo principale per il funzionamento di tale impostazione era chiaramente rappresentato dall’assoluta mancanza di leggi quadro nel momento in cui erano state istituite le Regioni ordinarie, con il rischio quindi che l’inattività del legislatore nazionale si sarebbe riverberata sulle competenze legislative regionali, paralizzandole. Proprio per evitare tale inconveniente, l’art. 17 della l. n. 281/1970 aveva modificato l’art. 9 della Legge Scelba, disponendo che “l’emanazione di norme legi-slative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall’art. 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Così, l’ordinamento aveva in quell’occasione fatto propria la logica dell’integrazione, per cui le norme di principio poste dallo Stato diventavano puri e semplici parametri di legittimità di una legislazione regionale di dettaglio destinata a sovrapporsi a quella statale. Tra l’altro, la Corte Costituzionale si era in proposito pronunciata con sent. n. 39/1971, affermando l’illegittimità costituzionale dell’ori-ginaria impostazione della Legge Scelba, dato che a quella stregua “l’esercizio delle potestà legislative regionali rischiava di essere procrastinato sine die”, restando “rimesso alla mera discrezione del legislatore statale” (L. PaLadin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, 333). Il problema, sosteneva Paladin, era quello di consentire ai Consigli regionali l’esercizio immediato delle loro funzioni legislative, non appena entrati in vigore i primi decreti di trasfe-rimento delle funzioni amministrative statali alle Regioni.

11 L’art. 10, comma 2, aggiunge che “i Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni”.

1059

statale di dettaglio nelle materie di cui all’art. 117 Cost. 12 – veniva in gioco un meccanismo del tutto velleitario: infatti, così come non si pote-va costringere il legislatore statale ad adottare leggi quadro entro un cer-to termine, allo stesso modo non vi era strumento alcuno che sanzionas-se la mancata osservanza dell’art. 10 della legge in questione da parte delle Regioni, con la conseguenza che l’eventuale modificazione dei principi fondamentali delle materie ad opera dello Stato avrebbe causato numerosi vuoti nei tessuti normativi regionali.

Sul punto sono state avanzate diverse autorevoli tesi 13, ciascuna del-

12 Cfr. a. rocceLLa, Rapporti tra fonti normative statali e regionali, in «Amministrare» 2005, 28.

13 Tra le varie tesi elaborate, si pensi a quella dell’abrogazione differita – facente capo a Crisafulli – in base alla quale l’abrogazione delle leggi regionali contrastanti con i nuovi principi fondamentali (posti dalla legge dello Stato) deve essere sospesa per novanta giorni, termine entro il quale le Regioni hanno il dovere di modificare le preesistenti leggi, confor-mandole così ai mutati principi statali (cfr. v. crisafuLLi, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova 1993, 133). Come nota Crisafulli, “probabilmente, l’interpretazione più attendi-bile [...] è che l’effetto abrogativo sia sospeso fino al decorso dei novanta giorni ovvero sino all’entrata in vigore, entro tale termine, delle leggi regionali modificative di quelle precedenti per conformarle ai mutati principi delle leggi statali [...]”. Una ricostruzione di tal natura, tuttavia, lascerebbe aperto il problema dei vuoti normativi che l’introduzione dei nuovi princi-pi fondamentali comporterebbe, laddove il legislatore regionale non provvedesse a legiferare entro la scadenza dei suddetti novanta giorni. Secondo un’ulteriore idea, dell’incostituziona-lità sopravvenuta (cfr. a. d’atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, 89 ss.) non può accadere che una legge statale invada il campo normativo riservato ai Consigli regionali, abrogando ex lege norme regionali pregresse. L’unica soluzione possibile sarebbe allora quella dell’impugnazione in sede di giudizio di costituzionalità, da parte dello Stato, delle norme regionali confliggenti con i mutati principi delle materie. D’Atena afferma che “stante l’obbligo dei Consigli regionali di attenersi ai principi legislativamente fissati, dovrà ritenersi che il contrasto tra la normazione locale e le successive leggi-cornice integri gli estre-mi di una illegittimità costituzionale sopravvenuta, sindacabile, in quanto tale, dalla Corte”. Dunque, continua D’Atena, “potrebbe dirsi che decorso il termine che la legge-cornice asse-gna alle Regioni, perché adeguino, alle disposizioni in essa contenute, la propria normazione, quest’ultima realizza un’invasione della sfera di attribuzioni dello Stato (e possa, pertanto, essere impugnata, ai senso dell’art. 39 della l. n. 87 del 1953)”. Più drastica è, infine, la tesi dell’abrogazione immediata di Paladin, il quale ritiene viziate le precedenti interpretazioni dell’art. 10 della legge Scelba: infatti in entrambe vi sarebbe il problema di far convivere per un certo periodo – novanta giorni nel caso dell’abrogazione differita, invece nel caso dell’inco-stituzionalità sopravvenuta il tempo necessario affinché la Corte si pronunci – i nuovi principi fondamentali posti dallo Stato con le vecchie norme di dettaglio regionali. Per ovviare a tale inconveniente, egli ritiene più opportuno che le leggi quadro, ove immediatamente applicabili, abroghino hic et nunc la disciplina regionale con esse contrastante (cfr. L. PaLadin, Le fonti del diritto italiano cit., 95). Zagrebelsky critica tale impostazione (cfr. G. zaGreBeLsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino 1988, 234 ss.) affermando che “non può trattarsi [...] di abrogazione, poiché essa presupporrebbe la concorrenza di due tipi di fonti nello stesso ambito

1060

le quali presentava tuttavia degli inconvenienti: vi era, infatti, oltre al problema dei vuoti nei sistemi normativi regionali, anche quello della convivenza di norme di principio e norme di dettaglio con esse incompa-tibili (o ad ogni modo inidonee a rendere queste ultime applicabili).

Su queste premesse, Paladin ha proposto di dotare le leggi cornice di una struttura costituita tanto da disposizioni di principio, quando da di-sposizioni di dettaglio, le prime inderogabili e le seconde cedevoli 14. In tal modo, le leggi statali avrebbero trovato applicazione sia nelle Regio-ni sguarnite di una disciplina regionale, sia laddove quest’ultima fosse ri-sultata presente, ma incompatibile con i nuovi principi fondamentali. Era questa, evidentemente, l’anticipazione del sistema delle normative cede-voli, che veniva a configurare i rapporti tra fonti statali e fonti regionali sulla base di un criterio misto: da un lato una componente gerarchica, a favore dei principi fondamentali delle leggi statali, dall’altro un elemen-to di separazione, essendo la Regione competente alla produzione nor-mativa di dettaglio 15. In tal modo, nei rapporti tra leggi cornice e leggi regionali venivano applicati “gli stessi criteri che la legge n. 382 del 1975 ha fissato in tema di attuazione degli obblighi comunitari, precisando che «in mancanza della legge regionale, sarà osservata quella dello Stato in tutte le sue disposizioni»” 16.

Rifacendosi all’impostazione poc’anzi tracciata, il legislatore è in-tervenuto con legge 3 gennaio 1978, n. 1, ponendo norme di principio e norme “suppletive” di dettaglio – pur in presenza di una precedente di-sciplina regionale – in materia di accelerazione delle procedure di esecu-zione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali.

materiale e sullo stesso piano gerarchico”. Sul punto si è espressa la Corte con sent. n. 40 del 1972, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della l. n. 62/1953, in quanto “in conseguenza del subentrare, nella legislazione statale, di nuovi principi [...], ben può verificarsi l’abrogazione di norme regionali [...]”. Tuttavia, “ciò non toglie che quando il contrasto tra principi di fonte statale e norme regionali anteriori non si configuri in termini di vera e propria incompatibilità, tale da dar luogo ad abrogazione, possa proporsi una questione di legittimità costituzionale delle norme regionali diventate difformi dai nuovi prin-cipi, essendo la legislazione regionale costituzionalmente subordinata al rispetto dei principi fondamentali delle leggi statali”.

14 Cfr. L. PaLadin, Diritto regionale, Padova 1979, 96. “In simili casi, del resto, lo Stato non è solo abilitato a dettare nuove norme di principio; ma può anche accompagnare tali norme, perché transitoriamente non si abbia una carenza di legislazione, con una dettaglia-ta regolamentazione di ciascuna materia, salve – s’intende – le innovazione apportabili in quest’ultimo campo dalle successive leggi regionali”.

15 Cfr. T. martines, A. ruGGeri, C. saLazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2002, 173 ss.

16 V. L. PaLadin, Diritto regionale cit., 96-97.

1061

Di fronte all’impugnazione della presente legge da parte della Regio-ne Lombardia e della Provincia autonoma di Bolzano, che lamentavano il contrasto con l’art. 117 della Costituzione – oltre che con varie disposizio-ni del d.P.R. 616/1977 – la Corte si è pronunciata con la storica sentenza n. 214/1985 17, dichiarando infondata la questione di legittimità sollevata e mostrando di condividere l’interpretazione “paladiniana” poc’anzi consi-derata, subordinando così il venir meno della fonte incompetente all’even-tuale sovrapposizione e sostituzione ad opera di quella competente.

Il giudice delle leggi ha affermato, infatti, che “le attribuzioni stata-li non vengono paralizzate dalla circostanza che l’ente regionale abbia precedentemente emanato una legislazione di dettaglio, ma possono tro-vare ulteriore e successiva esplicazione se diverse esigenze di politica le-gislativa, frattanto emerse, lo richiedano. Né la legge dello Stato deve es-sere necessariamente limitata a disposizioni di principio, essendo invece consentito l’inserimento anche di norme puntuali di dettaglio, le quali so-no efficaci soltanto per il tempo in cui la Regione non abbia provveduto ad adeguare la normativa di sua competenza ai nuovi principi dettati dal Parlamento”.

Sulla base di tali argomentazioni 18, si è iniziato a concepire in mo-do più duttile il concorso tra atti normativi nelle materie di cui all’art. 117 Cost., “costruendo non già una competenza riservata alla legislazio-ne locale di dettaglio, ma una preferenza per mezzo della quale i Consi-gli regionali possano recuperare la competenza medesima” 19. Ecco allo-ra che, una volta configurati in questi termini (ossia come una deroga) i rapporti tra leggi statali e leggi regionali, l’intervento della normativa di

17 Corte cost., 22 luglio 1985, n. 214, in «Le Regioni» 1986, 236 ss., con nota di L. car-Lassare, La «preferenza» come regola dei rapporti tra fonti statali e regionali nella potestà le-gislativa ripartita. Ancora, v. commenti di a. anzon, Mutamento dei «principi fondamentali» delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio, in «Giur. cost.» 1985, I, 1660 ss.; f. cuocoLo, Il difficile rapporto tra leggi statali e leggi regionali, ibidem, II, 2667 ss.; r. tosi, Leggi di principio corredate da disposizioni di dettaglio: un’estensione della competen-za statale senza sacrificio dell’autonomia regionale, ibidem, II, 2678 ss.

18 Non è questa la sede per svolgere un’approfondita analisi delle ulteriori pronunce – precedenti alla riforma costituzionale del 2001 – attraverso le quali la Corte ha confermato a più riprese la dottrina delle norme cedevoli. Fra queste, ricordiamo le sentt. n. 123/1992, n. 352/1992 e n. 464/1994.

19 V. L. PaLadin, Le fonti del diritto italiano cit., 335. Allo stesso modo, Crisafulli (Cfr. v. crisafuLLi, Vicende della «questione regionale», in «Le Regioni» 1982, 506) – riprenden-do un’idea di Zanobini (cfr. G. zanoBini, La gerarchia delle fonti nel nuovo ordinamento, in Comm. sistematico alla Cost. it., diretto da P. caLamandrei e a. Levi, vol. I, Firenze 1948, 59) – sostiene che le norme costituzionali determinano la preferenza della legge regionale rispetto a quella statale come fonte della disciplina di dettaglio.

1062

dettaglio regionale non causerebbe l’abrogazione delle norme di detta-glio statali, le quali rimarrebbero in vigore quasi “allo stato di quiescen-za, per riespandersi provvisoriamente […] ogni qualvolta le norme regio-nali vengano a mancare senza essere sostituite” 20.

Una volta legittimata la prassi delle norme cedevoli, il legislatore – forte dell’appoggio della giurisprudenza costituzionale degli anni 80-90 21 – ha iniziato a farne uso e abuso, così che “la cedevolezza ha finito per trasformarsi in uno dei mezzi attraverso i quali lo Stato ha potuto conti-nuare a legiferare in modo sostanzialmente libero anche nelle materie di cui all’art. 117 Cost.” 22, intaccando e comprimendo inevitabilmente la sfera di autonomia regionale.

3. Principio di continuità e norme cedevoli dopo la l. cost. n. 3/2001

3.1. Come si è già avuto modo di osservare, la l. cost. n. 3/2001 ha completamente ridisegnato l’assetto delle fonti 23, sollevando diversi pro-blemi: uno di questi, di carattere – si spera – temporaneo, riguarda la fa-se di avvicendamento tra il previgente e il nuovo ordine dei rapporti tra legislazione statale e legislazioni regionali. La Corte Costituzionale, all’indomani della riforma del Titolo V, ha subito affrontato la questione, chiamando in causa il principio di continuità dell’ordinamento, in base al quale si afferma la validità e l’efficacia di norme non più conformi al mu-tato riparto di competenze. In altre parole, tempus regit actum.

Per la verità, già con sent. n. 13 del 1974 i giudici di Palazzo della

20 v. crisafuLLi, Vicende della «questione regionale» cit., 505. è stato proprio Crisafulli il primo a utilizzare, in questo saggio, l’aggettivo cedevole. Cfr. anche a. anzon, Mutamento dei «principi fondamentali» delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio cit., 1660 ss.

21 Si pensi alla sent. n. 192/1997, con la quale la Corte non escludeva la legittimità delle norme statali di dettaglio per il solo fatto che esse non fossero qualificate come tali, rimettendo alle Regioni l’onere di impugnarle qualora ritenute invasive della propria sfera di attribuzioni.

22 V. m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 444.23 Circa i problemi relativi all’attuazione del nuovo Titolo V, molto interessante è il “col-

loquio” tra s. BartoLe, m. cammeLLi, v. onida e G. Pastori, Comuni, Province, Regioni, Stato: riformare la riforma?, in «Amministrare», n. 1-2/2006, 1-46. Ancora, cfr. r. tosi, Sui rapporti tra fonti regionali e fonti locali, in «Le Regioni» 2002, 963 ss.; sempre r. tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, ibidem 2001, 1233 ss.; A. ruGGeri, La ricomposizione delle fonti in sistema, nella Repubblica delle autonomie, e le nuove frontiere della normazione, ibidem 2002, 699 ss. G. faLcon, Mo-dello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione cit., 1247 ss.

1063

Consulta avevano enunciato il suddetto principio 24. La pronuncia era sta-ta nel senso dell’inammissibilità del ricorso 25, proprio alla luce del prin-cipio di continuità, per cui ciò che limita la competenza legislativa stata-le nelle singole materie non è la mera competenza regionale, “in quanto astrattamente prevista in Costituzione o negli Statuti, ma il concreto eser-cizio che ne abbia fatto l’ente cui è conferita”. Ecco allora che le Regio-ni – e le Province autonome – per rimuovere dalle materie attribuite alla loro potestà legislativa le previgenti norme statali che eccedono i limiti posti dalla Costituzione, devono soltanto legiferare, sostituendo così le proprie leggi a quelle statali fino a quel momento vigenti nei rispettivi ambiti territoriali. Il suddetto meccanismo altro non è se non uno stru-mento di garanzia della continuità normativa.

Il principio in esame torna a essere ribadito dopo la riforma del 2001 con la sentenza n. 422 del 2002 26, dove si è posto il problema dell’impu-gnazione di una serie di disposizioni di legge approvate in base alla pre-vigente disciplina e ritenute ora incompatibili con il nuovo riparto di competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione. In quell’occasio-ne la Corte ha sostenuto che il permanere delle norme statali, “al di là del momento di entrata in vigore della riforma del Titolo V, è conseguenza della necessaria continuità dell’ordinamento giuridico” 27. Pertanto, è l’epoca di proposizione del ricorso a radicare il parametro costituzionale del giudizio 28. Da qui allora la conclusione che “le norme che definisco-

24 Nella decisione in questione (cfr. anche sent. n. 28 e n. 31 del 1976), la Provincia di Bolzano impugnava la legge 24 aprile 1935, n. 740 – istitutiva del Parco nazionale dello Stel-vio – lamentando il contrasto con le sopravvenute norme dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige (l. cost. n. 1/1971).

25 Cfr. a. Pizzorusso, Le modificazioni dello Statuto per il Trentino-Alto Adige e le leg-gi statali anteriori: termine per ricorrere e «principio di continuità», in «Giur. cost.» 1974, 535 ss. L’A. contesta la tipologia di decisione adottata dalla Corte. Egli sostiene, infatti, che l’inapplicabilità del principio di gerarchia delle fonti al caso in esame abbia come conseguenza l’insussistenza della sopravvenuta incostituzionalità denunciata dalla Provincia, il che deter-minerebbe, pertanto, l’infondatezza e non l’inammissibilità del ricorso. Sullo stesso tema, cfr. c. mezzanotte, Giudizi in via di azione, termini per ricorrere e autoritarietà della legge statale, in «Giur. cost.» 1976, 230 ss.

26 Per la verità già la sent. 376/2002, rifacendosi alla n. 13/1974, aveva affrontato il problema.

27 V. Corte cost., sent. 422/2002. Tale impostazione è stata peraltro confermata nella successiva sent. n. 507/2002 – sia pure qui con riferimento alla validità degli atti ministeriali – precisando che la riforma del Titolo V non ha la capacità di rendere invalidi atti posti in essere in virtù del precedente riparto di competenze.

28 Cfr. r. BrandoLin, La Corte alle prese con un nuovo parametro costituzionale, in www.giurcost.it

1064

no le competenze legislative statali e regionali contenute nel nuovo Tito-lo V della Parte II della Costituzione potranno, di norma, trovare applica-zione nel giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato contro leggi regionali e dalle Regioni contro leggi statali soltanto in riferimento ad at-ti di esercizio delle rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuo-va definizione costituzionale” 29.

Il principio di continuità dell’ordinamento ha trovato conferma e co-dificazione all’art. 1, comma 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 30, che ha trasposto in legge la dottrina delle norme cedevoli 31.

3.2. è arrivato ora il momento di chiedersi come la Corte Costitu-zionale ha affrontato il tema della cedevolezza in seguito alla l. cost. n. 3/2001. Una prima pronuncia degna di nota sembra essere la n. 282 del 2002, avente ad oggetto l’impugnazione, da parte dello Stato, di una leg-ge della Regione Marche per invasione della sfera di competenze prefi-gurata dal nuovo art. 117 della Costituzione. La Corte, ragionando qui sulla tutela della salute – che costituisce oggetto di potestà legislativa

29 In seguito la Corte, con sent. n. 13/2004 torna ad affrontare, sotto profili ulteriori e più ampi, la questione del principio di continuità. In quell’occasione essa afferma che il principio di continuità “in virtù del quale le preesistenti norme statali continuano a vigere nonostante il mutato assetto delle attribuzioni fino all’adozione di leggi regionali conformi alla nuova com-petenza, deve essere ora ampliato per soddisfare l’esigenza della continuità non più normativa ma istituzionale”. Cfr. in proposito r. dickmann, La Corte amplia la portata del principio di continuità (osservazioni a Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 13), in www.federalismi.it; a. PoGGi, Un altro pezzo del “mosaico”: una sentenza importante per la definizione del contenu-to della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di istruzione, ibidem; P. miLazzo, La Corte Costituzionale interviene sul riparto di competenze legislative in materia di istruzione e “raffina” il principio di continuità, nel Forum di «Quad. cost.»; m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 447 ss.

30 Qui si dispone che “Le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vi-gore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia, fermo quanto previsto al comma 3, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale. Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale”. Cfr. f. Bassanini, Legge “La Log-gia”: commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini 2003, 22 ss.

31 Allo stesso modo, l’art. 1, comma 3, l. cit., sembra aver riproposto l’art. 9 della Legge Scelba (nella versione modificata dall’art. 17 della l. n. 281/1970), disponendo che “Nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”.

1065

concorrente – enuncia un principio innovativo rispetto ai pregressi orien-tamenti, affermando che l’art. 117, comma 3, a differenza del previgente art. 117, comma 1, “esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza sta-tale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della discipli-na” 32.

Da qui, secondo parte della dottrina 33, si dovrebbe pertanto esclude-re la possibilità per lo Stato di continuare a legiferare nelle materie di competenza regionale, sia primaria che concorrente, attraverso la tecnica delle norme cedevoli.

Tale impostazione è stata peraltro ribadita – con messaggio del 5 no-vembre 2002 – dal Presidente della Repubblica Ciampi 34, il quale ha sot-tolineato che in ogni caso non è giustificabile l’invasione da parte dello Stato di una competenza costituzionalmente riservata alla legge regiona-le, nemmeno con la clausola della cedevolezza. La stessa sentenza n. 282 del 2002, prosegue il messaggio presidenziale, rappresenta “autorevolis-sima conferma che anche l’omissione o il ritardo nella determinazione, da parte dello Stato, dei principi fondamentali non costituisce titolo vali-do per sostituire la legge statale alla legge regionale in una materia riser-vata alla competenza legislativa della Regione; infatti, è sempre e soltan-to la Regione che, anche in assenza delle cosiddette leggi (statali) di prin-cipio, ha il potere di legiferare, con l’obbligo di attenersi al rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore” 35.

Tanto la sentenza n. 282 del 2002, quanto il messaggio del Presiden-te Ciampi, lasciavano presagire l’inammissibilità del sistema delle norme cedevoli, tesi che avrebbe trovato ulteriore e compiuta conferma nella storica sentenza n. 303 del 2003, vera e propria summa di alcuni dei no-di più problematici del nuovo assetto costituzionale.

32 Sul tema della potestà concorrente, cfr. f. cuocoLo, Principi fondamentali e legisla-zione concorrente dopo la revisione del Titolo V, Parte seconda, Costituzione, in «Quad. Reg.» 2003, fasc. 3, 721 ss.

33 Cfr. m. santini, Il tema della cedevolezza e le sue applicazioni dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, in www.federalismi.it.

34 In quell’occasione il Presidente aveva rinviato alle Camere una legge in materia di incompatibilità dei Consiglieri regionali, rilevando come la competenza in oggetto rientrasse nella potestà concorrente di Stato e Regioni.

35 Per la lettura del messaggio presidenziale, v. www.camera.it. Cfr. anche il commento di B. caravita, Una vicenda piccola, una questione importante: alcune riflessioni in ordine ad un recente rinvio presidenziale, in www.federalismi.it

1066

3.3. Con la sentenza n. 303 del 2003, la Corte Costituzionale, attra-verso una elaborata opera interpretativa, ha provato a ricondurre in un quadro sistematico il nuovo Titolo V della Costituzione, tentando in alcu-ni casi di sorvolare, in altri di intervenire sulle sue enormi lacune.

Nel caso di specie, veniva in rilievo un complesso di impugnazioni della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (c.d. legge-obiettivo), che poneva una disciplina – tanto di principio, quanto di dettaglio – per l’accelera-zione della realizzazione di grandi opere pubbliche, in deroga al riparto di competenze posto dall’art. 117 della Costituzione.

Il giudice delle leggi si pronuncia, in questo caso, nel senso dell’am-missibilità della suddetta deroga e prova a giustificare la necessità di clausole che rendano più flessibile il rigido modello di distribuzione del-le competenze delineato dal nuovo Titolo V, in modo da ampliare lo spa-zio di intervento riservato al legislatore nazionale, tutte le volte che sia necessaria la salvaguardia di istanze unitarie. Proprio a tal proposito, es-sa fa riferimento alla konkurrierende Gesetzgebung tedesca o alla Supre-macy Clause del sistema statunitense, quali elementi di flessibilità, affer-mando che lo stesso può dirsi, nel nostro ordinamento, con riguardo al principio di sussidiarietà verticale (art. 118, comma 1 Cost.), introdotto per le funzioni amministrative, ma destinato a rendere meno rigida la stessa distribuzione di competenze legislative. Ecco allora che, per con-sentire al poco riuscito federalismo della riforma di funzionare, il princi-pio di sussidiarietà diventa un subsidium – quando un livello di governo non sia adeguato rispetto alle finalità da raggiungere – e ad esso si affian-ca il principio di legalità il quale, dice la Corte, “impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla leg-ge” 36.

I giudici di Palazzo della Consulta affermano, poi, che “non può ne-garsi che l’inversione della tecnica di riparto delle potestà legislative e l’enumerazione tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilità di dettare norme suppletive statali in materie di legislazione concorrente”. Tuttavia, continua la Corte, “una simile lettu-ra dell’art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell’art. 118, comma 1,

36 Cfr. anche a. ruGGeri, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia, nel Fo-rum di «Quad. cost.»; q. camerLenGo, Dall’amministrazione alla legge, seguendo il principio di sussidiarietà. Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte Costituzionale, ibidem; s. BartoLe, Collaborazione e sussidiarietà nel nuovo ordine regionale, ibidem; L. vioLini, I confini della sussidiarietà: potestà legislativa “concorrente”, leale collaborazione e strict scrutiny, ibidem; a. moscarini, Titolo V e prove di sussidiarietà: la sentenza n. 303/2003 della Corte Costituzionale, ibidem.

1067

che consente l’attrazione allo Stato, per sussidiarietà e adeguatezza, del-le funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative, come si è già avuto modo di precisare. La disciplina statale di dettaglio a carat-tere suppletivo determina una temporanea compressione della competen-za legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com’è ad assicurare l’immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non posso-no essere esposte al rischio della ineffettività” 37.

In altri termini, con la sent. n. 303 del 2003 si dichiara l’inammissi-bilità del sistema delle norme cedevoli 38 che, conseguentemente alla ri-forma del 2001, non potranno più essere utilizzate dallo Stato in materie di legislazione concorrente e, a maggior ragione, in materie di competen-za esclusiva delle Regioni. L’istituto della cedevolezza sopravviverebbe, quale deroga al suddetto principio, unicamente negli straordinari casi in cui lo Stato attragga a sé funzioni amministrative per il soddisfacimento di esigenze unitarie (“che non possono essere esposte al rischio dell’inef-fettività”): solo in tali casi è possibile che esso intervenga, con norme di dettaglio cedevoli, nell’ambito della legislazione concorrente, in attesa delle nuove leggi regionali.

I primi commenti a questa sentenza hanno considerato poco convin-cente il fatto che la Corte da un lato dichiari inammissibile il sistema del-le norme cedevoli, dall’altro lo salvi ove le funzioni amministrative sia-no allocate al centro. Qualcuno sostiene che, molto più facilmente, sareb-be stato sufficiente riaffermare il principio per cui, in presenza di esigen-ze unitarie, lo Stato, anche nelle materie di competenza concorrente o esclusiva delle Regioni, avrebbe dettato – accanto a norme di principio – una disciplina di dettaglio suppletiva e cedevole, che sarebbe venuta me-no al sopraggiungere della nuova legislazione regionale 39. In realtà, è be-

37 Il corsivo è nostro. Sul punto, cfr. e. d’arPe, La Consulta censura le norme statali “cedevoli” ponendo in crisi il sistema: un nuovo aspetto della sentenza 303/2003, nel Forum di «Quad. cost.».

38 V. anche sent. n. 270/2005, ove la Corte, con riguardo alle norme impugnate, afferma che “esse sarebbero illegittime ‘in quanto dettagliate’, né esse potrebbero considerarsi legit-time ‘in virtù di una loro ipotetica cedevolezza’, in quanto questa Corte, con le sentenze n. 303 del 2003 e n. 282 del 2002, avrebbe statuito l’inammissibilità di norme statali di dettaglio cedevoli, «salvo il caso che ciò sia necessario per assicurare l’immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività»”.

39 Sul punto la Corte si limita a dire che “il principio di cedevolezza affermato dall’im-pugnato art. 1, comma 5, opera a condizione che tra lo Stato, le Regioni e le Province autono-me interessate sia stata raggiunta l’intesa di cui al comma 1, nella quale si siano concordemen-te qualificate le opere in cui l’interesse regionale concorre con il preminente interesse nazio-

1068

ne tenere ben presente che tutte le volte in cui si presentino esigenze uni-tarie, il meccanismo della cedevolezza non può essere invocato; sarebbe infatti impensabile trovare una disciplina differenziata Regione per Re-gione, ove l’ordinamento manifesti in determinati settori la necessità di uniformità normativa, al fine di preservare il funzionamento dell’intero sistema. “Infatti, delle due l’una: o sussiste quella necessità di esercizio unitario che giustifica l’attrazione al centro della funzione amministrati-va, e allora anche la disciplina normativa dovrebbe – per le ragioni sopra dette – presentare carattere di unitarietà; o tale necessità non sussiste, ed, in tal caso, la stessa allocazione a livello statale dell’amministrazione do-vrebbe ritenersi esclusa” 40.

Il ragionamento del giudice delle leggi, come emerge da quanto sin ora detto, ruota volutamente tutto attorno agli artt. 117 e 118 della Costi-tuzione e questo ha consentito alla Corte di evitare di addentrarsi nel ‘campo minato’ dell’art. 120, comma 2 della Costituzione. In proposito, parte della dottrina – intravvedendo nell’art. 120, comma 2 una possibi-le clausola di flessibilità del sistema – ha avanzato, immediatamente do-po la riforma, la tesi secondo cui il Governo avrebbe potuto esercitare un potere sostitutivo nei confronti delle Regioni non soltanto nel caso di inerzia nell’esercizio di funzioni amministrative, ma anche nell’esercizio delle funzioni legislative loro attribuite 41.

Proprio per evitare ogni equivoco, la Corte aggira il problema, di-stinguendo nettamente tra funzioni amministrative che, per ragioni di sussidiarietà, lo Stato può assumere e regolare con legge, e funzioni che spettano alle Regioni e per le quali lo Stato, non ricorrendo i presupposti per la loro assunzione in sussidiarietà, eserciti poteri in via sostitutiva. Infatti in quest’ultimo caso, si dice nella 303 del 2003, “l’inerzia della Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale nell’eserci-zio di una competenza che è e resta propria dell’ente sostituito”.

nale e si sia stabilito in che termini e secondo quali modalità le Regioni e le Province autono-me partecipano alle attività di progettazione, affidamento dei lavori e monitoraggio”.

40 a. d’atena, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte Costituzionale, in «Giur. Cost.», Milano 2003, 2779 ss.

41 Interessante è sul punto il contributo di c. mainardis, Poteri sostitutivi e autonomia amministrativa regionale, Milano 2007, 164 ss., che però conclude nel senso dell’impossibili-tà di configurare poteri sostitutivi legislativi. A quest’ultima possibilità, invece, ha fatto cenno m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 452 ss. Considerazio-ni più approfondite saranno svolte più avanti (v. infra). Interessante l’analisi comparatistica in materia di v. tamBurrini, Il potere sostitutivo in Germania, Spagna, Austria e Belgio, in «Am-ministrare 2004», 457 ss.

1069

4. Un tentativo di dare fondamento costituzionale alla cedevolezza nor-mativa: l’intervento sostitutivo governativo ex art. 120, comma 2, Cost.

4.1. Dopo aver passato in rassegna le principali pronunce della Cor-te Costituzionale in materia di cedevolezza, mi pare di poter trarre come conclusione quella della generale incostituzionalità del sistema delle nor-me cedevoli: il che, certamente, pone non pochi problemi, soprattutto se si pensa alla imprescindibilità di meccanismi di snodo nel sistema delle fonti, in particolar modo nei casi in cui vi siano interessi unitari che non potrebbero trovare piena tutela se non per via di un intervento statale.

Proprio a causa della necessità di individuare nel Titolo V un ele-mento di flessibilità che, sul piano delle attribuzioni legislative, sostitui-sca il meccanismo della cedevolezza, può essere utile considerare una delle più complesse – e lacunose – norme introdotte dalla l. cost. n. 3/2001, vale a dire l’art. 120, comma 2 e, in particolare, il caso della so-stituzione del Governo alle Regioni per “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” della Repubblica 42. Questo mi sembra oggi il so-lo modo per giustificare l’intervento dello Stato (rectius, del Governo) in ambiti riservati a un legislatore regionale inerte o, peggio ancora, ina-dempiente. Del resto, a ben rifletterci, che cos’è la sostituzione legislati-va se non un modo forse più elegante per definire ciò che fino ad ora è stato chiamato sistema delle norme cedevoli? Si cercherà, allora, di radi-care e circoscrivere la complessa tematica della cedevolezza normativa entro i confini dell’art. 120, comma 2, della Costituzione 43.

4.2. Volendo procedere con ordine, bisogna risalire al 1972 44, quan-do la Corte, per la prima volta, ha lamentato l’assenza nel nostro ordina-mento costituzionale di poteri sostitutivi statali nei confronti delle Regio-ni che erano rimaste inerti rispetto all’attuazione di alcuni obblighi posti dall’ordinamento comunitario 45.

42 Cfr., tra gli altri, L. cuocoLo, Gli interessi nazionali cit., 430 ss.43 Cfr. P. caretti, Rapporti tra Stato e Regioni: funzione di indirizzo e coordinamento e

potere sostitutivo, in «Le Regioni» 2002, 1327. Cfr. anche G. fontana, I poteri sostitutivi nel-la Repubblica delle autonomie, in «Rass. parlamentare 2006», n. 4, 1020.

44 Cfr. m. P. iadicicco, La disciplina costituzionale della sostituzione statale, in “Il nuo-vo regionalismo nel sistema delle fonti” a cura di f. Pinto, Torino 2004, 229 ss.

45 V. Corte cost., sent. n. 142/1972. La Corte, precisamente, afferma che “ogni distribu-zione dei poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato contraente […] presuppone il possesso da parte del medesimo degli stru-menti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte all’inerzia della Regione che fosse investita della competenza dell’attuazione. Strumenti di tal genere fanno difetto nel nostro or-

1070

Dando seguito al ragionamento del giudice delle leggi, le l. n. 153 46 e n. 382 47 del 1975 hanno realizzato i primi esempi di attribuzione allo Stato, in via generale, di poteri sostitutivi nella devoluzione di funzioni statali ad altri livelli di governo 48. Allo stesso modo, si trova traccia del potere di sostituzione – sebbene circoscritto alle sole funzioni ammini-strative – nella l. n. 400 del 1988 49, nonché, sempre prima della riforma del Titolo V, all’art. 5 del d.lgs. n. 112/1998 (rubricato, per l’appunto, “poteri sostitutivi”) 50 che, in caso di inadempimento, da parte delle Re-gioni, degli obblighi comunitari o nei casi in cui vi sia il pericolo di pre-giudizi agli interessi nazionali, assegna alle stesse un termine per adem-piere, decorso il quale sarà un commissario ad acta a provvedere in via sostitutiva. Una norma pressoché identica è presente nel Testo Unico sul-le autonomie locali del 2000 51.

Le cose sono cambiate con la riforma costituzionale del 2001 che, da un lato ha segnato il venir meno del limite dell’interesse nazionale (per lo meno quale limite espresso 52), dall’altro ha tipizzato all’art. 120, com-ma 2, Cost., alcune fattispecie di indubbio rilievo costituzionale che de-

dinamento […]. Pertanto, fino a quando tale situazione non venga modificata con il ricorso al-le forme a ciò necessarie, il solo mezzo utilizzabile per fare concorrere le Regioni all’attuazio-ne dei regolamenti comunitari è quello della delegazione di poteri in materia di strutture agra-rie, che appunto offre il rimedio della sostituibilità del delegante in caso di inadempimento del delegato”.

46 V. l. 9 maggio 1975, n. 153, recante “Attuazione delle direttive del Consiglio delle Co-munità europee per la riforma dell’agricoltura”.

47 V. l. 22 luglio 1975, n. 382, recante “Norme sull’ordinamento regionale e sulla orga-nizzazione della pubblica amministrazione”.

48 Cfr. B. caravita, I «poteri sostitutivi» dopo le sentenze della Corte Costituzionale, in Politica del diritto, 1987, 315.

49 V. art. 2, comma 3, lett. f), l. 23 agosto 1988, n. 400, ove si dispone che sono sottopo-ste alla deliberazioni del Consiglio dei Ministri “le proposte che il ministro competente formu-la per disporre il compimento degli atti in sostituzione dell’amministrazione regionale, in ca-so di persistente inattività degli organi nell’esercizio delle funzioni delegate, qualora tali atti-vità comportino adempimenti da svolgersi entro i termini perentori previsti dalla legge o risul-tanti dalla natura degli interventi”.

50 V. art. 5, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministra-tivi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

51 V. art. 137, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento de-gli enti locali).

52 Cfr. L. cuocoLo, Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coor-dinamento e potere sostitutivo del Governo cit., 437. L’A. ritiene che l’interesse nazionale si manifesti oggi in forme nuove rispetto al passato, come, ad esempio, la tutela dell’unità giuri-dica ed economica di cui all’art. 120, comma 2, della Costituzione.

1071

vono essere necessariamente tutelate per preservare un certo grado di uniformità giuridica, economica e sociale dell’ordinamento, pur nel ri-spetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione 53: ecco allo-ra i casi del mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della nor-mativa comunitaria, di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pub-blica, di tutela dell’unità giuridica ed economica, di tutela dei livelli es-senziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali 54.

In attuazione dell’art. 120, comma 2, Cost., è intervenuto l’art. 8 del-la l. n. 131/2003, disponendo al comma 1 che “Nei casi e con le modali-tà previsti dall’art. 120, secondo comma, della Costituzione, il Presiden-te del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali, assegna all’ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti do-vuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Mini-stri, sentito l’organo interessato, su proposta del Ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessa-ri, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario” 55.

Nei successivi commi sono invece puntualmente disciplinate le mo-dalità procedimentali di esercizio del potere sostitutivo diretto a porre ri-medio alla violazione della normativa comunitaria (comma 2), di quello riguardante Comuni, Province e Città metropolitane (comma 3) e di quel-lo di natura preventiva, da disporre “nei casi di assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate dall’articolo 120 della Costituzione”.

Le tipologie di sostituzione previste dai commi 1 e 4 riprendono chiaramente il modello generale già descritto dalla Corte Costituzionale con sent. n. 177 del 1988, vale a dire il caso in cui lo Stato intervenga in via amministrativa a fronte di un inadempimento regionale in relazione a un atto dovuto, purché siano rispettati determinati presupposti 56:

a) deve anzitutto trattarsi di attività regionali prive di discrezionalità nell’an, ossia attività che la Regione ha il dovere di compiere, come ad esempio quelle sottoposte per legge a termini perentori, o quelle che, ove

53 Cfr. G. fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1027 ss.; r. cameLi, Poteri sostitutivi del governo e autonomia costituzionale degli enti territoriali (in margine all’art. 120 Cost.) in «Giur. cost.» 2004, 5, 3390.

54 Non mi soffermerò sull’analisi dei presupposti legittimanti l’esercizio di poteri sostitu-tivi ex art. 120, comma 2, Cost. In proposito, v. G. fontana, I poteri sostitutivi nella Repubbli-ca delle autonomie cit., 1031 ss. V. anche c. mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi stata-li, autonomie speciali (nota a C. Cost., 8 luglio 2004, n. 236), in «Le Regioni», 2005, 198.

55 Il corsivo è nostro.56 Cfr. r. cameLi, Poteri sostitutivi del governo, cit., 3410-3411.

1072

non realizzate, possano pregiudicare il soddisfacimento di interessi es-senziali affidati alla responsabilità statale;

b) proprio in quanto l’intervento sostitutivo è per sua natura eccezio-nale, allo scopo di non comprimere eccessivamente l’autonomia degli enti territoriali, occorre una previsione legislativa che ne fissi i presuppo-sti sostanziali e procedurali;

c) al fine di assicurare l’unitarietà dell’indirizzo politico, il potere sostitutivo può essere esercitato soltanto dal governo dello Stato;

d) infine, “l’esercizio del controllo sostitutivo nei rapporti tra Stato e regioni (o province autonome) dev’esser assistito da garanzie, sostanzia-li e procedurali” quali, ad esempio, la leale collaborazione e la necessità di garantire agli enti sostituiti una adeguata partecipazione al procedi-mento.

Alla luce delle considerazioni sino ad ora svolte e sulla base della lettura delle norme fino ad ora citate in materia di poteri sostitutivi, vale a dire gli artt. 5 del d.lgs. n. 112/1998, l’art. 120, comma 2, Cost. e l’art. 8 della l. n. 131/2003, possiamo desumere l’esistenza di – almeno – tre tipologie di poteri sostitutivi 57: a) poteri sostitutivi introdotti dalla legge statale e regionale in rapporto a funzioni amministrative delegate. Qui il soggetto delegante conserva la titolarità della funzione, intervenendo nel caso di inerzia del delegatario a tutela di interessi pubblici propri; b) po-teri sostitutivi ordinari previsti dalla legge relativi a funzioni amministra-tive attribuite. Qui l’interesse tutelato non è quello proprio di chi eserci-ta il potere, ma quello generale a che la funzione sia svolta effettivamen-te; c) poteri sostitutivi straordinari del Governo, riguardanti il compi-mento di atti normativi (dunque non solo amministrativi), esercitabili nei confronti di Regioni ed altri enti locali, in relazione a funzioni ammini-strative delegate e attribuite. Qui l’interesse che viene in gioco è quello alla salvaguardia di interessi unitari ritenuti essenziali per il funziona-mento del sistema.

4.3. Proprio partendo da quest’ultimo punto, chiediamoci se sia pos-sibile configurare – sulla base dell’art. 120, comma 2, della Costituzione – l’ipotesi della sostituzione legislativa (dunque non solo amministrati-va) dello Stato alle Regioni.

La dottrina che ha studiato il tema dei poteri sostitutivi ha in gran parte negato che essi potessero riguardare l’ambito legislativo 58, affer-

57 Cfr. f. merLoni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regio-nali, in «Le Regioni», 2004, 1080 ss.

58 Cfr. ad esempio r. cameLi, Poteri sostitutivi del governo cit., 3396-3397; ancora, c.

1073

mando che in tal modo si paralizzerebbe totalmente l’autonomia regiona-le. In particolare, si è messa in evidenza la differenza – sulla quale in que-sta sede non ci soffermeremo – tra l’art. 117, comma 5 59 e l’art. 120, comma 2 della Costituzione, sottolineando – tra le altre cose – che solo la prima delle due norme si riferisce al Parlamento (e non al Governo, co-me il 120, comma 2). Ragion per cui la sostituzione ex art. 117, comma 5 avrebbe carattere eminentemente normativo, mentre quella ex art. 120, comma 2 avrebbe invece natura spiccatamente amministrativa.

Sul punto la Corte Costituzionale non ha mai preso una posizione abbastanza netta e, come si è visto anche a proposito della sentenza n. 303/2003, spesso e volentieri ha preferito aggirare il problema.

Ad esempio, con sentenza n. 43/2004 essa, dopo aver affermato la necessità che i poteri sostitutivi trovino il loro fondamento in Costituzio-ne, ha espressamente riconosciuto due tipi di sostituzione in via ammini-strativa 60:

a) sostituzione ordinaria, a tutela di interessi unitari: qui è la legge statale o regionale a realizzare la concreta allocazione delle funzioni in virtù del riparto di competenze delineato dalla Carta costituzionale;

b) sostituzione straordinaria, a tutela di interessi essenziali sotto la responsabilità dello Stato: qui interviene la previsione di cui all’art. 120, comma 2, Cost., manifestandosi per l’appunto delle “emergenze istitu-zionali di particolare gravità, che comportano rischi di compromissione relativi ad interessi essenziali della Repubblica”. La stessa Corte defini-sce questo tipo di intervento sostitutivo come “straordinario” – perché appunto volto a tutelare interessi essenziali per la Repubblica – e “ag-giuntivo” – poiché si affianca alle ipotesi ordinarie di sostituzione 61.

mainardis, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) om-bre, in «Le Regioni» 2001, 1381 ss.; f. Pizzetti, I nuovi elementi unificanti del sistema italia-no: il posto della Costituzione e delle leggi costituzionali ed il ruolo dei vincoli comunitari e de-gli obblighi internazionali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione, Milano, 2002, 191 ss.

59 L’art. 117, comma 5, Cost. così dispone: “Le Regioni e le Province autonome di Tren-to e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla forma-zione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accor-di internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabi-lite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

60 Cfr. s. Parisi, Poteri sostitutivi e sussidiarietà: la tensione tra unità e autonomie, in Nuove autonomie 2006, 840 ss.; t. GroPPi, Nota alla sentenza n. 43 del 2004, nel Forum di «Quad. cost.»; f. merLoni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi re-gionali cit., 1075.

61 Cfr. c. mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali cit., 198.

1074

Poco tempo dopo il giudice delle leggi ha ripreso la questione, riba-dendo l’importanza dei poteri sostitutivi quali meccanismi di flessibilità del nostro sistema costituzionale. Come sostiene la Corte 62, “si eviden-zia insomma, con tratti di assoluta chiarezza − si pensi alla tutela dei li-velli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che forma oggetto della competenza legislativa di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) −, un legame indissolubile fra il conferimento di una attribuzione e la previsione di un intervento sostitutivo diretto a garanti-re che la finalità cui essa è preordinata non sacrifichi l’unità e la coeren-za dell’ordinamento. La previsione del potere sostitutivo fa dunque siste-ma con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicu-rando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi cen-trali a tutela di interessi unitari”. Anche tali affermazioni lasciano pensa-re alla configurabilità della sostituzione legislativa ex art. 120 Cost., so-prattutto se si considera che, come ha modo di sottolineare la stessa Cor-te, “tale disposizione è posta a presidio di fondamentali esigenze di egua-glianza, sicurezza, legalità che il mancato o l’illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-stata-li, potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente” 63. I giudi-ci di Palazzo della Consulta, invocando l’art. 117 Cost., sembrerebbero dunque fare riferimento a competenze non solo amministrative, ma an-che legislative, ammettendone implicitamente la loro riconducibilità nell’alveo dell’art. 120, comma 2, della Costituzione.

4.4. Pur tra i tanti dubbi avanzati dalla dottrina e dalla stessa giuri-sprudenza costituzionale – che ha soltanto lanciato qualche segnale nel senso dell’ammissibilità della sostituzione legislativa dello Stato alle Re-gioni – si potrebbe trovare il bandolo della matassa nella “tutela dell’uni-tà giuridica ed economica” della Repubblica (di cui appunto all’art. 120, comma 2). Tale elemento di flessibilità – che ovviamente dovrà essere ben delineato e circoscritto dalla Corte Costituzionale – ben si prestereb-be ai casi in cui il legislatore regionale fosse inerte, o peggio ancora ina-dempiente, rispetto alla realizzazione di alcuni interessi di sistema costi-tuzionalmente rilevanti64, a tal punto da fare dell’art. 120, comma 2 una

62 V. Corte cost., sent. n. 236/2004.63 Cfr. c. mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali cit.,

200; m. BarBero, La Corte Costituzionale interviene sulla legge “La Loggia”, nel Forum di «Quad. cost.»; r. dickmann, Note sul potere sostitutivo nella giurisprudenza della Corte Co-stituzionale, in www.federalismi.it

64 Cfr. G.m. saLerno, I poteri sostitutivi del governo nella legge n. 131 del 2003, in aa.vv., Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, 1987.

1075

norma – anzi, la norma – di chiusura dell’ordinamento, precisazione e garanzia del principio unitario di cui all’art. 5 della Costituzione 65.

Per unità giuridica possiamo intendere la necessità di evitare che un’omissione da parte delle Regioni o degli altri enti locali possa mettere a rischio la certezza del diritto o, più in generale, possa paralizzare il fun-zionamento dell’intero ordinamento giuridico. L’unità economica, inve-ce, mira a impedire situazioni di squilibrio negli scambi economici, non-ché si prefigge il fine di intervenire nei casi in cui l’inerzia o l’inadempi-mento regionale possa recare pregiudizio alla realizzazione degli obietti-vi di riforma economica e sociale, che investono l’intera collettività.

La clausola suindicata, avvalorata dalla necessità della “tutela dei li-velli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” 66, ri-prende in tutto e per tutto la formulazione che la Legge fondamentale di Bonn utilizza all’art. 72 per dare fondamento alla konkurrierende Geset-zgebung, cioè quel meccanismo di sovrapposizione legislativa progressi-va – ed eventuale – del Bund nei confronti dei Länder, ricorrente a deter-minate condizioni nel sistema federale tedesco 67. Qualcosa del genere stava per essere realizzato anche nel nostro ordinamento, ma il referen-dum oppositivo del 2006 ha respinto la legge di revisione costituzionale che, tra le altre norme, modificava anche l’art. 120, comma 2 68. Se tale riforma avesse superato positivamente il referendum – prescindendo in questa sede da ogni tipo di giudizio di merito sul contenuto complessivo della suddetta riforma, che non riguarda il tema trattato – probabilmente diversi nodi sarebbero venuti al pettine: infatti la riformulata disciplina

65 Interessanti sono le osservazioni in materia di “unità giuridica ed economica” di f. Biondi, I poteri sostitutivi, in Aa.Vv., L’incerto federalismo, a cura di n. zanon e a. concaro, Milano, 2005, 109 ss.

66 Sui livelli essenziali quali specificazione dell’unità giuridica ed economica nell’ordi-namento, v. e. BaLBoni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro determinazione, in «Le Regioni», 2003, 1183 ss. Sempre sui livelli essenziali, cfr. L. cuocoLo, I livelli essenziali del-le prestazioni: spunti ricostruttivi ed esigenze di attuazione, in «Dir. econ.», 2003, fasc. 2-3, 389 ss.; id., I livelli essenziali: allegro, non troppo, in «Giur. cost.», 2006, fasc. 2, 1264 ss.

67 Cfr. c. mainardis, Art. 120, in Commentario alla Costituzione, a cura di r. BifuLco, a. ceLotto, m. oLivetti, Torino 2006, 2397.

68 La nuova versione dell’art. 120, comma 2, disponeva: “Lo Stato può sostituirsi alle Re-gioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell’esercizio delle funzioni loro at-tribuite dagli artt. 117 e 118 nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in partico-lare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescin-dendo dai confini territoriali dei governi locali e nel rispetto dei principi di leale collaborazio-ne e di sussidiarietà”.

1076

da un lato aveva sostituito il termine “Governo” con “Stato”; dall’altro aveva genericamente – e opportunamente – previsto una sostituzione non nei confronti degli “organi delle Regioni…”, ma nei confronti delle auto-nomie territoriali in generale, pur facendo riferimento alle funzioni loro attribuite ex artt. 117 e 118 Cost.; infine, veniva meno la riserva di legge oggi presente all’art. 120, comma 2, in base alla quale è la legge a dover stabilire i meccanismi procedurali volti a far sì che la sostituzione si eser-citi sempre “nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. Proprio la presenza di una riserva in tale ambito è un argomento ulteriore a sostegno della impossibilità di configurare una sostituzione di tipo legislativo poiché, se le procedure relative alla sosti-tuzione devono essere disciplinate con legge, sembra logico che queste non possono che riferirsi agli atti amministrativi. Ecco allora che, ove fossero intervenuti i suddetti cambiamenti, ogni dubbio circa l’ammissi-bilità della sostituzione legislativa sarebbe stato superato.

Conclusione

Posto che, come sopra detto, la modifica dell’art. 120 Cost. non si è realizzata, proviamo a fornire qualche risposta rispetto ai tanti dubbi avanzati dalla dottrina in materia di poteri sostitutivi. La soluzione, già anticipata all’inizio del presente lavoro, consiste nel considerare la sosti-tuzione legislativa come espressione del sistema delle norme cedevoli 69, ossia svolgimento di quel meccanismo di sovrapposizione progressiva dello Stato alle Regioni e agli enti locali che non si adeguino al muta-mento dei principi fondamentali delle materie, quando la loro inerzia-inadempimento possa condurre a un pericolo per l’unità giuridica o per l’unità economica e in particolare per la “tutela dei livelli essenziali del-le prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Ovvio che qui sorge immediatamente un altro problema, dovuto al fatto che l’art. 120, comma 2 parla di “Governo” e non di “Stato”. Proba-bilmente, ogni perplessità sul punto potrebbe essere superata se si pensa che il Governo può avvalersi, sempre a determinate condizioni, dello strumento della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost. Del resto, l’elen-co di materie contenuto nell’art. 120, comma 2 Cost. – e in particolare,

69 Come dice r. Bin, voce Legge regionale, in Dig. disc. pubbl., vol IX, Torino 1994, 191: “benché il potere sostitutivo agisca, almeno in linea di principio, in via amministrativa, vi è un corrispettivo sul piano degli atti legislativi, l’emanazione di norme statali di dettaglio con valore suppletivo”.

1077

come più volte ripetuto, la necessità di tutelare l’unità giuridica ed eco-nomica – ben si presterebbe ai “casi straordinari di necessità e urgenza” indicati dall’art. 77 70. Sarebbe questo un particolare tipo di decreto leg-ge, atipico rispetto a quello configurato dall’art. 77 Cost., perché prefigu-rerebbe tassativamente le speciali forme di necessità e urgenza cui subor-dinarne l’adozione. Ma come risolvere il problema della riserva di legge prevista dall’art. 120, comma 2? In realtà, la stessa Corte Costituzionale, con sent. n. 71 del 2004, ha ammesso che la legge che prevede i presup-posti sostanziali per l’esercizio del potere sostitutivo possa rinviare ad un’altra fonte di rango primario per l’individuazione delle procedure ido-nee a realizzare la sostituzione medesima. Nel nostro caso, il già citato art. 8 della l. n. 131/2003 – rubricato “Attuazione dell’articolo 120 della Costituzione sul potere sostitutivo” – proprio perché stabilisce i mecca-nismi procedurali di cui sopra, ben può essere elevato al rango di para-metro interposto nel giudizio di costituzionalità sugli atti di sostituzione legislativa (come una legge delega rispetto a un decreto legislativo, o co-me una legge cornice rispetto alle norme di dettaglio regionali…). In tal modo, un decreto legge sostitutivo che non rispetti le condizioni poste dall’art. 8 suddetto, sarebbe incostituzionale per violazione, in via me-diata, dell’art. 120, comma 2, Cost. 71.

Ammettere la possibilità di poteri sostitutivi in via legislativa, piut-tosto che – come parte della dottrina sostiene – creare insanabili paralisi nei sistemi regionali, al contrario significherebbe porre fine al sistema delle norme cedevoli, escludendo in primo luogo la facoltà, per lo Stato, di porre preventivamente delle norme di dettaglio suppletive in materie di competenza regionale. Inoltre – e qui sarà importante il contributo della Corte Costituzionale – la presenza dei requisiti indicati in modo tassati-vo dall’art. 120, comma 2 – che rende il potere sostitutivo un istituto emergenziale ed eccezionale – dovrebbe essere un ulteriore elemento di tutela per l’autonomia di Regioni ed enti locali. Se a tutto questo aggiun-giamo la possibilità che la Corte eserciti un controllo da un lato sull’ef-fettiva sussistenza dei presupposti che legittimino l’esercizio del potere sostitutivo, dall’altro sulla congruenza e sulla proporzionalità delle misu-

70 Cfr. G. fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1048-1049. Come sostiene l’A., “Si tratterebbe, dunque, non di un comune decreto-legge ma di un atto ri-sultante dalla combinazione dell’art. 77 e dall’art. 120 Cost.”. Dello stesso avviso G.u. resci-Gno, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in «Dir. pubbl.», 2002, 816-817.

71 Cfr. G. scaccia, Il potere di sostituzione in via normativa nella legge n. 131 del 2003, in «Le Regioni», 2004, 890.

1078

re adottate 72, allora non v’è dubbio sul fatto che l’art. 120, comma 2, pos-sa essere considerato il “meccanismo di chiusura” dell’intero sistema 73. Sarebbe questo un passo ulteriore verso lo sviluppo di un federalismo che, rebus sic stantibus, stenta a decollare e che a tutt’oggi rimane, come nel 2001, “malinteso” 74.

72 Cfr. sul punto a. ruGGeri, Riforma del titolo V e «potere estero» delle Regioni (nota-zioni di ordine metodico-ricostruttivo), in www.federalismi.it, 34.

73 Cfr. G. Pastori, Funzione amministrativa nel nuovo quadro costituzionale. Considera-zioni introduttive, in Annuario A.I.P.D.A. 2002, Milano, 2003, 463 ss.

74 V. a. anzon, Flessibilità dell’ordine di competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, in «Giur. cost.», 2003, 2782.

1079

DAVIDE PARISDottorando di ricerca in Diritto costituzionale

nell’Università degli Studi di Milano

RIFLESSIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE SULL’OBIEZIONE DI COSCIENZA ALL’INTERRUZIONE

VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA A 30 ANNI DALLA LEGGE N. 194 DEL 1978

Sommario: 1. Introduzione. – 2. I diversi soggetti tutelati dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978. – 3. L’obiezione di coscienza all’intervento abortivo fra costituzionalmente neces-sario e costituzionalmente illegittimo. – 4. Effetto pratico e significato teorico dell’obie-zione di coscienza dei soggetti che intervengono nel processo decisionale della gestante. – 5. Considerazioni conclusive.

1. Introduzione

Se per molti anni, almeno nel linguaggio corrente, il termine “obie-zione di coscienza” è stato comunemente utilizzato per indicare il servi-zio civile sostitutivo dell’obbligo militare di leva 1, tale associazione mentale in tempi più recenti sembra aver perso attualità. La sospensione della leva obbligatoria e la conseguente istituzione del servizio militare professionale su base volontaria (l. n. 331 del 2000) 2 hanno infatti deter-minato il netto ridimensionamento 3, in questo campo, di un istituto che negli anni precedenti aveva invece dato luogo a lunghe e complesse vi-cende istituzionali con riferimento alla modifica della legislazione in ma-

1 A conferma del carattere scontato del riferimento dell’obiezione di coscienza all’ambi-to militare si noti che né la prima legge in materia (l. 15 dicembre 1972, n. 772, Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) né la seconda (l. 8 luglio 1998, n. 230, Nuove nor-me in materia di obiezione di coscienza) recavano nel titolo alcun riferimento all’obbligo mi-litare cui si riconosceva la possibilità di obiettare, evidentemente ritenendolo superfluo.

2 Sul punto v. F. PizzoLato, Servizio militare professionale e Costituzione, in «Quad. cost.», 2002, 771 ss.

3 Sulle «persistenti ragioni dell’obiezione di coscienza, pure nel nuovo sistema ad eser-cito professionale e volontario» v. V. turchi, Obiezione di coscienza, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Torino, 2003, 964.

1080

teria 4 e ad una assai nutrita giurisprudenza, di merito, di legittimità e co-stituzionale 5, oltre che ad un ampio dibattito nella società civile.

Lungi dal cadere nell’oblio in seguito alla sospensione dell’obbligo militare, l’istituto dell’obiezione di coscienza ha invece conosciuto una nuova vita in un ambito affatto diverso: deve infatti riconoscersi che, ne-gli ultimi decenni, si è verificata una sorta di “migrazione” dell’obiezio-ne di coscienza dal campo dell’organizzazione delle forze armate a quel-lo dell’organizzazione sanitaria, che ne rappresenta ad oggi il terreno pri-vilegiato soprattutto con riferimento agli interventi e alle scelte che con-cernono l’inizio e la fine della vita. Al proposito gli esempi non manca-no: se l’art. 9 della l. n. 194 del 1978 rappresenta sicuramente il caso più significativo e problematico fra le ipotesi di obiezione ad oggi espressa-mente riconosciute nel nostro ordinamento 6, il più recente è invece co-stituito dall’art. 16 della l. n. 40 del 2004 in materia di procreazione me-dicalmente assistita. A ciò si aggiunga che, qualora dovesse addivenirsi ad una positiva disciplina legislativa riguardante le scelte di fine vita non è da escludere che una nuova ipotesi di obiezione di coscienza venga in-trodotta nel nostro ordinamento 7, né si deve dimenticare, fra i casi di obiezione non riconosciuta, o quantomeno non espressamente ricono-sciuta, il caso della c.d. “pillola del giorno dopo”, il cui rifiuto di prescri-zione da parte di alcuni medici che invocavano il loro diritto all’obiezio-ne di coscienza è in tempi recentissimi giunto all’attenzione degli organi giudiziari 8.

4 Cfr. R. Venditti, L’obiezione di coscienza al servizio militare. Terza edizione aggiorna-ta secondo la legge n. 230/1998, Milano, 1999, 89-90.

5 Per un quadro sintetico della giurisprudenza in materia di obiezione di coscienza al ser-vizio militare v. rispettivamente F.E. adami, L’obiezione di coscienza nella giurisprudenza di legittimità e di merito, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza tra tutela della liber-tà e disgregazione dello Stato democratico, Milano, 1991, 113 ss., e G. dammacco, L’obiezio-ne di coscienza nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in R. Botta (a cura di), Dirit-to ecclesiastico e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 116 ss.

6 Per un quadro sintetico delle forme di obiezione di coscienza attualmente riconosciute in Italia v. B. Randazzo, Obiezione di coscienza (dir. cost.), in S. cassese (a cura di), Diziona-rio di diritto pubblico, Milano, 2006, 3873 ss.

7 Prevedono l’obiezione di coscienza in relazione alle scelte di fine vita, ad esempio, i progetti di legge C. n. 81 (primo firmatario on. Beltrandi), Norme sulla tutela della dignità del-la vita e disciplina dell’eutanasia, art. 5; C. n. 1597 (on. Binetti), Disposizioni sulle cure da prestare alla fine della vita come forma di alleanza terapeutica, art. 8 e S. n. 994 (sen. Baio), Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di trattamento, art. 8.

8 Si tratta di alcuni casi di denuncia per omissione d’atti d’ufficio; in uno dei più noti epi-sodi di questo genere il pubblico ministero ha di recente richiesto per la seconda volta l’archi-viazione, dopo che il giudice per le indagini preliminari aveva ritenuto necessarie ulteriori in-

1081

Ritornare a ragionare di obiezione di coscienza alle pratiche aborti-ve nel trentesimo anniversario dell’entrata in vigore della legge n. 194 non è pertanto attività priva di interesse: l’ampio arco temporale trascor-so, infatti, non solo non ha determinato il venir meno dell’attualità della tematica, ma, al contrario, permettendo l’osservazione del concreto ope-rare di questo istituto, consente di formulare delle valutazioni circa l’op-portunità e la stessa legittimità costituzionale della sua introduzione che non erano invece possibili nel momento dell’adozione della legge.

In generale, infatti, l’introduzione in una legge della possibilità di obiettare si basa sul presupposto che la legge stessa «tolleri» l’obiezione, la quale risulta cioè ammissibile soltanto nella misura in cui sia «comun-que garantita la soddisfazione degli interessi collettivi alla cui tutela so-no finalizzati gli obblighi cui si consente di derogare» 9. Ciò dipende, con tutta evidenza, dalla portata quantitativa del fenomeno, cioè dal numero effettivo di coloro che, avendone diritto, concretamente decideranno di fare ricorso all’obiezione, nonché da altri fattori (quali, nel caso in esa-me, la loro distribuzione geografica) che ugualmente incidono sulla pos-sibilità di concreta attuazione della legge: quanto maggiore sarà il nume-ro degli obiettori (e quanto meno territorialmente omogenea la loro di-stribuzione), tanto più arduo risulterà il conseguimento degli obiettivi da essa perseguiti.

Tali dati quantitativi, però, nel momento in cui la legge viene appro-vata non sono ovviamente disponibili al legislatore che al proposito non può che fare affidamento su una valutazione di tipo prognostico. Questa concerne non solo il profilo generale del raggiungimento o meno degli

dagini (ne dà notizia Corriere della sera, ed. di Roma, 17 novembre 2008). Sull’obiezione di coscienza alla prescrizione e alla vendita della c.d. «pillola del giorno dopo» v. G. di cosimo, I farmacisti e la «pillola del giorno dopo», in «Quad. cost.», 2001, 142 ss.; G. Boni, Il dibat-tito sull’immissione in commercio della c.d. pillola del giorno dopo: annotazioni su alcuni profili giuridici della questione, in particolare sull’obiezione di coscienza, in «Dir. fam. pers.», 2001, 677 ss.; N. GimeLLi, L’obiezione di coscienza dei farmacisti: cosa ne pensa la Corte eu-ropea dei diritti dell’uomo? Il caso Pichon e altri c. Francia. Il dibattito dottrinale italiano sul-la c.d. «pillola del giorno dopo», in «Dir. eccl.», 2004, 740 ss. e E. La rosa, Il rifiuto di pre-scrivere la c.d. «pillola del giorno dopo» tra obiezione di coscienza e responsabilità penale, disponibile in www.statoechiese.it e in corso di pubbl. negli Atti del Convegno Laicità e mul-ticulturalismo: profili penali ed extrapenali, (Messina 13-14 giugno 2008).

9 V. onida, L’obiezione di coscienza dei giudici e dei pubblici funzionari, in B. Perrone (a cura di), Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordinamenti, Mi-lano, 1992, 368. Il requisito della non compromissione dei fini perseguiti dalla legge è gene-ralmente ritenuto uno dei principali presupposti per l’ammissibilità dell’obiezione di coscien-za: per tutti v. F. onida, Contributo a un inquadramento giuridico del fenomeno delle obiezio-ni di coscienza (alla luce della giurisprudenza statunitense), in «Dir. eccl.», 1982, I, 237 ss.

1082

obiettivi della legge nonostante l’operare dell’obiezione di coscienza, ma anche quelli che si potrebbero chiamare i «costi» dell’obiezione di co-scienza. Quand’anche infatti gli scopi della legge possano essere ugual-mente conseguiti pur ammettendo l’obiezione di coscienza, inevitabil-mente questa determina un qualche aggravio nell’organizzazione ammi-nistrativa che alla legge deve dare attuazione. Nel momento dell’appro-vazione della legge tale aggravio, che generalmente non viene intera-mente sopportato dagli obiettori stessi bensì è addossato su altri specifi-ci soggetti o sulla collettività in generale, viene ritenuto giustificato dal-la necessità di tutelare le ragioni di coscienza degli aspiranti obiettori: nel bilanciare la tutela della libertà di coscienza con gli effetti che questa produce, il legislatore, nell’esercizio del potere discrezionale che costitu-zionalmente gli è riconosciuto, valuta, sulla base di una stima del nume-ro dei futuri obiettori, che la prima giustifichi i secondi. Quando però, con il passare del tempo e il concreto operare della legge e dell’obiezio-ne alla stessa, si riesce a disporre di dati quantitativi tali da permettere una più precisa definizione degli effetti dell’obiezione di coscienza e dei soggetti su cui essi ricadono, si pongono le condizioni, e la necessità, di riconsiderare tale scelta del legislatore tanto dal punto di vista dell’op-portunità quanto sotto il profilo della stessa legittimità costituzionale. In altre parole la legittimità costituzionale, e più ancora l’opportunità, delle leggi che prevedono l’obiezione di coscienza non sembra pienamente va-lutabile nel momento genetico della legge stessa, che necessita piuttosto di un periodico controllo al fine di soppesare nuovamente, alla luce dei dati quantitativi del fenomeno, legittimità e opportunità della scelta com-piuta, per così dire «alla cieca», dal legislatore 10.

10 Cfr., con specifico riferimento all’ipotesi oggetto del presente lavoro, A. D’atena, Commento all’art. 9, in C.M. Bianca, f.d. BusneLLi (a cura di), Commentario alla l. 22 mag-gio 1978, n. 194, in Le nuove leggi civili commentate, 1978, I, 1660-1661: «Ove la percentua-le delle obiezioni superasse i limiti di tolleranza delle strutture il diritto alla salute delle gestan-ti rischierebbe di essere gravemente sacrificato. Il che – al di là di ogni considerazione di op-portunità – potrebbe far seriamente dubitare della compatibilità della legge con l’art. 32 Cost. Con riferimento a questo punto, può dirsi che l’obiezione, in quanto tale, non confligge con la norma appena ricordata; la quale non impedisce al legislatore ordinario di contemperare le esi-genze connesse alla tutela della salute con le scelte di coscienza del personale sanitario. Una soluzione siffatta, tuttavia, in tanto potrebbe ritenersi ammissibile (alla stregua della Costitu-zione), in quanto risultasse concretamente idonea a garantire che il servizio – nonostante l’eso-nero di alcuni operatori – funzioni (e sia in grado di far fronte alla domanda di interventi abor-tivi). Ove ciò non accadesse (e la scelta legislativa non superasse il “collaudo” dell’esperien-za), non potrebbe pertanto escludersi la possibilità di un annullamento ad opera della Corte Costituzionale». Nello stesso senso, ma con riferimento più generale a qualsiasi ipotesi di obiezione di coscienza, S. manGiameLi, La «libertà di coscienza» di fronte all’indeclinabilità

1083

2. I diversi soggetti tutelati dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978

La scarsa chiarezza della delimitazione del campo soggettivo e og-gettivo dell’obiezione di coscienza prevista dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978 è stata sin da subito sottolineata dalla dottrina 11, che ha propo-sto differenti soluzioni per (cercare di) comporre ad unità le antinomie che sembrano derivare dal contrasto fra la disposizione di cui al primo comma, che consente di non prendere parte «alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza», e quella contenuta nel comma 3, che «esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività spe-cificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’interven-to» 12.

Anche in considerazione del fatto che l’oscurità della disposizione in esame ha dato luogo nel corso di trent’anni ad un contenzioso giudi-ziale piuttosto limitato ancorché non privo di interesse 13, non sembra op-portuno in questa sede proporre un’ulteriore diversa lettura dell’art. 9, quanto piuttosto sottolineare che, quale che sia la sua più corretta inter-pretazione, esso in ogni caso equipara nel godimento del diritto all’obie-zione di coscienza due diverse categorie di soggetti che, a ben vedere, si

delle funzioni pubbliche (a proposito dell’autorizzazione del giudice tutelare all’interruzione della gravidanza della minore), in «Giur. cost.», 1988, 539.

11 Fra i primi commenti v. in particolare A. D’atena, Commento all’art. 9, cit., 1650 ss., che sottolinea l’eterogeneità dei criteri utilizzati dal legislatore per delimitare l’ambito di ope-ratività dell’obiezione di coscienza, quali l’individuazione delle attività in positivo e in negati-vo, il criterio teleologico e quello cronologico. Sulla «larghezza» dei criteri che individuano l’oggetto dell’obiezione v. anche F.C. PaLazzo, Obiezione di coscienza, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 544-545.

12 Per una discussione critica delle diverse ricostruzioni interpretative proposte v. M. zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, Padova, 1992, 238 ss.

13 Le pronunce specificamente concernenti l’estensione e i limiti dell’obiezione di co-scienza di cui si ha notizia si riducono essenzialmente a Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, in «Giur. it.», 1980, II, 184, con nota di V. ZaGreBeLsky; T.A.R. Emilia Romagna, 29 gennaio 1981, n. 30, in «Trib. Amm. Reg.», 1981, I, 961; Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 1983, n. 428, in «Con-siglio di Stato», 1983, I, 1027; Pret. Penne, 6 dicembre 1983, in «Giur. it.», 1984, II, 314, con nota di A. naPPi, I limiti oggettivi dell’obiezione di coscienza. Correttamente è stato notato (P. Moneta, Obiezione di coscienza. II) Profili pratici, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 5) che, a differenza di quanto avvenuto con riferimento all’obbligo militare, «per l’obiezione all’interruzione della gravidanza invece, di fronte ad un dato normativo già di per sé molto aperto verso gli obiettori, la giurisprudenza ha preferito, per lo più, assumere un indirizzo im-prontato a notevole prudenza, tendente a contenere e frenare, più che a sviluppare, le indicazio-ni favorevoli al riconoscimento delle esigenze di coscienza contenute nel sistema legislativo».

1084

pongono in posizione significativamente differente rispetto all’interven-to di soppressione del nascituro 14, cioè quell’evento la cui intollerabilità per la coscienza giustifica la previsione dell’obiezione. Non è da esclu-dere, del resto, che proprio nella comune sottoposizione alla medesima disciplina di due così differenti categorie di soggetti sia da individuare la causa di quelle difficoltà interpretative ben evidenziate dalla dottrina.

Un primo gruppo di soggetti cui è consentita l’obiezione di coscien-za, in primis i medici chiamati a svolgere gli accertamenti necessari per il rilascio del documento di cui all’art. 5, u.c., possono rifiutarsi di com-piere delle attività che sono finalizzate ad accertare la possibilità della scelta della gestante alla stregua dei parametri individuati dalla legge. Al contrario, ad un secondo gruppo di soggetti tutelati dall’art. 9, quali gli anestesisti e i ginecologi, è consentita la non partecipazione ad attività che, assumendo la scelta della donna come ormai compiuta ed irrevoca-bile, si pongono su un piano più strettamente esecutivo della stessa. Que-ste due categorie, divise in maniera sufficientemente chiara dallo spar-tiacque della scelta della gestante 15, benché assimilate nel trattamento giuridico, si differenziano in realtà assai significativamente tanto in con-siderazione dei presupposti che giustificano il riconoscimento dell’obie-zione di coscienza, quanto alla luce delle conseguenze che la loro scelta obiettoria determina con riferimento all’attuazione della legge; da ciò l’opportunità di procedere ad un esame separato delle due fattispecie.

3. L’obiezione di coscienza all’intervento abortivo fra costituzionalmen-te necessario e costituzionalmente illegittimo

La posizione dei soggetti direttamente chiamati a compiere l’inter-

14 Cfr. V. Onida, L’obiezione di coscienza dei giudici, cit., 371.15 Il momento della scelta definitiva della donna è individuato quale elemento discrimi-

nante nell’individuazione delle attività «specificamente e necessariamente dirette a determina-re l’interruzione della gravidanza» ai sensi dell’art. 9, comma 3, da Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, cit., 189-190, il quale ritiene che «non possa essere rifiutata nessuna attività, il compi-mento della quale lasci ancora spazio ad una desistenza dalla volontà di effettuare l’intervento abortivo» e considera pertanto legittimamente rifiutabili soltanto quelle attività «legate in ma-niera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico, all’intervento abortivo», quali «le attività immediatamente precedenti l’anestesia, l’anestesia vera e propria e l’intervento aborti-vo». Nella fattispecie veniva condannato per omissione di atti d’ufficio, con l’attenuante dei motivi di particolare valore morale, un cardiologo che, dichiarandosi obiettore di coscienza, si era rifiutato di effettuare un elettrocardiogramma necessario per poter eseguire un intervento abortivo in anestesia.

1085

vento interruttivo della gravidanza è caratterizzata dallo stretto nesso di causalità che corre fra l’azione richiesta e l’evento ritenuto in coscienza inaccettabile. Il riconoscimento del diritto di sottrarsi legittimamente a questi obblighi risponde infatti all’esigenza di tutelare chi, ancorché in esecuzione di un altrui legittima volontà, è chiamato ad essere il materia-le esecutore di un’attività che risulta intollerabile alla sua coscienza.

Se si analizza la fattispecie da un punto di vista «soggettivo», aven-do cioè riguardo al duplice profilo della percezione che l’obiettore ha dell’azione richiestagli e del significato che egli attribuisce al suo rifiuto, risultano certamente sussistere tutti i presupposti che rendono legittimo il ricorso all’obiezione di coscienza.

Sotto il primo profilo, volto a verificare l’attitudine dell’atto richie-sto a provocare un insostenibile turbamento della coscienza, occorre pre-mettere che, se il riconoscimento dell’obiezione trova il suo fondamento costituzionale nella protezione della libertà di coscienza 16, il ricorso a questa forma particolarmente elevata di tutela si giustifica soltanto in presenza di una situazione in cui l’eventuale adeguamento all’imperativo espresso dalla legge e contrastante con quello che il soggetto ritrova nel-la propria coscienza viene vissuto come un intollerabile tradimento nei confronti della propria persona, al punto che il soggetto finisce per non riconoscere più se stesso e sente di non poter esprimere un giudizio di di-gnità circa la propria azione e, più in generale, la propria vita. Le porte dell’obiezione di coscienza, in altri termini, sembrano potersi dischiude-re soltanto di fronte ad un contrasto fra imperativo interiore e imperativo esteriore talmente acuto da essere in grado di compromettere, se non se-guito, l’identità e la dignità della persona umana 17.

16 Con la sent. n. 467 del 1991 la Corte Costituzionale ha individuato nell’art. 2 Cost. la base per il riconoscimento della libertà di coscienza: «La protezione della coscienza individua-le si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garanti-ti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione» (punto 4 del Considerato in diritto). A commento di questa sentenza, con specifico riferimento al fondamento costituzio-nale della libertà di coscienza, v. J. Luther, I diritti della coscienza in attesa di una nuova leg-ge, in «Giur. it.», 1992, I, 633 ss. e P. Sassi, Una nuova sentenza della Corte Costituzionale in tema di obiezione di coscienza al servizio militare. Obiezione c.d. sopravvenuta e motivi reli-giosi, in «Giur. cost.», 1992, 475 ss. Per una più recente ricostruzione del dibattito dottrinale circa la rilevanza costituzionale della coscienza v. G. Di cosimo, Coscienza e Costituzione. I limiti del diritto di fronte ai convincimenti interiori della persona, Milano, 2000, 67 ss.

17 La configurazione dell’obiezione quale strumento di massima tutela della libertà di co-scienza e quindi la necessità di circoscrivere il suo utilizzo a quelle sole ipotesi in cui tale li-bertà sia intaccata nel nocciolo duro del suo contenuto sembra emergere chiaramente in parti-colare nella testé citata sent. n. 467 del 1991, al punto 4 del Considerato in diritto, dove si af-ferma che «la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in rela-

1086

Non vi è dubbio che, se si ha riguardo al significato che il soggetto attribuisce all’atto che l’ordinamento gli impone, nel caso in esame tale contrasto è certamente in grado, per la gravità percepita del comporta-mento richiesto, di ferire l’obiettore nella sua identità e dignità. Per chi infatti considera il concepimento quale inizio della vita umana e ritiene che a partire da quel momento il diritto alla vita del concepito non possa essere bilanciato con il diritto alla salute della gestante ma debba piutto-sto godere di una tutela in tutto uguale a quella di cui godono le persone già nate, l’azione richiesta viene a porsi in insanabile contrasto con il fondamentale imperativo morale del «non uccidere», configurandosi nel-la sua coscienza la soppressione del feto in tutto assimilabile all’uccisio-ne di una persona umana.

Per quanto invece riguarda il profilo del significato della scelta obiet-toria, vale a dire il diverso ordine assiologico espresso dal comportamen-to dell’obiettore rispetto alle scelte valoriali codificate nella legge, requi-sito indispensabile ai fini della legittimità del riconoscimento dell’obie-zione di coscienza è quello che il rifiuto dell’obiettore esprima un bilan-ciamento di valori che, ancorchè differente da quello compiuto dal legi-slatore, non sia comunque incompatibile con il quadro costituzionale ma, al contrario, trovi in esso legittimazione 18. Anche sotto questo aspetto il

zione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così ele-vato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)» (corsivo ag-giunto). Sul nesso obiezione di coscienza-identità personale v. L. Guerzoni, L’obiezione di co-scienza tra politica, diritto e legislazione, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 194, dove l’obiezione è descritta come «elemento costitutivo di un rifondato patto politi-co-costituzionale, nel cui quadro l’irrinunciabile fedeltà all’obbligo politico venga a porre sempre meno l’uomo e il cittadino in conflitto con la parte più preziosa di sé: la sua coscien-za, la sua personalità, in una parola la sua stessa identità» (corsivo nel testo). In questa prospet-tiva sembra potersi leggere l’affermazione di uno dei più famosi obiettori di coscienza, H.D. thoreau, «Se io non sono io, chi lo potrà mai essere?», cit. in R. BertoLino, Obiezione di co-scienza. 1) Profili teorici, in «Enc. giur. Treccani», XXI, Roma, 1990, 1.

18 Cfr. V. Turchi, Obiezione di coscienza, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIII, Torino, 1995, 526, secondo cui l’obiettore è portatore «di un valore che non è avulso dal contesto normati-vo; è proposto (…) come potenzialmente universale, e necessita anch’esso di un riferimento nel comune patrimonio valoriale dell’ordinamento, in particolare a livello costituzionale». Si-milmente R. BertoLino, Obiezione di coscienza, cit., 2: «L’obiezione non è considerata illega-le dall’ordinamento se fondi su convinzioni che, non ancora condivise, possono però essere ac-cettate e apprezzate dai consociati, tra i quali l’obiettore vive». Similmente v. T.A.R. Puglia, 10 febbraio 1986, n. 88, in «Trib. amm. reg.», 1986, I, 1480, secondo cui l’obiettore si appel-la «a valori morali, non parimenti valutati dalla comune coscienza collettiva e sociale, ma pur sempre meritevoli di considerazione e di rispetto, stante la forte tensione ideale degli stessi e la loro profonda ispirazione umana».

1087

riconoscimento di questa forma di obiezione di coscienza appare perfet-tamente legittimo: nel testimoniare la necessità di una tutela assoluta del-la vita prenatale, il comportamento dell’obiettore si discosta certo dalla «coscienza collettiva» di cui è espressione la legge che acconsente al bi-lanciamento del diritto alla vita del concepito con il diritto alla salute del-la madre, ma il suo bilanciamento si compie comunque fra beni giuridici dotati di un sicuro fondamento costituzionale. In particolare, la scelta obiettoria esprime la radicata convinzione dell’esigenza di una maggiore tutela della vita umana prenatale 19, cioè di un bene giuridico di cui non solo la Corte Costituzionale ha riconosciuto e ribadito il sicuro fonda-mento costituzionale 20, ma la cui tutela si pone anche fra le finalità cui espressamente si ispira la stessa legge che impone gli obblighi ritenuti in coscienza inaccettabili 21. Differente negli esiti da quello del legislatore, il bilanciamento di cui la scelta obiettoria è espressione insiste comunque su beni giuridici costituzionalmente tutelati e perseguiti dallo stesso legi-slatore.

Dal punto di vista soggettivo, in conclusione, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza per chi è chiamato ad eseguire l’intervento in-terruttivo della gravidanza non solo appare pienamente legittimo, ma, in considerazione della gravità del comportamento cui si chiede di potersi sottrarre, risulta forse essere una scelta costituzionalmente vincolata, per cui dovrebbe considerarsi illegittima una sua ipotetica futura abrogazione da parte del legislatore 22. Tale carattere costituzionalmente vincolato, del

19 Cfr. R. BertoLino, Obiezione di coscienza, cit., 2, secondo cui «l’obiettore all’aborto reclama di testimoniare il principio-cardine di ogni società umana: il rispetto della vita del na-scituro».

20 A partire dalla nota sent. n. 27 del 1975, con cui la Corte ha ritenuto che la situazione giuridica del concepito debba collocarsi, «sia pure con le caratteristiche sue proprie», fra i di-ritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.

21 Il riferimento è, ovviamente, all’art. 1, comma 1, l. n. 194 del 1978: «Lo Stato garan-tisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della ma-ternità e tutela la vita umana dal suo inizio».

22 La percezione del carattere costituzionalmente necessario dell’obiezione di coscienza non era del resto estranea al legislatore nel momento dell’approvazione della legge, come emerge dalla relazione di maggioranza delle Commissioni riunite Giustizia e Igiene e Sanità della Camera, riportata in G. GaLLi, v. itaLia, f. reaLmonte, m. sPina, c.e. traverso, L’inter-ruzione volontaria della gravidanza, Milano, 1978, 393 ss., dove i relatori, on. Del Pennino e G. Berlinguer, affermano che, a fronte dei timori della vanificazione degli obiettivi della legge a causa della possibile obiezione di coscienza di gran parte del personale medico, «non era (…) apparso ammissibile vietare il ricorso all’obiezione di coscienza in una materia che coin-volge così delicate questioni di principio e in cui l’imposizione per legge di un determinato comportamento configurerebbe, essa sì, una violazione costituzionale» (398). Esclude invece

1088

resto, non sembra potersi escludere in ragione del fatto che il dovere di compiere interventi abortivi non si configura come un obbligo gravante sulla totalità dei consociati, come era nel caso del servizio militare di le-va, ma più semplicemente come un onere per chi scelga una ben determi-nata professione. Si deve infatti considerare che, giusta l’assoluta gravità dell’attività richiesta 23, la mancata previsione della possibilità di sottrarsi al suo compimento determinerebbe una sostanziale preclusione dell’ac-cesso a determinate professioni per chi non ritenga in coscienza di poter partecipare a tali interventi. Con il che si avrebbe una palese violazione del diritto di scelta della professione quale aspetto imprescindibile dello sviluppo della persona umana, né varrebbe, alla luce del carattere deter-minante che riveste l’accesso alle strutture pubbliche per la concreta pos-sibilità di svolgere la professione medica, sostenere che essa è comunque

che l’introduzione dell’obiezione di coscienza costituisse per il legislatore una scelta obbliga-ta A. D’Atena, Commento all’art. 9, cit., 1651, n. 3. Il caso più interessante in materia è cer-tamente rappresentato da Corte cost., sent. n. 196 del 1987, dove la questione di legittimità co-stituzionale concerneva l’illegittimità dell’art. 12 della l. n. 194 del 1978 nella parte in cui non prevede il diritto di sollevare obiezione di coscienza per il giudice tutelare chiamato, in deter-minati casi, ad autorizzare la donna minorenne a decidere l’interruzione della gravidanza. Co-me opportunamente messo in luce dalla dottrina (cfr. E. rossi, L’obiezione di coscienza del giudice, in «Foro it.», 1988, I, 766), l’accoglimento della questione avrebbe determinato il ve-nir meno del monopolio del legislatore nell’introdurre forme di obiezione di coscienza, in quanto la Corte avrebbe riconosciuto «il potere non solo del legislatore ma anche suo proprio di trasformare un’obiezione di coscienza contra legem in un’obiezione secundum legem», ipo-tesi che peraltro tale pronuncia non sembra aver astrattamente escluso (così V. turchi, Obie-zione di coscienza, cit. 1995, 532 e, problematicamente, E. rossi, op. loc. cit.). Criticamente su questo specifico profilo della sentenza v. S. manGiameLi, La «libertà di coscienza», cit., 539, il quale, stante la ritenuta inesistenza di una copertura costituzionale dell’obiezione di co-scienza, giunge alla conclusione che «il mancato accoglimento di forme di obiezione di co-scienza non porrebbe mai una questione di costituzionalità, bensì di semplice opportunità», ri-solvendosi l’introduzione dell’obiezione stessa in «una scelta discrezionale rimessa al legisla-tore, il quale potrebbe, attraverso l’adozione di particolari forme organizzative, risolvere il conflitto senza richiedere la rinuncia, per il singolo, alla coerenza con il proprio “foro interno”, o alle funzioni assunte» (corsivo nel testo). Più in generale sul rapporto fra fondamento costi-tuzionale della libertà di coscienza e discrezionalità del legislatore nel riconoscere o meno l’obiezione v., diffusamente, A. PuGiotto, Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, in «Dig. disc. pubbl.», X, Torino, 1995, 243 ss.; da ultimo, circa la possibilità che «rispetto a comportamenti legittimamente configurati dalla legge come doverosi, la Costituzione impon-ga, espressamente o non, di riconoscere al singolo il diritto di obiettare ed in quali limiti» v. anche B. randazzo, Obiezione di coscienza, cit., 3871-3872.

23 Si noti, inoltre, che l’interruzione volontaria della gravidanza non coincide e non si identifica con la professione nel suo complesso, ma rappresenta soltanto uno degli interventi che possono essere richiesti a un ginecologo o a un anestesista; dal che la possibilità di distin-guere fra la scelta della professione ed il rifiuto di uno specifico compito ad essa connesso.

1089

possibile in regime esclusivamente privato. Detto in altri termini, e con-clusivamente, non sembra costituzionalmente legittimo disporre una seria limitazione delle concrete possibilità di realizzazione delle proprie aspi-razioni professionali a chi intende svolgere una determinata professione medica senza essere disposto ad abdicare alle proprie radicate convinzio-ni di coscienza che, ancorché non coincidenti con quelle della coscienza collettiva, risultano ugualmente meritevoli di tutela.

A porre in dubbio il carattere costituzionalmente vincolato del rico-noscimento dell’obiezione di coscienza per i soggetti direttamente coin-volti nell’intervento abortivo interviene piuttosto il profilo «oggettivo» di questa forma obiettoria, vale a dire l’analisi dei concreti effetti che essa determina sull’attuazione della legge che la prevede. Come infatti testi-moniano i dati esposti nelle relazioni ministeriali che annualmente devo-no essere presentate al Parlamento ai sensi dell’art. 16 della legge n. 194, l’obiezione di coscienza di cui all’art. 9 ha avuto, fra queste categorie di soggetti, una notevole e crescente diffusione al punto da porsi attualmen-te, per ginecologi e anestesisti, quale scelta maggioritaria 24. Del resto, se in termini generali «l’obiezione, per definizione è fenomeno sociale mi-noritario» 25, non è affatto scontato che, quando essa sia prevista per una specifica categoria professionale anziché per la generalità dei consociati, le scelte di coscienza di tale categoria rispecchino quelle della coscienza collettiva che ha espresso la legge. In generale ciò ha certamente un signi-ficato latamente politico su cui si tornerà più avanti; ugualmente però, una simile diffusione dell’obiezione di coscienza, rappresentando una delle principali cause delle difficoltà e dei ritardi nella garanzia del servizio predisposto dalla legge n. 194, pone la questione della «effettività» della legge stessa e quindi, per le ragioni più sopra esposte, della legittimità co-stituzionale della disposizione che prevede l’obiezione.

L’obiezione di coscienza all’intervento interruttivo della gravidanza sembra così porsi al paradossale crocevia fra ciò che è costituzionalmen-te necessario e ciò che è costituzionalmente illegittimo. Dal punto di vi-sta della gravità del comportamento richiesto e del pregiudizio che la sua mancata previsione determinerebbe in capo all’obiettore essa risulta sot-

24 Cfr. la Relazione del Ministro della salute sulla attuazione della legge contenente nor-me per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/1978) dell’anno 2008, in www.ministerosalute.it, 34: «Si evince un notevole aumento ge-nerale dell’obiezione di coscienza negli ultimi anni per tutte le professionalità, con percentua-li pari al 69.2% per i ginecologi (rispetto al 59.6% della precedente relazione), 50.4% per gli anestesisti (rispetto a 46.3%) e 42.6% per il personale non medico (39% nella precedente re-lazione). Questi valori raggiungono percentuali particolarmente elevate nel sud Italia».

25 R. BertoLino, Obiezione di coscienza, cit., 1.

1090

tratta all’area della discrezionalità del legislatore e assistita dalla garan-zia dell’opzione costituzionalmente obbligata. Avendo invece riguardo agli effetti che il suo utilizzo di fatto generalizzato produce, la stessa nor-ma si espone al rischio di essere giudicata costituzionalmente illegittima, contrastando «con la natura stessa di ogni ordinamento giuridico, la cui prima esigenza è quella della vigenza e dell’effettività delle leggi» 26. Ta-le tensione sembra potersi ricomporre nell’affermazione del principio se-condo cui, in questo caso specifico, ove sia comunque possibile raggiun-gere le finalità della legge, il legislatore sia tenuto a riconoscere l’obie-zione di coscienza ma, ai fini di garantirne la legittimità costituzionale, debba contestualmente introdurre misure necessarie ed adeguate al rag-giungimento di tali finalità. Un rilievo centrale assumono allora, alla lu-ce di questa impostazione, gli strumenti disponibili per assicurare che il ricorso all’obiezione di coscienza non si risolva in una sostanziale im-possibilità di dare attuazione alla legge che la prevede 27.

Tale preoccupazione non era certo estranea al legislatore del 1978 28 che, all’art. 9, comma 4, prevede, in capo agli enti ospedalieri e alle case di cura autorizzate, l’obbligo di assicurare in ogni caso l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza e affida alla Regione il compito di controllare e garantire l’attuazione della legge stessa. A fron-te di questi obblighi, però, assai poco la legge dice circa il come tali sog-getti possano adempiervi. Nulla infatti viene previsto in merito agli stru-menti giuridici utilizzabili dagli enti ospedalieri, che sono generalmente ricorsi alle convenzioni con le case di cura autorizzate, soluzione che,

26 Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, cit., 189.27 Si noti che la garanzia del raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla legge è an-

che l’elemento determinante che permette di superare le più radicali (e altrimenti fondate) cri-tiche all’obiezione di coscienza, di cui si contesta in radice la compatibilità con il principio de-mocratico (così, in via generale, G. Gemma, Brevi note critiche contro l’obiezione di coscien-za, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 319 ss., che parla di un istituto «giu-ridicamente irrazionale» che «consente che minoranze anche ristrette (…) vanifichino o com-promettano le manifestazioni di volontà popolare, in totale contrasto con la logica democrati-ca» (322); secondo la medesima prospettiva, con specifico riferimento all’oggetto di questo studio, C.E. traverso, Commento all’art. 9, in G. GaLLi, v. itaLia, f. reaLmonte, m. sPina, c.e. traverso, L’interruzione volontaria della gravidanza, cit., 222 ss.).

28 Né ha perso di attualità se si considera che i primi mesi del 2008 hanno visto il Mini-stero della Salute impegnato nell’avviare il confronto con i rappresentanti delle Regioni per la messa a punto di un’intesa per una migliore applicazione della legge n. 194 che prevedeva, fra l’altro, la presenza, almeno in ogni distretto, di un medico non obiettore, nell’ottica della ridu-zione dei tempi di attesa fra certificazione e intervento abortivo. Il testo dello schema di inte-sa che, negli auspici del Ministero, doveva essere conclusa entro il 6 marzo 2008, è disponibi-le in www.ministerosalute.it

1091

qualora ampiamente praticata, finisce per smentire di fatto la chiara im-pronta pubblicistica della legge n. 194 29. Per quanto riguarda le Regioni, invece, l’unico riferimento è alla «mobilità del personale», soluzione di per sé non risolutiva quando l’obiezione di coscienza non riguardi speci-fiche situazioni locali ma rappresenti una situazione ampiamente e omo-geneamente diffusa all’interno della Regione.

Il problema giuridicamente più delicato che si pone in questo senso riguarda la legittimità di forme di garanzia dell’attuazione della legge n. 194 che abbiano effetti penalizzanti nei confronti dei medici non obietto-ri, ossia se, concretamente, le aziende sanitarie locali e le aziende ospeda-liere possano bandire concorsi per anestesisti e ginecologi con la clauso-la di non sollevare obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9, l. n. 194 30. Tali formule concorsuali indubbiamente hanno un carattere pregiudizie-

29 Cfr. Piano regionale di salute 2008-2010 della Regione Puglia, approvato con l.r. 19 settembre 2008, n. 23, dove si legge che «l’elevato numero di IVG effettuate in strutture priva-te in Puglia (quasi il 50% del totale) (…) è in gran parte riconducibile alla situazione creatasi nella nostra regione all’indomani della approvazione della legge 194 quando, a fronte di una massiccia dichiarazione di obiezione di coscienza dei ginecologi dei servizi pubblici, fu garan-tita la possibilità di effettuare la IVG all’interno di cliniche private convenzionate che, nel cor-so degli anni, hanno assorbito quasi interamente la domanda. Questo modello, con il passare del tempo, ha di fatto creato le condizioni per una progressiva marginalizzazione delle misure di prevenzione del ricorso all’aborto. Si pone pertanto la necessità di “riportare” gradualmen-te la gestione delle IVG all’interno del pubblico, riequilibrando l’offerta di servizi dedicati e riconoscendo al consultorio familiare un ruolo fondamentale sia nelle attività di prevenzione della interruzione volontaria di gravidanza, che nella presa in carico delle donne che richiedo-no l’intervento di interruzione volontaria di gravidanza». Sulla limitazione dell’intervento di interruzione volontaria della gravidanza alle strutture pubbliche v. M. zanchetti, L’interruzio-ne volontaria della gravidanza, cit., 205 ss.

30 Cfr. T.A.R. Emilia-Romagna, sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in «Foro amm.», 1983, I, 735, che ritiene legittima la decadenza pronunciata nei confronti del medico che, as-sunto per assicurare il servizio di interruzione volontaria della gravidanza sulla base di avviso pubblico contenente espressamente la clausola secondo cui i candidati dovevano dichiarare nella domanda di non sollevare obiezione di coscienza, non appena assunto l’incarico aveva comunicato la propria obiezione di coscienza, affermando di aver reso la necessaria dichiara-zione al solo fine di non rimanere privo di impiego e di ritenere che l’obiezione non fosse sot-toponibile a preclusioni di sorta. Si noti che, sebbene il rigetto del ricorso è determinato prin-cipalmente dalla sua inammissibilità dovuta alla mancata impugnazione della delibera del co-mitato di gestione che prevedeva la citata clausola, il giudice amministrativo sembra comun-que ritenere legittima l’esclusione degli obiettori, affermando che «l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza subisce un naturale limite nel caso in cui tale esercizio impedisca l’effettuazione del servizio per il quale il dipendente venne assunto, essendo peraltro consape-vole delle prestazioni che gli sono state richieste» (736). Nel senso dell’illegittimità dei con-corsi che escludono il personale obiettore M. zanchetti, La legge sull’interruzione della gra-vidanza, cit., 250.

1092

vole per la libertà di coscienza dei partecipanti, sia nel senso di preclude-re la partecipazione a chi si dichiari obiettore di coscienza, sia nei con-fronti di chi, assunto con la suddetta clausola, abbia successivamente a maturare un convincimento interiore contrario alle pratiche abortive e si trovi nell’impossibilità di sollevare obiezione di coscienza senza incorre-re nella risoluzione del proprio rapporto di lavoro 31. In un caso come nell’altro la libera determinazione del soggetto viene indirizzata verso una precisa scelta attraverso la previsione di conseguenze certamente pregiudizievoli qualora il soggetto sollevi l’obiezione, il che, indubbia-mente, concreta una forma di limitazione della libertà di coscienza. Il punto diventa perciò stabilire se, ed entro quali limiti, la compressione di questa libertà fondamentale possa considerarsi giustificata in ragione del perseguimento dei fini per cui essa è prevista o se invece essa configuri un’illegittima discriminazione sulla base delle personali convinzioni di coscienza.

In presenza di un diffuso ricorso all’obiezione di coscienza un utiliz-zo in termini assai contenuti di queste clausole contrattuali non sembra da escludere a priori. L’esigenza di ricorrere a tali clausole, infatti, è de-terminata dalla stessa obiezione di coscienza e in qualche modo è finaliz-zata a renderla possibile 32, o, più correttamente, ad assicurare «un accet-tabile grado di compatibilità tra l’obiezione di coscienza e la funzionali-tà del servizio sanitario in relazione agli interventi diretti a provocare l’interruzione della gravidanza» 33. Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, del resto, se da una parte non può comportare conseguenze così pregiudizievoli per l’obiettore da rendere di fatto impossibile il suo esercizio, dall’altra non richiede che l’obiettore debba essere tenuto as-solutamente indenne dalle conseguenze che la sua stessa scelta compor-ta. Diversamente argomentando il peso delle esigenze di coscienza di al-cuni finirebbe per gravare esclusivamente su altri soggetti (nel caso con-creto le gestanti, per le quali si determina un allungamento dei tempi

31 Per un caso di questo genere cfr. T.A.R. Campania, sez. IV, 3 maggio 1989, n. 78, in «Trib. amm. reg.», 2570.

32 Fra le alternative possibili, infatti, rientra anche la più drastica soluzione proposta da S. rodotà, Problemi dell’obiezione di coscienza, in «Quad. dir. pol. eccl.», 1993, 1, 64, il qua-le ritiene ragionevole che «dovendo predisporre un funzionamento dei servizi sanitari tale da rendere possibile la risposta alle richieste delle donne, le autorità pubbliche possano stabilire modalità di reclutamento del personale che esplicitamente escludano, per il futuro, l’obiezio-ne di coscienza. In sostanza, chi aspira a un determinato lavoro viene informato delle sue par-ticolari modalità di svolgimento. Può così valutarne la compatibilità con le proprie convinzio-ni e, qualora lo ritenga incompatibile, rinunciarvi preventivamente».

33 A. d’atena, Commento all’art. 9, cit., 1651.

1093

d’attesa, e i medici non obiettori, chiamati a svolgere un numero maggio-re di interruzioni volontarie della gravidanza 34), venendosi così ad affer-mare una sorta di principio di irresponsabilità dell’obiettore rispetto alle proprie scelte di coscienza. Al contrario, se i costi dell’obiezione di co-scienza vengono sopportati anche dagli obiettori stessi, si perviene ad un maggior riequilibrio fra medici obiettori e non-obiettori, che, senza vani-ficare il nucleo essenziale della tutela della libertà di coscienza e, in que-sto caso, della libera scelta della professione, avrebbe anche l’effetto di saggiare la serietà della scelta obiettoria ed evitare un uso opportunistico della stessa 35.

L’utilizzo di tali clausole, in ogni caso, dovrebbe essere ragionevol-mente contenuto nei termini strettamente necessari alla garanzia del buon funzionamento di quanto previsto dalla l. n. 194, per cui il pregiudizio che l’obiettore viene a subire rimane nell’ambito delle conseguenze del-la propria scelta responsabilmente accettabili e non degenera invece in una forma nemmeno troppo velata di coartazione della coscienza. L’obiet-tore che, di fronte alla scelta degli organi amministrativi di riservare al-cuni posti a personale non obiettore, si ritenga vittima di una discrimina-zione in violazione della sua libertà di coscienza e del suo diritto a libe-ramente scegliere la sua professione, avrebbe naturalmente a disposizio-ne il ricorso al giudice amministrativo, chiamato a valutare la legittimità, nei termini della ragionevolezza e della stretta necessarietà, della restri-

34 Si noti che, anche per i medici che non ritengono di sollevare obiezione di coscienza, l’interruzione volontaria della gravidanza risulta ugualmente uno degli interventi più impegna-tivi, se non dal punto di vista tecnico, certamente da quello psicologico ed emotivo, da cui la le-gittima aspettativa ad un’equa distribuzione di questo particolare carico di lavoro. Del resto, nel momento in cui si sceglie se avvalersi o meno dell’obiezione di coscienza, in presenza di una certa incertezza nella decisione, può giocare un ruolo determinante la consapevolezza che, qua-lora non si intenda obiettare gli interventi di interruzione volontaria della gravidanza rappresen-teranno un’alta percentuale del proprio lavoro, non essendo molti i medici non obiettori.

35 La mancata previsione di una prestazione alternativa per il medico obiettore, in analo-gia a quanto avveniva per l’obiezione di coscienza al servizio militare, è stata frequentemente criticata. V., in particolare, F. onida, Contributo a un inquadramento giuridico, cit., 245 ss., che ritiene che in questo caso il «peso» della prestazione sostitutiva, in termini di «durata, sgradevolezza, pericolosità», potrebbe essere ragionevolmente «un poco più gravoso rispetto a quello della prestazione rifiutata» (257); contra, nel senso della non irragionevolezza del regi-me differenziato delle due ipotesi obiettorie, G. DaLLa Torre, Obiezione di coscienza e valori costituzionali, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 55. Da un diverso punto di vista si è sottolineato come sia invece quella al servizio militare «l’unica ipotesi di obiezio-ne riconosciuta per la quale il legislatore ha previsto una prestazione alternativa» (B. randaz-zo, Obiezione di coscienza, cit., 3874).

1094

zione prevista alla luce delle esigenze concretamente documentabili di garanzia dell’attuazione della legge e dell’impraticabilità o inopportuni-tà di soluzioni differenti.

4. Effetto pratico e significato teorico dell’obiezione di coscienza dei soggetti che intervengono nel processo decisionale della gestante

La posizione dei soggetti coinvolti nella fase prodromica alla deci-sione della gestante 36 si differenzia in maniera significativa, con riferi-mento all’obiezione di coscienza, da quella appena analizzata sotto due principali profili.

In primo luogo si deve considerare la diversa idoneità dell’atto ri-chiesto a ledere nel profondo la coscienza dell’obiettore 37: l’insostenibi-le dissidio interiore che si determina nel medico nel momento di proce-dere con le proprie mani alla soppressione del feto, risulta necessaria-mente affievolito nella diversa ipotesi in cui sia richiesto di certificare, al-la luce di parametri che il medico non condivide, ma comunque dotati di un carattere oggettivo (almeno nelle intenzioni del legislatore), l’esisten-za dei presupposti per autorizzare l’intervento abortivo. Se è vero, infat-ti, che in entrambi i casi il medico concorre alla realizzazione di un even-to che egli giudica inaccettabile, la partecipazione del soggetto a tale evento è però sicuramente inferiore e qualitativamente diversa (meno

36 Fra i soggetti cui è riconosciuto il diritto di sollevare obiezione di coscienza apparte-nenti a questa categoria non rientra, come noto, il giudice tutelare, rispetto al quale la manca-ta previsione dell’obiezione di coscienza non è stata dalla Corte ritenuta costituzionalmente il-legittima nella sent. n. 186 del 1987 (cfr. supra, n. 22, cui adde J. Luther, L’aborto: tema con variazioni per legislatori, giudici e custodi della Costituzione, in «Giur. cost.», 1987, 2989 ss.). Sulla questione dell’obiezione di coscienza del giudice tutelare v. anche le successive or-dinanze di manifesta infondatezza nn. 445 del 1987 e 514 del 2002.

37 Cfr., limpidamente, V. onida, L’obiezione di coscienza dei giudici, cit., 371: «Coloro che sono chiamati ad accertare l’esistenza dei presupposti che rendono tale scelta [la scelta di abortire] consentita dall’ordinamento, non esprimono una volontà diretta a conseguire l’effet-to dell’interruzione della gravidanza, ma compiono un accertamento, da cui può conseguire la liceità per l’ordinamento statale, della scelta della gestante, resa così insuscettibile di sanzio-ni. Il problema, dunque, più e prima della coscienza di coloro che sono chiamati a compiere tali accertamenti, implica la coscienza della donna. Diverso è il caso del medico che è chiama-to a operare l’aborto, cioè a svolgere un’attività che è direttamente causativa dell’interruzione della gravidanza. Penso che nessun medico possa accettare che gli venga imposto come attivi-tà terapeutica qualcosa che egli non ritiene personalmente sia un’attività terapeutica». Coeren-temente con questa impostazione lo stesso autore dubita dell’opportunità dell’estensione dell’obiezione di coscienza alla partecipazione alle procedure preliminari.

1095

stringente di conseguenza risultando il giudizio di responsabilità che l’obiettore formula nei confronti di se stesso), quando si tratti di interve-nire in un procedimento che ha come esito quello di autorizzare la deci-sione della gestante che ancora potrebbe desistere dal proposito abortivo nel periodo di ripensamento legislativamente previsto, ovvero quando si tratti di compiere materialmente l’atto ritenuto in coscienza inaccettabi-le, senza alcuna speranza di poterlo scongiurare anche grazie al proprio intervento, soltanto limitandosi a dare corso ad un’altrui volontà ormai irrevocabile. Se nel primo caso, pur nei limiti imposti dalla legge, il me-dico può ritenere la propria opera utile a scongiurare l’evento abortivo, e, quando tale evento dovesse comunque verificarsi egli può ritenere di fronte alla propria coscienza di aver fatto tutto il possibile per evitarlo nei limiti del rispetto della legge e della autonoma deteminazione della ge-stante, altrettanto non vale per chi quell’intervento deve realizzarlo, ve-dendosi preclusa qualsiasi possibilità di agire nella direzione impostagli dalla sua coscienza.

Queste considerazioni sembrano far propendere nel senso dell’im-possibilità di riferire anche al caso in esame il carattere costituzional-mente necessario che, pur con molte cautele, si è ritenuto assistere la di-versa fattispecie obiettoria poco sopra esaminata. L’estensione della pos-sibilità di sollevare obiezione anche a soggetti diversi dall’equipe medi-ca deputata a svolgere l’intervento abortivo rappresenta al contrario una scelta di ampia tutela della libertà di coscienza, resa possibile dal secon-do profilo che distingue queste due categorie di soggetti. A differenza dell’ipotesi analizzata nel paragrafo precedente, infatti, in questo caso non si pongono significativi problemi di garanzia dell’effettività della legge, dal momento che il numero di medici abilitati al rilascio del docu-mento autorizzante l’interruzione volontaria della gravidanza è di gran lunga superiore a quello dei medici abilitati a svolgere l’intervento 38. Ta-le profilo sembra centrale nel riconoscimento di questa forma di obiezio-ne di coscienza: nell’estendere l’obiezione anche a questa categoria di soggetti, il legislatore sembra essersi basato essenzialmente da una parte sullo scarso aggravio che essa comporta ai fini dell’effettività della leg-ge, dall’altra sulla difficoltà di ottenere comunque la collaborazione di una parte dei medici all’attuazione della legge 194 39; in minor conto

38 Del resto l’allargamento della sfera dei medici abilitati al rilascio del documento auto-rizzatorio è stato determinato proprio dal timore che una diffusa obiezione di coscienza vani-ficasse le previsioni della legge, come nota M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gra-vidanza, cit., 159.

39 Sull’impossibilità «di costringere ad agire chi assolutamente non voglia» quale «mo-

1096

sembrano invece essere stati tenuti i profili dell’effetto pratico e del si-gnificato del comportamento obiettorio, sui quali invece è possibile svol-gere alcune considerazioni critiche.

Si deve infatti notare che la scelta di obiettare risulta chiaramente controproducente dal punto di vista dell’obiettore stesso, il quale, autoe-scludendosi da tutte le fasi del percorso che può sfociare nell’interruzio-ne volontaria della gravidanza, di fatto evita di portare il suo contributo anche in quella fase procedurale che, ai sensi della legge, dovrebbe ave-re lo scopo di evitare, per quanto possibile, l’evento abortivo, fase nella quale l’obiettore può ragionevolmente ritenere il suo intervento più effi-cace nello scongiurare l’interruzione della gravidanza rispetto a quello di un collega non così radicalmente contrario all’aborto. Il problema è noto ed è stato affrontato soprattutto da quella parte della dottrina più favore-vole all’esercizio dell’obiezione di coscienza 40, che ha individuato nella scissione temporale del momento del colloquio da quello del rilascio del documento la soluzione de iure condendo più idonea a contemperare obiezione di coscienza e intervento dissuasivo del medico 41. De iure condito invece la questione rimane aperta, dovendosi ritenere poco riso-lutiva l’interpretazione per cui al medico obiettore sarebbe preclusa la consegna del documento ma non il colloquio ad essa precedente 42. Es-sendo il colloquio presupposto indispensabile per il rilascio del docu-mento autorizzatorio, le situazioni che possono verificarsi sono essen-zialmente due. Se la donna non è a conoscenza della scelta obiettoria, non sembra corretto, in primis da un punto di vista deontologico, che il medico effettui il colloquio lasciando alla gestante, al termine dello stes-

tivo realisticamente politico (…) per concludere a favore dell’ammissione e della regolamen-tazione dell’obiezione di coscienza» v. F. onida, Contributo a un inquadramento giuridico, cit., 236.

40 V., ad esempio, C. Casini, f. cieri, La nuova disciplina dell’aborto, Padova, 1978, 168, e G. DaLLa torre, Diritti dell’uomo e ordinamenti sanitari contemporanei: obiezione di coscienza o opzione di coscienza?, in B. Perrone (a cura di), Realtà e prospettive dell’obie-zione di coscienza, cit., 293 ss., che vedono nell’obiezione di coscienza l’unica scelta confor-me all’ordinamento costituzionale, quale disobbedienza ad una legge che si pone al di fuori del quadro costituzionale. Sul rapporto regola-eccezione in questo specifico caso di obiezio-ne di coscienza v. S. Prisco, Stato democratico, pluralismo dei valori, obiezione di coscien-za. Sviluppi recenti di un antico dibattito, in id., Laicità. Un percorso di riflessione, Torino, 2007, 119.

41 Cfr. L. euseBi, Tutela giuridica dell’embrione ed esigenze irrisolte di prevenzione dell’aborto, in E. sGreccia, V. MeLe (a cura di), Ingegneria genetica e biotecnologie nel futu-ro dell’uomo, Milano, 1992, 333 ss.

42 Così C. casini, f. cieri, La nuova disciplina dell’aborto, Padova, 1978, 168.

1097

so, la sorpresa della sua inutilità ai fini del rilascio del documento 43. Se invece la donna è al corrente del fatto che il medico in ogni caso non ri-lascerà il documento, l’eventuale colloquio che abbia comunque a svol-gere con il medico, per quanto utile e determinante esso possa essere per le sue scelte, non può rientrare nella previsione dell’art. 5 della l. 194, ma si pone quale libera scelta della gestante che, nel momento di prendere una così difficile decisione, può naturalmente scegliere di consultarsi con chiunque ritenga più opportuno. Tale colloquio, in altri termini, si fonda sulla fiducia che la donna ripone nel proprio medico e non sulla sua ne-cessarietà ai sensi dell’art. 5, tanto è vero che, qualora intenda procedere all’interruzione della gravidanza, dovrà rivolgersi ad un diverso medico, con il quale nuovamente effettuare il colloquio previsto, non potendosi ritenere detta fase già precedentemente espletata: la lettera della legge non consente infatti interpetazioni che neghino l’identità soggettiva fra l’autore del colloquio e colui che rilascia il documento.

Così disciplinata, peraltro, l’obiezione di coscienza non torna sol-tanto a danno dell’obiettore posto di fronte ad una scelta in ogni caso scarsamente soddisfacente, ma nemmeno appare vantaggiosa dal punto di vista della legge stessa. Se in termini astratti, infatti, è richiesto al me-dico di valutare la richiesta di interruzione della gravidanza alla luce dei parametri da essa stabiliti e indipendentemente dalle proprie convinzioni personali, di fatto sembra inevitabile che il grado dissuasivo del collo-quio sia necessariamente legato alla gravità che nella propria coscienza il medico associa all’intervento abortivo. Sia sotto il profilo formale del comportamento astrattamente richiesto al medico, sia sotto quello più re-alistico di ciò che concretamente avviene, appare in ogni caso contraria all’interesse della legge la selezione del personale medico che l’obiezio-ne di coscienza così disciplinata determina, facendo sì che l’attuazione della legge, soprattutto nella parte in cui più rileva l’apporto personale e umano del medico e non solo la sua stretta competenza «chirurgica», sia rimessa ad una categoria di medici che inevitabilmente finisce per essere individuata sulla base delle proprie convinzioni di coscienza e non riflet-te quindi a pieno quel pluralismo di convinzioni personale che invece ca-ratterizza la classe medica globalmente considerata e, prima ancora, la società nel suo complesso.

Alcune considerazioni problematicamente critiche si possono inol-

43 Ed infatti ritengono «deontologicamente corretto che l’obiettore, fin dal momento del primo approcio con la donna, debba farle presente la sua qualità di obiettore e di non essere quindi disposto al rilascio del certificato e del documento, né, comunque, ad aiutarla ad abor-tire» C. Casini, F. cieri, La nuova disciplina dell’aborto, cit., 169.

1098

tre svolgere circa il significato del comportamento obiettorio, soprattutto per quel che riguarda il delicato e incerto rapporto fra obiezione di co-scienza e suo potenziale utilizzo a fini politici 44. Come sopra accennato, e come meglio si riprenderà in sede di conclusioni, l’esercizio dell’obie-zione di coscienza ha inevitabilmente un significato latamente politico, nel messaggio che essa lancia alla collettività e al legislatore: nel caso di specie, l’obiezione dei medici ricorda alla società italiana, e ai suoi rap-presentanti in Parlamento, che la questione della tutela della vita prena-tale è assai lungi dall’aver raggiunto un punto di equilibrio stabile e da tutti condiviso e, concretamente, mantiene viva l’attenzione sul tema, ciò che rappresenta la necessaria premessa per un’eventuale futura revisione legislativa. Se però tale significato politico in senso ampio degenera in una precisa volontà di non dare attuazione ad una legge non condivisa, e da corollario dell’obiezione di coscienza ne diventa invece il fine princi-pale, allora vengono meno i presupposti che giustificano l’ammissibilità dell’obiezione di coscienza, soprattutto se essa è riconosciuta non alla generalità dei consociati ma ad una specifica categoria professionale. In altre parole, se nel comportamento obiettorio è intrinsecamente insito un significato politico cui un legislatore accorto non dovrebbe essere insen-sibile, la ratio per cui l’obiezione viene riconosciuta è da individuarsi nella protezione della coscienza di chi è chiamato ad attuare una legge che determina esiti inaccettabili per la sua coscienza, non certamente nel-la volontà di permettere ad una ristretta cechia di consociati di contesta-re una scelta democraticamente legittimata rifiutandone l’applicazione. Utilizzata per questo scopo, da forma di tutela della coscienza, l’obiezio-ne si trasformerebbe piuttosto in un improprio strumento di lotta politica, che permetterebbe di protrarre nel proprio ambito professionale una bat-taglia politica che invece si deve consideare conclusa, ancorchè sempre passibile di revisione, nelle aule parlamentari (e nelle urne del referen-dum). La battaglia politico-culturale per una maggiore tutela della vita prenatale, infatti, condivisa o meno che sia, è pienamente legittima se esercitata nelle forme democratiche previste dalla Costituzione, fra le quali però non rientra, e non può rientrare, la possibilità di contestare la legge attraverso la sua disapplicazione da parte di chi è chiamato ad at-tuarla e non la condivida. Un simile utilizzo snatura la ragion d’essere dell’obiezione di coscienza (che non può individuarsi nella tutela del semplice dissenso politico consentendo la non applicazione di una legge

44 Diffusamente su questo argomento, seppur in una prospettiva in parte differente da quella accolta in questo studio, L. Guerzoni, L’obiezione di coscienza, cit., spec. 172 ss.

1099

qualora non sia condivisa) e ne fa invece un destabilizzante strumento di alterazione del gioco democratico.

Naturalmente l’ordinamento non dispone di strumenti affidabili per valutare le reali motivazioni che spingono alla scelta obiettoria, e, in par-ticolare, per vagliare se queste derivino da un radicato convincimento in-teriore o siano parte di un’impropria strategia politica. è certo però che la più limitata capacità lesiva della coscienza del comportamento in que-sto caso richiesto rende plausibile l’ipotesi che dietro la scelta obiettoria non si celi sempre un insanabile contrasto con le proprie convinzioni di coscienza, quanto piuttosto che essa sia talvolta supportata dalla volontà di scongiurare il maggior numero possibile di aborti rendendo quanto più difficoltosa possibile l’appicazione della legge che li permette 45.

5. Considerazioni conclusive

Nelle pagine che precedono si è cercato di analizzare i presupposti del riconoscimento dell’obiezione di coscienza all’interruzione volonta-ria della gravidanza e le problematiche connesse al suo esercizio, sottoli-neando come l’art. 9 della legge n. 194 del 1978, con scelta di dubbia ra-gionevolezza, abbia accomunato nella medesima disciplina giuridica due categorie di soggetti che in realtà presentano caratteristiche assai diffe-renti, il che rende assai arduo fornire un’interpretazione convincente e coerente della disposizione stessa 46. Resta ora conclusivamente da ac-

45 Alla luce di quanto finora affermato presenta un certo interesse, e varrebbe forse la pe-na valutarne l’opportunità e la praticabilità nel caso in esame, la soluzione individuata con ri-ferimento all’ipotesi di obiezione alla prescrizione della c.d. «pillola del giorno dopo» dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, secondo cui «nel ca-so in cui al medico obiettore di coscienza sia richiesta la prescrizione di cui trattasi, lo stesso non può limitarsi ad esprimere la propria obiezione ma debba provvedere nell’ambito delle proprie responsabilità affinché la richiedente possa accedere con tempi e modalità appropriate alla prescrizione» (FNOMCeO, Comunicazione dell’11 dicembre 2006, n. 81); in questo mo-do il medico renderebbe manifesto che la sua obiezione deriva da un’effettiva impossibilità per ragioni di coscienza di procedere all’atto richiesto e non nasconde invece un tentativo di boi-cottaggio di una legge non condivisa.

46 Come tutte le forme di categorizzazione, anche la distinzione proposta in questo scrit-to soffre di una necessaria rigidità e non è da escludere che la posizione di altri soggetti coin-volti nell’interruzione della gravidanza possa non rientrare a pieno nella bipartizione esposta; si è considerato comunque opportuno proporre tale distinzione perché si ritiene che, almeno con riferimento alle due figure emblematiche del ginecologo e del medico chiamato a firmare il documento autorizzatorio, essa possa utilmente spiegare le difficoltà interpretative legate all’art. 9 della legge n. 194.

1100

cennare a quel significato latamente politico dell’obiezione cui si è più volte fatto riferimento nel corso di questo lavoro. Sembra infatti riscon-trarsi anche in relazione al caso studiato una certa tensione caratteristica dell’istituto in esame, che, se da una parte rappresenta un elemento di co-esione sociale, ponendosi quale elemento di integrazione in un quadro di legalità delle esigenze di coscienza di una parte minoritaria dei consocia-ti e contribuendo pertanto a rendere tollerabile e quindi più condivisa e verosimilmente più duratura e stabile una normativa altrimenti inaccetta-bile 47, dall’altra partecipa di un’insopprimibile vocazione dinamica, rap-presentando un elemento di costante contestazione della legge in vista di una sua modifica nella direzione indicata dall’obiezione stessa 48.

Sotto il profilo della coesione sociale, basti ricordare che l’obiezio-ne di coscienza all’aborto si è affermata, «nel corso del tormentato iter da cui è scaturita la legge (…) come uno dei poli dell’accordo faticosamen-te raggiunto dalle forze di maggioranza» 49; sotto il profilo dinamico, in-vece, l’esempio più noto e immediato è rappresentato dall’obiezione di coscienza al servizio militare, il cui crescente esercizio, man mano che Corte Costituzionale e legislatore ne contenevano il carattere penalizzan-te, è stato sicuramente un elemento determinante per la profonda revisio-ne della disciplina dell’obbligo militare. è pensabile che qualcosa di si-mile avvenga anche in relazione alla legge n. 194?

Le probabilità non sono molto elevate, sia perché appare difficile che si riesca oggi, in una materia così delicata come quella dell’aborto, ad individuare soluzioni di riforma capaci di ottenere un ampio consenso quale si è riscontrato per la sospensione dell’obbligo di leva, sia per la strutturale differenza fra le due ipotesi obiettorie. L’obiezione prevista dall’art. 9 della legge n. 194 è infatti, a differenza di quella all’obbligo militare, circoscritta a ben precise categorie professionali, il che rende meno attendibile quella funzione di «verifica del principio maggiorita-

47 Sull’obiezione di coscienza come «forma di compromesso sociale che riduce, o elimina del tutto, la possibilità stessa del conflitto», cui si ricorre in presenza di diversità che ciascuna parte ritiene non negoziabili v. S. rodotà, Problemi dell’obiezione di coscienza, cit., 58-59.

48 Cfr. E. rossi, Obbedienza alla legge e obiezione di coscienza, in aa.vv., Obiezione di coscienza al servizio militare. Profili giuridici e prospettive legislative, Padova, 1989, 79, il quale individua nel comportamento obiettorio non soltanto «la volontà di manifestare il con-trasto tra i propri personali convincimenti e i valori (o fini) perseguiti dalla legge», ma anche «la volontà di modificare l’imperativo contenuto nella legge, che l’obiettore intende combat-tere non perché in contrasto solamente con la propria coscienza, ma con valori etici da esso ri-tenuti inaccettabili e pericolosi per la società tutta».

49 A. d’atena, Commento all’art. 9, cit., 1650.

1101

rio» 50 generalmente ricollegata all’obiezione di coscienza, stante il ca-rattere scarsamente rappresentativo di tali cerchie di soggetti rispetto all’intera collettività. Inoltre, l’indubbio significato di contestazione alla legge è in questo caso accompagnato dal sospetto dell’obiezione «di co-modo», fenomeno difficilmente quantificabile ma verosimilmente in qualche misura presente, data l’assenza di serie controindicazioni all’obiezione, il che determina, se non un incentivo ad obiettare, quanto-meno la possibilità di scelte non adeguatamente ponderate 51.

Al netto di queste precisazioni rimane però il dato di fatto inequivo-cabile espresso da un così elevato ricorso all’obiezione di coscienza: chi più direttamente è coinvolto negli interventi di interruzione volontaria della gravidanza nella maggior parte dei casi rifiuta la propria collabora-zione, quasi che la materiale vicinanza all’evento abortivo determini una maggiore percezione della gravità dell’atto che si sta compiendo. Tutto ciò, come sopra più volte ricordato, pone certamente nel breve periodo il problema di garantire la legge e le posizioni da essa tutelate dall’operare dell’obiezione di coscienza, ma sarebbe certamente una prospettiva mio-pe quella di un legislatore che si limitasse a questo senza cogliere il mes-saggio più profondo del comportamento obiettorio. Il dato esperienziale delle categorie professionali coinvolte in prima persona negli interventi abortivi, in altri termini, dovrebbe essere valutato non solo quale proble-ma da superare per garantire la prevalente (e persistente) volontà demo-cratica, ma anche quale stimolo qualificato alla riflessione critica sulla bontà di tale scelta legislativa, soprattutto nell’ottica di un contenimento sempre maggiore della necessità di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza. Ciò però richiede necessariamente la disponibilità a su-perare il «dogma» dell’intangibilità della legge n. 194, dogma tanto dif-

50 A. cerri, Resistenza (diritto di), in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, 6, secon-do cui «l’obiezione di coscienza, la disobbedienza civile vengono a costituire una sorta di re-ferendum silenzioso, una proclamazione di sciopero, la cui reale efficacia dovrà essere stabili-ta dai fatti».

51 Si noti inoltre che, anche quando la scelta obiettoria non sia determinata da finalità strettamente opportunistiche, questa può anche non assumere il significato di un’assoluta e ra-dicale contrarietà all’aborto, bensì limitarsi soltanto alla propria indisponibilità a praticarlo in qualità di medico. Sotto questo profilo presenta un certo interesse Pret. Bari, 5 maggio 1990 (in «Giur. it.», 1993, I, sez. II, 548, con nota di G. donativi, Aborto del medico obiettore di co-scienza: la sfera sociale e la sfera intima separate dall’ipocrisia?) che, respingendo il ricorso ex art. 700 c.p.c. del padre del concepito volto ad ottenere un provvedimento d’urgenza per inibire la volontà abortiva della gestante, ha ritenuto irrilevante la qualità di ginecologa e obiet-trice di coscienza di quest’ultima, sulla base della considerazione che «l’obiezione di coscien-za attinge la persona (uomo o donna che sia) nel suo ruolo di operatore sanitario e non la ri-guarda certo nella veste di soggetto passivo dell’eventuale aborto» (552).

1102

fuso quanto poco fondato, sia da un punto di vista giuridico, sia avendo riguardo all’effettiva efficacia dissuasiva della legge stessa. Sotto il pri-mo profilo non appare corretto attribuire all’espressione referendaria un illimitato carattere vincolante rispetto alle scelte del Parlamento 52, né la non modificabilità della legge n. 194 sembra essere il significato più cor-retto da attribuire alla sent. n. 35 del 1997, con cui la Corte Costituziona-le ha escluso la possibilità di sottoporre a referendum abrogativo buona parte delle sue disposizioni 53; quanto alla valutazione dei risultati ottenu-ti, i dati ancora preoccupantemente elevati del tasso di abortività e del rapporto di abortività nel nostro Paese sembrano lasciare spazio ad am-plissimi margini di miglioramento nel contenimento del numero com-plessivo delle interruzioni volontarie della gravidanza 54.

52 Assai criticamente sul presunto carattere giuridicamente vincolante dell’esito referen-dario sull’esercizio della funzione legislativa v. M. Luciani, Art. 75. Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bo-logna-Roma, 2005, 661 ss.

53 In questo senso i commenti alla sentenza di M. oLivetti, La Corte e l’aborto, fra con-ferme e spunti innovativi, e M. D’amico, Una lettura della disciplina sull’interruzione volon-taria della gravidanza in una problematica decisione di inammissibilità del referendum, in «Giur. cost.», 1997, rispettivamente 312 ss. e 1139 ss., entrambi critici sulla qualificazione del-la legge n. 194 fra le leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato.

54 Secondo la Relazione del Ministro della salute cit. «il tasso di abortività (numero del-le IVG per 1.000 donne in età feconda tra 15-49 anni) (…) nel 2007 è risultato pari a 9.1 per 1.000, con un decremento del 3.1% rispetto al 2006 (9.4 per 1.000) e un decremento del 47.1% rispetto al 1982 (17.2 per 1.000)», mentre «il rapporto di abortività (numero delle IVG per 1.000 nati vivi) è risultato pari a 224.8 per 1.000 con un decremento del 4.5% rispetto al 2006 (235.5 per 1.000) e un decremento del 40.9% rispetto al 1982 (380.2 per 1.000)».

DIBATTITI E ATTUALITÀ

1029

RENATO BALDUZZIProfessore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università

del Piemonte Orientale

SUL RAPPORTO TRA REGIONALIZZAZIONE E AZIENDALIZZAZIONE IN CAMPO SANITARIO

sommario: 1. Le aziende sanitarie e la dottrina: incomprensioni e dimenticanze. – 2. Il le-game tra la regionalizzazione, l’aziendalizzazione e la garanzia del diritto alla salute. – 3. Il “nucleo essenziale” non comprimibile del diritto alla salute, i livelli essenziali di as-sistenza sanitaria e la revisione costituzionale del 2001. – 4. Le funzioni statali in sani-tà come garanzia istituzionale della regionalizzazione e dell’aziendalizzazione. Le “co-erenze di sistema” alla prova dell’autonomia e delle sue anche problematiche declina-zioni. – 5. Tecniche e istituti di coesione in un modello decentrato e aziendalizzato. – 6. Verso il consolidamento del Servizio sanitario nazionale o il suo progressivo e striscian-te indebolimento?

1. Le aziende sanitarie e la dottrina: incomprensioni e dimenticanze

Trascorsi quindici anni dal suo ingresso ufficiale nel Servizio sanita-rio nazionale, è normale che si tenti di tracciare un bilancio della trasfor-mazione in azienda delle unità sanitarie locali, cioè dei principali enti del Servizio stesso, la cui natura giuridica e collocazione istituzionale hanno da sempre costituito un difficile banco di prova per costituzionalisti e amministrativisti.

Nei primi anni successivi all’entrata in vigore del d.lgs. n. 502 del 1992 i commentatori per lo più avevano sottolineato che l’introduzione dell’aziendalizzazione fosse da intendere soprattutto per la sua pars de-struens, cioè come esclusione di compiti gestionali da parte dei comuni, dei quali le unità sanitarie locali disegnate dalla riforma sanitaria del 1978 costituivano organismi operativi 1.

Si trattava di un orientamento all’epoca già consolidato, se è vero che l’esclusione dei comuni da compiti diretti di gestione e amministra-

1 Si v. la ricostruzione di G. sanviti, Art. 3, in aa.vv., Il nuovo servizio sanitario nazio-nale, a cura di F. roversi monaco, Rimini, Maggioli, 2000, p. 110; cfr. anche R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario nazionale tra razionalizzazione delle strutture e assestamento normativo (riflessioni sulla legge 30 novembre 1998, n. 419), in Quad. reg., 1998, pp. 954 ss. Sul dibatti-to intorno alla natura giuridica delle u.s.l. immediatamente a valle dell’istituzione del Ssn v. per tutti F. merusi (a cura di), Unità sanitarie locali e istituzioni, Bologna, il Mulino, 1982.

1030

zione compariva già nelle proposte dell’allora ministro Carlo Donat-Cat-tin (si vedano in particolare i dd.ll. 25 marzo 1989, n. 111 e 29 maggio 1989, n. 199, entrambi non convertiti): una scelta dunque da intendersi come in qualche modo neutrale rispetto ai diversi approcci di politica sa-nitaria dei quali si discuteva tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del de-cennio successivo e volta prevalentemente a correggere il principale di-fetto della legge di riforma, cioè la ridotta governabilità del sistema a causa dell’esistenza di una molteplicità di centri di gestione autonoma e poco coordinabile, e dunque scarsamente in grado di assicurare un ade-guato controllo sulla pur crescente spesa sanitaria 2. I contenuti “positivi” dell’aziendalizzazione, quando emergevano, erano per lo più circoscritti alla generica esigenza di adottare metodi e tecniche propri delle aziende private, quali la contabilità economica.

Sarebbero dovuti passare alcuni anni prima di vedere apparire nella trama legislativa una nozione positiva specifica di aziendalizzazione, sin-tetizzata, da un lato, nell’accostamento della personalità giuridica pub-blica e dell’autonomia imprenditoriale e, dall’altro, nella sottolineatura della natura privatistica degli atti adottati dalle aziende e in particolare dell’atto aziendale sull’organizzazione e sul funzionamento (art. 3, com-ma 1-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e s.m.) 3. Per quanto parte della dottrina abbia sottolineato l’ambiguità di tali disposti normativi 4, la loro considerazione complessiva consente di rinvenirne una ratio univo-ca, consistente proprio nella volontà di far fuoriuscire il più possibile le aziende sanitarie dalla sfera del diritto (e del giudice) amministrativo per assoggettarle alla normativa (e al giudice) di diritto comune, nel contem-po rafforzandone la dipendenza rispetto all’ente Regione.

Proprio il legame tra le due prospettive è il profilo che la riflessione dottrinale ha stentato a cogliere e a ricostruire in modo convincente: se è comprensibile che l’attenzione dottrinale si sia soffermata più sulla pro-blematica dell’aziendalizzazione che su quella della regionalizzazione (la prima costituendo una novità, la seconda già scritta con chiarezza nel-la formulazione originaria dell’art. 117 della Costituzione, ancorché nel-la pratica fortemente inattuata), più sorprendente è la difficoltà a coglie-

2 V. già R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario, cit., p. 951.3 Il d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) ha, all’art. 256, inopina-

tamente abrogato l’intero comma 1-ter dell’art. 3 e non soltanto il suo ultimo periodo, relativo ai contratti sotto soglia comunitaria.

4 Da ultimo F. merLoni, Gli incarichi dirigenziali nelle Asl tra fiduciarietà politica e competenze professionali, in Oltre l’aziendalizzazione del servizio sanitario. Un primo bilan-cio, a cura di A. PioGGia, M. duGato, G. racca, S. civitarese matteucci, Milano, FrancoAn-geli, 2008, p. 118.

1031

re il legame tra i due princìpi, e in particolare la circostanza che l’affida-mento alla Regione dei compiti non solo di programmazione, ma anche, tout court, delle funzioni amministrative nella materia dell’assistenza sa-nitaria e ospedaliera 5 avrebbe comportato l’instaurarsi di molteplici e di-verse “aziendalizzazioni” in dipendenza delle scelte organizzative delle diverse Regioni e Province autonome.

Né si può dire che il legislatore non avesse sottolineato tale nesso, a partire dall’affinità delle formule circa il “completamento” della regiona-lizzazione e dell’aziendalizzazione, introdotto con la legge delega 30 no-vembre 1998, n. 419 e il successivo d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229.

Tale “disattenzione” dottrinale ha concorso, tra l’altro, al manteni-mento di una rilevante incertezza circa i profili concernenti le relazioni tra aziende e regioni e quelli concernenti l’esistenza e l’ampiezza di un generale potere regionale di direttiva nei confronti delle aziende (potere forse non esplicitamente conferito dai principi fondamentali statali, ma indirettamente ricavabile dal potere di dare indirizzi in ordine all’atto aziendale, la cui portata è molto ampia, concernendo sia l’organizzazio-ne sia il funzionamento delle aziende).

2. Il legame tra la regionalizzazione, l’aziendalizzazione e la garanzia del diritto alla salute

Per quanto nel sistema normativo non manchino indizi sufficienti per concentrare l’attenzione sul ruolo di governo da parte della Regione, sugli strumenti con cui esercitarlo e sulle conseguenze che questo com-porta circa la natura e il ruolo delle aziende sanitarie, il legame tra regio-nalizzazione e aziendalizzazione è spesso rimasto nell’ombra.

Eppure l’art. 3, comma 6, ult. periodo del d.lgs. n. 502 (introdotto con norma diretta dalla stessa legge di delegazione, art. 3, l. 30 novembre 1998, n. 419), laddove prescriveva che “le Regioni determinano in via generale i parametri di valutazione dell’attività dei direttori generali del-le aziende, avendo riguardo al raggiungimento degli obiettivi assegnati nel quadro della programmazione regionale con particolare riferimento

5 Così, con particolare chiarezza, l’art. 3 del d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, che costitui-sce, com’è noto, la riforma della riforma della riforma, in quanto esprime il ritrovato accordo tra Stato e Regioni dopo la generalizzata impugnazione da parte di queste ultime del decreto legislativo di riordino 30 dicembre 1992, n. 502 (sui rapporti tra i due testi normativi v. R. BaL-duzzi, Le “sperimentazioni gestionali” tra devoluzione di competenze e fuoriuscita dal siste-ma, in questa Rivista, 2004, pp. 534 ss.).

1032

alla efficienza, efficacia e funzionalità dei servizi sanitari” (disposizione parzialmente ripresa e “corretta” nell’art. 3-bis, comma 5, dove si è ag-giunto che “all’atto della nomina di ciascun direttore generale, esse defi-niscono e assegnano, aggiornandoli periodicamente, gli obiettivi di salute e di funzionamento dei servizi, con riferimento alle relative risorse, ferma restando la piena autonomia gestionale dei direttori stessi” e completata dal comma 13 dello stesso articolo, che ha previsto l’applicazione della disposizione testé riportata in sede di revisione del d.P.C.M. sui contenu-ti del contratto dei direttori generali), fornisce un quadro sufficientemen-te chiaro del legame tra aziendalizzazione e regionalizzazione.

Si tratta di disposizioni che permettono di inquadrare esattamente il potere-dovere regionale di “governo” del sistema: il limite dell’interven-tismo regionale è dato, in primo luogo, dalle necessarie garanzie proce-durali in termini di risoluzione del contratto e di revoca dei direttori ge-nerali (anche allo scopo di coinvolgere quei particolarissimi stakeholders che sono gli enti locali, del cui “ritorno” a un ruolo più spiccato in sani-tà si trovano molte tracce nella normativa successiva al d.lgs. n. 502 del 1992, insieme peraltro a qualche segnale di tipo contrario) 6; in secondo luogo, dall’esigenza di assicurare non genericamente l’autonomia ge-stionale dei direttori generali, ma la loro “piena” autonomia, secondo quanto prescritto dal menzionato comma 5 dell’art. 3-bis, limitata dai po-teri regionali, compreso quello di direttiva, da intendersi non tanto come potere generale o generico, ma riferito puntualmente ai termini e ai mo-di stabiliti dalla normativa nazionale e regionale, compresa quella, come si è visto importantissima, sull’atto aziendale. Una nozione, quella di “piena autonomia” che certamente non può essere intesa alla lettera 7, ma alla luce del complessivo quadro normativo, che vede appunto la presen-za di indirizzi e obiettivi regionali, con la conseguenza di far diventare parametrabile il rendimento dei singoli direttori e conseguentemente la mancata conferma e la revoca dei medesimi 8.

6 Si v. R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario, cit., pp. 954-955; Id., Titolo V e tutela della sa-lute, in questa Rivista, 2002, p. 72, nt. 15.

7 In senso diverso v. F. merLoni, Gli incarichi dirigenziali, cit., pp. 104 ss.8 Il rapporto Regioni-aziende viene talvolta assimilato a quello privatistico tra impresa

capo-gruppo e controllate. Si veda per esempio, tra i documenti più recenti, il Piano socio-sa-nitario regionale piemontese 2007-2010, secondo il quale il processo di aziendalizzazione del-le organizzazioni sanitarie pubbliche deve essere coerente con l’appartenenza ad un “gruppo”, a due livelli: rispetto alla Regione, l’autonomia imprenditoriale delle aziende sanitarie va inte-sa nell’organizzazione dei processi assistenziali (come fare), nell’ambito della missione defi-nita dalla programmazione regionale, in coerenza con le linee guida definite nell’ambito della funzione di “capo gruppo” (ovviamente con la partecipazione delle aziende) e con il rispetto

1033

Nonostante dunque fosse possibile ricavare pianamente dal sistema normativo un quadro di riferimento univoco cui ricollegare l’attenzione ai profili del governo regionale della sanità come strettamente connessi alla scelta dell’aziendalizzazione e alla tipologia della medesima, questi rima-sero sottovalutati almeno sino a quando, in seguito alla revisione costitu-zionale recata dalla legge cost. 24 ottobre 2001, n. 3, la questione della ef-fettiva regionalizzazione della sanità e dei suoi limiti costituzionali venne riproposta, già a partire dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale, soltanto a poche settimane dall’entrata in vigore delle modifiche costituzionali, ebbe a inviare un preciso segnale al legislatore regionale circa la portata dei cambiamenti costituzionali (sent. n. 510 del 1992) 9.

La regionalizzazione italiana va compresa entro il quadro di riferi-mento costituito dai princìpi fondamentali della legge n. 833, ribaditi nell’ultima importante sistemazione normativa del Servizio sanitario na-zionale (appunto il complesso legge delega n. 419 del 1998 e decreto le-gislativo n. 229 del 1999), in particolare quanto alla filosofia di fondo del sistema e al rapporto tra livelli di assistenza e risorse finanziarie, contro applicazioni e interpretazioni dei decreti n. 502 del 1992 e n. 517 del 1993 che erano apparse in contrasto con i capisaldi della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Si tratta di un quadro oggi apparente-mente consolidato dopo un decennio di oscillazione, ma in realtà sogget-to a continue tensioni e torsioni, derivate dai diversi quando non opposti approcci di politica sanitaria che si confrontano nel nostro Paese 10.

è importante liberare la lettura dell’evoluzione della legislazione sa-nitaria da ipoteche legate a specifiche concezioni del diritto alla salute e delle modalità attraverso cui soddisfarlo le quali, seppure in astratto so-stenibili, non trovano appigli nel sistema costituzionale italiano.

Negli anni di stesura del decreto di riordino del 1992 era venuta in-fatti affermandosi la costruzione del diritto alla salute come diritto finan-ziariamente condizionato, elaborata anche sulla base di alcune sentenze della Corte Costituzionale. A dire il vero, la Corte non sembra aver mai aderito in toto a tale controversa nozione, limitandosi per lo più ad affer-

dei vincoli di bilancio; rispetto alle altre aziende sanitarie, l’autonomia delle aziende sanitarie deve essere intesa in coerenza con l’organizzazione a rete di tutti i servizi, sanitari, ammini-strativi e di supporto.

9 Cfr. R. BaLduzzi, Considerazioni di sintesi, in La sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, a cura di R. BaLduzzi, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 404-405.

10 Su cui rinvio a R. BaLduzzi, I livelli essenziali nel settore della sanità, in G. Berti, G.C. de martin, Le garanzie di effettività dei diritti nei sistemi policentrici, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 247 ss.

1034

mare che, nel bilanciamento dei valori costituzionali che il legislatore compie al fine di dare attuazione al diritto alla salute, debba rientrare an-che la considerazione delle esigenze relative all’equilibrio della finanza pubblica: il diritto alla salute, che implica il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la sua tutela, si configura allora, secondo espressioni larga-mente presenti nella giurisprudenza costituzionale, come diritto costitu-zionalmente condizionato all’attuazione che il legislatore ne dà attraver-so il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri in-teressi costituzionalmente protetti, “tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra in relazione alle risorse organizzative e fi-nanziarie di cui dispone” (così, tra le molte, la sent. n. 267 del 1998) 11.

Si trattò di una costruzione non priva di qualche aggancio sul piano normativo. L’attenzione per le esigenze della finanza pubblica era stata infatti espressamente presente, ancorché con espressioni non prive di qualche ambiguità, nella legge delega n. 421 del 1992, in particolare nell’art. 1, comma 1, primo periodo, dove il contenimento della spesa sa-nitaria era indicato tra gli scopi da raggiungere, e nell’art. 1, comma 1, lett. g), secondo cui le prestazioni di assistenza sanitaria dovevano esse-re assicurate “in coerenza con le risorse stabilite dalla legge finanziaria”: la legge delega del 1992 sembrava cioè considerare l’equilibrio economi-co-finanziario ora come obiettivo autonomo da raggiungere, ora (più cor-rettamente, dal punto di vista costituzionale) come vincolo da rispettare. E se è vero che l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 avrebbe eli-minato tale ambiguità (come immediatamente rilevato dalla Corte Costi-tuzionale nella sent. n. 355 del 1993, che respinse una censura di parte re-gionale fondata sull’assunto che il contenimento della spesa pubblica fosse l’unico obiettivo per la determinazione dei livelli uniformi di assi-stenza sanitaria), è altresì vero che dall’insieme della normativa di riordi-no emergeva un’oscillazione di significato, la quale, se pure risolta (co-me si è visto) dal legislatore delegato e dalla giurisprudenza costituzio-nale attraverso la distinzione tra obiettivi di salute e vincoli di bilancio, sarebbe rimasta sullo sfondo dell’attuazione operativa delle riforme del 1992/1993. Questa circostanza, insieme a periodici aggiustamenti della normativa (soprattutto in sede di “collegati” alla legge finanziaria) detta-ti dalla necessità di tenere sotto controllo una spesa tendente alla conti-nua espansione, ha concorso a determinare una situazione di fatto e una mentalità degli operatori più propensa a concentrare il proprio interesse e la propria attenzione sul vincolo anziché sulla risorsa.

11 R. BaLduzzi, Il Servizio sanitario, cit., pp. 954 ss.

1035

Era pertanto evidente che, al fine di potersi parlare di vera e propria regionalizzazione, occorreva superare tale mentalità ed è proprio su que-ste basi che si svilupperà la reazione normativa, della quale appunto la legge n. 419 del 1998 e il relativo decreto legislativo delegato n. 229 del 1999 sono stati l’espressione.

3. Il “nucleo essenziale” non comprimibile del diritto alla salute, i livel-li essenziali di assistenza sanitaria e la revisione costituzionale del 2001

La reazione legislativa cui si è fatto cenno si fondava sulla necessità di dare un contenuto più preciso a quel “nucleo essenziale” del diritto al-la salute che dottrina e giurisprudenza (soprattutto, ma non solo, costitu-zionale) avevano comunque individuato come non comprimibile: in que-sta prospettiva, si comprende anche bene perché l’art. 1, comma 3, del medesimo d.lgs. nel testo introdotto dal d.lgs. n. 229/1999, abbia stabili-to che l’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza ven-ga effettuata “contestualmente” all’individuazione delle risorse finanzia-rie destinate al Ssn, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite dal D.p.e.f.

Con una formula di sintesi potremmo ribadire che, per la legge dele-ga del 1998, in principio ci stiano “i livelli uniformi ed essenziali di assi-stenza e le prestazioni efficaci ed appropriate da garantire a tutti i cittadi-ni a carico del Fondo sanitario nazionale”: questa formula, tratta dalla lettera aa) dell’art. 2, comma 1, della legge e riferita al contenuto del Pia-no sanitario nazionale, ben può rappresentare il cuore della riforma del 1999, la sfida cioè a dare dimensione organizzativa al contenuto essen-ziale del diritto alla salute.

L’attuazione di tale riforma è venuta poi a intersecarsi con l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, e ciò ha consentito alla regionalizzazione di potersi compiutamente esplicitare.

La revisione costituzionale, se da un lato ha facilitato il superamen-to delle discussioni degli anni Novanta sia (a) sulla portata del diritto al-la salute e sul rapporto tra la sua tutela e i vincoli economico-finanziari, sia (b) sulla qualificazione dei livelli di assistenza sanitaria come “mini-mi” o come “essenziali”, dall’altro ha riproposto con rinnovata forza (c) il tema delle relazioni tra garanzia del diritto alla salute e predisposizio-ne delle condizioni organizzative che lo rendono effettivo, e dunque del-le relazioni tra livelli territoriali di governo cui competono le prime e le seconde.

1036

(a) Sul primo punto, la discussione si è concentrata sulla portata e sui limiti della nozione del diritto alla salute come diritto finanziariamen-te condizionato, in connessione con la più ampia problematica del ripen-samento dello Stato sociale. Gli svolgimenti successivi della giurispru-denza costituzionale hanno confermato la tendenza del giudice costitu-zionale a sottolineare il condizionamento finanziario nei casi in cui vie-ne in rilievo non direttamente il diritto individuale alla salute da tutelare, quanto piuttosto la distribuzione delle risorse finanziarie tra i vari sogget-ti che operano nel Ssn (si veda, a titolo di esempio, la sent. n. 200 del 2005) e a rimarcare, negli altri casi, che le esigenze della finanza pubbli-ca non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso tal-mente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (così già la sent. n. 309 del 1999).

(b) Sotto il secondo e connesso profilo, la previsione della compe-tenza esclusiva statale in ordine alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere ga-rantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lettera m); la me-desima espressione viene ripresa all’art. 120, comma 2, Cost., dove, nel-lo stabilire i presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo statale, si prevede che ciò possa avvenire quando lo richieda “la tutela dei livelli es-senziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”) ha condot-to la giurisprudenza costituzionale a rispondere alla domanda se il nucleo irriducibile coincida con i livelli essenziali oppure i livelli essenziali del-le prestazioni e il contenuto costituzionale dei diritti siano concetti di-stinti. Qui la Corte, pur non rinunciando a formule generali come il “go-dimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali dirit-ti” (sent. n. 88 del 2003), tende a distinguere tra il profilo dei livelli es-senziali, i profili organizzativi e i profili attinenti all’appropriatezza del-la pratica terapeutica (si vedano, rispettivamente, le sentt. n. 88 del 2003, 120 del 2005 e 282 del 2002), con un orientamento compatibile con l’ap-proccio del legislatore ordinario per il quale, come si è visto, in materia sanitaria i livelli essenziali di assistenza definiscono il tetto massimo, il livello massimo, non la soglia, cioè il livello minimo, delle garanzie of-ferte a tutti i consociati 12.

(c) Pur non contenendo la Costituzione disposizioni che espressa-

12 Sul punto R. BaLduzzi, I livelli essenziali, cit.; id., voce Salute (diritto alla), in Dizio-nario di diritto pubblico, diretto da S. cassese, Milano, Giuffrè, 2006, vol. VI, pp. 5397 ss.; L. cuocoLo, La tutela della salute tra neoregionalismo e federalismo. Profili di diritto interno e comparato, Milano, Giuffrè, 2005, spec. pp. 116 ss.

1037

mente riguardino i profili organizzativi della sanità (a differenza di quan-to stabilito negli artt. 33, comma 2, Cost. e 38, comma 4, Cost.), la previ-sione di livelli essenziali e uniformi di assistenza quale oggetto di com-petenza esclusiva statale implica conseguenze importanti anche sull’or-ganizzazione dei servizi sanitari: è arduo immaginare un sistema capace di assicurare tali livelli senza un’organizzazione ultraregionale. Si tratta però di chiarire bene, in primo luogo, che il Servizio sanitario nazionale di cui si parla è quello disegnato dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 229/1999, che ha così sostituito il precedente art. 1, comma 1, dei decre-ti di riordino del 1992/1993, e che lo qualifica come il “complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali” (oltre che “delle altre funzioni e attività svolte dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale, nell’ambito dei conferimenti previsti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, nonché delle funzioni conservate allo Stato dal medesimo decreto”); e, in secondo luogo, che l’ultimo comma dell’art. 118 Cost. e il rilievo da esso dato alla cosiddetta sussidiarietà orizzonta-le, impongono ai pubblici poteri di favorire l’autonoma iniziativa dei cit-tadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse gene-rale, e dunque il riconoscimento e la promozione delle forme no-profit di prestazione di servizi sanitari. Il richiamo alla pregnanza di significato del richiamo alla Repubblica trova oggi conferma indiretta nell’inclusio-ne della tutela della salute tra le materie di legislazione concorrente ai sensi del secondo comma dell’art. 117 Cost.

Bisogna a questo punto ricordare che parlare di regionalizzazione in sanità non può mai essere dato per scontato, nonostante la formula origi-naria dell’art. 117 Cost. demandasse alle regioni la potestà legislativa concorrente per quanto concerne l’assistenza sanitaria e ospedaliera, in quanto la materia sanitaria è caratterizzata nel nostro Paese, a partire dal 1978, dalla presenza di un’organizzazione a carattere nazionale, il Servi-zio sanitario nazionale, attuativa del diritto costituzionalmente garantito alla salute, nonché dall’esistenza di una cornice programmatoria nazio-nale: è proprio in questa materia che la giurisprudenza costituzionale aveva affermato il principio che “quando si tratti di organizzare un servi-zio a carattere nazionale, o di regolare una programmazione, o di dettare norme sostitutive anticipatrici della medesima (…) le regole del riparto fra Stato e soggetti di autonomia in tema di legislazione concorrente non possono essere interpretate in modo così rigido da impedire alla legisla-zione statale di porre in essere strumenti normativi ed organizzatori diret-ti al perseguimento dei fini generali del servizio o della programmazio-ne, trattandosi in definitiva di norme di coordinamento e sul coordina-mento”. A tale orientamento corrispondeva la qualificazione della rifor-

1038

ma sanitaria come riforma economico-sociale, anche se la Corte Costitu-zionale ha sempre evitato di utilizzare questa definizione per coprire tut-te le disposizioni del d.lgs. n. 502 del 1992 e non soltanto i principi da es-so ricavabili (v. rispettivamente la sent. n. 341 del 1992 e la sent. n. 354 del 1994).

Con l’entrata in vigore del nuovo Titolo V la situazione è però pro-fondamente mutata.

Anche ammettendo che gli orientamenti della Corte Costituzionale ora menzionati valessero a confermare la degradazione della potestà le-gislativa delle Regioni in presenza di interessi nazionali infrazionabili (tale, per la potestà concorrente, da averla trasformata in molti casi in at-tuativo-integrativa), una tale conseguenza è oggi impensabile, a causa della diversa tecnica di attribuzione di competenze legislative e della più netta distinzione tra riserva statale dei principi fondamentali e spettanza alle regioni della competenza legislativa in tali materie (in senso confor-me Corte Cost., sentt. n. 282 del 2002 e n. 370 del 2005). Fondamentale è poi la constatazione che oggi il sindacato di costituzionalità sulle leggi regionali, mutando da preventivo in successivo, ha ormai come oggetto norme entrate in vigore, cioè norme che hanno già avuto un impatto con-creto sugli interessi disciplinati, consentendo al giudice delle leggi un sindacato altrettanto “concreto” su norme che vivono già in un determi-nato modello di Servizio sanitario regionale.

Anche il cambiamento terminologico (da “assistenza sanitaria e ospedaliera” alla formula, di tipo teleologico-funzionale, “tutela della sa-lute”) è importante, sia perché è venuto a confermare a livello costituzio-nale quanto già l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale aveva immes-so nell’ordinamento, sia perché la stretta affinità con la formulazione dell’art. 32 Cost. induce a considerare rafforzata la competenza ricono-sciuta alle Regioni, attuativa di un bene oggetto di tutela da parte della Repubblica.

Da quanto detto consegue, in ordine alla distinzione tra principi fon-damentali e legislazione regionale cosiddetta di dettaglio (terminologia essa stessa oggi inadeguata), che, fatte salve le disposizioni statali di det-taglio “interpretative”, rivolte cioè a definire con maggiore precisione il senso del principio – per le quali diventa un problema di interpretazione delle concrete fattispecie lo stabilire se stiano o meno dentro il modelli-no dei principi fondamentali –, altre categorie di disposizioni statali di dettaglio (come quelle relative a disposizioni che stabiliscano standard minimi meramente organizzativi rispondenti a un interesse nazionale, o che siano poste al fine di soddisfare l’esigenza di una più sollecita opera-tività delle nuove regole organizzative) non sembrano più compatibili

1039

con il nuovo assetto, che non pare ammettere, quanto alla prima catego-ria, una tutela dell’interesse nazionale non ricondotta a una precisa fatti-specie di competenza ovvero unilateralmente individuata dallo Stato mentre, quanto alla seconda, è proprio la posizione da parte statale di re-gole organizzative e non di soli principi, prima ancora che l’urgenza dell’operatività delle medesime, a costituire problema (fatta salva l’attra-zione in sussidiarietà, secondo il concetto e i limiti contenuti nella nota sentenza della Corte Costituzionale n. 303 del 2003).

4. Le funzioni statali in sanità come garanzia istituzionale della regiona-lizzazione e dell’aziendalizzazione. Le “coerenze di sistema” alla prova dell’autonomia e delle sue anche problematiche declinazioni

Dalla revisione costituzionale si ricava allora un ampliamento dell’autonomia regionale, specialmente per quanto attiene al profilo or-ganizzativo dei Servizi sanitari regionali, chiamati ad autoconfigurarsi e a caratterizzarsi (e dunque anche ad autodefinirsi come ambito di “gover-no” nel quale sperimentare concrete ipotesi di aziendalizzazione).

Parallelamente a questa direzione di sviluppo del sistema, dalla revi-sione costituzionale si ricava però anche la necessità di una maggiore ca-ratterizzazione della funzione statale, chiamata non soltanto a individua-re, d’intesa con le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolza-no, i livelli essenziali di assistenza sanitaria, ma soprattutto a promuover-ne il monitoraggio e la progressiva “manutenzione”.

In proposito, è importante evitare una lettura, per dir così, pre-rifor-ma del rapporto tra la regionalizzazione e l’aziendalizzazione, da un la-to, e le funzioni statali, dall’altro, nel senso che le prime costituiscano un mero limite per l’esercizio delle seconde. Dopo la revisione costituziona-le del 2001, tale lettura non è più accettabile, in quanto le funzioni di in-teresse unitario o si radicano espressamente nell’elenco delle competen-ze legislative di cui al secondo comma dell’art. 117, oppure trovano fon-damento nell’art. 118, ma in tal caso sono assoggettate a scrutinio stretto di costituzionalità e a regole precise della leale collaborazione (accordo, intesa).

Ciò non significa che il ruolo statale abbia perso di significato, per contro esso assume il senso della garanzia istituzionale che consente l’eser-cizio decentrato di funzioni strettamente connesse con un fondamentale diritto di cittadinanza; e ciò proprio in forza della previsione e del puntua-le esercizio di funzioni statali volte ad assicurare la garanzia dei livelli es-senziali su tutto il territorio nazionale. Dunque, accanto alla regionalizza-

1040

zione e alla connessa aziendalizzazione, sorge il problema delle “coerenze di sistema” 13 che possono essere assicurate sia da un migliore esercizio della funzione statale, sia da forme di autocoordinamento tra le regioni (arg. ex art. 1, comma 5, d.lgs. n. 502/1992 e s.m.), sia da forme di coordi-namento verticale fondate sul principio della leale collaborazione.

La riflessione dottrinale ha mostrato che le Regioni hanno general-mente risposto alla nuova situazione creata dalla revisione costituzionale del 2001 e dall’attuazione, per molti aspetti problematica, della riforma sanitaria del 1999 con l’impegno a consolidare i rispettivi “modelli” sa-nitari (impiego tale nozione in senso del tutto descrittivo e non valoriale), confermando il pieno inserimento degli stessi dentro il Servizio sanitario nazionale e le coerenze di sistema che esso genera 14.

Quanto appena riassunto si evince sia direttamente, attraverso dispo-sizioni che espressamente ciò stabiliscono (l’esempio più significativo, tenuto anche conto del rango della fonte in cui è inserito, è l’art. 9 del nuovo Statuto del Piemonte, secondo cui “il sistema sanitario regionale opera nel quadro del sistema sanitario nazionale”) oppure che riconosco-no attività normative regionali come esplicitamente poste “in attuazione” di norme di principio statali (un esempio, fra i tanti, è l’art. 10 l.r. Vene-to 16 agosto 2002, n. 22, in tema di autorizzazione e accreditamento del-le strutture); sia indirettamente, attraverso la declinazione e lo svolgi-mento, in sede regionale, di scelte caratterizzanti del modello statale, com’è il caso della nozione di aziendalizzazione, intesa come “piena ca-pacità e assunzione di responsabilità nell’impegnare e valorizzare il pa-trimonio affidato, ottemperando alla missione aziendale di tutela della salute delle popolazioni di riferimento”, secondo quanto recita, non sen-za qualche enfasi, il Piano sanitario regionale della Campania.

Il consolidamento del modello passa, nelle regioni storicamente me-no favorite, attraverso la decisa critica delle pratiche passate e l’assunzio-ne di concreti impegni. Un esempio è fornito dalla Regione Calabria, do-ve già il Piano regionale per la Salute 2004/2006 (in allegato alla l. r. 19 marzo 2004, n. 11) denotava la consapevolezza dell’esigenza di un salto di qualità (che l’emergenza di questi ultimi mesi rende ancora più urgen-te), indispensabile dopo l’entrata in vigore della revisione costituzionale del Titolo V e consistente in un nuovo slancio programmatico e normati-vo, capace di incidere su tutti i profili dell’assistenza sanitaria, dalla ri-

13 V. sul punto I Servizi sanitari regionali tra autonomia e coerenze di sistema, a cura di R. BaLduzzi, Milano, Giuffrè, 2005.

14 Indicazioni ulteriori in R. BaLduzzi, Quanti sono i sistemi sanitari italiani? Un’intro-duzione, in I Servizi sanitari regionali, cit., pp. 9 ss.

1041

strutturazione della rete ospedaliera alla ridefinizione dell’assistenza ter-ritoriale, dalla razionalizzazione delle prestazioni farmaceutiche alla ri-forma del sistema integrato di interventi e servizi socio-sanitari. Sempre all’interno della problematica degli squilibri fra Centro-Nord e Sud, è da segnalare l’orientamento della Regione Basilicata, volto a riqualificare la spesa per prestazioni effettuate in strutture private e a cercare di riequili-brare lo sbilancio della mobilità sanitaria interregionale (si veda in parti-colare la l.r. 7 agosto 2003, n. 29).

E se è vero che, in ordine a molte delle situazioni regionali cui si è fatto cenno, diviene decisivo il confronto tra obiettivi prefissati e risulta-ti conseguiti e tra disposizioni normative o provvedimenti amministrati-vi e concreta effettività degli stessi, è pur vero che proprio l’odierna vi-cenda dei Piani di rientro dai disavanzi testimonia, pur nella faticosa at-tuazione, le coerenze di sistema.

Introdotta come principio poco più che declamatorio all’interno del-la prima esperienza del cosiddetto “patto di stabilità interno” dall’art. 28 della l. 23 dicembre 1998, n. 448 (attraverso la previsione che il Ministro della sanità si avvalesse dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali per la valutazione delle situazioni regionali, individuando le regioni deficita-rie e definendo le linee generali degli interventi di rientro e di ripiano), e corredata di valenze procedimentali dall’art. 19-ter del d.lgs. 502/1992 nel testo introdotto dalla riforma del 1999, la previsione di una collabo-razione Ministero-Regioni diviene più stringente con l’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, secondo cui, in caso di disa-vanzo di gestione a fronte del quale non sono stati adottati adeguati pia-ni di rientro, la regione interessata procede alla ricognizione delle cause ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione o potenziamento del Servizio sanitario regionale, sulla cui base stipulare con i Ministri della salute e dell’economia un apposito Accordo che indi-vidui gli interventi necessari per il perseguimento dell’equilibrio econo-mico. Con la l. 27 dicembre 2006, n. 296, si stabilisce all’art. 1, comma 796, lett. b), che il Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, assicuri l’attività di affiancamento alle re-gioni che hanno sottoscritto l’Accordo sopra menzionato, “comprensivo di un piano di rientro dai disavanzi, sia ai fini di monitoraggio dello stes-so, sia per i provvedimenti regionali da sottoporre a preventiva approva-zione da parte del Ministero della salute e del Ministero dell’economia e delle finanze, sia per i Nuclei da realizzarsi nelle singole regioni con fun-zioni consultive di supporto tecnico, nell’ambito del Sistema nazionale di verifica e controllo dell’assistenza sanitaria di cui all’articolo 1, com-ma 288, della l. 23 dicembre 2005, n. 266”.

1042

Si tratta, come si vede, di un sistema complesso e non sempre di age-vole decifrazione, nel quale si intrecciano elementi di segno diverso (dal tradizionale controllo sugli atti al più attuale controllo-consulenza), ma che denota il peso crescente delle necessarie coerenze di sistema.

Se a fronte della normativa statale esaminiamo quella regionale, pos-siamo facilmente constatare che, salvo isolate eccezioni, non si è verifica-ta sinora la corsa a nuovi modelli legislativi (forse perché i “modelli” già preesistevano, in forza del carattere largamente decentrato del Servizio sanitario nazionale almeno a partire dalla fine degli anni Ottanta), il che conferma il peso delle coerenze di sistema. Il tentativo forse più impor-tante di “occupazione” della disciplina, attraverso la determinazione di norme generali regionali, quello della l.r. Emilia-Romagna 23 dicembre 2004, n. 29, “Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del Servizio sanitario nazionale”, non mira a configurare un modello alterna-tivo a quello nazionale, ma a “prendere sul serio” la riforma del 1999 e a declinarla secondo la sensibilità regionale. Quella emiliano-romagnola è la punta massima di un approccio che ha coinvolto tutte le regioni: la ri-forma del 1999, anche quando non vi è stato un apposito atto di recepi-mento o adeguamento legislativo, ha comunque dato origine a modifica-zioni rilevanti negli ordinamenti dei Servizi sanitari regionali 15.

Quanto detto vale dunque anche per quelle situazioni nelle quali la riforma del 1999 non è stata compiutamente recepita e dunque dove, per esempio, non hanno avuto ingresso lo strumento dell’atto aziendale di di-ritto privato o l’autonomia imprenditoriale delle aziende, come è il caso della Provincia autonoma di Trento. Qui il regolamento dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari ricalca peraltro, anche nel procedimento di formazione, il modello dell’atto aziendale e le “deroghe” rispetto al modello nazionale paiono determinate non dall’intendimento di costrui-re un modello alternativo, quanto piuttosto dal voler adeguare il modello nazionale alle peculiari caratteristiche provinciali. Si spiega così la disso-nanza tra profili strutturali, per così dire, di retroguardia e profili funzio-nali di avanguardia. Discorso analogo per l’Umbria, dove il mancato re-cepimento dell’autonomia imprenditoriale delle aziende va letto per quello che esso realmente significa, cioè il riflesso della preoccupazione di assicurare l’effettività sia del governo e della programmazione regio-nali, sia della stessa programmazione attuativa locale: una preoccupazio-ne di sistema, coerente con lo spirito della riforma del 1999, anche se con

15 Per sviluppi sul punto devo rinviare a R. BaLduzzi, Cinque anni di legislazione sanita-ria decentrata: varietà e coesione di un sistema nazional-regionale, in “Le Regioni”, 2005, pp. 717 ss.

1043

una strumentazione in parte differente (a conclusioni analoghe è possibi-le giungere a proposito del sistema sanitario marchigiano e, in parte, mo-lisano e della loro scelta per un’unica azienda Usl regionale).

La differenza tra le realtà regionali, più che ricollegarsi a modelli ri-gidi, sembra così riassumibile: da una parte, Servizi sanitari regionali che rimarcano il loro essere dentro il Servizio sanitario nazionale, introdu-cendo scostamenti, anche importanti (la recezione del d.lgs. n. 229 ben raramente è integrale), ma non tali da fuoriuscire dal sistema; dall’altra, alcune eccezioni (la più consolidata e l’unica che possa aspirare a porsi come tipo a sé è quella lombarda).

Il quadro che emerge non deve però far pensare a una legislazione regionale di mero aggiustamento, reattiva soltanto alle sollecitazioni di natura budgetaria e avente per obiettivo esclusivo il contenimento della spesa, soprattutto ospedaliera e farmaceutica: se così fosse, il ruolo delle coerenze di sistema sarebbe modesto. In realtà, alcune Regioni si sono mosse da tempo nella direzione della auto-assunzione della garanzia dell’effettività dei diritti sociali in campo sanitario, percorrendo la strada della promozione di tecniche di uso appropriato delle risorse e di appro-priatezza delle prestazioni (strada peraltro pressoché obbligata, se è vero che l’unico modo per arrivare in posizione di forza ai pressoché settima-nali “vertici” con i ministeri interessati e contrattare vantaggiosamente i profili budgetari consiste nel “mettere ordine in casa propria”), puntando sul rafforzamento e sull’affinamento dell’assetto organizzativo quali pre-messe e fattori del miglioramento qualitativo 16 .

16 Così, il già citato legislatore emiliano-romagnolo concentra i propri sforzi nella costru-zione di una condivisa programmazione locale dei servizi e delle prestazioni, potenziando il modello organizzativo distrettuale, si preoccupa di rivisitare sperimentazioni gestionali avvia-te negli anni Novanta a livello aziendale in numero e importanza consistente (verificandone motivazioni originarie di qualità dei servizi e convenienza economica), riconduce alle esigen-ze della programmazione regionale l’attività sanitaria delle università (prevedendo un’apposi-ta Conferenza Regione-Università) e degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico aventi sede nel territorio regionale: non senza introdurre variazioni originali, quali il conferi-mento della qualità di organo aziendale al Collegio di direzione o l’introduzione del parere ob-bligatorio dell’Ufficio di presidenza della Conferenza territoriale sociale e sanitaria sulla no-mina regionale del direttore generale.

Dal canto suo, il legislatore lombardo, avendo scelto sin dal 1996 e formalizzato nella l.r. 11 luglio 1997, n. 31 (“Norme per il riordino del Servizio sanitario regionale e sua integrazio-ne con le attività dei servizi sociali”) una diversa strada, la ha via via progressivamente preci-sata, giungendo a un modello di separazione delle funzioni di produzione e di acquisto dei ser-vizi portato alle sue conseguenze massime, con la previsione che le aziende sanitarie locali concentrino il proprio ruolo nelle funzioni di programmazione finanziaria, acquisto e control-lo, smettendo quelle funzioni di tutela attiva anche in quei settori (es. prevenzione) nei quali

1044

Per altro verso, le tendenze della legislazione regionale paiono asso-lutamente coerenti con l’evoluzione stessa del quadro normativo statale: nel momento in cui l’ordinamento consente l’articolazione organizzativa e gestionale, la tenuta del sistema sembra risiedere nella condivisione del modello di fondo, con una forte insistenza, negli ultimi anni, su quello che costituisce, alla fine, lo snodo fondamentale del modello sistemico, cioè una concezione forte dell’appropriatezza.

Sin dal suo primo apparire nel nostro ordinamento, l’appropriatezza, questo singolare neologismo introdotto nella legislazione italiana nel 1997 17, ha presentato due caratteristiche, quella di essere un’integrazione e una specificazione della nozione di qualità, cui è strettamente connessa, e quella di fondere il profilo clinico con quello organizzativo, l’appropria-tezza della prestazione sanitaria in quanto tale e delle modalità con le qua-li è resa nel contesto strutturale e organizzativo in cui è inserita. Dimen-sioni, queste, descritte con chiarezza nel Piano sanitario nazionale 1998-2000, nel quale la nozione di appropriatezza è stata connessa con quella di livelli essenziali di assistenza: sia indicando nell’appropriatezza l’ele-mento determinante della definizione stessa dei Lea (livelli di assistenza non soltanto necessari, ma altresì appropriati, “rispetto sia alle specifiche

continuavano a conservarla. Le inversioni di marcia pur verificatesi (soprattutto quella volta a ridisegnare le relazioni tra ente Regione e soggetti erogatori delle prestazioni, aderendo al mo-dello nazionale delle cosiddette 4 A, si vedano soprattutto le ll.rr. 19 dicembre 2001, n. 26 e 16 febbraio 2004, n. 2), si spiegano più a causa delle difficoltà budgetarie incontrate dal modello lombardo della separazione (il quale, in assenza di correzioni, ha finito per enfatizzare com-portamenti opportunistici degli operatori, oltre che generare cospicui conflitti di interesse, co-me vicende anche recentissime confermano) che non in forza di un ripensamento della strada intrapresa.

In posizione ancora diversa, la regione Toscana (tra le prime ad adeguare il proprio Ser-vizio sanitario al d.lgs. n. 229, con la l. r. 8 marzo 2000, n. 22, “Riordino delle norme per l’or-ganizzazione del Servizio sanitario regionale”) ha avviato, a partire dal Piano sanitario regio-nale 2002-2004, la sperimentazione delle cosiddette “Società della salute” (anche se, almeno inizialmente, una siffatta denominazione appare ultronea per qualificare consorzi di diritto pubblico tra comuni e aziende unità sanitarie locali ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 267 del 2000). Di rilevante significato simbolico in quanto rappresenta un ritorno dell’ente locale a funzioni di gestione in campo sanitario, tale scelta trova una giustificazione forte nella revisio-ne costituzionale del 2001 proprio a causa della costituzionalizzazione del principio della spet-tanza in via generale delle funzioni amministrative ai comuni (art. 118, comma 1 Cost.). I suoi esiti saranno importanti non soltanto per l’assetto del settore sanitario e sociosanitario, ma al-tresì per il comparto dei servizi sociali.

17 Non è possibile in questa sede ripercorrere il cammino legislativo della nozione di ap-propriatezza; si fa rinvio sul punto a R. BaLduzzi, L’appropriatezza in sanità. Il quadro di ri-ferimento legislativo, in Fondazione Smith Kline, Rapporto Sanità 2004, a cura di N. faLci-teLLi, M. traBucchi, F. vanara, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 73 ss.

1045

esigenze di salute del cittadino, sia alle modalità di erogazione delle pre-stazioni”), sia quale criterio per raggiungere l’auspicato ridimensiona-mento della diagnostica strumentale attraverso appunto “l’introduzione di profili di appropriatezza delle richieste”, sia soprattutto quale principale criterio di esclusione dai Lea di quegli interventi che non rispondono al requisito della appropriatezza clinica (“la cui efficacia non è dimostrabile in base alle evidenze scientifiche disponibili” e/o sono relativi a “sogget-ti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccoman-date”) e organizzativa (cioè quelle forme di assistenza le quali “pur ri-spondendo al principio dell’efficacia clinica, risultano inappropriate ri-spetto alle specifiche necessità assistenziali, in quanto sproporzionate nei tempi, nelle modalità di erogazione o nella quantità di prestazioni forni-te”, per questa via descrivendo un altro profilo dell’appropriatezza, quel-lo “temporale”, l’erogazione cioè delle prestazioni e dei servizi in tempi adeguati alle necessità assistenziali degli utenti).

La strada dell’appropriatezza e del puntuale controllo della medesi-ma allo stato attuale appare, alla luce dei periodici scandali che la crona-ca ci presenta, anche in contesti regionali pur “virtuosi”, la sola che può consentire al sistema di autocontrollarsi senza stravolgersi.

5. Tecniche e istituti di coesione in un modello decentrato e aziendaliz-zato

Si apre a questo punto il problema dei “collanti”, cioè degli istituti, delle tecniche e dei metodi capaci di produrre pratiche condivise di re-sponsabilizzazione dei diversi soggetti territoriali che compongono, ai sensi del rinnovato art. 114 Cost., la Repubblica, in una materia dove le esigenze unitarie si sono storicamente fatte sentire con particolare cogen-za, sin quasi a giustificare la fuga dai principi fondamentali in nome del principio di coordinamento. Si tratta di un principio che è stato frettolo-samente considerato superato dal nuovo sistema (si veda l’esplicito di-vieto contenuto nell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131), un po’ perché nel suo nome si sono consumate in passato significative compressioni dei poteri regionali, un po’ perché la sua applicazione con-creta ne ha dilatato oltre misura senso e contenuti, un po’ perché non era stata del tutto metabolizzata dalla stessa dottrina la metaformosi di cui questo principio è stato protagonista a seguito delle riforme amministra-tive della seconda metà degli anni Novanta (se l’atto di indirizzo e coor-dinamento è esercitato d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o la

1046

Conferenza Unificata, in pratica viene a coincidere con un provvedimen-to ugualmente frutto di intese nel sistema delle Conferenze) 18.

A) Strettamente connesso con tale profilo è la scelta sulle caratteri-stiche organizzative della struttura amministrativa cui affidare la cura de-gli interessi nazionali in materia. In proposito, se sembra condivisibile la tendenza (già affermata nel d.lgs. n. 300 del 1999, e ribadita, almeno im-plicitamente, nella legge finanziaria per il 2008) ad accorpare i ministeri o almeno a ridurre il numero dei ministri, problematica appare la scelta di unificare in un unico ministero le competenze in tema di lavoro, quel-le in tema di salute e quelle sulle politiche sociali. è vero, infatti, che il passaggio dalla considerazione della mera assistenza sanitaria alla tutela della salute quale oggetto della competenza concorrente si iscrive in una più generale tendenza, da tempo presente anche a livello internazionale, volta a intendere la nozione di salute in un significato più ampio rispetto a quello di semplice contrasto alle malattie, e che dunque la cura dell’in-teresse “salute”, al pari di quella dell’interesse “lavoro” viene a conno-tarsi come attività promozionale e non soltanto prestazionale; ed è altret-tanto vero che, all’interno del concetto di salute, al pari di quanto accade per la nozione di lavoro, sono compresenti sia il profilo del diritto sog-gettivo inteso come libertà, sia quello del dovere.

Ma da qui a inferire l’opportunità di concentrare le competenze in ordine a questi due diritti (fondamentali, ex artt. 1, 4 , 32 e 117 Cost.), il passo è tutt’altro che breve: la struttura dell’attività amministrativa volta a soddisfare i due diritti è diversa, a cominciare dalla scelta del tipo di unità operativa chiamata ad assicurare i livelli essenziali di assistenza sa-nitaria e delle sue caratteristiche strutturali (aziende dotate di autonomia imprenditoriale, funzionalmente correlate al decisore regionale), in una logica di decentramento istituzionale cui fa da contraltare la scelta, in materia di lavoro, per modelli di decentramento burocratico e di delega all’ente Provincia. Senza contare che l’accento in materia di lavoro vie-ne posto sulla capacità della pubblica amministrazione centrale di prati-care o favorire modelli di composizione di controversie interprivate, mentre in materia di salute è posto sulla capacità del livello centrale di implementare politiche della salute il più possibile condivise tra i diversi attori istituzionali.

Il carattere trasversale del bene salute rispetto alla generalità delle politiche pubbliche imporrebbe per contro la specializzazione dell’appa-

18 Si veda l’art. 8 della l. 15 marzo 1997, n. 59 e il commento di R. BaLduzzi, Tutela del-la salute, cit., pp. 79 ss.

1047

rato amministrativo centrale preposto a fungere da elemento di tenuta del sistema e della relativa responsabilità politica ministeriale. Al più, un eventuale accorpamento sarebbe configurabile tra le politiche sanitarie e quelle sociali, che già trovano nel campo del sociosanitario un terreno di lavoro comune.

(B) Se l’amministrazione centrale quale perno ed elemento di tenu-ta del sistema rappresenta in qualche modo il profilo soggettivo dei “col-lanti” di cui si è detto, la lett. m) del secondo comma dell’art. 117 Cost. ne costituisce il pendant sostanziale.

Essa rappresenta la costituzionalizzazione di una nozione già pre-sente nella legislazione ordinaria, proprio nelle materie sanitaria e socia-le (per la prima v. l’art. 1 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni). Non a caso, è nel campo sanitario che si registra la prima “declaratoria” di tali livelli, data dal combinato disposto del citato art. 1, commi 6-8 (nel testo introdotto dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229) con il d.P.C.M. 29 novembre 2001; la nozione è peraltro conosciuta anche nel campo dell’assistenza, con la differenza che la specificazione degli stes-si è demandata alla “pianificazione nazionale, regionale e zonale” del si-stema integrato di interventi e servizi sociali (artt. 2 e 22 della l. 8 novem-bre 2000, n. 328).

In campo sanitario la locuzione “livelli essenziali” aveva già trovato un’interessante esplicazione in sede di Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000, che definiva “essenziali i livelli di assistenza che, in quanto necessari (per rispondere ai bisogni fondamentali di promozione, mantenimento e recupero delle condizioni di salute della popolazione) ed appropriati (rispetto sia alle specifiche esigenze di salute del cittadino sia alle modalità di erogazione delle prestazioni), debbono essere uniforme-mente garantiti su tutto il territorio nazionale e all’intera collettività, te-nendo conto delle differenze nella distribuzione delle necessità assisten-ziali e dei rischi per la salute”; il menzionato art. 1 del d.lgs. n. 229 del 1999 darà veste legislativa alla definizione contenuta nel Piano e sarà a sua volta ripreso dal legislatore costituzionale.

Conviene subito sottolineare che la formula costituzionale, proprio perché tratta dalla legislazione ordinaria e dagli atti di programmazione generale, si presenta, almeno nella materia sanitaria, con un contenuto tutt’altro che generico: nell’oscillazione, riscontrabile nella legislazione ordinaria degli anni Novanta, tra livelli “minimi” e livelli “essenziali” (ri-cordo che la necessità che in sede di attuazione della delega si precisasse comunque “l’individuazione della soglia minima di riferimento” era evi-denziata nell’art. 1, comma 1, lett. g) della l. n. 421 del 1992, recante de-

1048

lega per la riforma della legge n. 833 del 1978), il legislatore costituzio-nale opera una scelta precisa, che ha notevoli conseguenze in sede rico-struttiva sostanziale. Prescrivere livelli essenziali e uniformi di assisten-za sanitaria (quali definiti dal menzionato Piano sanitario e dalla cosid-detta riforma-ter del 1999) è infatti altra cosa che prescrivere livelli mi-nimi di tutela, tracciati secondo un arbitrario razionamento: (almeno) nella materia sanitaria non è ammessa confusione tra le due nozioni: ri-chiamare i livelli minimi (come già accennato al § 1) significa ammette-re che il programmatore dei servizi possa arbitrariamente fissare il nove-ro delle prestazioni garantite, mentre il riferimento all’essenziale foto-grafa il massimo di tutela che la scienza medica tempo per tempo può as-sicurare, purché, come si è detto, necessaria e appropriata 19.

Quanto all’uniformità dei livelli essenziali, si tratta a tutta evidenza del problema di fondo in un ordinamento decentrato, una tensione conti-nua tra il livello di tutela (che si vuole “uniforme”) e il livello gestionale e organizzativo (per definizione autonomo, dunque non necessariamente orientato all’uniformità). Come passare dalla “doverosità” di siffatta uni-formità di tutela alla sua “effettività” è un obiettivo cui tendere e non un dato della situazione, a quest’ultima concorrendo una serie complessa di fattori ambientali, culturali, socioeconomici e organizzativi che rende del tutto irrealistico pensare che la formulazione di principi e regole costitu-zionali possa da sola (anche se accompagnata da atti di normazione su-bordinata) realizzare compiutamente il valore e l’interesse tutelato.

Il punto allora sembra essere il seguente: verificare se, in un deter-minato ordinamento decentrato e in relazione a determinati diritti, siano presenti, da un lato, condizioni finanziarie e organizzative di partenza idonee a consentire di percorrere un cammino verso l’obiettivo procla-mato e, dall’altro, tecniche e strumenti di monitoraggio e di intervento idonei a correggere eventuali scostamenti rispetto a tale percorso. Ri-prendendo uno spunto tratto di Konrad Hesse, sulle condizioni per il fun-zionamento ottimale di un siffatto sistema, vengono in rilievo sia la già accennata procedura che la normativa statale delinea per l’individuazio-ne di risorse certe per i Servizi sanitari regionali (la contestualità tra indi-viduazione dei livelli essenziali e uniformi e l’individuazione delle risor-se finanziarie), sia, ancora una volta, l’esigenza di strumenti e tecniche di raccordo verticale e di autocoordinamento orizzontale.

19 Cfr. F. taroni, Livelli essenziali di assistenza, ipotesi” federali” e futuro del Servizio sanitario nazionale, in La sanità italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela della salute e progetto di devolution, a cura di R. BaLduzzi, Milano, Giuffrè, 2004, p. 339; L. cuocoLo, La tutela della salute, cit., pp. 116 ss.

1049

6. Verso il consolidamento del Servizio sanitario nazionale o il suo pro-gressivo e strisciante indebolimento?

Un sistema decentrato quale l’attuale Ssn italiano, con forti coeren-ze interne e collanti sostanziali e organizzativi, ma con grandissime dif-ferenze di rendimento dei diversi sistemi sanitari regionali (confermati dai dati sulla mobilità sanitaria interregionale), pur confortato da positivi giudizi internazionali (che ne evidenziano a livello macro un buon rap-porto tra risorse pubbliche impegnate e outcome di salute), richiede co-stanti sforzi di consolidamento. Se è vero che, almeno sino ad oggi e no-nostante le molte difficoltà, l’alternanza di maggioranze governative non ha indotto particolari sconquassi nell’assetto normativo quale risultante dal d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229 e persino le modifiche più significative (d.l. 18 settembre 2001, n. 347, conv., con modificazioni, in l. 16 novem-bre 2001, n. 405; n. 347 del 2001 e d.l. n. 138/2004) sono state metabo-lizzate dal sistema 20, è altresì vero che le difficoltà di tenuta finanziaria e le vicende non facili dei Piani di rientro rischiano di compromettere l’attuazione delle linee di intervento contenute nel “Patto per la salute” del 2006 21: la predeterminazione e la certezza delle risorse assegnate in un’ottica di medio periodo (triennale), la responsabilizzazione finanzia-ria dei centri decisionali di spesa, l’aumento delle risorse finalizzate alla riqualificazione tecnologica delle strutture, il controllo di efficienza nel-la gestione delle risorse e del livello della qualità dei servizi e il monito-raggio basato sul principio del costo delle pratiche più efficienti.

Il consolidamento del Servizio sanitario nazionale potrebbe avveni-re probabilmente anche attraverso alcune modifiche normative, senza

20 Si considerino due esempi: l’istituto delle sperimentazioni gestionali sembra aver con-cluso la sua parabola nella funzione di copertura del modello sanitario lombardo, il quale a sua volta è sempre meno derogatorio per via della progressiva accettazione del sistema delle auto-rizzazioni, dell’accreditamento e degli appositi rapporti di cui agli artt. 8-ter e seguenti del d.lgs. n. 502/1992, nel testo introdotto dal d.lgs. n. 229/1999; il d.l. n. 81/2004, conv. in l. 138/2004, in tema di libera professione intramuraria, ha trovato a livello regionale un’attuazio-ne legislativa soltanto parziale oppure una vera e propria messa tra parentesi pratica, mante-nendosi l’esclusività di rapporto come criterio di preferenza per incarichi di responsabile di struttura. Né, a conclusioni diverse, sembra potersi giungere a seguito delle disposizioni con-tenute nell’art. 79, comma 1-quinquies del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. nella l. 6 agosto 2008, n. 133.

21 Sul Patto, siglato nel settembre 2006 e recepito nella legge finanziaria per il 2007, si è espresso in senso positivo il documento “Libro verde sulla spesa pubblica. Spendere meglio: alcune prime indicazioni” (pubblicato dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica del settembre 2007).

1050

stravolgerne l’assetto di fondo 22. In questa prospettiva, vengono in rilie-vo anzitutto: a) il miglioramento dell’organizzazione e del funzionamen-to dell’organo di gestione e degli altri organi e organismi consultivi del-le aziende unità sanitarie locali e delle altre aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale; b) la precisazione delle funzioni e del ruolo degli or-ganismi e degli strumenti che a livello nazionale svolgono compiti di supporto e di monitoraggio del Ssn, con particolare riferimento all’Agen-zia nazionale per i servizi sanitari regionali, della quale andrebbe sottoli-neato il carattere di ente pubblico nazionale, collocato in posizione di ter-zietà tra Stato e Regioni, snodo della ricerca applicata e del monitoraggio delle funzioni 23; c) il coinvolgimento partecipativo dei cittadini e degli utenti delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie; d) la precisazione dei doveri e delle responsabilità del personale del Servizio medesimo ai fini del raggiungimento degli obiettivi di tutela della salute; e) la migliore de-finizione dei tempi e dei percorsi per pervenire a un modello unico di azienda ospedaliero-universitaria.

Il profilo sub a) è quello dove più diffusamente si avvertono esigen-ze di aggiornamento normativo.

Si tratta anzitutto di dare una più precisa definizione della responsa-bilità gestionale del direttore generale, di cui all’art. 3, comma 1-quater, del d.lgs. n. 502 del 1992 e s.m. Già la riforma del 1999, definendo tale responsabilità come “complessiva”, si era mossa nel senso di conferire un contenuto più preciso alla formula originaria secondo cui al direttore generale sarebbero spettati tutti i poteri di gestione. Ora si tratta di fare un passo più in là, specificando ambiti e limiti dei poteri del d.g. e della loro delegabilità. La situazione regionale in materia è alquanto caotica, serve un quadro di principi condiviso che possa essere adattato in ciascu-

22 Come sarebbe probabilmente accaduto ove fosse stata confermata nel referendum co-stituzionale del 2006 la legge di revisione costituzionale contenente, tra l’altro, la cosiddetta devolution: indicazioni in R. BaLduzzi, La creazione di nuovi modelli sanitari regionali e il ruolo della Conferenza Stato-Regioni (con una digressione sull’attuazione concreta del prin-cipio di sussidiarietà “orizzontale”), in questa Rivista, 2004, pp. 17 ss.; id., Quanti sono i si-stemi sanitari, cit., pp. 23 ss.

23 Si veda sul punto il d.d.l. Atto Camera n. 1441-quater, in particolare l’art. 24 recante delega per la riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e, fra questi, dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali: la previ-sione, tra i principi e criteri di delega, di direttive ministeriali sembra però contrastare con il carattere di terzietà dell’Agenzia (alla quale, non a caso, gli indirizzi sull’attività sono dati dal-la Conferenza Unificata: art. 9, comma 2, lett. g) del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281).

1051

na Regione sia da direttive di fonte regionale, sia conseguentemente in sede di atto aziendale 24.

In secondo luogo, vanno potenziati il ruolo e le funzioni del Colle-gio di direzione di cui all’art. 17 del citato d.lgs., configurandolo quale vero e proprio organo (anche sulla scorta di alcune legislazioni regionali anticipatrici) e prevedendone il parere obbligatorio in ordine alla nomina del direttore sanitario, nel contempo ammettendo una pluralità di model-li per la disciplina regionale della scelta del presidente del Collegio di di-rezione. Si tratta di introdurre correttivi che non snaturino la logica della catena di responsabilità che caratterizza il sistema e che impone la coin-cidenza dell’attribuzione di un potere con la relativa responsabilità e re-ciprocamente, ma che assicurino una maggiore coesione intra-aziendale e lo stabilirsi di relazioni virtuose tra i diversi soggetti che in essa opera-no. L’ottica da cui muovere non è infatti quella che vede nell’espressio-ne “governo delle attività cliniche” di cui all’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 502 un sinonimo di “governo dei clinici”, quanto piuttosto l’invito a un governo “con” i clinici. Dando poi continuità a quanto già detto circa l’accennata migliore definizione dei poteri del direttore generale, potreb-bero essere previste forme e modalità di trasparenza nella procedura di selezione dei candidati ad incarichi di direzione di struttura complessa, nonché criteri cui informare la selezione dei candidati ad incarichi di na-tura professionale e di direzione di struttura semplice, anche quali indi-cazioni da specificare in sede di contrattazione collettiva nazionale.

La diffusa insoddisfazione in ordine alle troppe e troppo acclarate interferenze di tipo politico-partitico nella nomina regionale dei direttori generali delle Aziende sanitarie non può poi essere sottaciuta. La circo-stanza che la normativa vigente faccia riferimento alla natura fiduciaria del rapporto del direttore generale e alla conseguenza che la sua nomina debba riferirsi ai soli requisiti di legge, senza necessità di valutazioni comparative, non significa che queste nomine siano nomine “politiche” nel senso usuale del termine. Adottare questo approccio condurrebbe a dar ragione a chi sostiene che, siccome le nomine dei direttori generali hanno natura fiduciaria, è normale che se ne occupi la “politica”; se non si vuole ciò, occorre cambiare sistema e dunque, alternativamente, sot-trarre alla “politica” tali nomine oppure sopprimerne il carattere fiducia-rio. In realtà, il carattere fiduciario della nomina serve a escludere o a li-mitare controversie giurisdizionali sui provvedimenti di nomina da parte

24 Sul punto v. da ultimo la ricognizione di A. PioGGia, Il ruolo del top management e del-la dirigenza di line in sanità: modelli di distribuzione del potere decisionale negli atti azien-dali, in Oltre l’aziendalizzazione, cit., pp. 71 ss.

1052

dei candidati non nominati. Non a caso, il sistema nazionale non prevede la revoca ad nutum, cioè libera, dell’incarico stesso, ma che essa sia mo-tivata, foss’anche soltanto con l’indicazione del mancato raggiungimen-to degli obiettivi puntualmente fissati. E la Corte Costituzionale (sent. n. 104 del 2007) ha dichiarato incostituzionale una legge regionale che estendeva lo spoil system a tali nomine, quasi a voler appunto sottolinea-re che fiducia non significa arbitrio 25.

Come rendere ciò maggiormente evidente potrebbe essere il compi-to di un intervento riformatore, volto a chiarire che il potere di nomina in questione è comunque funzionalizzato al migliore rendimento dei servi-zi sanitari e non direttamente all’attuazione di un determinato indirizzo politico. Per parafrasare ancora la già menzionata sentenza della Corte Costituzionale n. 104 del 2007, si tratta di acclarare il carattere di diri-genza tecnico-professionale, più che politica, dei manager sanitari. L’obiettivo va perseguito evitando di scompaginare le coordinate di fon-do del sistema, e in particolare di reintrodurre forme di valutazione com-parativa dei candidati alla nomina a direttore generale, già adottate in passato e che non hanno dato generalmente buona prova, soprattutto per la difficoltà di adottare provvedimenti sufficientemente e comparativa-mente motivati in un settore nel quale la sintonia sugli obiettivi della pro-grammazione sanitaria regionale conta evidentemente almeno quanto le abilità strettamente manageriali.

Per quanto attiene al profilo sub c), sul coinvolgimento partecipativo dei cittadini e degli utenti, qui l’aggiornamento dei principi contenuti nel Titolo IV del d.lgs. n. 502 (art. 14, cui va affiancato ratione materiae l’art. 10 del medesimo), rubricato come “partecipazione e tutela dei dirit-ti dei cittadini”, potrebbe consistere nella previsione dell’inserimento di un rappresentante delle organizzazioni di tutela dei diritti degli utenti del Ssn all’interno del Collegio di direzione, così da consentire un ponte tra interno ed esterno dell’azienda, evitandone possibili tentazioni autorefe-renziali.

Ora, sebbene i meccanismi di rappresentanza di interessi scontino in gran parte una certa inadeguatezza, poiché ben difficilmente il rappre-sentante riesce a impersonare fino in fondo tale ruolo rinunciando a un coinvolgimento attivo e dunque potenzialmente stravolgente, una siffatta soluzione potrebbe essere di notevole utilità, proprio in quanto volta a in-serire dentro a una dinamica tutta intra-aziendale una voce portatrice di

25 Indicazioni in F. merLoni, Gli incarichi dirigenziali, cit., pp. 107 ss.

1053

interessi e valori diversamente sacrificati all’interno delle ordinarie logi-che che presiedono alle relazioni intercategoriali sui luoghi di lavoro.

Per quanto attiene al profilo sub e), è forse tempo di verificare lo sta-to di attuazione del d.lgs. n. 517 del 1999, essendo i rapporti sanità-uni-versità un nodo delicatissimo di qualunque Servizio sanitario regionale. Accanto all’inevitabile proroga del termine previsto dall’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 517 del 1999, si potrebbe prevedere, in luogo degli strumen-ti ivi ipotizzati per introdurre eventuali adattamenti al modello unico alla luce delle esperienze realizzate (atto di indirizzo e coordinamento, ovve-ro provvedimento legislativo), un’intesa ai sensi dell’art. 8, comma 6, della l. n. 131 del 2003. In tal modo, le realtà regionali nelle quali il mo-dello deve ancora consolidarsi avrebbero lo spazio temporale per farlo, mentre quelle in cui il modello si è già consolidato potrebbero concorre-re alla definizione finale del medesimo. Si tratta di un terreno dalla quan-to mai comprovata delicatezza, in ragione della compresenza in esso di due tipi di autonomia, entrambi costituzionalmente previsti: quella regio-nale, rafforzata dal nuovo Titolo V e che ha visto estendersi la competen-za legislativa (concorrente) sulla materia della ricerca scientifica; quella universitaria, cui pure il nuovo Titolo V potenzia l’autonomia (a volerla considerare, almeno in parte, rientrante nell’ambito materiale dell’istru-zione) 26.

è però il profilo sub b) quello forse più decisivo, ai fini del consoli-damento del sistema. Si tratta di affiancare, ai risultati importanti cui è pervenuta l’indagine economico-aziendale in ordine alla valutazione di sistemi complessi come il sistema sanitario, altri risultati, ottenuti a parti-re da un’analisi sistemica di tipo giuridico-istituzionale e giuridico-orga-nizzativo. Se teniamo presente che il Rapporto mondiale sulla salute del 2000 ha individuato quattro componenti chiave nelle prestazioni dei ser-vizi sanitari (la fornitura di servizi, la creazione di risorse per investimen-ti e formazione, il finanziamento e la funzione di governo-amministrazio-ne-controllo), è facile rendersi conto che nel nostro Paese l’elemento di debolezza, conoscitiva e reale, si concentra proprio nell’ultima compo-nente. Ciò che manca è l’attenzione e la predisposizione di modelli di co-noscenza e valutazione che superino la sola prospettiva economico-azien-dale e che riescano a misurare non soltanto il complesso delle prestazioni fornite (Lea) e il complessivo output, ma altresì la capacità di governo del

26 Sul punto cfr. R. BaLduzzi, L’autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V del-la Costituzione, in «Le istituzioni del federalismo», 2004, pp. 263 ss.; id., L’università tra Sta-to e Regioni, in L’autonomia del sistema universitario. Paradigmi per il futuro, a cura di A. d’atena, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 27 ss.

1054

sistema, sia come capacità di dare obiettivi e indirizzi al medesimo e di monitorarne e verificarne la realizzazione, sia come promozione di Linee guida e Protocolli diagnostico-terapeutici (che assumono, in un sistema basato sul legame tra qualità e appropriatezza delle prestazioni, un rilievo decisivo per il funzionamento del medesimo).

è evidente che un siffatto modello di conoscenza e di valutazione si rende indispensabile in un contesto come quello italiano che vede la combinazione di regionalizzazione e aziendalizzazione, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti, unitamente ai livelli essenziali delle pre-stazioni concernenti il diritto alla salute, a livello statale. Se la regionaliz-zazione comporta, soprattutto dopo la revisione costituzionale del 2001, una forte autonomia dei singoli Servizi sanitari regionali, dentro un qua-dro di coerenze di sistema assicurate da meccanismi legislativi e finan-ziari e da un rinnovato quadro costituzionale che, se ha confermato il principio-cardine della regionalizzazione, ne ha nel contempo chiarito, come si è visto al n. 2, i limiti, ne consegue che un sistema sanitario re-gionalizzato non può essere conosciuto (e dunque valutato, e dunque mi-gliorato) se non conoscendo le peculiarità dei ventuno sottosistemi (tra Regioni e Province autonome) di cui si compone. L’aziendalizzazione, a sua volta, comporta una relativa diversità infraregionale, connessa con l’autonomia imprenditoriale delle aziende stesse e con la maggiore o mi-nore incisività del governo regionale. Un sistema aziendalizzato non può allora essere conosciuto senza la conoscenza delle caratteristiche delle aziende regionali e del tipo di aziendalizzazione che il singolo Servizio sanitario regionale prevede e applica.

è possibile che l’attenzione ai profili messi in evidenza possa atte-nuarsi, nei prossimi mesi, in conseguenza dell’intensificarsi del dibattito sul cosiddetto federalismo fiscale, al momento in cui scrivo ancora inde-terminato quanto a conclusioni concrete, ma certamente incidente in mi-sura rilevante sui sistemi sanitari regionali e che coesiste con la tenden-za, riscontrabile nella normativa sui piani di rientro, a sottoporre a stret-to controllo amministrativo i servizi sanitari regionali meno “virtuosi”. La partita del consolidamento è pertanto una partita aperta, dall’esito non facilmente prevedibile.

Si potrebbe dunque concludere che è forse davvero venuto il mo-mento, a trent’anni esatti dall’entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978, n. 833, di aprire una reale discussione, tecnica e politica, sul Servi-zio sanitario nazionale e sulle sue prospettive.

1055

ALESSANDRO CANDIDO Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale

nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano

NORME CEDEVOLI E POTERI SOSTITUTIVI LEGISLATIVI NEL NUOVO ASSETTO COSTITUZIONALE

sommario: 1. Introduzione. – 2. Cenni sulla dottrina delle norme cedevoli. – 3. Principio di continuità e norme cedevoli dopo la l. cost. n. 3/2001. – 4. Un tentativo di dare fonda-mento costituzionale alla cedevolezza normativa: l’intervento sostitutivo governativo ex art. 120, comma 2, Cost. – Conclusione.

1. Introduzione

Scopo del presente lavoro è esaminare, senza pretesa di esaustività, – data l’enorme mole di problemi e spunti cui il tema oggetto di disami-na si presta – uno dei più discussi meccanismi di snodo presenti nel no-stro sistema delle fonti: il criterio della cedevolezza normativa. In rela-zione a quest’ultimo, prenderemo le mosse dalle origini del regionalismo italiano, per poi risalire sino alle più recenti pronunce giurisprudenziali che, a quanto sembra, lo hanno dichiarato incostituzionale. Nella secon-da parte della trattazione, invece, proveremo a spiegare le ragioni per cui oggi la suddetta clausola potrebbe ben confluire nell’art. 120, comma 2, Cost., probabilmente una delle più lacunose norme introdotte dalla l. cost. n. 3/2001. In particolare, cercheremo di rinvenire un fondamento costituzionale per la c.d. dottrina delle norme cedevoli, individuando nell’art. 120, comma 2, vale a dire nella possibilità di adottare poteri so-stitutivi in via anche legislativa (sebbene quest’ultimo inciso, non speci-ficato in Costituzione, sia tutt’altro che pacifico), la norma di chiusura dell’ordinamento.

Parlando di norme cedevoli 1 ci si riferisce all’adozione, da parte dello Stato, di disposizioni di normazione di dettaglio in materie di com-petenza legislativa concorrente, norme aventi un’efficacia provvisoria e limitata al periodo in cui le Regioni non abbiano ancora esercitato le pro-prie attribuzioni 2. Le norme “suppletive” o “cedevoli”, dunque, rappre-

1 C’è anche chi parla di clausola “di dissolvenza”. v. f. Pizzetti, Le autonomie locali nel-la riforma costituzionale e nei nuovi statuti, in «Le Regioni» 2002, 944.

2 La Corte Costituzionale ha utilizzato per la prima volta l’aggettivo “cedevole”, sia pure

1056

sentano (così come la clausola dell’interesse nazionale 3, forse troppo frettolosamente depennata dal testo costituzionale con la riforma del Ti-tolo V) uno strumento connesso alla salvaguardia e al funzionamento del sistema giuridico, essendo esso volto a evitare la presenza di vuoti nor-mativi all’interno delle Regioni, in seguito al mutamento dei principi fondamentali 4 delle materie da parte dello Stato 5.

in modo del tutto casuale e con un senso completamente diverso rispetto al suo attuale signi-ficato, nella sent. n. 1/1981. Ma è solo con la sent. n. 304/1987 che esso viene a identificare quel fenomeno che la stessa Corte ha dichiarato legittimo a partire dalla sentenza n. 214/1985 (v. infra). Sul tema cfr. tra gli altri m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V, in «Effettività» e «seguito» delle tecniche decisorie della Corte Costituzionale, a cura di r. Bin, G. BruneLLi, a. PuGiotto e P. veronesi, Napoli 2006, 439 ss.

3 Sul tema, cfr. G. faLcon, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in «Le Regioni» 2001, 1251 ss. L’A. sostiene che, l’interesse nazionale, sebbene a seguito della riforma del Titolo V sia venuto meno nel testo della Costituzione, si manifesta oggi in specifiche riserve di competenza dello Stato ex artt. 117, 119 e 120 Cost. Cfr. anche c. PineLLi, I limiti alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordina-mento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in «Foro it.» 2001, 199, L. cuocoLo, Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coordinamento e potere sosti-tutivo del Governo, in «Quad. Reg.» 2002, fasc. 2, 427 e. P. cavaLeri, La nuova autonomia legislativa delle Regioni, in Le modifiche al Titolo V della parte II della Costituzione, ibidem, 2001, 202. C’è invece chi (cfr. a. BarBera, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, in «Quad. cost.», 2001, 345-346) ritiene che con la l. cost. n. 3/2001 il Parlamento abbia inteso non eliminare l’interesse nazionale (il quale permarrebbe come limite implicito), bensì radi-care la sua difesa in capo alla Corte Costituzionale. Altri ancora (cfr. sul punto r. tosi, A pro-posito dell’«interesse nazionale», in «Quad. cost.» 2002, 86-88) demandano la precisazione dell’interesse nazionale alla continua collaborazione tra il Parlamento e il giudice delle leggi, a seconda della situazione concreta. Vi è poi una tesi ulteriore (cfr. r. Bin, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in «Le Regioni» 2001, 1219) in base alla quale non si può dire che il nuovo Titolo V abbia escluso ogni riferimento all’interesse nazionale. Più semplicemente, quest’ultimo si è trasfor-mato sulla base dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione, per cui l’allocazione delle competenze avviene oggi secondo una valutazione concreta della dimensione degli interessi da tutelare. Della stessa idea f. BeneLLi, Interesse nazionale, istanze unitarie e potestà legisla-tiva regionale: dalla supremazia alla leale collaborazione, «Giur. cost.» 2006, 933 ss.; id., La “smaterializzazione” delle materie, Milano 2006, 53 ss.

4 Sulla complessa nozione di “principio” – spesso definito, a partire dalla definizione fornita da Ronald Dworkin, quale norma dal carattere non precisamente determinato e quale fondamento di norme dal carattere più dettagliato – cfr. r. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in «Tr. dir. civ. comm.», dir. da A. Cicu e F. Messineo, cont. da L. MenGoni, vol. I, t. I, Milano 1998, 276 ss.; cfr. anche W. TWininG e D. Miers, Come far cose con regole, trad. it. a cura di C. GarBarino, Milano 1990, 181 ss.; ancora, cfr. e. BaLBoni, I livelli essenziali e i pro-cedimenti per la loro determinazione, in «Le Regioni» 2003, 1183 ss.; dello stesso autore, Gli standard strutturali delle relazioni di assistenza tra livelli essenziali e principi fondamentali, in «Giur. cost.» 2007, 974 ss.

5 Cfr. m. santini, Il tema della cedevolezza e le sue residue applicazioni dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, in www.federalismi.it

1057

Com’è noto, le leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001 hanno, nel loro complesso, abrogato o modificato la maggior parte degli articoli che componevano in origine il Titolo V della parte seconda della Costi-tuzione, ridisegnando il quadro delle fonti statali e i loro rapporti con le fonti regionali 6. In passato, infatti, tutto il sistema delle fonti si reggeva – salvo alcune deroghe (artt. 76, 77, 117 Cost.) – sull’art. 70 della Costi-tuzione, ossia sul principio della generale e illimitata competenza legi-slativa attribuita al Parlamento, ragion per cui la vecchia legislazione re-gionale assumeva carattere derogatorio ed episodico 7. A conferma di ciò, mentre la legge dello Stato non appariva sottoposta ad alcun limite che non fosse quello di compatibilità con la Costituzione, la potestà le-gislativa regionale era fortemente compressa, in quanto doveva essere esercitata nel rispetto della Costituzione, degli Statuti di autonomia e delle leggi-quadro.

Tutto questo è invalso sino alla l. cost. n. 3/2001, che ha costituzio-nalizzato il principio di sussidiarietà 8 (nelle due accezioni “verticale” e “orizzontale”), peraltro già prefigurato dalla legge n. 59 del 1997 a Co-stituzione invariata 9. Ciò ha portato, quantomeno a livello di principi, a un capovolgimento radicale del sistema delle fonti, anche se poi – nella sostanza – la produzione normativa statale e regionale non è granché mu-tata rispetto al passato.

6 Cfr. u. de siervo, Il sistema delle fonti: il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni, in www.federalismi.it

7 Basti pensare che il vecchio art. 127 della Costituzione sottoponeva la legge regionale a un controllo preventivo di legittimità al punto che, come sosteneva Crisafulli (cfr. v. crisa-fuLLi, La legge regionale nel sistema delle fonti, in «Riv. trim. dir. pubbl.» 1960, 285-286), i principi posti dalla legge statale condizionavano “la stessa immissione nell’ordinamento delle norme di fonte regionale”.

8 Cfr. sul tema a. ruGGeri, a. morrone, q. camerLenGo, e. d’arPe, f. cintioLi per il Forum di Quaderni Costituzionali; anche r. dickmann, La Corte Costituzionale attua (ed integra) il Titolo V, in www.federalismi.it; L. Torchia, In principio sono le funzioni (ammini-strative): la legislazione seguirà, in www.astridonline.it; L. VioLini, I confini della sussidiarie-tà: potestà legislativa «concorrente», leale collaborazione e strict scrutiny, in «Le Regioni» 2004, 587 ss.; O. Chessa, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e mo-delli teorici a confronto, ibidem 2004, 941 ss.; e. BaLBoni, P. G. rinaLdi, Livelli essenziali, standard e leale collaborazione, ibidem 2006, 1029 ss.; sempre di e. BaLBoni, Livelli essen-ziali: il nuovo nome dell’eguaglianza? Evoluzione dei diritti sociali, sussidiarietà e società del benessere, in E. BaLBoni, B. Baroni, a. mattioni, G. Pastori (a cura di), Il sistema integrato dei servizi sociali, Milano 2007, 27 ss.

9 Cfr. G. Pastori, La redistribuzione delle funzioni: profili istituzionali, in «Le Regioni» 1997, 749 ss.

1058

2. Cenni sulla dottrina delle norme cedevoli

Proviamo ora a ripercorrere, sia pure in estrema sintesi, il tema del-le norme cedevoli, considerando il rapporto intercorrente tra leggi statali e leggi regionali, così come descritto dalla l. n. 62/1953 (c.d. Legge Scel-ba) 10.

In particolare, l’art. 10 della l. n. 62/1953 prende in considerazione l’ipotesi della successione delle leggi nel tempo laddove si verifichi un mutamento dei principi fondamentali delle materie: in tal caso, dispone il comma 1, “le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamen-tali [...] abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse” 11.

Chiaro che qui – poiché nulla si dice in tema di nuova legislazione

10 L. 10 febbraio 1953, n. 62, recante “Costituzione e funzionamento degli organi regio-nali”. Interessante è l’art. 9 della legge in questione, ove si stabiliva – nella originaria formula-zione – che il Consiglio regionale non avrebbe potuto legiferare se preventivamente non fosse-ro state promulgate le leggi della Repubblica contenenti, singolarmente per ciascuna materia, i principi fondamentali cui la legislazione regionale avrebbe dovuto attenersi. Dopodiché, al suddetto criterio veniva posta una deroga, in base alla quale le Regioni, in attesa dell’approva-zione delle leggi-quadro, avrebbero potuto legiferare in alcuni settori di secondaria importan-za, quali circoscrizioni comunali, fiere e mercati, musei e biblioteche di enti locali, istruzione artigiana e professionale, caccia e pesca. Secondo questa logica, il rapporto tra legge statale e legge regionale era inteso in un’ottica di separazione, per cui le Regioni avrebbero emanato norme di dettaglio nell’ambito di una disciplina statale uniforme. L’ostacolo principale per il funzionamento di tale impostazione era chiaramente rappresentato dall’assoluta mancanza di leggi quadro nel momento in cui erano state istituite le Regioni ordinarie, con il rischio quindi che l’inattività del legislatore nazionale si sarebbe riverberata sulle competenze legislative regionali, paralizzandole. Proprio per evitare tale inconveniente, l’art. 17 della l. n. 281/1970 aveva modificato l’art. 9 della Legge Scelba, disponendo che “l’emanazione di norme legi-slative da parte delle Regioni nelle materie stabilite dall’art. 117 della Costituzione si svolge nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Così, l’ordinamento aveva in quell’occasione fatto propria la logica dell’integrazione, per cui le norme di principio poste dallo Stato diventavano puri e semplici parametri di legittimità di una legislazione regionale di dettaglio destinata a sovrapporsi a quella statale. Tra l’altro, la Corte Costituzionale si era in proposito pronunciata con sent. n. 39/1971, affermando l’illegittimità costituzionale dell’ori-ginaria impostazione della Legge Scelba, dato che a quella stregua “l’esercizio delle potestà legislative regionali rischiava di essere procrastinato sine die”, restando “rimesso alla mera discrezione del legislatore statale” (L. PaLadin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, 333). Il problema, sosteneva Paladin, era quello di consentire ai Consigli regionali l’esercizio immediato delle loro funzioni legislative, non appena entrati in vigore i primi decreti di trasfe-rimento delle funzioni amministrative statali alle Regioni.

11 L’art. 10, comma 2, aggiunge che “i Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni”.

1059

statale di dettaglio nelle materie di cui all’art. 117 Cost. 12 – veniva in gioco un meccanismo del tutto velleitario: infatti, così come non si pote-va costringere il legislatore statale ad adottare leggi quadro entro un cer-to termine, allo stesso modo non vi era strumento alcuno che sanzionas-se la mancata osservanza dell’art. 10 della legge in questione da parte delle Regioni, con la conseguenza che l’eventuale modificazione dei principi fondamentali delle materie ad opera dello Stato avrebbe causato numerosi vuoti nei tessuti normativi regionali.

Sul punto sono state avanzate diverse autorevoli tesi 13, ciascuna del-

12 Cfr. a. rocceLLa, Rapporti tra fonti normative statali e regionali, in «Amministrare» 2005, 28.

13 Tra le varie tesi elaborate, si pensi a quella dell’abrogazione differita – facente capo a Crisafulli – in base alla quale l’abrogazione delle leggi regionali contrastanti con i nuovi principi fondamentali (posti dalla legge dello Stato) deve essere sospesa per novanta giorni, termine entro il quale le Regioni hanno il dovere di modificare le preesistenti leggi, confor-mandole così ai mutati principi statali (cfr. v. crisafuLLi, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova 1993, 133). Come nota Crisafulli, “probabilmente, l’interpretazione più attendi-bile [...] è che l’effetto abrogativo sia sospeso fino al decorso dei novanta giorni ovvero sino all’entrata in vigore, entro tale termine, delle leggi regionali modificative di quelle precedenti per conformarle ai mutati principi delle leggi statali [...]”. Una ricostruzione di tal natura, tuttavia, lascerebbe aperto il problema dei vuoti normativi che l’introduzione dei nuovi princi-pi fondamentali comporterebbe, laddove il legislatore regionale non provvedesse a legiferare entro la scadenza dei suddetti novanta giorni. Secondo un’ulteriore idea, dell’incostituziona-lità sopravvenuta (cfr. a. d’atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, 89 ss.) non può accadere che una legge statale invada il campo normativo riservato ai Consigli regionali, abrogando ex lege norme regionali pregresse. L’unica soluzione possibile sarebbe allora quella dell’impugnazione in sede di giudizio di costituzionalità, da parte dello Stato, delle norme regionali confliggenti con i mutati principi delle materie. D’Atena afferma che “stante l’obbligo dei Consigli regionali di attenersi ai principi legislativamente fissati, dovrà ritenersi che il contrasto tra la normazione locale e le successive leggi-cornice integri gli estre-mi di una illegittimità costituzionale sopravvenuta, sindacabile, in quanto tale, dalla Corte”. Dunque, continua D’Atena, “potrebbe dirsi che decorso il termine che la legge-cornice asse-gna alle Regioni, perché adeguino, alle disposizioni in essa contenute, la propria normazione, quest’ultima realizza un’invasione della sfera di attribuzioni dello Stato (e possa, pertanto, essere impugnata, ai senso dell’art. 39 della l. n. 87 del 1953)”. Più drastica è, infine, la tesi dell’abrogazione immediata di Paladin, il quale ritiene viziate le precedenti interpretazioni dell’art. 10 della legge Scelba: infatti in entrambe vi sarebbe il problema di far convivere per un certo periodo – novanta giorni nel caso dell’abrogazione differita, invece nel caso dell’inco-stituzionalità sopravvenuta il tempo necessario affinché la Corte si pronunci – i nuovi principi fondamentali posti dallo Stato con le vecchie norme di dettaglio regionali. Per ovviare a tale inconveniente, egli ritiene più opportuno che le leggi quadro, ove immediatamente applicabili, abroghino hic et nunc la disciplina regionale con esse contrastante (cfr. L. PaLadin, Le fonti del diritto italiano cit., 95). Zagrebelsky critica tale impostazione (cfr. G. zaGreBeLsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I, Torino 1988, 234 ss.) affermando che “non può trattarsi [...] di abrogazione, poiché essa presupporrebbe la concorrenza di due tipi di fonti nello stesso ambito

1060

le quali presentava tuttavia degli inconvenienti: vi era, infatti, oltre al problema dei vuoti nei sistemi normativi regionali, anche quello della convivenza di norme di principio e norme di dettaglio con esse incompa-tibili (o ad ogni modo inidonee a rendere queste ultime applicabili).

Su queste premesse, Paladin ha proposto di dotare le leggi cornice di una struttura costituita tanto da disposizioni di principio, quando da di-sposizioni di dettaglio, le prime inderogabili e le seconde cedevoli 14. In tal modo, le leggi statali avrebbero trovato applicazione sia nelle Regio-ni sguarnite di una disciplina regionale, sia laddove quest’ultima fosse ri-sultata presente, ma incompatibile con i nuovi principi fondamentali. Era questa, evidentemente, l’anticipazione del sistema delle normative cede-voli, che veniva a configurare i rapporti tra fonti statali e fonti regionali sulla base di un criterio misto: da un lato una componente gerarchica, a favore dei principi fondamentali delle leggi statali, dall’altro un elemen-to di separazione, essendo la Regione competente alla produzione nor-mativa di dettaglio 15. In tal modo, nei rapporti tra leggi cornice e leggi regionali venivano applicati “gli stessi criteri che la legge n. 382 del 1975 ha fissato in tema di attuazione degli obblighi comunitari, precisando che «in mancanza della legge regionale, sarà osservata quella dello Stato in tutte le sue disposizioni»” 16.

Rifacendosi all’impostazione poc’anzi tracciata, il legislatore è in-tervenuto con legge 3 gennaio 1978, n. 1, ponendo norme di principio e norme “suppletive” di dettaglio – pur in presenza di una precedente di-sciplina regionale – in materia di accelerazione delle procedure di esecu-zione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali.

materiale e sullo stesso piano gerarchico”. Sul punto si è espressa la Corte con sent. n. 40 del 1972, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della l. n. 62/1953, in quanto “in conseguenza del subentrare, nella legislazione statale, di nuovi principi [...], ben può verificarsi l’abrogazione di norme regionali [...]”. Tuttavia, “ciò non toglie che quando il contrasto tra principi di fonte statale e norme regionali anteriori non si configuri in termini di vera e propria incompatibilità, tale da dar luogo ad abrogazione, possa proporsi una questione di legittimità costituzionale delle norme regionali diventate difformi dai nuovi prin-cipi, essendo la legislazione regionale costituzionalmente subordinata al rispetto dei principi fondamentali delle leggi statali”.

14 Cfr. L. PaLadin, Diritto regionale, Padova 1979, 96. “In simili casi, del resto, lo Stato non è solo abilitato a dettare nuove norme di principio; ma può anche accompagnare tali norme, perché transitoriamente non si abbia una carenza di legislazione, con una dettaglia-ta regolamentazione di ciascuna materia, salve – s’intende – le innovazione apportabili in quest’ultimo campo dalle successive leggi regionali”.

15 Cfr. T. martines, A. ruGGeri, C. saLazar, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2002, 173 ss.

16 V. L. PaLadin, Diritto regionale cit., 96-97.

1061

Di fronte all’impugnazione della presente legge da parte della Regio-ne Lombardia e della Provincia autonoma di Bolzano, che lamentavano il contrasto con l’art. 117 della Costituzione – oltre che con varie disposizio-ni del d.P.R. 616/1977 – la Corte si è pronunciata con la storica sentenza n. 214/1985 17, dichiarando infondata la questione di legittimità sollevata e mostrando di condividere l’interpretazione “paladiniana” poc’anzi consi-derata, subordinando così il venir meno della fonte incompetente all’even-tuale sovrapposizione e sostituzione ad opera di quella competente.

Il giudice delle leggi ha affermato, infatti, che “le attribuzioni stata-li non vengono paralizzate dalla circostanza che l’ente regionale abbia precedentemente emanato una legislazione di dettaglio, ma possono tro-vare ulteriore e successiva esplicazione se diverse esigenze di politica le-gislativa, frattanto emerse, lo richiedano. Né la legge dello Stato deve es-sere necessariamente limitata a disposizioni di principio, essendo invece consentito l’inserimento anche di norme puntuali di dettaglio, le quali so-no efficaci soltanto per il tempo in cui la Regione non abbia provveduto ad adeguare la normativa di sua competenza ai nuovi principi dettati dal Parlamento”.

Sulla base di tali argomentazioni 18, si è iniziato a concepire in mo-do più duttile il concorso tra atti normativi nelle materie di cui all’art. 117 Cost., “costruendo non già una competenza riservata alla legislazio-ne locale di dettaglio, ma una preferenza per mezzo della quale i Consi-gli regionali possano recuperare la competenza medesima” 19. Ecco allo-ra che, una volta configurati in questi termini (ossia come una deroga) i rapporti tra leggi statali e leggi regionali, l’intervento della normativa di

17 Corte cost., 22 luglio 1985, n. 214, in «Le Regioni» 1986, 236 ss., con nota di L. car-Lassare, La «preferenza» come regola dei rapporti tra fonti statali e regionali nella potestà le-gislativa ripartita. Ancora, v. commenti di a. anzon, Mutamento dei «principi fondamentali» delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio, in «Giur. cost.» 1985, I, 1660 ss.; f. cuocoLo, Il difficile rapporto tra leggi statali e leggi regionali, ibidem, II, 2667 ss.; r. tosi, Leggi di principio corredate da disposizioni di dettaglio: un’estensione della competen-za statale senza sacrificio dell’autonomia regionale, ibidem, II, 2678 ss.

18 Non è questa la sede per svolgere un’approfondita analisi delle ulteriori pronunce – precedenti alla riforma costituzionale del 2001 – attraverso le quali la Corte ha confermato a più riprese la dottrina delle norme cedevoli. Fra queste, ricordiamo le sentt. n. 123/1992, n. 352/1992 e n. 464/1994.

19 V. L. PaLadin, Le fonti del diritto italiano cit., 335. Allo stesso modo, Crisafulli (Cfr. v. crisafuLLi, Vicende della «questione regionale», in «Le Regioni» 1982, 506) – riprenden-do un’idea di Zanobini (cfr. G. zanoBini, La gerarchia delle fonti nel nuovo ordinamento, in Comm. sistematico alla Cost. it., diretto da P. caLamandrei e a. Levi, vol. I, Firenze 1948, 59) – sostiene che le norme costituzionali determinano la preferenza della legge regionale rispetto a quella statale come fonte della disciplina di dettaglio.

1062

dettaglio regionale non causerebbe l’abrogazione delle norme di detta-glio statali, le quali rimarrebbero in vigore quasi “allo stato di quiescen-za, per riespandersi provvisoriamente […] ogni qualvolta le norme regio-nali vengano a mancare senza essere sostituite” 20.

Una volta legittimata la prassi delle norme cedevoli, il legislatore – forte dell’appoggio della giurisprudenza costituzionale degli anni 80-90 21 – ha iniziato a farne uso e abuso, così che “la cedevolezza ha finito per trasformarsi in uno dei mezzi attraverso i quali lo Stato ha potuto conti-nuare a legiferare in modo sostanzialmente libero anche nelle materie di cui all’art. 117 Cost.” 22, intaccando e comprimendo inevitabilmente la sfera di autonomia regionale.

3. Principio di continuità e norme cedevoli dopo la l. cost. n. 3/2001

3.1. Come si è già avuto modo di osservare, la l. cost. n. 3/2001 ha completamente ridisegnato l’assetto delle fonti 23, sollevando diversi pro-blemi: uno di questi, di carattere – si spera – temporaneo, riguarda la fa-se di avvicendamento tra il previgente e il nuovo ordine dei rapporti tra legislazione statale e legislazioni regionali. La Corte Costituzionale, all’indomani della riforma del Titolo V, ha subito affrontato la questione, chiamando in causa il principio di continuità dell’ordinamento, in base al quale si afferma la validità e l’efficacia di norme non più conformi al mu-tato riparto di competenze. In altre parole, tempus regit actum.

Per la verità, già con sent. n. 13 del 1974 i giudici di Palazzo della

20 v. crisafuLLi, Vicende della «questione regionale» cit., 505. è stato proprio Crisafulli il primo a utilizzare, in questo saggio, l’aggettivo cedevole. Cfr. anche a. anzon, Mutamento dei «principi fondamentali» delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio cit., 1660 ss.

21 Si pensi alla sent. n. 192/1997, con la quale la Corte non escludeva la legittimità delle norme statali di dettaglio per il solo fatto che esse non fossero qualificate come tali, rimettendo alle Regioni l’onere di impugnarle qualora ritenute invasive della propria sfera di attribuzioni.

22 V. m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 444.23 Circa i problemi relativi all’attuazione del nuovo Titolo V, molto interessante è il “col-

loquio” tra s. BartoLe, m. cammeLLi, v. onida e G. Pastori, Comuni, Province, Regioni, Stato: riformare la riforma?, in «Amministrare», n. 1-2/2006, 1-46. Ancora, cfr. r. tosi, Sui rapporti tra fonti regionali e fonti locali, in «Le Regioni» 2002, 963 ss.; sempre r. tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, ibidem 2001, 1233 ss.; A. ruGGeri, La ricomposizione delle fonti in sistema, nella Repubblica delle autonomie, e le nuove frontiere della normazione, ibidem 2002, 699 ss. G. faLcon, Mo-dello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione cit., 1247 ss.

1063

Consulta avevano enunciato il suddetto principio 24. La pronuncia era sta-ta nel senso dell’inammissibilità del ricorso 25, proprio alla luce del prin-cipio di continuità, per cui ciò che limita la competenza legislativa stata-le nelle singole materie non è la mera competenza regionale, “in quanto astrattamente prevista in Costituzione o negli Statuti, ma il concreto eser-cizio che ne abbia fatto l’ente cui è conferita”. Ecco allora che le Regio-ni – e le Province autonome – per rimuovere dalle materie attribuite alla loro potestà legislativa le previgenti norme statali che eccedono i limiti posti dalla Costituzione, devono soltanto legiferare, sostituendo così le proprie leggi a quelle statali fino a quel momento vigenti nei rispettivi ambiti territoriali. Il suddetto meccanismo altro non è se non uno stru-mento di garanzia della continuità normativa.

Il principio in esame torna a essere ribadito dopo la riforma del 2001 con la sentenza n. 422 del 2002 26, dove si è posto il problema dell’impu-gnazione di una serie di disposizioni di legge approvate in base alla pre-vigente disciplina e ritenute ora incompatibili con il nuovo riparto di competenze delineato dall’art. 117 della Costituzione. In quell’occasio-ne la Corte ha sostenuto che il permanere delle norme statali, “al di là del momento di entrata in vigore della riforma del Titolo V, è conseguenza della necessaria continuità dell’ordinamento giuridico” 27. Pertanto, è l’epoca di proposizione del ricorso a radicare il parametro costituzionale del giudizio 28. Da qui allora la conclusione che “le norme che definisco-

24 Nella decisione in questione (cfr. anche sent. n. 28 e n. 31 del 1976), la Provincia di Bolzano impugnava la legge 24 aprile 1935, n. 740 – istitutiva del Parco nazionale dello Stel-vio – lamentando il contrasto con le sopravvenute norme dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige (l. cost. n. 1/1971).

25 Cfr. a. Pizzorusso, Le modificazioni dello Statuto per il Trentino-Alto Adige e le leg-gi statali anteriori: termine per ricorrere e «principio di continuità», in «Giur. cost.» 1974, 535 ss. L’A. contesta la tipologia di decisione adottata dalla Corte. Egli sostiene, infatti, che l’inapplicabilità del principio di gerarchia delle fonti al caso in esame abbia come conseguenza l’insussistenza della sopravvenuta incostituzionalità denunciata dalla Provincia, il che deter-minerebbe, pertanto, l’infondatezza e non l’inammissibilità del ricorso. Sullo stesso tema, cfr. c. mezzanotte, Giudizi in via di azione, termini per ricorrere e autoritarietà della legge statale, in «Giur. cost.» 1976, 230 ss.

26 Per la verità già la sent. 376/2002, rifacendosi alla n. 13/1974, aveva affrontato il problema.

27 V. Corte cost., sent. 422/2002. Tale impostazione è stata peraltro confermata nella successiva sent. n. 507/2002 – sia pure qui con riferimento alla validità degli atti ministeriali – precisando che la riforma del Titolo V non ha la capacità di rendere invalidi atti posti in essere in virtù del precedente riparto di competenze.

28 Cfr. r. BrandoLin, La Corte alle prese con un nuovo parametro costituzionale, in www.giurcost.it

1064

no le competenze legislative statali e regionali contenute nel nuovo Tito-lo V della Parte II della Costituzione potranno, di norma, trovare applica-zione nel giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato contro leggi regionali e dalle Regioni contro leggi statali soltanto in riferimento ad at-ti di esercizio delle rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuo-va definizione costituzionale” 29.

Il principio di continuità dell’ordinamento ha trovato conferma e co-dificazione all’art. 1, comma 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 30, che ha trasposto in legge la dottrina delle norme cedevoli 31.

3.2. è arrivato ora il momento di chiedersi come la Corte Costitu-zionale ha affrontato il tema della cedevolezza in seguito alla l. cost. n. 3/2001. Una prima pronuncia degna di nota sembra essere la n. 282 del 2002, avente ad oggetto l’impugnazione, da parte dello Stato, di una leg-ge della Regione Marche per invasione della sfera di competenze prefi-gurata dal nuovo art. 117 della Costituzione. La Corte, ragionando qui sulla tutela della salute – che costituisce oggetto di potestà legislativa

29 In seguito la Corte, con sent. n. 13/2004 torna ad affrontare, sotto profili ulteriori e più ampi, la questione del principio di continuità. In quell’occasione essa afferma che il principio di continuità “in virtù del quale le preesistenti norme statali continuano a vigere nonostante il mutato assetto delle attribuzioni fino all’adozione di leggi regionali conformi alla nuova com-petenza, deve essere ora ampliato per soddisfare l’esigenza della continuità non più normativa ma istituzionale”. Cfr. in proposito r. dickmann, La Corte amplia la portata del principio di continuità (osservazioni a Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 13), in www.federalismi.it; a. PoGGi, Un altro pezzo del “mosaico”: una sentenza importante per la definizione del contenu-to della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di istruzione, ibidem; P. miLazzo, La Corte Costituzionale interviene sul riparto di competenze legislative in materia di istruzione e “raffina” il principio di continuità, nel Forum di «Quad. cost.»; m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 447 ss.

30 Qui si dispone che “Le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vi-gore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia, fermo quanto previsto al comma 3, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale. Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale”. Cfr. f. Bassanini, Legge “La Log-gia”: commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini 2003, 22 ss.

31 Allo stesso modo, l’art. 1, comma 3, l. cit., sembra aver riproposto l’art. 9 della Legge Scelba (nella versione modificata dall’art. 17 della l. n. 281/1970), disponendo che “Nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”.

1065

concorrente – enuncia un principio innovativo rispetto ai pregressi orien-tamenti, affermando che l’art. 117, comma 3, a differenza del previgente art. 117, comma 1, “esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza sta-tale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della discipli-na” 32.

Da qui, secondo parte della dottrina 33, si dovrebbe pertanto esclude-re la possibilità per lo Stato di continuare a legiferare nelle materie di competenza regionale, sia primaria che concorrente, attraverso la tecnica delle norme cedevoli.

Tale impostazione è stata peraltro ribadita – con messaggio del 5 no-vembre 2002 – dal Presidente della Repubblica Ciampi 34, il quale ha sot-tolineato che in ogni caso non è giustificabile l’invasione da parte dello Stato di una competenza costituzionalmente riservata alla legge regiona-le, nemmeno con la clausola della cedevolezza. La stessa sentenza n. 282 del 2002, prosegue il messaggio presidenziale, rappresenta “autorevolis-sima conferma che anche l’omissione o il ritardo nella determinazione, da parte dello Stato, dei principi fondamentali non costituisce titolo vali-do per sostituire la legge statale alla legge regionale in una materia riser-vata alla competenza legislativa della Regione; infatti, è sempre e soltan-to la Regione che, anche in assenza delle cosiddette leggi (statali) di prin-cipio, ha il potere di legiferare, con l’obbligo di attenersi al rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore” 35.

Tanto la sentenza n. 282 del 2002, quanto il messaggio del Presiden-te Ciampi, lasciavano presagire l’inammissibilità del sistema delle norme cedevoli, tesi che avrebbe trovato ulteriore e compiuta conferma nella storica sentenza n. 303 del 2003, vera e propria summa di alcuni dei no-di più problematici del nuovo assetto costituzionale.

32 Sul tema della potestà concorrente, cfr. f. cuocoLo, Principi fondamentali e legisla-zione concorrente dopo la revisione del Titolo V, Parte seconda, Costituzione, in «Quad. Reg.» 2003, fasc. 3, 721 ss.

33 Cfr. m. santini, Il tema della cedevolezza e le sue applicazioni dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, in www.federalismi.it.

34 In quell’occasione il Presidente aveva rinviato alle Camere una legge in materia di incompatibilità dei Consiglieri regionali, rilevando come la competenza in oggetto rientrasse nella potestà concorrente di Stato e Regioni.

35 Per la lettura del messaggio presidenziale, v. www.camera.it. Cfr. anche il commento di B. caravita, Una vicenda piccola, una questione importante: alcune riflessioni in ordine ad un recente rinvio presidenziale, in www.federalismi.it

1066

3.3. Con la sentenza n. 303 del 2003, la Corte Costituzionale, attra-verso una elaborata opera interpretativa, ha provato a ricondurre in un quadro sistematico il nuovo Titolo V della Costituzione, tentando in alcu-ni casi di sorvolare, in altri di intervenire sulle sue enormi lacune.

Nel caso di specie, veniva in rilievo un complesso di impugnazioni della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (c.d. legge-obiettivo), che poneva una disciplina – tanto di principio, quanto di dettaglio – per l’accelera-zione della realizzazione di grandi opere pubbliche, in deroga al riparto di competenze posto dall’art. 117 della Costituzione.

Il giudice delle leggi si pronuncia, in questo caso, nel senso dell’am-missibilità della suddetta deroga e prova a giustificare la necessità di clausole che rendano più flessibile il rigido modello di distribuzione del-le competenze delineato dal nuovo Titolo V, in modo da ampliare lo spa-zio di intervento riservato al legislatore nazionale, tutte le volte che sia necessaria la salvaguardia di istanze unitarie. Proprio a tal proposito, es-sa fa riferimento alla konkurrierende Gesetzgebung tedesca o alla Supre-macy Clause del sistema statunitense, quali elementi di flessibilità, affer-mando che lo stesso può dirsi, nel nostro ordinamento, con riguardo al principio di sussidiarietà verticale (art. 118, comma 1 Cost.), introdotto per le funzioni amministrative, ma destinato a rendere meno rigida la stessa distribuzione di competenze legislative. Ecco allora che, per con-sentire al poco riuscito federalismo della riforma di funzionare, il princi-pio di sussidiarietà diventa un subsidium – quando un livello di governo non sia adeguato rispetto alle finalità da raggiungere – e ad esso si affian-ca il principio di legalità il quale, dice la Corte, “impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla leg-ge” 36.

I giudici di Palazzo della Consulta affermano, poi, che “non può ne-garsi che l’inversione della tecnica di riparto delle potestà legislative e l’enumerazione tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilità di dettare norme suppletive statali in materie di legislazione concorrente”. Tuttavia, continua la Corte, “una simile lettu-ra dell’art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell’art. 118, comma 1,

36 Cfr. anche a. ruGGeri, Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente) pronunzia, nel Fo-rum di «Quad. cost.»; q. camerLenGo, Dall’amministrazione alla legge, seguendo il principio di sussidiarietà. Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte Costituzionale, ibidem; s. BartoLe, Collaborazione e sussidiarietà nel nuovo ordine regionale, ibidem; L. vioLini, I confini della sussidiarietà: potestà legislativa “concorrente”, leale collaborazione e strict scrutiny, ibidem; a. moscarini, Titolo V e prove di sussidiarietà: la sentenza n. 303/2003 della Corte Costituzionale, ibidem.

1067

che consente l’attrazione allo Stato, per sussidiarietà e adeguatezza, del-le funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative, come si è già avuto modo di precisare. La disciplina statale di dettaglio a carat-tere suppletivo determina una temporanea compressione della competen-za legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com’è ad assicurare l’immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non posso-no essere esposte al rischio della ineffettività” 37.

In altri termini, con la sent. n. 303 del 2003 si dichiara l’inammissi-bilità del sistema delle norme cedevoli 38 che, conseguentemente alla ri-forma del 2001, non potranno più essere utilizzate dallo Stato in materie di legislazione concorrente e, a maggior ragione, in materie di competen-za esclusiva delle Regioni. L’istituto della cedevolezza sopravviverebbe, quale deroga al suddetto principio, unicamente negli straordinari casi in cui lo Stato attragga a sé funzioni amministrative per il soddisfacimento di esigenze unitarie (“che non possono essere esposte al rischio dell’inef-fettività”): solo in tali casi è possibile che esso intervenga, con norme di dettaglio cedevoli, nell’ambito della legislazione concorrente, in attesa delle nuove leggi regionali.

I primi commenti a questa sentenza hanno considerato poco convin-cente il fatto che la Corte da un lato dichiari inammissibile il sistema del-le norme cedevoli, dall’altro lo salvi ove le funzioni amministrative sia-no allocate al centro. Qualcuno sostiene che, molto più facilmente, sareb-be stato sufficiente riaffermare il principio per cui, in presenza di esigen-ze unitarie, lo Stato, anche nelle materie di competenza concorrente o esclusiva delle Regioni, avrebbe dettato – accanto a norme di principio – una disciplina di dettaglio suppletiva e cedevole, che sarebbe venuta me-no al sopraggiungere della nuova legislazione regionale 39. In realtà, è be-

37 Il corsivo è nostro. Sul punto, cfr. e. d’arPe, La Consulta censura le norme statali “cedevoli” ponendo in crisi il sistema: un nuovo aspetto della sentenza 303/2003, nel Forum di «Quad. cost.».

38 V. anche sent. n. 270/2005, ove la Corte, con riguardo alle norme impugnate, afferma che “esse sarebbero illegittime ‘in quanto dettagliate’, né esse potrebbero considerarsi legit-time ‘in virtù di una loro ipotetica cedevolezza’, in quanto questa Corte, con le sentenze n. 303 del 2003 e n. 282 del 2002, avrebbe statuito l’inammissibilità di norme statali di dettaglio cedevoli, «salvo il caso che ciò sia necessario per assicurare l’immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività»”.

39 Sul punto la Corte si limita a dire che “il principio di cedevolezza affermato dall’im-pugnato art. 1, comma 5, opera a condizione che tra lo Stato, le Regioni e le Province autono-me interessate sia stata raggiunta l’intesa di cui al comma 1, nella quale si siano concordemen-te qualificate le opere in cui l’interesse regionale concorre con il preminente interesse nazio-

1068

ne tenere ben presente che tutte le volte in cui si presentino esigenze uni-tarie, il meccanismo della cedevolezza non può essere invocato; sarebbe infatti impensabile trovare una disciplina differenziata Regione per Re-gione, ove l’ordinamento manifesti in determinati settori la necessità di uniformità normativa, al fine di preservare il funzionamento dell’intero sistema. “Infatti, delle due l’una: o sussiste quella necessità di esercizio unitario che giustifica l’attrazione al centro della funzione amministrati-va, e allora anche la disciplina normativa dovrebbe – per le ragioni sopra dette – presentare carattere di unitarietà; o tale necessità non sussiste, ed, in tal caso, la stessa allocazione a livello statale dell’amministrazione do-vrebbe ritenersi esclusa” 40.

Il ragionamento del giudice delle leggi, come emerge da quanto sin ora detto, ruota volutamente tutto attorno agli artt. 117 e 118 della Costi-tuzione e questo ha consentito alla Corte di evitare di addentrarsi nel ‘campo minato’ dell’art. 120, comma 2 della Costituzione. In proposito, parte della dottrina – intravvedendo nell’art. 120, comma 2 una possibi-le clausola di flessibilità del sistema – ha avanzato, immediatamente do-po la riforma, la tesi secondo cui il Governo avrebbe potuto esercitare un potere sostitutivo nei confronti delle Regioni non soltanto nel caso di inerzia nell’esercizio di funzioni amministrative, ma anche nell’esercizio delle funzioni legislative loro attribuite 41.

Proprio per evitare ogni equivoco, la Corte aggira il problema, di-stinguendo nettamente tra funzioni amministrative che, per ragioni di sussidiarietà, lo Stato può assumere e regolare con legge, e funzioni che spettano alle Regioni e per le quali lo Stato, non ricorrendo i presupposti per la loro assunzione in sussidiarietà, eserciti poteri in via sostitutiva. Infatti in quest’ultimo caso, si dice nella 303 del 2003, “l’inerzia della Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale nell’eserci-zio di una competenza che è e resta propria dell’ente sostituito”.

nale e si sia stabilito in che termini e secondo quali modalità le Regioni e le Province autono-me partecipano alle attività di progettazione, affidamento dei lavori e monitoraggio”.

40 a. d’atena, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte Costituzionale, in «Giur. Cost.», Milano 2003, 2779 ss.

41 Interessante è sul punto il contributo di c. mainardis, Poteri sostitutivi e autonomia amministrativa regionale, Milano 2007, 164 ss., che però conclude nel senso dell’impossibili-tà di configurare poteri sostitutivi legislativi. A quest’ultima possibilità, invece, ha fatto cenno m. massa, Le norme cedevoli prima e dopo la riforma del Titolo V cit., 452 ss. Considerazio-ni più approfondite saranno svolte più avanti (v. infra). Interessante l’analisi comparatistica in materia di v. tamBurrini, Il potere sostitutivo in Germania, Spagna, Austria e Belgio, in «Am-ministrare 2004», 457 ss.

1069

4. Un tentativo di dare fondamento costituzionale alla cedevolezza nor-mativa: l’intervento sostitutivo governativo ex art. 120, comma 2, Cost.

4.1. Dopo aver passato in rassegna le principali pronunce della Cor-te Costituzionale in materia di cedevolezza, mi pare di poter trarre come conclusione quella della generale incostituzionalità del sistema delle nor-me cedevoli: il che, certamente, pone non pochi problemi, soprattutto se si pensa alla imprescindibilità di meccanismi di snodo nel sistema delle fonti, in particolar modo nei casi in cui vi siano interessi unitari che non potrebbero trovare piena tutela se non per via di un intervento statale.

Proprio a causa della necessità di individuare nel Titolo V un ele-mento di flessibilità che, sul piano delle attribuzioni legislative, sostitui-sca il meccanismo della cedevolezza, può essere utile considerare una delle più complesse – e lacunose – norme introdotte dalla l. cost. n. 3/2001, vale a dire l’art. 120, comma 2 e, in particolare, il caso della so-stituzione del Governo alle Regioni per “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” della Repubblica 42. Questo mi sembra oggi il so-lo modo per giustificare l’intervento dello Stato (rectius, del Governo) in ambiti riservati a un legislatore regionale inerte o, peggio ancora, ina-dempiente. Del resto, a ben rifletterci, che cos’è la sostituzione legislati-va se non un modo forse più elegante per definire ciò che fino ad ora è stato chiamato sistema delle norme cedevoli? Si cercherà, allora, di radi-care e circoscrivere la complessa tematica della cedevolezza normativa entro i confini dell’art. 120, comma 2, della Costituzione 43.

4.2. Volendo procedere con ordine, bisogna risalire al 1972 44, quan-do la Corte, per la prima volta, ha lamentato l’assenza nel nostro ordina-mento costituzionale di poteri sostitutivi statali nei confronti delle Regio-ni che erano rimaste inerti rispetto all’attuazione di alcuni obblighi posti dall’ordinamento comunitario 45.

42 Cfr., tra gli altri, L. cuocoLo, Gli interessi nazionali cit., 430 ss.43 Cfr. P. caretti, Rapporti tra Stato e Regioni: funzione di indirizzo e coordinamento e

potere sostitutivo, in «Le Regioni» 2002, 1327. Cfr. anche G. fontana, I poteri sostitutivi nel-la Repubblica delle autonomie, in «Rass. parlamentare 2006», n. 4, 1020.

44 Cfr. m. P. iadicicco, La disciplina costituzionale della sostituzione statale, in “Il nuo-vo regionalismo nel sistema delle fonti” a cura di f. Pinto, Torino 2004, 229 ss.

45 V. Corte cost., sent. n. 142/1972. La Corte, precisamente, afferma che “ogni distribu-zione dei poteri di applicazione delle norme comunitarie che si effettui a favore di enti minori diversi dallo Stato contraente […] presuppone il possesso da parte del medesimo degli stru-menti idonei a realizzare tale adempimento anche di fronte all’inerzia della Regione che fosse investita della competenza dell’attuazione. Strumenti di tal genere fanno difetto nel nostro or-

1070

Dando seguito al ragionamento del giudice delle leggi, le l. n. 153 46 e n. 382 47 del 1975 hanno realizzato i primi esempi di attribuzione allo Stato, in via generale, di poteri sostitutivi nella devoluzione di funzioni statali ad altri livelli di governo 48. Allo stesso modo, si trova traccia del potere di sostituzione – sebbene circoscritto alle sole funzioni ammini-strative – nella l. n. 400 del 1988 49, nonché, sempre prima della riforma del Titolo V, all’art. 5 del d.lgs. n. 112/1998 (rubricato, per l’appunto, “poteri sostitutivi”) 50 che, in caso di inadempimento, da parte delle Re-gioni, degli obblighi comunitari o nei casi in cui vi sia il pericolo di pre-giudizi agli interessi nazionali, assegna alle stesse un termine per adem-piere, decorso il quale sarà un commissario ad acta a provvedere in via sostitutiva. Una norma pressoché identica è presente nel Testo Unico sul-le autonomie locali del 2000 51.

Le cose sono cambiate con la riforma costituzionale del 2001 che, da un lato ha segnato il venir meno del limite dell’interesse nazionale (per lo meno quale limite espresso 52), dall’altro ha tipizzato all’art. 120, com-ma 2, Cost., alcune fattispecie di indubbio rilievo costituzionale che de-

dinamento […]. Pertanto, fino a quando tale situazione non venga modificata con il ricorso al-le forme a ciò necessarie, il solo mezzo utilizzabile per fare concorrere le Regioni all’attuazio-ne dei regolamenti comunitari è quello della delegazione di poteri in materia di strutture agra-rie, che appunto offre il rimedio della sostituibilità del delegante in caso di inadempimento del delegato”.

46 V. l. 9 maggio 1975, n. 153, recante “Attuazione delle direttive del Consiglio delle Co-munità europee per la riforma dell’agricoltura”.

47 V. l. 22 luglio 1975, n. 382, recante “Norme sull’ordinamento regionale e sulla orga-nizzazione della pubblica amministrazione”.

48 Cfr. B. caravita, I «poteri sostitutivi» dopo le sentenze della Corte Costituzionale, in Politica del diritto, 1987, 315.

49 V. art. 2, comma 3, lett. f), l. 23 agosto 1988, n. 400, ove si dispone che sono sottopo-ste alla deliberazioni del Consiglio dei Ministri “le proposte che il ministro competente formu-la per disporre il compimento degli atti in sostituzione dell’amministrazione regionale, in ca-so di persistente inattività degli organi nell’esercizio delle funzioni delegate, qualora tali atti-vità comportino adempimenti da svolgersi entro i termini perentori previsti dalla legge o risul-tanti dalla natura degli interventi”.

50 V. art. 5, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministra-tivi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

51 V. art. 137, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento de-gli enti locali).

52 Cfr. L. cuocoLo, Gli interessi nazionali tra declino della funzione di indirizzo e coor-dinamento e potere sostitutivo del Governo cit., 437. L’A. ritiene che l’interesse nazionale si manifesti oggi in forme nuove rispetto al passato, come, ad esempio, la tutela dell’unità giuri-dica ed economica di cui all’art. 120, comma 2, della Costituzione.

1071

vono essere necessariamente tutelate per preservare un certo grado di uniformità giuridica, economica e sociale dell’ordinamento, pur nel ri-spetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione 53: ecco allo-ra i casi del mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della nor-mativa comunitaria, di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pub-blica, di tutela dell’unità giuridica ed economica, di tutela dei livelli es-senziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali 54.

In attuazione dell’art. 120, comma 2, Cost., è intervenuto l’art. 8 del-la l. n. 131/2003, disponendo al comma 1 che “Nei casi e con le modali-tà previsti dall’art. 120, secondo comma, della Costituzione, il Presiden-te del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli enti locali, assegna all’ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti do-vuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Mini-stri, sentito l’organo interessato, su proposta del Ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessa-ri, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario” 55.

Nei successivi commi sono invece puntualmente disciplinate le mo-dalità procedimentali di esercizio del potere sostitutivo diretto a porre ri-medio alla violazione della normativa comunitaria (comma 2), di quello riguardante Comuni, Province e Città metropolitane (comma 3) e di quel-lo di natura preventiva, da disporre “nei casi di assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate dall’articolo 120 della Costituzione”.

Le tipologie di sostituzione previste dai commi 1 e 4 riprendono chiaramente il modello generale già descritto dalla Corte Costituzionale con sent. n. 177 del 1988, vale a dire il caso in cui lo Stato intervenga in via amministrativa a fronte di un inadempimento regionale in relazione a un atto dovuto, purché siano rispettati determinati presupposti 56:

a) deve anzitutto trattarsi di attività regionali prive di discrezionalità nell’an, ossia attività che la Regione ha il dovere di compiere, come ad esempio quelle sottoposte per legge a termini perentori, o quelle che, ove

53 Cfr. G. fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1027 ss.; r. cameLi, Poteri sostitutivi del governo e autonomia costituzionale degli enti territoriali (in margine all’art. 120 Cost.) in «Giur. cost.» 2004, 5, 3390.

54 Non mi soffermerò sull’analisi dei presupposti legittimanti l’esercizio di poteri sostitu-tivi ex art. 120, comma 2, Cost. In proposito, v. G. fontana, I poteri sostitutivi nella Repubbli-ca delle autonomie cit., 1031 ss. V. anche c. mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi stata-li, autonomie speciali (nota a C. Cost., 8 luglio 2004, n. 236), in «Le Regioni», 2005, 198.

55 Il corsivo è nostro.56 Cfr. r. cameLi, Poteri sostitutivi del governo, cit., 3410-3411.

1072

non realizzate, possano pregiudicare il soddisfacimento di interessi es-senziali affidati alla responsabilità statale;

b) proprio in quanto l’intervento sostitutivo è per sua natura eccezio-nale, allo scopo di non comprimere eccessivamente l’autonomia degli enti territoriali, occorre una previsione legislativa che ne fissi i presuppo-sti sostanziali e procedurali;

c) al fine di assicurare l’unitarietà dell’indirizzo politico, il potere sostitutivo può essere esercitato soltanto dal governo dello Stato;

d) infine, “l’esercizio del controllo sostitutivo nei rapporti tra Stato e regioni (o province autonome) dev’esser assistito da garanzie, sostanzia-li e procedurali” quali, ad esempio, la leale collaborazione e la necessità di garantire agli enti sostituiti una adeguata partecipazione al procedi-mento.

Alla luce delle considerazioni sino ad ora svolte e sulla base della lettura delle norme fino ad ora citate in materia di poteri sostitutivi, vale a dire gli artt. 5 del d.lgs. n. 112/1998, l’art. 120, comma 2, Cost. e l’art. 8 della l. n. 131/2003, possiamo desumere l’esistenza di – almeno – tre tipologie di poteri sostitutivi 57: a) poteri sostitutivi introdotti dalla legge statale e regionale in rapporto a funzioni amministrative delegate. Qui il soggetto delegante conserva la titolarità della funzione, intervenendo nel caso di inerzia del delegatario a tutela di interessi pubblici propri; b) po-teri sostitutivi ordinari previsti dalla legge relativi a funzioni amministra-tive attribuite. Qui l’interesse tutelato non è quello proprio di chi eserci-ta il potere, ma quello generale a che la funzione sia svolta effettivamen-te; c) poteri sostitutivi straordinari del Governo, riguardanti il compi-mento di atti normativi (dunque non solo amministrativi), esercitabili nei confronti di Regioni ed altri enti locali, in relazione a funzioni ammini-strative delegate e attribuite. Qui l’interesse che viene in gioco è quello alla salvaguardia di interessi unitari ritenuti essenziali per il funziona-mento del sistema.

4.3. Proprio partendo da quest’ultimo punto, chiediamoci se sia pos-sibile configurare – sulla base dell’art. 120, comma 2, della Costituzione – l’ipotesi della sostituzione legislativa (dunque non solo amministrati-va) dello Stato alle Regioni.

La dottrina che ha studiato il tema dei poteri sostitutivi ha in gran parte negato che essi potessero riguardare l’ambito legislativo 58, affer-

57 Cfr. f. merLoni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regio-nali, in «Le Regioni», 2004, 1080 ss.

58 Cfr. ad esempio r. cameLi, Poteri sostitutivi del governo cit., 3396-3397; ancora, c.

1073

mando che in tal modo si paralizzerebbe totalmente l’autonomia regiona-le. In particolare, si è messa in evidenza la differenza – sulla quale in que-sta sede non ci soffermeremo – tra l’art. 117, comma 5 59 e l’art. 120, comma 2 della Costituzione, sottolineando – tra le altre cose – che solo la prima delle due norme si riferisce al Parlamento (e non al Governo, co-me il 120, comma 2). Ragion per cui la sostituzione ex art. 117, comma 5 avrebbe carattere eminentemente normativo, mentre quella ex art. 120, comma 2 avrebbe invece natura spiccatamente amministrativa.

Sul punto la Corte Costituzionale non ha mai preso una posizione abbastanza netta e, come si è visto anche a proposito della sentenza n. 303/2003, spesso e volentieri ha preferito aggirare il problema.

Ad esempio, con sentenza n. 43/2004 essa, dopo aver affermato la necessità che i poteri sostitutivi trovino il loro fondamento in Costituzio-ne, ha espressamente riconosciuto due tipi di sostituzione in via ammini-strativa 60:

a) sostituzione ordinaria, a tutela di interessi unitari: qui è la legge statale o regionale a realizzare la concreta allocazione delle funzioni in virtù del riparto di competenze delineato dalla Carta costituzionale;

b) sostituzione straordinaria, a tutela di interessi essenziali sotto la responsabilità dello Stato: qui interviene la previsione di cui all’art. 120, comma 2, Cost., manifestandosi per l’appunto delle “emergenze istitu-zionali di particolare gravità, che comportano rischi di compromissione relativi ad interessi essenziali della Repubblica”. La stessa Corte defini-sce questo tipo di intervento sostitutivo come “straordinario” – perché appunto volto a tutelare interessi essenziali per la Repubblica – e “ag-giuntivo” – poiché si affianca alle ipotesi ordinarie di sostituzione 61.

mainardis, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) om-bre, in «Le Regioni» 2001, 1381 ss.; f. Pizzetti, I nuovi elementi unificanti del sistema italia-no: il posto della Costituzione e delle leggi costituzionali ed il ruolo dei vincoli comunitari e de-gli obblighi internazionali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione. Primi problemi della sua attuazione, Milano, 2002, 191 ss.

59 L’art. 117, comma 5, Cost. così dispone: “Le Regioni e le Province autonome di Tren-to e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla forma-zione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accor-di internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabi-lite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”.

60 Cfr. s. Parisi, Poteri sostitutivi e sussidiarietà: la tensione tra unità e autonomie, in Nuove autonomie 2006, 840 ss.; t. GroPPi, Nota alla sentenza n. 43 del 2004, nel Forum di «Quad. cost.»; f. merLoni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi re-gionali cit., 1075.

61 Cfr. c. mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali cit., 198.

1074

Poco tempo dopo il giudice delle leggi ha ripreso la questione, riba-dendo l’importanza dei poteri sostitutivi quali meccanismi di flessibilità del nostro sistema costituzionale. Come sostiene la Corte 62, “si eviden-zia insomma, con tratti di assoluta chiarezza − si pensi alla tutela dei li-velli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che forma oggetto della competenza legislativa di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) −, un legame indissolubile fra il conferimento di una attribuzione e la previsione di un intervento sostitutivo diretto a garanti-re che la finalità cui essa è preordinata non sacrifichi l’unità e la coeren-za dell’ordinamento. La previsione del potere sostitutivo fa dunque siste-ma con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicu-rando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi cen-trali a tutela di interessi unitari”. Anche tali affermazioni lasciano pensa-re alla configurabilità della sostituzione legislativa ex art. 120 Cost., so-prattutto se si considera che, come ha modo di sottolineare la stessa Cor-te, “tale disposizione è posta a presidio di fondamentali esigenze di egua-glianza, sicurezza, legalità che il mancato o l’illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-stata-li, potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente” 63. I giudi-ci di Palazzo della Consulta, invocando l’art. 117 Cost., sembrerebbero dunque fare riferimento a competenze non solo amministrative, ma an-che legislative, ammettendone implicitamente la loro riconducibilità nell’alveo dell’art. 120, comma 2, della Costituzione.

4.4. Pur tra i tanti dubbi avanzati dalla dottrina e dalla stessa giuri-sprudenza costituzionale – che ha soltanto lanciato qualche segnale nel senso dell’ammissibilità della sostituzione legislativa dello Stato alle Re-gioni – si potrebbe trovare il bandolo della matassa nella “tutela dell’uni-tà giuridica ed economica” della Repubblica (di cui appunto all’art. 120, comma 2). Tale elemento di flessibilità – che ovviamente dovrà essere ben delineato e circoscritto dalla Corte Costituzionale – ben si prestereb-be ai casi in cui il legislatore regionale fosse inerte, o peggio ancora ina-dempiente, rispetto alla realizzazione di alcuni interessi di sistema costi-tuzionalmente rilevanti64, a tal punto da fare dell’art. 120, comma 2 una

62 V. Corte cost., sent. n. 236/2004.63 Cfr. c. mainardis, Nuovo Titolo V, poteri sostitutivi statali, autonomie speciali cit.,

200; m. BarBero, La Corte Costituzionale interviene sulla legge “La Loggia”, nel Forum di «Quad. cost.»; r. dickmann, Note sul potere sostitutivo nella giurisprudenza della Corte Co-stituzionale, in www.federalismi.it

64 Cfr. G.m. saLerno, I poteri sostitutivi del governo nella legge n. 131 del 2003, in aa.vv., Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, 1987.

1075

norma – anzi, la norma – di chiusura dell’ordinamento, precisazione e garanzia del principio unitario di cui all’art. 5 della Costituzione 65.

Per unità giuridica possiamo intendere la necessità di evitare che un’omissione da parte delle Regioni o degli altri enti locali possa mettere a rischio la certezza del diritto o, più in generale, possa paralizzare il fun-zionamento dell’intero ordinamento giuridico. L’unità economica, inve-ce, mira a impedire situazioni di squilibrio negli scambi economici, non-ché si prefigge il fine di intervenire nei casi in cui l’inerzia o l’inadempi-mento regionale possa recare pregiudizio alla realizzazione degli obietti-vi di riforma economica e sociale, che investono l’intera collettività.

La clausola suindicata, avvalorata dalla necessità della “tutela dei li-velli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” 66, ri-prende in tutto e per tutto la formulazione che la Legge fondamentale di Bonn utilizza all’art. 72 per dare fondamento alla konkurrierende Geset-zgebung, cioè quel meccanismo di sovrapposizione legislativa progressi-va – ed eventuale – del Bund nei confronti dei Länder, ricorrente a deter-minate condizioni nel sistema federale tedesco 67. Qualcosa del genere stava per essere realizzato anche nel nostro ordinamento, ma il referen-dum oppositivo del 2006 ha respinto la legge di revisione costituzionale che, tra le altre norme, modificava anche l’art. 120, comma 2 68. Se tale riforma avesse superato positivamente il referendum – prescindendo in questa sede da ogni tipo di giudizio di merito sul contenuto complessivo della suddetta riforma, che non riguarda il tema trattato – probabilmente diversi nodi sarebbero venuti al pettine: infatti la riformulata disciplina

65 Interessanti sono le osservazioni in materia di “unità giuridica ed economica” di f. Biondi, I poteri sostitutivi, in Aa.Vv., L’incerto federalismo, a cura di n. zanon e a. concaro, Milano, 2005, 109 ss.

66 Sui livelli essenziali quali specificazione dell’unità giuridica ed economica nell’ordi-namento, v. e. BaLBoni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro determinazione, in «Le Regioni», 2003, 1183 ss. Sempre sui livelli essenziali, cfr. L. cuocoLo, I livelli essenziali del-le prestazioni: spunti ricostruttivi ed esigenze di attuazione, in «Dir. econ.», 2003, fasc. 2-3, 389 ss.; id., I livelli essenziali: allegro, non troppo, in «Giur. cost.», 2006, fasc. 2, 1264 ss.

67 Cfr. c. mainardis, Art. 120, in Commentario alla Costituzione, a cura di r. BifuLco, a. ceLotto, m. oLivetti, Torino 2006, 2397.

68 La nuova versione dell’art. 120, comma 2, disponeva: “Lo Stato può sostituirsi alle Re-gioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell’esercizio delle funzioni loro at-tribuite dagli artt. 117 e 118 nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in partico-lare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescin-dendo dai confini territoriali dei governi locali e nel rispetto dei principi di leale collaborazio-ne e di sussidiarietà”.

1076

da un lato aveva sostituito il termine “Governo” con “Stato”; dall’altro aveva genericamente – e opportunamente – previsto una sostituzione non nei confronti degli “organi delle Regioni…”, ma nei confronti delle auto-nomie territoriali in generale, pur facendo riferimento alle funzioni loro attribuite ex artt. 117 e 118 Cost.; infine, veniva meno la riserva di legge oggi presente all’art. 120, comma 2, in base alla quale è la legge a dover stabilire i meccanismi procedurali volti a far sì che la sostituzione si eser-citi sempre “nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. Proprio la presenza di una riserva in tale ambito è un argomento ulteriore a sostegno della impossibilità di configurare una sostituzione di tipo legislativo poiché, se le procedure relative alla sosti-tuzione devono essere disciplinate con legge, sembra logico che queste non possono che riferirsi agli atti amministrativi. Ecco allora che, ove fossero intervenuti i suddetti cambiamenti, ogni dubbio circa l’ammissi-bilità della sostituzione legislativa sarebbe stato superato.

Conclusione

Posto che, come sopra detto, la modifica dell’art. 120 Cost. non si è realizzata, proviamo a fornire qualche risposta rispetto ai tanti dubbi avanzati dalla dottrina in materia di poteri sostitutivi. La soluzione, già anticipata all’inizio del presente lavoro, consiste nel considerare la sosti-tuzione legislativa come espressione del sistema delle norme cedevoli 69, ossia svolgimento di quel meccanismo di sovrapposizione progressiva dello Stato alle Regioni e agli enti locali che non si adeguino al muta-mento dei principi fondamentali delle materie, quando la loro inerzia-inadempimento possa condurre a un pericolo per l’unità giuridica o per l’unità economica e in particolare per la “tutela dei livelli essenziali del-le prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Ovvio che qui sorge immediatamente un altro problema, dovuto al fatto che l’art. 120, comma 2 parla di “Governo” e non di “Stato”. Proba-bilmente, ogni perplessità sul punto potrebbe essere superata se si pensa che il Governo può avvalersi, sempre a determinate condizioni, dello strumento della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost. Del resto, l’elen-co di materie contenuto nell’art. 120, comma 2 Cost. – e in particolare,

69 Come dice r. Bin, voce Legge regionale, in Dig. disc. pubbl., vol IX, Torino 1994, 191: “benché il potere sostitutivo agisca, almeno in linea di principio, in via amministrativa, vi è un corrispettivo sul piano degli atti legislativi, l’emanazione di norme statali di dettaglio con valore suppletivo”.

1077

come più volte ripetuto, la necessità di tutelare l’unità giuridica ed eco-nomica – ben si presterebbe ai “casi straordinari di necessità e urgenza” indicati dall’art. 77 70. Sarebbe questo un particolare tipo di decreto leg-ge, atipico rispetto a quello configurato dall’art. 77 Cost., perché prefigu-rerebbe tassativamente le speciali forme di necessità e urgenza cui subor-dinarne l’adozione. Ma come risolvere il problema della riserva di legge prevista dall’art. 120, comma 2? In realtà, la stessa Corte Costituzionale, con sent. n. 71 del 2004, ha ammesso che la legge che prevede i presup-posti sostanziali per l’esercizio del potere sostitutivo possa rinviare ad un’altra fonte di rango primario per l’individuazione delle procedure ido-nee a realizzare la sostituzione medesima. Nel nostro caso, il già citato art. 8 della l. n. 131/2003 – rubricato “Attuazione dell’articolo 120 della Costituzione sul potere sostitutivo” – proprio perché stabilisce i mecca-nismi procedurali di cui sopra, ben può essere elevato al rango di para-metro interposto nel giudizio di costituzionalità sugli atti di sostituzione legislativa (come una legge delega rispetto a un decreto legislativo, o co-me una legge cornice rispetto alle norme di dettaglio regionali…). In tal modo, un decreto legge sostitutivo che non rispetti le condizioni poste dall’art. 8 suddetto, sarebbe incostituzionale per violazione, in via me-diata, dell’art. 120, comma 2, Cost. 71.

Ammettere la possibilità di poteri sostitutivi in via legislativa, piut-tosto che – come parte della dottrina sostiene – creare insanabili paralisi nei sistemi regionali, al contrario significherebbe porre fine al sistema delle norme cedevoli, escludendo in primo luogo la facoltà, per lo Stato, di porre preventivamente delle norme di dettaglio suppletive in materie di competenza regionale. Inoltre – e qui sarà importante il contributo della Corte Costituzionale – la presenza dei requisiti indicati in modo tassati-vo dall’art. 120, comma 2 – che rende il potere sostitutivo un istituto emergenziale ed eccezionale – dovrebbe essere un ulteriore elemento di tutela per l’autonomia di Regioni ed enti locali. Se a tutto questo aggiun-giamo la possibilità che la Corte eserciti un controllo da un lato sull’ef-fettiva sussistenza dei presupposti che legittimino l’esercizio del potere sostitutivo, dall’altro sulla congruenza e sulla proporzionalità delle misu-

70 Cfr. G. fontana, I poteri sostitutivi nella Repubblica delle autonomie cit., 1048-1049. Come sostiene l’A., “Si tratterebbe, dunque, non di un comune decreto-legge ma di un atto ri-sultante dalla combinazione dell’art. 77 e dall’art. 120 Cost.”. Dello stesso avviso G.u. resci-Gno, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in «Dir. pubbl.», 2002, 816-817.

71 Cfr. G. scaccia, Il potere di sostituzione in via normativa nella legge n. 131 del 2003, in «Le Regioni», 2004, 890.

1078

re adottate 72, allora non v’è dubbio sul fatto che l’art. 120, comma 2, pos-sa essere considerato il “meccanismo di chiusura” dell’intero sistema 73. Sarebbe questo un passo ulteriore verso lo sviluppo di un federalismo che, rebus sic stantibus, stenta a decollare e che a tutt’oggi rimane, come nel 2001, “malinteso” 74.

72 Cfr. sul punto a. ruGGeri, Riforma del titolo V e «potere estero» delle Regioni (nota-zioni di ordine metodico-ricostruttivo), in www.federalismi.it, 34.

73 Cfr. G. Pastori, Funzione amministrativa nel nuovo quadro costituzionale. Considera-zioni introduttive, in Annuario A.I.P.D.A. 2002, Milano, 2003, 463 ss.

74 V. a. anzon, Flessibilità dell’ordine di competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, in «Giur. cost.», 2003, 2782.

1079

DAVIDE PARISDottorando di ricerca in Diritto costituzionale

nell’Università degli Studi di Milano

RIFLESSIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE SULL’OBIEZIONE DI COSCIENZA ALL’INTERRUZIONE

VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA A 30 ANNI DALLA LEGGE N. 194 DEL 1978

Sommario: 1. Introduzione. – 2. I diversi soggetti tutelati dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978. – 3. L’obiezione di coscienza all’intervento abortivo fra costituzionalmente neces-sario e costituzionalmente illegittimo. – 4. Effetto pratico e significato teorico dell’obie-zione di coscienza dei soggetti che intervengono nel processo decisionale della gestante. – 5. Considerazioni conclusive.

1. Introduzione

Se per molti anni, almeno nel linguaggio corrente, il termine “obie-zione di coscienza” è stato comunemente utilizzato per indicare il servi-zio civile sostitutivo dell’obbligo militare di leva 1, tale associazione mentale in tempi più recenti sembra aver perso attualità. La sospensione della leva obbligatoria e la conseguente istituzione del servizio militare professionale su base volontaria (l. n. 331 del 2000) 2 hanno infatti deter-minato il netto ridimensionamento 3, in questo campo, di un istituto che negli anni precedenti aveva invece dato luogo a lunghe e complesse vi-cende istituzionali con riferimento alla modifica della legislazione in ma-

1 A conferma del carattere scontato del riferimento dell’obiezione di coscienza all’ambi-to militare si noti che né la prima legge in materia (l. 15 dicembre 1972, n. 772, Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza) né la seconda (l. 8 luglio 1998, n. 230, Nuove nor-me in materia di obiezione di coscienza) recavano nel titolo alcun riferimento all’obbligo mi-litare cui si riconosceva la possibilità di obiettare, evidentemente ritenendolo superfluo.

2 Sul punto v. F. PizzoLato, Servizio militare professionale e Costituzione, in «Quad. cost.», 2002, 771 ss.

3 Sulle «persistenti ragioni dell’obiezione di coscienza, pure nel nuovo sistema ad eser-cito professionale e volontario» v. V. turchi, Obiezione di coscienza, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Torino, 2003, 964.

1080

teria 4 e ad una assai nutrita giurisprudenza, di merito, di legittimità e co-stituzionale 5, oltre che ad un ampio dibattito nella società civile.

Lungi dal cadere nell’oblio in seguito alla sospensione dell’obbligo militare, l’istituto dell’obiezione di coscienza ha invece conosciuto una nuova vita in un ambito affatto diverso: deve infatti riconoscersi che, ne-gli ultimi decenni, si è verificata una sorta di “migrazione” dell’obiezio-ne di coscienza dal campo dell’organizzazione delle forze armate a quel-lo dell’organizzazione sanitaria, che ne rappresenta ad oggi il terreno pri-vilegiato soprattutto con riferimento agli interventi e alle scelte che con-cernono l’inizio e la fine della vita. Al proposito gli esempi non manca-no: se l’art. 9 della l. n. 194 del 1978 rappresenta sicuramente il caso più significativo e problematico fra le ipotesi di obiezione ad oggi espressa-mente riconosciute nel nostro ordinamento 6, il più recente è invece co-stituito dall’art. 16 della l. n. 40 del 2004 in materia di procreazione me-dicalmente assistita. A ciò si aggiunga che, qualora dovesse addivenirsi ad una positiva disciplina legislativa riguardante le scelte di fine vita non è da escludere che una nuova ipotesi di obiezione di coscienza venga in-trodotta nel nostro ordinamento 7, né si deve dimenticare, fra i casi di obiezione non riconosciuta, o quantomeno non espressamente ricono-sciuta, il caso della c.d. “pillola del giorno dopo”, il cui rifiuto di prescri-zione da parte di alcuni medici che invocavano il loro diritto all’obiezio-ne di coscienza è in tempi recentissimi giunto all’attenzione degli organi giudiziari 8.

4 Cfr. R. Venditti, L’obiezione di coscienza al servizio militare. Terza edizione aggiorna-ta secondo la legge n. 230/1998, Milano, 1999, 89-90.

5 Per un quadro sintetico della giurisprudenza in materia di obiezione di coscienza al ser-vizio militare v. rispettivamente F.E. adami, L’obiezione di coscienza nella giurisprudenza di legittimità e di merito, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza tra tutela della liber-tà e disgregazione dello Stato democratico, Milano, 1991, 113 ss., e G. dammacco, L’obiezio-ne di coscienza nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in R. Botta (a cura di), Dirit-to ecclesiastico e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 116 ss.

6 Per un quadro sintetico delle forme di obiezione di coscienza attualmente riconosciute in Italia v. B. Randazzo, Obiezione di coscienza (dir. cost.), in S. cassese (a cura di), Diziona-rio di diritto pubblico, Milano, 2006, 3873 ss.

7 Prevedono l’obiezione di coscienza in relazione alle scelte di fine vita, ad esempio, i progetti di legge C. n. 81 (primo firmatario on. Beltrandi), Norme sulla tutela della dignità del-la vita e disciplina dell’eutanasia, art. 5; C. n. 1597 (on. Binetti), Disposizioni sulle cure da prestare alla fine della vita come forma di alleanza terapeutica, art. 8 e S. n. 994 (sen. Baio), Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di trattamento, art. 8.

8 Si tratta di alcuni casi di denuncia per omissione d’atti d’ufficio; in uno dei più noti epi-sodi di questo genere il pubblico ministero ha di recente richiesto per la seconda volta l’archi-viazione, dopo che il giudice per le indagini preliminari aveva ritenuto necessarie ulteriori in-

1081

Ritornare a ragionare di obiezione di coscienza alle pratiche aborti-ve nel trentesimo anniversario dell’entrata in vigore della legge n. 194 non è pertanto attività priva di interesse: l’ampio arco temporale trascor-so, infatti, non solo non ha determinato il venir meno dell’attualità della tematica, ma, al contrario, permettendo l’osservazione del concreto ope-rare di questo istituto, consente di formulare delle valutazioni circa l’op-portunità e la stessa legittimità costituzionale della sua introduzione che non erano invece possibili nel momento dell’adozione della legge.

In generale, infatti, l’introduzione in una legge della possibilità di obiettare si basa sul presupposto che la legge stessa «tolleri» l’obiezione, la quale risulta cioè ammissibile soltanto nella misura in cui sia «comun-que garantita la soddisfazione degli interessi collettivi alla cui tutela so-no finalizzati gli obblighi cui si consente di derogare» 9. Ciò dipende, con tutta evidenza, dalla portata quantitativa del fenomeno, cioè dal numero effettivo di coloro che, avendone diritto, concretamente decideranno di fare ricorso all’obiezione, nonché da altri fattori (quali, nel caso in esa-me, la loro distribuzione geografica) che ugualmente incidono sulla pos-sibilità di concreta attuazione della legge: quanto maggiore sarà il nume-ro degli obiettori (e quanto meno territorialmente omogenea la loro di-stribuzione), tanto più arduo risulterà il conseguimento degli obiettivi da essa perseguiti.

Tali dati quantitativi, però, nel momento in cui la legge viene appro-vata non sono ovviamente disponibili al legislatore che al proposito non può che fare affidamento su una valutazione di tipo prognostico. Questa concerne non solo il profilo generale del raggiungimento o meno degli

dagini (ne dà notizia Corriere della sera, ed. di Roma, 17 novembre 2008). Sull’obiezione di coscienza alla prescrizione e alla vendita della c.d. «pillola del giorno dopo» v. G. di cosimo, I farmacisti e la «pillola del giorno dopo», in «Quad. cost.», 2001, 142 ss.; G. Boni, Il dibat-tito sull’immissione in commercio della c.d. pillola del giorno dopo: annotazioni su alcuni profili giuridici della questione, in particolare sull’obiezione di coscienza, in «Dir. fam. pers.», 2001, 677 ss.; N. GimeLLi, L’obiezione di coscienza dei farmacisti: cosa ne pensa la Corte eu-ropea dei diritti dell’uomo? Il caso Pichon e altri c. Francia. Il dibattito dottrinale italiano sul-la c.d. «pillola del giorno dopo», in «Dir. eccl.», 2004, 740 ss. e E. La rosa, Il rifiuto di pre-scrivere la c.d. «pillola del giorno dopo» tra obiezione di coscienza e responsabilità penale, disponibile in www.statoechiese.it e in corso di pubbl. negli Atti del Convegno Laicità e mul-ticulturalismo: profili penali ed extrapenali, (Messina 13-14 giugno 2008).

9 V. onida, L’obiezione di coscienza dei giudici e dei pubblici funzionari, in B. Perrone (a cura di), Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordinamenti, Mi-lano, 1992, 368. Il requisito della non compromissione dei fini perseguiti dalla legge è gene-ralmente ritenuto uno dei principali presupposti per l’ammissibilità dell’obiezione di coscien-za: per tutti v. F. onida, Contributo a un inquadramento giuridico del fenomeno delle obiezio-ni di coscienza (alla luce della giurisprudenza statunitense), in «Dir. eccl.», 1982, I, 237 ss.

1082

obiettivi della legge nonostante l’operare dell’obiezione di coscienza, ma anche quelli che si potrebbero chiamare i «costi» dell’obiezione di co-scienza. Quand’anche infatti gli scopi della legge possano essere ugual-mente conseguiti pur ammettendo l’obiezione di coscienza, inevitabil-mente questa determina un qualche aggravio nell’organizzazione ammi-nistrativa che alla legge deve dare attuazione. Nel momento dell’appro-vazione della legge tale aggravio, che generalmente non viene intera-mente sopportato dagli obiettori stessi bensì è addossato su altri specifi-ci soggetti o sulla collettività in generale, viene ritenuto giustificato dal-la necessità di tutelare le ragioni di coscienza degli aspiranti obiettori: nel bilanciare la tutela della libertà di coscienza con gli effetti che questa produce, il legislatore, nell’esercizio del potere discrezionale che costitu-zionalmente gli è riconosciuto, valuta, sulla base di una stima del nume-ro dei futuri obiettori, che la prima giustifichi i secondi. Quando però, con il passare del tempo e il concreto operare della legge e dell’obiezio-ne alla stessa, si riesce a disporre di dati quantitativi tali da permettere una più precisa definizione degli effetti dell’obiezione di coscienza e dei soggetti su cui essi ricadono, si pongono le condizioni, e la necessità, di riconsiderare tale scelta del legislatore tanto dal punto di vista dell’op-portunità quanto sotto il profilo della stessa legittimità costituzionale. In altre parole la legittimità costituzionale, e più ancora l’opportunità, delle leggi che prevedono l’obiezione di coscienza non sembra pienamente va-lutabile nel momento genetico della legge stessa, che necessita piuttosto di un periodico controllo al fine di soppesare nuovamente, alla luce dei dati quantitativi del fenomeno, legittimità e opportunità della scelta com-piuta, per così dire «alla cieca», dal legislatore 10.

10 Cfr., con specifico riferimento all’ipotesi oggetto del presente lavoro, A. D’atena, Commento all’art. 9, in C.M. Bianca, f.d. BusneLLi (a cura di), Commentario alla l. 22 mag-gio 1978, n. 194, in Le nuove leggi civili commentate, 1978, I, 1660-1661: «Ove la percentua-le delle obiezioni superasse i limiti di tolleranza delle strutture il diritto alla salute delle gestan-ti rischierebbe di essere gravemente sacrificato. Il che – al di là di ogni considerazione di op-portunità – potrebbe far seriamente dubitare della compatibilità della legge con l’art. 32 Cost. Con riferimento a questo punto, può dirsi che l’obiezione, in quanto tale, non confligge con la norma appena ricordata; la quale non impedisce al legislatore ordinario di contemperare le esi-genze connesse alla tutela della salute con le scelte di coscienza del personale sanitario. Una soluzione siffatta, tuttavia, in tanto potrebbe ritenersi ammissibile (alla stregua della Costitu-zione), in quanto risultasse concretamente idonea a garantire che il servizio – nonostante l’eso-nero di alcuni operatori – funzioni (e sia in grado di far fronte alla domanda di interventi abor-tivi). Ove ciò non accadesse (e la scelta legislativa non superasse il “collaudo” dell’esperien-za), non potrebbe pertanto escludersi la possibilità di un annullamento ad opera della Corte Costituzionale». Nello stesso senso, ma con riferimento più generale a qualsiasi ipotesi di obiezione di coscienza, S. manGiameLi, La «libertà di coscienza» di fronte all’indeclinabilità

1083

2. I diversi soggetti tutelati dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978

La scarsa chiarezza della delimitazione del campo soggettivo e og-gettivo dell’obiezione di coscienza prevista dall’art. 9 della legge n. 194 del 1978 è stata sin da subito sottolineata dalla dottrina 11, che ha propo-sto differenti soluzioni per (cercare di) comporre ad unità le antinomie che sembrano derivare dal contrasto fra la disposizione di cui al primo comma, che consente di non prendere parte «alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza», e quella contenuta nel comma 3, che «esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività spe-cificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’interven-to» 12.

Anche in considerazione del fatto che l’oscurità della disposizione in esame ha dato luogo nel corso di trent’anni ad un contenzioso giudi-ziale piuttosto limitato ancorché non privo di interesse 13, non sembra op-portuno in questa sede proporre un’ulteriore diversa lettura dell’art. 9, quanto piuttosto sottolineare che, quale che sia la sua più corretta inter-pretazione, esso in ogni caso equipara nel godimento del diritto all’obie-zione di coscienza due diverse categorie di soggetti che, a ben vedere, si

delle funzioni pubbliche (a proposito dell’autorizzazione del giudice tutelare all’interruzione della gravidanza della minore), in «Giur. cost.», 1988, 539.

11 Fra i primi commenti v. in particolare A. D’atena, Commento all’art. 9, cit., 1650 ss., che sottolinea l’eterogeneità dei criteri utilizzati dal legislatore per delimitare l’ambito di ope-ratività dell’obiezione di coscienza, quali l’individuazione delle attività in positivo e in negati-vo, il criterio teleologico e quello cronologico. Sulla «larghezza» dei criteri che individuano l’oggetto dell’obiezione v. anche F.C. PaLazzo, Obiezione di coscienza, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 544-545.

12 Per una discussione critica delle diverse ricostruzioni interpretative proposte v. M. zanchetti, La legge sull’interruzione della gravidanza, Padova, 1992, 238 ss.

13 Le pronunce specificamente concernenti l’estensione e i limiti dell’obiezione di co-scienza di cui si ha notizia si riducono essenzialmente a Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, in «Giur. it.», 1980, II, 184, con nota di V. ZaGreBeLsky; T.A.R. Emilia Romagna, 29 gennaio 1981, n. 30, in «Trib. Amm. Reg.», 1981, I, 961; Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 1983, n. 428, in «Con-siglio di Stato», 1983, I, 1027; Pret. Penne, 6 dicembre 1983, in «Giur. it.», 1984, II, 314, con nota di A. naPPi, I limiti oggettivi dell’obiezione di coscienza. Correttamente è stato notato (P. Moneta, Obiezione di coscienza. II) Profili pratici, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 5) che, a differenza di quanto avvenuto con riferimento all’obbligo militare, «per l’obiezione all’interruzione della gravidanza invece, di fronte ad un dato normativo già di per sé molto aperto verso gli obiettori, la giurisprudenza ha preferito, per lo più, assumere un indirizzo im-prontato a notevole prudenza, tendente a contenere e frenare, più che a sviluppare, le indicazio-ni favorevoli al riconoscimento delle esigenze di coscienza contenute nel sistema legislativo».

1084

pongono in posizione significativamente differente rispetto all’interven-to di soppressione del nascituro 14, cioè quell’evento la cui intollerabilità per la coscienza giustifica la previsione dell’obiezione. Non è da esclu-dere, del resto, che proprio nella comune sottoposizione alla medesima disciplina di due così differenti categorie di soggetti sia da individuare la causa di quelle difficoltà interpretative ben evidenziate dalla dottrina.

Un primo gruppo di soggetti cui è consentita l’obiezione di coscien-za, in primis i medici chiamati a svolgere gli accertamenti necessari per il rilascio del documento di cui all’art. 5, u.c., possono rifiutarsi di com-piere delle attività che sono finalizzate ad accertare la possibilità della scelta della gestante alla stregua dei parametri individuati dalla legge. Al contrario, ad un secondo gruppo di soggetti tutelati dall’art. 9, quali gli anestesisti e i ginecologi, è consentita la non partecipazione ad attività che, assumendo la scelta della donna come ormai compiuta ed irrevoca-bile, si pongono su un piano più strettamente esecutivo della stessa. Que-ste due categorie, divise in maniera sufficientemente chiara dallo spar-tiacque della scelta della gestante 15, benché assimilate nel trattamento giuridico, si differenziano in realtà assai significativamente tanto in con-siderazione dei presupposti che giustificano il riconoscimento dell’obie-zione di coscienza, quanto alla luce delle conseguenze che la loro scelta obiettoria determina con riferimento all’attuazione della legge; da ciò l’opportunità di procedere ad un esame separato delle due fattispecie.

3. L’obiezione di coscienza all’intervento abortivo fra costituzionalmen-te necessario e costituzionalmente illegittimo

La posizione dei soggetti direttamente chiamati a compiere l’inter-

14 Cfr. V. Onida, L’obiezione di coscienza dei giudici, cit., 371.15 Il momento della scelta definitiva della donna è individuato quale elemento discrimi-

nante nell’individuazione delle attività «specificamente e necessariamente dirette a determina-re l’interruzione della gravidanza» ai sensi dell’art. 9, comma 3, da Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, cit., 189-190, il quale ritiene che «non possa essere rifiutata nessuna attività, il compi-mento della quale lasci ancora spazio ad una desistenza dalla volontà di effettuare l’intervento abortivo» e considera pertanto legittimamente rifiutabili soltanto quelle attività «legate in ma-niera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico, all’intervento abortivo», quali «le attività immediatamente precedenti l’anestesia, l’anestesia vera e propria e l’intervento aborti-vo». Nella fattispecie veniva condannato per omissione di atti d’ufficio, con l’attenuante dei motivi di particolare valore morale, un cardiologo che, dichiarandosi obiettore di coscienza, si era rifiutato di effettuare un elettrocardiogramma necessario per poter eseguire un intervento abortivo in anestesia.

1085

vento interruttivo della gravidanza è caratterizzata dallo stretto nesso di causalità che corre fra l’azione richiesta e l’evento ritenuto in coscienza inaccettabile. Il riconoscimento del diritto di sottrarsi legittimamente a questi obblighi risponde infatti all’esigenza di tutelare chi, ancorché in esecuzione di un altrui legittima volontà, è chiamato ad essere il materia-le esecutore di un’attività che risulta intollerabile alla sua coscienza.

Se si analizza la fattispecie da un punto di vista «soggettivo», aven-do cioè riguardo al duplice profilo della percezione che l’obiettore ha dell’azione richiestagli e del significato che egli attribuisce al suo rifiuto, risultano certamente sussistere tutti i presupposti che rendono legittimo il ricorso all’obiezione di coscienza.

Sotto il primo profilo, volto a verificare l’attitudine dell’atto richie-sto a provocare un insostenibile turbamento della coscienza, occorre pre-mettere che, se il riconoscimento dell’obiezione trova il suo fondamento costituzionale nella protezione della libertà di coscienza 16, il ricorso a questa forma particolarmente elevata di tutela si giustifica soltanto in presenza di una situazione in cui l’eventuale adeguamento all’imperativo espresso dalla legge e contrastante con quello che il soggetto ritrova nel-la propria coscienza viene vissuto come un intollerabile tradimento nei confronti della propria persona, al punto che il soggetto finisce per non riconoscere più se stesso e sente di non poter esprimere un giudizio di di-gnità circa la propria azione e, più in generale, la propria vita. Le porte dell’obiezione di coscienza, in altri termini, sembrano potersi dischiude-re soltanto di fronte ad un contrasto fra imperativo interiore e imperativo esteriore talmente acuto da essere in grado di compromettere, se non se-guito, l’identità e la dignità della persona umana 17.

16 Con la sent. n. 467 del 1991 la Corte Costituzionale ha individuato nell’art. 2 Cost. la base per il riconoscimento della libertà di coscienza: «La protezione della coscienza individua-le si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garanti-ti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione» (punto 4 del Considerato in diritto). A commento di questa sentenza, con specifico riferimento al fondamento costituzio-nale della libertà di coscienza, v. J. Luther, I diritti della coscienza in attesa di una nuova leg-ge, in «Giur. it.», 1992, I, 633 ss. e P. Sassi, Una nuova sentenza della Corte Costituzionale in tema di obiezione di coscienza al servizio militare. Obiezione c.d. sopravvenuta e motivi reli-giosi, in «Giur. cost.», 1992, 475 ss. Per una più recente ricostruzione del dibattito dottrinale circa la rilevanza costituzionale della coscienza v. G. Di cosimo, Coscienza e Costituzione. I limiti del diritto di fronte ai convincimenti interiori della persona, Milano, 2000, 67 ss.

17 La configurazione dell’obiezione quale strumento di massima tutela della libertà di co-scienza e quindi la necessità di circoscrivere il suo utilizzo a quelle sole ipotesi in cui tale li-bertà sia intaccata nel nocciolo duro del suo contenuto sembra emergere chiaramente in parti-colare nella testé citata sent. n. 467 del 1991, al punto 4 del Considerato in diritto, dove si af-ferma che «la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in rela-

1086

Non vi è dubbio che, se si ha riguardo al significato che il soggetto attribuisce all’atto che l’ordinamento gli impone, nel caso in esame tale contrasto è certamente in grado, per la gravità percepita del comporta-mento richiesto, di ferire l’obiettore nella sua identità e dignità. Per chi infatti considera il concepimento quale inizio della vita umana e ritiene che a partire da quel momento il diritto alla vita del concepito non possa essere bilanciato con il diritto alla salute della gestante ma debba piutto-sto godere di una tutela in tutto uguale a quella di cui godono le persone già nate, l’azione richiesta viene a porsi in insanabile contrasto con il fondamentale imperativo morale del «non uccidere», configurandosi nel-la sua coscienza la soppressione del feto in tutto assimilabile all’uccisio-ne di una persona umana.

Per quanto invece riguarda il profilo del significato della scelta obiet-toria, vale a dire il diverso ordine assiologico espresso dal comportamen-to dell’obiettore rispetto alle scelte valoriali codificate nella legge, requi-sito indispensabile ai fini della legittimità del riconoscimento dell’obie-zione di coscienza è quello che il rifiuto dell’obiettore esprima un bilan-ciamento di valori che, ancorchè differente da quello compiuto dal legi-slatore, non sia comunque incompatibile con il quadro costituzionale ma, al contrario, trovi in esso legittimazione 18. Anche sotto questo aspetto il

zione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così ele-vato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)» (corsivo ag-giunto). Sul nesso obiezione di coscienza-identità personale v. L. Guerzoni, L’obiezione di co-scienza tra politica, diritto e legislazione, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 194, dove l’obiezione è descritta come «elemento costitutivo di un rifondato patto politi-co-costituzionale, nel cui quadro l’irrinunciabile fedeltà all’obbligo politico venga a porre sempre meno l’uomo e il cittadino in conflitto con la parte più preziosa di sé: la sua coscien-za, la sua personalità, in una parola la sua stessa identità» (corsivo nel testo). In questa prospet-tiva sembra potersi leggere l’affermazione di uno dei più famosi obiettori di coscienza, H.D. thoreau, «Se io non sono io, chi lo potrà mai essere?», cit. in R. BertoLino, Obiezione di co-scienza. 1) Profili teorici, in «Enc. giur. Treccani», XXI, Roma, 1990, 1.

18 Cfr. V. Turchi, Obiezione di coscienza, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIII, Torino, 1995, 526, secondo cui l’obiettore è portatore «di un valore che non è avulso dal contesto normati-vo; è proposto (…) come potenzialmente universale, e necessita anch’esso di un riferimento nel comune patrimonio valoriale dell’ordinamento, in particolare a livello costituzionale». Si-milmente R. BertoLino, Obiezione di coscienza, cit., 2: «L’obiezione non è considerata illega-le dall’ordinamento se fondi su convinzioni che, non ancora condivise, possono però essere ac-cettate e apprezzate dai consociati, tra i quali l’obiettore vive». Similmente v. T.A.R. Puglia, 10 febbraio 1986, n. 88, in «Trib. amm. reg.», 1986, I, 1480, secondo cui l’obiettore si appel-la «a valori morali, non parimenti valutati dalla comune coscienza collettiva e sociale, ma pur sempre meritevoli di considerazione e di rispetto, stante la forte tensione ideale degli stessi e la loro profonda ispirazione umana».

1087

riconoscimento di questa forma di obiezione di coscienza appare perfet-tamente legittimo: nel testimoniare la necessità di una tutela assoluta del-la vita prenatale, il comportamento dell’obiettore si discosta certo dalla «coscienza collettiva» di cui è espressione la legge che acconsente al bi-lanciamento del diritto alla vita del concepito con il diritto alla salute del-la madre, ma il suo bilanciamento si compie comunque fra beni giuridici dotati di un sicuro fondamento costituzionale. In particolare, la scelta obiettoria esprime la radicata convinzione dell’esigenza di una maggiore tutela della vita umana prenatale 19, cioè di un bene giuridico di cui non solo la Corte Costituzionale ha riconosciuto e ribadito il sicuro fonda-mento costituzionale 20, ma la cui tutela si pone anche fra le finalità cui espressamente si ispira la stessa legge che impone gli obblighi ritenuti in coscienza inaccettabili 21. Differente negli esiti da quello del legislatore, il bilanciamento di cui la scelta obiettoria è espressione insiste comunque su beni giuridici costituzionalmente tutelati e perseguiti dallo stesso legi-slatore.

Dal punto di vista soggettivo, in conclusione, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza per chi è chiamato ad eseguire l’intervento in-terruttivo della gravidanza non solo appare pienamente legittimo, ma, in considerazione della gravità del comportamento cui si chiede di potersi sottrarre, risulta forse essere una scelta costituzionalmente vincolata, per cui dovrebbe considerarsi illegittima una sua ipotetica futura abrogazione da parte del legislatore 22. Tale carattere costituzionalmente vincolato, del

19 Cfr. R. BertoLino, Obiezione di coscienza, cit., 2, secondo cui «l’obiettore all’aborto reclama di testimoniare il principio-cardine di ogni società umana: il rispetto della vita del na-scituro».

20 A partire dalla nota sent. n. 27 del 1975, con cui la Corte ha ritenuto che la situazione giuridica del concepito debba collocarsi, «sia pure con le caratteristiche sue proprie», fra i di-ritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.

21 Il riferimento è, ovviamente, all’art. 1, comma 1, l. n. 194 del 1978: «Lo Stato garan-tisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della ma-ternità e tutela la vita umana dal suo inizio».

22 La percezione del carattere costituzionalmente necessario dell’obiezione di coscienza non era del resto estranea al legislatore nel momento dell’approvazione della legge, come emerge dalla relazione di maggioranza delle Commissioni riunite Giustizia e Igiene e Sanità della Camera, riportata in G. GaLLi, v. itaLia, f. reaLmonte, m. sPina, c.e. traverso, L’inter-ruzione volontaria della gravidanza, Milano, 1978, 393 ss., dove i relatori, on. Del Pennino e G. Berlinguer, affermano che, a fronte dei timori della vanificazione degli obiettivi della legge a causa della possibile obiezione di coscienza di gran parte del personale medico, «non era (…) apparso ammissibile vietare il ricorso all’obiezione di coscienza in una materia che coin-volge così delicate questioni di principio e in cui l’imposizione per legge di un determinato comportamento configurerebbe, essa sì, una violazione costituzionale» (398). Esclude invece

1088

resto, non sembra potersi escludere in ragione del fatto che il dovere di compiere interventi abortivi non si configura come un obbligo gravante sulla totalità dei consociati, come era nel caso del servizio militare di le-va, ma più semplicemente come un onere per chi scelga una ben determi-nata professione. Si deve infatti considerare che, giusta l’assoluta gravità dell’attività richiesta 23, la mancata previsione della possibilità di sottrarsi al suo compimento determinerebbe una sostanziale preclusione dell’ac-cesso a determinate professioni per chi non ritenga in coscienza di poter partecipare a tali interventi. Con il che si avrebbe una palese violazione del diritto di scelta della professione quale aspetto imprescindibile dello sviluppo della persona umana, né varrebbe, alla luce del carattere deter-minante che riveste l’accesso alle strutture pubbliche per la concreta pos-sibilità di svolgere la professione medica, sostenere che essa è comunque

che l’introduzione dell’obiezione di coscienza costituisse per il legislatore una scelta obbliga-ta A. D’Atena, Commento all’art. 9, cit., 1651, n. 3. Il caso più interessante in materia è cer-tamente rappresentato da Corte cost., sent. n. 196 del 1987, dove la questione di legittimità co-stituzionale concerneva l’illegittimità dell’art. 12 della l. n. 194 del 1978 nella parte in cui non prevede il diritto di sollevare obiezione di coscienza per il giudice tutelare chiamato, in deter-minati casi, ad autorizzare la donna minorenne a decidere l’interruzione della gravidanza. Co-me opportunamente messo in luce dalla dottrina (cfr. E. rossi, L’obiezione di coscienza del giudice, in «Foro it.», 1988, I, 766), l’accoglimento della questione avrebbe determinato il ve-nir meno del monopolio del legislatore nell’introdurre forme di obiezione di coscienza, in quanto la Corte avrebbe riconosciuto «il potere non solo del legislatore ma anche suo proprio di trasformare un’obiezione di coscienza contra legem in un’obiezione secundum legem», ipo-tesi che peraltro tale pronuncia non sembra aver astrattamente escluso (così V. turchi, Obie-zione di coscienza, cit. 1995, 532 e, problematicamente, E. rossi, op. loc. cit.). Criticamente su questo specifico profilo della sentenza v. S. manGiameLi, La «libertà di coscienza», cit., 539, il quale, stante la ritenuta inesistenza di una copertura costituzionale dell’obiezione di co-scienza, giunge alla conclusione che «il mancato accoglimento di forme di obiezione di co-scienza non porrebbe mai una questione di costituzionalità, bensì di semplice opportunità», ri-solvendosi l’introduzione dell’obiezione stessa in «una scelta discrezionale rimessa al legisla-tore, il quale potrebbe, attraverso l’adozione di particolari forme organizzative, risolvere il conflitto senza richiedere la rinuncia, per il singolo, alla coerenza con il proprio “foro interno”, o alle funzioni assunte» (corsivo nel testo). Più in generale sul rapporto fra fondamento costi-tuzionale della libertà di coscienza e discrezionalità del legislatore nel riconoscere o meno l’obiezione v., diffusamente, A. PuGiotto, Obiezione di coscienza nel diritto costituzionale, in «Dig. disc. pubbl.», X, Torino, 1995, 243 ss.; da ultimo, circa la possibilità che «rispetto a comportamenti legittimamente configurati dalla legge come doverosi, la Costituzione impon-ga, espressamente o non, di riconoscere al singolo il diritto di obiettare ed in quali limiti» v. anche B. randazzo, Obiezione di coscienza, cit., 3871-3872.

23 Si noti, inoltre, che l’interruzione volontaria della gravidanza non coincide e non si identifica con la professione nel suo complesso, ma rappresenta soltanto uno degli interventi che possono essere richiesti a un ginecologo o a un anestesista; dal che la possibilità di distin-guere fra la scelta della professione ed il rifiuto di uno specifico compito ad essa connesso.

1089

possibile in regime esclusivamente privato. Detto in altri termini, e con-clusivamente, non sembra costituzionalmente legittimo disporre una seria limitazione delle concrete possibilità di realizzazione delle proprie aspi-razioni professionali a chi intende svolgere una determinata professione medica senza essere disposto ad abdicare alle proprie radicate convinzio-ni di coscienza che, ancorché non coincidenti con quelle della coscienza collettiva, risultano ugualmente meritevoli di tutela.

A porre in dubbio il carattere costituzionalmente vincolato del rico-noscimento dell’obiezione di coscienza per i soggetti direttamente coin-volti nell’intervento abortivo interviene piuttosto il profilo «oggettivo» di questa forma obiettoria, vale a dire l’analisi dei concreti effetti che essa determina sull’attuazione della legge che la prevede. Come infatti testi-moniano i dati esposti nelle relazioni ministeriali che annualmente devo-no essere presentate al Parlamento ai sensi dell’art. 16 della legge n. 194, l’obiezione di coscienza di cui all’art. 9 ha avuto, fra queste categorie di soggetti, una notevole e crescente diffusione al punto da porsi attualmen-te, per ginecologi e anestesisti, quale scelta maggioritaria 24. Del resto, se in termini generali «l’obiezione, per definizione è fenomeno sociale mi-noritario» 25, non è affatto scontato che, quando essa sia prevista per una specifica categoria professionale anziché per la generalità dei consociati, le scelte di coscienza di tale categoria rispecchino quelle della coscienza collettiva che ha espresso la legge. In generale ciò ha certamente un signi-ficato latamente politico su cui si tornerà più avanti; ugualmente però, una simile diffusione dell’obiezione di coscienza, rappresentando una delle principali cause delle difficoltà e dei ritardi nella garanzia del servizio predisposto dalla legge n. 194, pone la questione della «effettività» della legge stessa e quindi, per le ragioni più sopra esposte, della legittimità co-stituzionale della disposizione che prevede l’obiezione.

L’obiezione di coscienza all’intervento interruttivo della gravidanza sembra così porsi al paradossale crocevia fra ciò che è costituzionalmen-te necessario e ciò che è costituzionalmente illegittimo. Dal punto di vi-sta della gravità del comportamento richiesto e del pregiudizio che la sua mancata previsione determinerebbe in capo all’obiettore essa risulta sot-

24 Cfr. la Relazione del Ministro della salute sulla attuazione della legge contenente nor-me per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/1978) dell’anno 2008, in www.ministerosalute.it, 34: «Si evince un notevole aumento ge-nerale dell’obiezione di coscienza negli ultimi anni per tutte le professionalità, con percentua-li pari al 69.2% per i ginecologi (rispetto al 59.6% della precedente relazione), 50.4% per gli anestesisti (rispetto a 46.3%) e 42.6% per il personale non medico (39% nella precedente re-lazione). Questi valori raggiungono percentuali particolarmente elevate nel sud Italia».

25 R. BertoLino, Obiezione di coscienza, cit., 1.

1090

tratta all’area della discrezionalità del legislatore e assistita dalla garan-zia dell’opzione costituzionalmente obbligata. Avendo invece riguardo agli effetti che il suo utilizzo di fatto generalizzato produce, la stessa nor-ma si espone al rischio di essere giudicata costituzionalmente illegittima, contrastando «con la natura stessa di ogni ordinamento giuridico, la cui prima esigenza è quella della vigenza e dell’effettività delle leggi» 26. Ta-le tensione sembra potersi ricomporre nell’affermazione del principio se-condo cui, in questo caso specifico, ove sia comunque possibile raggiun-gere le finalità della legge, il legislatore sia tenuto a riconoscere l’obie-zione di coscienza ma, ai fini di garantirne la legittimità costituzionale, debba contestualmente introdurre misure necessarie ed adeguate al rag-giungimento di tali finalità. Un rilievo centrale assumono allora, alla lu-ce di questa impostazione, gli strumenti disponibili per assicurare che il ricorso all’obiezione di coscienza non si risolva in una sostanziale im-possibilità di dare attuazione alla legge che la prevede 27.

Tale preoccupazione non era certo estranea al legislatore del 1978 28 che, all’art. 9, comma 4, prevede, in capo agli enti ospedalieri e alle case di cura autorizzate, l’obbligo di assicurare in ogni caso l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza e affida alla Regione il compito di controllare e garantire l’attuazione della legge stessa. A fron-te di questi obblighi, però, assai poco la legge dice circa il come tali sog-getti possano adempiervi. Nulla infatti viene previsto in merito agli stru-menti giuridici utilizzabili dagli enti ospedalieri, che sono generalmente ricorsi alle convenzioni con le case di cura autorizzate, soluzione che,

26 Pret. Ancona, 9 ottobre 1979, cit., 189.27 Si noti che la garanzia del raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalla legge è an-

che l’elemento determinante che permette di superare le più radicali (e altrimenti fondate) cri-tiche all’obiezione di coscienza, di cui si contesta in radice la compatibilità con il principio de-mocratico (così, in via generale, G. Gemma, Brevi note critiche contro l’obiezione di coscien-za, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 319 ss., che parla di un istituto «giu-ridicamente irrazionale» che «consente che minoranze anche ristrette (…) vanifichino o com-promettano le manifestazioni di volontà popolare, in totale contrasto con la logica democrati-ca» (322); secondo la medesima prospettiva, con specifico riferimento all’oggetto di questo studio, C.E. traverso, Commento all’art. 9, in G. GaLLi, v. itaLia, f. reaLmonte, m. sPina, c.e. traverso, L’interruzione volontaria della gravidanza, cit., 222 ss.).

28 Né ha perso di attualità se si considera che i primi mesi del 2008 hanno visto il Mini-stero della Salute impegnato nell’avviare il confronto con i rappresentanti delle Regioni per la messa a punto di un’intesa per una migliore applicazione della legge n. 194 che prevedeva, fra l’altro, la presenza, almeno in ogni distretto, di un medico non obiettore, nell’ottica della ridu-zione dei tempi di attesa fra certificazione e intervento abortivo. Il testo dello schema di inte-sa che, negli auspici del Ministero, doveva essere conclusa entro il 6 marzo 2008, è disponibi-le in www.ministerosalute.it

1091

qualora ampiamente praticata, finisce per smentire di fatto la chiara im-pronta pubblicistica della legge n. 194 29. Per quanto riguarda le Regioni, invece, l’unico riferimento è alla «mobilità del personale», soluzione di per sé non risolutiva quando l’obiezione di coscienza non riguardi speci-fiche situazioni locali ma rappresenti una situazione ampiamente e omo-geneamente diffusa all’interno della Regione.

Il problema giuridicamente più delicato che si pone in questo senso riguarda la legittimità di forme di garanzia dell’attuazione della legge n. 194 che abbiano effetti penalizzanti nei confronti dei medici non obietto-ri, ossia se, concretamente, le aziende sanitarie locali e le aziende ospeda-liere possano bandire concorsi per anestesisti e ginecologi con la clauso-la di non sollevare obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9, l. n. 194 30. Tali formule concorsuali indubbiamente hanno un carattere pregiudizie-

29 Cfr. Piano regionale di salute 2008-2010 della Regione Puglia, approvato con l.r. 19 settembre 2008, n. 23, dove si legge che «l’elevato numero di IVG effettuate in strutture priva-te in Puglia (quasi il 50% del totale) (…) è in gran parte riconducibile alla situazione creatasi nella nostra regione all’indomani della approvazione della legge 194 quando, a fronte di una massiccia dichiarazione di obiezione di coscienza dei ginecologi dei servizi pubblici, fu garan-tita la possibilità di effettuare la IVG all’interno di cliniche private convenzionate che, nel cor-so degli anni, hanno assorbito quasi interamente la domanda. Questo modello, con il passare del tempo, ha di fatto creato le condizioni per una progressiva marginalizzazione delle misure di prevenzione del ricorso all’aborto. Si pone pertanto la necessità di “riportare” gradualmen-te la gestione delle IVG all’interno del pubblico, riequilibrando l’offerta di servizi dedicati e riconoscendo al consultorio familiare un ruolo fondamentale sia nelle attività di prevenzione della interruzione volontaria di gravidanza, che nella presa in carico delle donne che richiedo-no l’intervento di interruzione volontaria di gravidanza». Sulla limitazione dell’intervento di interruzione volontaria della gravidanza alle strutture pubbliche v. M. zanchetti, L’interruzio-ne volontaria della gravidanza, cit., 205 ss.

30 Cfr. T.A.R. Emilia-Romagna, sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in «Foro amm.», 1983, I, 735, che ritiene legittima la decadenza pronunciata nei confronti del medico che, as-sunto per assicurare il servizio di interruzione volontaria della gravidanza sulla base di avviso pubblico contenente espressamente la clausola secondo cui i candidati dovevano dichiarare nella domanda di non sollevare obiezione di coscienza, non appena assunto l’incarico aveva comunicato la propria obiezione di coscienza, affermando di aver reso la necessaria dichiara-zione al solo fine di non rimanere privo di impiego e di ritenere che l’obiezione non fosse sot-toponibile a preclusioni di sorta. Si noti che, sebbene il rigetto del ricorso è determinato prin-cipalmente dalla sua inammissibilità dovuta alla mancata impugnazione della delibera del co-mitato di gestione che prevedeva la citata clausola, il giudice amministrativo sembra comun-que ritenere legittima l’esclusione degli obiettori, affermando che «l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza subisce un naturale limite nel caso in cui tale esercizio impedisca l’effettuazione del servizio per il quale il dipendente venne assunto, essendo peraltro consape-vole delle prestazioni che gli sono state richieste» (736). Nel senso dell’illegittimità dei con-corsi che escludono il personale obiettore M. zanchetti, La legge sull’interruzione della gra-vidanza, cit., 250.

1092

vole per la libertà di coscienza dei partecipanti, sia nel senso di preclude-re la partecipazione a chi si dichiari obiettore di coscienza, sia nei con-fronti di chi, assunto con la suddetta clausola, abbia successivamente a maturare un convincimento interiore contrario alle pratiche abortive e si trovi nell’impossibilità di sollevare obiezione di coscienza senza incorre-re nella risoluzione del proprio rapporto di lavoro 31. In un caso come nell’altro la libera determinazione del soggetto viene indirizzata verso una precisa scelta attraverso la previsione di conseguenze certamente pregiudizievoli qualora il soggetto sollevi l’obiezione, il che, indubbia-mente, concreta una forma di limitazione della libertà di coscienza. Il punto diventa perciò stabilire se, ed entro quali limiti, la compressione di questa libertà fondamentale possa considerarsi giustificata in ragione del perseguimento dei fini per cui essa è prevista o se invece essa configuri un’illegittima discriminazione sulla base delle personali convinzioni di coscienza.

In presenza di un diffuso ricorso all’obiezione di coscienza un utiliz-zo in termini assai contenuti di queste clausole contrattuali non sembra da escludere a priori. L’esigenza di ricorrere a tali clausole, infatti, è de-terminata dalla stessa obiezione di coscienza e in qualche modo è finaliz-zata a renderla possibile 32, o, più correttamente, ad assicurare «un accet-tabile grado di compatibilità tra l’obiezione di coscienza e la funzionali-tà del servizio sanitario in relazione agli interventi diretti a provocare l’interruzione della gravidanza» 33. Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, del resto, se da una parte non può comportare conseguenze così pregiudizievoli per l’obiettore da rendere di fatto impossibile il suo esercizio, dall’altra non richiede che l’obiettore debba essere tenuto as-solutamente indenne dalle conseguenze che la sua stessa scelta compor-ta. Diversamente argomentando il peso delle esigenze di coscienza di al-cuni finirebbe per gravare esclusivamente su altri soggetti (nel caso con-creto le gestanti, per le quali si determina un allungamento dei tempi

31 Per un caso di questo genere cfr. T.A.R. Campania, sez. IV, 3 maggio 1989, n. 78, in «Trib. amm. reg.», 2570.

32 Fra le alternative possibili, infatti, rientra anche la più drastica soluzione proposta da S. rodotà, Problemi dell’obiezione di coscienza, in «Quad. dir. pol. eccl.», 1993, 1, 64, il qua-le ritiene ragionevole che «dovendo predisporre un funzionamento dei servizi sanitari tale da rendere possibile la risposta alle richieste delle donne, le autorità pubbliche possano stabilire modalità di reclutamento del personale che esplicitamente escludano, per il futuro, l’obiezio-ne di coscienza. In sostanza, chi aspira a un determinato lavoro viene informato delle sue par-ticolari modalità di svolgimento. Può così valutarne la compatibilità con le proprie convinzio-ni e, qualora lo ritenga incompatibile, rinunciarvi preventivamente».

33 A. d’atena, Commento all’art. 9, cit., 1651.

1093

d’attesa, e i medici non obiettori, chiamati a svolgere un numero maggio-re di interruzioni volontarie della gravidanza 34), venendosi così ad affer-mare una sorta di principio di irresponsabilità dell’obiettore rispetto alle proprie scelte di coscienza. Al contrario, se i costi dell’obiezione di co-scienza vengono sopportati anche dagli obiettori stessi, si perviene ad un maggior riequilibrio fra medici obiettori e non-obiettori, che, senza vani-ficare il nucleo essenziale della tutela della libertà di coscienza e, in que-sto caso, della libera scelta della professione, avrebbe anche l’effetto di saggiare la serietà della scelta obiettoria ed evitare un uso opportunistico della stessa 35.

L’utilizzo di tali clausole, in ogni caso, dovrebbe essere ragionevol-mente contenuto nei termini strettamente necessari alla garanzia del buon funzionamento di quanto previsto dalla l. n. 194, per cui il pregiudizio che l’obiettore viene a subire rimane nell’ambito delle conseguenze del-la propria scelta responsabilmente accettabili e non degenera invece in una forma nemmeno troppo velata di coartazione della coscienza. L’obiet-tore che, di fronte alla scelta degli organi amministrativi di riservare al-cuni posti a personale non obiettore, si ritenga vittima di una discrimina-zione in violazione della sua libertà di coscienza e del suo diritto a libe-ramente scegliere la sua professione, avrebbe naturalmente a disposizio-ne il ricorso al giudice amministrativo, chiamato a valutare la legittimità, nei termini della ragionevolezza e della stretta necessarietà, della restri-

34 Si noti che, anche per i medici che non ritengono di sollevare obiezione di coscienza, l’interruzione volontaria della gravidanza risulta ugualmente uno degli interventi più impegna-tivi, se non dal punto di vista tecnico, certamente da quello psicologico ed emotivo, da cui la le-gittima aspettativa ad un’equa distribuzione di questo particolare carico di lavoro. Del resto, nel momento in cui si sceglie se avvalersi o meno dell’obiezione di coscienza, in presenza di una certa incertezza nella decisione, può giocare un ruolo determinante la consapevolezza che, qua-lora non si intenda obiettare gli interventi di interruzione volontaria della gravidanza rappresen-teranno un’alta percentuale del proprio lavoro, non essendo molti i medici non obiettori.

35 La mancata previsione di una prestazione alternativa per il medico obiettore, in analo-gia a quanto avveniva per l’obiezione di coscienza al servizio militare, è stata frequentemente criticata. V., in particolare, F. onida, Contributo a un inquadramento giuridico, cit., 245 ss., che ritiene che in questo caso il «peso» della prestazione sostitutiva, in termini di «durata, sgradevolezza, pericolosità», potrebbe essere ragionevolmente «un poco più gravoso rispetto a quello della prestazione rifiutata» (257); contra, nel senso della non irragionevolezza del regi-me differenziato delle due ipotesi obiettorie, G. DaLLa Torre, Obiezione di coscienza e valori costituzionali, in R. Botta (a cura di), L’obiezione di coscienza, cit., 55. Da un diverso punto di vista si è sottolineato come sia invece quella al servizio militare «l’unica ipotesi di obiezio-ne riconosciuta per la quale il legislatore ha previsto una prestazione alternativa» (B. randaz-zo, Obiezione di coscienza, cit., 3874).

1094

zione prevista alla luce delle esigenze concretamente documentabili di garanzia dell’attuazione della legge e dell’impraticabilità o inopportuni-tà di soluzioni differenti.

4. Effetto pratico e significato teorico dell’obiezione di coscienza dei soggetti che intervengono nel processo decisionale della gestante

La posizione dei soggetti coinvolti nella fase prodromica alla deci-sione della gestante 36 si differenzia in maniera significativa, con riferi-mento all’obiezione di coscienza, da quella appena analizzata sotto due principali profili.

In primo luogo si deve considerare la diversa idoneità dell’atto ri-chiesto a ledere nel profondo la coscienza dell’obiettore 37: l’insostenibi-le dissidio interiore che si determina nel medico nel momento di proce-dere con le proprie mani alla soppressione del feto, risulta necessaria-mente affievolito nella diversa ipotesi in cui sia richiesto di certificare, al-la luce di parametri che il medico non condivide, ma comunque dotati di un carattere oggettivo (almeno nelle intenzioni del legislatore), l’esisten-za dei presupposti per autorizzare l’intervento abortivo. Se è vero, infat-ti, che in entrambi i casi il medico concorre alla realizzazione di un even-to che egli giudica inaccettabile, la partecipazione del soggetto a tale evento è però sicuramente inferiore e qualitativamente diversa (meno

36 Fra i soggetti cui è riconosciuto il diritto di sollevare obiezione di coscienza apparte-nenti a questa categoria non rientra, come noto, il giudice tutelare, rispetto al quale la manca-ta previsione dell’obiezione di coscienza non è stata dalla Corte ritenuta costituzionalmente il-legittima nella sent. n. 186 del 1987 (cfr. supra, n. 22, cui adde J. Luther, L’aborto: tema con variazioni per legislatori, giudici e custodi della Costituzione, in «Giur. cost.», 1987, 2989 ss.). Sulla questione dell’obiezione di coscienza del giudice tutelare v. anche le successive or-dinanze di manifesta infondatezza nn. 445 del 1987 e 514 del 2002.

37 Cfr., limpidamente, V. onida, L’obiezione di coscienza dei giudici, cit., 371: «Coloro che sono chiamati ad accertare l’esistenza dei presupposti che rendono tale scelta [la scelta di abortire] consentita dall’ordinamento, non esprimono una volontà diretta a conseguire l’effet-to dell’interruzione della gravidanza, ma compiono un accertamento, da cui può conseguire la liceità per l’ordinamento statale, della scelta della gestante, resa così insuscettibile di sanzio-ni. Il problema, dunque, più e prima della coscienza di coloro che sono chiamati a compiere tali accertamenti, implica la coscienza della donna. Diverso è il caso del medico che è chiama-to a operare l’aborto, cioè a svolgere un’attività che è direttamente causativa dell’interruzione della gravidanza. Penso che nessun medico possa accettare che gli venga imposto come attivi-tà terapeutica qualcosa che egli non ritiene personalmente sia un’attività terapeutica». Coeren-temente con questa impostazione lo stesso autore dubita dell’opportunità dell’estensione dell’obiezione di coscienza alla partecipazione alle procedure preliminari.

1095

stringente di conseguenza risultando il giudizio di responsabilità che l’obiettore formula nei confronti di se stesso), quando si tratti di interve-nire in un procedimento che ha come esito quello di autorizzare la deci-sione della gestante che ancora potrebbe desistere dal proposito abortivo nel periodo di ripensamento legislativamente previsto, ovvero quando si tratti di compiere materialmente l’atto ritenuto in coscienza inaccettabi-le, senza alcuna speranza di poterlo scongiurare anche grazie al proprio intervento, soltanto limitandosi a dare corso ad un’altrui volontà ormai irrevocabile. Se nel primo caso, pur nei limiti imposti dalla legge, il me-dico può ritenere la propria opera utile a scongiurare l’evento abortivo, e, quando tale evento dovesse comunque verificarsi egli può ritenere di fronte alla propria coscienza di aver fatto tutto il possibile per evitarlo nei limiti del rispetto della legge e della autonoma deteminazione della ge-stante, altrettanto non vale per chi quell’intervento deve realizzarlo, ve-dendosi preclusa qualsiasi possibilità di agire nella direzione impostagli dalla sua coscienza.

Queste considerazioni sembrano far propendere nel senso dell’im-possibilità di riferire anche al caso in esame il carattere costituzional-mente necessario che, pur con molte cautele, si è ritenuto assistere la di-versa fattispecie obiettoria poco sopra esaminata. L’estensione della pos-sibilità di sollevare obiezione anche a soggetti diversi dall’equipe medi-ca deputata a svolgere l’intervento abortivo rappresenta al contrario una scelta di ampia tutela della libertà di coscienza, resa possibile dal secon-do profilo che distingue queste due categorie di soggetti. A differenza dell’ipotesi analizzata nel paragrafo precedente, infatti, in questo caso non si pongono significativi problemi di garanzia dell’effettività della legge, dal momento che il numero di medici abilitati al rilascio del docu-mento autorizzante l’interruzione volontaria della gravidanza è di gran lunga superiore a quello dei medici abilitati a svolgere l’intervento 38. Ta-le profilo sembra centrale nel riconoscimento di questa forma di obiezio-ne di coscienza: nell’estendere l’obiezione anche a questa categoria di soggetti, il legislatore sembra essersi basato essenzialmente da una parte sullo scarso aggravio che essa comporta ai fini dell’effettività della leg-ge, dall’altra sulla difficoltà di ottenere comunque la collaborazione di una parte dei medici all’attuazione della legge 194 39; in minor conto

38 Del resto l’allargamento della sfera dei medici abilitati al rilascio del documento auto-rizzatorio è stato determinato proprio dal timore che una diffusa obiezione di coscienza vani-ficasse le previsioni della legge, come nota M. Zanchetti, La legge sull’interruzione della gra-vidanza, cit., 159.

39 Sull’impossibilità «di costringere ad agire chi assolutamente non voglia» quale «mo-

1096

sembrano invece essere stati tenuti i profili dell’effetto pratico e del si-gnificato del comportamento obiettorio, sui quali invece è possibile svol-gere alcune considerazioni critiche.

Si deve infatti notare che la scelta di obiettare risulta chiaramente controproducente dal punto di vista dell’obiettore stesso, il quale, autoe-scludendosi da tutte le fasi del percorso che può sfociare nell’interruzio-ne volontaria della gravidanza, di fatto evita di portare il suo contributo anche in quella fase procedurale che, ai sensi della legge, dovrebbe ave-re lo scopo di evitare, per quanto possibile, l’evento abortivo, fase nella quale l’obiettore può ragionevolmente ritenere il suo intervento più effi-cace nello scongiurare l’interruzione della gravidanza rispetto a quello di un collega non così radicalmente contrario all’aborto. Il problema è noto ed è stato affrontato soprattutto da quella parte della dottrina più favore-vole all’esercizio dell’obiezione di coscienza 40, che ha individuato nella scissione temporale del momento del colloquio da quello del rilascio del documento la soluzione de iure condendo più idonea a contemperare obiezione di coscienza e intervento dissuasivo del medico 41. De iure condito invece la questione rimane aperta, dovendosi ritenere poco riso-lutiva l’interpretazione per cui al medico obiettore sarebbe preclusa la consegna del documento ma non il colloquio ad essa precedente 42. Es-sendo il colloquio presupposto indispensabile per il rilascio del docu-mento autorizzatorio, le situazioni che possono verificarsi sono essen-zialmente due. Se la donna non è a conoscenza della scelta obiettoria, non sembra corretto, in primis da un punto di vista deontologico, che il medico effettui il colloquio lasciando alla gestante, al termine dello stes-

tivo realisticamente politico (…) per concludere a favore dell’ammissione e della regolamen-tazione dell’obiezione di coscienza» v. F. onida, Contributo a un inquadramento giuridico, cit., 236.

40 V., ad esempio, C. Casini, f. cieri, La nuova disciplina dell’aborto, Padova, 1978, 168, e G. DaLLa torre, Diritti dell’uomo e ordinamenti sanitari contemporanei: obiezione di coscienza o opzione di coscienza?, in B. Perrone (a cura di), Realtà e prospettive dell’obie-zione di coscienza, cit., 293 ss., che vedono nell’obiezione di coscienza l’unica scelta confor-me all’ordinamento costituzionale, quale disobbedienza ad una legge che si pone al di fuori del quadro costituzionale. Sul rapporto regola-eccezione in questo specifico caso di obiezio-ne di coscienza v. S. Prisco, Stato democratico, pluralismo dei valori, obiezione di coscien-za. Sviluppi recenti di un antico dibattito, in id., Laicità. Un percorso di riflessione, Torino, 2007, 119.

41 Cfr. L. euseBi, Tutela giuridica dell’embrione ed esigenze irrisolte di prevenzione dell’aborto, in E. sGreccia, V. MeLe (a cura di), Ingegneria genetica e biotecnologie nel futu-ro dell’uomo, Milano, 1992, 333 ss.

42 Così C. casini, f. cieri, La nuova disciplina dell’aborto, Padova, 1978, 168.

1097

so, la sorpresa della sua inutilità ai fini del rilascio del documento 43. Se invece la donna è al corrente del fatto che il medico in ogni caso non ri-lascerà il documento, l’eventuale colloquio che abbia comunque a svol-gere con il medico, per quanto utile e determinante esso possa essere per le sue scelte, non può rientrare nella previsione dell’art. 5 della l. 194, ma si pone quale libera scelta della gestante che, nel momento di prendere una così difficile decisione, può naturalmente scegliere di consultarsi con chiunque ritenga più opportuno. Tale colloquio, in altri termini, si fonda sulla fiducia che la donna ripone nel proprio medico e non sulla sua ne-cessarietà ai sensi dell’art. 5, tanto è vero che, qualora intenda procedere all’interruzione della gravidanza, dovrà rivolgersi ad un diverso medico, con il quale nuovamente effettuare il colloquio previsto, non potendosi ritenere detta fase già precedentemente espletata: la lettera della legge non consente infatti interpetazioni che neghino l’identità soggettiva fra l’autore del colloquio e colui che rilascia il documento.

Così disciplinata, peraltro, l’obiezione di coscienza non torna sol-tanto a danno dell’obiettore posto di fronte ad una scelta in ogni caso scarsamente soddisfacente, ma nemmeno appare vantaggiosa dal punto di vista della legge stessa. Se in termini astratti, infatti, è richiesto al me-dico di valutare la richiesta di interruzione della gravidanza alla luce dei parametri da essa stabiliti e indipendentemente dalle proprie convinzioni personali, di fatto sembra inevitabile che il grado dissuasivo del collo-quio sia necessariamente legato alla gravità che nella propria coscienza il medico associa all’intervento abortivo. Sia sotto il profilo formale del comportamento astrattamente richiesto al medico, sia sotto quello più re-alistico di ciò che concretamente avviene, appare in ogni caso contraria all’interesse della legge la selezione del personale medico che l’obiezio-ne di coscienza così disciplinata determina, facendo sì che l’attuazione della legge, soprattutto nella parte in cui più rileva l’apporto personale e umano del medico e non solo la sua stretta competenza «chirurgica», sia rimessa ad una categoria di medici che inevitabilmente finisce per essere individuata sulla base delle proprie convinzioni di coscienza e non riflet-te quindi a pieno quel pluralismo di convinzioni personale che invece ca-ratterizza la classe medica globalmente considerata e, prima ancora, la società nel suo complesso.

Alcune considerazioni problematicamente critiche si possono inol-

43 Ed infatti ritengono «deontologicamente corretto che l’obiettore, fin dal momento del primo approcio con la donna, debba farle presente la sua qualità di obiettore e di non essere quindi disposto al rilascio del certificato e del documento, né, comunque, ad aiutarla ad abor-tire» C. Casini, F. cieri, La nuova disciplina dell’aborto, cit., 169.

1098

tre svolgere circa il significato del comportamento obiettorio, soprattutto per quel che riguarda il delicato e incerto rapporto fra obiezione di co-scienza e suo potenziale utilizzo a fini politici 44. Come sopra accennato, e come meglio si riprenderà in sede di conclusioni, l’esercizio dell’obie-zione di coscienza ha inevitabilmente un significato latamente politico, nel messaggio che essa lancia alla collettività e al legislatore: nel caso di specie, l’obiezione dei medici ricorda alla società italiana, e ai suoi rap-presentanti in Parlamento, che la questione della tutela della vita prena-tale è assai lungi dall’aver raggiunto un punto di equilibrio stabile e da tutti condiviso e, concretamente, mantiene viva l’attenzione sul tema, ciò che rappresenta la necessaria premessa per un’eventuale futura revisione legislativa. Se però tale significato politico in senso ampio degenera in una precisa volontà di non dare attuazione ad una legge non condivisa, e da corollario dell’obiezione di coscienza ne diventa invece il fine princi-pale, allora vengono meno i presupposti che giustificano l’ammissibilità dell’obiezione di coscienza, soprattutto se essa è riconosciuta non alla generalità dei consociati ma ad una specifica categoria professionale. In altre parole, se nel comportamento obiettorio è intrinsecamente insito un significato politico cui un legislatore accorto non dovrebbe essere insen-sibile, la ratio per cui l’obiezione viene riconosciuta è da individuarsi nella protezione della coscienza di chi è chiamato ad attuare una legge che determina esiti inaccettabili per la sua coscienza, non certamente nel-la volontà di permettere ad una ristretta cechia di consociati di contesta-re una scelta democraticamente legittimata rifiutandone l’applicazione. Utilizzata per questo scopo, da forma di tutela della coscienza, l’obiezio-ne si trasformerebbe piuttosto in un improprio strumento di lotta politica, che permetterebbe di protrarre nel proprio ambito professionale una bat-taglia politica che invece si deve consideare conclusa, ancorchè sempre passibile di revisione, nelle aule parlamentari (e nelle urne del referen-dum). La battaglia politico-culturale per una maggiore tutela della vita prenatale, infatti, condivisa o meno che sia, è pienamente legittima se esercitata nelle forme democratiche previste dalla Costituzione, fra le quali però non rientra, e non può rientrare, la possibilità di contestare la legge attraverso la sua disapplicazione da parte di chi è chiamato ad at-tuarla e non la condivida. Un simile utilizzo snatura la ragion d’essere dell’obiezione di coscienza (che non può individuarsi nella tutela del semplice dissenso politico consentendo la non applicazione di una legge

44 Diffusamente su questo argomento, seppur in una prospettiva in parte differente da quella accolta in questo studio, L. Guerzoni, L’obiezione di coscienza, cit., spec. 172 ss.

1099

qualora non sia condivisa) e ne fa invece un destabilizzante strumento di alterazione del gioco democratico.

Naturalmente l’ordinamento non dispone di strumenti affidabili per valutare le reali motivazioni che spingono alla scelta obiettoria, e, in par-ticolare, per vagliare se queste derivino da un radicato convincimento in-teriore o siano parte di un’impropria strategia politica. è certo però che la più limitata capacità lesiva della coscienza del comportamento in que-sto caso richiesto rende plausibile l’ipotesi che dietro la scelta obiettoria non si celi sempre un insanabile contrasto con le proprie convinzioni di coscienza, quanto piuttosto che essa sia talvolta supportata dalla volontà di scongiurare il maggior numero possibile di aborti rendendo quanto più difficoltosa possibile l’appicazione della legge che li permette 45.

5. Considerazioni conclusive

Nelle pagine che precedono si è cercato di analizzare i presupposti del riconoscimento dell’obiezione di coscienza all’interruzione volonta-ria della gravidanza e le problematiche connesse al suo esercizio, sottoli-neando come l’art. 9 della legge n. 194 del 1978, con scelta di dubbia ra-gionevolezza, abbia accomunato nella medesima disciplina giuridica due categorie di soggetti che in realtà presentano caratteristiche assai diffe-renti, il che rende assai arduo fornire un’interpretazione convincente e coerente della disposizione stessa 46. Resta ora conclusivamente da ac-

45 Alla luce di quanto finora affermato presenta un certo interesse, e varrebbe forse la pe-na valutarne l’opportunità e la praticabilità nel caso in esame, la soluzione individuata con ri-ferimento all’ipotesi di obiezione alla prescrizione della c.d. «pillola del giorno dopo» dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, secondo cui «nel ca-so in cui al medico obiettore di coscienza sia richiesta la prescrizione di cui trattasi, lo stesso non può limitarsi ad esprimere la propria obiezione ma debba provvedere nell’ambito delle proprie responsabilità affinché la richiedente possa accedere con tempi e modalità appropriate alla prescrizione» (FNOMCeO, Comunicazione dell’11 dicembre 2006, n. 81); in questo mo-do il medico renderebbe manifesto che la sua obiezione deriva da un’effettiva impossibilità per ragioni di coscienza di procedere all’atto richiesto e non nasconde invece un tentativo di boi-cottaggio di una legge non condivisa.

46 Come tutte le forme di categorizzazione, anche la distinzione proposta in questo scrit-to soffre di una necessaria rigidità e non è da escludere che la posizione di altri soggetti coin-volti nell’interruzione della gravidanza possa non rientrare a pieno nella bipartizione esposta; si è considerato comunque opportuno proporre tale distinzione perché si ritiene che, almeno con riferimento alle due figure emblematiche del ginecologo e del medico chiamato a firmare il documento autorizzatorio, essa possa utilmente spiegare le difficoltà interpretative legate all’art. 9 della legge n. 194.

1100

cennare a quel significato latamente politico dell’obiezione cui si è più volte fatto riferimento nel corso di questo lavoro. Sembra infatti riscon-trarsi anche in relazione al caso studiato una certa tensione caratteristica dell’istituto in esame, che, se da una parte rappresenta un elemento di co-esione sociale, ponendosi quale elemento di integrazione in un quadro di legalità delle esigenze di coscienza di una parte minoritaria dei consocia-ti e contribuendo pertanto a rendere tollerabile e quindi più condivisa e verosimilmente più duratura e stabile una normativa altrimenti inaccetta-bile 47, dall’altra partecipa di un’insopprimibile vocazione dinamica, rap-presentando un elemento di costante contestazione della legge in vista di una sua modifica nella direzione indicata dall’obiezione stessa 48.

Sotto il profilo della coesione sociale, basti ricordare che l’obiezio-ne di coscienza all’aborto si è affermata, «nel corso del tormentato iter da cui è scaturita la legge (…) come uno dei poli dell’accordo faticosamen-te raggiunto dalle forze di maggioranza» 49; sotto il profilo dinamico, in-vece, l’esempio più noto e immediato è rappresentato dall’obiezione di coscienza al servizio militare, il cui crescente esercizio, man mano che Corte Costituzionale e legislatore ne contenevano il carattere penalizzan-te, è stato sicuramente un elemento determinante per la profonda revisio-ne della disciplina dell’obbligo militare. è pensabile che qualcosa di si-mile avvenga anche in relazione alla legge n. 194?

Le probabilità non sono molto elevate, sia perché appare difficile che si riesca oggi, in una materia così delicata come quella dell’aborto, ad individuare soluzioni di riforma capaci di ottenere un ampio consenso quale si è riscontrato per la sospensione dell’obbligo di leva, sia per la strutturale differenza fra le due ipotesi obiettorie. L’obiezione prevista dall’art. 9 della legge n. 194 è infatti, a differenza di quella all’obbligo militare, circoscritta a ben precise categorie professionali, il che rende meno attendibile quella funzione di «verifica del principio maggiorita-

47 Sull’obiezione di coscienza come «forma di compromesso sociale che riduce, o elimina del tutto, la possibilità stessa del conflitto», cui si ricorre in presenza di diversità che ciascuna parte ritiene non negoziabili v. S. rodotà, Problemi dell’obiezione di coscienza, cit., 58-59.

48 Cfr. E. rossi, Obbedienza alla legge e obiezione di coscienza, in aa.vv., Obiezione di coscienza al servizio militare. Profili giuridici e prospettive legislative, Padova, 1989, 79, il quale individua nel comportamento obiettorio non soltanto «la volontà di manifestare il con-trasto tra i propri personali convincimenti e i valori (o fini) perseguiti dalla legge», ma anche «la volontà di modificare l’imperativo contenuto nella legge, che l’obiettore intende combat-tere non perché in contrasto solamente con la propria coscienza, ma con valori etici da esso ri-tenuti inaccettabili e pericolosi per la società tutta».

49 A. d’atena, Commento all’art. 9, cit., 1650.

1101

rio» 50 generalmente ricollegata all’obiezione di coscienza, stante il ca-rattere scarsamente rappresentativo di tali cerchie di soggetti rispetto all’intera collettività. Inoltre, l’indubbio significato di contestazione alla legge è in questo caso accompagnato dal sospetto dell’obiezione «di co-modo», fenomeno difficilmente quantificabile ma verosimilmente in qualche misura presente, data l’assenza di serie controindicazioni all’obiezione, il che determina, se non un incentivo ad obiettare, quanto-meno la possibilità di scelte non adeguatamente ponderate 51.

Al netto di queste precisazioni rimane però il dato di fatto inequivo-cabile espresso da un così elevato ricorso all’obiezione di coscienza: chi più direttamente è coinvolto negli interventi di interruzione volontaria della gravidanza nella maggior parte dei casi rifiuta la propria collabora-zione, quasi che la materiale vicinanza all’evento abortivo determini una maggiore percezione della gravità dell’atto che si sta compiendo. Tutto ciò, come sopra più volte ricordato, pone certamente nel breve periodo il problema di garantire la legge e le posizioni da essa tutelate dall’operare dell’obiezione di coscienza, ma sarebbe certamente una prospettiva mio-pe quella di un legislatore che si limitasse a questo senza cogliere il mes-saggio più profondo del comportamento obiettorio. Il dato esperienziale delle categorie professionali coinvolte in prima persona negli interventi abortivi, in altri termini, dovrebbe essere valutato non solo quale proble-ma da superare per garantire la prevalente (e persistente) volontà demo-cratica, ma anche quale stimolo qualificato alla riflessione critica sulla bontà di tale scelta legislativa, soprattutto nell’ottica di un contenimento sempre maggiore della necessità di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza. Ciò però richiede necessariamente la disponibilità a su-perare il «dogma» dell’intangibilità della legge n. 194, dogma tanto dif-

50 A. cerri, Resistenza (diritto di), in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991, 6, secon-do cui «l’obiezione di coscienza, la disobbedienza civile vengono a costituire una sorta di re-ferendum silenzioso, una proclamazione di sciopero, la cui reale efficacia dovrà essere stabili-ta dai fatti».

51 Si noti inoltre che, anche quando la scelta obiettoria non sia determinata da finalità strettamente opportunistiche, questa può anche non assumere il significato di un’assoluta e ra-dicale contrarietà all’aborto, bensì limitarsi soltanto alla propria indisponibilità a praticarlo in qualità di medico. Sotto questo profilo presenta un certo interesse Pret. Bari, 5 maggio 1990 (in «Giur. it.», 1993, I, sez. II, 548, con nota di G. donativi, Aborto del medico obiettore di co-scienza: la sfera sociale e la sfera intima separate dall’ipocrisia?) che, respingendo il ricorso ex art. 700 c.p.c. del padre del concepito volto ad ottenere un provvedimento d’urgenza per inibire la volontà abortiva della gestante, ha ritenuto irrilevante la qualità di ginecologa e obiet-trice di coscienza di quest’ultima, sulla base della considerazione che «l’obiezione di coscien-za attinge la persona (uomo o donna che sia) nel suo ruolo di operatore sanitario e non la ri-guarda certo nella veste di soggetto passivo dell’eventuale aborto» (552).

1102

fuso quanto poco fondato, sia da un punto di vista giuridico, sia avendo riguardo all’effettiva efficacia dissuasiva della legge stessa. Sotto il pri-mo profilo non appare corretto attribuire all’espressione referendaria un illimitato carattere vincolante rispetto alle scelte del Parlamento 52, né la non modificabilità della legge n. 194 sembra essere il significato più cor-retto da attribuire alla sent. n. 35 del 1997, con cui la Corte Costituziona-le ha escluso la possibilità di sottoporre a referendum abrogativo buona parte delle sue disposizioni 53; quanto alla valutazione dei risultati ottenu-ti, i dati ancora preoccupantemente elevati del tasso di abortività e del rapporto di abortività nel nostro Paese sembrano lasciare spazio ad am-plissimi margini di miglioramento nel contenimento del numero com-plessivo delle interruzioni volontarie della gravidanza 54.

52 Assai criticamente sul presunto carattere giuridicamente vincolante dell’esito referen-dario sull’esercizio della funzione legislativa v. M. Luciani, Art. 75. Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bo-logna-Roma, 2005, 661 ss.

53 In questo senso i commenti alla sentenza di M. oLivetti, La Corte e l’aborto, fra con-ferme e spunti innovativi, e M. D’amico, Una lettura della disciplina sull’interruzione volon-taria della gravidanza in una problematica decisione di inammissibilità del referendum, in «Giur. cost.», 1997, rispettivamente 312 ss. e 1139 ss., entrambi critici sulla qualificazione del-la legge n. 194 fra le leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato.

54 Secondo la Relazione del Ministro della salute cit. «il tasso di abortività (numero del-le IVG per 1.000 donne in età feconda tra 15-49 anni) (…) nel 2007 è risultato pari a 9.1 per 1.000, con un decremento del 3.1% rispetto al 2006 (9.4 per 1.000) e un decremento del 47.1% rispetto al 1982 (17.2 per 1.000)», mentre «il rapporto di abortività (numero delle IVG per 1.000 nati vivi) è risultato pari a 224.8 per 1.000 con un decremento del 4.5% rispetto al 2006 (235.5 per 1.000) e un decremento del 40.9% rispetto al 1982 (380.2 per 1.000)».

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALEDI INTERESSE REGIONALE

a cura di Patrizia viPiana

1105

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (14) 18 aprile 2008, n. 104 – BILE Pres. – MADDALENA Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa dalle Pro-vince autonome di Trento e Bolzano, dell’art. 1, comma 1226, l. n. 296/2006 (legge finanziaria 2007) nella parte in cui obbliga le suddette Province, nel dare attuazione alla direttiva comunitaria sulla conservazione degli habitat naturali 92/43/CEE, a conformarsi ai criteri minimi uniformi stabiliti con decreto del Ministro dell’ambiente: il disposto impugnato viola infatti la potestà legislativa primaria delle Province autonome in materia di “parchi per la protezione della flora e della fauna”.

Dichiara invece inammissibili o infondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dalle Regioni Lombardia e Veneto sul medesimo disposto, con riferimento agli ulteriori profili di censura indicati dalle ri-correnti.

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1226, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promossi con ricorsi della Regione Veneto, delle Province autonome di Bolzano e di Trento e della Regione Lombardia, notificati il 23 e il 26 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 1°, il 5 e il 7 marzo 2007 ed iscritti ai numeri 10, 12, 13 e 14 del registro ricorsi 2007.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2008 il Giudice relatore Paolo

Maddalena;uditi gli avvocati Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Giuseppe Fran-

co Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano, Giandomenico Falcon per la Provincia autonoma di Trento, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e gli avvocati dello Stato Giuseppe Fiengo, Massimo Salvatorelli e Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Con quattro distinti ricorsi, iscritti ai numeri 10, 12, 13 e 14 del registro ricorsi dell’anno 2007, la Regione Veneto, le Province autonome di Bolzano e di Trento e la Regione Lombardia promuovono questioni di legittimità costi-tuzionale di numerosi commi dell’art. 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), e, tra questi, del comma 1226.

1106

1.1. – Il presente giudizio attiene unicamente all’impugnazione di quest’ul-timo comma, essendo le ulteriori questioni oggetto di separate pronunce.

1.2. – Trattandosi della stessa materia, i quattro ricorsi possono essere riu-niti per essere decisi con un’unica sentenza.

1.3. – L’impugnato comma 1226 dispone che «Al fine di prevenire ulte-riori procedure di infrazione, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano devono provvedere agli adempimenti previsti dagli articoli 4 e 6 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni, o al loro completamento, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sulla base di criteri minimi uni-formi definiti con apposito decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare».

2. – Le Regioni Veneto e Lombardia contestano tale disposizione, la prima solo in riferimento al principio di leale collaborazione, la seconda anche in rife-rimento agli artt. 117, 118, 120, 3 e 97 della Costituzione, sostenendo entrambe che l’ambiente, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza costituzionale, non sarebbe una «materia in senso tecnico», per cui ogni intervento dello Stato in proposito dovrebbe essere subordinato all’osservanza del sopra detto princi-pio di leale collaborazione, principio che nella specie risulterebbe violato per la mancata previsione di strumenti di dialogo e di intesa fra Stato e Regioni.

3. – Deve essere preliminarmente dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1226, della legge n. 296 del 2006, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lom-bardia.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regio-nali (così, fra le tante, sentenze n. 63 e n. 50 del 2008, n. 401 del 2007 e n. 116 del 2006). Nel caso di specie, le censure dedotte, oltre ad essere generiche, non sono prospettate in maniera da far derivare dalla pretesa violazione dei richiama-ti parametri costituzionali una compressione dei poteri della Regione.

4. – La questione proposta dalle Regioni Veneto e Lombardia, in riferimen-to al principio di leale collaborazione e, dalla sola Regione Lombardia, pure in riferimento agli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione, non è fondata.

5. – La competenza a tutelare l’ambiente e l’ecosistema nella sua interezza è stata affidata in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, e per «ambiente ed ecosistema», come affermato dalla Dichia-razione di Stoccolma del 1972, deve intendersi quella parte di “biosfera” che riguarda l’intero territorio nazionale (sentenza n. 378 del 2007).

In base alla Costituzione, «spetta allo Stato disciplinare l’ambiente come un’entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parte del tutto. Ed è da notare, a questo proposito, che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente

1107

inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale “primario” (sentenza n. 151 del 1986) ed “assoluto” (sentenza n. 641 del 1987), e deve garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale inderoga-bile dalle altre discipline di settore. Si deve sottolineare, tuttavia, che, accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possono coesistere altri beni giuri-dici aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi, giuridicamente tutelati. Si parla, in proposito, dell’ambiente come “materia trasversale”, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell’ambiente e quelli inerenti alle sue utiliz-zazioni» (vedi, ancora, la sentenza n. 378 del 2007).

In questi casi, la disciplina unitaria di tutela del bene complessivo ambien-te, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materia di competenza propria, che ri-guardano l’utilizzazione dell’ambiente, e, quindi, altri interessi.

Ciò comporta che la disciplina statale relativa alla tutela dell’ambiente «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Provin-ce autonome dettano in altre materie di loro competenza», salva la facoltà di queste ultime di adottare norme di tutela ambientale più elevata nell’esercizio di competenze, previste dalla Costituzione, che vengano a contatto con quella dell’ambiente.

è dunque in questo senso che può intendersi l’ambiente come una «mate-ria trasversale» (come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte; si veda, per tutte, la sentenza n. 246 del 2006), e non può certo dirsi, come vorrebbero le Regioni Veneto e Lombardia, che «la materia ambientale non sarebbe una materia in senso tecnico». Al contrario, l’ambiente è un bene giuridico, che, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzio-ne, funge anche da discrimine tra la materia esclusiva statale e le altre materie di competenza regionale.

5.1. – Le Regioni Veneto e Lombardia, dunque, non possono reclamare un loro coinvolgimento nell’esercizio della potestà legislativa dello Stato in materia di tutela ambientale, trattandosi di una competenza statale esclusiva.

In tale àmbito di esclusiva competenza statale rientra la definizione dei li-velli uniformi di protezione ambientale. Non contrasta, pertanto, con i parametri evocati dalle ricorrenti, il rinvio, da parte dell’impugnato comma 1226, ad un emanando decreto ministeriale che preveda i criteri ai quali le Regioni Veneto e Lombardia debbono uniformarsi nell’imporre le misure di salvaguardia sui siti di importanza comunitaria (SIC) e le misure di conservazione sulle zone speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale (ZPS), in esecuzione della direttiva comunitaria, recepita con il decreto del Presidente della Repub-blica 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, non-ché della flora e della fauna selvatiche).

6. – Le Province autonome di Trento e di Bolzano, dal canto loro, censu-

1108

rano il comma 1226, lamentando che non rientrerebbe nella competenza statale l’attuazione delle direttive comunitarie in materia di ZSC e ZPS, dovendo le stesse essere attuate direttamente dalle Province, competenti in materia, cosa che le stesse avrebbero peraltro già fatto.

Le ricorrenti lamentano, poi, che, in ogni caso, lo Stato non potrebbe vin-colare le Province autonome in una materia di loro competenza mediante un atto sublegislativo.

6.1. – La Provincia di Bolzano prospetta la violazione: degli artt. 116 e 117 della Costituzione e dell’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); dell’articolo 8, numeri 1, 3, 5, 6, 7, 8, 11, 13, 14, 15, 16, 18, 20 e 21, dell’articolo 9, numeri 10 e 11 e dell’articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernen-ti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige); del decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 279 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di minime proprietà colturali, caccia e pesca, agricoltura e foreste); del decreto del Presidente della Repubbli-ca 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla Regione Trentino-Alto Adige ed alle Province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), e, specificamente, degli artt. 7 ed 8 del medesimo; del decreto del Presidente della Repubblica 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di trasferimento alle Province autonome di Trento e di Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione); del decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche); del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige in materia di demanio idrico, di opere idrauliche e di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, produzione e distribuzione di energia elettrica); del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); del decreto del Presidente della Repubblica 26 gennaio 1980, n. 197 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti integra-zioni alle norme di attuazione in materia di igiene e sanità approvate con decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474); nonché degli artt. 2 e 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento).

6.2. – La Provincia autonoma di Trento prospetta, invece, la violazione dell’art. 8, numeri 3, 5, 6, 7, 8, 11, 13, 14, 15, 16, 17, 20 e 21, dell’art. 9, numeri 9 e 10 e dell’articolo 16 dello Statuto speciale della Regione Trentino- Alto Adi-

1109

ge; dell’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica n. 526 del 1987; degli articoli 2 e 4 del decreto legislativo n. 266 del 1992.

7. – Si deve innanzitutto rilevare che le due Province autonome sostengo-no l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1226, della legge n. 296 del 2006, affermando, preliminarmente, di avere una competenza generale in mate-ria di ambiente, come risulterebbe da una lunga serie di disposizioni dello statu-to e (per quanto riguarda Bolzano) anche dalle relative norme di attuazione.

Sennonchè la stragrande maggioranza delle elencate materie non ha niente a che vedere con la tutela ambientale, mentre altre («tutela del paesaggio», «cac-cia e pesca», «parchi per la protezione della flora e della fauna», e «foreste»), comprese nell’elenco dell’art. 8 dello statuto, costituiscono semplici aspetti del-la materia della tutela ambientale. E da questi aspetti, evidentemente, non può farsi derivare una competenza generale in materia di ambiente.

La competenza delle Province autonome di Trento e di Bolzano si fonda, invece, nel caso specifico, sull’art. 8, numero 16, dello statuto, che attribuisce ad esse una potestà legislativa primaria in materia di «parchi per la protezione della flora e della fauna».

Deve ribadirsi, quindi, come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (vedi sentenze n. 425 del 1999 e n. 378 del 2007), che spetta alle Province autonome dare concreta attuazione per il loro territorio alla diretti-va 92/43/CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatica), la quale impone misure di salvaguardia sui siti di importanza comunitaria (SIC) e misure di con-servazione sulle zone speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale (ZPS), a seguito della «definizione» di queste ultime di intesa con lo Stato (sentenza n. 378 del 2007).

8. – In virtù della richiamata prescrizione statutaria e di quanto espressa-mente stabilito dall’art. 7 del d.P.R. n. 526 del 1987 e dell’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, deve inoltre affermarsi che lo Stato, diversamente da quanto si evince dal rinvio da parte del comma 1226 agli artt. 4 e 6 del d.P.R. n. 357 del 1997, non può imporre alle Province autonome di conformarsi, nell’adozione delle misure di salvaguardia e delle misure di conservazione, «ai criteri minimi uniformi» di un emanando decreto ministeriale.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1226, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), nella parte in cui obbliga le Province autonome di Trento e di Bolzano ad uniformarsi ai criteri minimi uniformi definiti dal decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del mede-

1110

simo articolo 1, comma 1226, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del medesi-mo art. 1, comma 1226, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, sollevata, in rife-rimento agli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione, dalla Regione Lombardia ed, in riferimento al principio di leale collaborazione, dalle Regioni Veneto e Lombardia, con i ricorsi indicati in epigrafe.

1111

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (5) 14 maggio 2008, n. 131 – BILE Pres. – MAZZELLA Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse con ricor-so governativo, di alcune disposizioni della l. r. Calabria n. 4/2007.

In particolare dichiara fondate le questioni di costituzionalità dei se-guenti disposti:

dell’art. 5, comma 4, lettere a), b), c), i), j), k), l), m), n) – quest’ultima limitatamente ad alcune parole – o) e p), in quanto gli interventi regionali ivi previsti in tema di cooperazione allo sviluppo interferiscono con la com-petenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “politica estera”;

dell’art. 6, limitatamente alle competenze previste dalle lettere a), c), e) ed f), poiché gli interventi regionali ivi previsti in tema di cooperazione umanitaria e di emergenza incidono sulla politica estera, spettante esclusi-vamente allo Stato;

dell’art. 8, comma 7, in quanto il meccanismo di raccordo ivi menzio-nato (introdotto dalla legge statale n. 131/2003 con riguardo alla competen-za concorrente in materia di rapporti internazionali delle Regioni) viene applicato ai suddetti interventi regionali che invadono la competenza esclu-siva dello Stato in materia di politica estera.

Dichiara invece infondate le questioni di legittimità costituzionale delle altre disposizioni contenute negli artt. 5, 6 e 8 della legge calabrese.

Nel giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 5, 6 e 8 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria), promosso con ricorso del Pre-sidente del Consiglio dei ministri notificato il 12 marzo 2007, depositato in can-celleria il 14 marzo 2007 ed iscritto al n. 15 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Calabria;udito nell’udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Luigi

Mazzella;uditi l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Con-

siglio dei ministri e l’avvocato Giuseppe Naimo per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, dubita, con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a), terzo comma, della Costituzione, in relazione alla legge statale 26 febbraio 1987, n. 49 (Nuova disciplina della cooperazione

1112

dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo), della legittimità costituzionale degli artt. 5, 6 e 8 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Coopera-zione e relazioni internazionali della Regione Calabria).

La legge della Regione Calabria n. 4 del 2007 contiene una disciplina ge-nerale dell’attività internazionale della Regione. Essa, in particolare, individua i Paesi destinatari degli interventi regionali (art. 1, comma 1) e le finalità generali dell’attività internazionale della Regione (art. 1, comma 2). Prevede, poi, che tale attività si articola in cinque diversi tipi di interventi: la «attività di coopera-zione con Regioni e territori dei paesi membri dell’Unione Europea» (art. 3); la «attività di collaborazione e partenariato istituzionale e relazioni istituzionali» (art. 4); 3) la «attività di cooperazione internazionale» (art. 5); la «attività di cooperazione umanitaria e di emergenza» (art. 6); la «internazionalizzazione del sistema economico-produttivo» (art. 7). Stabilisce, inoltre, che tutte le descrit-te attività siano oggetto di un documento di indirizzo programmatico triennale approvato annualmente dal Consiglio regionale e di un piano operativo annuale di attuazione e che le funzioni amministrative di attuazione del piano regionale siano svolte dalla Giunta regionale (art. 8).

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 5, riguardante la «attività di cooperazione internazionale», l’art. 6, riguardante la «attività di cooperazione umanitaria e di emergenza», e l’art. 8, che disciplina la «program-mazione degli interventi e modalità di attuazione», ritenendo che tali norme contrastino con l’art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della po-litica estera e richiamando, a sostegno delle proprie ragioni, la sentenza della Corte Costituzionale n. 211 del 2006.

2. – La Regione ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per genericità, poiché le norme impugnate riguarderebbero àmbiti di intervento eterogenei.

L’eccezione non è fondata.Gli artt. 5 e 6 della legge regionale n. 4 del 2007 disciplinano ciascuno una

categoria omogenea di interventi internazionali della Regione: rispettivamente, quelli di «cooperazione internazionale» e di «cooperazione umanitaria e di emer-genza». Tali categorie sono accomunate, nella prospettazione dell’Avvocatura, dall’intrinseca attinenza alla materia della cooperazione allo sviluppo e, quindi, alla politica estera statale. La descrizione dei singoli interventi contenuta, rispet-tivamente, nel comma 4 dell’art. 5 e nel comma 3 dell’art. 6, non è altro, dunque, che l’elencazione delle possibili iniziative attuabili nell’ambito di tale materia.

Il ricorrente deduce che le norme impugnate, nello stabilire gli obiettivi e i modi di intervento della cooperazione internazionale anche in ipotesi di emer-genza, e nel prevedere, altresì, l’impiego diretto di risorse, umana e finanziaria, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari, autorizzano e disciplinano una serie di attività tipiche della politica estera. In sostanza il ricorrente contesta in radice la competenza del-la Regione a disciplinare interventi che abbiano le caratteristiche descritte nel

1113

comma 1 dell’art. 5 e dell’art. 6.Il thema decidendum sottoposto alla Corte è, dunque, sufficientemente

chiaro ed univoco. Esso consiste nella verifica dell’attinenza alla sfera di com-petenze regionali ovvero alla materia della “politica estera” delle attività di “co-operazione internazionale” e di “cooperazione umanitaria e di emergenza” così come definite negli artt. 5 e 6.

3. – Nel merito, le questioni sono in parte fondate.3.1. – Deve premettersi che questa Corte ha affermato che «l’art. 117, com-

ma 2, lettera a), nel delineare la competenza legislativa spettante in via esclusiva allo Stato, sottolinea una dicotomia concettuale tra meri “rapporti internazionali” da un lato e “politica estera” dall’altro, che non si ritrova nel terzo comma dello stesso art. 117, che individua la competenza regionale concorrente in materia internazionale. La politica estera, pertanto, viene ad essere una componente pe-culiare e tipica dell’attività dello Stato, che ha un significato al contempo diverso e specifico rispetto al termine “rapporti internazionali”. Mentre i “rapporti inter-nazionali” sono astrattamente riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento, la “politica estera” concerne l’attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo» (sentenza n. 211 del 2006).

In base a quanto affermato nella citata pronuncia, devono dunque ritenersi lesive della competenza statale in materia di politica estera le norme regionali che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinazione degli obiettivi di cooperazione internazionale e di interventi di emergenza nonché dei desti-natari dei benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione. Tali norme, infatti, implicando l’impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati bene-ficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione internazionale, finiscono con l’autorizzare e disciplinare una serie di attività di politica estera, riservata in modo esclusivo allo Stato.

Alcune competenze contemplate negli articoli censurati riguardano, però, la materia della cooperazione allo sviluppo solo a livello di studio e di sensibi-lizzazione della pubblica opinione della Regione. Per il carattere di norme atti-nenti ad attività da svolgersi all’interno della Regione, esse non interferiscono con la politica estera statale. La legge regionale censurata, infatti, dà una defi-nizione di cooperazione internazionale impropria e, sostanzialmente, più vasta di quella delineata nella sentenza n. 211 del 2006, facendovi rientrare anche iniziative e progetti volti a sostenere, in modo più generale, l’affermazione dei diritti dell’uomo e dei principi democratici all’interno della Regione ed all’este-ro. è, pertanto, indispensabile esaminare analiticamente le singole previsioni della legge regionale, al fine di stabilire quali di esse riguardino la politica estera dello Stato.

3.2 – In tale prospettiva, sono senz’altro da considerare invasive della com-petenza statale le attività elencate alle lettere a), b) e c) del comma 4 dell’art. 5,

1114

le quali, riguardando aspetti della cooperazione allo sviluppo analoghi a quelli previsti dalla legge statale in materia, la crescita ed il consolidamento della de-mocrazia e dello Stato di diritto nei Paesi interessati, la promozione e la salva-guardia dei diritti dell’uomo, interferiscono con la politica estera dello Stato.

Analogamente, le competenze elencate nelle lettere i), j), k), l), m), o) e p) dello stesso articolo rientrano tutte nella nozione di cooperazione allo sviluppo, così come definita dalla sentenza n. 211 del 2006. In particolare, la previsione di cui alla lettera i) (sostegno ai programmi di tutela e di valorizzazione delle risorse paesaggistiche-ambientali e culturali) non avrebbe senso se non riferita a iniziative di cooperazione con paesi esteri; il «supporto ad iniziative per la tutela dei minori e dei diritti dell’infanzia, attuazione delle politiche di genere», di cui alla lettera j), rientra nella predetta nozione di cooperazione, dato che promuo-vere attività dirette a valorizzare la parità tra uomo e donna e ad eliminare i fat-tori che la ostacolino in concreto, comporta un’ingerenza nelle politiche sociali di altri paesi con risorse dello Stato italiano; le «attività di studio, di ricerca, di scambi di esperienze, di informazione e di divulgazione, volte a promuovere l’unità e l’identità europea, l’estensione del concetto di cittadinanza e la parte-cipazione ai processi istituzionali a tutti i livelli», di cui alla lettera k), le «ini-ziative di informazione, consulenza, predisposizione di progetti di fattibilità e loro realizzazione, al fine di determinare il trasferimento di sistemi e tecnologie appropriate, realizzate da imprese calabresi nell’ambito di programmi di coope-razione finanziati da organismi nazionali ed internazionali», di cui alla lettera l), e «l’impiego, anche attraverso convenzioni con Enti regionali strumentali e territoriali, di personale qualificato con compiti di assistenza tecnica, ammini-strazione e gestione, valutazione e monitoraggio dell’attività di cooperazione in-ternazionale», di cui alla lettera m), sono tutte direttamente attinenti alla coope-razione allo sviluppo. Anche gli «interventi innovativi e di sperimentazione nel mercato del lavoro, nel settore del credito e del commercio internazionale, nelle politiche pubbliche per lo sviluppo locale anche ai fini dell’integrazione degli interventi di cooperazione con le attività di sviluppo economico», di cui alla suc-cessiva lettera o), in quanto necessariamente coordinati con iniziative di politica estera, non possono che spettare allo Stato. Anche il «miglioramento dei flussi immigratori nel territorio calabrese», da attuare «anche favorendo la selezione positiva, la formazione, l’integrazione e la regolarizzazione degli immigrati, va-lorizzando le loro rimesse nei paesi di origine e favorendo l’occupazione in tali paesi», di cui alla lettera p), è competenza che interferisce direttamente con le politiche di immigrazione, inderogabilmente riservate allo Stato.

Al contrario, le attività indicate nelle lettere d), e), f), g), h) del comma 4 dell’art. 5, sono rivolte ai cittadini residenti nella Regione e hanno come unica finalità quella di sensibilizzare la comunità regionale a una cultura della tolle-ranza e della cooperazione. Si tratta di iniziative destinate a esplicarsi all’interno del territorio regionale ed in quanto tali non rientrano nella definizione di coope-razione allo sviluppo adottata dalla Corte nella sentenza n. 211 del 2006.

1115

Un discorso analogo può essere svolto anche per quanto attiene alla previ-sione contenuta nella lettera q) dello stesso comma 4 dell’art. 5 (valorizzazione delle comunità di origine calabrese all’estero), per la quale può ritenersi che la stessa contempli mere attività di promozione e di tutela dell’identità culturale di tali comunità di interesse tipicamente regionalistico.

Più articolata è la valutazione della previsione contenuta nella lettera n) del predetto comma 4 dell’art. 5. Infatti, mentre la «formazione professionale e promozione sociale di cittadini stranieri da svolgersi in Calabria ed in altri Paesi», rivolte a cittadini dei Paesi in via di sviluppo, sono comunque attività oggettivamente idonee a creare vincoli di riconoscenza e legami con Stati esteri e rientrano nel concetto di cooperazione allo sviluppo cui fa riferimento la sen-tenza n. 211 del 2006; la «formazione di personale residente in Italia destinato a svolgere attività di cooperazione internazionale», può farsi rientrare, per con-tro, nella competenza regionale in materia di formazione professionale, essendo destinata a cittadini italiani residenti in Calabria. In tale prospettiva deve essere ritenuta immune dalle censure formulate.

3.3. – Quanto all’art. 6, relativo alla cooperazione umanitaria e di emer-genza, esso è da ritenere illegittimo con riferimento alle previsioni di cui alle lettere a), c), e) ed f). Rientrano, infatti, nella politica estera dello Stato, come iniziative di cooperazione, sia la fornitura di materiali di prima necessità e at-trezzature alle popolazioni colpite, implicando delle scelte nella individuazione delle popolazioni da aiutare (si pensi al conflitto armato tra due Stati); sia la collaborazione tecnica, anche mediante l’invio di personale regionale, ed even-tuale coordinamento delle risorse umane messe a disposizione da associazioni, istituti, Enti pubblici o privati, che presuppone la scelta delle aree geografiche e delle popolazioni cui offrire la collaborazione tecnica; sia il sostegno a Enti che operano per finalità di cooperazione umanitaria e di emergenza; sia, infine, la raccolta e la costituzione di fondi, con la promozione di pubbliche sottoscrizioni di denaro da far affluire su apposito capitolo di bilancio per interventi a favore delle popolazioni colpite da emergenze.

Al contrario, la lettera b) dello stesso comma 3 dell’art. 6, concernente la «assistenza sanitaria e ospedaliera a cittadini stranieri che, per gli effetti degli eventi di cui al comma 1, sono ospitati nella Regione, e l’accoglienza di eventuali accompagnatori, purché regolarmente autorizzati alla permanenza sul territorio italiano», e la successiva lettera d), che contempla la mera «raccolta e diffusio-ne di informazioni sulle azioni di aiuto e di emergenza organizzate da soggetti regionali nonché azioni finalizzate al loro raccordo con le richieste e le inizia-tive dell’Amministrazione statale, dell’Unione europea e delle Organizzazioni internazionali» sono legittimi, dato che, quanto al primo, l’assistenza sanitaria e ospedaliera viene predisposta in favore di persone che si trovano legittimamente sul territorio nazionale, quanto al secondo, la previsione ha carattere solo acces-sorio rispetto alle iniziative umanitarie e di emergenza propriamente dette.

3.4. – La Regione ha sostenuto che la compatibilità delle iniziative previste

1116

con la politica estera nazionale possa ritenersi salvaguardata dalla previsione dell’art. 1, comma 2, in base alla quale le attività di promozione devono essere in sintonia con la cooperazione governativa e comunitaria.

Al contrario, questa Corte, nella sentenza n. 211 del 2006, ha già ritenuto clausole simili a quelle invocate dalla Regione inadeguate a salvaguardare le prerogative statali.

In tale prospettiva non è sufficiente neppure il richiamo più esplicito, con-tenuto nell’art. 8, comma 7, del meccanismo di raccordo tra l’attività regionale e le determinazioni della politica nazionale, predisposto all’articolo 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3), per effetto del quale il documento di programmazione triennale ed il piano operativo annuale sono comunicati al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri per la verifica della compatibilità delle iniziative regionali con gli indirizzi di politica estera statale.

Infatti il citato art. 6 della legge n. 131 del 2003, inserito nella legge statale di attuazione della riforma del titolo V della parte II della Costituzione, concer-ne l’attività di Regioni e Province riguardanti il cosiddetto potere estero delle Regioni, che si concreta esclusivamente nella potestà di attuazione e di esecu-zione degli accordi internazionali, nella conclusione di intese con enti territoriali interni a Stati esteri e nella pattuizione, con Stati esteri, di accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali entrati in vigore o accordi di natura tecni-co-amministrativa, o accordi di natura programmatica. Esso, dunque, è norma circoscritta entro il limitato àmbito della competenza concorrente in materia di relazioni internazionali delle Regioni e non può trovare applicazione per con-sentire la ratifica successiva, da parte dello Stato, di un’attività regionale che invade la competenza esclusiva di esso Stato in materia di politica estera.

Come affermato nella sentenza n. 211 del 2006, il menzionato art. 6 è de-stinato a trovare applicazione solo con riguardo ad attività di stretta competenza internazionale delle Regioni, non potendo fare un riferimento, che sarebbe di per sé contraddittorio, ad iniziative di competenza statale esclusiva.

In altri termini, una legge regionale non può estendere il meccanismo di controllo, previsto dall’articolo 6 della legge n. 131 del 2003, al di fuori del cam-po di applicazione dettato dalla stessa legge statale che l’ha introdotto nell’or-dinamento. D’altro canto, l’attività degli apparati dello Stato è necessariamente definita e disciplinata solo dalle leggi statali e non può essere incrementata per effetto di una legge regionale.

Ne consegue che il comma 7 del censurato art. 8, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.

Per effetto della dichiarazione di incostituzionalità delle sole norme che contemplano competenze lesive delle prerogative statali, l’articolo censurato deve ritenersi immune dalle censure formulate negli altri commi.

1117

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

1. dichiara l’illegittimità costituzionale:– dell’art. 5 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Co-

operazione e relazioni internazionali della Regione Calabria), limitatamente al comma 4, lettere a), b), c), i), j), k), l), m), n) (quest’ultima limitatamente alle parole «la formazione professionale e promozione sociale di cittadini stranieri da svolgersi in Calabria ed in altri Paesi»), o) e p);

– dell’art. 6 della stessa legge regionale, limitatamente alle competenze previste dalle lettere a), c), e) ed f);

– dell’art. 8, comma 7, della medesima legge regionale;2. dichiara non fondate le altre questioni di legittimità costituzionale de-

gli artt. 5, 6 ed 8 della legge della Regione Calabria n. 4 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera a), e terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

1118

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (7) 16 maggio 2008, n. 142 – BILE Pres. – MADDALENA Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa dalla Re-gione Lombardia, dei commi 1122 e 1123 dell’art. 1 della l. n. 296/2006 (leg-ge finanziaria 2007) nella parte in cui non prevedono che il decreto del Mi-nistro dell’ambiente, volto a stabilire la destinazione delle risorse del Fondo per la mobilità sostenibile, sia emanato previo parere della Conferenza uni-ficata Stato-Regioni ed autonomie locali: tale disposto viola il principio di leale collaborazione.

Dichiara invece inammissibili o infondate le questioni di legittimità co-stituzionale, sollevate dalla medesima Regione, dei suddetti commi 1122 e 1123 con riferimento agli ulteriori profili di censura delineati nel ricorso, nonché del comma 1121 dell’art. 1 l. n. 296/2006 (istitutivo del Fondo sum-menzionato).

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 7 marzo 2007 ed iscritto al n. 14 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Paolo

Maddalena;uditi l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e

l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Con ricorso notificato il 26 febbraio 2007 e depositato in cancelleria il 7 marzo 2007, la Regione Lombardia ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007).

2. – L’impugnazione avente ad oggetto l’art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, della legge n. 296 del 2006 viene qui trattata separatamente rispetto alle altre questioni promosse con il suddetto ricorso.

3. – Il comma 1121 istituisce un Fondo per la mobilità sostenibile nell’am-

1119

bito dello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del terri-torio e del mare «allo scopo di finanziare interventi finalizzati al miglioramento della qualità dell’aria nelle aree urbane nonché al potenziamento del trasporto pubblico» con uno stanziamento di 90 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009.

Ai sensi del comma 1122, le risorse del Fondo sono destinate, con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dei trasporti, prioritariamente all’adozione delle seguenti misure: potenziamento dei mezzi pubblici, soprattutto dei meno inquinanti e nell’ambito dei comuni a maggiore crisi ambientale; incentivi per l’intermodalità e per la mo-bilità sostenibile; valorizzazione degli strumenti del mobility management e del car sharing; percorsi vigilati protetti casa-scuola; miglioramento della logistica per la consegna e la distribuzione delle merci; realizzazione e potenziamento di forme di distribuzione di carburante (gas metano, gpl, energia elettrica, idroge-no); promozione di reti urbane di percorsi destinati alla mobilità ciclistica.

Il comma 1123 dispone infine la destinazione di una quota non inferiore al 5 per cento del Fondo in favore di uno specifico fondo preesistente, e cioè del Fondo per la mobilità ciclistica previsto dalla legge 19 ottobre 1998, n. 366.

Le predette norme sono censurate in riferimento agli artt. 117, 118, 119 della Costituzione, nonché ai principi costituzionali di leale collaborazione (art. 120), di buon andamento (art. 97) e di ragionevolezza (art. 3), perché contrasterebbero con il riparto di competenze disegnato dalla Costituzione, intervenendo in una materia, quale è quella del trasporto pubblico locale, di competenza residuale regionale, escludendo completamente il soggetto Regione dalla determinazione delle politiche relative a temi di propria competenza; e perché ometterebbero di prevedere qualsiasi forma di coinvolgimento della Regione nel circuito delle decisioni relative ai finanziamenti in materia di trasporto pubblico locale.

4. – Così individuato l’ambito delle questioni sottoposte all’esame di que-sta Corte, devono essere preliminarmente dichiarate inammissibili le censure di violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza re-gionali (così, fra le tante, sentenze n. 63 e n. 50 del 2008, n. 401 del 2007 e n. 116 del 2006). Nel caso di specie, le censure dedotte, oltre ad essere generiche, non sono prospettate in maniera tale da far derivare dalla pretesa violazione dei richiamati parametri costituzionali una compressione dei poteri della Regione.

5. – Passando all’esame del merito delle altre censure proposte dalla ricor-rente, occorre premettere che con esse questa Corte è chiamata nuovamente a pronunciarsi su questioni di legittimità costituzionale relative all’istituzione di fondi statali.

Al riguardo, deve essere ricordato che la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che il legislatore statale non può porsi in contrasto con

1120

i criteri e i limiti che presiedono all’attuale sistema di autonomia finanziaria re-gionale, delineato dal nuovo art. 119 della Costituzione, i quali non consentono finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza sta-tale. Nell’ambito del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione non è quindi di norma consentito allo Stato prevedere finanziamenti in materie di competenza residuale ovvero concorrente delle Regioni, né istituire fondi setto-riali di finanziamento delle attività regionali, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza, con violazione anche dell’art. 117 della Costituzione (sentenze n. 50 e n. 45 del 2008, n. 137 del 2007, n. 77 e n. 51 del 2005).

In linea preliminare, occorre dunque procedere ad esaminare la materia nella quale vanno ad incidere le norme relative all’istituzione del Fondo per la mobilità sostenibile nelle aree urbane e alla determinazione delle relative destinazioni.

Dall’analisi del contenuto complessivo delle disposizioni censurate risulta che finalità di queste ultime non è affatto quella di incidere direttamente sulla ma-teria residuale del traffico locale, ma quella di allargare i limiti della sostenibilità ambientale entro i quali detta materia può svolgersi, concedendo alle Regioni un più ampio raggio di azione nello svolgimento delle loro potestà. Detta normativa ricade pertanto nella materia della tutela dell’ambiente, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

A tal proposito, è sufficiente rilevare che la previsione del Fondo, istituito nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente, persegue espressamente la finalità del miglioramento della qualità dell’aria nelle aree urbane attraverso una serie convergente di misure, tutte rivolte alla promozione e alla salvaguardia del bene giuridico ambiente nella sua completezza ed unitarietà ed anche nell’equi-librio delle sue singole componenti. Esse vanno dalla realizzazione di servizi e infrastrutture che favoriscano l’uso del mezzo pubblico e riducano l’uso dei vei-coli privati al potenziamento ed alla sostituzione con veicoli a basso impatto am-bientale dei mezzi di trasporto pubblico locale, al potenziamento di interventi di razionalizzazione e miglioramento del processo di distribuzione delle merci in ambito urbano, alla promozione della mobilità ciclistica, alla diffusione dell’uti-lizzo dei carburanti a basso impatto ambientale, al potenziamento dei servizi integrativi al trasporto pubblico locale e di quelli complementari, allo sviluppo e alla diffusione dei sistemi di utilizzo comune di autovetture, alla realizzazione, ancora, di percorsi vigilati protetti casa-scuola.

Se si tiene presente che le Regioni devono esercitare le proprie attribuzioni nei limiti posti dalla legislazione statale a tutela dell’ambiente, appare eviden-te che il Fondo si risolve in uno strumento di aiuto offerto alle Regioni stesse perché possano svolgere la loro azione nei limiti del rispetto dell’ambiente (cfr. sentenza n. 378 del 2007).

1121

Non è pertanto fondata, in riferimento agli artt. 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1121.

Tuttavia, poiché il Fondo in esame produce effetti anche sull’esercizio del-le attribuzioni regionali in materia di trasporto pubblico locale affinché esso si svolga nei limiti della sostenibilità ambientale, si giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione (sentenze n. 63 del 2008; n. 201 del 2007; n. 285 del 2005), che deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (sentenza n. 50 del 2008).

Nel caso in esame, invece, i commi 1122 e 1123 dell’art. 1 non tengono conto di detto parametro, attribuendo al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, senza alcun coinvolgimento regionale, il potere di stabilire, di concerto con il Ministro dei trasporti, la destinazione delle risorse del Fondo, e di prevedere la quota, non inferiore al cinque per cento, da destinare agli inter-venti per la valorizzazione e lo sviluppo della mobilità ciclistica.

Le necessarie forme di leale collaborazione, avendo riguardo agli interessi implicati e alla peculiare rilevanza di quelli connessi all’ambito materiale ri-messo alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, possono, d’altro canto, dirsi adeguatamente attuate mediante la previa acquisizione del parere della Confe-renza unificata, competente in materia secondo la legislazione vigente, in sede di adozione del decreto ministeriale di destinazione delle risorse del Fondo.

Da ciò consegue che i predetti commi devono essere dichiarati costituzio-nalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono che il decreto ministeriale sia emanato previa acquisizione del parere della Conferenza unificata.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di le-gittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosse dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1122 e 1123, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui non prevedono che il decreto del Mi-nistro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dei trasporti, sia emanato previa acquisizione del parere della Confe-renza unificata;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1121, della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento agli artt. 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimen-to agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe.

1122

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (7) 16 maggio 2008, n. 145 – BILE Pres. – GALLO Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa dalla Re-gione Sicilia, dell’art. 1, comma 832, terzo periodo, l. n. 296/2006 (legge finanziaria 2007), che attribuisce alla Commissione paritetica prevista dall’art. 43 dello Statuto speciale siciliano la competenza ad emettere pare-re riguardo alla determinazione dell’importo annuo della quota del gettito delle accise da retrocedere alla Regione; invero il disposto impugnato inci-de sui poteri conferiti dallo statuto siciliano alla suddetta Commissione: in particolare, da un lato tale disposto (pur risultando contenuto in una legge ordinaria) crea una peculiare funzione consultiva non prevista dallo statuto speciale (che è fonte di grado costituzionale), dall’altro lato il medesimo sot-trae alla Commissione il potere di stabilire essa stessa le modalità per la de-terminazione dell’importo annuo delle accise da retrocedere alla Regione.

Dichiara invece l’estinzione del giudizio, l’inammissibilità o la infonda-tezza riguardo alle questioni di legittimità costituzionale delle altre dispo-sizioni impugnate.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 54 e 55, 661 e 662, 796, lettera b), 830, 831 e 832, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Siciliana notificato il 23 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 2 marzo 2007 ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica del 26 febbraio 2008 il Giudice relatore Franco

Gallo;uditi gli avvocati Michele Arcadipane e Giovanni Carapezza Figlia per la

Regione Siciliana e l’avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La Regione Siciliana ha promosso questioni di legittimità costituziona-le dei commi 54 e 55, 661 e 662, 796, lettera b), 830, 831 e 832, dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio an-nuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), in riferimento agli artt. 36 e 43 dello statuto di autonomia, all’art. 1 del decreto legislativo 3 novembre

1123

2005, n. 241 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana, recanti attuazione dell’articolo 37 dello Statuto e simmetrico trasferimento di competenze), nonché agli artt. 3, 81 e 119 della Costituzione, al principio di leale collaborazione, all’art. 10 della legge costituzionale 8 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

2. – Preliminarmente, va rilevato che la ricorrente, dopo la proposizione del ricorso, ha depositato in data 24 luglio 2007 atto di rinuncia, limitatamente all’impugnazione del comma 796, lettera b), dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, accettata dallo Stato in data 11 settembre 2007. Con riferimento alla que-stione rinunciata, deve pertanto dichiararsi l’estinzione del processo, ai sensi dell’art. 25 delle norme integrative per i giudizi dinanzi a questa Corte.

Cosí delimitato l’oggetto del giudizio, si deve procedere all’analisi delle suddette censure.

3. – Con un primo gruppo di questioni, la ricorrente censura i commi 54 e 55 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, i quali – nello stabilire che le «mo-dalità tecniche di trasmissione in via telematica dei dati» relativi alle dichia-razioni dei redditi di cui al precedente comma 53 (comma 54) ed all’«import/export alle regioni» (comma 55) sono approvate con atti amministrativi statali (e cioè, rispettivamente, con «provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate, emanato d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali» e con «provvedimento del direttore dell’Agenzia delle dogane»), senza che sia all’uopo prevista un’intesa in sede, rispettivamente, di Conferenza Unificata e di Conferenza Stato-Regioni – víolano il principio di leale collaborazione, perché tale scelta del legislatore statale, oltre ad essere «assolutamente arbitraria» ed «irrazionale», non terrebbe adeguatamente in considerazione «gli interessi delle Regioni», destinatarie delle medesime trasmissioni di dati.

Le questioni non sono fondate.La ricorrente lamenta che le disposizioni impugnate, non coinvolgendo la

Regione nel procedimento di approvazione delle modalità tecniche di trasmis-sione in via telematica dei dati indicati dalle stesse disposizioni – cioè di dati che devono esser comunicati anche alla Regione stessa –, trascurano di considerare «il ruolo, il rilievo e gli interessi» della ricorrente medesima relativamente alla determinazione di dette modalità e, dunque, comportano una lesione del princi-pio di “leale cooperazione”.

Tale assunto non può essere condiviso, perché dette disposizioni, in com-binato disposto con il comma 53, si limitano a demandare a provvedimenti del direttore dell’Agenzia delle entrate e del direttore dell’Agenzia delle dogane la disciplina delle modalità tecniche di trasmissione telematica di dati dallo Stato alle Regioni ed agli enti locali e, pertanto, sono dirette solo alle suddette Agen-zie statali e, comunque, sono riconducibili alla materia, di competenza legisla-tiva esclusiva dello Stato, del «coordinamento informativo statistico e informa-tico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.).

1124

Né ad una diversa conclusione si può giungere in considerazione dell’asse-rito interesse della Regione a ricevere i dati suddetti secondo modalità tecniche previamente concordate con lo Stato, essendo questo un interesse di mero fatto, privo di garanzia costituzionale.

4. – Con un secondo gruppo di questioni, la ricorrente censura i commi 661 e 662 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006 per violazione: a) degli artt. 36 e 43 dello statuto; b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 241 del 2005; c) degli artt. 81 e 119 Cost.

4.1. – Il comma 661 prevede, a carico delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, misure volte al riequilibrio della finanza pubblica, che si aggiungono a quelle previste dal comma 660 del medesimo articolo. A tal fine stabilisce che tali enti devono concorrere alla produzione di un risparmio per il bilancio dello Stato «anche mediante l’assunzione dell’esercizio di funzioni sta-tali, attraverso l’emanazione, entro il 31 marzo 2007 e con le modalità stabilite dai rispettivi statuti, di specifiche norme di attuazione statutaria». Queste nor-me – prosegue la disposizione censurata – «precisano le modalità e l’entità dei risparmi per il bilancio dello Stato da ottenere in modo permanente o comunque per annualità definite».

Il comma 662 stabilisce che dette norme di attuazione – tenendo conto degli esiti della sperimentazione finalizzata ad assumere, quale base di riferimento per il patto di stabilità interno, il saldo finanziario, ai sensi dell’art. 1, comma 656, della medesima legge – «devono altresí prevedere le disposizioni per assicurare in via permanente il coordinamento tra le misure di finanza pubblica previste dalle leggi costituenti la manovra finanziaria dello Stato e l’ordinamento della finanza regionale previsto da ciascuno statuto speciale e dalle relative norme di attua-zione, nonché le modalità per il versamento dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’addizionale dell’imposta sul reddito delle persone fisiche».

4.2. – Secondo la ricorrente, il comma 661 víola il «criterio di simmetria» tra trasferimento di funzioni e di risorse stabilito dall’art. 1 del d.lgs. n. 241 del 2005, perché prevede «sostanzialmente il trasferimento di funzioni senza trasferimento di risorse economiche o con il trasferimento di risorse inferiori al necessario».

La questione non è fondata, perché il criterio di simmetria previsto dal parametro evocato dalla Regione Siciliana non trova applicazione nel caso di specie.

Tale criterio riguarda solo la specifica ipotesi di trasferimento, dallo Stato alla Regione, delle funzioni di riscossione delle imposte in conseguenza della devoluzione di «quote di competenza fiscale dello Stato» e non, come sostiene la Regione, l’ipotesi del trasferimento di funzioni diverse da quelle di riscossione. Infatti, l’art. 1 del d.lgs. n. 241 del 2005, nel dare attuazione all’art. 37 dello statuto, si limita a disporre che, con riferimento all’imposta relativa alle quote del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti siti nel territorio della Re-gione di imprese industriali e commerciali aventi la sede centrale fuori da tale

1125

territorio, «sono trasferite alla Regione» – «simmetricamente» al trasferimento del gettito di tale imposta – anche le «competenze previste dallo Statuto sino ad ora esercitate dallo Stato», e, cioè esclusivamente le competenze in ordine alla riscossione di tale imposta.

4.3. – La ricorrente deduce altresí che il comma 661, nel prevedere la possi-bilità del trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni senza un contestuale trasferimento di risorse, determina una violazione dell’autonomia finanziaria della Regione garantita dall’art. 36 dello statuto e dall’art. 119 Cost., rilevante sotto il profilo del rispetto dell’obbligo di copertura della spesa ai sensi dell’art. 81, quarto comma, Cost. Secondo la ricorrente, infatti, la norma crea un aggra-vio di spesa per la Regione medesima e, perciò, «uno squilibrio finanziario a carico del bilancio regionale».

Anche tale questione non è fondata, perché, in relazione al dedotto «squi-librio finanziario», non sussiste alcuno specifico elemento che consenta di rite-nere che: a) il comma censurato crei un’alterazione del «rapporto tra comples-sivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte»; b) detto squilibrio finanziario abbia comunque il carattere della “gravità”, cosí come è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale considera lesi gli evocati parametri costituzionali solo laddove la variazione del rapporto entrate-spese determini un “grave squilibrio” nel bilancio regionale (sentenze n. 29 del 2004; n. 138 del 1999 e n. 222 del 1994).

4.4. – Con un terzo motivo, la ricorrente deduce anche che il comma 661 determina una violazione dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché la norma censurata – prevedendo misure dirette a produrre un risparmio per il bilancio dello Stato, finalizzato al riequilibrio della finanza pubblica, da realizzarsi «anche mediante l’assunzione dell’esercizio di funzioni statali» non accompagnate da un simmetrico trasferimento di risorse – incide sull’equilibrio finanziario e sull’autonomia regionale «al di fuori degli strumenti pattizi […] individuati [negli Statuti], od anche liberamente convenuti» e, perciò, lede il medesimo art. 10, «mirante a garantire alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano quelle forme di autonomia più ampie contemplate dalle norme del nuovo Titolo V».

Nemmeno tale questione è fondata.L’evocato art. 10, infatti, non trova applicazione riguardo alle previsioni

degli statuti speciali che disciplinano detti strumenti pattizi, perché si limita ad attribuire alle Regioni a statuto speciale le forme di maggiore autonomia che il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione riconosce alle Regioni a statuto ordinario (sentenza n. 175 del 2006; si vedano anche, ex plurimis, le sentenze n. 102 del 2008, n. 238 del 2004 e n. 314 del 2003). Esso, dunque, non disciplina né l’effettivo àmbito di applicazione degli «strumenti pattizi» previsti dallo statuto, né la garanzia costituzionale di cui detti strumenti beneficiano nell’ordinamento; di conseguenza, non può costituire nemmeno il fondamento costituzionale della censura prospettata dalla ricorrente.

1126

4.5. – Con un quarto motivo, la ricorrente promuove questione di legittimi-tà costituzionale dei commi 661 e 662, per violazione dell’art. 43 dello statuto speciale della Regione Siciliana, perché detti commi, «predeterminando uni-lateralmente il contenuto di future norme di attuazione statutaria», ledono «il principio di pariteticità che presiede alla determinazione pattizia delle mede-sime, palesandosi evidentemente, allo scopo, del tutto insufficiente la garanzia procedimentale, del resto ovvia, alla quale si rinvia».

Anche tale questione non è fondata, perché, nel caso di specie, è possibi-le pervenire a un’interpretazione conforme a Costituzione dei censurati commi 661 e 662, idonea a superare il prospettato dubbio di costituzionalità. I commi denunciati – i quali stabiliscono che le misure da essi previste trovano applica-zione attraverso apposite «norme di attuazione statutaria», e cioè norme che, in base all’evocato parametro, sono determinate da una «Commissione paritetica di quattro membri nominati dall’Alto Commissario della Sicilia e dal Gover-no dello Stato» – devono essere, infatti, interpretati nel senso che si limitano a individuare l’àmbito delle modifiche che il legislatore statale dovrà apportare alle norme di attuazione statutaria in base alle determinazioni della menziona-ta Commissione paritetica. Cosí interpretati, detti commi non hanno l’effetto, affermato dalla ricorrente, di predeterminare unilateralmente il contenuto delle delibere della Commissione e, pertanto, non hanno attitudine lesiva delle prero-gative costituzionali della medesima.

Tale interpretazione trova conferma nella giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il semplice richiamo alle modalità di attuazione statutaria, con-tenuto nelle leggi statali che trasferiscono funzioni alle Regioni (o recano rifor-me che richiedono un coordinamento con le norme di attuazione statutaria), è sufficiente a garantire che «la determinazione delle relative norme d’attuazione venga effettuata, nel rispetto dell’autonomia regionale, dalla Commissione pa-ritetica prevista dall’art. 43 dello Statuto» (sentenze n. 180 del 1980; n. 166 del 1976; n. 298 del 1974).

5. – Con un terzo gruppo di questioni la ricorrente censura i commi 830, 831 e 832 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, in riferimento all’art. 43 dello statuto di autonomia, nonché agli artt. 3, 81 e 119 Cost.

5.1. – Il comma 830 ridetermina, ampliandola progressivamente, la misura del concorso della Regione Siciliana alla spesa sanitaria a carico del bilancio regionale. Il successivo comma 831 sospende l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 830 fino al 30 aprile 2007; stabilisce che «entro tale data dovrà essere raggiunta l’intesa preliminare all’emanazione delle nuove norme di at-tuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia sanitaria»; ridetermina per l’anno 2007, nel caso di mancato raggiungimento dell’intesa, il concorso della Regione alla medesima spesa in una misura inferiore a quella prevista dal censurato comma 830 per il medesimo anno. Il comma 832 demanda alle nor-me di attuazione di cui al menzionato comma 831 il riconoscimento della «re-trocessione alla Regione siciliana di una percentuale non inferiore al 20 e non

1127

superiore al 50 per cento del gettito delle accise sui prodotti petroliferi immessi in consumo nel territorio regionale»; stabilisce che tale retrocessione «aumenta simmetricamente, fino a concorrenza, la misura percentuale del concorso della Regione alla spesa sanitaria, come disposto dal comma 830»; prevede che «alla determinazione dell’importo annuo della quota da retrocedere alla Regione si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere della Commissione parite-tica prevista dall’articolo 43 dello Statuto».

5.2. – Preliminarmente, deve essere esaminata l’eccezione della difesa era-riale secondo cui il ricorso sarebbe parzialmente inammissibile «in quanto il comma 830 è sospeso fino al 30 aprile 2007».

L’eccezione non è fondata.Il comma 831 dispone la sospensione dell’applicazione del solo comma

830 nel periodo tra la sua entrata in vigore (1° gennaio 2007) e il 30 aprile 2007. Tale sospensione, tuttavia, non fa venire meno la lesività del denunciato comma 830 rispetto alla sfera delle competenze statutariamente attribuite alla Regione, perché tale comma è comunque entrato in vigore ed è idoneo a produrre effetti.

5.3. – Sempre in via preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le questioni relative alla violazione dell’art. 3 Cost. Sul punto, infatti, il ricorso non solo è generico, ma prospetta la violazione di un parametro costituzionale che non afferisce al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, né ridonda nella lesione di competenze di queste ultime (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008 e n. 430 del 2007).

5.4. – Passando al merito delle questioni promosse, la Regione Siciliana deduce, con un primo motivo di censura, che i commi 830, 831 e 832 víolano gli artt. 81, quarto comma, e 119, quarto comma, Cost., sotto il profilo dell’obbligo di copertura della spesa, perché determinano «un grave squilibrio finanziario» a carico del bilancio regionale, fissando un aumento della quota di comparteci-pazione regionale alla spesa sanitaria senza un contemporaneo trasferimento di risorse aggiuntive. Tale squilibrio viene quantificato dalla Regione medesima, rispettivamente, in 185, 371 e 556 milioni di euro per gli anni 2007, 2008 e 2009.

Le questioni non sono fondate, perché la ricorrente, in relazione al dedotto «squilibrio finanziario», si limita a prospettare una mera quantificazione dell’ag-gravio di spesa determinato dalla misura impugnata, senza dimostrare, come invece richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, che detta misura alteri «gravemente» «il rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte» (sentenze n. 29 del 2004; n. 138 del 1999 e n. 222 del 1994).

Né a diversa conclusione può condurre il rilievo della ricorrente, secondo cui essa non può sopportare il maggior aggravio di spesa determinato dai commi censurati nemmeno «mediante la rimodulazione e la compressione di altre voci di spesa». Tale deduzione non è, infatti, sufficiente a dimostrare che l’aggravio

1128

di spesa derivante dai commi censurati sia tale da produrre un “grave squilibrio” del bilancio regionale, tanto più che la ricorrente non offre alcun elemento atto a porre in relazione detto aggravio con le complessive voci del bilancio – sia annuale, sia pluriennale – della Regione. In tal modo, la ricorrente si sottrae all’onere della dimostrazione, richiesta dalla citata giurisprudenza di questa Corte, che la misura impugnata determini effettivamente una grave alterazione del rapporto tra insieme dei mezzi finanziari di cui la Regione può disporre e complessivi bisogni regionali.

5.5. – La ricorrente Regione Siciliana promuove, infine, in riferimento all’art. 43 dello statuto di autonomia, questione di legittimità costituzionale del comma 832 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, il quale prevede che: a) nelle «norme di attuazione di cui al comma 831», è riconosciuta alla Regione siciliana la retrocessione di una certa quota del gettito delle accise sui prodotti petroliferi immessi in consumo nel territorio regionale (primo periodo); b) «tale retrocessione aumenta simmetricamente, fino a concorrenza, la misura percentuale del concorso della Regione alla spesa sanitaria» (secondo periodo); c) alla determinazione dell’importo annuo della quota da retrocedere alla Regio-ne si provvede «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su propo-sta del Ministro dell’economia e delle finanze, previo parere della Commissione paritetica prevista dall’articolo 43 dello Statuto della Regione siciliana» (terzo periodo).

Per la Regione, il comma censurato «limita l’intervento della Commissione paritetica ivi prevista all’individuazione di quelle misure percentuali di concorso regionale alla spesa sanitaria discendenti dalla prevista simmetria rispetto alla quota di gettito da devolvere, mentre rientra viceversa tra i suoi compiti il defini-re, tra gli altri, anche tutti i profili finanziari connessi all’esercizio delle funzioni attribuite».

La questione relativa ai primi due periodi del comma 832 non è fondata.In relazione a detti periodi valgono, infatti, le medesime ragioni d’infon-

datezza già esposte al punto 4.5. Le disposizioni denunciate – nel rimettere alle norme di attuazione statutaria la disciplina della retrocessione di una certa quota del gettito delle accise – devono essere interpretate nel senso che esse si limita-no a individuare l’àmbito delle modifiche da apportare alle norme di attuazione statutaria in materia finanziaria, senza con ciò sottrarre alla menzionata Com-missione paritetica la competenza a determinare tali norme.

è, invece, fondata la questione relativa al terzo periodo del censurato com-ma 832, ai sensi del quale la determinazione dell’importo annuo della quota da retrocedere alla Regione è effettuata «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, previo pa-rere della Commissione paritetica prevista dall’articolo 43 dello Statuto della Regione siciliana». La disposizione denunciata, infatti, nell’attribuire alla Com-missione paritetica l’ulteriore competenza ad emettere parere circa la misura di detto importo, incide sui poteri e sulle funzioni previsti dallo statuto speciale

1129

per tale Commissione, perché non si limita a individuare l’àmbito delle modi-fiche da apportare alle norme di attuazione statutaria in materia finanziaria, ma crea – con una legge statale ordinaria – una speciale funzione consultiva non prevista dallo statuto di autonomia e, al tempo stesso, sottrae alla medesima Commissione il potere di stabilire essa stessa, con le norme di attuazione dello statuto, anche le modalità per la determinazione dell’importo annuo delle accise da retrocedere alla Regione.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara estinto il processo, limitatamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promossa dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale del terzo periodo del comma 832 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 54 e 55, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento al princi-pio di leale collaborazione, dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 661 e 662, della legge n. 296 del 2006, promosse dalla Regione Si-ciliana, in riferimento agli artt. 36 e 43 dello statuto della Regione Siciliana, all’art. 1 del decreto legislativo 3 novembre 2005, n. 241 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana, recanti attuazione dell’articolo 37 dello Statuto e simmetrico trasferimento di competenze), agli artt. 81 e 119 della Costituzione, nonché all’art. 10 della legge costituzionale 8 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), con il ricorso indicato in epigrafe;

5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 830, 831 e 832, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 830, 831 e 832, primo e secondo periodo, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento all’art. 43 dello statuto ed agli artt. 81 e 119 Cost., dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe.

1130

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (7) 20 maggio 2008, n. 159 – BILE Pres. – DE SIERVO Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse dalla Re-gione Veneto e dalla Provincia autonoma di Bolzano, di alcune disposizioni dell’art. 1 della l. n. 296/2006 (legge finanziaria 2007).

In particolare dichiara fondate le questioni di costituzionalità dei se-guenti disposti:

del comma 730 perché esso, vincolando le Regioni e le Province au-tonome al rispetto delle disposizioni analitiche ivi richiamate, comprime l’autonomia finanziaria regionale;

dei commi 725, 726, 727 e 728 nella parte in cui si applicano agli enti lo-cali delle Province autonome poiché questi commi, contenendo disposizioni di carattere analitico, ledono l’autonomia finanziaria dei suddetti enti;

del comma 734, nella parte in cui si riferisce alle Regioni e alle Pro-vince autonome perché, contenendo una disposizione di dettaglio, incide sulla competenza legislativa residuale di esse in materia di organizzazione amministrativa.

Dichiara invece inammissibili o infondate le questioni di legittimità co-stituzionale delle altre disposizioni impugnate.

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 721 e 722, da 725 a 730 e da 733 a 735 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanzia-ria 2007), promossi con ricorsi della Regione Veneto e della Provincia autonoma di Bolzano notificati il 23 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 1° e il 15 marzo 2007 ed iscritti ai nn. 10 e 12 del registro ricorsi 2007.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2008 il Giudice relatore Ugo De

Siervo;uditi gli avvocati Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Giuseppe Franco

Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano e gli avvocati dello Stato Giuseppe Fiengo, Massimo Salvatorelli e Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La Regione Veneto ha promosso, tra le altre, questione di legittimità costituzionale, dell’art. 1, commi 721, 722 e 730 della legge 27 dicembre 2006,

1131

n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), in riferimento agli artt. 117, commi terzo e quar-to, 118 e 119 della Costituzione.

La ricorrente, riferendo il comma 721 alla materia «organizzazione ammi-nistrativa della Regione», di propria competenza residuale, reputa «palese» la violazione dei suddetti parametri costituzionali.

In via subordinata, la Regione denuncia la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, poiché le disposizioni impugnate non si sareb-bero limitate a porre princìpi fondamentali, ma avrebbero fissato una disciplina normativa di dettaglio fortemente invasiva dell’autonomia regionale.

Il comma 730 dello stesso art. 1, imponendo che le Regioni adeguino «ai princìpi di cui ai commi da 725 a 735 la disciplina dei compensi degli ammini-stratori delle società da esse partecipate, e del numero massimo dei componenti del consiglio di amministrazione di dette società», violerebbe in modo palese l’art. 117, quarto comma, della Costituzione, e quindi anche gli artt. 118 e 119 della Costituzione, essendo intervenuto nella materia, di competenza residuale, delle «società partecipate dalle Regioni».

Anche ove la disposizione potesse essere ascritta alla materia «coordina-mento della finanza pubblica», comunque sarebbe leso l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, non essendosi il legislatore statale limitato ad enunciare nor-me di principio. Di conseguenza risulterebbero anche violati gli artt. 118 e 119 della Costituzione.

2. – La Provincia autonoma di Bolzano ha promosso, tra le altre, questione di legittimità costituzionale, dell’art. 1, commi da 725 a 730 e da 733 a 735, del-la medesima legge finanziaria per il 2007, in riferimento agli artt. 3, 81, 97, 116, 117, commi secondo, lettere g) e l), terzo e quarto, e 119 della Costituzione, in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), nonché in riferimento agli artt. 4, numero 3), 8, numero 1), ed al Titolo VI, «con particolare riferimento agli artt. 80 e 81», del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), all’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rap-porto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), ed agli artt. 16 e 17 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino Alto-Adige in materia di finanza regionale e provinciale), ed infine al principio di leale collaborazione.

Il comma 730, in particolare, richiamando gli analitici commi da 725 a 729 e da 733 a 735, anche ove riconducibile alla materia «coordinamento della finan-za pubblica», violerebbe innanzitutto l’art. 117, terzo comma, della Costituzio-ne, fissando norme di dettaglio in luogo dei richiesti princìpi fondamentali.

Inoltre, sarebbero violati gli artt. 81 e 119 della Costituzione, nonché il

1132

Titolo VI dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige Südtirol (con particolare riferimento agli artt. 80 e 81) e gli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 268 del 1992. Infatti, il legislatore statale sarebbe abilitato ad enunciare esclusivamente norme di principio, fissando soltanto limiti complessivi di spesa, ma lasciando agli enti territoriali ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi àmbiti ed obiettivi di spesa.

Inoltre, le denunciate previsioni limiterebbero illegittimamente il peculiare àmbito di autonomia riconosciuto dagli Statuti e dall’art. 116 della Costituzione alle Province autonome: ai sensi dell’art. 8, numero 1), dello statuto speciale, spetta in via esclusiva alle Province autonome la potestà legislativa in materia di ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto. Potestà legislativa non comprimibile neppure nell’esercizio, da parte dello Stato, della funzione legislativa in materia di «ordinamento civile» o in materia di «ordina-mento ed organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazio-nali» (art. 117, secondo comma, lettere l) e g), della Costituzione).

Dalle precedenti considerazioni si evincerebbe anche la violazione dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione, attesa la natura residuale della potestà le-gislativa provinciale in ordine alla disciplina dell’organizzazione amministrativa.

La ricorrente rileva, altresì, che lo statuto speciale riserva alla Provincia la disciplina della finanza locale. Inoltre l’art. 17 del d.lgs. n. 268 del 1992 deman-da alle leggi provinciali la determinazione dei «criteri per assicurare un equili-brato sviluppo della finanza comunale».

L’assenza nei commi da 725 a 730 di ogni forma «di confronto con la Provincia ricorrente» contrasterebbe con il principio di leale collaborazione, già espresso nell’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 266 del 1992, in virtù del quale la Regione o le Province autonome di Trento e di Bolzano, secondo le rispettive competenze, sono consultate, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, su ciascun atto di indirizzo e di coordinamento ai fini della verifica della com-patibilità dello stesso con lo statuto speciale e le relative norme di attuazione.

Illegittimo sarebbe anche il comma 729, nonostante vi si introduca un mo-mento di confronto tra lo Stato e le autonomie locali, nell’àmbito del proce-dimento finalizzato alla determinazione, con decreto Presidente del Consiglio dei ministri, dell’importo del capitale sociale rilevante ai fini di individuare il numero massimo di componenti del consiglio di amministrazione delle società partecipate oggetto delle disposizioni: ciò perché anche «l’emissione di tale de-creto non può sostituire l’esercizio di una potestà legislativa costituzionalmente affidata alla Provincia autonoma di Bolzano».

La disciplina censurata, imponendo regole uniformi per tutti gli enti locali, inciderebbe sulla autonomia finanziaria riconosciuta alle Province autonome, nonché sulla potestà provinciale in materia di finanza locale, per di più senza tenere conto delle risorse effettivamente disponibili e dello stato dei bilanci, con conseguente ed «evidente violazione altresì dei principi espressi dagli artt. 3 e 97 della Costituzione».

1133

Infine, il comma 735 sarebbe illegittimo in quanto finalizzato a comprimere l’àmbito di autonomia riconosciuto alla Provincia autonoma di Bolzano in ma-teria di ordinamento ed organizzazione amministrativa delle proprie strutture e degli enti pubblici provinciali e del personale ad essi addetto. Né il legislatore statale potrebbe disciplinare nel dettaglio gli strumenti da utilizzare per raggiun-gere l’equilibrio di bilancio ed il coordinamento della finanza pubblica (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 390 del 2004).

Il riconoscimento, da parte della giurisprudenza costituzionale, della le-gittimità di alcuni specifici poteri di controllo statali sull’attività di Regioni e Province autonome sarebbe possibile solo sulla base di peculiari presupposti, nella specie non esistenti. Inoltre, la previsione di una sanzione amministrativa prefettizia violerebbe il disposto dell’art. 4, del d.lgs. n. 266 del 1992.

3. – In considerazione dell’identità della materia e della parziale identità dei profili di illegittimità fatti valere, i ricorsi possono essere riuniti per esse-re decisi con un’unica pronuncia, quanto alle norme censurate sopra indicate, riservandosi invece a separate pronunce la decisione delle ulteriori e diverse questioni di legittimità costituzionale con essi promosse.

4. – In via preliminare, occorre procedere alla dichiarazione di inammis-sibilità di alcune delle censure avanzate dalla ricorrente Provincia di Bolzano, in parte basate su parametri palesemente estranei alla sfera di competenza pro-vinciale.

Anzitutto non è ammissibile che la Provincia ricorrente evochi, quale pa-rametro delle censure relative a tutte le disposizioni impugnate che si riferisco-no all’ordinamento degli enti locali, l’art. 4, numero 3 dello statuto regionale, che attribuisce competenza legislativa primaria in tema di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» alla sola Regione (sentenza n. 132 del 2006). Non essendo la Provincia legittimata a promuovere questioni di legitti-mità costituzionale al di fuori della propria specifica area di competenza, vanno dichiarate inammissibili tutte le censure basate su tale parametro, anche con riferimento al comma 729 ed ai commi 734 e 735 (in questi due ultimi casi, per la parte in cui le disposizioni censurate si riferiscono agli enti locali).

Palesemente inammissibile è, inoltre, la questione con cui si lamenta che la disciplina impugnata sarebbe stata posta «in spregio del principio di leale colla-borazione, nonché in violazione del principio di cui all’art. 3, comma 3, d.lgs. 266/1992»: è giurisprudenza pacifica di questa Corte che l’esercizio dell’attività legislativa sfugge alle procedure di leale collaborazione (da ultimo, sentenza n. 401 del 2007), né appare conferente, in ordine al procedimento legislativo, il ri-chiamo all’art. 3, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 266 del 1992 (e ciò senza considerare il superamento della figura degli atti di indirizzo e coordinamento, sancito espres-samente dall’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, nelle materie di competenza concorrente o residuale delle Regioni: sentenza n. 329 del 2003).

La palese estraneità al caso di specie dei parametri in tal modo invocati si traduce in radice nell’inammissibilità della relativa questione.

1134

Sono inoltre inammissibili, per assoluta genericità, le censure basate sugli artt. 81 e 116 della Costituzione.

Infine, appare inammissibile che la ricorrente indichi fra i molteplici para-metri che sarebbero violati dalle disposizioni impugnate anche l’art. 117, com-ma secondo, lettera g), in relazione alla competenza esclusiva in tema di «ordi-namento e organizzazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali», e lettera l), in relazione alla competenza esclusiva dello Stato in tema di «ordinamento civile», della Costituzione, relativi a titoli di competenza legislativa dello Stato e non delle Regioni e Province autonome. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che «il perimetro entro il quale assumono rilievo gli interessi al cui perseguimento è tesa l’attività legislativa risulta rigorosamente conformato dalle norme attributive di competenza» (sentenza n. 116 del 2006).

Analogamente è inammissibile che vengano addotti dalla ricorrente come parametri violati i «principi espressi dagli artt. 3 e 97 della Costituzione», es-sendo evidente che si tratta di disposizioni del tutto estranee alle materie di competenza della Provincia autonoma di Bolzano.

5. – Venendo al merito delle questioni poste, le censure relative ai commi 721 e 722 sollevate dalla Regione Veneto non sono fondate.

Il comma 721 prescrive che, «ai fini del contenimento della spesa pubblica, le regioni, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, adottano disposizioni, normative o amministrative, finalizzate ad assicurare la riduzione degli oneri degli organismi politici e degli apparati amministrativi, con particolare riferimento alla diminuzione dell’ammontare dei compensi e delle indennità dei componenti degli organi rappresentativi e del numero di que-sti ultimi, alla soppressione degli enti inutili, alla fusione delle società partecipa-te e al ridimensionamento delle strutture organizzative». Questa disposizione è espressamente qualificata dal comma 722, anch’esso impugnato, come «princi-pio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ai fini del rispetto dei parametri stabiliti dal patto di stabilità e crescita dell’Unione europea». Coeren-temente a questa qualificazione, il comma 723 (non impugnato dalla ricorrente) quantifica «i risparmi di spesa derivanti dall’attuazione del comma 721» nel dieci per cento rispetto ai saldi dell’anno precedente.

Dinanzi ad un intervento legislativo statale di coordinamento della finanza pubblica riferito alle Regioni, e cioè nell’àmbito di una materia di tipo con-corrente, è naturale che ne derivi una, per quanto parziale, compressione degli spazi entro cui possano esercitarsi le competenze legislative ed amministrative di Regioni e Province autonome (specie in tema di organizzazione amministra-tiva o di disciplina del personale), nonché della stessa autonomia di spesa loro spettante (fra le molte, si vedano le sentenze n. 169 e n. 162 del 2007; n. 353 e n. 36 del 2004).

L’incidenza delle misure prefigurate dalle norme impugnate sull’autonomia organizzativa e di spesa della ricorrente non è pertanto risolutiva della questio-ne di legittimità costituzionale, ove tali disposizioni siano state legittimamente

1135

poste dallo Stato nell’esercizio della propria competenza a dettare princípi fon-damentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

Nel caso di specie, è rispettato il limite, che questa Corte ha costantemente ribadito, che le disposizioni statali pongano solo criteri ed obiettivi cui dovran-no attenersi le Regioni e gli enti locali nell’esercizio della propria autonomia finanziaria, senza invece imporre loro precetti specifici e puntuali (fra le molte, si vedano le sentenze n. 95 del 2007, n. 449 del 2005 e n. 390 del 2004).

Difatti, le disposizioni impugnate non vanno oltre la individuazione di obiettivi finanziari globali (comma 723) e la indicazione che le Regioni inter-vengano, entro sei mesi, in via legislativa od anche solo amministrativa, per ridurre le spese nella vasta e, in certa misura, perfino eterogenea area dell’orga-nizzazione regionale individuata dalla disposizione impugnata.

6. – Le questioni relative al comma 730 sono fondate nei termini di seguito indicati.

6.1. – Sia la Regione Veneto sia la Provincia autonoma di Bolzano hanno impugnato il comma 730, secondo il quale «le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adeguano ai princìpi di cui ai commi da 725 a 735 la disciplina dei compensi degli amministratori delle società da esse partecipate, e del numero massimo dei componenti del consiglio di amministrazione di dette società. L’obbligo di cui al periodo che precede costituisce principio di coordi-namento della finanza pubblica».

La Regione Veneto, in via prioritaria, asserisce che questa disposizione sarebbe illegittima costituzionalmente perché lesiva di una materia di propria competenza residuale, definita “società partecipata dalle Regioni”: tesi mani-festamente infondata, dal momento che semmai si opera all’interno della più ampia materia dell’organizzazione e funzionamento della Regione, anch’essa riconducibile al quarto comma dell’art. 117 Costituzione, salve le competenze che l’art. 123 della Costituzione assegna in tale àmbito materiale alla fonte sta-tutaria (sentenza n. 387 e n. 188 del 2007; n. 233 del 2006).

Peraltro – come espresso al punto precedente – ciò non esclude che una di-sposizione statale di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica, ove costituzionalmente legittima, possa incidere su una materia di competenza della Regione e delle Province autonome (sentenze n. 188 del 2007, n. 2 del 2004 e n. 274 del 2003), come l’organizzazione ed il funzionamento dell’ammi-nistrazione regionale e provinciale.

Infatti, la Provincia di Bolzano deduce l’illegittimità del comma 730 anche sulla base della propria speciale autonomia legislativa di tipo primario in tema di «ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto» (art. 8, nu-mero 1 dello statuto), eventualmente integrata (ove non si reputi di ricomprende-re in questa competenza l’ordinamento degli enti e delle società partecipate dalla Provincia) dalla materia relativa alla organizzazione amministrativa autonoma, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione, applicabile ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Anche in tal caso deve affer-

1136

marsi che questo tipo di argomentazione non è risolutivo, dal momento che una disposizione statale di principio in tema di coordinamento della finanza pubbli-ca, ove costituzionalmente legittima, ben può incidere su una materia regionale come l’organizzazione ed il funzionamento amministrativo, fermo, per di più, quanto già rilevato in ordine al difetto di competenze statutarie della Provincia in materia di ordinamento degli enti locali.

La Regione Veneto sostiene altresì, seppur in via subordinata, che illegit-timo sarebbe stato comunque anche l’esercizio da parte dello Stato del proprio potere legislativo in tema di coordinamento della finanza pubblica, dal momento che, lungi dal determinare princípi, attraverso il richiamo delle analitiche norme contenute nei commi da 725 a 735, esso finirebbe, «nei fatti, per individuare una singola voce di spesa da limitare, in palese contrasto sia con l’art. 117, comma 3, della Costituzione, il quale impone che lo Stato nelle materie di potestà legi-slativa concorrente, quale è, per l’appunto, il «coordinamento della finanza pub-blica», si limiti a fissare norme di principio, sia con l’art. 119 della Costituzione, che garantisce piena autonomia di spesa alle Regioni, autonomia che si traduce nello scegliere quali spese limitare a vantaggio di altre».

A sua volta, la Provincia autonoma di Bolzano sviluppa una argomentazio-ne analoga a quest’ultima, allorché rileva che l’esercizio da parte dello Stato del proprio potere in tema di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamen-to della finanza pubblica», pacificamente riferibile anche alle Regioni a statuto speciale (tra le molte, si veda la sentenza n. 353 del 2004), sarebbe stato eserci-tato in contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dal momento che il comma 730 porrebbe una disciplina non già di principio, bensì molto dettagliata. Lo stesso rinvio ad una legge regionale o provinciale non esclude «la evidente incostituzionalità delle previsioni censurate, in quanto non lascia a li-vello regionale e provinciale alcuna facoltà di desumere dalle previsioni stesse i principi cui ispirare ed adeguare la propria produzione legislativa, essendo le di-sposizioni sostanziali di cui ai commi 725-729 e 733-735 di estremo dettaglio». Del pari analogo alla tesi sostenuta dalla Regione Veneto è il riferimento all’al-tro parametro asseritamene leso e cioè l’ autonomia finanziaria della Provincia, agevolmente deducibile dalla speciale disciplina contenuta nel Titolo VI dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige Südtirol (con particolare ri-ferimento agli artt. 80 e 81) e dagli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 268 del 1992.

6.2. – In effetti, il contenuto del comma 730 rende evidente la impossibilità di ricondurre la disposizione censurata ad un esercizio del potere legislativo di determinazione di principi fondamentali, nel rispetto del tipo di legislazione concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 della Costituzione.

Dal “principio di coordinamento della finanza pubblica” discenderebbe l’obbligo per il legislatore regionale o provinciale di adeguare i compensi ed il numero massimo degli amministratori delle società partecipate «ai princìpi di cui ai commi da 725 a 735».

Peraltro, le disposizioni normative sono tutte assai particolareggiate ed an-

1137

che in parte tra loro eterogenee. In effetti, i commi da 725 a 729 contengono una serie di norme del tutto analitiche e strettamente riferite all’ordinamento degli enti locali, mentre i commi 731 e 732 modificano addirittura disposizioni del testo unico sugli enti locali di cui al d.lgs. n. 267 del 2000 relativamente ad istituti del tutto estranei alle società partecipate; infine, il contenuto dei commi 733, 734 e 735 rende evidente che si tratta di disposizioni che non possono non applicarsi integralmente, senza spazi per adeguamento alcuno, anche a Regioni e Province autonome.

Tutto ciò porta a concludere che il comma 730 è costituzionalmente il-legittimo perché irriducibile a quanto prescritto nell’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 117 della Costituzione: quand’anche la norma impugnata ven-ga collocata nell’area del coordinamento della finanza pubblica, è palese che il legislatore statale, vincolando Regioni e Province autonome all’adozione di misure analitiche e di dettaglio, ne ha compresso illegittimamente l’autonomia finanziaria, esorbitando dal compito di formulare i soli princípi fondamentali della materia.

Le altre censure risultano assorbite.7. – La sola Provincia autonoma di Bolzano impugna anche i commi da 725

a 729 e da 733 a 735 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006.La decisione di tali questioni esige un loro esame distinto, a seconda dei

soggetti destinatari delle disposizioni impugnate e quindi considerando i dif-ferenziati titoli di competenza in base ai quali le norme censurate sono state adottate.

Va, peraltro, premesso che la ricorrente non ha specificato che interesse essa abbia ad impugnare il comma 733, il quale, limitandosi ad affermare che le norme censurate non trovano applicazione alle società quotate in borsa, con ogni evidenza circoscrive semplicemente il campo operativo delle disposizioni di cui si chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale: le questioni relative a tale norma, peraltro prive di autonoma motivazione, debbono quindi ritenersi inammissibili.

7.1. – I commi da 725 a 729 definiscono in modo analitico il numero com-plessivo, i compensi e le indennità dei componenti del consiglio di ammini-strazione delle «società a totale partecipazione di comuni o province» o delle «società a partecipazione mista di enti locali e altri soggetti pubblici o privati», non quotate in borsa.

Le norme impugnate hanno evidente attinenza sia con l’autonomia finan-ziaria, sia con i profili organizzativi degli enti locali, posto che esse coinvolgono le modalità con cui tali enti perseguono, quand’anche nelle forme del diritto privato, le proprie finalità istituzionali.

Queste disposizioni vengono ritenute dall’Avvocatura generale dello Stato espressive di “principi di coordinamento della finanza pubblica” sulla base della qualificazione in tal senso operata dal legislatore statale nel comma 730, peraltro riferibile alle sole società partecipate dalle Regioni e dalle Province autonome.

1138

Non meno significativi sono, tuttavia, i profili organizzativi: d’altra par-te, se nel secondo comma dell’art. 119 della Costituzione ci si riferisce anche per gli enti locali al coordinamento della finanza pubblica, ciò non esclude che l’esercizio delle competenze che comportino una spesa avvenga entro le coordi-nate organizzative tracciate dalla legge competente in materia.

In altre parole, con riferimento alle Regioni a statuto ordinario, spetta al le-gislatore statale sia disciplinare i profili organizzativi concernenti l’ordinamento degli enti locali (sentenza n. 377 del 2003), sia adottare la disciplina quadro, entro cui, in attuazione dell’art. 119, secondo comma, della Costituzione, si esplicherà l’autonomia finanziaria dell’ente.

D’altra parte, è il contenuto dei commi censurati che mette in evidenza il loro stretto rapporto con la legislazione sugli enti locali preesistente (in parti-colare con il testo unico sugli enti locali, alcune delle cui disposizioni vengono estese o richiamate), con anche il coinvolgimento nella procedura di cui al com-ma 729 degli stessi soggetti istituzionali preposti a livello nazionale al settore dell’amministrazione locale.

è invece da escludere che questi commi siano espressivi del potere legi-slativo statale in tema di ordinamento civile di cui all’art. 117, comma secondo, lettera l), della Costituzione (per le Regioni ad autonomia speciale ci si dovrebbe riferire al cosiddetto limite del “diritto civile”): ciò perché queste disposizio-ni pongono semplicemente alcuni ulteriori limiti alle forme di partecipazione degli enti locali in società di diritto privato rispetto a quelli già ampiamente previsti dalle speciali disposizioni legislative sull’amministrazione locale (art. 4 del decreto-legge 31 gennaio 1995, n. 26, recante «Disposizioni urgenti per la ripresa delle attività imprenditoriali», convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 29 marzo 1995, n. 20, d.P.R. 16 settembre 1996, n. 533 recante «Regolamento recante norme sulla costituzione di società miste in ma-teria di servizi pubblici degli enti territoriali»; artt. 113-bis, 115 e 116 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali»), mentre le società partecipate dagli enti locali restano, dal punto di vista civilistico, disciplinate dalle pertinenti disposizioni del codice civile ed in particolare – per quanto qui rileva – dall’art. 2449 c.c.

Spetterà ai rappresentanti dell’ente locale, sulla base delle nuove prescrizio-ni legislative, operare per le modifiche eventualmente necessarie al fine dell’ade-guamento statutario o della adozione delle deliberazioni assembleari richieste in tema di numero e di compenso degli amministratori.

7.2. – Quanto in precedenza ricordato, ove rapportato alla normativa sta-tutaria della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, esige che si consideri la di-stinta attribuzione nello statuto regionale della potestà legislativa di tipo prima-rio in materia di «ordinamento degli enti locali» (art. 4, numero 3) alla Regione, mentre alle Province l’art. 80 dello statuto attribuisce la potestà legislativa di tipo concorrente «in materia di finanza locale». Inoltre, questa competenza delle Province è stata specificata dall’apposita norma di attuazione, nel senso che le

1139

Province «disciplinano con legge i criteri per assicurare un equilibrato sviluppo della finanza comunale, ivi compresi i limiti all’assunzione di personale, le mo-dalità di ricorso all’indebitamento, nonché le procedure per l’attività contrattua-le» (art. 17, comma 3, del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268).

Pertanto occorre, in presenza di un ricorso della sola Provincia di Bolza-no, valutare se siano rilevabili distinti titoli di competenza per i singoli commi censurati, dal momento che solo su questa base può anzitutto valutarsi la stessa legittimazione della Provincia a promuovere la questione di legittimità costitu-zionale, e poi considerare il suo fondamento.

Come anticipato, nei commi da 725 a 729 sembra evidente la compresenza di esigenze sia ordinamentali, sia di disciplina della spesa degli enti locali: si è già rilevato che la Provincia è abilitata a dedurre la lesione della sola autonomia finanziaria dell’ente locale, in quanto spetta alla Regione la competenza in ma-teria ordinamentale.

Peraltro, non appare dubbio che nei commi 725, 726, 727 e 728 preval-gono le esigenze di tipo finanziario, implicate dal livello di spesa direttamente conseguente alla determinazione del compenso degli amministratori, mentre nel comma 729 appaiono prevalenti le esigenze di tipo ordinamentale, che si espri-mono nelle modalità partecipative dell’ente alla società, tramite la nomina degli amministratori.

Da queste qualificazioni deriva anzitutto la inammissibilità dell’impugnati-va da parte della Provincia del comma 729 (come argomentato al punto 4).

Peraltro, la prevalenza delle esigenze di tipo finanziario nei commi 725, 726, 727 e 728 legittima la Provincia, ai sensi degli articoli 5 e 80 dello Statuto, a dedurre in questa sede la indebita compressione dell’autonomia finanziaria dei propri enti locali da parte della legge statale.

La questione è fondata: il carattere analitico e molto dettagliato delle norme impugnate è già stato posto in rilievo e ne comporta l’illegittimità costituzionale, per il territorio della sola Provincia di Bolzano e, data l’identità delle competen-ze statutarie, della Provincia di Trento, cui si estendono gli effetti della presente declaratoria.

Le residue censure risultano assorbite.8. – Le questioni relative al comma 734, sollevate dalla sola Provincia au-

tonoma di Bolzano, sono solo in parte fondate, secondo quanto di seguito chia-rito.

8.1. – Il comma 734 pone un limite alla possibilità di nominare ad «ammi-nistratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capita-le pubblico chi, avendo ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi analoghi, abbia chiuso in perdita tre esercizi consecutivi».

La ricorrente avanza anche a questo proposito una eterogenea serie di cen-sure a tutela della autonomia finanziaria ed organizzativa sia degli enti locali sia della stessa Provincia: ipotizzandosi che la disposizione venga giustificata come principio in tema di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della

1140

finanza pubblica e del sistema tributario», si obietta che si tratterebbe di una di-sciplina non di principio, bensì di dettaglio, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.; analogamente, ove si intendesse in tal modo determi-nare una legislazione di cornice in tema di finanza locale, sarebbero in tal caso lesi gli artt. 81 e 119 della Costituzione, nonché il Titolo VI dello statuto specia-le della Regione Trentino-Alto Adige (con particolare riferimento agli artt. 80 e 81) e gli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 268 del 1992. Inoltre, si afferma che anche questa disposizione lederebbe la autonomia organizzativa della Provincia auto-noma, garantita dall’art. 116 della Costituzione e dall’art. 8, numero 1), dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, che riserva in via esclusiva alle Province autonome la potestà legislativa in materia di ordinamento degli uf-fici provinciali e del personale ad essi addetto, se non anche dall’art. 117, quarto comma, della Costituzione, attesa la natura residuale della potestà legislativa regionale in ordine alla disciplina dell’organizzazione amministrativa regionale e provinciale. Infine, la ricorrente deduce la violazione dell’ art. 4, numero 3), dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, che precluderebbe al legislatore statale di legiferare in materia di «organizzazione e funzionamento degli enti locali».

Per valutare le censure dedotte, occorre preliminarmente considerare il contenuto effettivo della disposizione impugnata: essa è riferita all’intera pub-blica amministrazione, statale, regionale e locale e deve essere pertanto valutata in relazione ai diversi titoli di competenza del legislatore nazionale. Al tempo stesso, occorre verificare la legittimazione della Provincia autonoma ad impu-gnare in via principale i differenziati profili della disposizione.

Non si può evidentemente negare la competenza del legislatore statale in tema di organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (art. 117, secondo comma, lettera g, della Costituzione); per quanto riguarda gli enti locali presenti nelle Regioni ad autonomia ordinaria, viene in rilievo la competenza esclusiva prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione (ma già diverso è il problema nelle Regioni ad autonomia speciale, i cui statuti attribuiscono alle leggi regionali la competenza in tema di ordina-mento degli enti locali). Per ciò che concerne, invece, i profili organizzativi delle Regioni e delle Province autonome, sembra evidente che il legislatore statale non dispone in materia di una propria competenza, la quale appartiene, invece, alle stesse Regioni e Province autonome.

8.1. – Il ricorso della Provincia di Bolzano non si riferisce all’impatto della disposizione sulle nomine che riguardino enti e società a partecipazione statale. Esso non è ammissibile per quanto concerne la sua incidenza sull’ordinamento degli enti locali (come argomentato al punto 4), avendo lo statuto regionale attri-buito la competenza in materia alla Regione e non alla Provincia.

Fondata è, invece, la censura riferita alla lesione apportata dal comma 734 alla autonomia organizzativa di Regioni e Province. Tale autonomia è, infatti, garantita non solo dalle loro speciali disposizioni statutarie, ma altresì dall’art.

1141

117, quarto comma, della Costituzione, da intendersi applicabile a tutte le Re-gioni, ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, il quale riserva alla potestà legislativa residuale regionale la disciplina dell’autonomia dell’organiz-zazione amministrativa.

Peraltro, anche ove si volesse accedere all’interpretazione prospettata dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui il comma 734 atterrebbe alla materia del coordinamento della finanza pubblica, resta non superabile il rilievo, costan-te nella giurisprudenza di questa Corte, che disposizioni di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica possono prescrivere solo criteri ed obiet-tivi, ma non imporre vincoli specifici e puntuali.

Il comma 734 va quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si riferisce alle Regioni e alle Province autonome.

9. – Le questioni relative al comma 735, promosse dalla sola Provincia au-tonoma di Bolzano in riferimento all’autonomia delle Regioni e delle Province autonome, non sono fondate.

Questa Corte ha più volte affermato la non lesività rispetto all’autonomia regionale degli «obblighi di trasmissione all’amministrazione centrale di dati ed informazioni a scopo di monitoraggio» (sentenza n. 36 del 2004) ed equivalenti appaiono prescrizioni, come quelle impugnate, relative al conferimento di piena pubblicità per alcune categorie di dati. Inoltre, questa Corte ha più volte ritenuto riferibile anche alle autonomie regionali speciali la titolarità esclusiva statale in tema di «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’am-ministrazione statale, regionale e locale», di cui all’art. 117, comma secondo, lettera r) (sentenze n. 240 del 2007 e n. 35 del 2005).

Peraltro, se si opera nell’ambito di una competenza esclusiva statale, spetta al legislatore statale prevedere eventualmente sanzioni amministrative, in coe-renza con la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la discipli-na in tema di sanzioni accede alla disciplina sostanziale (fra le molte, si vedano le sentenze n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004).

Né può condividersi la tesi della ricorrente secondo la quale l’attribuzione di funzioni amministrative di tipo sanzionatorio al prefetto contrasta con quanto previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 266 del 1992 (in virtù del quale «nelle materie di competenza propria della regione o delle province autonome la legge non può attribuire agli organi statali funzioni amministrative, comprese quelle di vigi-lanza, di polizia amministrativa e di accertamento di violazioni amministrative, diverse da quelle spettanti allo Stato secondo lo statuto speciale e le relative norme di attuazione»), dal momento che nel caso di specie si opera invece in una materia di competenza esclusiva dello Stato.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di le-gittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per

1142

la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato–legge finanziaria 2007), promosse con i ricorsi indicati in epigrafe,

riuniti i giudizi,dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 730, della legge n.

296 del 2006;dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 725, 726, 727 e

728, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui essi trovano applicazione per gli enti locali delle Province autonome di Trento e di Bolzano;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 734, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui esso si riferisce alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 721 e 722, della legge n. 296 del 2006, promosse, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione Veneto, in riferimento agli articoli 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità dell’art. 1, commi 725, 726, 727, 728, 729, 730, 733, 734 e 735, promosse, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Provincia autonoma di Bolzano, in riferimento agli articoli 3, 81, 97, 116, 117, secondo comma, lettere g) e l), della Costituzione, nonché in riferimento all’art. 4, numero 3) del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazio-ne del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), all’articolo 3, commi 2 e 3, del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), e al principio di leale collaborazione;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 735, della legge n. 296 del 2006, promosse, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Provincia autonoma di Bolzano, in riferimento agli articoli 117, terzo e quarto comma, e 119 della Costituzione, agli articoli 8, numero 1), 80 e 81 del d.P.R. n. 670 del 1972, all’art. 4 del d.lgs. n. 266 del 1992, e agli articoli 16 e 17 del d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto spe-ciale per il Trentino Alto-Adige in materia di finanza regionale e provinciale).

1143

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (19) 23 maggio 2008, n. 166 – BILE Pres. – SILVESTRI Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse dalla Re-gione Lombardia, di alcune disposizioni della l. n. 9/2007.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità dell’art. 3, comma 2, che riconosce a determinati Comuni la possibilità di istituire apposite com-missioni per l’eventuale graduazione delle azioni di rilascio degli alloggi di edilizia residenziale pubblica: invero tale disposto lede la competenza legi-slativa residuale delle Regioni in materia di politiche sociali.

Dichiara invece inammissibili o infondate le questioni di legittimità co-stituzionale delle altre disposizioni impugnate.

Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, commi 1 e 2, 4, com-ma 2, e 5, comma 1, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzio-ne del disagio abitativo per particolari categorie sociali), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 16 aprile 2007, depositato in cancelleria il 20 aprile 2007 ed iscritto al n. 19 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano

Silvestri;uditi l’avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Regione Lombardia e l’av-

vocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei mini-stri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La Regione Lombardia ha promosso, con ricorso notificato il 16 aprile 2007 e depositato il successivo 20 aprile, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, commi 1 e 2, 4, comma 2, e 5, comma 1, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari ca-tegorie sociali), in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 118 e 119 della Costituzione.

2. – Preliminarmente deve essere rilevata l’inammissibilità della questione avente ad oggetto l’art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, per violazione dell’art. 97 Cost., in quanto la suddetta censura è priva di un’adeguata motiva-zione.

Inammissibili per la medesima ragione sono pure le questioni relative all’art. 5 della legge n. 9 del 2007, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost.

1144

3. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 9 del 2007 non è fondata.

Il piano straordinario previsto dalla norma censurata è finalizzato ad identi-ficare il fabbisogno di edilizia residenziale pubblica, con particolare riferimento alle categorie indicate nell’art. 1 della stessa legge. Si tratta, a tenore della dispo-sizione da ultimo richiamata, di conduttori con reddito annuo lordo complessivo familiare inferiore a 27.000 euro, che siano o abbiano nel proprio nucleo fami-liare persone ultrasessantacinquenni, malati terminali o portatori di handicap con invalidità superiore al 66 per cento, purché non siano in possesso di altra abitazione adeguata nella Regione di residenza. Per le suddette categorie, la me-desima norma dispone la sospensione delle procedure esecutive di rilascio per finita locazione, limitatamente ai Comuni capoluoghi di provincia, ai Comuni con essi confinanti con popolazione superiore ai 10.000 abitanti ed ai Comuni ad alta densità abitativa, di cui alla delibera CIPE n. 87/03 del 13 novembre 2003.

La norma censurata mira a predisporre interventi per alleviare il disagio abitativo di categorie di soggetti particolarmente deboli, sia mediante la facilita-zione del passaggio «da casa a casa» sia mediante una programmazione nazio-nale di edilizia residenziale pubblica prioritariamente orientata in favore delle suddette categorie sociali.

Questa Corte ha precisato che, anche dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, continua a spettare allo Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), «la determinazione dell’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» (sentenza n. 94 del 2007). Del pari, questa Corte ha statuito che la programmazione degli insedia-menti di edilizia residenziale pubblica, in quanto ricadenti nella materia «gover-no del territorio», appartiene alla competenza legislativa concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 451 del 2006).

Alla luce degli indirizzi giurisprudenziali prima richiamati, si può stabilire che gli spazi normativi coperti dalla potestà legislativa dello Stato sono da una parte la determinazione di quei livelli minimali di fabbisogno abitativo che siano strettamente inerenti al nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana e dall’altra parte la fissazione di principi generali, entro i quali le Regioni possono esercitare validamente la loro competenza a programmare e realizzare in con-creto insediamenti di edilizia residenziale pubblica o mediante la costruzione di nuovi alloggi o mediante il recupero e il risanamento di immobili esistenti. L’una e l’altra competenza (la prima ricadente nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, la seconda in quella concorrente) si integrano e si completano a vicenda, giacché la determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate.

La norma censurata rispetta i suddetti confini di intervento della legislazio-ne statale. Infatti essa si limita a richiedere alle Regioni la predisposizione, in

1145

base alle proposte dei Comuni interessati, di un piano straordinario, articolato in tre annualità, destinato a soddisfare il fabbisogno di edilizia residenziale pubbli-ca, con particolare riferimento a quello espresso dalle categorie che sono state prima menzionate. Da una parte emerge lo scopo di provvedere al bisogno mini-mo abitativo di precise categorie di soggetti che si trovano in condizioni disagia-te, dall’altra si predispone una procedura a carattere generale perché le Regioni possano esercitare la propria competenza legislativa concorrente in materia di insediamenti di edilizia residenziale pubblica. Lo Stato, per mezzo della norma impugnata, si limita a richiedere un intervento organico, rapido e preferenziale, con riferimento a particolari categorie di soggetti, che si trovano in condizioni oggettivamente deteriori rispetto alla generalità dei cittadini e che possono van-tare pertanto un diritto fondamentale, da garantirsi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

La finalizzazione complessiva dell’intervento statale risulta più chiara alla luce dell’art. 21 del successivo decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interven-ti urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 29 novembre 2007, n. 222. In tale disposizione, non impugnata da alcuna Regione, è previsto un program-ma straordinario di edilizia residenziale pubblica, con relativo stanziamento, per l’anno 2007, della somma di 550 milioni di euro, diretto a rendere disponibili, con vari mezzi, alloggi da destinare prioritariamente alle categorie di soggetti sottoposti a procedure di rilascio e aventi i requisiti di cui al già citato art. 1 della legge n. 9 del 2007. L’individuazione del fabbisogno abitativo, secondo l’art. 21 del menzionato decreto-legge n. 159 del 2007 ed in coerenza con quanto disposto dalla disposizione censurata, è affidata alle Regioni ed alle Province au-tonome, sulla base degli esiti del «tavolo di concertazione» di cui all’art. 4 della legge n. 9 del 2007, al quale partecipano anche i rappresentanti delle Regioni.

In definitiva, la norma censurata si presenta come la prima fase di un pro-gramma generale di interventi nel settore dell’edilizia residenziale pubblica, nell’ambito del quale lo Stato, da una parte, si riserva il potere di individuare le categorie particolarmente disagiate, da considerare con priorità su tutto il territo-rio nazionale, dall’altra parte, detta i principi fondamentali che dovranno presie-dere all’elaborazione dei piani specifici, di competenza delle Regioni. A queste ultime spetta sia l’individuazione del fabbisogno abitativo, sia l’articolazione degli interventi e delle realizzazioni conseguenti. Per entrambi i profili, l’esten-sione della competenza statale non supera i limiti di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, Cost. La determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per categorie di soggetti particolarmente disagiate, da garantire su tutto il territorio nazionale, viene concretamente realizzata attribuendo a tali soggetti una posizione preferenziale, che possa assicurare agli stessi il soddisfa-cimento del diritto sociale alla casa compatibilmente con la effettiva disponibi-lità di alloggi nei diversi territori, resa palese dai piani straordinari previsti dalla norma censurata.

1146

4. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge n. 9 del 2007 è fondata.

La norma suddetta riconosce ai Comuni la possibilità di istituire «apposite commissioni», con durata di diciotto mesi, per l’eventuale graduazione, fatte salve le competenze dell’autorità giudiziaria ordinaria, delle azioni di rilascio, allo scopo di favorire il passaggio «da casa a casa» per le categorie individuate all’art. 1, nonché per le famiglie collocate utilmente nelle graduatorie comunali per l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Attribuire ai Comuni la possibilità di istituire tali commissioni lede la com-petenza residuale delle Regioni in materia di politiche sociali. Né si può ritenere che la norma censurata si limiti a conferire ai Comuni una semplice facoltà, giacché ciò non è consentito in materie riservate alla competenza regionale. La possibilità di istituire queste commissioni, qualora esercitata dai Comuni, si ri-solverebbe in una sottrazione di funzioni costituzionalmente spettanti alle Re-gioni. In altre parole, con la norma censurata, si attribuisce ai Comuni la facoltà, ove lo ritengano, di ledere la sfera di competenza costituzionalmente garantita delle Regioni. Il fatto che gli stessi Comuni non siano obbligati a farlo non eli-mina l’illegittimità di tale previsione.

Non condivisibile è, poi, l’assunto dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la disposizione in questione ricadrebbe nelle materie dell’ordinamento civile o dell’ordine pubblico, entrambe di competenza esclusiva dello Stato. Si tratta infatti di norme che incidono, non sulla procedura di rilascio, ma solo sulla gra-duazione degli aventi diritto ai fini di agevolare il passaggio «da casa a casa», nell’intento di attutire il loro disagio abitativo. Finalità eminentemente sociale, che non può neppure essere ridotta a mera questione di ordine pubblico, giacché quest’ultimo potrebbe venire semmai in rilievo solo con riferimento a problemi concreti nascenti dall’esasperazione del disagio abitativo, che appunto gli in-terventi di carattere sociale mirano ad evitare. Ogni acuto problema sociale, se non risolto per lungo tempo, può provocare turbative dell’ordine pubblico. Non per questo tutti gli interventi pubblici in materia sociale si risolvono in misure di ordine pubblico, secondo una concezione del tutto estranea alla Costituzione italiana vigente.

In definitiva, trattandosi di materia sociale e non potendosi configurare nella specie alcuna competenza statale costituzionalmente consentita, la norma censurata è illegittima per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost.

5. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007 non è fondata.

La disposizione censurata prevede che «il Ministro delle infrastrutture, di concerto con i Ministri della solidarietà sociale, dell’economia e delle finanze, per le politiche giovanili e le attività sportive e delle politiche per la famiglia, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, predispone, entro tre mesi, un programma nazionale contenente:

1147

a) gli obiettivi e gli indirizzi di carattere generale per la programmazio-ne regionale di edilizia residenziale pubblica riferita alla realizzazione, anche mediante l’acquisizione e il recupero di edifici esistenti, di alloggi in locazione a canone sociale sulla base dei criteri stabiliti dalle leggi regionali e a canone definito sulla base dei criteri stabiliti dall’articolo 2, comma 3, della legge 9 dicembre 1998, n. 431, e successive modificazioni, nonché alla riqualificazione di quartieri degradati; b) proposte normative in materia fiscale e per la normaliz-zazione del mercato immobiliare, con particolare riferimento alla riforma della disciplina della vendita e della locazione di immobili di proprietà dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 3; c) l’individuazione delle possibili misure, anche di natura organizzativa, dirette a favorire la continuità nella cooperazione tra Stato, Regioni ed enti locali prioritariamente per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali; d) la stima delle risorse finanziarie necessarie per l’attuazione del programma nell’ambito degli stanziamenti già disponibili a le-gislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

Occorre ricordare che gli artt. 59 e 60 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), stabiliscono che sono mantenute allo Stato le funzioni e i compiti relativi al concorso, unitamente alle Regioni ed agli enti locali interessati, all’elaborazione di programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello naziona-le (art. 59, comma 1, lettera c) ed alla definizione dei criteri per favorire l’acces-so al mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti e agli interventi concernenti il sostegno finanziario al reddito (art. 59, comma 1, lettera e)). Sono invece conferite alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative non espressamente elencate tra quelle trattenute dallo Stato e, in particolare, quelle relative alla programmazione delle risorse finanziarie riservate al settore (art. 60, comma 1, lettera b)), alla gestione e all’attuazione degli interventi anche attraverso programmi integrati, di recupero urbano e di riqualificazione urbana (art. 60, comma 1, lettere c) e d)), alla fissazione dei criteri per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale destinati all’assistenza abitativa, nonché alla determinazione dei relativi canoni (art. 60, comma 1, lettera e)).

Dalle norme prima citate emerge l’esigenza di un momento unitario, che deve precedere la programmazione regionale in materia di edilizia residenziale pubblica. In tale momento unitario devono essere coinvolti tutti i soggetti istitu-zionali interessati (Stato, Regioni, enti locali).

In base a quanto detto, si può ritenere che sussistano tutte le condizioni ritenute necessarie da questa Corte (sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004) perché possa verificarsi la «attrazione in sussidiarietà» da parte dello Stato della competenza legislativa in tema di «programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale». Esiste infatti l’interesse unitario, stante la necessità del coordinamento, allo scopo di individuare le linee generali della programmazione regionale e di evitare forti squilibri territoriali nella politica

1148

sociale della casa. La deroga al riparto delle competenze legislative risulta pro-porzionata, giacché lo Stato non interferisce nella predisposizione dei program-mi regionali, ma si limita a fissare le linee generali indispensabili per l’armoniz-zazione dei programmi su scala nazionale. Infine, la norma censurata prevede che il programma nazionale sia predisposto dal Ministro delle infrastrutture, di concerto con altri Ministri, «d’intesa con la Conferenza unificata», entro due mesi dalla conclusione dei lavori del tavolo di concertazione generale sulle poli-tiche abitative, previsto nel comma 1 del medesimo art. 4, al quale partecipano, tra gli altri, anche i rappresentanti delle Regioni e dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). Come si vede, le Regioni sono coinvolte in due distinte fasi del procedimento: in sede di concertazione generale e nel momento della predisposizione del programma nazionale, tramite l’intesa necessaria con la Conferenza unificata.

Per i motivi sopra esposti, la norma in questione è immune dalle censure avanzate dalla Regione ricorrente.

6. – La Regione Lombardia censura altresì la lettera d) del comma 2 dell’art. 4 della legge n. 9 del 2007, poiché, stabilendo che per tutto quanto verrà imposto in sede di programmazione alle Regioni e agli enti locali non sono previste ri-sorse finanziarie, violerebbe il principio di certezza delle risorse finanziarie e di autonomia finanziaria regionale e locale sotteso all’art. 119 Cost., il quale disci-plina un sistema di entrate regionali e locali destinato a finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

La questione non è fondata.La norma impugnata prevede che il programma nazionale, predisposto

d’intesa con la Conferenza unificata, debba contenere «la stima delle risorse necessarie per l’attuazione del programma nell’ambito degli stanziamenti già disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Pertanto, resta fermo quanto stabilisce il già citato art. 60, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 112 del 1998, che attribuisce alle Regioni la programma-zione delle risorse finanziarie destinate al settore.

7. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 9 del 2007 non è fondata.

Tale norma attribuisce al Ministro delle infrastrutture il compito di definire, di concerto con altri Ministri e d’intesa con la Conferenza unificata, le carat-teristiche e i requisiti degli alloggi sociali esenti dall’obbligo di notifica degli aiuti di Stato ai sensi degli artt. 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea.

Lo Stato, nel determinare le caratteristiche e i requisiti degli alloggi sociali, in sostanza determina i livelli essenziali delle prestazioni concernenti il diritto all’abitazione. Questa Corte ha stabilito che «la determinazione dell’offerta mi-nima degli alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» ap-partiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. (sentenza n. 94 del 2007). Tale determinazione

1149

ovviamente non può essere solo quantitativa, ma anche qualitativa, nel senso che, nel momento in cui si determina l’offerta minima destinata alle categorie sociali economicamente disagiate, occorre stabilire anche le caratteristiche di questi alloggi.

Alla luce di quanto detto, non sono condivisibili né l’assunto della Regione ricorrente, che riconduce la normativa impugnata alla competenza legislativa residuale delle Regioni, né la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la norma censurata ricadrebbe nella competenza legislativa statale in materia di tutela della concorrenza.

Si deve aggiungere che, anche ai fini dell’osservanza della normativa co-munitaria, la determinazione delle caratteristiche degli alloggi sociali esenti dall’obbligo di notificazione degli aiuti di Stato non può che essere uniforme su tutto il territorio nazionale.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzione del disagio abitativo per parti-colari categorie sociali);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento all’art. 97 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117, ter-zo, quarto e sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, lettera d), della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento all’art. 119 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso in-dicato in epigrafe.

1150

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (19) 23 maggio 2008, n. 168 – BILE Pres. – GALLO Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse dalla Re-gione Lombardia, di alcune disposizioni dell’art. 1 della l. n. 296/2006 (leg-ge finanziaria 2007).

In particolare dichiara fondate le questioni di costituzionalità dei se-guenti disposti:

dei commi 362, 363 e 364 nella parte in cui, riguardo al Fondo ivi menzionato e volto a finanziare interventi diversi secondo gli anni di rife-rimento, per l’anno 2007 introducono un vincolo di destinazione specifica, ossia la riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali, e prevedono che le modalità di utilizzo del suddetto fondo siano determinate con decreto ministeriale: tali disposizioni violano la competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di servizi sociali nonché l’autonomia fi-nanziaria regionale;

del comma 362 nella parte in cui non prevede che per gli anni succes-sivi al 2009 la destinazione dei finanziamenti del suddetto Fondo sia effet-tuata previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni ed autonomie locali: tale disposto infatti viola il principio di leale collaborazione;

del comma 364 nella parte in cui non prevede che per il biennio 2008-2009 la destinazione dei finanziamenti del suddetto Fondo sia effettuata previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni ed autonomie locali e nella parte in cui fissa per il medesimo biennio una somma di 11 milioni di euro annui per finanziare gli interventi ivi menzionati: anche tale disposto non rispetta il principio di leale collaborazione (i limiti di spesa sono posti unilateralmente dal legislatore statale);

del comma 356 nella parte in cui non prevede che per il biennio 2008-2009 la destinazione dei finanziamenti relativi agli interventi di efficienza energetica sia effettuata previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni ed autonomie locali e nella parte in cui stabilisce per il medesimo biennio una somma di 11 milioni di euro annui per finanziare gli interventi ivi disciplinati: la dichiarazione di incostituzionalità del comma 356 discen-de in via consequenziale (ex art. 27 l. n. 87/1953) dalla dichiarazione di ille-gittimità costituzionale del comma 364, poiché gli interventi previsti da quel disposto rientrano negli interventi menzionati da quest’ultimo;

del comma 1284, sia nel testo originario sia in quello sostituito dalla l. n. 244/2007, nella parte in cui prevede che le modalità di funzionamento del fondo ivi previsto (per il finanziamento esclusivo di interventi volti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche) sono stabilite con decreto ministeriale adottato ‘sentito il parere’ della Conferenza unificata Stato-Regioni ed autonomie locali, anziché ‘d’intesa’ con la medesima Con-ferenza: tale disposto non rispetta il principio di leale collaborazione nella

1151

sua accezione forte (ossia esplicantesi attraverso lo strumento dell’intesa) che dev’essere applicato quando sussiste un intreccio di materie attribuite alla potestà legislativa statale ed a quella regionale e non è individuabile una materia che possa considerarsi prevalente.

Dichiara invece inammissibili o infondate le questioni di legittimità co-stituzionale di alcune delle suddette disposizioni con riferimento agli ulte-riori profili di censura delineati dalla ricorrente e dichiara inammissibili o infondate le questioni di costituzionalità di un’altra disposizione impugnata nel ricorso.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 362 a 365 e 1284, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 7 marzo 2007 ed iscritto al n. 14 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Franco

Gallo;uditi l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e

l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La Regione Lombardia ha promosso questioni di legittimità di numero-se disposizioni dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007).

Nell’àmbito di tali questioni, vanno separate quelle concernenti i commi da 362 a 365 e 1284 del citato art. 1, per le quali è opportuno procedere ad un esame distinto.

2. – La ricorrente censura i commi da 362 a 365 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, nel loro complesso, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 del-la Costituzione, nonché ai princípi di leale collaborazione, di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.) e di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Censura, altresí, specificamente il comma 365, sotto un diverso profilo, in riferimento agli stessi artt. 117 e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione.

I denunciati commi 362, 363, 364 e 365 istituiscono e disciplinano un fondo, nell’àmbito dello stato di previsione del Ministero dello sviluppo eco-

1152

nomico, destinato al finanziamento di «interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali» nel limite di 100 milioni di euro annui (comma 362). Il fondo ha una dotazione iniziale di 50 milioni di euro annui per il «triennio 2007-2009» (comma 363) ed è utilizzato sia per interventi di carattere sociale, da parte dei Comuni, aventi ad oggetto «la riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili», sia, limitatamente ad una somma di 11 milioni di euro annui relativa al biennio 2008-2009, per gli interventi di efficienza energetica previsti dai commi da 353 a 361 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006 (comma 364). In particolare, il comma 365 stabilisce che «Per dare efficace attuazione a quanto previsto al comma 364, sono stipulati ac-cordi tra il Governo, le Regioni e gli enti locali che garantiscano la individuazio-ne o la creazione, ove non siano già esistenti, di strutture amministrative, almeno presso ciascun comune capoluogo di provincia, per la gestione degli interventi di cui al comma 364, i cui costi possono in parte essere coperti dalle risorse del Fondo di cui al comma 362».

3. – Secondo la ricorrente, i commi censurati víolano, nel loro complesso: a) gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., perché detto fondo – in quanto incide nella materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’ener-gia», di competenza legislativa concorrente – lede «l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa» della Regione, non potendo essere incluso nel complesso delle risorse che devono consentire alle Regioni ed agli altri enti locali «di finan-ziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite»; b) gli artt. 117, 118 e 119 Cost. e il principio di leale collaborazione, perché non «contengono alcuna previsione relativa a forme di codeterminazione con la Regione delle misure ivi contemplate» ed, in particolare, non prevedono «un’intesa “forte” con la Con-ferenza Stato-Regioni»; c) il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e il principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., perché «si pongono in esplicita contraddizione […] con le disposizioni in tema di risparmio energetico che assegnano un ruolo cruciale alle Regioni».

3.1. – Le questioni promosse in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono inammissibili, per genericità della prospettazione.

Il ricorso, infatti, è privo di motivazione in punto di non manifesta infon-datezza, perché non indica le ragioni per le quali l’asserita violazione di tali parametri costituzionali – i quali non afferiscono al riparto delle competenze tra Stato e Regioni – ridonderebbe in una lesione di competenze costituzionali della Regione ricorrente, lesione che, sola, potrebbe legittimare l’evocazione di detti parametri (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008 e n. 430 del 2007).

3.2. – Nel merito, le questioni relative ai commi 362, 363, 364 e 365, pro-mosse in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost. ed al principio di leale colla-borazione, vanno interpretate come aventi ad oggetto i soli commi da 362 a 364, perché, in concreto, le sollevate censure non prendono in considerazione il com-ma 365, denunciato sotto altri profili che saranno esaminati successivamente.

1153

Tali censure sono parzialmente fondate.3.2.1. – Questa Corte ha piú volte affermato che l’art. 119 Cost. vieta al

legislatore statale di prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. Tali misure, infatti, «possono divenire strumenti indi-retti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (ex multis, sentenze nn. 63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005).

La Corte ha, inoltre, precisato che il titolo di competenza statale che per-mette l’istituzione di un fondo con vincolo di destinazione non deve necessaria-mente identificarsi con una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117 Cost., ma può consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di “chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.; il che si verifica quando sia necessario attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolare al tempo stesso l’esercizio di tali funzioni – nel rispetto dei princípi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza – mediante una disciplina «che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini» (sentenza n. 6 del 2004, nonché, ex pluri-mis, sentenze n. 155 e n. 31 del 2005; n. 303 del 2003).

Ha ulteriormente precisato che, nel caso in cui un fondo istituito con legge statale incida su àmbiti non riconducibili ad un’unica materia, devono distin-guersi due ipotesi. Se una materia è nettamente prevalente sulle altre, essa deter-mina la competenza legislativa e, qualora questa sia statale, determina anche la legittimità del fondo con vincolo di destinazione. Se, invece, non vi è una mate-ria sicuramente prevalente, riconducibile alla competenza dello Stato, si applica il principio di leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze (sentenze n. 63 e n. 50 del 2008; n. 201 del 2007; n. 211 e n. 133 del 2006); strumenti che possono assumere, rispettivamente, la forma di intese o pareri, a seconda del maggiore o minore impatto dell’intervento finanziario statale sulle competenze regionali (sentenza n. 6 del 2004).

3.2.2. – La legittimità del fondo disciplinato dai commi impugnati deve essere valutata alla luce dei criteri sopra esposti. è necessario, perciò, procedere alla previa individuazione delle materie su cui le disposizioni impugnate effet-tivamente incidono.

Come si è osservato, i menzionati commi da 362 a 364 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 prevedono l’istituzione di un fondo da destinare al finan-ziamento di una pluralità di interventi: alcuni, di carattere sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti eco-nomicamente disagiati, anziani e disabili; altri, limitatamente alla somma di 11

1154

milioni di euro annui per il biennio 2008-2009, concernenti le specifiche misure di efficienza energetica previste dai commi da 353 a 361 del medesimo art. 1. Questi ultimi interventi, in particolare, sono finalizzati alla riduzione dei con-sumi energetici e riguardano: a) la sostituzione dei frigoriferi e dei congelatori (comma 353), degli apparecchi di illuminazione utilizzati dai soggetti esercenti attività d’impresa rientrante nel settore del commercio (comma 354), nonché del parco apparecchi televisivi in vista del passaggio alla trasmissione con tecnica “digitale terrestre” (comma 357); b) l’acquisto e l’installazione di motori ad elevata efficienza di potenza elettrica (comma 358) e di variatori di velocità – inverter – su impianti aventi determinati requisiti tecnici (comma 359).

3.2.3. – Secondo la difesa erariale, la materia regolata dai commi in esame appartiene alla competenza legislativa statale, perché: a) in via principale, stanti le finalità sociali dell’intervento legislativo, attiene alla determinazione dei li-velli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e, dunque, ad un àmbito rimesso alla potestà legislativa esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; b) in via subordinata, anche nel caso in cui i commi da 362 a 365 atte-nessero – come sostenuto dalla ricorrente – alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., sussisterebbero comunque le condizioni perché lo Stato possa legittimamente “chiamare in sussidiarietà” l’esercizio delle funzioni regionali.

Tali assunti non possono essere condivisi.Quanto al primo, va premesso che, secondo la giurisprudenza costituziona-

le in tema di art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. «l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata disposizione costitu-zionale si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto» (sentenza n. 50 del 2008; nello stesso senso, sentenze n. 387 del 2007 e n. 248 del 2006). Le norme censurate in esame, invece, non determinano alcun livello di prestazione, ma prevedono soltanto meri finanziamenti di spesa e, pertanto, non possono trovare il loro fondamento costituzionale nella citata lettera m) dell’art. 117, secondo comma, Cost.

Quanto al secondo assunto, va rilevato che, nel caso di specie, la finalità di operare interventi volti al risparmio energetico – finalità che, peraltro, con-nota solo alcuni degli interventi finanziati dal fondo – non sottende un’esigen-za di esercizio unitario, a livello statale, delle funzioni amministrative tramite cui detta finalità trova attuazione, essendo ben possibili interventi di risparmio energetico mirati alle specifiche realtà regionali e, dunque, frutto di autonome decisioni delle singole Regioni nell’àmbito dei princípi fondamentali della ma-teria stabiliti dalla legge dello Stato. Non sussistono, pertanto, le condizioni per l’invocata “chiamata in sussidiarietà”.

3.2.4. – Ciò posto, deve rilevarsi che il fondo in esame, che ha natura uni-

1155

taria e indivisa, è destinato alla copertura di interventi diversi a seconda degli anni di riferimento. In particolare, per l’anno 2007, esso ha una dotazione di 50 milioni di euro destinati esclusivamente alla «riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali» (comma 363). Per il biennio 2008-2009 esso ha una dotazione di 50 milioni di euro annui destinati alla copertura di interventi: a) «per la riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili», nel limite di 39 milioni di euro annui; b) di efficienza energetica di cui ai menzionati commi da 353 a 361 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, nel limite di 11 milioni di euro annui (comma 364). Per gli anni successivi al 2009, per i quali è prevista una dotazio-ne «nel limite di 100 milioni di euro annui», il censurato comma 362 stabilisce che il fondo è utilizzato a copertura di «interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali».

Lo scrutinio di costituzionalità deve essere condotto distintamente per cia-scuno dei suddetti periodi.

3.2.4.1. – Per quanto riguarda l’anno 2007, il fondo incide esclusivamente su una materia di competenza legislativa regionale. Esso finanzia, infatti, interventi, di carattere sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili (commi 363 e 364), ed interviene, perciò, nella materia, di potestà legislativa residuale delle Regioni, dei “servizi sociali”, inerendo ad attività riguardanti la «predispo-sizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economi-che destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita» (sentenza n. 50 del 2008).

Con riferimento a tale anno, pertanto, la questione è fondata, non sussisten-do alcun titolo di competenza esclusiva statale che giustifichi il vincolo di desti-nazione del fondo in tale materia. Il censurato combinato disposto dell’articolo 1, commi 362, 363 e 364, della legge n. 296 del 2006 è, dunque, lesivo dell’auto-nomia finanziaria e legislativa delle Regioni, nella parte in cui, per l’anno 2007, pone il vincolo di destinazione specifica del fondo per interventi di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali e dispone che, per il medesimo anno, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sono stabiliti le condizioni, le modalità e i termini per l’utilizzo della dotazione del fondo stesso. Da tale pronuncia di ille-gittimità costituzionale consegue che a ciascuna Regione dovrà essere assegnata genericamente, per il perseguimento di finalità sociali, la quota parte del fondo loro spettante, senza il suindicato vincolo di destinazione specifica (sentenze n. 118 del 2006 e n. 423 del 2004).

3.2.4.2. – Per il biennio 2008-2009, in forza del denunciato comma 364, il suddetto fondo interviene su una pluralità di materie riconducibili sia alla com-petenza legislativa statale sia a quella regionale.

In particolare, nella misura in cui il fondo finanzia riduzioni dei costi della fornitura energetica per finalità sociali («riduzione dei costi delle forniture di

1156

energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili»), esso interviene, come si è rilevato, nella materia dei “servizi sociali”, di potestà legislativa residuale delle Regioni. Per la parte in cui il fondo finan-zia, invece, interventi concernenti le specifiche misure di efficienza energetica previste dai citati commi 353, 354, 358 e 359 (e dalle strumentali previsioni attuative di cui ai commi 355, 356 e 360) del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, esso interviene nella materia, di potestà legislativa concorrente, della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve essere interpretata in senso ampio (sentenze n. 383 del 2005; nn. 8, 7 e 6 del 2004) e, dunque, anche nel senso di ricomprendere interventi di efficienza energetica. Nella misura, poi, in cui il me-desimo fondo finanzia interventi concernenti l’acquisto di apparecchi televisivi dotati di decoder in vista del passaggio alla trasmissione con tecnica “digitale terrestre” (commi 357 e 361), esso interviene in un àmbito nel quale, secondo la sentenza n. 151 del 2005, vengono in rilievo una pluralità di materie e interessi particolarmente qualificati, riconducibili alla competenza legislativa esclusiva o concorrente dello Stato (nello stesso senso anche le sentenze n. 312 del 2003 e n. 29 del 1996). In tale situazione, l’evidente esigenza di un esercizio unitario delle funzioni amministrative relative alla diffusione, in tutto il territorio nazionale, della suddetta tecnica di trasmissione televisiva giustifica l’assunzione diretta di dette funzioni da parte dello Stato, nella forma dell’erogazione di un contributo economico in favore degli utenti.

Cosí individuati gli àmbiti di competenza per materia su cui il fondo inter-viene, questa Corte ritiene che la peculiarità dei diversi e non omogenei interessi sottesi alle suddette competenze e funzioni non consente, nella specie, di ri-scontrare una competenza legislativa statale o regionale sicuramente prevalente sulle altre. Si configura, dunque, un’ipotesi in cui, secondo la richiamata giuri-sprudenza di questa Corte, è necessario fare applicazione del principio di leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze.

Su queste premesse, va osservato che il fondo unitario disciplinato dalle norme censurate, pur essendo destinato a soddisfare anche l’interesse dello Stato all’attuazione del pluralismo informativo esterno, ha tuttavia un forte impatto sulle competenze legislative regionali nelle materie dei servizi sociali e della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». La rilevanza di questo impatto è tale da imporre al legislatore statale di stabilire la destinazione ed effettuare il riparto delle risorse tra i diversi interventi adottando, quale ade-guato strumento di coinvolgimento delle Regioni, l’intesa “forte” (sentenza n. 6 del 2004). In particolare, dovrà essere oggetto di intesa anche la determinazione della quota del fondo da utilizzare per finalità sociali e di quella da utilizzare per finalità di efficienza energetica, senza che possano valere i limiti, rispettivamen-te di 39 milioni di euro e di 11 milioni di euro annui, unilateralmente posti dal legislatore statale con le norme censurate.

1157

Ne consegue che il comma 364 – il quale prevede che «Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello svi-luppo economico, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti le condizioni, le modalità e i termini per l’utilizzo della dotazione del Fondo di cui al comma 362, da destinare al finanziamento di interventi di carattere sociale, da parte dei comuni, per la riduzione dei co-sti delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili e, per una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009, agli interventi di efficienza energetica di cui ai commi da 353 a 361» – deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo: a) nella parte in cui non contiene, dopo le parole «da adottare», le parole «d’intesa con la Conferenza unificata» (attualmente disciplinata dall’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281); b) nella parte in cui contiene l’inciso: «per una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009».

3.2.4.3. – Negli anni successivi al 2009, per i quali è prevista una dotazione «nel limite di 100 milioni di euro annui», il censurato comma 362 stabilisce che il fondo è utilizzato indistintamente a copertura di «interventi di efficienza ener-getica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali» e, quindi, di interventi che – come già rilevato con riguardo al biennio 2008-2009 – incidono su piú materie, riconducibili sia alla competenza legislativa statale che a quella regionale. Valgono, pertanto, le considerazioni di cui al punto pre-cedente e, conseguentemente, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale del comma in esame, nella parte in cui, in riferimento agli anni successivi al 2009, non prevede l’intesa con l’indicata Conferenza unificata per determinare la con-creta destinazione di tali finanziamenti.

3.2.5. – La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 364, della legge n. 296 del 2006 per violazione del principio di leale collaborazione comporta – ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 – la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale del comma 356 del medesimo art. 1. E ciò, per le seguenti ragioni.

Il comma 356 fissa, per il finanziamento degli interventi di efficienza ener-getica per l’illuminazione indicati dai commi 354 e 355, il limite di 11 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009, «a valere sulle risorse del Fondo di cui al comma 362», senza prevedere – al pari del comma 364 – alcuna forma di coinvolgimento della Regione. Tuttavia, gli stessi interventi sono posti a carico del medesimo fondo anche dal successivo comma 364, il quale appunto stabi-lisce il limite – già dichiarato costituzionalmente illegittimo – di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009 per tutti gli interventi di efficienza energeti-ca di cui ai commi da 353 a 361 e, quindi, anche per quelli di cui ai commi 354 e 355, richiamati dal comma 356.

La ricomprensione di questi ultimi interventi nella piú ampia categoria di quelli disciplinati dal comma 364, impone, quindi, di estendere la pronuncia di illegittimità costituzionale del comma 364 al comma 356.

1158

Vale, infatti, anche per il comma 356, la ragione posta a fondamento della dichiarata illegittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 362, 363 e 364 e, cioè, il fatto che il fondo ha natura unitaria e interviene su una pluralità di materie che non consente di riscontrare una competenza statale o re-gionale sicuramente prevalente. Anche la determinazione della quota del fondo da utilizzare per gli interventi di efficienza energetica per l’illuminazione nel biennio 2008-2009 deve essere, pertanto, oggetto di intesa con le Regioni. Di conseguenza, la disposizione in esame – secondo la quale «All’onere di cui ai commi 354 e 355, pari a 11 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009, si provvede a valere sulle risorse del Fondo di cui al comma 362» – deve esse-re dichiarata costituzionalmente illegittima: a) nella parte in cui non contiene, dopo le parole «si provvede», le parole «d’intesa con la Conferenza unificata» (attualmente disciplinata dall’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281); b) nella parte in cui contiene l’inciso: «pari a 11 milioni di euro».

4. – La ricorrente censura in modo specifico il comma 365 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, perché tale disposizione: 1) víola gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto incide sull’esercizio di funzioni amministrative di competenza regio-nale; 2) comunque, víola il principio di leale collaborazione, in quanto demanda a «semplici accordi ex post» e non a «forme partecipative ben piú intense, quali le “intese forti”», l’individuazione o la creazione di strutture amministrative per la gestione degli interventi di cui al comma 364.

Le questioni non sono fondate.La disposizione in esame, infatti, non riguarda solo materie di competenza

della Regione, ma anche materie di competenza esclusiva dello Stato. Essa ha ad oggetto l’organizzazione amministrativa della gestione degli interventi a carico del fondo e, pertanto, opera nelle stesse materie su cui incide il fondo, e cioè in materie di competenza esclusiva dello Stato ovvero residuale o concorrente delle Regioni, senza che nessuna di esse possa considerarsi sicuramente prevalente (come già osservato al punto 3.2.4.2.).

Inoltre, il denunciato comma 365 già contempla un “accordo” tra i soggetti coinvolti nella gestione dei suddetti interventi, tale da soddisfare pienamente le esigenze della leale collaborazione prospettate dalla ricorrente. Come sopra ricordato, l’accordo interviene, infatti, in un contesto caratterizzato dalla coesi-stenza di materie di competenza dello Stato e delle Regioni, nonché da un forte impatto della disciplina statale su specifiche funzioni regionali e locali. Situazio-ne questa che impone di interpretare detto accordo come “intesa forte”, in quan-to solo questa modalità di partecipazione collaborativa consente un’adeguata composizione dei rilevanti e diversificati interessi sottesi alla suddetta pluralità di materie.

5. – La ricorrente censura, sotto il profilo della violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché del principio di leale collaborazione, il comma 1284 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006.

Detto comma, nel denunciato testo originario: a) istituisce, presso la Presi-

1159

denza del Consiglio dei ministri, un fondo di solidarietà «finalizzato a promuo-vere il finanziamento esclusivo di progetti ed interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell’accesso all’acqua a livello universale»; b) istituisce un contributo – che va a confluire nel medesimo fondo – pari a «0,1 centesimi di euro per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico»; c) demanda l’indicazione delle modalità di fun-zionamento e di erogazione delle risorse del fondo ad un «decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281»; d) demanda, altresí, al Ministro dell’economia e delle finanze l’emanazione dei regolamenti attuativi necessari.

Secondo la ricorrente, la disposizione impugnata lede gli evocati parametri costituzionali, perché, intervenendo nella materia “acque minerali”, e cioè «in un settore di competenza residuale delle regioni»: a) stabilisce un finanziamento con vincolo di destinazione senza che vi sia un «pieno coinvolgimento» della Regione «attraverso lo strumento dell’intesa»; b) «istituisce un prelievo, senza prevedere, né sull’an né sul quantum, né sulla destinazione delle risorse, un coinvolgimento forte, almeno nella forma della intesa preventiva con la Confe-renza Stato Città Regioni», della Regione.

In proposito, va preliminarmente rilevato che, successivamente alla propo-sizione del ricorso, l’impugnato comma 1284 è stato sostituito, con effetto dal 1° gennaio 2008, dai commi 1284, 1284-bis e 1284-ter, introdotti dal comma 334 dell’art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008). Tuttavia, il resistente Presidente del Consiglio non ha dedotto che il denunciato comma 1284 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, nel testo originario, non ha mai avuto applicazione. Ne consegue che non vi sono elementi per dichiarare cessata la ma-teria del contendere, per effetto del suddetto ius superveniens, in ordine alle due censure in esame, le quali, pertanto, debbono essere esaminate nel merito.

5.1. – Con la prima censura, la ricorrente lamenta, come si è visto, la viola-zione del principio di leale collaborazione per la mancata previsione di un’intesa con la Regione.

La censura è, nella sostanza, fondata.Al riguardo, va rilevato che il fondo de quo non interviene né nella materia,

indicata dalla ricorrente, «acque minerali e termali», di competenza legislativa residuale delle Regioni, né in quella, indicata dalla difesa erariale, dei «diritti fondamentali, inviolabili e personalissimi», riconducibile – secondo la mede-sima difesa erariale – alla competenza esclusiva dello Stato. Esso interviene, invece, in un plesso di altre materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa statale e regionale, senza che sia individuabile un àmbito materiale che possa considerarsi sicuramente prevalente sugli altri.

1160

In particolare, deve escludersi che a carico del fondo in esame siano previsti finanziamenti a destinazione vincolata nella materia «acque minerali e termali», di competenza legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, come si è già os-servato, detto fondo è espressamente «finalizzato a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti ed interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell’accesso all’acqua a livello universale». Tali progetti, proprio perché diretti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche, non si riferiscono alle acque minerali e termali, per le quali invece, almeno in àmbito nazionale, è previsto un regime regolamentato e limitato di accesso. Le “acque minerali” rilevano, nella norma censurata, solo per il finanziamento del fondo, realizzato mediante la confluenza in esso del contributo dovuto «per ogni bot-tiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico» (secondo periodo del comma 1284, nel testo originario), e, dunque, per un profi-lo del tutto estraneo a quello del titolo di competenza all’istituzione di un fondo con vincolo di destinazione.

Deve, poi, escludersi che il fondo attenga ad un’asserita «materia dei diritti fondamentali, inviolabili e personalissimi da inquadrare nell’ambito dei principi fondamentali di cui all’art. 2 della Costituzione», che, secondo la difesa erariale, spetterebbe alla competenza esclusiva dello Stato. Va, infatti, ricordato che «i suddetti diritti, di natura costituzionale, non rappresentano […] una materia in senso tecnico, come tale riconducibile ad una specifica competenza dello Stato o delle Regioni, ma costituiscono situazioni soggettive le quali possono eventual-mente inerire ad ambiti materiali contemplati dall’art. 117, nei commi secondo, terzo e quarto, della Costituzione» (sentenza n. 50 del 2008).

Il fondo in esame, invece, ha un àmbito di intervento complesso, riguar-dando una pluralità di materie, tra le quali, in particolare, quelle: a) della «tutela dell’ambiente», di competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.), in quanto, avendo il fine di finanziare progetti diretti a favorire l’acces-so alle risorse idriche, incide sulle interazioni e gli equilibri fra le diverse compo-nenti della “biosfera” e, quindi, dell’ambiente, inteso «come “sistema” […] nel suo aspetto dinamico» (sentenze n. 378 e n. 144 del 2007); b) della «cooperazio-ne internazionale», ricompresa – come ribadito da questa Corte con la sentenza n. 211 del 2006 – nella materia «politica estera nazionale», di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.), in quanto è diretto a finanziare progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari e, quindi, anche in àmbito internazionale; c) della «tutela della salute», dell’«alimentazione» e del «governo del territorio», tutte di com-petenza regionale concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), in quanto finanzia progetti che incidono sia sulla qualità e quantità delle acque destinate al consumo umano, al fine di proteggere la salute e di consentire un’adeguata alimentazione delle popolazioni, sia sulla corretta programmazione degli insediamenti nel terri-torio e di opere finalizzate alla fruizione delle risorse idriche.

1161

Le disposizioni censurate, dunque, istituiscono un fondo di natura unita-ria ed indivisa, la cui disciplina si pone all’incrocio di materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa statale e regionale, senza che nessuna di tali materie possa considerarsi nettamente prevalente sulle altre. Poiché, secon-do la richiamata giurisprudenza di questa Corte, in tale ipotesi la concorrenza di competenze giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione, ne consegue che il denunciato comma 1284, nel testo originario, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che le mo-dalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo sono indicate «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», anziché «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, da adottare d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’ar-ticolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari».

5.2. – Con la seconda censura, la ricorrente afferma che il comma 1284 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, víola gli artt. 117, 118 e 119 Cost., non-ché il principio di leale collaborazione, perché detta disposizione istituisce «un prelievo, senza prevedere, né sull’an né sul quantum, né sulla destinazione delle risorse, un coinvolgimento forte» della Regione.

La censura non è fondata.Al di là del nomen juris utilizzato («contributo»), la norma statale denun-

ciata istituisce un prelievo che ha le caratteristiche essenziali dell’imposizione tributaria, e cioè «la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa» (sentenze n. 64 del 2008; n. 334 del 2006; n. 73 del 2005). Il «contributo» previsto dal comma 1284 va qualificato, pertanto, come “tributo proprio” dello Stato (per tale nozione, ex plurimis, sentenze n. 102 del 2008 e n. 451 del 2007), con la conseguenza che detto comma risulta emanato nell’eser-cizio della competenza legislativa esclusiva statale in materia di «sistema tribu-tario […] dello Stato», prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., senza che sia necessaria alcuna previa intesa con le Regioni.

6. – Come sopra rilevato, l’impugnato comma 1284 è stato sostituito, con effetto dal 1° gennaio 2008, dai commi 1284, 1284-bis e 1284-ter, introdotti dal comma 334 dell’art. 2 della legge n. 244 del 2007, recanti una disciplina sostanzialmente identica (salvo alcuni dettagli non rilevanti ai fini del presente giudizio) a quella sostituita. Si pone pertanto il quesito se le censure prospettate dalla ricorrente possano ritenersi estese a detto ius superveniens. Questa Corte ritiene che al quesito debba darsi risposta positiva.

6.1. – Il novellato comma 1284 istituisce «un fondo di solidarietà, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, finalizzato a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti e interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a ga-

1162

rantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell’accesso all’acqua a livello universale». Tale fondo «è alimentato dalle risorse di cui al comma 1284-ter», mentre «le modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo» sono stabilite «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni».

Il comma 1284-bis, al fine di «tutelare le acque di falda, di favorire una mi-gliore fruizione dell’acqua del rubinetto, di ridurre il consumo di acqua potabile e la produzione di rifiuti, nonché le emissioni di anidride carbonica», istituisce nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare «un fondo a favore della potabilizzazione, microfiltrazione e dolci-ficazione delle acque di rubinetto, del recupero delle acque meteoriche e della permeabilità dei suoli urbanizzati». Anche quest’ultimo fondo «è alimentato, nel limite di 5 milioni di euro, per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010, dalle maggiori entrate di cui al comma 1284-ter», mentre «gli interventi ai quali sono destinati i contributi a valere sul fondo medesimo» sono individuati «Con decre-to del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare».

Il comma 1284-ter, infine: a) istituisce «un contributo di 0,5 centesimi di euro per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico ven-duta al pubblico»; b) dà una definizione della locuzione «materiale plastico»; c) ripartisce le entrate derivanti dal medesimo contributo, destinandole «per un decimo ad alimentare il fondo di cui al comma 1284 e per nove decimi ad ali-mentare il fondo di cui al comma 1284-bis».

Dal testo delle disposizioni sopravvenute risulta con tutta evidenza che esse riproducono, nella sostanza, la norma già censurata dalla ricorrente, in quanto continuano a prevedere sia l’istituzione del fondo finalizzato a promuovere pro-getti nazionali ed internazionali atti «a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche», sia l’istituzione del contributo – che va a confluire nel medesi-mo fondo – gravante su «ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materia-le plastico venduta al pubblico». Viene modificata solo la misura del contributo ed esclusa l’emanazione dei regolamenti attuativi del Ministro dell’economia e delle finanze, previsti nel testo originario del comma 1284. Per quanto qui rileva, dunque, anche il nuovo testo del comma 1284 non prevede alcuna intesa con le Regioni in ordine all’utilizzazione del fondo.

6.2. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via di azione non tollera che, attraverso l’uso distorto della potestà legislativa, uno dei contendenti possa in-trodurre nel corso del giudizio di costituzionalità, una proposizione normativa di contenuto sostanzialmente identico a quella impugnata, ottenendo l’effetto pratico di vanificare l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di quest’ultima. Si impone pertanto, in simili casi, l’estensione della questione alla

1163

norma che, sebbene posta da un atto legislativo diverso da quello oggetto di im-pugnazione, sopravvive nel suo sostanzialmente immutato contenuto precettivo (sentenza n. 533 del 2002). Nella specie, ricorrono tali condizioni e, pertanto, le censure proposte nei confronti del testo originario debbono ritenersi trasferite ai vigenti commi 1284, 1284-bis e 1284-ter.

6.3. – Di conseguenza, la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’ori-ginario testo del comma 1284 va estesa, per le stesse ragioni e negli stessi limiti sopra visti, al nuovo testo dello stesso comma.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di le-gittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosse dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe,

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’ar-ticolo 1, commi 362, 363, 364 e 365, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’arti-colo 1, commi 362, 363 e 364, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui, in riferimento all’anno 2007, pone il vincolo di destinazione specifica del fondo di cui al comma 362 per interventi di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali e dispone che, per il medesimo anno, con decreto del Mini-stro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sono stabiliti le condizioni, le modalità e i termini per l’utilizzo della dotazione del fondo stesso;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 362, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui, in riferimento agli anni successivi al 2009, non prevede l’intesa con le Regioni per determinare la concreta destina-zione dei finanziamenti a carico del fondo istituito dallo stesso comma;

4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 364, della legge n. 296 del 2006: a) nella parte in cui, in riferimento al biennio 2008-2009, non contiene, dopo le parole «da adottare», le parole «d’intesa con la Conferenza unificata»; b) nella parte in cui contiene, in riferimento al biennio 2008-2009, l’inciso: «per una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009»;

5) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegit-timità costituzionale consequenziale dell’articolo 1, comma 356, della legge n. 296 del 2006: a) nella parte in cui non contiene, dopo le parole «si provvede», le parole «d’intesa con la Conferenza unificata»; b) nella parte in cui contiene l’inciso: «pari a 11 milioni di euro»;

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’arti-

1164

colo 1, comma 365, della legge n. 296 del 2006, promosse in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

7) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1284, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui prevede che le modalità di funziona-mento e di erogazione delle risorse del fondo sono indicate «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni par-lamentari e della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legisla-tivo 28 agosto 1997, n. 281», anziché «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, da adottare d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari»;

8) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1284, della legge n. 296 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 2, comma 334, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), nella parte in cui prevede che le modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo sono indi-cate «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle compe-tenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni», anziché «Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, da adottare d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sentito il parere delle competenti Com-missioni parlamentari»;

9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1284, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe.

1165

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (19) 30 maggio 2008, n. 179 – BILE Pres. – CASSESE Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, sollevata dal T.A.R. ligure, dell’art. 34 l.r. Liguria n. 6/2002, che attribuisce alle Province il compito di istituire ed organizzare corsi biennali volti al conseguimento dell’attestato di massaggiatore sportivo e alla Giunta regionale il potere di formulare indirizzi per i contenuti minimi dei corsi: invero, premesso che la materia “professioni” è di competenza legislativa concorrente, il disposto impugnato viola il principio fondamentale per cui spetta alla legge dello Stato l’individuazione delle figure professionali, dei relativi profili e dei ti-toli abilitanti.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34 della legge della Re-gione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle attività sportive e fisico-motorie), promosso con ordinanza del 12 aprile 2007 dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria sul ricorso proposto dall’A.I.F.I., Associazione Italiana Fisioterapisti – Regione Liguria nei confron-ti della Regione Liguria, iscritta al n. 729 del registro ordinanze del 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sede di Genova, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 della legge della Regione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle attività sportive e fisico-motorie), con riferimento all’art. 117, terzo com-ma, della Costituzione.

2. – La questione è fondata.Questa Corte ha più volte affermato che «la potestà legislativa regionale

nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secon-do cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che pre-sentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio […] si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale

1166

[…]. Da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali» (sentenze n. 93 del 2008 e n. 300 del 2007).

L’art. 34 della legge regionale impugnata disciplina il percorso di formazio-ne professionale ai fini dell’accesso al[l’esercizio del]la professione di massag-giatore sportivo rimettendo ad una determinazione della Giunta regionale la defi-nizione degli «indirizzi per i contenuti minimi dei corsi» diretti al conseguimento del relativo attestato (art. 34, comma 1) e stabilendo la durata della formazione sia per il periodo transitorio di prima applicazione, sia a regime (art. 34, commi 1 e 2). La delibera della Giunta regionale della Liguria n. 1413 del 14 novem-bre 2003, adottata in attuazione della norma impugnata, definisce l’attività di massaggiatore come quella che «comprende tutte le prestazioni ed i trattamenti eseguiti sulla superficie del corpo umano, il cui scopo esclusivo sia quello di pre-disporre l’apparato muscolo scheletrico all’esercizio delle attività fisico-motorie e al recupero della sua funzionalità al termine delle stesse. Sono escluse dall’at-tività di massaggiatore le prestazioni aventi finalità di carattere terapeutico» ed istituisce i corsi a regime ed in sanatoria, individuando le discipline di insegna-mento, le modalità di svolgimento degli esami ed i requisiti di ammissione.

L’art. 8 della legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (Tutela sanitaria delle attività sportive), riserva «al Ministro per la Sanità» l’istituzione dei corsi e la disciplina del relativo ordinamento didattico per l’esercizio dell’«arte di massaggiatore sportivo», come confermato dall’art. 6 della legge 10 agosto 2000, n. 251 (Di-sciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica).

L’art. 1 della legge 1 febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di pro-fessioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professiona-li), prevede che «sono professioni sanitarie infermieristiche, ostetriche, riabilita-tive, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2001, n. 251 […] i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione».

Pertanto, la legge regionale censurata, istituendo una figura di massaggia-tore sportivo regionale e regolando il percorso formativo diretto al consegui-mento del relativo attestato, non rispetta il limite imposto dall’art. 117, comma terzo, della Costituzione in materia di professioni e va dichiarata costituzional-mente illegittima (sentenze n. 449 del 2006 e n. 319 del 2005, rispettivamente, con riferimento ai profili professionali di massaggiatore/masso fisioterapista e massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti idroterapici).

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 34 della legge della Regione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle atti-vità sportive e fisico-motorie).

1167

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (19) 30 maggio 2008, n. 180 – BILE Pres. – MADDALENA Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa con ricorso governativo, dell’art. 12, comma 2, l. r. Piemonte n. 3/2007 il quale, riguar-do al Parco fluviale Gesso e Stura, dispone che il piano d’area è efficace anche per la tutela del paesaggio, sostituendo così il piano suddetto a quello paesaggistico: tale disposto contrasta con il principio della prevalenza dei piani paesaggistici sugli altri atti di pianificazione ad incidenza territoriale, sancito dall’art. 145, comma 3, d. lgs. n. 42/2004, che risulta un principio fondamentale vincolante la potestà legislativa concorrente delle Regioni nelle materie “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni ambien-tali”.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 23 aprile 2007, depositato in cancelleria il 30 aprile 2007 ed iscritto al n. 20 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Piemonte;udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo

Maddalena;uditi l’avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consi-

glio dei ministri e l’avvocato Emiliano Amato per la Regione Piemonte.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura), il quale così dispone: «Il piano d’area è efficace anche per la tutela del paesaggio ai fini e per gli effetti di cui all’articolo 143 del d.lgs. n. 42/2004 e ai sensi dell’articolo 2 della legge regionale 3 aprile 1989, n. 20 (Norme in materia di tutela di beni culturali, ambientali e paesistici)».

Il ricorrente sostiene che tale norma vìoli l’art. 117, secondo comma, let-tera s), e terzo comma, Cost., giacché non rispetta il principio della «cogente prevalenza dei piani paesistici sulla pianificazione delle aree naturali protette», che si desume dall’art. 145, comma 3, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

1168

2. – La questione è fondata.2.1. – L’art. 12 della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2007 prevede, al

comma 1, che il «Parco fluviale Gesso e Stura è regolato dal piano d’area di cui all’articolo 23 della legge regionale n. 12/1990, come modificato dall’articolo 7 della legge regionale 21 luglio 1992, n. 36 e dagli strumenti di pianificazione specifica». A sua volta, il citato art. 23 stabilisce, tra l’altro, che i Piani di area, aventi «validità a tempo indeterminato» (comma 4), presentano «indicazioni» che «sono efficaci e vincolanti dalla data di entrata in vigore delle deliberazioni del Consiglio regionale di approvazione dei Piani che sostituiscono la strumen-tazione territoriale ed urbanistica di qualsiasi livello» (comma 5) ed «esplicano i loro effetti anche a norma dell’articolo 1-bis della legge 8 agosto 1985, n. 431, e della legge regionale 3 aprile 1989, n. 20» (comma 8), costituendo, altresì, «strumenti di previsione, guida ed indirizzo per la gestione delle aree oggetto di pianificazione e gli Enti di gestione hanno l’obbligo di rendere operative e di fare rispettare le indicazioni di piano» (comma 10).

Il Piano di area della Regione Piemonte viene a sostituire, in forza del com-ma 1 del citato art. 23 della legge regionale n. 12 del 1990, il Piano per il Parco che l’art. 25, comma 1, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) definisce come «strument[o] di attuazione delle finalità del parco naturale regionale»; peraltro, in base all’art. 2, alinea, della legge regionale n. 20 del 1989, al predetto Piano di area è affidata anche la «tutela e valorizzazione dei beni culturali, ambientali e paesistici […] a livello regionale, provinciale, comunale».

2.2. – Specifico rilievo assumono, nel delineato contesto, le norme recate dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), come modificato dal d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio).

In base all’art. 135, la conoscenza, tutela e valorizzazione del paesaggio è assicurata tramite la pianificazione paesaggistica e «a tale fine le regioni, anche in collaborazione con lo Stato, nelle forme previste dall’articolo 143, sottopon-gono a specifica normativa d’uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori pae-saggistici, concernenti l’intero territorio regionale, entrambi di seguito denomi-nati piani paesaggistici».

Il piano paesaggistico di cui all’art. 143 del medesimo decreto legislativo, elaborato secondo determinate fasi (comma 1), può anche essere frutto di intesa tra Stato e Regione (commi da 3 a 5); in tal caso, si ottiene una semplificazione dei procedimenti autorizzatori, ma l’entrata in vigore delle disposizioni che con-sentono ciò (commi 4 e 5) «è subordinata all’approvazione degli strumenti urba-nistici adeguati al piano paesaggistico, ai sensi dell’articolo 145» (comma 6).

L’art. 145, rubricato «Coordinamento della pianificazione paesaggisti-ca con altri strumenti di pianificazione», affida (comma 1) al Ministero per i

1169

beni e le attività culturali, anzitutto, l’individuazione delle «linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione», stabilendo, altresì, che (comma 2) «i piani paesaggistici prevedono misure di coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con i piani, programmi e progetti nazionali e regionali di sviluppo economico».

Il medesimo art. 145 contempla, al comma 3, il principio di “prevalenza dei piani paesaggistici” sugli altri strumenti urbanistici, precisando, segnatamente, che: «Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani pa-esaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette».

Non può non rilevarsi, altresì, che, successivamente al deposito del ricorso, sono state apportate, tramite il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63, talune modificazioni a varie disposizioni del d.lgs. n. 42 del 2004, già modificato dal d.lgs. n. 157 del 2006 e, tra queste, anche al comma 3 dell’art. 145, con l’inserimento, nella prima parte della norma, dell’inciso, da riferirsi alle previsioni dei piani paesag-gistici di cui agli artt. 143 e 156, «non sono derogabili da parte di piani, pro-grammi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico» (art. 2, comma 1, lettera r, numero 4). è evidente, tuttavia, che la parte della disposizione che riguarda il principio di prevalenza dei piani paesaggistici, sulla quale il ricorren-te impernia l’impugnazione, non è stata incisa da alcuna modificazione e, anzi, il più recente intervento del legislatore risulta nel segno di un rafforzamento del principio medesimo.

3. – Come questa Corte ha avuto modo di affermare anche di recente con la sentenza n. 367 del 2007, sul territorio vengono a gravare più interessi pubblici: da un lato, quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.; dall’altro, quelli riguardanti il governo del territorio e la valo-rizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati, in virtù del terzo comma dello stesso art. 117, alla competenza concor-rente dello Stato e delle Regioni. In definitiva, si «tratta di due tipi di tutela, che ben possono essere coordinati fra loro, ma che debbono necessariamente restare distinti» (così la citata sentenza n. 367 del 2007).

Ne consegue, sul piano del riparto di competenze tra Stato e Regione in ma-teria di paesaggio, la «separatezza tra pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall’altro», prevalendo, comunque, «l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica» (sentenza n. 182 del 2006).

è in siffatta più ampia prospettiva che, dunque, si colloca il principio del-la “gerarchia” degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, espresso dall’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004.

4. – Alla luce di quanto evidenziato, la disciplina posta dal denunciato art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2007, nel sostituire,

1170

pur nel solo àmbito del Parco fluviale Gesso e Stura, il piano d’area al piano paesaggistico (giacché il primo è appunto «efficace per la tutela del paesaggio ai fini e per gli effetti di cui all’articolo 143 del d.lgs. n. 42/2004»), altera l’ordine di prevalenza che la normativa statale, alla quale è riservata tale competenza, detta tra gli strumenti di pianificazione paesaggistica.

Sicché, la disposizione censurata, violando appunto l’art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004 che, al tempo stesso, è norma interposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. ed esprime un principio fondamen-tale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, deve essere dichiara-ta costituzionalmente illegittima.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, della legge del-la Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura).

1171

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (21 maggio) 6 giugno 2008, n. 190 – BILE Pres. – TESAURO Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse dalle Pro-vince autonome di Bolzano e Trento, di alcune disposizioni dell’art. 1 della l. n. 296/2006 (legge finanziaria 2007).

Dichiara fondata la questione di costituzionalità dei commi 588 (che vieta l’erogazione di somme a favore di consorzi e società partecipate dalle amministrazioni territoriali, qualora queste ultime non abbiano comunica-to i dati loro richiesti dal precedente comma), 589 (che sanziona la violazio-ne del divieto suddetto con la detrazione dai fondi erariali trasferiti agli enti territoriali di una somma pari alla spesa sostenuta nell’anno dai medesimi enti) e 590 (in base al quale la previsione del divieto e della sanzione di cui ai commi precedenti costituisce un principio di coordinamento della finanza pubblica): invero tali disposti violano l’autonomia finanziaria delle Provin-ce autonome e degli enti locali garantita dallo statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige.

Dichiara invece inammissibili le questioni di legittimità costituziona-le delle suddette disposizioni con riguardo agli ulteriori profili di censura delineati dalle ricorrenti ed inoltre dichiara inammissibili o infondate le questioni di costituzionalità delle altre disposizioni impugnate.

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 587 a 591 e 1221 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promossi con ricorsi delle Province autonome di Bolzano e Trento notificati il 23 e il 26 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 5 e il 6 marzo 2007 ed iscritti ai nn. 12 e 13 del registro ricorsi 2007.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;udito nell’udienza dell’11 marzo 2008 il Giudice relatore Giuseppe Te-

sauro;uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia au-

tonoma di Bolzano, Giandomenico Falcon per la Provincia autonoma di Trento e gli avvocati dello Stato Giuseppe Fiengo e Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La Provincia autonoma di Bolzano e la Provincia autonoma di Trento,

1172

con due distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose norme della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007).

1.1. – Le impugnazioni aventi ad oggetto l’art. 1, commi da 587 a 591 e comma 1221, della legge n. 296 del 2006, sono qui trattate separatamente rispetto alle altre questioni promosse nei suddetti ricorsi e, in quanto formulate in riferimento a profili e con argomenti in parte coincidenti, vanno riunite per essere decise con la medesima sentenza.

2. – Le norme di cui ai commi da 587 a 591 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 sono censurate nella parte in cui pongono in capo anche alle amministra-zioni pubbliche regionali e locali l’obbligo di comunicare annualmente al Di-partimento della funzione pubblica una serie di dati inerenti alla partecipazione delle medesime amministrazioni a consorzi ed a società (comma 587, censurato dalla sola Provincia autonoma di Bolzano), dati che devono essere resi pubblici ed esposti nel sito web del Dipartimento della funzione pubblica, in relazione ai quali il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazio-ne riferisce annualmente alle Camere (comma 591, censurato anch’esso dalla sola Provincia autonoma di Bolzano). Esse stabiliscono altresì che, in caso di mancata o incompleta comunicazione dei predetti dati, è vietata l’erogazione di somme a qualsivoglia titolo da parte dell’amministrazione interessata a favore del consorzio o della società, o a favore dei propri rappresentanti negli organi di governo degli stessi (comma 588); infine, nell’ulteriore ipotesi in cui alla mancata o incompleta comunicazione dei dati segua l’inosservanza del divieto di erogazione di cui al comma 588, viene detratta dai fondi, trasferiti a qualsiasi titolo dallo Stato a quella amministrazione nel medesimo anno, una cifra pari alle spese da ciascuna amministrazione sostenute nell’anno (comma 589).

Secondo le ricorrenti tali previsioni – in contrasto con quanto statuito dal comma 590 del medesimo art. 1 – non introducono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, bensì disposizioni di dettaglio, diretta-mente applicabili ai destinatari e non cedevoli. Esse sarebbero, pertanto, costi-tuzionalmente illegittime, in quanto lesive della competenza legislativa primaria assegnata alla Provincia dall’art. 8, n. 1, dello statuto, in materia di ordinamento degli uffici provinciali, dell’autonomia finanziaria ed in specie dell’autonomia di spesa della Provincia e delle sue competenze in materia di finanza locale, non-ché dell’autonomia finanziaria degli enti locali, come riconosciute dallo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione.

Le predette norme sarebbero, inoltre, costituzionalmente illegittime, in quanto il meccanismo di ridimensionamento delle entrate provinciali, previsto in caso di esercizio da parte della Provincia della propria autonomia di spesa non accompagnata dalla comunicazione dei dati di cui al comma 587, sarebbe irra-zionale e determinerebbe una palese disparità di trattamento fra enti territoriali, in violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

1173

La Provincia autonoma di Trento impugna anche il comma 1221 del me-desimo art. 1, nella parte in cui stabilisce che, in relazione alla disciplina delle modalità di esercizio del diritto di rivalsa da parte dello Stato nei confronti de-gli enti territoriali che abbiano causato una violazione per la quale lo Stato sia chiamato a rispondere sul piano comunitario, ove non sia stata raggiunta l’intesa per l’adozione del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze recante la determinazione dell’entità del credito dello Stato, nonché l’indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, all’adozione del predetto decreto «prov-vede il Presidente del Consiglio dei ministri, nei successivi quattro mesi, sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Tale norma violerebbe l’autonomia finanziaria provinciale, il principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, il diritto di agire e di-fendersi in giudizio della Provincia, il diritto alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione nonché il principio di certezza del diritto.

3. – Le questioni prospettate dalla Provincia autonoma di Bolzano in riferi-mento agli artt. 3 e 97 della Costituzione sono inammissibili.

Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni e le Province autonome possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attri-butive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di compe-tenza regionali o provinciali (così, fra le tante, sentenze n. 401 del 2007, n. 116 del 2006, n. 383 del 2005). Nella specie, le censure sono proposte in relazione a parametri non attinenti al riparto di competenze, senza che sia desunta la com-pressione di sfere di attribuzione provinciale (fra le tante, sentenze n. 401 del 2007 e n. 116 del 2006).

4. – Inammissibili sono anche le censure sollevate dalla Provincia auto-noma di Trento, in relazione al comma 1221 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006.

Alcune censure sono state dedotte, infatti, in riferimento a parametri costi-tuzionali – gli artt. 24, 97 e 113 della Costituzione nonché in relazione al prin-cipio di certezza del diritto – estranei al riparto di competenze, senza che la loro asserita lesione comporti una violazione dell’autonomia finanziaria provinciale. La censura relativa alla pretesa lesione dell’autonomia finanziaria provinciale è priva di ogni motivazione e deve, dunque, essere dichiarata inammissibile.

4.1. – Ancora in via preliminare, deve osservarsi che le censure inerenti alla violazione dell’autonomia finanziaria provinciale e degli enti locali, promosse nei confronti dei commi 587, 588, 589 e 590 del medesimo art. 1, devono essere valutate alla stregua delle norme dello statuto (e relative norme di attuazione). Tuttavia, come affermato da questa Corte, il vincolo del rispetto dei princípi sta-tali di coordinamento della finanza pubblica connessi ad obiettivi nazionali, con-dizionati anche dagli obblighi comunitari, che grava sulle Regioni ad autonomia ordinaria in base all’art. 119 della Costituzione – pure invocato dalle ricorrenti – si impone anche alle Province autonome nell’esercizio dell’autonomia finanzia-

1174

ria di cui allo statuto speciale (così fra le altre, sentenze n. 82 del 2007, n. 88 del 2006): vi è, pertanto, sotto questo aspetto, una sostanziale coincidenza tra limiti posti alla autonomia finanziaria delle Regioni ad autonomia ordinaria dall’art. 119 della Costituzione e limiti posti all’autonomia finanziaria delle Province autonome dallo statuto speciale.

5. – Nel merito, le questioni proposte dalla Provincia autonoma di Bolzano (reg. ric. n. 12 del 2007) nei confronti dei commi 587 e 591 dell’art. 1 della me-desima legge n. 296 del 2006 non sono fondate.

L’obbligo posto dal comma 587 in capo alle amministrazioni pubbliche regionali e locali di comunicare annualmente al Dipartimento della funzione pubblica una serie di dati inerenti alla partecipazione delle medesime ammi-nistrazioni a consorzi ed a società – così come la previsione che tali dati siano resi pubblici ed esposti nel sito web del Dipartimento della funzione pubblica, ed in relazione ad essi il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pub-blica amministrazione riferisce annualmente alle Camere (comma 591) – mira a garantire all’amministrazione centrale una adeguata conoscenza della spesa pubblica complessiva in vista dell’adozione di misure di finanza pubblica na-zionale idonee ad assicurare il rispetto dei parametri fissati nel patto di stabilità e crescita dell’Unione europea. Tali disposizioni sono, infatti, volte a consentire l’acquisizione e l’elaborazione a livello centrale (il coordinamento) dei predetti dati telematici, in possesso delle amministrazioni regionali e locali, allo scopo di soddisfare esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 240 del 2007).

Esse, pertanto, costituiscono legittimo esercizio della competenza statale di coordinamento della finanza pubblica che è limite all’autonomia finanziaria delle medesime Province autonome (sentenza n. 82 del 2007).

6. – Le questioni proposte in relazione ai commi 588, 589 e 590 del citato art. 1 sono invece fondate.

La previsione del divieto di erogazione di somme in favore di consorzi e società partecipate dalle amministrazioni territoriali, nel caso di inadempimento da parte di queste ultime dell’obbligo di comunicazione dei dati stabilito dal comma 587, contenuta al comma 588, costituisce un illegittimo vincolo all’au-tonomia di spesa della Provincia di Bolzano, nonché all’autonomia finanziaria degli enti locali, garantite dal Titolo VI dello statuto speciale e, con disposizioni non unilateralmente derogabili dal legislatore statale, dalle relative norme di attuazione introdotte dai decreti legislativi nn. 266 del 16 marzo 1992 (Nor-me di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento) e 268 del 16 marzo 1992 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) e dal d.P.R. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige per l’istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale

1175

ad esse addetto) nonché dalla legge 30 novembre 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria).

Questa Corte ha più volte affermato che costituiscono principi di coordina-mento della finanza pubblica, vincolanti per le Regioni e le Province autonome, le previsioni di sanzioni volte ad assicurare il rispetto di limiti complessivi di spesa imposti a Regioni ed enti locali, le quali operano nei confronti degli enti che abbiano superato i predetti limiti (in questo senso v. sent. n. 169 del 2007; sent. n. 412 del 2007).

Nella specie, la violazione del suddetto obbligo di comunicazione non in-cide sul complessivo limite di spesa da parte della Regione o dell’ente locale. Pertanto, non può ritenersi che la previsione sanzionatoria di cui al comma 588 a carico delle amministrazioni regionali e locali che non abbiano comunicato i dati prescritti dal comma 587 costituisca – come affermato dal comma 590 – principio di coordinamento della spesa pubblica, vincolante anche per le Re-gioni e le Province autonome.

Sulla base dei medesimi argomenti devono ritenersi fondate anche le cen-sure sollevate nei confronti del comma 589 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 in riferimento agli artt. 69-71, 75 e 78 dello statuto speciale e, in particolare, all’art. 5 della legge n. 386 del 1989 e all’art. 13, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 268 del 1992.

Il predetto comma 589 sanziona la violazione del divieto di erogazione delle somme in favore delle società e dei consorzi partecipati dalle amministra-zioni regionali o locali, – stabilito dal comma 588 e conseguente alla violazione dell’obbligo di comunicazione dei dati cui al comma 587 – con la detrazione dai fondi erariali a qualsiasi titolo trasferiti alle medesime Regioni ed enti lo-cali di una somma pari alla spesa sostenuta nell’anno dagli stessi, anche in tal caso senza alcuna connessione con la violazione di un limite complessivo di spesa imposto a Regioni ed enti locali. Anche la previsione di tale sanzione non costituisce dunque principio fondamentale di coordinamento della finanza pub-blica – in contrasto con quanto affermato dal comma 590 – ed è quindi lesiva dell’autonomia di spesa e, più in generale, dell’autonomia finanziaria regionale e provinciale.

Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dei commi 588, 589 e 590 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006.

7. – è, infine, non fondata la questione sollevata, in via subordinata, dalla Provincia autonoma di Trento, nei confronti del comma 1221 dello stesso art. 1 della legge n. 296 del 2006 in riferimento all’art. 52, comma 4, dello statuto speciale, il quale stabilisce che il Presidente della Provincia autonoma inter-viene alle sedute del Consiglio dei ministri, quando si trattano questioni che riguardano la Provincia. Tale norma è impugnata nella parte in cui assegna la competenza ad adottare il provvedimento esecutivo di cui al comma 1220 (il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, il quale costituisce titolo

1176

esecutivo nei confronti degli obbligati e reca la determinazione dell’entità del credito dello Stato nonché l’indicazione delle modalità e i termini del pagamen-to), nell’ipotesi di mancato raggiungimento dell’intesa con gli enti territoriali obbligati, all’organo monocratico Presidente del Consiglio dei ministri anziché all’organo collegiale Governo.

Appare, infatti, priva di fondamento la pretesa della Provincia autonoma di prendere parte alla deliberazione di un Consiglio dei ministri volta a deter-minare l’entità del credito dello Stato e le modalità ed i termini di pagamento dello stesso da parte degli enti territoriali obbligati, stante l’esclusiva spettanza del provvedimento al Presidente del Consiglio dei ministri, non essendo stata raggiunta l’intesa prescritta dal citato comma 1220.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legit-timità costituzionale sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe;

riuniti i giudizi,1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei com-

mi 587, 588, 589, 590 e 591 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Sta-to – legge finanziaria 2007), promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il ricorso indicato in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del com-ma 1221 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 24, 97 e 113 della Costituzione nonché al principio di certezza del diritto ed all’autonomia finanziaria delle Regioni, di cui alle norme del Titolo VI del d.P.R. 31 agosto del 1972 n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzio-nali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dalla Provincia autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 588, 589 e 590, della legge n. 296 del 2006;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 587 e 591 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 8, n. 1, e 104 del d.P.R. n. 670 del 1972, alle norme del Titolo VI del d.P.R. n. 670 del 1972, come modificate dalla legge del 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria) nonché alle norme di attuazione dello statuto di cui al d.P.R. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attua-zione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige per l’istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il per-sonale ad esse addetto), al decreto legislativo del 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rap-

1177

porto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) dalla Provincia autonoma di Bolza-no e dalla Provincia autonoma di Trento con i ricorsi indicati in epigrafe;

5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del com-ma 1221 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento all’art. 52 del d.P.R. n. 670 del 1972, dalla Provincia autonoma di Trento con il ricorso indicato in epigrafe.

1178

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (9) 13 giugno 2008, n. 200 – BILE Pres. – SILVESTRI Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse con ricor-so governativo, di alcune disposizioni della l. r. Calabria n. 2/2007 che ha istituito e disciplinato la Consulta statutaria.

Dichiara fondate le questioni di costituzionalità dei seguenti disposti:dell’art. 3, comma 1, che estende ai membri della suddetta Consulta la

garanzia dell’insindacabilità prevista per i consiglieri regionali dall’art. 122 Cost.: l’estensione della suddetta garanzia a soggetti diversi da quelli previ-sti dalla norma costituzionale lede l’integrità della funzione giurisdizionale e interferisce con la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile e penale”;

dell’art. 7, comma 3, limitatamente alla parte iniziale di tale disposto ove si prevede che, nel caso di conflitti tra organi della Regione o tra Regio-ne ed enti locali originati da una legge o da un regolamento, i soggetti le-gittimati devono ricorrere alla Consulta statutaria entro trenta giorni dalla promulgazione o dall’emanazione: il motivo della dichiarazione di incosti-tuzionalità è identico a quello del disposto menzionato qui di seguito;

dell’art. 8, comma 4, che attribuisce alla Consulta statutaria la valuta-zione sulle leggi regionali promulgate e sui regolamenti regionali emanati: invero tale valutazione compete rispettivamente alla Corte Costituzionale e ai giudici comuni, mentre la Consulta statutaria deve pronunciarsi preven-tivamente cioè nel corso del procedimento di formazione degli atti legislati-vi o regolamentari.

Dichiara invece inammissibili le questioni di costituzionalità degli in-teri artt. 6, 7 e 8 e infondate le questioni di legittimità costituzionale delle altre disposizioni impugnate.

Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 6, 7 e 8 della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 12 marzo 2007, depositato in cancelleria il 20 marzo 2007 ed iscritto al n. 16 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Calabria;udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Gaetano

Silvestri;uditi l’avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del

Consiglio dei ministri e l’avvocato Raffaele Silipo per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

1179

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legit-timità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 6, 7 e 8 della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria), per violazione degli artt. 102, 103, 117, secondo comma, lettera l), e 123, quarto comma, della Costituzione.

2. – Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità delle questio-ni di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse in riferimento all’art. 123, quarto comma, Cost.

Tale norma costituzionale prevede l’istituzione in ogni Regione del «Con-siglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali». La Consulta statutaria istituita e disciplinata dalla legge della Regio-ne Calabria oggetto del presente giudizio è organo ben diverso da quello previsto dal citato art. 123 Cost., in quanto non svolge funzioni di raccordo e consulta-zione tra la Regione e gli enti locali, ma, in Calabria come in altre Regioni, eser-cita funzioni di garanzia e consulenza sull’applicazione e l’interpretazione delle norme statutarie. Il parametro evocato dal ricorrente riguarda pertanto un organo diverso da quello oggetto della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, rendendo, di conseguenza, inammissibile la relativa censura di legittimità costituzionale.

3. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 è fondata.

La speciale guarentigia, di cui all’art. 122, quarto comma, Cost., collegata a quella prevista dall’art. 68, primo comma, Cost., assicura ai consiglieri regionali l’insindacabilità per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni. La ratio di tale garanzia costituzionale è stata individuata da questa Corte nel «parallelismo con le guarentigie dei membri del Parlamento […] in relazione al nucleo essenziale comune e caratterizzante delle funzioni degli or-gani “rappresentativi” dello Stato e delle Regioni», per finalità di «tutela delle più elevate funzioni di rappresentanza politica, in primis la funzione legislativa, volendosi garantire da qualsiasi interferenza di altri poteri il libero processo di formazione della volontà politica» (sentenza n. 69 del 1985).

L’esigenza di rango costituzionale sottesa alla guarentigia in questione giu-stifica «deroghe eccezionali all’attuazione della funzione giurisdizionale». Con riferimento alle Regioni, l’estensione di tale tipo di immunità a soggetti diversi dai consiglieri regionali «contrasta sia con l’interpretazione letterale dell’art. 122 Cost., sia con la ratio dell’istituto» (sentenza n. 81 del 1975: nella specie, si trattava dell’estensione ai componenti della Giunta regionale della garanzia dell’insindacabilità). La norma costituzionale derogatoria, rimasta invariata dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, è quindi di stretta interpretazione. Ogni sua dilatazione al di là dei limiti precisi voluti dalla Costi-tuzione costituisce una violazione dell’integrità della funzione giurisdizionale, posta a presidio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

1180

Esorbiterebbe, altresì, in modo palese dalla sfera di competenze legislative costituzionalmente attribuite alle Regioni la possibilità di introdurre nuove cau-se di esenzione dalla responsabilità penale, civile o amministrativa, trattandosi di materia riservata alla competenza esclusiva del legislatore statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

4. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, sollevata in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., non è fondata.

Il ricorrente adduce a sostegno della tesi dell’illegittimità costituzionale della norma censurata la considerazione che la possibilità accordata dalla stessa ai componenti della Consulta statutaria della Regione Calabria di depositare, in relazione alle sole decisioni e non ai pareri, «motivazioni aggiuntive firmate, di-verse (opinioni concorrenti) o contrarie (opinioni dissenzienti) a quella assunta collegialmente dalla Consulta a sostegno del dispositivo adottato» (comma 2), sia segno rivelatore della pretesa natura giurisdizionale dell’organo, con la con-seguenza dell’illegittimità della sua istituzione con legge regionale.

A prescindere da quanto sarà precisato più avanti circa la natura giuridica della Consulta statutaria de qua, in relazione alle funzioni alla stessa attribuite dalla legge reg. Calabria n. 2 del 2007, si deve osservare che la semplice previ-sione della possibilità di far risultare in modo ufficiale, da parte dei componenti, i motivi del proprio consenso o dissenso rispetto alla deliberazione assunta, non caratterizza in senso giurisdizionale l’organo in questione, giacché in tutti i col-legi amministrativi tale facoltà è riconosciuta ai relativi membri, con modalità diverse di manifestazione e di registrazione. Nel caso di specie, trattandosi di organo della Regione, la disciplina delle modalità di esercizio di questa facoltà rientra nel potere di autoorganizzazione di cui la stessa Regione dispone ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.

Risulta inoltre contraddittorio ritenere la natura giurisdizionale di un orga-no sulla base di una facoltà riconosciuta dalla legge in via generale ai compo-nenti dei collegi amministrativi e riconosciuta invece soltanto in casi limitati e per specifiche finalità ai membri di collegi giurisdizionali.

5. – Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 sono fondate nei limiti di seguito indicati.

5.1. – Questa Corte ha già chiarito che «l’introduzione di un organo di ga-ranzia nell’ordinamento statutario regionale non è, come tale, in contrasto con la Costituzione, ferma restando la necessità di valutare, nei singoli specifici profili, la compatibilità delle norme attributive allo stesso di competenze determinate» (sentenza n. 12 del 2006).

Nessun dubbio che sia ammissibile attribuire a tali organi di garanzia un potere consultivo, ancorché il contenuto negativo del parere reso determini l’ob-bligo di riesame dell’atto (sentenza n. 378 del 2004). Si tratta, nel caso oggetto del presente giudizio, di stabilire se la previsione, contenuta nelle disposizioni censurate, di «decisioni» su oggetti dalla stessa determinati possa ritenersi com-

1181

patibile con la natura amministrativa dell’organo o se, invece, il carattere vin-colante di tali atti li qualifichi come sostanzialmente giurisdizionali e pertanto estranei alla sfera di competenza del legislatore regionale.

Alla luce dei comuni principi che reggono la qualificazione degli atti dei poteri pubblici, si deve ritenere che la competenza ad emanare atti decisori non è riservata agli organi giurisdizionali, giacché l’ordinamento giuridico italiano conosce da lungo tempo molteplici tipi di atti riconducibili alla categoria delle decisioni amministrative. Queste ultime si caratterizzano per essere atti ammini-strativi di accertamento, volti a risolvere conflitti, decidendo, in un caso concre-to, sull’applicabilità di una norma o sulle modalità di applicazione della stessa.

Se si esaminano in modo specifico le competenze decisorie della Consulta statutaria enumerate dall’art. 7, comma 2, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, si vede che esse riguardano: a) i conflitti tra organi della Regione; b) i conflitti tra gli organi della Regione e gli enti locali; c) la compatibilità di proposte di legge o di regolamento con lo statuto; d) la regolarità e l’ammissibilità delle richieste di referendum.

Come precisato dal successivo art. 8, comma 1, le «decisioni» hanno ef-ficacia vincolante per gli organi regionali e per «gli altri soggetti istituzionali interessati».

Si tratta pertanto di decisioni amministrative che tendono ad eliminare dubbi e controversie sull’interpretazione delle disposizioni statutarie e delle leggi regionali riguardanti i rapporti tra la Regione e gli altri enti che operano nell’ambito del suo territorio. è appena il caso di precisare che tali decisioni non possono né precludere né, in alcun modo, limitare la competenza degli organi giurisdizionali, ordinari o amministrativi, eventualmente richiesti, nei modi rituali, di pronunciarsi sui medesimi atti già oggetto di valutazioni da parte della Consulta statutaria. Le stesse «decisioni» della suddetta Consulta possono ovviamente diventare oggetto di un giudizio di legittimità dei compe-tenti organi giudiziari.

Si deve aggiungere che l’elencazione delle competenze della Consulta sta-tutaria ricalca quella contenuta nell’art. 57, comma 5, dello statuto della Regio-ne Calabria, così come il carattere vincolante delle determinazioni dell’organo di garanzia risulta conforme al comma 7 del medesimo art. 57, che dispone: «Gli organi regionali si attengono alle valutazioni della Consulta. Il Consiglio regionale può comunque deliberare in senso contrario a singole valutazioni, con motivata decisione adottata a maggioranza assoluta». In linea con la norma sta-tutaria da ultima citata, l’art. 8, comma 3, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, dispone infatti: «Ove la Consulta ritenga leso lo Statuto da una semplice proposta di legge o regolamento del Consiglio regionale, quest’ultimo può co-munque deliberare in senso contrario alle decisioni della Consulta, con motivata decisione adottata a maggioranza assoluta».

Da quanto osservato si deve concludere che le suindicate competenze del-la Consulta statutaria, quali previste dalle norme censurate, non hanno natura

1182

giurisdizionale e risultano conformi, nei termini appena indicati, alle previsioni statutarie.

Se si interpretano le norme censurate in modo conforme allo statuto, si deve ritenere che il carattere vincolante delle «decisioni» della Consulta statuta-ria debba mantenersi nell’ambito dell’organizzazione regionale, che compren-de «tutti gli enti ed organi della Regione», con la conseguenza che tra gli altri «soggetti interessati», menzionati dal comma 2 dell’art. 8, non possano essere inclusi gli enti locali, la cui autonomia è costituzionalmente garantita dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost.

5.2. – Si deve, al contrario, rilevare l’illegittimità costituzionale del comma 4 dell’art. 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, giacché ogni valutazione sulle leggi regionali promulgate o sui regolamenti emanati appartiene alla com-petenza esclusiva rispettivamente della Corte Costituzionale e dei giudici comu-ni, ordinari e amministrativi. Le competenze della Consulta statutaria, per non invadere la sfera di attribuzioni del giudice delle leggi e degli organi giudiziari, devono avere soltanto carattere preventivo ed essere perciò esercitate nel corso dei procedimenti di formazione degli atti. Ogni valutazione sulla legittimità di atti, legislativi o amministrativi, successiva alla loro promulgazione o emanazio-ne è estranea alla sfera delle attribuzioni regionali.

5.3. – Assieme al comma 4 dell’art. 8, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 7, limitatamente alle parole «Ad eccezione del caso di conflitti fra organi della Regione o fra Regione ed Enti locali originati da una legge o da un regolamento, nel quale i soggetti legittimati devono ricorre-re alla Consulta entro 30 giorni dalla promulgazione della legge,».

I motivi della declaratoria di illegittimità costituzionale di tale norma sono analoghi a quelli enunciati a proposito del comma 4 dell’art. 8, in quanto la Con-sulta statutaria non può essere investita di valutazioni di legittimità concernenti leggi regionali promulgate o regolamenti emanati. Nessun ricorso a tale organo è pertanto ammissibile dopo la promulgazione della legge o l’emanazione del regolamento, poiché ogni valutazione di legittimità è riservata, nei termini, nei limiti e con le modalità previsti dalla Costituzione e dalle leggi vigenti, alla Cor-te Costituzionale ed ai giudici ordinari e amministrativi.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, limitatamente alle seguenti parole: «Ad eccezione del caso di conflitti fra organi della Regione o fra Regione ed Enti locali originati da una legge o da un regolamento, nel quale i soggetti legittimati devono ricor-rere alla Consulta entro 30 giorni dalla promulgazione della legge,»;

1183

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse, in riferimento all’art. 123, quarto comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei mini-stri con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1, 2, 4, 5, 6, 7 e 8, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Pre-sidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, commi 1, 2 e 3, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

1184

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (9) 13 giugno 2008, n. 201 – BILE Pres. – DE SIERVO Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa con ricorso governativo, della l. r. Molise n. 4/2007 che ha istituito il Sottosegretario alla Presidenza della Regione, configurandolo come una rilevante carica poli-tico-istituzionale: egli infatti viene nominato dal Presidente della Regione tra i consiglieri regionali, ha poteri di rappresentanza del Presidente della Regione, partecipa alle sedute della Giunta, benché senza diritto di voto. La legge regionale è dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto disci-plina ambiti riservati alla fonte statutaria, violando così la riserva di statuto sancita dall’art. 123 della Costituzione (v. punti 3.1 e 3.2 del “Considerato in diritto”).

Nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 febbraio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Re-gione), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 30 aprile 2007, depositato in cancelleria l’8 maggio 2007 ed iscritto al n. 24 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Molise;udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Ugo De

Siervo;uditi l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio

dei ministri e l’avvocato Vincenzo Colalillo per la Regione Molise.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di le-gittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 febbraio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione), in riferimento all’art. 123 della Costituzione, nonché agli artt. 20 e 23 dello statuto della Re-gione Molise (tuttora vigente è il testo approvato con la legge 22 maggio 1971, n. 347).

Secondo il ricorrente, la legge impugnata, disciplinando la nuova figura del Sottosegretario alla Presidenza ed assegnando allo stesso una serie di eterogenee funzioni, ne prevede anche la partecipazione alle riunioni della Giunta, seppur senza diritto di voto: ciò contrasterebbe anzitutto con gli artt. 20 e 23 dello statuto regionale, che disciplinano la composizione ed il funzionamento della Giunta.

1185

Inoltre, l’art. 123 Cost. dispone che spetta allo statuto regionale determi-nare i princípi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione attraverso una speciale procedura legislativa. Dal momento che la figura del Sottosegretario alla Presidenza «sicuramente attiene all’organizzazione e fun-zionamento della Regione», non può essere prevista e disciplinata con legge regionale ordinaria.

2. – In via preliminare, va riconosciuta l’ammissibilità della presente que-stione, benché la stessa abbia per oggetto l’intera legge regionale.

La legge impugnata, infatti, è composta di soli tre articoli, il secondo ed il terzo dei quali con funzioni meramente accessorie, essendo relativi alla copertu-ra finanziaria ed alla entrata in vigore di tale disciplina.

Questa Corte ha più volte chiarito che è inammissibile l’impugnativa di una intera legge ove ciò comporti la genericità delle censure che non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità, mentre ammissibili sono le impugnative contro intere leggi caratterizzate da normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure (da ultimo, si vedano le sentenze n. 238 e n. 22 del 2006; n. 359 del 2003).

3. – Nel merito la questione è fondata in riferimento all’art. 123 Cost.3.1. – L’art. 1 della legge impugnata configura il Sottosegretario alla Presi-

denza della Regione come una rilevante ed impegnativa carica di tipo politico-istituzionale, come del resto comprovato dalla stessa denominazione ivi accolta (si vedano, le sentenze n. 306 e n. 106 del 2002). Il Sottosegretario è scelto fra i consiglieri regionali in carica; è sostituito nella Commissione consiliare di cui fa parte «da un consigliere dello stesso gruppo politico o di altro gruppo di maggioranza»; partecipa alle sedute della Giunta regionale, seppur senza diritto di voto; dispone di un proprio apparato di collaboratori analogo a quello degli assessori; è titolare di una indennità pari a quella spettante al vicepresidente del Consiglio regionale.

Sul piano delle funzioni appare particolarmente significativo che egli, nelle sue attività di rappresentanza del Presidente della Regione, mantenga «i rapporti con il Consiglio, con gli assessori, con i direttori generali, con la struttura re-gionale, con tutte le istituzioni e con organismi pubblici e privati», avvalendosi «delle strutture, delle collaborazioni e del personale che sono nella disponibilità della Presidenza della Regione».

Tutto ciò rende palese che la legge censurata incide sulle aree materia-li riservate alla fonte statutaria regionale, quali configurate nel primo comma dell’art. 123 Cost., sia prima («organizzazione interna della Regione»: si veda, al riguardo, la sentenza n. 407 del 1989) che dopo («la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento») la riforma operata dall’art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999 n. 1 (Disposizioni con-cernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni).

La Costituzione riserva allo statuto la disciplina dei rapporti tra gli organi

1186

fondamentali della Regione (si vedano, le sentenze n. 12 del 2006 e n. 313 del 2003), anche in relazione alla loro conformazione (sentenza n. 3 del 2006). Con la sentenza n. 188 del 2007, questa Corte ha precisato che «le scelte fondamen-tali in ordine al riparto delle funzioni tra gli organi regionali, ed in particolare tra il Consiglio e la Giunta, alla loro organizzazione e al loro funzionamento sono riservate dall’art. 123 Cost. alla fonte statutaria. Tale riserva impedisce al legi-slatore regionale ordinario, in assenza di disposizioni statutarie, di disciplinare la materia».

Le disposizioni relative alla nomina del Sottosegretario ed alla sua sosti-tuzione in seno alla Commissione consiliare di appartenenza (peraltro con una specifica scelta in ordine al sostituto) incidono sui rapporti tra l’esecutivo regio-nale e l’assemblea legislativa così invadendo un àmbito materiale proprio della fonte statutaria.

Similmente, la riserva di statuto risulta disattesa anche dalle disposizio-ni afferenti alla partecipazione alle sedute della Giunta. In particolare, l’art. 1, comma 2, pur non alterando formalmente la composizione della Giunta di cui all’art. 20 del vigente statuto, ha per oggetto il funzionamento dell’esecutivo regionale, la cui disciplina spetta alla fonte statutaria. Inoltre, nel silenzio della disciplina impugnata, la presenza del Sottosegretario deve essere intesa come permanente e non meramente occasionale.

A parte il potere presidenziale di nomina e di revoca (come si è visto, ri-levante anche sul piano dei rapporti con il Consiglio regionale), la previsione di cui all’art. 1, comma 3, secondo cui il Sottosegretario «può rappresentare il Presidente della Regione su disposizione dello stesso», afferisce alla rappresen-tanza regionale, che la stessa Costituzione, all’art. 121, ultimo comma, attribui-sce in via esclusiva al Presidente della Regione. A fronte del principio enunciato dalla Carta fondamentale, il suo compiuto svolgimento non può che spettare allo statuto, sempre in ordine alla determinazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento.

3.2. – In considerazione della diversa natura e procedura di adozione della fonte statutaria rispetto a quelle delle ordinarie leggi regionali, questa Corte ha più volte affermato la illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 123 Cost., di leggi regionali che adottino discipline difformi dal dettato statutario o comunque regolino materie riservate alla fonte statutaria (fra le molte si vedano le sentenze n. 188 del 2007; n. 119 del 2006; n. 379, n. 378, n. 372 e n. 2 del 2004; n. 313 e n. 196 del 2003; n. 304 del 2002), allorché sarebbe possibile pro-cedere a innovazioni anche solo parziali dello statuto regionale vigente, tramite la procedura di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost. (sentenza n. 304 del 2002).

Il ritardo nella adozione dei nuovi statuti non può legittimare l’assunzio-ne, da parte del legislatore regionale “ordinario”, di determinazioni normative riservate alla fonte statutaria. Con la sentenza n. 188 del 2007 questa Corte ha affermato che «le Regioni avrebbero dovuto sviluppare, attraverso apposite e

1187

complete disposizioni statutarie, le rilevanti innovazioni costituzionali ed istitu-zionali originate dalle nuove scelte operate a livello nazionale, in tal modo anche riducendo il rischio dell’assenza di normative adeguate alle novità comunque prodottesi, a tutela della necessaria trasparenza e legalità dell’azione regionale». Sicché, «l’adeguamento alle modifiche costituzionali e legislative intervenute non può essere rinviato sine die [...], a meno del manifestarsi di rischi partico-larmente gravi sul piano della funzionalità e legalità sostanziale di molteplici attività delle Regioni ad autonomia ordinaria».

3.3. – Resta assorbito ogni altro profilo di censura.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 feb-braio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione).

1188

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (9) 18 giugno 2008, n. 213 – BILE Pres. – MADDALENA Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, sollevata dalla Corte dei conti - Sezioni riunite per la Regione Sardegna, dell’art. 2, comma 7, l. r. Sardegna n. 21/2006 che prevede l’iscrizione al bilancio per l’anno 2006 di quota parte del gettito delle compartecipazioni tributarie spettanti alla Regione per gli anni 2013, 2014 e 2015: l’inserimento nel bilancio dell’anno corrente, per finanziare spese attuali, di somme derivanti da entrate future lede i principi dell’annualità del bilancio e della effettiva copertura delle spese, desumibili dall’art. 81, rispettivamente primo e quarto comma, della Costituzione.

Dichiara invece inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’altra disposizione impugnata.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna 28 dicembre 2006, n. 21 (Autorizzazione all’esercizio provvisorio del bilancio della Regione per l’anno 2007 e disposizioni per la chiusura dell’esercizio 2006), e dell’art. 2, comma 1, lettere a) e c), della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – legge finanziaria 2007), pro-mosso con ordinanza del 28 giugno 2007 dalla Corte dei conti – Sezioni riunite per la Regione Sardegna nel giudizio di parificazione del rendiconto della Re-gione Sardegna per l’esercizio finanziario 2006, iscritta al n. 611 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Sardegna;udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo

Maddalena;uditi gli avvocati Graziano Campus, Paolo Carrozza e Augusto Fantozzi

per la Regione Sardegna.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La Corte dei conti – sezioni riunite per la Regione Sardegna solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna 28 dicembre 2006, n. 21 (Autorizzazione all’esercizio prov-visorio del bilancio della Regione per l’anno 2007 e disposizioni per la chiusura dell’esercizio 2006), e dell’art. 2, comma 1, lettere a) e c), della legge della

1189

Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – legge finanziaria 2007), in rife-rimento all’art. 81, primo e quarto comma, della Costituzione ed in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 81 della Co-stituzione.

2. – Il rimettente rileva che le disposizioni censurate hanno, come elemento comune, l’accertamento attuale di una entrata futura quale mezzo di finanzia-mento di spese dell’esercizio di pertinenza.

L’art. 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna n. 21 del 2006, in effetti, prevede la specifica iscrizione al bilancio per l’anno 2006 di quota parte del gettito delle compartecipazioni tributarie spettanti alla Regione per gli anni 2013, 2014 e 2015, per complessivi 1 miliardo e 500 milioni di euro.

L’art. 2, comma 1, lettera a), della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, a sua volta, prevede, a regime, la possibilità di destinare al finanziamento di determinate tipologie di spese di investimento gli importi che verranno tra-sferiti dallo Stato in anni futuri, provvedendo conseguentemente a compensare tali maggiori stanziamenti con minori iscrizioni d’entrata negli anni successivi, nell’ambito del bilancio pluriennale di riferimento.

L’art. 2, comma 1, lettera c), della medesima legge regionale n. 2 del 2007, infine, ridefinisce la stessa nozione di accertamento d’entrata, facendovi rientra-re ogni accertamento di un credito di cui sia appurata la ragione, l’identità del debitore e l’ammontare, senza che ne rilevi la scadenza o la esigibilità e, quindi, includendovi anche crediti sottoposti a termine o crediti futuri.

3. – Per il rimettente tale «tecnica di copertura» nonché l’equiparazione, ai fini dell’accertamento, tra crediti esigibili nell’esercizio finanziario di com-petenza e crediti a questo futuri sarebbero del tutto estranei ai canoni previsti dalla contabilità pubblica non solo statale (art. 11-ter della legge 5 agosto 1978, n. 468, recante «Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio»), ma anche regionale (art. 33, comma 2, della legge della Regione Sardegna 2 agosto 2006, n. 11, recante «Norme in materia di program-mazione, di bilancio e di contabilità della Regione autonoma della Sardegna. Abrogazione della legge regionale 7 luglio 1975, n. 27, della legge regionale 5 maggio 1983, n. 11 e della legge regionale 9 giugno 1999, n. 23»), e, soprattutto, in contrasto con l’art. 81, quarto comma, della Costituzione, anche alla luce del-la giurisprudenza costituzionale formatasi in relazione all’affermato principio di necessaria copertura finanziaria delle spese. Le disposizioni censurate, sotto altro profilo, si porrebbero, inoltre, contro il principio di annualità del bilancio, di cui all’art. 81, primo comma, della Costituzione.

Le medesime censure sono poi prospettate dalla Corte dei conti rimettente, invocando quale parametro anche l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, sull’assunto che gli invocati principi discendenti dall’art. 81 della Costituzione sarebbero stati altresì imposti alle Regioni, quali principi fondamentali di armo-nizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, da

1190

parte del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 170 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici, a norma dell’ar-ticolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131). In particolare risulterebbero violati gli artt. 5 e 6 di tale decreto, da considerare norme interposte del citato art. 117, terzo comma, della Costituzione.

4. – Deve, anzitutto, essere confermato il risalente orientamento di questa Corte, che riconosce alla Corte dei conti, in sede di giudizio di parificazione del bilancio, la legittimazione a promuovere, in riferimento all’art. 81 della Costi-tuzione, questione di legittimità costituzionale avverso tutte quelle disposizioni di legge che determinino effetti modificativi dell’articolazione del bilancio per il fatto stesso di incidere, in senso globale, sulle unità elementari, vale a dire sui capitoli, con riflessi sugli equilibri di gestione, disegnati con il sistema dei risultati differenziali (vedi sentenza n. 244 del 1995).

5. – Deve, poi, dichiararsi l’inammissibilità delle questioni proposte in or-dine all’art. 2, comma 1, lettere a) e c), della legge della Regione Sardegna n. 2 del 2007, per non rilevanza delle stesse nel presente giudizio.

Tali disposizioni, effettivamente ispirate al medesimo principio di cui all’art. 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna n. 21 del 2006, non ri-guardano, infatti, l’esercizio del 2006, oggetto del giudizio di parificazione, non constando che, in applicazione di esse, sia stata effettuata alcuna iscrizione nel bilancio per l’anno 2006 della Regione.

6. – Le questioni proposte in ordine all’art. 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna n. 21 del 2006 sono fondate.

6.1. – L’art. 81, quarto comma, della Costituzione prevede l’obbligo di co-pertura finanziaria delle spese.

Il principio, che è vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (da ultimo, sentenza n. 359 del 2007), è stato specificato da questa Corte in varie pronunce, nelle quali si è chiarito, tra l’altro che:

la copertura deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri (sentenza n. 1 del 1966);

la copertura è aleatoria se non tiene conto che ogni anticipazione di entrate ha un suo costo (sentenza n. 54 del 1983);

l’obbligo di copertura deve essere osservato con puntualità rigorosa nei confronti delle spese che incidono su un esercizio in corso e deve valutarsi il tendenziale equilibrio tra entrate ed uscite nel lungo periodo, valutando gli oneri già gravanti sugli esercizi futuri (sentenza n. 384 del 1991).

Alla luce di questi indirizzi giurisprudenziali, va ora esaminata la questione posta dal rimettente sulla possibilità di coprire con crediti, che verranno a sca-denza in esercizi futuri, spese attuali inerenti all’esercizio di riferimento.

Ed a questo proposito occorre osservare che caratteristica fondamentale del bilancio di previsione è quella di riferirsi alle operazioni finanziarie che si prevede si verificheranno durante l’anno finanziario. Infatti soltanto riferendosi

1191

ad un determinato arco di tempo, il bilancio può assolvere alle sue fondamentali funzioni, le quali, in ultima analisi, tendono ad assicurare il tendenziale pareggio del bilancio, ed in generale la stabilità della finanza pubblica.

è per questo che l’art. 81, quarto comma, della Costituzione, pone il princi-pio fondamentale della copertura delle spese, richiedendo la contestualità tanto dei presupposti che giustificano le previsioni di spesa quanto di quelli posti a fondamento delle previsioni di entrata necessarie per la copertura finanziaria delle prime.

In questo quadro è evidente che la copertura di spese mediante crediti futu-ri, lede il suddetto principio costituzionale ed è tanto più irrazionale quanto più si riferisce a crediti futuri, lontani nel tempo.

Un siffatto sistema di copertura mediante crediti non ancora venuti a sca-denza contraddice peraltro la stessa definizione di “accertamento dell’entrata”, poiché è tale quella che si prevede di aver diritto di percepire nell’esercizio finanziario di riferimento e non in un esercizio futuro.

Inoltre l’accertamento attuale di entrate future, operato dalla Regione con la norma impugnata, risulta inattendibile, perché non tiene conto della necessa-ria onerosità dell’anticipazione di cassa cui occorre provvedere in attesa del’ef-fettivo maturare del futuro titolo giuridico dell’entrata.

6.2. – Le varie argomentazioni proposte dalla difesa della Regione Sarde-gna risultano non solo infondate, là dove assumono, contro il principio di cui all’art. 81, quarto comma, della Costituzione, l’accertabilità di entrate future, ma anche inconferenti, là dove muovono dall’erroneo presupposto che, nella specie, vi sia solo un fisiologico scostamento tra accertamento e riscossione di entrata.

Invero la questione posta dalla disposizione censurata non attiene affatto alla circostanza che possa esistere, come è ovvio, una discrasia tra bilancio di competenza e di cassa, ovvero tra l’esercizio in cui matura giuridicamente l’esi-gibilità del credito, rilevante ai fini dell’accertamento, e l’esercizio in cui si in-cassa, in tutto o in parte, il relativo importo. Neppure essa attiene alla eventua-lità, di per sé legittima, che possano essere riportati dei crediti accertati, ma non riscossi, nei “residui attivi” dell’anno successivo. La previsione del censurato articolo 2, comma 7, della legge regionale n. 21 del 2006 pone, invece, la ben diversa questione del se si possa accertare come attualmente esigibile un credito futuro. Questione da risolversi negativamente, per le ragioni appena indicate.

Né può parlarsi di «una operazione finanziaria straordinaria», come affer-ma la difesa della Regione, poiché, come si desume da quanto sopra detto, l’art. 81, quarto comma, della Costituzione, esclude anche questa possibilità.

6.3. – L’art. 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna n. 21 del 2006, deve, pertanto, essere dichiarato incostituzionale per violazione dell’art. 81, pri-mo e quarto comma, della Costituzione.

Restano assorbiti gli altri motivi di censura.

1192

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 7, della legge della Regione Sardegna 28 dicembre 2006, n. 21 (Autorizzazione all’esercizio provvisorio del bilancio della Regione per l’anno 2007 e disposizioni per la chiusura dell’esercizio 2006);

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’arti-colo 2, comma 1, lettere a) e c), della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione – legge finanziaria 2007), sollevate, in riferimento all’articolo 81, primo e quarto comma, della Costituzione ed in riferimento all’art. 117, ter-zo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 81 della Costituzione, dalla Corte dei conti – sezioni riunite per la Regione Sardegna, con l’ordinanza in epigrafe.

1193

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (9) 18 giugno 2008, n. 214 – BILE Pres. – TESAURO Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, sollevata dal T.A.R. Emilia-Romagna, dell’art. 5 l.r. Emilia-Romagna n. 5/2006, come modificato dall’art. 25 l.r. n. 13/2006, in base a cui le norme del d. lgs. n. 22/1997, abro-gate dal d.lgs. n. 152/2006, restano applicabili ai procedimenti di bonifica ancora in corso sul territorio della Regione all’entrata in vigore di quest’ul-timo decreto: tale disposizione regionale, contrastando con l’art. 265, com-ma 4, d.lgs. n. 152/2006 (il quale prevede che le norme in materia ambientale in esso contenute sono applicabili a tutte le situazioni non irreversibilmente definite al momento della sua entrata in vigore), lede la competenza legisla-tiva esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente”.

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Re-gione Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 42 – ordinamento della professione di ma-estro di sci – e disposizioni in materia ambientale), nel testo modificato dall’art. 25 della legge della Regione Emilia-Romagna 28 luglio 2006, n. 13 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40, in coincidenza con l’approvazione della legge di assesta-mento del bilancio di previsione per l’esercizio 2006 e del bilancio pluriennale 2006-2008. Primo provvedimento di variazione), promosso con ordinanza del 25 giugno 2007 dal Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia Romagna sul ricorso proposto dall’E.N.I. s.p.a. – Divisione Refining & Marketing contro il Comune di Migliarino ed altri, iscritta al n. 737 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di costituzione dell’E.N.I. s.p.a. – Divisione Refining & Mar-keting e della Regione Emilia-Romagna;

udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro,

uditi gli avvocati Stefano Grassi e Antonella Persico per l’E.N.I. s.p.a. – Di-visione Refining & Marketing, Maria Chiara Lista e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – La questione sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per

1194

l’Emilia-Romagna investe l’art. 5 della legge della Regione Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 42 – ordinamento della professione di maestro di sci – e disposizioni in materia ambientale), nel testo modificato dall’art. 25 della legge della stessa Regione 28 luglio 2006, n. 13 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40, in coincidenza con l’approvazione della legge di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio 2006 e del bilancio pluriennale 2006-2008. Primo provvedimento di variazione), il quale stabilisce: «Restano di competenza dei Comuni i proce-dimenti di bonifica dei siti contaminati già avviati alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che li concludono sulla base della legislazione vigente alla data del loro avvio».

1.1. – Secondo il rimettente, la norma regionale censurata, disponendo che le norme abrogate di cui al d.lgs. n. 22 del 1997 restano applicabili ai procedi-menti di bonifica ancora in corso, si porrebbe in contrasto con l’art. 265, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale stabilisce che le norme in materia ambien-tale recate da detto decreto legislativo sono applicabili a tutte le situazioni non irreversibilmente definite alla data della loro entrata in vigore, in tal modo vio-lando la competenza statale esclusiva in tema di «tutela dell’ambiente».

2. – La questione va esaminata entro i limiti del thema decidendum indivi-duato dall’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 349 del 2007, n. 310 e n. 234 del 2006). Pertanto, non possono essere scrutinate le censure proposte dall’ENI, in riferimento a parametri e profili non prospettati dal giudice rimet-tente, che, in questa parte, ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla predetta società.

3. – La questione sollevata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, è fondata.

Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) – che ha introdotto una nuova disciplina in tema di bonifica dei siti contaminati – ha disposto, all’art. 264, comma 1, lettera i), l’abrogazione espressa del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio). è stato quindi abrogato l’art. 17 del medesimo decreto n. 22 del 1997, relativo alla bonifica ed al ripristino dei siti inquinati, basato sui limiti massimi di concentrazione, al superamento dei quali scattava comunque l’obbligo di bonifica. Sono state, inoltre, introdotte, all’art. 240, due distinte soglie: la prima, corrispondente alle «concentrazioni soglia di contaminazione» (CSC), in relazione alla quale i livelli di contaminazione delle matrici ambientali costituiscono valori il cui superamento impone la caratteriz-zazione del sito e la procedura di analisi di rischio sito specifica; la seconda, cor-rispondente alle «concentrazioni soglia di rischio» (CSR), che, se oltrepassata, determina il sorgere dell’obbligo di bonifica e di messa in sicurezza.

Le novità apportate dal decreto legislativo n. 152 del 2006 sono rilevanti.

1195

La previgente disciplina definiva «inquinato» il sito nel quale i livelli di contaminazione o alterazione erano «tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l’ambiente naturale», ciò che avveniva quando la concentrazione degli inquinanti risultava «superiore ai valori di concentrazione limite accetta-bili», fissati dall’apposita normativa tabellare. «Potenzialmente inquinato» era il sito in cui, a causa di attività pregresse o in atto, sussisteva la «possibilità» che fossero presenti sostanze inquinanti in concentrazioni tali da determinare «pericolo per la salute pubblica o per l’ambiente» (art. 2, comma 1, lettera c), del decreto del Ministro dell’ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, contenente il «Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni e integrazioni»). Nel nuovo re-gime di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, i «valori limite» di concentrazione diventano «valori di attenzione» (cosiddette «concentrazioni soglia di contaminazione»), il cui superamento non determina, di per sé, l’automatica qualificazione giuri-dica di contaminazione del sito, ma obbliga unicamente alla caratterizzazione e all’analisi di rischio «sito specifica» (art. 240 del d.lgs. n. 152 del 2006). Nel d.m. n. 471 del 1999 il ruolo dell’«analisi di rischio» era definito eminentemente sussidiario. Nel nuovo regime, al contrario, l’analisi di rischio diviene strumento centrale e decisivo ai fini della qualificazione giuridica di contaminazione del sito e della conseguente insorgenza dell’obbligo di messa in sicurezza e di bonifica.

La portata delle modifiche introdotte in tema di bonifica dei siti inquinati ha indotto il legislatore statale ad agevolare la transizione dal vecchio al nuovo regime, mediante la previsione contenuta nell’art. 265, comma 4, secondo la quale, «fatti salvi gli interventi realizzati alla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto, entro centottanta giorni da tale data, può essere pre-sentata all’autorità competente adeguata relazione tecnica al fine di rimodulare gli obiettivi di bonifica già autorizzati sulla base dei criteri definiti dalla parte quarta del presente decreto. L’autorità competente esamina la documentazione e dispone le varianti al progetto necessarie».

Tale previsione esprime chiaramente il favor del legislatore statale per l’ap-plicazione della disciplina sopravvenuta in riferimento non solo ai procedimenti in corso, ma anche ai procedimenti già conclusi, riconoscendo in relazione a questi ultimi – con una formula di non dubbia interpretazione – la facoltà di pro-porre istanza di rimodulazione degli interventi già autorizzati, ma non realizzati, sia pure nelle forme ed entro i limiti sopra richiamati.

In contrasto con detta previsione, la norma regionale censurata statuisce, in maniera altrettanto chiara, che «i procedimenti di bonifica dei siti contaminati già avviati alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152» sono conclusi «sulla base della legislazione vigente alla data del loro avvio», in tal modo escludendo la facoltà che gli interventi di bonifica già auto-rizzati in forza del regime previgente possano essere rimodulati alla luce della nuova disciplina e rivelando un disfavore per l’applicazione di quest’ultima.

1196

Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni, nell’esercizio di pro-prie competenze, possono perseguire fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale (sentenza n. 246 del 2006; sentenza n. 182 del 2006). Tuttavia, il perseguimento di finalità di tutela ambientale da parte del legislatore regionale può ammettersi solo ove esso sia un effetto indiretto e marginale della disciplina adottata dalla Regione nell’esercizio di una propria legittima competenza e co-munque non si ponga in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che proteggono l’ambiente (sentenza n. 431 del 2007).

Inoltre, questa Corte ha precisato che la disciplina ambientale, che scaturi-sce dall’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, costituisce un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato (sentenza n. 62 del 2008; sen-tenza n. 378 del 2007). Spetta infatti alla disciplina statale tener conto degli altri interessi costituzionalmente rilevanti contrapposti alla tutela dell’ambiente. In tali casi, infatti, una eventuale diversa disciplina regionale, anche più rigorosa in tema di tutela dell’ambiente, rischierebbe di sacrificare in maniera eccessiva e sproporzionata gli altri interessi confliggenti considerati dalla legge statale nel fissare i cosiddetti valori soglia (sentenza n. 246 del 2006; sentenza n. 307 del 2003).

Nella specie, la norma censurata ha quale oggetto diretto e specifico la tutela dell’ambiente, imponendo, in violazione di detti princípi e in evidente contrasto con quanto statuito dal legislatore statale (art. 265, comma 4 del d.lgs. n. 152 del 2006), l’applicazione ai procedimenti in corso della normativa statale previgente (e dei valori-soglia da essa definiti), in luogo di quella nuova. In tal modo, la disposizione impedisce la rimodulazione, alla luce di quest’ultima, degli interventi già autorizzati, facoltizzata dalla normativa statale, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Emilia-Romagna 1° giugno 2006, n. 5 (Modifiche ed integrazioni alla legge re-gionale 9 dicembre 1993, n. 42 – ordinamento della professione di maestro di sci – e disposizioni in materia ambientale), nel testo modificato dall’art. 25 del-la legge della stessa Regione 28 luglio 2006, n. 13 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40, in coincidenza con l’approvazione della legge di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio 2006 e del bilancio pluriennale 2006-2008. Primo provvedimento di variazione).

1197

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (23) 27 giugno 2008, n. 232 – BILE Pres. – QUARANTA Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa con ricorso governativo, del comma 4-bis dell’art. 11 l.r. Puglia n. 17/2006, introdotto dall’art. 42 l.r. n. 10/2007, il quale dispone che il mantenimento per l’intero anno delle strutture amovibili utilizzati per l’attività turistica stagionale è consentito anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica: tale disposto, ammettendo deroghe alla disciplina valevole sull’intero territorio naziona-le, lede la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia “tutela dell’ambiente”.

Nel giudizio di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 11 del-la legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell’uso della costa), introdotto dall’art. 42 della legge della Regione Puglia 16 aprile 2007, n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 18 giugno 2007, depositato in cancelleria il successivo 23 giugno ed iscritto al n. 30 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione, fuori termine, della Regione Puglia;udito nell’udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Alfonso

Quaranta; udito l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio

dei ministri.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di le-gittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 11 della legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell’uso della costa), introdotto dall’art. 42 della legge della stessa Regione 16 aprile 2007, n. 10 (Di-sposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio plurien-nale 2007-2009 della Regione Puglia), secondo il quale «il mantenimento per l’intero anno delle strutture precarie e amovibili di facile rimozione, funzionali all’attività turistico-ricreativa e già autorizzate per il mantenimento stagionale, è consentito anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica».

1198

Il ricorrente censura la disposizione in esame prospettando la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in quanto essa in-vaderebbe la potestà legislativa esclusiva dello Stato nella materia della tutela dell’ambiente, alla quale è stata data attuazione, con riguardo ai beni paesaggi-stici, con le disposizioni contenute negli artt. 142, 146 e 149 del decreto legisla-tivo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

2. – La questione è fondata. 3. – Per una compiuta disamina della censura proposta dalla difesa dello

Stato occorre collocare la norma impugnata nel più ampio contesto normativo della legge regionale n. 17 del 2006.

Detta legge disciplina, tra l’altro, l’esercizio delle funzioni amministrative connesse alla gestione del demanio marittimo e regola gli adempimenti ed il procedimento per il rilascio, il rinnovo e la variazione delle concessioni di aree o beni del demanio medesimo («concessione demaniale marittima», quale pre-vista dall’art. 10, comma 3, della medesima legge).

La suddetta concessione, rilasciata per finalità turistico-ricreativa, ha la durata di sei anni, secondo quanto previsto dal comma 2 dell’art. 1 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, recante «Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime», come convertito dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, nonché dall’art. 10, comma 6, della stessa legge regio-nale n. 17 del 2006.

Ai sensi dell’art.11, comma 4, della legge regionale in esame, «la gestione di stabilimenti balneari e di altre strutture connesse alle attività turistiche rica-denti su aree demaniali regolarmente concesse è consentita per l’intero anno, al fine di svolgere attività collaterali alla balneazione, con facoltà di mantenere le opere assentite, ancorché precarie, qualora, prima della scadenza della con-cessione, sia stata prodotta regolare istanza di rinnovo e, comunque, sino alle relative determinazioni dell’autorità competente».

In funzione, dunque, dello svolgimento, regolarmente autorizzato, per l’in-tero anno di attività collaterali alla balneazione, le opere precarie – quali gli sta-bilimenti balneari e le altre strutture connesse alle attività turistiche – destinate, ab origine, a far fronte ad esigenze di carattere temporaneo nel periodo estivo, possono essere mantenute oltre il suddetto periodo, cioè in un arco temporale diverso da quello assentito.

4. – Nel contesto normativo sopra richiamato si inserisce la disposizione ora impugnata.

Il comma 4-bis oggetto di censura stabilisce, infatti, che «il mantenimento per l’intero anno delle strutture precarie e amovibili di facile rimozione, funzio-nali all’attività turistico-ricreativa e già autorizzate per il mantenimento stagio-nale, è consentito anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica».

La disposizione sospettata di illegittimità costituzionale deve, pertanto, es-

1199

sere esaminata tenendo presente il complessivo regime giuridico delle opere di nuova costruzione, tra le quali rientra, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del de-creto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abita-zioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee», che siano realizzati su aree del demanio marittimo oggetto di concessione.

è quindi evidente, da un lato, che la disciplina amministrativa dell’uso del territorio, come delineata nei principi generali sanciti dal legislatore statale, nel-la materia del governo del territorio, prevede il rilascio di titoli abilitativi ad edi-ficare; dall’altro, che l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, ai fini della salvaguardia del paesaggio e dell’ambiente, richiede che intervenga, da parte dell’Ammini-strazione, la positiva valutazione della compatibilità paesaggistica, mediante il rilascio della relativa autorizzazione.

5. – Così delineato il contesto normativo nel cui ambito si inserisce la nor-ma regionale oggetto di censura, è fuor di dubbio che essa leda l’art. 117, se-condo comma, lettera s), Cost., in relazione al citato art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004.

Il suddetto art. 146, infatti, prevede che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini del precedente art. 142 (tra i quali rientrano i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia) non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai va-lori paesaggistici oggetto di protezione ed hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendono intrapren-dere al fine di ottenere il rilascio della autorizzazione paesaggistica; quest’ulti-ma costituisce atto autonomo da valere come presupposto rispetto al permesso di costruire e agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio.

La norma sottoposta a scrutinio, invece, consente il mantenimento delle opere precarie in questione, oltre il periodo autorizzato in relazione alla durata della stagione balneare, in mancanza della necessaria positiva valutazione di compatibilità paesaggistica.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la tutela ambienta-le e paesaggistica, la quale ha ad oggetto un bene complesso ed unitario, che costituisce un valore primario ed assoluto, rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 367 del 2007 e n. 182 del 2006).

Ciò, se non esclude la possibilità che leggi regionali, emanate nell’eserci-zio della potestà concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., o di quella residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., possano assumere tra i propri scopi anche indirette finalità di tutela ambientale (sentenza n. 232 del 2005), non consente, tuttavia, che le stesse introducano deroghe agli istituti di protezione

1200

ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale, nel cui ambito deve essere annoverata l’autorizzazione paesaggistica.

6.– Deve, pertanto essere dichiarata l’illegittimità costituzionale del com-ma 4-bis dell’art. 11 della legge della Regione Puglia n. 17 del 2006, introdotto dall’art. 42 della legge della medesima Regione n. 10 del 2007.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 11 della legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell’uso della costa), introdotto dall’art. 42 della legge della medesima Regione 16 aprile 2007, n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia).

1201

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (25 giugno) 4 luglio 2008, n. 250 – BILE Pres. – SAULLE Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa con ricorso governativo, degli artt. 2 e 3 l.r. Lombardia n. 2/2007, i quali prevedono che ogni anno il Consiglio regionale approvi con legge i prelievi venatori in deroga: le disposizioni impugnate violano la competenza legislativa esclu-siva dello Stato nella materia “tutela dell’ecosistema”; in particolare l’uso della legge-provvedimento regionale preclude il potere di annullamento che il Presidente del Consiglio potrebbe invece esercitare se i provvedimenti de-rogatori della Regione fossero atti amministrativi, potere finalizzato ad una uniforme protezione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale.

Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia del 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in de-roga), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 6 aprile 2007, depositato in cancelleria l’11 aprile 2007 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2007.

Visti l’atto di costituzione della Regione Lombardia nonché l’atto di inter-vento, fuori termine, della FACE (Federazione delle Associazioni Venatorie e per la Conservazione della Fauna Selvatica dell’UE) ed altra;

udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

uditi l’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Franco Ferrari per la Regione Lombardia.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in deroga), per contrasto con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione.

Il ricorrente ritiene che le cennate disposizioni, nello stabilire che ogni anno il Consiglio regionale proceda all’approvazione con legge-provvedimento dei prelievi in deroga, senza verificare la sussistenza di un danno effettivo, intro-ducono un sistema di deroga ordinario, in contrasto con la normativa comunita-ria e con gli standard minimi ed uniformi di tutela della fauna.

2. – In via preliminare va dichiarato inammissibile l’intervento della FACE (Federazione delle Associazioni Venatorie e per la Conservazione della Fauna

1202

Selvatica dell’UE), effettuato con atto depositato oltre i termini previsti dalle norme che disciplinano il giudizio dinanzi alla Corte Costituzionale.

3. – Nel merito, la questione è fondata. 4. – La giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che il potere di deroga

di cui all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE è esercitabile dalla Regione in via ec-cezionale, «per consentire non tanto la caccia, quanto, piuttosto, più in generale, l’abbattimento o la cattura di uccelli selvatici appartenenti alle specie protette dalla direttiva medesima» (sentenza n. 168 del 1999).

5. – Il legislatore statale è intervenuto in materia con l’adozione della legge 3 ottobre 2002, n. 221, recante «Integrazioni alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio, in attua-zione della direttiva 79/409/CEE», con la quale è stato introdotto l’art. 19-bis. Quest’ultima disposizione prevede, al primo comma, che le Regioni discipli-nano l’esercizio delle deroghe previste dalla cennata direttiva «conformandosi alle prescrizioni dell’art. 9, ai princìpi e alle finalità degli artt. 1 e 2 della stessa direttiva» e alle disposizioni della legge n. 157 del 1992. I commi successivi riprendono le condizioni espressamente individuate dalla direttiva 79/409/CEE, in base alle quali è consentito il regime delle deroghe. è previsto, inoltre, che il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, possa annullare i provvedimenti di deroga adottati, previa delibera del Consiglio dei ministri e dopo aver diffidato la Regione interessata.

6. – Dal raffronto tra la norma statale e le norme regionali impugnate emer-ge che il legislatore regionale, nello stabilire che l’esercizio delle deroghe av-venga attraverso una legge-provvedimento, ha introdotto una disciplina in con-trasto con quanto previsto dal legislatore statale al cennato art. 19-bis.

In particolare, l’autorizzazione del prelievo in deroga con legge preclude l’esercizio del potere di annullamento da parte del Presidente del Consiglio dei ministri dei provvedimenti derogatori adottati dalle Regioni che risultino in con-trasto con la direttiva comunitaria 79/409/CEE e con la legge n. 157 del 1992; potere di annullamento finalizzato a garantire una uniforme ed adeguata prote-zione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale.

Pertanto, va accolto il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri e dichiarata l’illegittimità costituzionale della previsione legislativa regionale che consente di approvare mediante legge regionale i prelievi in deroga.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Re-gione Lombardia 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in deroga).

1203

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (7) 11 luglio 2008, n. 271 – BILE Pres. – DE SIERVO Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, sollevata dal T.A.R. Liguria, dell’art. 13 l. r. Liguria n. 15/2007, il quale stabilisce che è posto a carico del Servizio sanitario solo il costo del farmaco generico incluso nel-la categoria terapeutica degli inibitori di pompa protonica: la disposizione impugnata lede la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (fra cui rientra il diritto alla salute). In particolare il suddetto disposto le-gislativo regionale è stato approvato in sostituzione di un provvedimento amministrativo, mentre il legislatore statale (art. 6 d.l. n. 347/2001 conv. in l. n. 405/2001) ha previsto quest’ultimo, quale atto d’esercizio del potere delle Regioni di ridurre o escludere la rimborsabilità dei farmaci, allo scopo di attribuire ai soggetti direttamente interessati un’adeguata tutela giurisdi-zionale fin dalla fase cautelare.

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge della Regione Liguria 3 aprile 2007, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bi-lancio annuale e pluriennale della Regione Liguria – Legge finanziaria 2007), promossi con n. 5 ordinanze del 15 novembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria rispettivamente iscritte ai nn. da 79 a 83 del registro or-dinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti gli atti di costituzione della Società Astra Zeneca s.p.a. ed altra, del-la Farmindustria – Associazione delle imprese del farmaco, della Janssen Cilag s.p.a. e della Malesci – Istituto Farmacobiologico s.p.a. e della Regione Liguria;

udito nell’udienza pubblica del 10 giugno 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari per la Società Astra Zeneca s.p.a. ed altra, Giuseppe Franco Ferrari e Diego Vaiano per la Farmindustria – Asso-ciazione delle imprese del farmaco, Antonio Romei per la Janssen Cilag s.p.a., Diego Vaiano per la Malesci – Istituto Farmacobiologico s.p.a. e Giuseppe Mor-bidelli per la Regione Liguria.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Con cinque analoghe ordinanze il Tribunale amministrativo regionale

1204

per la Liguria ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 (rec-te: 13) della legge della Regione Liguria 3 aprile 2007, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Liguria – Legge finanziaria 2007), in riferimento agli artt. 3, 24, 32, 113 e 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, della Costituzione.

In pendenza di cinque giudizi relativi ad un provvedimento amministrativo della Regione Liguria – che ha limitato al costo del farmaco cosiddetto “ge-nerico” la spesa addebitabile a carico del Servizio sanitario regionale per una categoria terapeutica omogenea di farmaci (quella degli inibitori di pompa pro-tonica), sul presupposto della sostanziale equipollenza terapeutica tra i farmaci appartenenti a tale categoria –, il T.A.R. rimettente ha disposto in via cautelare la sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato, in specie sotto il dedotto profilo della insufficienza istruttoria effettuata dall’amministrazione regionale in merito alla effettiva equivalenza del farmaco generico con i restanti farmaci presenti nella relativa categoria terapeutica.

Successivamente, nelle more del giudizio amministrativo, è intervenuta la impugnata legge regionale n. 15 del 2007, il cui censurato art. 13 stabilisce che, «ai sensi dell’articolo 6 del decreto-legge 18 settembre 2001 n. 347, convertito in legge 16 novembre 2001 n. 405 (Interventi urgenti in materia di spesa sani-taria), del parere espresso dalla Commissione tecnico scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) in data 20 febbraio 2007 ed ai fini del rispetto degli impegni assunti con l’accordo 6 marzo 2007 con il Ministero della salute e con il Ministero dell’economia e delle finanze, relativamente agli interventi per il contenimento della spesa farmaceutica, per quanto concerne la categoria tera-peutica degli inibitori di pompa protonica, è posto a carico del Servizio sanitario solo il costo del farmaco generico incluso in tale categoria terapeutica, salvo le deroghe previste con provvedimenti amministrativi. La Giunta regionale può altresì derogare dall’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo in presenza di atti nazionali o regionali finalizzati a garantire i medesimi effetti economici».

Il giudice a quo riferisce di essersi nuovamente pronunciato in sede caute-lare, sospendendo, a séguito della proposizione di motivi aggiunti, anche l’ese-cuzione del provvedimento della Giunta regionale attuativo della disposizione legislativa denunciata, ma di dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge regionale n. 15 del 2007 in relazione ai profili che così sintetiz-za: «violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera m) e comma 3 [della Costituzione], nella parte in cui non è conforme alle norme nazionali di de-terminazione dei livelli essenziali di assistenza e dei principi fondamentali in tema della tutela della salute; violazione degli artt. 3 e 32 della [Costituzione] nella parte in cui comporta una disparità di trattamento rispetto alle altre Regio-ni, irragionevolmente si fonda su di una norma nazionale in parte superata ed inapplicabile nella specie, nonché su di un atto endoprocedimentale oltretutto travisato nel suo […] contenuto, ed altresì nella parte in cui irragionevolmente

1205

prevede una delega in bianco per l’eventuale deroga al proprio disposto in capo agli organi amministrativi senza alcun criterio per l’esercizio della deroga stes-sa; violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, nella parte in cui la legge provvedimento viene direttamente a vanificare la tutela cautelare assicurata dal giudice competente rispetto ai provvedimenti amministrativi impugnati e che confluiscono nella stessa legge-provvedimento».

Si sono costituite, per argomentare nel senso dell’accoglimento della que-stione, alcune delle parti ricorrenti nei giudizi principali, mentre il Presidente della Giunta della Regione Liguria si è interamente costituito in tutti i giudizi, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

I giudizi pongono all’esame della Corte analoghe questioni e possono, per-tanto, essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

2. – Il T.A.R. ricorrente solleva anzitutto la questione della compatibilità della norma censurata con l’art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, della Costituzione, in quanto non «conforme alle norme nazionali di determina-zione dei livelli essenziali di assistenza e dei principi fondamentali in tema di tutela della salute».

Si pone pertanto, in via preliminare, il problema della competenza del le-gislatore regionale ad intervenire in una materia riservata al legislatore statale ai sensi del secondo comma, lettera m), dell’art. 117 della Costituzione, o comun-que modellata sulla legislazione statale di principio avente ad oggetto la tutela della salute, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

A tal fine, occorre individuare in quali àmbiti e come il legislatore statale abbia finora esercitato, nel settore dei farmaci destinati all’utilizzazione nel Ser-vizio sanitario nazionale, la propria competenza in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»: è, infatti, evidente che il limi-te della competenza esclusiva statale appena ricordata rispetto alla competenza legislativa concorrente in tema di «tutela della salute» può essere relativamente mobile e dipendere concretamente dalle scelte legislative operate.

Sotto questo profilo, va rimarcato che, ai sensi del d.P.C.M. 29 novembre 2001 (come ora del d.P.C.M. 23 aprile 2008), l’erogazione di farmaci rientra nei livelli essenziali di assistenza (LEA), il cui godimento è assicurato a tutti in condizioni di uguaglianza sul territorio nazionale (sentenza n. 282 del 2002), affinché non si verifichi che in parti di esso, «gli utenti debbano, in ipotesi, as-soggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato» (sentenza n. 387 del 2007).

In particolare, la legislazione statale (art. 8, comma 14, della legge 24 di-cembre 1993, n. 537, recante «Interventi correttivi di finanza pubblica») assicu-ra a tutti la totale rimborsabilità dei farmaci collocati in classe A nel prontuario farmaceutico, ma aggiunge (art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001) che, entro tale categoria, la comprovata equipollenza terapeutica dei farmaci consente, nel-le forme ivi previste, che possa essere esclusa in modo totale o parziale la rim-

1206

borsabilità dei medicinali più onerosi per le finanze pubbliche alle condizioni fissate dallo stesso legislatore statale.

è evidente che per tale via la legislazione in punto di livelli essenziali delle prestazioni coniuga una necessaria opera di contenimento della spesa farma-ceutica (da ultimo, sentenza n. 279 del 2006) con la garanzia che continuino peraltro ad erogarsi a carico del Servizio sanitario nazionale i farmaci reputati, secondo un apprezzamento tecnico-scientifico, idonei a salvaguardare il diritto alla salute degli assistiti.

Nel contempo, l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001 non manca di attribuire alle singole Regioni, anche nel rispetto delle rilevanti competenze di cui esse godono nella materia concernente la tutela della salute, una sfera di competenza, esercitabile tramite “provvedimento amministrativo”, in punto di esclusione della rimborsabilità del farmaco essenziale, ma terapeuticamen-te equipollente ad altro più economico, che consente di adeguare il regime vigente di rimborsabilità alla particolare condizione finanziaria di ciascuna Regione.

Per quanto concerne in particolare la determinazione della quota della rimborsabilità dei prezzi farmaceutici, il primo comma dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 16 novembre 2001, n. 405, facendo espresso riferimento alle pro-cedure di ridefinizione dei LEA, prevede infatti un’apposita procedura me-diante la quale la Commissione unica del farmaco (ora sostituita dalla Com-missione tecnico scientifica dell’AIFA, ai sensi dell’art. 2, comma 349, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008») può indi-viduare «i farmaci che, in relazione al loro ruolo non essenziale, alla presenza fra i medicinali concedibili di prodotti aventi attività terapeutica sovrapponi-bile secondo il criterio delle categorie terapeutiche omogenee, possono essere totalmente o parzialmente esclusi dalla rimborsabilità». Il secondo comma del medesimo articolo, a sua volta, prevede espressamente che «la totale o parziale esclusione della rimborsabilità dei farmaci di cui al comma 1 è di-sposta, anche con provvedimento amministrativo della Regione, tenuto conto dell’andamento della propria spesa farmaceutica rispetto al tetto di spesa pro-grammato».

L’espressione «farmaci con un ruolo non essenziale» in questo testo, così come nell’art. 1 del d.m. – ora abrogato – 4 dicembre 2001 (Riclassificazione dei medicinali ai sensi della legge 16 novembre 2001, n. 405, di conversione, con modifiche, del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347), non comporta, ov-viamente, che l’intervento in questione non cada sui farmaci di classe A, definiti come essenziali o necessari per malattie croniche, giacché, al contrario, presup-posto di siffatto intervento è proprio l’inclusione del medicinale nella fascia di piena rimborsabilità, riservata a questi ultimi.

è invece il “ruolo” dello specifico prodotto farmaceutico a rivelarsi, ad un

1207

successivo esame tecnico-scientifico, non più essenziale, in quanto sovrapponi-bile per efficacia terapeutica a medicinali di minor prezzo.

Questa legislazione rende, quindi, evidente che il legislatore nazionale non esclude che, nell’ambito dei LEA, che pure hanno una generale finalizzazione di tipo egualitario, una Regione possa differenziare per il suo territorio il livello di rimborsabilità dei farmaci, purché la eventuale determinazione amministrativa regionale sia preceduta dal procedimento individuato nel primo comma dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001 e la Regione operi al fine del contenimento della propria spesa farmaceutica.

Da questo punto di vista, è infondata la doglianza relativa alla violazione del principio di eguaglianza e del diritto alla salute che deriverebbe da una simi-le articolazione regionale del potere di riduzione della rimborsabilità dei farma-ci, dal momento che la procedura di cui al comma 1 dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001 è finalizzata alla verifica della «presenza fra i medicinali con-cedibili di prodotti aventi attività terapeutica sovrapponibile secondo il criterio delle categorie terapeutiche omogenee» e deve pertanto garantire l’equivalenza terapeutica sull’intero territorio nazionale del farmaco interamente rimborsabile con quello oggetto del provvedimento.

Né la perdurante vigenza di questa legislazione può essere messa in dubbio a causa della successiva adozione dell’art. 48 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 comma 1, della legge 24 novembre 2003, n. 326, che – tra l’altro – ha nuova-mente modificato le conseguenze degli «sfondamenti del tetto di spesa» per l’assistenza farmaceutica, previsto la rimborsabilità dei farmaci «sulla base dei criteri di costo e di efficacia» e disciplinato l’Agenzia italiana del farmaco.

Fondamentalmente diverso è, infatti, rispetto alla determinazione del prez-zo dei farmaci di classe A (e quindi in via di principio rimborsabili) e degli sconti imposti in caso di sfondamento del tetto della spesa farmaceutica, il regi-me della parziale rimborsabilità dei farmaci inseriti nella classe A, in quanto si accerti che esistano farmaci equivalenti e meno cari. Su quest’ultimo piano resta in vigore l’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001, seppur in parte integrato dalla più recente legislazione in tema di funzioni ed assetto dell’AIFA.

D’altra parte, in epoca successiva alla legge che è oggetto del presente giu-dizio, il legislatore nazionale, con un ulteriore intervento normativo relativo al governo della spesa farmaceutica (si veda l’art. 5, comma 5-bis, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, recante «Interventi urgenti in materia economico finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 novembre 2007 n. 222, ha integrato il succi-tato art. 6, aggiungendovi un comma 2-bis, secondo il quale «sono nulli i prov-vedimenti regionali di cui al comma 2, assunti in difformità da quanto deliberato, ai sensi del comma 1, dalla Commissione unica del farmaco o, successivamente alla istituzione dell’AIFA, dalla Commissione consultiva tecnico-scientifica di

1208

tale Agenzia, fatte salve eventuali ratifiche adottate dall’AIFA antecedentemente al 1° ottobre 2007».

Il potere previsto dall’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001 resta pertanto in vigore ed è esercitabile, per espressa volontà del legislatore statale, anche dalla Regione tramite «provvedimento amministrativo».

3. – L’impugnato art. 13 della legge della Regione Liguria n. 15 del 2007 è stato approvato in sostituzione del provvedimento amministrativo di cui al secondo comma dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001, tanto da essere ca-ratterizzato anche da una parte motiva, in evidente analogia con la motivazione che sorregge in linea di principio gli atti amministrativi.

Ciò si pone in espresso contrasto con quanto previsto nel secondo comma dell’art. 6, nell’àmbito di una materia, concernente la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, riservata in via esclusiva al legislatore sta-tale, che quindi è pienamente competente anche a determinare le forme tramite le quali la Regione può esercitare le attribuzioni riconosciutele in tale àmbito dalla normativa dello Stato, quando esse rispondano in via immediata ad esigen-ze, connesse al livello di tutela garantito nella fruizione della prestazione, di cui la stessa legge statale si fa carico.

Nel caso di specie, l’esercizio da parte della Regione del potere di esclu-dere in tutto o in parte la rimborsabilità dei farmaci è configurato dal legislatore statale come il punto di arrivo di uno speciale procedimento amministrativo, in particolare caratterizzato dal determinante ruolo valutativo di un apposito or-gano tecnico nazionale sulla base dei criteri determinati dal legislatore statale. Procedimento che evidentemente garantisce pure i soggetti direttamente interes-sati, anche attraverso la possibilità di ricorrere agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale, consentendo il soddisfacimento delle tutele richieste fin dalla fase cautelare, ove ne ricorrano i presupposti, e comunque con immediatezza da parte del giudice competente a conoscere della legittimità dell’atto amministra-tivo (ed ora mediante la sanzione della nullità dei provvedimenti amministrativi regionali difformi da quanto deliberato dall’organo tecnico statale).

Sostituire con un atto legislativo quanto può essere realizzato dalla Regio-ne mediante un apposito provvedimento amministrativo rappresenta quindi una violazione di quanto espressamente determinato dal legislatore statale nell’am-bito di una materia di sua esclusiva competenza (nel caso di specie, secondo quanto previsto nel secondo comma, lettera m), dell’art. 117 della Costituzione) ed è quindi contrario al dettato costituzionale.

Per tale ragione, la norma impugnata deve essere dichiarata costituzional-mente illegittima, con assorbimento delle ulteriori censure qui non esaminate.

Resta evidentemente possibile alla Regione adottare, per i motivi indicati nel secondo comma dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001, il provvedi-mento amministrativo ivi previsto, secondo le modalità determinate dal legisla-tore statale.

1209

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge della Re-gione Liguria 3 aprile 2007, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Liguria – Legge finanziaria 2007).

1210

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (9) 16 luglio 2008, n. 277 – BILE Pres. – QUARANTA Rel.

Dichiara fondata la questione di costituzionalità, promossa con ricorso governativo, della l. r. Calabria n. 27/2007 che prevede il blocco della rea-lizzazione del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, disposta da un’ordinanza statale adottata per fronteggiare l’emergenza relativa allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella Regione: la legge regionale non rispetta il principio fondamentale nella materia di legislazione concorrente “protezione civile” costituito dalla adottabilità, da parte dello Stato, di or-dinanze di necessità ed urgenza.

Dichiara inoltre l’assorbimento dell’esame dell’istanza di sospensio-ne della legge regionale impugnata (il potere di sospensione delle leggi nei giudizi in via principale è previsto dall’art. 35 l. n. 87/1953 come sostituito dall’art. 9, comma 4, l. n. 131/2003).

Nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Calabria 28 dicembre 2007, n. 27 (Integrazione piano regionale dei rifiuti), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 28 febbraio 2008, depositato in cancelleria il successivo 7 marzo ed iscritto al n. 20 del registro ricorsi 2008.

Visto l’atto di costituzione della Regione Calabria; udito nell’udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Alfonso

Quaranta; uditi l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio

dei ministri e l’avvocato Giovanni Pitruzzella per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Con ricorso notificato il 28 febbraio 2008 e depositato il successivo 7 marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Calabria 28 dicembre 2007, n. 27 (Integrazione piano regionale dei rifiuti), per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

Le disposizioni oggetto di censura prevedono la sospensione dei lavori di realizzazione del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro – per con-sentire l’espletamento delle verifiche di compatibilità ambientale, economica e tecnologica dell’impianto – per la durata massima di sessanta giorni dall’in-sediamento della Commissione di verifica e comunque fino alla decisione di merito della stessa.

1211

2. – In via preliminare, appare opportuno rilevare, ribadendo quanto già sottolineato da questa Corte con la sentenza n. 284 del 2006, che lo Stato, ai sensi dell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), ha una specifica competenza a disciplinare gli eventi di natura straordinaria di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), della stessa legge. Più specificamente, tale competenza si sostanzia nel potere del Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, di delibe-rare e revocare lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione terri-toriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. L’esercizio di questi poteri – come è stato specificato dalla normativa successivamente interve-nuta – deve avvenire d’intesa con le Regioni interessate, sulla base di quanto di-sposto dall’art. 107 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonché dall’art. 5, comma 4-bis, del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343 (Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attività di protezione civile e per migliorare le strutture logistiche nel settore della difesa civile) convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 9 novembre 2001, n. 401.

Inoltre, per l’attuazione dei predetti interventi di emergenza, possono esse-re adottate ordinanze – anche da parte di Commissari delegati (art. 5, comma 4, della legge n. 225 del 1992) – in deroga ad ogni disposizione vigente, nel rispet-to, tuttavia, dei principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 5, comma 2).

2.1. – In applicazione, in particolare, del citato art. 5 della legge n. 225 del 1992, con d.P.C.M. 12 settembre 1997 è stato dichiarato, «fino al 31 dicembre 1998», lo stato di emergenza nella Regione Calabria a causa della grave crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei ri-fiuti solidi urbani.

Tale stato di emergenza, più volte prorogato per periodi variamente de-terminati, è stato, da ultimo, protratto fino al 31 ottobre 2007 con d.P.C.M. 16 febbraio 2007. Il mancato completamento entro il suddetto termine delle inizia-tive volte a superare il contesto di criticità ambientale in atto nel territorio della Regione Calabria ha, però, indotto il Presidente del Consiglio dei ministri, con ordinanza del 22 gennaio 2008, n. 3645, ad attribuire al Commissario delegato il compito di portare ad esecuzione gli interventi già programmati ed in corso di attuazione.

Durante la vigenza della predetta situazione di grave rischio ambientale il Commissario delegato ha adottato, tra l’altro, l’ordinanza 30 ottobre 2007, n. 6294, con cui è stato approvato il nuovo piano di gestione dei rifiuti della Regio-ne Calabria, il quale prevede anche la realizzazione del raddoppio del termova-lorizzatore di Gioia Tauro. Sia l’ordinanza n. 3645 del 2008, che la precedente ordinanza n. 6294 del 2007 non sono state impugnate dalla Regione Calabria né

1212

in sede di giurisdizione amministrativa, né con ricorso per conflitto di attribu-zione davanti a questa Corte.

In questo contesto si colloca la legge regionale impugnata, la quale, come già precisato, ha disposto la sospensione dei lavori di realizzazione del predetto impianto in attesa dell’effettuazione delle verifiche di compatibilità ambientale, economica e tecnologica.

2.2. – Nei confronti della suddetta legge si appuntano le critiche del Presi-dente del Consiglio dei ministri di violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

2.3. – Il ricorso è fondato.Questa Corte ha già avuto modo di affermare che le previsioni contemplate

nei richiamati articoli 5 della legge n. 225 del 1992 e 107 del d.lgs. n. 112 del 1998 – le quali legittimano lo Stato ad adottare specifiche ordinanze di necessità ed urgenza per ovviare a situazioni di emergenza – sono espressive di un princi-pio fondamentale della materia della protezione civile, che assume una valenza particolarmente pregnante quando sussistano ragioni di urgenza che giustifichi-no un intervento unitario da parte dello Stato (sentenza n. 284 del 2006).

Detto intervento rinviene, altresì, un ulteriore titolo di legittimazione nella competenza legislativa in materia di tutela dell’ambiente, nel cui ambito si col-loca il settore relativo alla gestione dei rifiuti (sentenze n. 284 del 2006; n. 161 e n. 62 del 2005; n. 312 e n. 96 del 2003).

2.4. – La legge regionale impugnata, disponendo la sospensione, pur essen-do ancora in atto la situazione di emergenza, degli effetti prodotti dall’ordinanza n. 6294 del 2007, emanata dal Commissario delegato, ha violato i principi fon-damentali posti dall’art. 5 della legge n. 225 del 1992.

La Corte ha già ritenuto illegittima tale modalità di esercizio della potestà legislativa regionale, dichiarando incostituzionale, tra l’altro, l’art. 14, comma 5, della legge della stessa Regione Calabria 17 agosto 2005, n. 13, che reca «Provvedimento generale, recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di assestamento di bilancio per l’anno 2005 ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8)», che aveva, in attesa dell’approvazione del nuovo «piano regionale dei rifiuti», bloccato “tem-poraneamente” la realizzazione del raddoppio dello stesso termovalorizzatore di Gioia Tauro.

In questa sede, pertanto, deve ribadirsi la non conformità a Costituzione di siffatti interventi che, lungi dal costituire svolgimento attuativo dei principi fon-damentali posti dal legislatore statale, si pongono l’obiettivo di neutralizzare gli effetti prodotti da ordinanze che rinvengono il proprio fondamento giustificativo nella legge statale e nella potestà di dettare i principi fondamentali in una mate-ria affidata alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni.

2.5. – Né si può pervenire ad una diversa conclusione sulla base di quanto affermato dalla difesa regionale, e cioè che l’adozione delle norme con cui è stata disposta la sospensione dei lavori costituisca una “reintegrazione” della potestà legislativa violata.

1213

Sul punto, con la citata sentenza n. 284 del 2006, si è affermato che «il legislatore regionale non può utilizzare (…) la potestà legislativa per paralizzare – nel periodo di vigenza della situazione di emergenza ambientale – gli effetti di provvedimenti di necessità ed urgenza, non impugnati, emanati in attuazione delle riportate disposizioni di legge espressive di principi fondamentali».

Allo stesso modo, privo di fondamento è il rilievo, svolto sempre dalla di-fesa regionale, secondo cui l’ordinanza di approvazione del piano regionale dei rifiuti, non essendo stata adottata nel rispetto delle procedure di concertazione previste dall’art. 107 del d.lgs. n. 112 del 1998, non può essere considerata come parametro di riferimento per dedurre la illegittimità costituzionale della legge regionale, in particolare mediante il giudizio di legittimità costituzionale in via principale.

A prescindere dall’ovvia considerazione che le ordinanze di urgenza, per la loro natura, non potrebbero comunque assurgere al valore di parametro interpo-sto, la infondatezza della suindicata deduzione difensiva discende dalla necessi-tà di mantenere separati i profili di rilevanza costituzionale afferenti al rapporto tra competenze legislative attribuite ai diversi livelli di governo che possono venire in rilievo nei giudizi di impugnazione delle leggi, dagli aspetti relativi alla illegittimità delle ordinanze di necessità ed urgenza. Tale ultimo profilo, in realtà, appartiene al piano dell’esercizio concreto delle funzioni amministrative, e deve essere dedotto nelle competenti sedi giudiziarie ed eventualmente, ricor-rendone i necessari presupposti, anche innanzi a questa Corte mediante ricorso per conflitto di attribuzione. Ed infatti, soltanto in tali sedi la Regione avrebbe potuto contestare la validità dei suddetti provvedimenti anche in relazione alla mancanza di adeguate forme di leale collaborazione e di concertazione ai fini della loro adozione. è evidente, dunque, come non sia consentito alla Regione richiamarsi ad una presunta illegittimità delle ordinanze adottate da autorità del-lo Stato, che non abbiano formato oggetto di rituale impugnazione nei termini e con le modalità previste dall’ordinamento per la loro contestazione in sede giudiziaria.

2.6. – Infine, deve rilevarsi come – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della Regione Calabria – le norme censurate non possano rinvenire la loro giustificazione, sul piano costituzionale, nella natura transitoria, peraltro solo apparente, del precetto in esse contenuto. Infatti, tali norme, pur stabilendo formalmente che la sospensione «avrà la durata massima di 60 giorni dall’in-sediamento della Commissione di verifica», aggiungono che la stessa permarrà «fino al pronunciamento di merito» da parte della medesima Commissione e quindi senza la predeterminazione di un termine finale di durata della sospen-sione stessa.

3. – Alla luce delle considerazioni che precedono, la legge impugnata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, ter-zo comma, della Costituzione, con assorbimento dell’esame dell’istanza di so-spensione ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

1214

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Calabria 28 dicembre 2007, n. 27 (Integrazione piano regionale dei rifiuti).

1215

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza (9) 18 luglio 2008, n. 285 – BILE Pres. – MAZZELLA Rel.

Decide sulle questioni di legittimità costituzionale, promosse con ricor-so governativo, di alcune disposizioni della l. r. Valle d’Aosta n. 6/2007 che disciplina interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale.

Dichiara fondate le questioni di costituzionalità dei seguenti disposti:dell’art. 2, comma 2, lett. a) e c), ove sono menzionate rispettivamente

le iniziative di cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo e con i Paesi in via di transizione e le iniziative in caso di emergenze straordi-narie e di carattere umanitario;

dell’art. 4, che disciplina le iniziative di cui alla lett. a) dell’art. 2, com-ma 2;

dell’art. 6, che disciplina le iniziative di cui alla lett. c) dell’art. 2, com-ma 2:

tutte le summenzionate disposizioni regionali invero invadono la com-petenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “politica estera”.

Dichiara invece infondate le questioni di legittimità costituzionale delle altre disposizioni impugnate.

Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della legge della Regione Valle d’Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazio-nale), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 13 luglio 2007, depositato in cancelleria il 17 luglio 2007 ed iscritto al n. 31 del registro ricorsi 2007.

Visto l’atto di costituzione della Regione Valle d’Aosta;udito nell’udienza pubblica dell’8 luglio 2008 il Giudice relatore Luigi

Mazzella;uditi l’avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio

dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d’Ao-sta.

Ritenuto in fatto

(Omissis)

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Valle d’Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di in-terventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale), e

1216

«in particolare – a titolo indicativo e non esaustivo –» gli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della predetta legge, per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, e 2 e 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta).

Il rimettente sostiene che, con la legge regionale n. 6 del 2007, la Regio-ne Valle d’Aosta ha legiferato nella materia della cooperazione allo sviluppo, attinente alla cooperazione internazionale quale parte integrante della politica estera dell’Italia e, dunque, in un campo di competenza esclusiva dello Stato.

La Regione eccepisce l’inammissibilità del ricorso, poiché le censure sa-rebbero generiche in relazione alla complessità ed alla eterogeneità dei con-tenuti della legge impugnata; nel merito, deduce che la questione è infondata poiché la legge impugnata interviene nella materia dei «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione alla quale la potestà legislativa spetta alla Regione salvo che per la de-terminazione dei principî fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

2. – L’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla Regione non è fondata.

Essa si basa sull’assunto secondo cui la legge impugnata conterrebbe di-sposizioni dal contenuto eterogeneo, ma tale premessa non è corretta.

Infatti la legge in questione contiene una disciplina unitaria di una serie di iniziative regionali tra loro affini ed il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri non può essere ritenuto generico perché alcune di quelle iniziative potrebbero non essere riconducibili alla materia della «politica estera». Il thema decidendum sottoposto alla Corte è chiaro e delineato con precisione nell’atto introduttivo: si tratta di appurare se l’unitaria disciplina dettata dalla legge reg. Valle d’Aosta n. 6 del 2007 con riferimento agli interventi regionali da essa previsti invada o meno la competenza riservata allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione. Il fatto, poi, che quelle attività, in tutto o in parte, non rientrino nella materia «politica estera» costituisce aspetto attinente al merito della questione e non alla sua ammissibilità.

3. – Nel merito, le questioni sono in parte fondate.3.1. – Va premesso che l’impugnazione del Presidente del Consiglio dei

ministri deve ritenersi circoscritta agli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della legge regionale n. 6 del 2007, perché nel ricorso sono formulate specifiche censure solamente rispetto a tali norme.

3.2. – Questa Corte ha già affermato che sono lesive della competenza sta-tale in materia di politica estera le norme regionali che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinazione degli obiettivi della cooperazione interna-zionale e degli interventi di emergenza ed il potere di individuazione dei desti-natari dei benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione. Tali norme, infatti, implicando l’impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati bene-ficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione internazionale,

1217

autorizzano e disciplinano attività di politica estera (sentenze n. 131 del 2008 e n. 211 del 2006).

3.3. – La legge censurata determina in generale, nell’art. 2, i tre possibili ambiti di intervento della Regione («cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo e i Paesi in via di transizione»; «educazione, formazione e studio»; «emergenze straordinarie e di carattere umanitario») e, negli artt. 4, 5 e 6, definisce, rispettivamente, i caratteri di ciascuna delle tre predette categorie di iniziative.

In particolare, l’art. 4 disciplina attività di cooperazione internazionale consistenti in progetti che richiedono un intervento, definito nel tempo e nelle risorse impiegate, volti al sostegno di azioni di autosviluppo sostenibile delle popolazioni destinatarie, finalizzati a ricercare la partecipazione attiva e diretta delle popolazioni medesime, allo scopo di valorizzarne le risorse umane, cultu-rali e materiali; ovvero consistenti in programmi che richiedono un intervento complesso e protratto nel tempo che sono volti alla realizzazione di azioni di cooperazione o di iniziative di partenariato territoriale tra le comunità destina-tarie e la comunità valdostana oppure sono diretti all’assistenza alle istituzioni pubbliche locali dei Paesi destinatari, al fine di contribuire allo sviluppo delle capacità amministrative e gestionali locali.

Tali iniziative rientrano evidentemente nella materia della politica estera di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., così come definita dalle sentenze n. 211 del 2006 e n. 131 del 2008.

3.4. – L’art. 6 della legge reg. Valle d’Aosta n. 6 del 2007 prevede, a sua volta, attività straordinarie di emergenza e di carattere umanitario. La norma stabilisce che, in quest’ambito, la Regione può sia attuare iniziative proprie ai sensi della legge reg. Valle d’Aosta 18 gennaio 2001, n. 5 (Organizzazione delle attività regionali di protezione civile), sia aderire ad iniziative promosse a livello statale o internazionale.

Circa la prima categoria di iniziative, la disposizione impugnata, median-te il richiamo alla legge reg. n. 5 del 2001, abilita la Regione Valle d’Aosta a promuovere ed attuare nel territorio di Stati esteri le attività di protezione civile previste dalla predetta legge regionale.

Anche tale disposizione invade la sfera di competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione.

Questa Corte, con riferimento ad analoghe iniziative previste dall’art. 6 della legge reg. Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria), ha affermato che «rientrano […] nella politica estera dello Stato, come iniziative di cooperazione, sia la fornitura di materiali di prima necessità e attrezzature alle popolazioni colpite, implicando delle scelte nella indi-viduazione delle popolazioni da aiutare (si pensi al conflitto armato tra due Stati); sia la collaborazione tecnica, anche mediante l’invio di personale regionale, ed eventuale coordinamento delle risorse umane messe a disposizione da associazio-ni, istituti, Enti pubblici o privati, che presuppone la scelta delle aree geografiche

1218

e delle popolazioni cui offrire la collaborazione tecnica; sia il sostegno a Enti che operano per finalità di cooperazione umanitaria e di emergenza; sia, infine, la rac-colta e la costituzione di fondi, con la promozione di pubbliche sottoscrizioni di denaro da far affluire su apposito capitolo di bilancio per interventi a favore delle popolazioni colpite da emergenze» (sentenza n. 131 del 2008).

Identica natura hanno le attività di protezione civile disciplinate dall’art. 6 della legge impugnata, le quali, secondo quanto stabilito dal comma 1 del-lo stesso art. 6, sono finalizzate «a fronteggiare situazioni eccezionali causate da calamità naturali, conflitti armati e processi di pacificazione, situazioni di denutrizione o gravi carenze igienico-sanitarie» e, pertanto, attribuiscono alla Regione una larga autonomia nell’individuazione dei Paesi beneficiari e nella definizione delle iniziative da attuare.

Passando agli interventi stabiliti dalla Regione Valle d’Aosta in adesione ad attività di protezione civile o di soccorso ed assistenza promosse a livello statale, il comma 3 dell’art. 6 della legge reg. Valle d’Aosta n. 6 del 2007 dispone che re-stano di competenza regionale le scelte in ordine alle modalità di attuazione (ad esempio, la scelta dei soggetti destinati ad eseguire concretamente l’intervento, oppure quella del contributo concreto da offrire).

Questo, sia pur limitato, ambito di autonomia attribuito alla Regione invade la sfera che l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., riserva allo Stato, poi-ché attengono alla politica estera non solamente la decisione circa l’attuazione o meno di un intervento a favore di un Paese ed il tipo di iniziativa da adottare, ma anche l’individuazione delle concrete modalità di attuazione di una determinata iniziativa in favore di uno Stato estero.

L’art. 6 della legge regionale Valle d’Aosta n. 6 del 2007 prevede, infine, che la Regione possa aderire ad iniziative promosse «a livello internazionale». Anche tale previsione è costituzionalmente illegittima.

Infatti, la circostanza per la quale l’iniziativa di cui di volta in volta si tratti sia stata promossa da singoli Stati esteri ovvero da organizzazioni internazionali non esclude affatto il rischio che essa sia in contrasto con la politica estera dello Stato italiano, il quale ben può avere obiettivi diversi da quelli perseguiti da quegli altri Stati o da quelle organizzazioni internazionali.

In conclusione, l’art. 6 è integralmente illegittimo, poiché tutte le inizia-tive da esso disciplinate (sia quelle proprie della Regione, sia quelle attuate in adesione di interventi statali o internazionali) invadono la competenza statale in materia di politica estera.

3.5. – Dall’illegittimità degli artt. 4 e 6, discende automaticamente quella dell’art. 2, comma 2, della legge censurata, limitatamente alle lettere a) e c), le quali prevedono, in generale, rispettivamente, le iniziative di cooperazione inter-nazionale con i Paesi in via di sviluppo e con i Paesi in via di transizione (disci-plinate specificatamente dall’art. 4) e quelle in caso di emergenze straordinarie e di carattere umanitario (disciplinate specificatamente dall’art. 6).

3.6. – L’illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, lettere a) e c), 4 e

1219

6 della legge regionale Valle d’Aosta n. 6 del 2007 non è esclusa per il fatto che l’art. 1, comma 2, della stessa legge regionale stabilisca che le iniziative sono promosse ed attuate dalla Regione «nell’ambito delle proprie competenze e nel rispetto degli indirizzi di politica estera dello Stato». Infatti – come già afferma-to dalle sentenze n. 131 del 2008 e n. 211 del 2006 con riferimento a disposizio-ni di analogo tenore contenute in altre leggi regionali – una simile clausola non è idonea a salvaguardare le prerogative dello Stato in materia di politica estera.

La sentenza n. 211 del 2006 ha chiarito, poi, che l’art. 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), lungi dal porsi in contrasto con la riserva esclusiva di competenza statale in materia di politica estera, detta, proprio sul presupposto della inderogabilità della ripartizione delle competenze legislative di cui al titolo V della parte seconda della Costituzione, specifiche e particolari cautele per lo svolgimento concreto della sola condotta internazionale delle Regioni.

Inoltre non costituisce un argomento a favore della legittimità della legge impugnata il fatto che la Regione Valle d’Aosta abbia già a suo tempo emanato una legge in materia e, precisamente, la legge della Regione Valle d’Aosta 9 luglio 1990, n. 44 (Interventi regionali di cooperazione e solidarietà con i Paesi in via di sviluppo).

In realtà la disciplina dettata da quella legge (poi abrogata dall’art. 10 della legge regionale Valle d’Aosta n. 6 del 2007), si collocava nell’ambito di quanto previsto dalla legge statale n. 49 del 1987. Essa, infatti, riguardava l’attività propositiva della Regione di cui all’art. 2 della menzionata legge statale (oltre alla attività di formazione, informazione ed educazione da svolgere sul territorio regionale).

Infine, irrilevante è il fatto che già l’art. 5, comma 1, lettera a), della legge della Regione Valle d’Aosta 16 marzo 2006, n. 8 (Disposizioni in materia di attività e relazioni europee e internazionali della Regione autonoma Valle d’Ao-sta), non impugnato dallo Stato, dispone che la Giunta regionale provvede, tra l’altro, alla realizzazione di iniziative nel settore «cooperazione allo sviluppo, solidarietà internazionale e aiuto umanitario».

Invero, secondo tale norma, le iniziative in questione sono realizzate «nell’ambito delle attività di rilievo internazionale ed europeo di cui all’articolo 2» e quest’ultimo, a sua volta, stabilisce che la Regione opera «nell’esercizio delle attività di rilievo internazionale nelle materie di sua competenza». Le di-sposizioni della legge regionale Valle d’Aosta n. 8 del 2006, dunque, riguardano in generale attività di rilievo internazionale della Regione nelle materie di com-petenza della Regione medesima e non anche in quelle, come appunto la politica estera, che tali non sono.

3.7. – Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 7 della legge regionale Valle d’Aosta n. 6 del 2007 non sono fondate perché si riferiscono a disposizioni non lesive della competenza statale in materia di politica estera.

1220

Infatti, venuta meno, a seguito della dichiarazione dell’illegittimità costi-tuzionale degli artt. 2, comma 2, lettere a) e c), 4 e 6, la possibilità per la Re-gione di promuovere ed attuare autonomamente interventi di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale, l’art. 3 – che definisce i «soggetti della cooperazione allo sviluppo e della solidarietà internazionale» – si può applicare solamente al fine di individuare i soggetti che attuano le iniziative di educazio-ne, formazione e studio di cui all’art. 5 (norma non impugnata e concernente attività da svolgere nell’ambito del territorio regionale e dirette alla comunità regionale).

Analoghe considerazioni valgono per l’art. 7 disciplinante la programma-zione: se l’attività consentita dalla legge è solamente quella di educazione, for-mazione e studio, la predetta programmazione può avere ad oggetto solo tale attività.

P.Q.M.LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, lettere a) e c), 4 e 6 della legge della Regione Valle d’Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale);

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 7 della legge della Regione Valle d’Aosta n. 6 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, e 2 e 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.