Non più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte: l’Apicio di Mino de’ Rossi miniato da...

28
pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali LE ARTI E IL CIBO Modalità ed esempi di un rapporto Atti del Convegno Bologna, 15-16 ottobre 2012 a cura di Sylvie Davidson e Fabrizio Lollini con la collaborazione di Michele Grasso Bononia University Press

Transcript of Non più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte: l’Apicio di Mino de’ Rossi miniato da...

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali

Le arti e iL ciboModalità ed esempi di un rapporto

Atti del ConvegnoBologna, 15-16 ottobre 2012

a cura diSylvie Davidson e Fabrizio Lollini

con la collaborazione diMichele Grasso

Bononia University Press

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali

Volume pubblicato con il contributo di:

Bononia University PressVia Farini 37, 40124 Bolognatel. (+39) 051 232 882fax (+39) 051 221 019

© 2014 Bononia University Press

ISBN 978-88-7395-946-5

[email protected]

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per l’utilizzo delle immagini contenute nel volume nei confronti degli aventi diritto.

Immagine di copertina: Decretum Gratiani, Cesena, Biblioteca Malatestiana, ms. S.II.1, c. 311vIstituzione Biblioteca Malatestiana, Laboratorio fotografico, foto Ivano Giovannini

Progetto grafico e impaginazione: Silvia Pastorino

Stampa: Global Print (Gorgonzola, Milano)

Prima edizione: ottobre 2014

AlmA mAter studiorumuniversità di BolognA

Dipartimento delle ArtiDipartimento di Filologia Classica e Italianistica

Fondo PRIN 2009 “Cucina e identità nazionale: le basi storiche del patrimonio gastronomico italiano”, coordinatore nazionale Massimo Montanari (Dipartimento di Storia Culture Civiltà)

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali

Sommario

Presentazione 9Sylvie Davidson, Fabrizio Lollini

introduzioni

Fabrizio LolliniArte e cibo: un’infinita possibilità di rapporti 15

Antonella CampaniniCuochi e cucina tra tecnica e arte 23

Raffaela DonatiCibo in tutti i sensi 35 Massimo MontanariLe arti e la storia 39 Saggi

Danielle Anex-CabanisLa place et le rôle social de la nourriture dans la littérature pour enfants du XIXème siècle entre disette et surabondance 43 Fabrizio LolliniIl filtro dell’arte 53

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali

Cristina BragagliaCinema, cibo, arte 69

Gino RuozziGeografia e storie della cucina letteraria italiana 89 Laura FenelliIl pasto dell’eremita. Spigolature di agiografia e iconografia 105 Paola Daniela GiovanelliFame, banchetti e arte del mangiare: la messa in cena sulle tavole del palcoscenico italiano sette-novecentesco 119 Lucia CorrainRappresentare il cibo per dire altro. Il ciclo Fugger di Vincenzo Campi 135 Sylvie DavidsonImages alimentaires dans la poésie française 1550-1615 163 Nicola BadolatoCommedie e intermedi musicali ferraresi nei “Banchetti” del Messisbugo (1549) 175 Giacomo ManzoliLa grande abbuffata. Fortuna e fotogenia del cibo sugli schermi contemporanei 189 Angela GhirardiCarni in mostra. Il tema della “macelleria” nella pittura europea tra Cinque e Seicento 201 Gioia FilocamoEros e cibo in musica: i canti carnascialeschi di Lorenzo il Magnifico 215 Marinella PigozziAnnibale Carracci, Giulio Cesare Croce e Agostino Carracci 231 Marco BeghelliMangiare all’opera 245 Michele Danieli“Surge, Petre, occide et manduca”. La fine dei divieti alimentari in un affresconei Palazzi Vaticani 263

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali

Paolo Cova, Andrea SeveriNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte: l’Apicio di Mino de’ Rossi miniato da Giovanni Battista Cavalletto e il gusto degli umanisti bolognesi 271 Dario LiguoroVivaria piscatoria 291 Stefania RoncroffiIl cibo eucaristico nel canto sacro medievale 307 Simonetta Nicolini“I ravioli di Rosetta”. Breve itinerario gastronomico di parole e immagini con gli artisti del Novecento 313 Francesca MambelliIl cibo dipinto: la catalogazione del nucleo Natura morta nella fototeca Zeri 329 Fabiola NaldiMeat Joy. Rapporti tra videoarte e cibo 341 tavole 351

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsuali

Paolo Cova - Andrea Severi

Non più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte: l’Apicio di Mino de’ Rossi miniato da

Giovanni Battista Cavalletto e il gusto degli umanisti bolognesi*

1. Umanisti bolognesi tra mente e palato

Tra i vizi che Francesco Petrarca volle allontanare dal suo ritratto ideale vi fu quello della gola. Nella sua lettera ai posteri (Posteritati) scrive infatti: “Non <michi>, ut ista cura esset, lautarum facultas epularum: ego autem tenui victu et cibis vulgaribus vitam egi letius, quam cum exquisitissimis dapibus omnes Apicii successores”1. Per il padre dell’Umanesimo Apicio non era ancora l’autore del De re coquinaria – testo che non les-se mai – ma il ghiottone per antonomasia di cui riferivano, tra gli altri, Plinio (Nat. hist. IX 66; X 133; XIV 46) e Seneca (Epist. 95, 42), e da questi stigmatizzato per aver dilapi-dato un patrimonio in cene: una sorta di Ciacco dantesco umanisticamente aggiornato.

Per lungo tempo ancora dopo Petrarca, se si escludono alcune novelle o il filone bur-chiellesco e carnevalesco della nostra letteratura in volgare2, il cibo pare entrare nel ver-sante erudito della letteratura rinascimentale prevalentemente come metafora. Si tratta del topos del libro come nutrimento dello spirito: dalla “vivanda” somministrata nel Convivio da Dante a quel “cibo che solum è mio” con cui Machiavelli, nella celeberrima lettera a Francesco Vettori, si riferisce alla lettura nutriente degli amati storici antichi,

* Pur essendo il frutto di un lavoro ampiamente condiviso e a lungo discusso da entrambi gli autori, la prima parte di questo contributo si deve ad Andrea Severi, la seconda a Paolo Cova.

1 F. Petrarca, Posteritati, in idem, Prose, a cura di G. Martellotti, Ricciardi, Milano-Napoli, 1955, p. 2 (“Io mangiando poco e semplicemente passai la vita più contento che con le loro raffinatissime tavole tutti i succes-sori di Apicio”).

2 Si veda per questo tema A. Campanini, Dalla tavola alla cucina. Scrittori e cibo nel Medioevo italiano, Carocci, Roma, 2012, in particolare i capitoli “Scrittori di novelle” e “Scrittori di poesie” alle pp. 57-80. Per il tema del cibo nel Rinascimento si veda anche C. Benporat, Cucina italiana del Quattrocento, Olschki, Firenze, 1996; C. Paolini, A tavola nel Rinascimento, Polistampa, Firenze, 2007. E, più in generale, per il cibo come elemento identitario e imprescindibile della tradizione letteraria italiana, si veda oggi G.M. Anselmi e G. Ruozzi (a cura di), Banchetti letterari. Cibi, pietanze e ricette nella letteratura italiana da Dante a Camilleri, Carocci, Roma, 2011.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

272

passando per il “ruminare” petrarchesco, che, già presente nella tradizione patristica a indicare la lenta digestione della parola divina, passa col padre dell’Umanesimo a signi-ficare l’interiorizzazione della parola degli antichi. Si tratta – è evidente – di metafore che arrivano al cervello senza passare per la gola. Anche Leon Battista Alberti riprende il campo metaforico del cibo nel coniare il termine Intercenales, neologismo che dà il titolo ai suoi dialoghi e apologhi lucianei, così definiti perché scritti per essere gustati “inter coenas et pocula” (“tra le cene e i bicchieri”). Ma l’umorismo albertiano (come ogni tipo di autentico umorismo) è tutt’altro che grasso e corposo: le maschere albertiane di questi dialoghi, lungi dall’essere interpretabili secondo il paradigma del rovesciamento carne-valesco caro a Bachtin, rispondono ad un sobrio, anche se spesso caustico, serio ludere.

Invano cercheremmo nella tradizione umanistica di altre città quel rilievo che il cibo ebbe nell’umanesimo petroniano, il quale si caratterizza, come ha scritto Bruno Basile, per “un senso corposo della realtà, che non riesce mai a sciogliersi”3. Che la tradizio-ne gastronomica sia un elemento centrale nella cultura bolognese è consolidato luogo comune; ma se non sorprende trovarne conferma nel versante volgare della letteratura petroniana (da Sabadino degli Arienti a Giulio Cesare Croce passando per Tommaso Garzoni), qualche curiosità in più può nascere nel constatarne la presenza anche nel versante erudito, cioè nella produzione latina dei due professori più celebri dello studio felsineo, Filippo Beroaldo il Vecchio e Antonio Urceo Codro. Ai “due occhi” di Bologna sul finire del Quattrocento sarà poi subito da aggiungere il collega e amico Battista Spa-gnoli Mantovano, carmelitano maestro di teologia per diversi anni sotto le Due Torri4. Proprio quest’ultimo ci consegna in un distico straordinario il profilo bizzarro di Codro: “Ilias in genibus, spumat manus una lebetem, / una veru versat, tres obit iste viros”5. Per capire per quale motivo Codro sia ricordato attraverso questo bozzetto di un professore-cuoco, basta immergersi nella lettura dei Sermones di Codro, vale a dire nelle pirotecni-che e saporitissime prolusioni ai suoi corsi universitari, ai quali accorreva con tutta pro-babilità un pubblico ben più vasto di quello universitario, in attesa di una vera e propria performance “teatrale”. All’inizio del suo sermo I, ad esempio, Codro promette agli ascol-tatori “silatum quoddam dulce ac salutiferum, quod fortasse nimias animi perturbatio-nes sedabit et ad mediocritatem quandam hilaritatis perducet”6; e, ancora all’inizio del

3 B. Basile, Introduzione a Sabadino degli Arienti, Porretane, Salerno, Roma, 1981, p. XXV.4 Ancora d’obbligo, per delineare questo milieu, il richiamo a E. Raimondi, Codro e l’umanesimo a Bolo-

gna, Il Mulino, Bologna, 1987² [1950¹]; ma si veda oggi anche L. Chines, La parola degli antichi. Umanesimo emiliano tra scuola e poesia, Carocci, Roma, 1998, pp. 69-112; G.M. Anselmi, Letteratura e civiltà tra Medioevo e Umanesimo, Carocci, Roma, 2011, pp. 173-212.

5 B. Spagnoli Mantovano, In Codrum, in idem, Silvarum ad Antonium et Iafredum Iafredi Caroli filios libri duo, Petrus Martyr Mantegatius, Milano, 1507, c. Hrv (“L’Iliade sulle ginocchia, una mano schiuma la pentola, l’altra gira lo spiedo, quest’uomo lavora per tre”).

6 A. Urceo Codro, Sermones. Filologia e maschera nel Quattrocento, a cura di L. Chines e A. Severi, intro-duzione di E. Raimondi, Carocci, Roma, 2013, pp. 60-61 (“una merenda, o piuttosto un po’ di dolce e salutare vino silato, che placherà forse le ansie eccessive e procurerà una certa allegria”).

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

273

Sermo II, così personalizza la captatio benevolentiae di maniera: “Quamobrem, quoniam ante prandii horam lecturi sumus, si quis vestrum cupiat artolaganos delicatos, pultes opiparas et alios affluentes cibos petat collegas meos, quorum mensa ἥλιου τράπεζα id est ‘mensa solis’ appellari potest, adeo omnium rerum referta est et inexhausta semper et exuberans. Qui vero exoptat minutal aliquid frugi et pythagoricum quale ab Oratio [sic] expetitur […] petat Codrum, qui puero suo accurate praecipiet (‘unge unge, puer, caules!’), ut vos suaviter et salubriter pro copia sua possit accipere”7.

Ma il cibo nella prosa rigogliosa di Codro non è solo metafora: il cibo irrompe con tutta la sua concretezza, viene ostentato con compiacimento, strizzando l’occhio alle an-tiche credenze popolari, favorite nel caso seguente dalla paronomasia lepus (lepre) e lepos (bellezza). Afferma Codro nel suo sermo II dedicato alla retorica (ma in realtà incentrato sulla bellezza): “Cibi quoque nonnnulli formam conservant, ut de leporina carne vulgo persuasum est – quam qui comederint septem diebus pulchri esse dicuntur – quod Martialis epigramma in Gelliam confirmat et ab Lampridio in Alexandri vita relatum est”8. Nel sermo I, per descrivere un banchetto nuziale, Codro aveva fatto ricorso ad una enumerazione di bevande e vivande pre-rabelesiana e perfettamente in linea col gusto accumulatorio che contraddistingue gran parte della sua più celebre prolusione:

Quantum avium, piscium, ferinae carnis et urbanae, quantum laridi, succidiae, ovo-rum, casei, lactis, oxygalae, butyri, piperis, zinziberis, cymini, croci, mellis, olei viridis, aquae rhodinae, mellis arundinei impendatur! Quantum bellariorum vel tragematum, salgmatum, pomorum, cerae, lignorum edatur, teratur, comburatur. Apponantur pa-nes aurati, omnes pisces, omnes aves, omnes fructus ex melle arundineo confecti; fiat minutal apitianum et aliorum generum, fiant pultes Iulianae et aliorum generum; fiat gustum de oleribus, de cucurbitis et de aliis rebus; fiant artocreae, artolagani, testuatia, circuli, globuli, crustula. Concidantur lucanicae, farcimina, tuceta, pernae, sumina, omenta, isicia omentata, porcus troianus inferatur, inferatur tetrapharmacum, tripati-num, apponatur moretum, oxyporum, oxygarum, oxyzomum, hypotrimma et omnia alia quae solers gula excogitavit, quibus nec possum nec scio dare nomina9.

7 Ibidem, pp. 278-9 (“Perciò, poiché leggeremo prima dell’ora di pranzo, se qualcuno di voi desidera fo-cacce fragranti e ricca farinata e altra dovizia di cibi, chieda ai miei colleghi la cui mensa si può chiamare ἥλιου τράπεζα cioè ‘mensa del sole’, tanto è piena sempre di ogni cosa, imbandita e ricca. Ma chi opta per una fricas-sea, qualcosa di frugale e pitagorico come è richiesto da Orazio […] cerchi pure Codro, che insegnerà con cura al suo allievo [‘ungi, ragazzo, ungi i cavoli!’], così che possa accogliervi con dolcezza e affetto nella sua schiera”).

8 Ibidem, pp. 302-3 (“Anche alcuni cibi conservano la bellezza, come il popolo pensa a proposito della car-ne di lepre – si dice infatti che coloro che la mangiano siano belli per sette giorni –, cosa che Marziale conferma nell’epigramma a Gellia e che Lampridio riporta nella vita di Alessandro [Severo]”).

9 Ibidem, pp. 82-3 (“Si mettano a tavola pani dorati, tutti i pesci, tutti gli uccelli, tutta la frutta riempita di miele di canna; si faccia una fricassea secondo la ricetta di Apicio o di altro genere; si facciano polente giuliane e d’altro genere; si facciano degustazioni di ortaggi, di zucche e di altre cose; si facciano pasticci di carne, fo-cacce, schiacciate, ciambelle, polpette, confetti. Si taglino luganiche, insaccati, salsicce, prosciutti, mammelle di scrofa, cotiche, salsicce incoticate, si serva maiale troiano, si serva in tavola il tetrafarmaco, il tripatino; si porti

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

274

Per Codro Apicio, che qui e molte altre volte viene espressamente citato, non era più solo un nome proverbiale, come era stato per Petrarca. Apicio era infatti per Codro l’au-tore del De re coquinaria, che a Bologna era noto almeno (se non prima) dal 1491, da quando cioè il senatore e grande patrono delle lettere Mino de’ Rossi ne aveva fatta ap-prestare una splendida copia (oggi Bodleiano Canon. Class. Lat. 168) da Pier Antonio Sallando, miniata dal Cavalletto, che sicuramente avrà fatto leggere all’amico intimo Filippo Beroaldo. Torneremo tra poco su questo importantissimo codice. Per adesso ba-sti ricordare che proprio nell’aprile dell’anno precedente Angelo Poliziano aveva finito di emendare, nella villa fiesolana di Lorenzo de’ Medici, la sua copia di Apicio (oggi a Leningrado) col codice E e V, avuti rispettivamente in prestito da Francesco Maturanzio e dal duca di Urbino, del De re coquinaria10. È dunque più che probabile che l’antigrafo di Pier Antonio Sallando sia stato proprio il codice E arrivato da Firenze. Il 1490-91 è infatti un biennio prodigo di scambi codicologici e, più latamente, culturali, tra gli umanisti bolognesi e quelli fiorentini11. Se non è certo una novità il dialogo che si in-staura al di qua e al di là dell’Appennino, converrà sottolineare come l’assimilazione o meno di Apicio nella prosa degli umanisti bolognesi e fiorentini testimonî del differente orizzonte d’attesa che contraddistingue i due ambienti culturali: gli umanisti fiorentini, come già ebbe occasione di notare Garin, pare che pronuncino le loro orazioni con ac-cento e piglio degni degli eroi di Grecia e Roma (Poliziano con gravità, Pico con severa austerità); il Beroaldo, invece, pare che scherzi con bonomia tutta petroniana, quasi a pranzo o dopo pranzo12. La prosa del “Commentatore bolognese” fa molto spesso appello al gusto, ricorrendo a metafore alimentari: la sua “fabulatio litterata” (discorso colto) è un “condimentum suavissimum” per il dedicatario del suo commento all’A-sino d’oro, l’arcivescovo di Colonia Peter Varadi; le parole che interpreta nei Symbola Pithagorae moraliter explicata sono “foris corticosa, intus succosa”, e il suo proposito è quello, ci dice, di apprestare uno “ientaculum” (“spuntino”) utilizzando vari alimenti13. “Elaborabo pro virili parte ut ad haec fercula neque vos accessisse neque nos invitasse

il moreto, la salsa piccante, la salsa di aceto e garo e tutte le altre cose che ha inventato la gola solerte, alle quali né so né posso dare un nome”).

10 Cfr. Mostra del Poliziano nella Biblioteca Medicea Laurenziana. Manoscritti, libri rari, autografi e docu-menti, Firenze, 23 settembre-30 novembre 1954 [catalogo a cura di A. Perosa], Sansoni, Firenze, 1955, p. 83 (num. 83). In data 15 aprile 1490 nella casa di Lorenzo Poliziano con l’aiuto di familiares finiva di collazionare il suo codice d’Apicio col codice E portato da Enoch d’Ascoli da Fulda nel 1455.

11 Il 1491 (precisamente giugno) è l’anno della famosa visita di Pico e Poliziano a Bologna, in viaggio verso il Veneto alla ricerca di codici per la biblioteca del Magnifico. L’anno precedente – solo per citare un esempio importante di scambi librari – era arrivata a Bologna una copia di un testo rimesso in circolazione da Ficino e il suo milieu: la Vita di Apollonio Tianeo di Filostrato, letto avidamente a quattr’occhi in quella primavera dal Beroaldo e dal Mantovano.

12 E. Garin, Filippo Beroaldo il Vecchio, in idem, Ritratti di umanisti, Sansoni, Firenze, 1967, p. 112.13 F. Beroaldo, Symbola Pythagorae moraliter explicata, Benedetto d’Ettore, Bologna, 1503, c. A3r.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

275

peniteat”14. O, ancora, egli spiega come il senso di un testo vada enucleato come la noce dal guscio15. Scrivendo all’allievo boemo “Iohannis Vartimbergensis”, cui dedica la sua edizione “recognita” (oggi diremmo: “criticamente rivista”) delle lettere di Plinio il Gio-vane, Beroaldo afferma di essere sicuro che tale pietanza non sarà sgradita allo stomaco e al palato del suo interlocutore16. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

Ma anche nella prosa del Beroaldo, come in quella di Codro, il cibo, oltre che come campo metaforico, trova momenti in cui imporsi sulla pagina da assoluto protagonista. Nel suo monumentale commento all’Asino d’oro di Apuleio, quando il testo gliene for-nisce lo spunto, Beroaldo non perde occasione di soffermarsi sugli aspetti gastronomici, facendo spesso riferimento ad Apicio, di cui egli possedeva un esemplare manoscritto nella sua biblioteca17: commentando il I libro dell’Asino d’oro (I 4), ad esempio, dedi-ca al sintagma “polenta caseata” (“polenta incaciata”) una dotta digressione, chiamando in causa uno dei primi autori latini che della polenta fa menzione, vale a dire Plauto (Asin. 33 e 37), e poi Plinio, che nella sua Naturalis historia (XVIII 72) spiega quanto diversamente i greci la preparassero rispetto ai romani; sul finire dell’VIII libro (cap. 31) dell’Asino d’oro il testo gli dà occasione, invece, di soffermarsi sulle carni macinate (“protrimenta”) e di richiamare le “isicia” affrontate da Apicio nel suo II libro: le antenate delle nostre polpette, che solo tra Cinque e Seicento acquisiranno quella forma rotonda a noi familiare18; nel X libro (cap. 13) Beroaldo, assolti i compiti istituzionali del gram-matico spiegando che “condita” (con la seconda sillaba lunga) è participio passato di condio, chiama in causa l’incipit del De re coquinaria (l’Epimeles19) dove Apicio tratta del “Conditum paradoxum”, vale a dire del vino speziato mescolato e cotto con miele e con aggiunta successiva di spezie.

condita. Media producta pronuntiandum. A ‘condio’ condita derivantur, unde et condimenta et conditiones et conditurae inclinantur. Apicius conditi paradoxi com-positionem celebrat, quo vocabulo significatur genus cibi sive potionis condimentis variis concinnatum; idem conditum melizomum vocat, iusculum ex mellis despu-matis mixtura confectum. Quod et ipse docet et nomen ostendit μελι graece mel

14 “Mi sforzerò affinché né io possa pentirmi di avervi invitato a questo pranzo né voi dobbiate pentirvi di esservi venuti”.

15 Opusculum Philippi Beroaldi de terraemotu et pestilentia cum annotamentis Galeni, per Iustinianum de Herbaria, Bononie, 1505, f. XXIv.

16 C. Plinii Secundi Iunioris epistole per Philippum Beroaldum correcte, per Benedictum Hectoris, Bononiae, 1498, c. a2r: “ad tuum vero stomachum et palatum”.

17 F. Pezzarossa, “Canon est litterarum”. I libri di Filippo Beroaldo, in Libri, lettori e biblioteche dell’Italia medievale (secoli IX-XV). Fonti, testi, utilizzazione del libro. Atti della Tavola rotonda italo-francese (Roma, 7-8 marzo 1997), a cura di G. Lombardi e D. Nebbiai Dalla Guarda, CNRS Editions, Paris-Roma, 2000, pp. 301-348, alle pp. 325, 334.

18 G. Baffetti, Polpette, in G.M. Anselmi e G. Ruozzi (a cura di), Banchetti letterari, cit., p. 297.19 “Diligens, accuratus. Ita inscribitur liber primus Apicii, in quo diligenter condimentorum genera per-

scribuntur”.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

276

et ζωμος ius. Annotandum dici ab Apicio conditum neutraliter nomine secundi ordinis substantivo20.

Ma se nei commenti ai classici, pur non mancando digressioni su fatti e costumi con-temporanei, quello che prevale è la civiltà antica, altrove Beroaldo ci consegna pagine indimenticabili sulla sua Bologna, la Bologna della Bentivolorum magnificentia. Al cen-tro delle Nuptiae Bentivolorum (la cronaca in latino delle sontuose nozze tra Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este del 1487, che per molti storici segnarono l’apice della stagione bentivolesca21) sta l’enumerazione delle carni e dei dolci portati ai commensali, dove a prevalere – placata presto la fame dei convitati – è la voglia dei padroni di casa di stupire, non solo con la quantità di cibo, ma con i colpi di scena e le trovate illusio-nistiche, tanto che ad un certo punto, per chi legge, lo straordinario banchetto sembra essere stato allestito più per gli occhi che per la bocca22:

Primis ferculis duobus aut summum tribus exempta est fames esurientium; reliqua magnificentiae causa sunt illata. In quibus hoc servatum est ut altilia in singulis fere missibus mensae principum viventia importarentur: vidimus porcellos grunientes, capreolos pro triclinium cursitantes, histrices aculeos subrigentes. […] Vidimus in-ferri pavones flammivomos plumis versicoloribus vestitos oculosque gemmatis caudae rotantes. Illati sunt et phasani cum pennis, cuniculi lepusculique cum pellibus, quae omnia oblectamento fuere pransoribus. Illata sunt et secundae mensae bellaria, ex saccaro poma nucesque omnis generis tanta arte confectae ut a veris fructibus non internoscerentur23.

20 F. Beroaldo, Commentari in Asinum aureum, Benedetto d’Ettore, Bologna, 1500, c. 230v (“condita va pronunciato con la seconda sillaba lunga. Condita deriva da ‘condio’, da cui provengono ‘condimenta’, ‘condi-tiones’ e ‘conditurae’. Apicio diffonde la ricetta del ‘conditum paradoxum’, con cui si indica il genere di cibo o bevanda preparato con svariati condimenti; lo chiama anche melizomum, un brodetto preparato con una solu-zione di miele schiumato. Come egli stesso dice, e come mostra il nome, μελι significa ‘miele’ in greco, ζωμος significa ‘brodo’. Va notato che Apicio dice che ‘conditum’ è un sostantivo neutro della seconda declinazione”).

21 Per cui si veda anche l’ampia cronaca fatta dal Ghirardacci, oggi ripercorsa per gli aspetti gastronomici da Campanini, Dalla tavola alla cucina, cit., pp. 131-133; si veda anche M. Montanari, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 483-488.

22 Paolo Fazion, Nuptiae Bentivolorum. La città in festa nel commento di Filippo Beroaldo, in “Bentivolorum Magnificentia”. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Bulzoni, Roma, 1984, pp. 115-133 (a p. 130).

23 F. Beroaldo, Nuptiae Bentivolorum, in idem, Orationes multifariae, Benedetto d’Ettore, Bologna, 1500, c. g6v (“Con le prime due o al massimo tre portate si toglie la fame dei [convitati] affamati; quelle successive sono servite per stupire. In queste si bada che gli animali d’allevamento, quasi ad ogni portata, siano serviti vivi alle tavole dei signori: vedemmo maiali che grugnivano, caprioli che correvano per le sale, istrici che drizzavano gli aculei; […] Vedemmo portare pavoni vomitanti fiamme ricoperti da piume multicolori …furono portati anche fagiani con le penne, conigli e lepri con la pelle; tutte queste cose furono di grande divertimento per i convitati. Come secondo fu portata la frutta, pomi e noci di zucchero di ogni forma, confezionati con tanta perizia che non li avresti riconosciuti dalla frutta vera”).

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

277

Si tratta di quella “naturale alternanza tra cibi e rappresentazione” di cui ha parlato An-tonella Campanini a proposito dei banchetti nuziali dei signori dal Trecento in avanti24.

Per descrivere questa festa degli occhi e dello stomaco, Beroaldo deve fare ricorso, “rerum causa”, a tutta la ricchezza della lingua latina (anche a quelle propaggini argentee e tardo-antiche tanto disprezzate dai ciceroniani, e con prestiti lessicali pure dal volga-re); il maestro bolognese, nel dedicare questa cronaca nuziale al segretario del ducato milanese Bartolomeo Calco, aveva già avvertito i non attrezzati o gli schizzinosi di non lamentarsi: chi è sdentato – la metafora non appaia scelta a caso – non deve invidiare chi ha denti (“Nolite edentuli invidere dentatis”)25, vale a dire che chi si è formato solo sul lessico di Cicerone deve dolersi per la ristrettezza del suo vocabolario, che non gli consentirà di leggere le Nuptiae beroaldiane.

Ma su questo versante dell’abbondanza, il cibo può anche diventare, come ha sot-tolineato Massimo Montanari, un obbligo sociale mal sopportato26. È piuttosto sor-prendente trovare un esempio di questa iper-convivialità coatta in una digressione che Beroaldo fa nel commento alle Tusculanae disputationes ciceroniane: egli ricorda come un incubo quando “adhuc puer” (23-24 anni), mentre insegnava retorica e poesia presso lo studio parigino, al termine delle lezioni era sempre invitato dai colleghi a bere e man-giare, ma, tra quella gente “trasmontana”, nata per tracannare vino (“ad vina perdenda geniti”), non ci si poteva fermare raggiunta la sazietà, ma bisognava andare “ultra ventris capacitatem”, pena l’indignazione, la riprovazione e l’emarginazione sociale. Del resto, già Salimbene de Adam nella sua Cronica aveva messo in guardia da questo malcostume dei francesi, abituati a forzare a bere anche chi non voleva27. Questi dotti “transalpini” si aspettavano evidentemente che la grandezza intellettuale del giovane Beroaldo trovasse un corrispettivo in quella superiorità animalesca sui propri simili nella quale la tradizio-ne culturale celtica e germanica identificava il mito positivo del “grande mangiatore”; dovettero dunque rimanere molto delusi nel vedere che il professore bolognese cercava di declinare in ogni modo i loro inviti adducendo come scusa la propria connaturata debolezza di stomaco e dandosi, in casi estremi, persino malato.

Viget in presentia hic mos apud Transmontanos fere omnes ut provocent in cenam ludumque bibendi, bibentes ultra ventris capacitatem, ad vina perdenda geniti; qui si sorte recusaveris conbibere, excandescunt, indignantur, oderunt ut abitum magis quam aditum malis, ut melius fuit non venisse quam bibisse. Ego cum Parrhisiis in celeberrima Galliarum civitate, puer adhuc, studia humanitatis publico auditorio

24 A. Campanini, Dalla tavola alla cucina, cit., p. 17.25 Philippus Beroaldus, Orationes et poemata, Benedetto e Platone de Benedictis, Bologna, 1491, [c. d7v].26 M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Bari, 2006, pp.

30-36.27 Salimbene de Adam da Parma, Cronaca, trad. di B. Rossi, Radio Tau, Bologna, 1987, pp. 312-313, cit.

da Campanini, Dalla tavola alla cucina, cit., p. 15.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

278

ac frequentissimo profiterer, quotidie vocabar, quotidie invitabar a Gallis litterarum studiosis nimiumque amantibus mei ut conbiberem, ut comesarer; ego, qui stomachi mei mensuram noveram et iam Gallorum mores probe callebam, ut spiritus illorum alioqui feroces mitigarem meipsum accusabam, consitutionem corporis mei crimi-nabar tanquam morosam et imbecillam, dolere me simulabam quod non essem ea firmitudine et robore membrorum28.

Tornando ad un clima più bonariamente goliardico, ci piace terminare questa prima parte col carmelitano umanista Battista Mantovano (1447-1516), che a Bologna elabo-ra a più riprese le sue egloghe rusticane, le quali conosceranno, sotto il titolo di Adole-scentia, un successo europeo29. Per tacere della originalissima trovata della sesta ecloga (in cui la discussione tra Folaga e Cornacchia sul rapporto tra città e campagna si iscrive tutta nell’attesa che Nerea scodelli in tavola l’agognata polenta), citiamo almeno alcuni versi della nona egloga, sulla corruzione della curia romana, in cui Faustulo pronuncia, variando un canovaccio presente già in Diogene Laerzio e in Apuleio30, un elogio del vino sotto la specie di un trionfo, bicchiere dopo bicchiere (Adol. IX 27-31):

Fau. Funde iterum; potare semel gustare, secundus colluit os potus, calefacta refrigerat ora tertius, arma siti bellumque indicere quartus aggreditur, quintus pugnat, vistoria sexti est, septimus (Aenophili senis haec doctrina) triumphat31.

28 F. Beroaldo, Commentarii quaestionum Tusculanorum, Benedetto d’Ettore, Bologna, 1496, c. 128r (“Presso quasi tutti i popoli transalpini, che bevono oltre alla capacità del ventre, e sono nati per tracannar vino, vige oggi la consuetudine di invitare ai piaceri della tavola e del vino; e se per caso ti rifiuti di bere, vanno in escandescenze, si arrabbiano, detestano il fatto che tu preferisca un’uscita [dalla comitiva] ad un’entrata [ulte-riore di vino; impossibile rendere la paronomasia abitum - aditum], tanto che sarebbe stato meglio non venire che bere [poco]. Io, quando insegnavo lettere ad un ampio e folto pubblico nella più celebre città delle Gallie, Parigi, ancora fanciullo, quotidianamente ero chiamato, quotidianamente ero invitato dai professori francesi di lettere e da coloro che mi erano affezionatissimi perché bevessi e mangiassi assieme a loro; ma io, che conoscevo la misura del mio stomaco ed ero già esperto dei costumi dei Galli, per mitigare i loro spiriti altrimenti feroci trovavo delle scuse, davo la colpa alla costituzione debole e gracile del mio corpo, fingevo di dispiacermi di non essere di sana e robusta costituzione”).

29 Mi piace ricordare i contributi in questo senso fondamentali dell’appena compianto Lee Piepho: Man-tuan Revised: His Adulescentia in Early Sixteenth-Century Germany, “Canadan Review of Comparative Literatu-re”, March-June 2006, pp. 60-74; Holofernes’ Mantuan. Italian Humanism in Early Modern England (Currents in Comparative Romance Languages and Literatures, 103), Peter Lang, New York, 2001; Erasmus on Baptista Mantuanus and Christian Latin Verse, “Erasmus of Rotterdam Society”, 14 (1994), pp. 46-54.

30 Diog. Laert. Vitae, I 103; Apul. Florida 20.31 B. Spagnoli Mantovano, Adolescentia, a cura di A. Severi, Bononia University Press, Bologna, 2010,

p. 315 (“Bere la prima volta significa gustare, il secondo bicchiere sciacqua la bocca, il terzo rinfresca il palato secco, il quarto muove la guerra alla sete, il quinto combatte, il sesto vince, il settimo - questa è la teoria del vecchio Enofilo - trionfa”).

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

279

Questo brano, assente nella prima redazione dell’ecloga, composta a Roma, è aggiunto invece nella riscrittura bolognese del 1497-1498. La cultura padana, e in particolare bolognese, ben più che quella romana, poteva apprezzare un eptalogo etilico di questo tipo, persino dentro un genere, quello bucolico, che per statuto non si confaceva a tali sales et ioci, tipici, al contrario, dei “carmina potatoria” medievali. Ma tanti anni trascorsi sotto le Due Torri avevano salato il sangue anche a questo campione dell’u-manesimo cristiano.

2. Giovanni battista cavalletto e la decorazione del codice oxoniense di apicio

Il succitato De re coquinaria di Apicio appartenuto al senatore Mino de’ Rossi è con-servato oggi presso la Bodleian Library con segnatura Canon. Class. Lat. 168 (tav. XVII) e si contraddistingue per essere una delle più interessanti testimonianze artisti-che relative alla decorazione libraria bolognese dell’ultimo decennio del XV secolo32. Nel 1970 il codice venne infatti ricondotto, insieme al De utilitate di Plutarco della stessa biblioteca di Oxford (ms. Canon. Class. Lat. 170), all’ambito felsineo da Pächt e Alexander33 e negli ultimi due decenni non ha mancato di suscitare interesse presso la critica, a partire proprio dall’ipotesi attributiva dell’apparato decorativo a Giovanni Battista Cavalletto, avvenuta nel 1995, grazie ad una felice intuizione di Andrea Bac-chi e Andrea De Marchi34.

Le miniature che decorano i due codici oxoniensi sono considerate tra le principali testimonianze dell’arte di Cavalletto in una fase di prima maturazione: palesano infatti un lessico aggiornato “sulle novità che cominciavano a giungere in città attraverso i reiterati contatti con l’ambiente veneto e romano, di cui egli stesso si fece interprete”35.

32 Per un valido e aggiornato compendio bibliografico si veda M. Medica, La miniatura a Bologna al tempo di Giovanni II Bentivoglio, in M. Medica (a cura di), Il libro d’Ore di Bonaparte Ghislieri, Franco Cosimo Panini, Modena, 2007, pp. 12-104; D. Guernelli, La miniatura a Bologna sotto i Bentivoglio, tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’Arte, Università degli Studi di Bologna, relatore prof. F. Lollini, 2010; D. Guernelli, Considerazio-ni su Giovanni Battista Cavalletto e la miniatura bolognese tra Quattro e Cinquecento, in “Bollettino d’Arte”, n. 9, s. VII, gennaio-marzo 2011, pp. 39-58.

33 O. Pächt, J.J.G. Alexander, Illuminated Manuscripts in the Bodleian Library Oxford. II Italian School, Clarendon Press, Oxford, 1970, nn. 668-669, p. 68.

34 A. Bacchi, A. De Marchi, La pagina antiquaria veneto-padovana, in A. Bacchi e A. De Marchi (a cura di), Francesco Marmitta, Allemandi, Torino, 1995, pp. 55; M. Medica, La miniatura, cit., pp. 42-43; A. De Marchi, Francesco Marmitta tra Roma e Bologna, un florilegio di eleganze all’antica, in A. De Marchi (a cura di), Il libro d’Ore Durazzo. Volume di Commento, Franco Cosimo Panini, Modena, 2008, pp. 40-41; M. Medica, Due nuove opere datate di Giovanni Battista Cavalletto, in Storie di artisti, storie di libri. L’Editore che inseguiva la bellezza. Scritti in onore di Franco Cosimo Panini, II, Donzelli, Roma, 2008, pp. 410-411; M. Medica, Mantova, Ferrara e Roma. Il percorso di un artista “cortigiano”, in M. Medica (a cura di), Giovanni Battista Cavalletto. Un miniatore bolognese nell’età di Aspertini, catalogo della mostra, Silvana, Cinisello Balsamo, 2008, pp. 10-11; D. Guernelli, Considerazioni, cit., p. 44.

35 M. Medica, La miniatura a Bologna al tempo di Giovanni II Bentivoglio, cit., p. 42.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

280

1. Giovanni Battista Cavalletto, Madonna col Bambino e santi col donatore Matteo de Schonek. Bolo-gna, Archivio Storico dell’Università, sez. III, n. I, Annali della Nazione Germanica, c. 126r

Perciò, all’indagine del nostro frontespizio e delle sue specificità, siano esse stilistiche o iconografiche, sottende necessariamente una più compiuta riflessione sulla prima attività miniatoria di Giovanni Battista.

La testimonianza documentaria cronologicamente più alta in nostro possesso che attesta l’attività del miniatore è riferibile al biennio 1486 e 1487, quando venne pagato dalla Fabbriceria di San Petronio per aver confezionato un Graduale e un Sequenziario,

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

281

oggi dispersi36. Visto il coinvolgimento dell’artista in questa prestigiosa impresa, è vero-simile ipotizzare che all’epoca Cavalletto fosse già a capo di una propria bottega; ne con-segue, per lo meno, che in quel biennio non poteva avere meno di 25 anni, maggiore età richiesta a Bologna per stipulare contratti ed aprire un’attività in proprio37.

Allo stato attuale degli studi la prima opera ricondotta alla sua mano è databile pro-prio a quel torno di anni; infatti gli è stata correttamente avvicinata la decorazione degli Annali della Nazione Germanica (fig. 1), commissionati da Matheus de Sconech nel 1487 (Bologna, Archivio Storico dell’Università, sez. III, n. 1)38. Nel frontespizio con l’immagine del procuratore tedesco in ginocchio innanzi alla Vergine tra San Giovanni Battista e un Santo vescovo emerge l’influenza dei modelli pittorici ferraresi.

Senza dubbio, il riferimento più calzante si può trovare nella tarda attività di Ercole de’ Roberti, soprattutto nell’episodio dei perduti affreschi della cappella Garganelli in San Pietro: d’altronde lo stretto rapporto che lega il miniatore bolognese con la lezione del ferrarese sarà una costante durante tutto l’arco della sua attività, mantenendosi fi-nanche nelle ultime opere39.

Medica ha particolarmente sottolineato questo rapporto con la pittura ferrarese in-travedendo nella “tornita qualità formale del Battista” lo studio dei modelli cosseschi del Polittico Griffoni. Invero, l’aggiornamento di Cavalletto su esempi prestigiosi della pittura monumentale dovette caratterizzare tutta la sua produzione: il miniatore non mancò infatti, come la critica ha a più riprese evidenziato, di mutuare stilemi e com-posizioni da Costa, Leonardo, Raffaello o Perin del Vaga, solo per citare alcuni artisti40.

La solida tradizione bolognese certo dovette essere basilare nella prima fase della sua miniatura: Giovanni Battista proveniva da una famiglia legata alla produzione libraria ed era in stretti rapporti con Domenico Pagliarolo (il presunto Maestro del Libro dei

36 L. Frati, I corali della Basilica di San Petronio a Bologna, Zanichelli, Bologna 1896, pp. 97-98-100; F. Filippini, G. Zucchini, Miniatori e pittori a Bologna. Documenti del secolo XV, Accademia nazionale dei Lincei, Roma, 1968, p. 78.

37 Giovanni Battista potrebbe allora essere nato tra il sesto e il settimo decennio del XV secolo, una datazio-ne in linea con le preziose attestazioni documentarie recentemente emerse sul suo entourage famigliare. Infatti il padre Francesco, già morto nel 1488, sottoscrisse in qualità di copista lo Statuto di Santa Maria del Baraccano nel 1446, mentre il nonno Giacomo, di professione stracciaiolo, era iscritto alla Matricola dei Drappieri redatta a par-tire dal 1411. P. Cova, Giovanni Battista Cavalletto. Un miniatore bolognese nell’età di Aspertini. Azzardi, precisa-zioni e nuove scoperte, in “Arte a Bologna. Bollettino dei Musei Civici di Bologna”, 7-8, 2010-2011, pp. 234-247.

38 La proposta avanzata da Massimo Medica nel 1999 su base stilistica è stata poi pienamente accettata dalla critica. M. Medica, Miniatura e committenza: il caso delle corporazioni, in M. Medica (a cura di), Haec sunt Statuta. Le corporazioni medievali nelle miniature bolognesi, catalogo della mostra, Modena 1999, pp. 82, 202–205, n. 45.

39 M. Medica (a cura di), Giovanni Battista Cavalletto. Un miniatore bolognese nell’età di Aspertini, cit., scheda n. 1, p. 48 (M.G. D’Apuzzo).

40 Cfr. R. Bentivoglio-Ravasio, Cavalletto e la Roma dei papi, in Medica (a cura di), Giovanni Battista Ca-valletto. Un miniatore bolognese nell’età di Aspertini, cit., pp. 29-45.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

282

Notai), per altro anch’egli attivo negli Annali della Nazione Germanica del 147641. Nel 1488, come riportano i documenti, il Cavalletto ne tenne a bottega il figlio Girolamo, che poi divenne un noto copista42.

Il contesto bolognese e i suoi protagonisti, al principio dell’ultimo decennio del Quattrocento, dovettero aprirsi a nuove sollecitazioni stilistiche peculiari alla miniatura veneto-padovana, i cui alti e classicissimi esiti furono probabilmente mediati dal par-mense Francesco Marmitta43. Se l’attività di questo miniatore rimane un punto nodale per i successivi sviluppi dell’arte di Cavalletto, “il ruolo del Marmitta non deve essere, tuttavia, considerato l’unico elemento utile per motivare l’influsso, seppur certo non dilagante, di elementi veneti nella miniatura bolognese”44.

Infatti, sia la presenza di Bartolomeo Sanvito45 in città durante gli anni della lega-zione di Francesco Gonzaga, sia l’esistenza di alcuni codici di committenza felsinea ma di gusto decorativo schiettamente veneto (il più noto è certamente la Philomathia di Angelo Michele Salimbeni e Sebastiano Aldrovandi della Biblioteca Universitaria di Bologna [ms. 1614]46), fanno presumere una sostanziale continuità di rapporti con l’universo artistico veneto. Tali rapporti dovettero probabilmente avere nell’attività del centese Marco Zoppo un importante precedente, visti i suoi ripetuti e prolungati sog-giorni padovani, bolognesi e veneziani.

In questo senso i frontespizi del De re coquinaria di Apicio e del De utilitate di Plutarco (figg. 2-3) rappresentano un esempio straordinario di quel gusto aulico che si stava diffon-dendo presso l’élite culturale tra Veneto ed Emilia. I due codici scritti da Pier Antonio Sal-lando vennero commissionati dal senatore bolognese Mino de’ Rossi per la sua prestigiosa biblioteca. Come scrive Raffaella Bentivoglio Ravasio, il rapporto tra Sallando e miniatori come Francesco Marmitta, da un lato, e Giovanni Battista Cavalletto, dall’altro, diede esiti rilevanti e di particolare fortuna in ambiente bolognese47 (il copista reggiano dal 1489 si era stabilito in città, dove risiedette fino alla morte, avvenuta nella primavera del 1540)48.

41 M. Medica (a cura di), Haec sunt Statuta. Le corporazioni medievali nelle miniature bolognesi, cit., pp. 202-205, scheda n. 45; M. Medica, Maestro del libro dei Notai (Domenico Pagliarolo?), in M. Bollati (a cura di), Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, Sylvestre Bonnard, Milano, 2004, pp. 592-593.

42 F. Filippini, G. Zucchini, Miniatori e pittori a Bologna. Documenti del secolo XV, cit., p. 78.43 A. Bacchi, A. De Marchi (a cura di), Francesco Marmitta, cit.; R. Bentivoglio Ravasio, Francesco Marmit-

ta, in M. Bollati (a cura di), Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, cit., pp. 738-739. 44 D. Guernelli, Considerazioni su Giovanni Battista Cavalletto e la miniatura bolognese tra Quattro e Cin-

quecento, cit., p. 44.45 R. Bentivoglio Ravasio, Sanvito (Sanvido, da San Vito) Bartolomeo, in M. Bollati (a cura di), Dizionario

biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, cit., pp. 928-935.46 D. Guernelli, Considerazioni su Giovanni Battista Cavalletto e la miniatura bolognese tra Quattro e Cin-

quecento, cit., p. 44.47 R. Bentivoglio-Ravasi, L’Offiziolo Durazzo, in A. Bacchi e A. De Marchi (a cura di), Francesco Marmitta,

cit., pp. 221-222.48 L. Nuvoloni, Pier Antonio Sallando o “il più excellente scriptore credo habia il mondo”, in A. De Marchi (a

cura di), Il libro d’Ore Durazzo. Volume di Commento, cit., pp. 145-188.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

283

2-3. (in alto) Giovanni Battista Cavalletto, frontespizio architettonico e iniziali decorate. Ox-ford, Bodleian Library, ms. Canon. Class. Lat. 170, Plutarco, cc. 1r e 50r

4. (a lato) Giovanni Battista Cavalletto, iniziali decorate. Oxford, Bodleian Library, ms. Canon. Class. Lat. 168, Apicio, De re coquinaria, c. 52r

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

284

Il De re coquinaria venne redatto in minuscola umanistica e sottoscritto il 27 maggio 1491. Come consuetudine, dopo quella data dovette principiare la decorazione miniata per mano del Cavalletto, che è caratterizzata da un’interessante introduzione di moduli figurativi di tradizione veneto-padovana, esemplati in uno splendido frontespizio archi-tettonico e nelle preziose iniziali decorate con gioielli (fig. 4).

L’incorniciatura architettonica alla veneta, alonata all’intorno, è memore soprat-tutto dell’esempio del Maestro del Plinio di Londra. Il gusto antiquario è evidente nel frontespizio dell’Apicio, nel coronamento in cui è inserita una lapide sbreccata o nella curiosa trovata per cui gli arnesi della cucina sono appesi alle colonne a mo’ di trofei e panoplie49.

Non possiamo però tralasciare il fatto che nonostante l’unicità e la stravagante in-ventiva degli arnesi da cucina siano tutte da riferire a Giovanni Battista, probabilmente la fonte aulica da cui venne desunta la composizione debba rintracciarsi nei codici de-corati da Gaspare Romano o dallo stesso Marmitta: ne sono un esempio il frontespizio dell’Epitome della Naturalis Historia di Ludovico Guasti da Gavi (fig. 5), scritto da Sigismondo de’ Sigismondio tra il 1481 e il 1487, che contiene anche il De Utilitate di Plutarco (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Reg. Lat. 1981).

I frontespizi del Cavalletto sono allora permeati da soluzioni raffinate, di un nitido classicismo ben esemplato dai rilievi a girali del basamento, e da una costante attenzione ad auliche soluzioni compositive. Questo linguaggio si era infatti

elaborato [...] con il contributo determinate, nel corso degli anni settanta, di Giro-lamo da Cremona e di un miniatore a lui parallelo noto come Maestro del Plinio di Londra, nonché del padovano Gaspare attivo a Roma nella cerchia di papa Sisto IV, in stretta congiunzione con il maggior calligrafo di gusto antiquario, pure originario di Padova, Bartolomeo Sanvito50.

Se infatti l’archeologismo mantegnesco ebbe in Gaspare Romano il suo precipuo di-vulgatore51, forse il vero innovatore di questa miniatura classicista tardoquattrocen-tesca fu proprio il parmense Marmitta, che nelle Rime e nei Trionfi di Petrarca della Landesbibliothek di Kassel (ms. IV poet. et roman. 6), sottoscritti dal committente nel 1483 (fig. 6), raggiunse risultati straordinari grazie all’abile equilibrio tra decorazioni di gusto antiquario e luminose composizioni figurate.

Perciò, se i frontespizi della Bodleian Library possono essere percepiti come la pri-ma testimonianza bolognese dell’assimilazione del nuovo stile, permettendo così a

49 A. Bacchi, A. De Marchi, La pagina antiquaria veneto-padovana, cit., p. 55.50 Ibidem, p. 53.51 R. Bentivoglio-Ravasio, Gaspare da Padova o Padovano detto Gaspare Romano/Maestro dell’Omero Vatica-

no, in M. Bollati (a cura di), Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, cit., pp. 251-258.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

285

Cavalletto di assurgere al ruolo di comprimario di Marmitta, la fresca inventiva del miniatore felsineo viene invece esemplificandosi nella trovata iconografica tutta reali-stica dei numerosi attrezzi da cucina che adornano le loro colonne. Non vengono più rappresentati i trionfi e le panoplie della tradizione imperiale, ma mestoli e marmitte, mattarelli e spiedi, griglie e calderoni: un universo di strumenti tradotti in quel natura-lismo che probabilmente il miniatore aveva desunto dalla tradizione artistica ferrarese, importata e maturata in città grazie agli esiti straordinari della pittura di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti.

Sul rapporto tra l’arte e il cibo, che emerge da alcune testimonianze creative di Cavalletto con insperata rilevanza, non si può perciò sottovalutare l’influenza che dovette esercitare sull’artista la frequentazione della corte dei Bentivoglio con i suoi fastosi banchetti. Giovanni Battista, infatti, godendo di fama e prestigio, come testi-monia l’epigramma dedicatogli dal poeta portoghese Henrique Caiado in contatto diretto con Giovanni II Bentivoglio e con suo figlio Anton Galeazzo, dovette essere

5. Francesco Marmitta, frontespizio architetto-nico con ritratto dell’autore. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Reg. Lat. 1981, Ludovico Guasti, Epithome della Natu-ralis Historia, c. 1r

6. Francesco Marmitta, frontespizio architetto-nico e scena con Petrarca e Laura. Kassel, Lande-sbibliothek, ms. IV poet. et roman. 6, France-sco Petrarca, Rime, c. 1r

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

286

ospite abituale della famiglia. Il mondo delle sontuose cucine del palazzo di Stra’ San Donato, quasi un’anticamera al paese del Bengodi, con il suo sferragliare di arnesi di ogni tipo e dimensione, non dovette ai suoi occhi passare inosservato. Al punto che nel frontespizio del De re coquinaria, proprio questa strumentazione viene trasposta dal miniatore con solerzia, quasi a voler rimarcare come i trionfi dei grandi uomini non si celebrassero solo con i libri, le armi e gli allori, ma anche attraverso le squisi-tezze del palato.

Una testimonianza materiale inedita relativa alla cultura alimentare bolognese dell’ultimo quarto del XV secolo è rappresentata dalle due cialdiere acquistate nel

7-8. Manifattura bolognese, Schiaccia per cialde, Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 4135

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

287

2000 e donate da Roberto Franchi al Museo Civico Medievale di Bologna52. La schiac-cia o stampo per cialde è un arnese in ferro a tenaglia con due manici piuttosto lunghi imperniati come forbici. Sui dischi, detti “testi”, veniva spalmata la pasta che, successi-vamente schiacciata, serviva ad ottenere le cialde; queste venivano poi poste sul fuoco o nel forno. Strumenti simili erano utilizzati anche nella lavorazione delle ostie e dei brigidini, tipici dolci toscani, o del castaneccio, schiacciata di farina di castagne. Nel nostro, come in numerosi altri casi, le due facce interne dei “testi” furono lavorate ad incavo e rifinite ad incisione con motivi decorativi religiosi e laici di schietta ascenden-za bentivolesca. Le schiacce permettevano infatti di servire ai facoltosi padroni di una casa signorile e ai loro ospiti di riguardo una disomogenea serie di cialde con impresse immagini araldiche, decorazioni laiche, oppure religiose. Erano altresì ideali anche per la realizzazione delle sacre particole.

Le nostre presentano una decorazione diversificata su ogni singolo disco: la prima (Inv. 4135) ha su una “testa” lo stemma della famiglia Bentivoglio con un motto e la data 1489, mentre nell’altra “testa” è incisa un’impresa con le forbici coronate da una massima iscritta intorno al bordo (tavv. XVIII-XIX, figg. 7-8). La seconda cialdiera (Inv. 4136) presenta invece sul primo disco una teoria di angeli inseriti in archetti decorati con elementi fitomorfi con al centro il monogramma cristologico, mentre sull’altro disco è inciso un motivo con cornucopie, acanti, fioroni e teste dai classici profili (tav. XX, figg. 9-11). Questi due arnesi originali, per quanto non esclusivi, avrebbero potuto agilmente trovar spazio sulle due colonne che decorano il De re co-quinaria, al di sotto dei capitelli, tra la lapide sbrecciata dell’Apicio e il basamento con rilievi a girali che incorniciano lo stemma del Rossi.

Forse la scelta di Cavalletto di mostrare gli arnesi e le suppellettili dell’arte culina-ria, rifiutando la più scontata trasposizione figurativa delle pietanze e degli alimen-ti, potrebbe probabilmente essere spiegabile come una diretta conseguenza della sua schietta cultura materiale. La sua personalità, dotata di ingegno multiforme, fu affat-to compartecipe di quell’ideale di “genio creatore”, lungo mito della modernità, che nell’esaltazione della creatività umana celebrava indiscriminatamente il pennello e la lira, il cannone e lo scalpello (ma consentiteci anche di dire: il mestolo ed il calamaio), come strumenti che permettevano solo ai più sublimi artefici di esprimersi attraverso splendidi capolavori.

Nella passione per i piaceri del palato e nelle reciproche interferenze rinascimentali tra arti figurative ed alimentari (mentre poc’anzi Andrea Severi ha illustrato quelle con la cultura letteraria dell’Umanesimo bolognese), Giovanni Battista Cavalletto non fu

52 Per un aggiornamento bibliografico sulle schiacce italiane rinascimentali rimandiamo a O. Zastrow, Antiche inedite schiacce decorate artisticamente, in “Rassegna di Studi e di Notizie”, vol. XXXIV, a. XXXVIII, 2011 (2012), pp. 245-246.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

288

9-11. Manifattura bolognese, Schiaccia per cialde o ostie, Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 4136

secondo a nessuno, come testimonia non solo la sua miniatura ma anche la sua poesia. Infatti, nella sua lunga carriera, oltre che artista fu anche musico e poeta, e nell’unico suo componimento in terzine giunto fino a noi, Contra la desperata del 1501 – trattasi di un ribaltamento carnevalesco del genere della “disperata”, appunto, in cui il poeta maledice generalmente se stesso e l’universo – proprio il cibo riveste un ruolo primario quale mezzo di esaltazione della bella vita, della gloria e del piacere degli uomini53. Per-ciò dalla sua penna, come dai delicati passaggi tonali del suo frontespizio, l’alimenta-

53 G. Benevolo, Regesto, in M. Medica (a cura di), Giovanni Battista Cavalletto. Un miniatore bolognese nell’età di Aspertini, cit., p. 73.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiNon più trionfi e panoplie ma mestoli e marmitte

289

zione sembra assurgere ad emblema dell’unicità della vita, della gioia e del godimento, sia esso sensoriale quanto estetico.

In conclusione, la cultura figurativa di Cavalletto è allora ben assimilabile agli ideali ed al clima cortigiano condiviso a Bologna proprio nella cerchia dei Bentivoglio, tanto che il suo rapporto con la dinastia può essere ulteriormente esemplificato dalla dedica del poemetto ad Annibale II54. Alle terzine del nostro poeta miniatore, tra le quali si può ancora avvertire la memoria del grandioso banchetto nuziale del 1487, ci piace affidare la chiusa di questo nostro intervento.

[…] Fa di tue ragion, Iove, più alteper brina e neve, a noi zucharo e manna55

piovere late che con mel si smalte.E a ciascun piova sopra la capanna,chasio gratato e specie da Pistoiae con tortelli e il minor d’una spanna.E l’abondantia mai non ci sia a noiae far ch’el campi al men gli homini natimilli anni, e poi senza dolor si moia.La dominica piova invilupati in tette laticinii e figatelliel vener tutto il dì sian pignocati.La setimana a rosto qualche ucelliel beccafico, el tordo e l’otolannocon testimonio ogniuno di duo lardelli.Le quaglie e le pernice in monte e in pianofossero in quantitade & che una vechiapotessi andando pigliarli con mano.E la tovaglia con che s’aparechiacandida, el pan spongoso leve et biancho.Malvasia el vino e ber con una sechia.E chi vol che la terra venghi manchoet che el bel ciel con le stelle ruinicon Sisipho la giù si trovi stancho.Ma se dovesson pur segni divinivenir dal cielo a noi prodigi stranisenza trovar i libri sibilini;Si vedesson volar cotti i fagiani

54 Ibidem: “La seconda di queste testimonianze letterarie è invece rappresentata da una prova poetica direttamente composta dall’artista e dedicata ad Annibale II, un altro figlio di Giovanni II. La dedica compare all’inizio del testo manoscritto conservato all’interno del Codice Sessoriano 413 della Biblioteca Nazionale di Roma: ‘Iohanne Cavaletto pictore a complacentia de lo ill.mo signore messere Hannibal Bentivogli a molte disperate sorte in un medesimo tempo consolatoria’”.

55 Anche per ragioni di vincolo rimico, proponiamo di emendare mantia in manna.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiPaolo Cova - Andrea Severi

290

a longa schiera in questa parte e in quellale orrende piogge fossor marzapani.Io vorrìa questa vita al mondo bellache più bella sarìa che d’orode la qual tanto ancor se ne favella.Un altra volta, o Iove, col tuo choroti benedico, o felice, io che expettohaver da te una corona d’aloro.El fu già un che mi fece un dispettoCh’esser potrìa che non passarà l’anno,ma farà honor e harà qualche rispetto.Io non scio quel che sia pensier ne affannoa voi contenti mia consolationeho manifesta infin chi ha mal so danno.Io degli alegri porto il confalone56.

56 Fioretto de cose noue nobilissime & degne de diuersi auctori nouiter stampate […], per Georgio de Rusconi, Venetia, MDX, Adì XXVI di Nouembre, cc. 30r-32v.

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiTavole

369

Tav. XVII. Giovanni Battista Cavalletto, frontespizio architettonico, ms. Canon. Class. Lat. 168, Api-cio, De re coquinaria, c. 1r., Oxford, Bodleian Library

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiTavole

370

Tav. XVIII. Manifattura bolognese, Schiaccia per cialde, Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 4135

pdf concesso da BUP all'autore per l'espletamento delle procedure concorsualiTavole

371

Tav. XIX. Manifattura bolognese, Schiaccia per cialde, Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 4135

Tav. XX. Manifattura bolognese, Schiaccia per cialde o ostie, Bologna, Museo Civico Medievale, inv. 4136