Noi e l'altro? Materiali per l'analisi e la comprensione dei fenomeni migratori contemporanei

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Noi e l’altro?Materiali per l’analisi e la comprensionedei fenomeni migratori contemporanei

a cura diBianca Baggiani, Laura Longoni, Giacomo Solano

contributi diMarco Aime, Paolo Arvati, Bianca Baggiani,

Alessandra Ballerini, Giuliano Carlini, Laura Longoni, Salvatore Palidda, Agostino Petrillo,

Luca Queirolo Palmas, Giacomo Solano

Il volume è realizzato con il contributo di

© 2011 Marco Aime, Paolo Arvati, Bianca Baggiani, Ales-sandra Ballerini, Giuliano Carlini, Laura Longoni, Salvatore Palidda, Agostino Petrillo, Luca Queirolo Palmas, Giacomo SolanoIn collaborazione con Discanti di Antonellini Michele, Ba-gnacavallo (Ra)ISBN 978-88-95432-11-3www.discantieditore.itCopertina di Daniele Rendo

Fondazione Migrantes, Roma

NOI E L’ALTRO?

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bianca baggiani e giacomo solanoIntroduzione: Noi e l’altro?

Questo libro prende spunto dal ciclo di lezioni dal titolo Noi e l’altro? Analisi dei fenomeni migratori e dei rapporti inter-culturali nell’era della globalizzazione, tenutosi nelle giornate del 3, 6, 11 maggio 2010 presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Genova; ciclo di lezioni orga-nizzato da noi studenti, coadiuvati dalla professoressa Laura Longoni, e sovvenzionato dall’Università degli Studi di Geno-va nell’ambito del progetto Attività culturali. All’evento han-no partecipato in qualità di relatori i professori Marco Aime, Paolo Arvati, Giuliano Carlini, Salvatore Palidda, Agostino Petrillo, Luca Queirolo Palmas e l’avvocato Alessandra Balle-rini. Avendo il ciclo di lezioni ottenuto un successo insperato, abbiamo deciso di chiedere ai relatori di prepararci un loro contributo scritto riguardo al tema esposto nel corso di tale iniziativa. I contributi, pur non essendo la semplice e non rivisitata trascrizione delle lezioni tenute dai professori, sono stati redatti dagli stessi con un tono volutamente più collo-quiale e accessibile rispetto a un loro ipotetico saggio, proprio per mantenere la specificità e lo spirito delle lezioni.

Il testo vuole proporsi come una piccola antologia varia ed eterogenea sul mondo dell’immigrazione, alla luce di un’at-tualità stringente e di una copertura mediatica spesso inade-guata. I contributi dei vari professori ci illustrano, da ango-lazioni differenti, la questione dell’immigrazione: l’approccio

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utilizzato è quindi multidisciplinare, in quanto nel susseguirsi degli interventi si avvicendano numerose prospettive teoriche (sociologica, antropologica, statistico-demografica e giuridi-ca). Questo principio di multidisciplinarità dovrebbe, secon-do noi, informare l’analisi dei fenomeni migratori, fenomeni difficilmente circoscrivibili all’interno di un’unica disciplina.

Marco Aime ci fornisce una cornice concettuale per guar-dare alle definizioni di etnia, cultura e identità fuori dagli stereotipi e luoghi comuni che spesso accompagnano questi termini.

Salvatore Palidda ci illustra i concetti di migrazione e mo-bilità umana, intrecciando quella che è la storia dell’uomo e del mondo con i fatti politici ed economici che in verità deter-minano e caratterizzano ogni tipo di flusso di persone e cose.

Paolo Arvati ci delinea il caso demografico genovese, caso di una città che avendo anticipato tempi e tendenze ci raccon-ta l’evoluzione demografica ed economica dell’Italia stessa.

È poi Agostino Petrillo ad analizzare le nuove tendenze relative alla connessione fra globalizzazione e immigrazione, trattando delle comunità di migranti e del ruolo delle nuove élite transnazionali nelle metropoli urbane e nei luoghi del vivere quotidiano.

Proprio sui “luoghi”, sui quartieri e sugli spazi cittadini verte il contributo di Giuliano Carlini, che ci propone una disamina delle relazioni interculturali in relazione alla vita quotidiana e agli spazi dove questa si concretizza.

Luca Queirolo Palmas ci racconta le sue esperienze di ri-cerca sul protagonismo giovanile dei giovani immigrati, feno-meno che, al di là delle mode e degli aspetti di violenza, ha radici storiche che vengono da lontano e che raccontano la storia non solo dell’America Latina ma dell’Italia stessa e della condizione di migrante che non ha tempo né luogo.

Alessandra Ballerini ci fornisce poi un’interessante pano-ramica delle politiche dell’immigrazione e del sistema giuri-dico italiano.

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A questo punto si inseriscono i nostri due contributi: Bian-ca Baggiani analizza e interpreta i numeri relativi alla crimina-lità, alla detenzione e alla devianza delle persone provenienti dall’estero, mentre Giacomo Solano fornisce una panoramica della rappresentazione che i mass media danno dei fenomeni migratori e degli immigrati.

Infine è Laura Longoni a concludere il libro, fornendoci alcuni importanti spunti di riflessione sul tema generale dei fenomeni migratori, alla luce dei cambiamenti che stanno in-vestendo la società contemporanea.

Il nostro obiettivo in sede di elaborazione era quello di creare un testo semplice nella sua articolazione ma allo stesso tempo esaustivo, che descrivesse i vari aspetti del fenomeno, cercando di dipingerne un quadro il più completo possibile. Speriamo di esservi riusciti. Ci auguriamo inoltre che questo libro possa rappresentare una sorta di invito alla lettura: in-fatti il lettore che sarà rimasto incuriosito da un argomento piuttosto che da un altro potrà, grazie ai riferimenti biblio-grafici, approfondire successivamente la tematica che più lo ha interessato.

In conclusione, vogliamo ringraziare tutti coloro che han-no scritto un contributo per questo libro, persone che per la loro caratura professionale e per il loro impegno lavorativo avrebbero potuto declinare l’invito loro formulato. Al contra-rio tutti hanno cercato, in maniera totalmente disinteressata, spassionata e appassionata, di ritagliare il tempo necessario per essere presenti. Ma un ringraziamento particolare va sicu-ramente a Laura Longoni, co-curatrice di questo libro: senza il suo aiuto, la sua pazienza nell’ascoltarci, le sue correzioni e il suo impegno, tutto questo non sarebbe stato possibile. A lei va un sincero e sentito grazie.

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marco aimeCulture, non pietre

Sono sempre più frequenti gli episodi da cui emerge in modo evidente quanto sia aumentata in questi ultimi anni l’attenzione per le culture altre e per la loro diversità. Sia chi vede questa molteplicità culturale come una ricchezza sia chi, invece, la teme e la osteggia, mette in evidenza il fatto che esistono delle differenze e che vanno prese in considerazione. L’accento viene posto sempre sulla diversità, quasi mai sugli elementi comuni, che invece sono dati per scontati, taciuti o non considerati. La diversità fa eccezione e quindi notizia.

L’attentato dell’11 settembre ha sicuramente acuito, e talvolta creato, le tensioni tra gli occidentali e il cosiddetto «mondo islamico», dando vita, soprattutto a livello media-tico, alle prove di quello scontro fra civiltà profetizzato da Samuel Huntington.1

Spostando il dibattito dal politico al culturale, da un lato si rimuovono le cause sociali che stanno alla base di tensioni e conflitti, sottraendo in questo modo al giudizio della gente la possibilità di riconoscere quegli elementi che invece po-trebbero essere condivisi con gli immigrati (non tutti hanno rimosso il nostro passato di emigranti). Dall’altro si riformula il problema ponendolo come una questione di fede e come

1 S. Huntington, Lo scontro delle civiltà. E il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000.

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tale non suscettibile di mediazioni. «I problemi, essendo esi-stenziali, sono universali; le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse» scrive Clifford Geertz.2 Quella dello scontro culturale è una maschera che nasconde le radici di fondo della questione presentandoci invece, con l’esasperazione talvolta caricaturale delle maschere, i tratti più estremi di ciò che vuo-le rappresentare. Nasconde l’universalità di molti elementi culturali, patrimonio di popoli e fedi diverse, per dare voce solo alle possibili risposte, che sono umane e perciò non “na-turali”, non assolute.

Analogamente il mito del multiculturalismo, caro alla sinistra, finisce per essere una riproposizione, solamente in chiave non conflittuale, della diversità culturale, ponendo an-cora una volta l’accento sulla differenza piuttosto che sul fatto che ogni cultura è già di per sé multiculturale.

Oggi, una delle parole chiave nella didattica scolastica è “intercultura”. Sono sempre più numerose le circolari che in-vitano a promuovere il dialogo tra le culture con corsi, con-vegni, dibattiti, attività didattiche varie. Sul fronte opposto ci sono invece coloro che paventano lo scontro tra culture: ma dove stanno le culture? In tutta sincerità, chi ha mai visto due culture incontrarsi o scontrarsi? Si tratta di espedienti retorici e analitici, di astrazioni formulate dagli studiosi per indicare a posteriori processi storici, ma utilizzare tali categorie per leggere la nostra realtà quotidiana può risultare fuorviante. In questa realtà noi vediamo donne, uomini e bambini cono-scersi, convivere, lottare, combattere. È questo che vediamo ogni giorno per la strada o alla televisione. Dalle carrette del mare che più o meno regolarmente attraccano sulle nostre coste sbarcano disperati, non culture. Una donna o un uomo che hanno fame non sono prima di tutto islamici o induisti: sono affamati. Ciò che suscita diffidenza nella gente o mette paura – sentimenti spesso esasperati dai media di parte – sono

2 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna1987, p. 342.

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i rapinatori e gli spacciatori, a prescindere dalla loro cultura o religione. È semmai la loro attività malavitosa da condannare, non la loro appartenenza culturale. I furfanti sono condanna-ti ovunque. Furto e delinquenza non sono il prodotto di una particolare cultura o religione, semmai di particolari gruppi, ma si tratta di un prodotto che più o meno accomuna tutte le società del pianeta.

Quello dello “scontro di civiltà” di Huntington «è un con-cetto scientificamente sbagliato» sostiene Martha Nussbaum, docente di Legge ed Etica della University of Chicago, «per-ché gli stessi sentimenti di tolleranza e intolleranza si posso-no ritrovare tanto nella civiltà occidentale, quanto in quella orientale, islam compreso. Non sono le civiltà che si scontra-no, ma le persone all’interno di esse che sono intolleranti».3 Persone, quindi, che portano con sé un modo di leggere il mondo, non culture in senso astratto. E le persone non sono monoliti inscalfibili.

Il rischio è di proporre un concetto di cultura fin troppo “culturale”, fondato su diversità concettuali che non sempre superano in consistenza e valore le affinità o le somiglianze pratiche. Alla concezione biologica della razza, intesa come elemento determinante le differenze culturali si rischia di so-stituire un’enfatizzazione radicale delle caratteristiche cultura-li. Il “razzismo” culturale elabora categorie analoghe, gerarchi-che e finalizzate anch’esse alla distinzione e all’esclusione, ma fondate sui tratti culturali. Entrambi finiscono per diventare spinte alla differenziazione che pretendono di spiegare se non addirittura di prevedere le attitudini, le disposizioni e gli at-teggiamenti delle persone o dei gruppi.4

Oggi la maggior parte degli studiosi sociali si trova d’ac-cordo nel sostenere che le identità sono un prodotto culturale.

3 P. Mastrolilli, Cambiare il mondo con i «sentimenti cosmopoliti», in «La Stampa», 28 maggio 2002.

4 P-A. Taguieff, Il razzismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. 57.

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Però, al di là dei paradigmi analitici che ci hanno condotto a riconoscere le identità come costruzioni, assistiamo a guerre, lotte, scontri politici in nome di queste identità. Fasulle e in-ventate finché si vuole, ma attive sul piano pratico. Non basta dire «è una costruzione culturale, non c’è nulla di radicato, di assoluto, di dato» e rimanere a guardare. Fuori dalle aule accademiche la pratica sembra correre su un binario parallelo a quello della teoria. Non si tratta di un difetto degli stu-di antropologici: sono pienamente concorde sull’analisi dei processi attraverso i quali si costruiscono nuovi sensi di ap-partenenza. Però queste conclusioni sembrano scontrarsi con l’osservazione quotidiana. Se da un lato possiamo affermare che non riscontriamo un’essenza dell’identità, dall’altro non possiamo che constatare l’esistenza di una pratica dell’identi-tà. Sia che costituisca un elemento di attacco, sia che serva a difendersi, questa pratica si fonda su quel “fondamentalismo culturale” brillantemente definito da Verena Stolcke in un ar-ticolo su confini e retoriche d’esclusione nell’Europa contem-poranea. Il processo di unificazione del vecchio continente opera contemporaneamente su due versanti: da un lato i con-fini interni diventano via via più permeabili, dall’altro quelli esterni si irrigidiscono sempre di più escludendo gli “altri”, gli extracomunitari.

Al di là di ogni considerazione politica e morale, è inevi-tabile registrare un crescente sentimento popolare di astio nei confronti degli immigrati, alimentato dalla semplificazione (per non dire menzogna) secondo cui tutti i mali verrebbero dalla presenza degli stranieri in quanto portatori di una cultu-ra diversa che minerebbe i nostri valori. A questo segue spesso un’enfatizzazione del problema, presentato su scala maggiore rispetto ai dati reali. In questo modo molti governanti europei tentano di celare dietro un problema di incompatibilità cul-turale i disagi socio-economici derivati dalla recessione e dagli aggiustamenti capitalistici che si fanno sempre più estremi.

Noi saremmo, pertanto, «la misura del benessere che loro

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minacciano di distruggere perché sono stranieri e cultural-mente differenti».5 Ne segue una visione secondo la quale gli individui preferirebbero vivere tra i loro simili piuttosto che in una società multiculturale, in quanto questa propensione sarebbe naturale. Sebbene nessun teorico della xenofobia sia in grado di spiegarne le cause, si dà per scontato che le per-sone abbiano una naturale propensione a temere e rifiutare gli stranieri perché diversi. Una visione molto utile a nascon-dere le cause socio-economiche che spesso stanno alla base delle tensioni. Questo atteggiamento viene spesso bollato, dagli oppositori, come razzismo, ma tale non è. L’elemento di incompatibilità, in questa moderna politica dell’esclusione, non è più la razza, ma la cultura. Quasi un ritorno al passato. Nell’antichità, infatti, l’esclusione dall’Europa si fondava non sulla razza, ma sulla religione: via gli infedeli che potevano minacciare l’egemonia cristiana. Il razzismo scientifico del XIX secolo ha tentato di legittimare le differenze sulla base della natura biologica. Oggi, il problema del diverso da al-lontanare si sposta dal piano, ormai inaccettabile, della razza intesa in senso genetico, a quello culturale, permettendo alla destra xenofoba di ricostruirsi una rispettabilità politica. La volontà di epurazione rimane, ma in questo caso abbiamo un razzismo senza razza. Una sorta di quella che Paul Mer-cier definisce “supertribalizzazione”,6 un’espressione che pare assai adatta a rappresentare quella forzatura etnico-culturale avviata dalle molte élite politiche, che caratterizza molti mo-vimenti attuali.

La minaccia di contaminazione non viene più applicata alla stirpe, ma alla cultura che, in questa retorica fondamen-talista, diventa sempre più solida, tangibile, uniforme. Ma chi produce questa retorica? Chi ha il potere di produrla, cioè

5 V. Stolcke, Talking Culture: New Boundaries, New Rethorics for Exclu-sion in Europe, in «Current Anthropology», 36 (1995), p. 3.

6 P. Mercier, Remarques sur la signification du «tribalisme» actuel en Afri-que Noire, in «Cahiers Internationales de Sociologie», XXXI (1962), p. 64.

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certe élite politiche attraverso i mezzi di comunicazione, che tendono a presentare la cultura come un pacchetto compat-to contenente valori e tradizioni definite, localizzate legate al concetto di stato-nazione o di entità territoriali auspicate, come nel caso della Padania. Ancora la cultura legata al terri-torio contrapposta all’anticultura di chi viene da fuori. Prova ne è che per essere accettato nella comunità, acquisire quel pacchetto culturale di cui si è parlato prima e pertanto otte-nere diritti politici, si deve acquisire una nazionalità, la nostra. L’accesso a questa nazionalità può avvenire secondo tre moda-lità: per discendenza (jus sanguinis), per nascita (jus soli) e per «naturalizzazione» in seguito ad acquisito domicilio. Notare il temine naturalizzazione, che rimanda a una concezione na-turale della nazione, quando invece, come afferma Ernest Re-nan: «L’esistenza di una nazione è un plebiscito quotidiano».

Il fondamentalismo tende quindi a presentare come na-turali, in quanto culturali, le cause degli scompensi e delle discriminazioni socio-economiche esistenti tra gli individui. Se pensiamo a tali squilibri come naturali, ci viene anche più facile accettare che siano irrisolvibili (non possiamo sfidare la natura!). Naturalizzare le forme culturali più distanti dal-la nostra, scrive Taguieff, implica però la disumanizzazione dell’altro.7 Se il razzismo proponeva una distinzione tra razze superiori e razze inferiori, il fondamentalismo culturale non dà vita a una gerarchia tra le culture. Al contrario, può ad-dirittura sostenere, come fanno alcuni esponenti della destra italiana, un certo relativismo culturale, purché ciascuno ri-manga al suo posto. Un relativismo a distanza, insomma.

L’affermare che molte forme di identità collettive sono prive di fondamenti storici reali, frutto di tradizioni inventate e che pertanto non costituiscono dati essenziali inscritti nel carattere degli individui, può avere un valore epistemologico, ma non ne attenua gli effetti pratici. I richiami alle origini e

7 P-A. Taguieff, Il razzismo cit., p. 11.

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alla purezza sono in realtà proiezioni all’indietro di necessità quanto mai attuali (richieste di autonomia, interessi locali, aspirazioni di governo di certi leader, ecc.). Per dirla con Jean Pouillon sono delle “retro-proiezioni camuffate” e lo stesso autore sostiene inoltre che: «Le società che si dicono moderne non sono società che si disfano del loro passato, esse lo mani-polano in funzione dei loro bisogni presenti».8 Ciò che spesso viene chiamato tradizione è in realtà “tradizionalismo”, cioè una rappresentazione cosciente di un’eredità culturale più o meno autentica. Questo tradizionalismo però, a dispetto del-le sue aspirazioni, si rivela: «Non tanto come la teoria di un modo di vita in perfetta armonia con quello dei nostri padri, ma come uno strumento utile a influenzare le decisioni poli-tiche concernenti l’avvenire».9

Sebbene una certa antropologia postmoderna tenda a pri-vilegiare l’aspetto della rappresentazione come chiave di analisi dei diversi eventi sociali, rischiando di relegare le identità nel cielo delle costruzioni mentali, se si passa sul versante opera-tivo, ci si accorge che il prodotto di tali identità è quanto mai efficace. I fondamentalisti di ogni genere si rifanno continua-mente a un passato ideale, ma la loro azione utilizza metodi e concetti quanto mai moderni. Assistiamo continuamente a processi di politicizzazione di etnie e di religioni, finendo tal-volta per sovrapporre l’immagine che ne deriva ai contenuti originali delle une e delle altre. L’islam diventa così la religione della guerra santa, quando è invece l’uso politico che ne fanno certi integralisti a fomentare odio e guerra; l’identità etnica sembra essere alla radici dei massacri in Burundi o nei Balca-ni, mentre le ragioni degli scontri andrebbero invece cercate nelle politiche recenti e passate. Si parla di tribalizzazione del-la politica, quando invece il problema sta nella politicizzazio-

8 J. Pouillon, Plus c’est la même chose, plus ça change, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», XV (1975), p. 160.

9 E. Weil, Essais et conférences: tomo II, Le Politique, Vrin, Paris 1991, p. 216.

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ne delle tribù. La pratica dell’identità comporta in molti casi uno snaturamento dei valori fondamentali della cultura a cui fa riferimento. I talebani, come quasi tutti gli integralisti isla-mici, volevano ricreare una società fondata sui valori religiosi da loro presunti, in contrapposizione al modello occidentale, ma per farlo hanno utilizzato armi e tecnologia proveniente dall’Occidente. Così come Osama Bin Laden utilizza pratiche finanziarie e sfrutta la logica di mercato esattamente come un qualsiasi finanziere di quel mondo a cui ha dichiarato guerra.

La manipolazione di elementi culturali a fini politici è una pratica che oggi ha assunto un ruolo determinante e fa sì che le culture diventino una sorta di baluardi insormontabili a tal punto da giustificare guerre ed epurazioni per espugnarli.

Ritornando ai piccoli episodi della nostra quotidianità, dove talvolta affrontiamo con ansia eccessiva questo processo di negoziazione continuo che è la convivenza sociale, vorrei riportare un aneddoto narratomi da don Piero Gallo, parro-co di San Salvario, quartiere di Torino segnato da una forte presenza di immigrati. In una scuola materna del quartiere, frequentata da molti bambini maghrebini, le maestre hanno deciso un giorno di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la tradizione. I bam-bini erano tutti contenti. Poi una maestra ha chiesto a un piccolo marocchino: «Ti piace?».

«Sì».«È come quello che fa tua mamma?»«Quello di mia mamma è più buono perché mette uno

strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…»Negli anni Venti Robert Lowie, celebre antropologo ame-

ricano sosteneva che la cultura era un’insieme di “toppe e stracci”,10 oggi quel bambino di San Salvario, con le sue parole ha forse disegnato un’altra bellissima metafora della cultura.

10 R. Lowie, Primitive society, Liveright, New York 1947 [ed. orig. 1920], p. 441.

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salvatore paliddaLe mobilità umane nel contesto liberista

Introduzione

Trattandosi di un “fatto politico totale”,1 lo studio delle migrazioni implica una prospettiva interpretativa e di anali-si pluridisciplinare (soprattutto fra sociologia, etnografia so-ciale, antropologia, storia e filosofia politica) e quindi anche l’articolazione fra micro e macro, diacronia e sincronia e la comparazione. Altrimenti, si colloca nella “scienza delle mi-grazioni”, ossia un’applicazione delle scienze umane e sociali secondo il “pensiero di Stato” o del dominante.2

1 Il concetto di fatto politico totale qui proposto si rifà a Marcel Mauss e in particolare a Abdelmalek Sayad (vedi S. Palidda, Mobilità umane. In-troduzione alla sociologia delle migrazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008 e S. Palidda (a cura di), Ambiguità e business sulle migrazioni, Meso-gea, Messina 2010).

2 La critica della «scienza delle migrazioni» è proposta soprattutto da Sayad (in A. Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002) e qui fa riferimento innanzitutto alla decostruzione del «pensiero di stato» che sug-gerisce Michel Foucault (si vedano: A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999; S. Palidda, Mo-bilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni cit. e S. Palidda (a cura di), Ambiguità e business sulle migrazioni cit.). Fra gli storici italiani delle migrazioni si veda in particolare Matteo Sanfilippo e i testi di diversi autori accessibili al sito http://www.asei.eu (vedi anche bibliografia in S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni cit.).

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Un “fatto politico totale” ignoratodalla “scienza delle migrazioni”

Dal punto di vista delle scienze politiche e sociali, tre sono i principali aspetti nella formazione e nelle trasforma-zioni di tutte le società, dall’antichità sino a oggi: le origini e l’appartenenza di tutti gli esseri umani a una sola specie, la loro caratteristica di animali pensanti e di animali politici e la mobilità continua, cioè gli spostamenti geografici dovuti a molteplici ragioni o all’aspirazione – spesso inconsapevole – a ciò che non si riesce a soddisfare laddove si vive. In particola-re, gli spostamenti continui degli esseri umani, individuali o di gruppi o anche di massa, a breve, media o lunga distanza, sono sempre stati incitati o hanno partecipato a tutte le tra-sformazioni delle società. Le mobilità umane, quindi, dovreb-bero essere considerate un “fatto politico totale” (ovviamente a prescindere da ogni valutazione “positiva” o “negativa”) in quanto coinvolgono tutti gli aspetti caratterizzanti degli esseri umani oltre che della società di partenza, di quella di arrivo e le relazioni fra queste. Ne consegue che lo studio di tale fe-nomeno dovrebbe far parte delle scienze politiche e sociali. Al contrario la “scienza delle migrazioni” ha sempre teso a ridur-re questo campo di ricerca allo studio più o meno palesemen-te finalizzato alla selezione, al controllo e all’inquadramento degli immigrati per scopi essenzialmente economici (massi-mizzandone lo sfruttamento) e/o demografici (per assicurare la riproduzione della manodopera, spesso per i lavori più no-civi, meno pagati e rifiutati dagli autoctoni, per alimentare le casse delle pensioni e a volte anche la “carne da cannoni”, cioè i soldati per le guerre).

In diversi periodi storici le migrazioni sono state confron-tate a congiunture economiche e/o politiche favorevoli oppu-re all’opposto ad altre assai ostili. Soprattutto nel XIX e XX

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secolo la razzializzazione dei migranti si confondeva non solo con la persecuzione dello straniero, del facile capro espiatorio o del nemico di turno, ma più precisamente con la pratica di inferiorizzazione e assoggettamento sperimentate nei con-fronti dei popoli colonizzati. La colonizzazione, appunto, si giustificava collocando le popolazioni delle colonie nel rango dei non civilizzati, selvaggi se non atavici o preumani o an-cora come animali senza anima né cogito. È quindi del tutto scontato che a tali popolazioni non si concedessero (e non si concedano) gli stessi diritti dei nazionali che a volte possono anche usare i migranti come animali da addomesticare per at-tività utili al “progresso dell’umanità” (che ovviamente solo gli europei ritengono di poter apprezzare, garantire e sviluppare). È infatti emblematico che le teorie razziste del XIX secolo siano adottate – fra l’altro – nei confronti delle popolazioni dei territori al di sotto del 45° parallelo per criminalizzarle so-prattutto al fine di assoggettarle a condizioni a volte peggiori di quelle dei neri d’America.3 L’inferiorizzazione attraverso il ricorso alla razzializzazione e alla criminalizzazione (quindi a una categorizzazione negativa totale) ha colpito quasi sempre tutti i migranti anche quelli all’interno dello stesso paese per permetterne uno sfruttamento estremo che ha sempre dato un contributo indispensabile allo sviluppo economico e all’ascesa dei paesi di immigrazione a grandi potenze mondiali.

Le migrazioni e la seconda grande trasformazione

Dall’inizio degli anni Settanta del XX secolo inizia la “se-conda grande trasformazione”, ossia la rivoluzione neolibera-le/neoconservatrice, che provoca la “distruzione non creativa”,

3 Si vedano i documentari Pane Amaro di G. Norelli e Emigranti (Ita-lians in the world) di R. Olla reperibili a pezzi su YouTube oltre agli scritti di storici fra i quali Franzina.

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ossia la destrutturazione profonda dell’assetto che si era con-figurato a seguito della rivoluzione industriale del XVIII-XIX secolo, senza ricostruzione di un assetto stabile, regolamen-tato e pacifico come auspicavano i teorici liberal-democratici del XIX e XX secolo (da Schumpeter a Keynes a Polany). Questa rivoluzione neoliberale della fine del XX secolo è la conseguenza dell’intreccio fra rivoluzione tecnologica, rivolu-zione finanziaria e rivoluzione politica nel senso dei rapporti fra potere e non-potere – quindi crescita dell’asimmetria di potere e della distanza fra ricchezza e povertà – su scala locale, nazionale e globale. A seguito di questa seconda grande tra-sformazione, l’immigrazione – che in diversi periodi e conte-sti di prima era stata incitata – viene ora formalmente proibi-ta: non ci sono più le grandi unità produttive di tipo fordista che necessitano di manodopera di massa stabile nelle fasi di ripresa o espansione economica. E nonostante gli accordi di Helsinki del 1972 che legittimano il diritto all’emigrazione, peraltro sancito dalla carta Onu, anche la stessa emigrazio-ne diventa oggetto di proibizione a seguito degli accordi fra paesi di partenza e paesi di arrivo che tendono sempre più a trasferire ai primi la repressione dell’emigrazione. Tuttavia, nei fatti, le migrazioni che si sono succedute dalla fine degli anni Settanta hanno conosciuto un aumento continuo sia dai Sud verso i paesi del G7 ma soprattutto fra paesi degli stessi Sud, e ancora di più all’interno di quasi tutti i paesi di tutti i continenti (tutti i paesi sono diventati paesi di emigrazioni, immigrazioni e di transito). Come riconoscono anche alcuni autori liberal (fra cui quelli della Rand Corporation o dell’Oc-se), il cosiddetto sviluppo “postmoderno” degli anni 1980-2008 nei paesi ricchi si è nutrito abbondantemente delle mi-grazioni recenti (regolari e irregolari), cioè del prodotto della loro gestione liberista (inferiorizzazione, supersfruttamento, negazione dei diritti, massima riduzione dei costi, alto turn over attraverso lo “smaltimento spontaneo o violento” del-la manodopera usurata, in eccesso o non più disponibile a

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inferiorizzarsi). Questa gestione si è quindi estesa anche agli autoctoni più soggetti a tale assoggettamento. In altre parole, le migrazioni contemporanee, anche quelle interne, servono soprattutto a fornire manodopera inferiorizzata o senza alcun diritto.

Similitudini e differenze fra “vecchie” e nuove migrazioni

Molteplici sono le similitudini fra le migrazioni del passa-to e quelle contemporanee: migrazioni individuali o in gruppi che danno vita a catene migratorie, fuga dalle guerre, dalle persecuzioni, da disastri naturali, da condizioni di vita e di subalternità insopportabili o le più diverse motivazioni indi-viduali e spesso le sovrapposizioni di varie cause quasi sempre coagulate attorno all’idea di poter trovare altrove la possibilità di soddisfare i propri bisogni e desideri, possibilità che non si riesce a intravedere laddove si vive. È insomma l’aspira-zione – spesso inconsapevole – all’emancipazione il movente più importante di qualsiasi migrazione, un’aspirazione che da sempre s’è potuta conciliare con lo sviluppo del capitalismo e che si riproduce con l’ascesa economica, sociale (e a volte anche politica) dei leader o élite dei migranti (passando dai diversi livelli di mediatori di potere – power brokers – o capo-rali o boss “etnico-religiosi” sino ai ranghi di neodominanti).

La tenacia dei migranti nella loro lotta per la “riuscita” (as-sumendo costi materiali e morali spesso enormi) ha permesso anche oggi l’inserimento e l’integrazione di milioni di immi-grati in America del Nord e in Europa nonostante un frame (o contesto o congiuntura) sempre più segnato dall’ostilità. La rappresentazione sociale degli immigrati che si è affermata, di fatto, in questi paesi è prevalentemente negativa e ha per-messo di giustificare non solo il proibizionismo dei cosiddetti arrivi irregolari, ma anche la negazione dell’accesso di queste persone a un’immigrazione regolare e pacifica. Adottando un

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quadro normativo sempre più rigido e che ha reso sempre più difficile l’accesso e il mantenimento della regolarità, e accen-tuando sempre più la discrezionalità della gestione da parte delle polizie e delle autorità locali sino a permettere la facile discriminazione (a volte – ma raramente – anche “positiva” o “a fin di bene”) la maggioranza degli immigrati ha finito per ricadere nella “clandestinità”, non perché ha commesso reati ma perché è spesso impossibile mantenere i requisiti della re-golarità (lavoro e alloggio stabili e regolari). Nei fatti la logica proibizionista delle migrazioni e la pratica della loro gestione da parte delle polizie, delle amministrazioni locali e degli at-tori coinvolti ha creato meccanismi, dispositivi e dinamiche di riproduzione continua di un’immigrazione irregolare che quindi assicura la manodopera ideale dal punto di vista di un neoliberalismo che persegue al massimo l’aumento dei pro-fitti attraverso la negazione dei diritti e la riduzione dei costi del lavoro. Ovviamente questo fenomeno è particolarmente ampliato nei contesti e nei settori dove questo tipo di neo-liberalismo ha più libertà di imporsi generando un’area assai vasta delle cosiddette “economie sommerse”. E qua si verifica in maniera ancora più palese il trasferimento delle pratiche di inferiorizzazione e di supersfruttamento degli immigrati irregolari ma anche regolari sino agli autoctoni più deboli, meno tutelati, cioè più alla mercé di un dominio spesso vio-lento (poiché non regolato da norme di uno stato di diritto e quindi da alcun contratto sociale e di lavoro). A tal proposito diverse zone e vari settori di attività fra i quali l’agricoltura, la piccola manifattura, le costruzioni, le pulizie e l’assistenza a domicilio, sono i più affetti da queste forme di quasi “neo-schiavitù” in Italia, Spagna, Grecia e un po’ meno negli altri paesi. Va però osservato che è l’Italia il paese che si configura come quello con meno certezza del diritto per gli immigrati, che sono quindi soggetti a una precarietà giuridica particolar-mente accentuata. Questa gestione dell’immigrazione è stata segnata sempre più da una radicalizzazione reazionaria a causa

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del concomitante passaggio di ciò che J. Simon chiama «dal new deal al crime deal».4 L’esasperazione delle paure e delle insicurezze è diventata un’arma straordinariamente efficace per il consenso autoritario a una tolleranza zero che indivi-dua nel migrante, nel rom, nel marginale in genere il nemico di turno, distraendo così l’opinione pubblica dalle reali cause delle insicurezze e incertezze. Tutto ciò s’è ancor di più ag-gravato dopo gli attentati terroristici del 2001 (negli Usa), del 2004 (Madrid) e del 2005 (Londra) concentrandosi sugli “arabi” come potenziali “terroristi islamici”, ossia il “nemico della porta accanto” nel continuum delle guerre contro gli stati canaglia, i terrorismi, le mafie e… le migrazioni, ma anche le “inciviltà urbane”.

Il divenire delle migrazioni come esito delle interazioni

Contrariamente ai cosiddetti “modelli” teorizzati dalla scienza delle migrazioni (francese, tedesco, anglosassone), l’emigrazione e l’immigrazione e il loro divenire sono sempre il risultato di molteplici interazioni fra i migranti e gli altri attori sociali con cui si confrontano nei diversi frames che at-traversano. Inserimento, integrazione, assimilazione, rigetto, persecuzione o più precisamente “integrazione regolare e pa-cifica” anziché integrazione “deviante” o persino “criminale” o ancora vittimizzazione violenta: questi diversi esiti sono solo in parte il prodotto del quadro normativo e delle politiche ufficialmente proclamate, mentre sono soprattutto il risulta-to delle molteplici interazioni che il migrante pratica. Così, anche in congiunture e contesti particolarmente ostili (vedi diverse zone della “Padania”) è possibile che alcuni immigrati riescano a conoscere un’integrazione pacifica e regolare grazie

4 J. Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e alla democra-zia in America, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.

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a interazioni con autoctoni che per interessi o disponibilità an-che culturale (nell’accezione di cultura materiale) favoriscono tale esito. In altre parole, lo studio delle politiche migratorie è assai discutibile se non si confronta con la pluralità dei casi empirici all’interno di uno stesso paese, di una stessa zona e nello stesso periodo e per lo stesso gruppo o tipo di migranti (o addirittura per persone della stessa famiglia approdate in diversi contesti o confrontate con diverse interazioni).

I giovani: una posterità inopportuna?

L’ingiustizia più insopportabile per i figli dei migranti ri-siede nell’asimmetria di diritti e delle libertà fra i cittadini inclusi dei paesi ricchi e chi vive nei paesi d’emigrazione. In-fluenzati dallo sviluppo della circolazione delle nuove tecno-logie, delle comunicazioni, dei trasporti, del know how e delle merci, i giovani di tutti i paesi aspirano a viaggiare per fare esperienze e per cercare d’emanciparsi o fuggire da situazioni degradate od orribilmente segnate dalla distruzione. La nega-zione delle possibilità di migrazioni regolari accessibili a tutti coloro che hanno il coraggio di emigrare o devono fuggire dal loro paese è necessariamente percepita dagli aspiranti all’emi-grazione come un’ulteriore ingiustizia rivelatrice di uno stato di diritto antagonista ai diritti universali, una violenza che, come tutte le guerre, ogni giorno provoca morte. L’Europa condivide la responsabilità del genocidio dei migranti, in nome della difesa di una cittadinanza eurocentrica che trae beneficio della prosperità prodotta dai migranti e del business della guerra alle migrazioni.

La seconda ingiustizia a danno dei figli di immigrati è l’es-sere etichettati e trattati come potenziali delinquenti, sospetti di inciviltà urbane e “propensi a formare bande criminali”. Come mostrano alcune ricerche, la criminalizzazione dei figli di immigrati è stata una costante di tutte le migrazioni (si

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vedano in particolare le ricerche della prima scuola di Chi-cago, fra le quali quelle di Trasher, ma anche alcuni studi sui giovani delle migrazioni interne). Nei fatti si sperimenta su questi giovani un controllo autoritario che colpisce poi tutti i giovani figli dei ceti popolari meno abbienti. La ragione di questo accanimento (i casi inglese e francese sono emblema-tici) risiede palesemente nel fatto che questi giovani si con-figurano come una popolazione non facilmente disposta ad assoggettarsi alla precarietà, a sottosalari, a lavoro nero o, in alternativa, ad attività devianti. Si tratta di una popolazione spesso trattata come posterità inopportuna nel senso che non servono più la riproduzione della manodopera industriale e neanche i volenterosi aspiranti alla mobilità sociale ascenden-te attraverso la scolarizzazione riuscita. Non è un caso che le vittime più frequenti del proibizionismo delle migrazioni e della criminalizzazione razzista dell’immigrazione sono so-prattutto giovani (vedi da un lato i morti annegati o durante i diversi tragitti e dall’altro le vittime della repressione delle polizie in Inghilterra, in Francia e negli altri paesi).

Infine, l’etichettamento negativo dei giovani di origine straniera è la più palese negazione della possibilità di emanci-pazione, negazione che colpisce tutti i migranti che vogliono liberarsi dai condizionamenti derivanti dall’appartenenza alla società di origine.

Conclusioni

L’aspirazione all’emancipazione che è insita nelle migra-zioni – quasi sempre inconsapevolmente – è sempre ambigua: può condurre l’emigrato-immigrato ad adottare comporta-menti e ruoli contro i quali egli stesso si era rivoltato con la partenza, come può indurlo a partecipare all’azione collettiva per i diritti universali. In altri termini, l’emigrato-immigrato può diventare il caporale “etnico” – o il gourkha – che schia-

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vizza i suoi connazionali, la “scimmia ammaestrata” come esempio da emulare proposto agli altri, ma può diventare an-che il leader di lotte per la parità dei diritti fra i cittadini del paese di arrivo e gli immigrati.

Tragedie ed epopee, miserie e riuscite: tutta la storia delle migrazioni è costellata da esiti disparati. In effetti, per capire le dinamiche delle migrazioni occorre innanzitutto osservare le molteplici interazioni con le quali si confrontano i migranti sin dal momento in cui maturano l’idea di migrare. È proprio a tale scopo che gli esempi e gli insegnamenti dell’etnografia sociale possono essere indispensabili all’interno della prospet-tiva pluridisciplinare prima accennata.

Oggi le migrazioni si situano in una cornice globale che è segnata innanzitutto dalle violenze e dalla guerra aperta come pratiche correnti del potere nei confronti degli umani che non fanno parte della sua base di massa. Buona parte degli immi-grati e dei nazionali cercano di resistere alla deriva neoliberale per conquistare quantomeno spazi di sopravvivenza decente. Quasi un milione sono gli immigrati iscritti ai sindacati in Italia ma il peso effettivo dello spazio socio-politico che oggi sono in grado di sfruttare è ancora quasi inconsistente.

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paolo arvatiGenova e Liguria, una storia di migrazioni

Terra di partenza

La storia contemporanea della nostra città e della nostra regione è profondamente intrecciata con i fenomeni migra-tori che hanno interessato il paese Italia, terra di emigrazione nell’Ottocento e per buona parte del Novecento, poi, a par-tire dagli anni Settanta-Ottanta, terra di immigrazione. È il porto di Genova il cuore della nostra storia locale e ancor più nazionale di popolo di migranti. Per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento il nostro porto, oltre a essere il più importante scalo nazionale per il traffico delle merci, è anche centro di raccolta dell’emigrazione di massa proveniente da tutte le regioni italiane e diretta verso le Americhe. Tra il 1876 e il 1901 oltre il 61% del flusso migratorio in partenza da tutti i porti nazionali passa per lo scalo genovese. Dall’inizio del Novecento Genova cede il suo primato a Napoli e passa al secondo posto, che rappresenta pur sempre – tra il 1902 e il 1925 – il 34% degli imbarchi diretti oltreoceano.

Sono note le dimensioni bibliche dell’emigrazione italiana in oltre un secolo di storia unitaria del paese. Tra il 1861 e il 1970 il numero complessivo degli espatri è più di 27 milioni, con un’emigrazione netta di oltre 9 milioni. Il che vuol dire che l’incremento naturale della popolazione italiana dall’Uni-tà al 1970 è assorbito per il 24% dall’emigrazione netta. Se

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si considera che l’emigrazione transoceanica non rappresenta mai meno del 35% dell’espatrio complessivo, superando am-piamente il 50% tra il 1887 e il 1914, si può avere un’idea del ruolo svolto dal porto di Genova in questa triste pagina della storia nazionale.

Tra il 1861 sino agli anni Venti del nuovo secolo e succes-sivamente per circa un decennio dopo il conflitto mondiale, milioni di italiani espatriano transitando per Genova. Per un secolo da Genova inizia il lungo viaggio alla ricerca di mi-gliore fortuna nel nuovo mondo. La nostra città si fissa nella memoria di migliaia e migliaia di connazionali come punto di partenza, come estremo lembo di una terra amata e odiata, luogo simbolo del distacco e dell’addio. C’è un paradosso nel ruolo ricoperto dal capoluogo ligure nella storia del paese. Da un lato Genova costituisce il complesso portuale e marittimo-mercantile fondamentale per il rifornimento delle materie prime indispensabili per il decollo industriale del Nord del paese. Dall’altro Genova con il suo porto raccoglie e in qual-che modo “scarica” la contraddizione vivente di quello stesso sviluppo, una contraddizione che si realizza nell’espulsione dall’Italia di milioni di diseredati.

I liguri sono le avanguardie, i pionieri dell’emigrazione italiana fin dai primi decenni dell’Ottocento, periodo in cui gli altri stati della penisola sono toccati solo marginalmente dal fenomeno. Tra il 1833 e il 1850 si contano 13.700 im-barchi di liguri che rappresentano poco più del 10% dell’im-barco complessivo. La destinazione prevalente (68%) è per le regioni del Rio della Plata, seguite dagli Stati Uniti (16,5%) e dal Brasile (8,9%). Tra il 1854 e il 1863 si contano 47.617 liguri emigranti, in massima parte dai circondari di Chiavari (oltre 16.000), Savona (oltre 10.000) e Genova (oltre 9000). La maggioranza (oltre il 60%) è costituita da contadini e la destinazione prevalente è l’America del Sud (65,1%). Tra il 1876 e il 1890, secondo il Commissariato generale dell’emi-grazione, partono dalla Liguria per l’estero 78.927 persone,

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in maggioranza dai circondari di Genova e Chiavari. Sono prevalenti i maschi (70%), la cui professione di origine per quasi il 60% dei casi è contadina. La destinazione principale è ancora l’America del Sud (58,5%), mentre il Nord America si afferma già come destinazione di un certo rilievo (17,9%).

L’emigrazione ligure, pur significativa agli esordi del feno-meno, è ben poca cosa se si considerano le cifre dell’emigra-zione italiana nelle Americhe dagli scali nazionali e da Genova in particolare. Tra il 1876 e il 1901 s’imbarcano da Genova 1.922.968 persone, pari al 61,4% dell’imbarco da tutti i porti nazionali. Tra il 1902 e il 1925 partono dallo scalo ligure altri 1.711.356, pari al 34,3% dell’imbarco complessivo. Il feno-meno si riduce tra il 1926 e il 1939 (404.075), soprattutto a causa dei provvedimenti antimigratori posti in atto dal gover-no statunitense. Pur contenendo questi dati anche la quota modesta di imbarchi di stranieri diretti nelle Americhe, si può ritenere che in poco più di sessant’anni siano oltre quattro milioni i diseredati che proprio da Genova iniziano il loro lungo viaggio della speranza.

Questo gigantesco fenomeno ha un pesante impatto sulla città. Le cronache del tempo descrivono una situazione diffi-cile per il riversarsi a Genova di un “corpo estraneo” oscillante tra il 15 e il 25% della popolazione residente. Alla fine del 1873 il giornale «La Borsa» lamenta che ogni cosa sia lasciata «in mano della divina provvidenza»: «Come alloggino, dove dormano, ove si riparino, che cosa mangino questi infelici, è cosa che Dio solo sa». Nel 1894 un religioso descrive le traversie dei migranti sin dall’arrivo alla stazione Principe. La piazza si presenta «invasa da oltre duemila di questi poveretti. Lo spettacolo era commovente e, per molte ragioni, racca-pricciante. Una turbe di gente sospetta, fattorini d’albergo, subagenti dell’emigrazione, veri o improvvisati, si agitava fra quell’esercito di miseria, trascinando a viva forza le famiglie di quei disgraziati dietro di sé per destinazioni ignote». «Nei cosiddetti alberghi» prosegue la testimonianza «la cosa non

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andava meglio. Non era raro vedere centinaia di famiglie sdra-iate promiscuamente, sull’umido pavimento o sui sacchi, o su quelle panche, in lunghi stanzoni, in sotterranei, o in sof-fitte miserabili, senz’aria e senza luce, non solo di notte, ma anche di giorno». Un’altra testimonianza del tempo descrive il momento dell’imbarco. All’interno della stazione Maritti-ma sono ispezionati bagagli e visitati gli emigranti che sfilano davanti a un ispettore di Pubblica sicurezza e a un medico della capitaneria. Lo spettacolo è triste per la sporcizia degli abiti e dei corpi, per il lungo viaggio in treno e, soprattutto, per l’impossibilità di utilizzare, prima dell’imbarco, i servizi igienici. Come se non bastasse, ad accentuare l’umiliazione, infierisce anche l’ilarità degli ispettori che, per far avanzare gli emigranti, gridano: «E ora avanti i sudici!».

La crescita di Genova, frutto dell’immigrazione interna

Sempre sul piano storico, un secondo fondamentale aspetto riguarda la relazione decisiva tra i fenomeni migratori e la storia economica e sociale di Genova. A questo proposi-to entra in campo la migrazione interna, fenomeno diverso, fino a un certo punto, dalla migrazione internazionale. Fino a un certo punto, perché spesso la ricerca di una “vita altrove” comporta problemi simili, sia che si provenga da poche cen-tinaia di chilometri, sia che si provenga dal Sud d’Italia, sia ancora che si provenga da un altro continente.

Il “caso” demografico genovese è stato a lungo dibattuto, sino a diventare quasi uno stereotipo. In effetti il caso genove-se è il risultato del profondo intreccio tra la storia demografica e quella economica e sociale della città. I tempi e i ritmi del-la crescita della popolazione nell’Ottocento e nei primi ses-sant’anni del Novecento sono i tempi e i ritmi dello sviluppo di una moderna metropoli industriale e portuale. Il successivo decremento coincide con la crisi di quel modello di sviluppo

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e segue la lunga transizione, per certi aspetti non ancora con-clusa, a un nuovo assetto economico e sociale.

Osserviamo brevemente le ragioni della crescita. Come in ogni grande città, più di altre grandi città, fin dall’Otto-cento quasi tutto l’incremento della popolazione di Genova proviene dall’immigrazione, prima dalle montagne interne, poi dalle province confinanti. Qualche numero: tra il 1871 e il 1881 la popolazione aumenta di quasi 18.000 unità. Poiché nello stesso periodo l’incremento naturale (saldo tra nascite e decessi) è solo di 2500 unità circa, la crescita della città è attribuibile per l’86% circa all’immigrazione netta. Anche nei primi quarant’anni del Novecento la crescita di Genova è quasi tutta dovuta all’immigrazione. Tra il 1901 e il 1925, nei confini della città del 1874, il saldo naturale calcolato sulla popolazione presente è pari a 4178, risultato della differenza tra le 139.998 nascite e i 135.820 decessi. Nello stesso perio-do il saldo migratorio è pari a 117.598 persone, risultato della differenza tra i 227.215 immigrati e i 109.617 emigrati. La situazione non cambia nel periodo successivo, all’interno dei confini della “Grande Genova”. Tra il 1926 e il 1938 il saldo naturale è pari a +8272, l’immigrazione netta a +91.032.

La storia si ripete nel secondo dopoguerra. Il saldo natura-le è positivo per oltre vent’anni, sino al 1968, ma il quoziente di natalità non supera il 15 per mille raggiunto solo nel 1946, anno record per la natalità e valore mai più registrato nella storia demografica successiva di Genova, neppure negli anni del baby boom, visto che il punto più alto del 1964 è solo del 14,3 per mille. In effetti, il vero boom è quello migratorio: tra il 1951 e il 1965 l’incremento netto supera le 150.000 unità, pari al 95% della crescita demografica complessiva della città. Il flusso migratorio prevalente in quegli anni è dalle regioni del Sud. A metà anni Sessanta, più precisamente nel 1966, in coincidenza con la prima seria crisi congiunturale nel paese, si rompe il meccanismo fondamentale che aveva determinato la crescita della popolazione sino al massimo storico del 1965 di

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848.121 abitanti. Il decremento è all’inizio non casualmente legato al saldo migratorio interno, per la prima volta negativo dopo decenni di incremento, periodo bellico escluso.

A questo punto dovrebbero essere chiare le caratteristiche del “caso” demografico genovese. Sono infatti le ragioni della crescita a spiegare anche il successivo declino. Il calo di popo-lazione inizia con un deficit migratorio determinato dalla crisi di un modello di sviluppo ormai secolare della città industria-le. Due anni dopo, nel 1968, incomincia a essere negativo anche il saldo naturale. Questa però è un’altra storia. In primo luogo perché l’evento è atteso da lungo tempo, almeno sin dagli anni Trenta, quando neppure il fascismo era riuscito a forzare il rigido controllo riproduttivo dei genovesi di vecchio e nuovo insediamento. In secondo luogo perché la denatalità genovese finisce ben presto di rappresentare un caso a livello nazionale. Genova a questo proposito è un caso solo perché anticipa un fenomeno destinato ad affermarsi prima al Nord, poi in tutto il paese. Il calo demografico della città è dunque il risultato della somma di due deficit, quello naturale e quello migratorio. Lo stesso straordinario invecchiamento della po-polazione è il prodotto di un lungo processo di declino, la cui causa principale è la rottura del meccanismo principale della crescita precedente.

Oggi, alla conclusione di un lungo e travagliato processo di transizione dal precedente modello di sviluppo della città, si avvertono forti segnali di cambiamento. Le novità maggiori si registrano proprio nel movimento migratorio. Se fino alla prima metà degli anni Novanta è pesantemente negativo, a partire dalla fine del decennio scorso – grazie all’immigrazio-ne terzomondiale – si verifica una decisa riduzione del deficit, sino ai saldi addirittura positivi degli anni Duemila. Da diver-si anni la componente principale dell’immigrazione è quella estera. È logico attendersi che se il saldo migratorio dovesse assumere nei prossimi anni un segno costantemente positivo, la caratteristica prevalentemente giovanile dell’immigrazione

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comincerebbe ad avere effetti significativi sulla stessa struttura per età della popolazione genovese. Peraltro la nuova presenza straniera ha già incominciato ad avere effetti positivi sia sul processo di invecchiamento, da qualche anno decisamente rallentato, sia sulla stessa natalità. A questo proposito occorre registrare negli anni Duemila una leggera ripresa delle nasci-te, in buona parte da attribuirsi alle unioni tra stranieri, fra italiani e straniere, fra italiane e stranieri. L’incidenza dei nati da almeno un genitore straniero sul totale dei nati dichiarati allo stato civile supera il 20% ormai da qualche anno. L’invec-chiamento della popolazione prosegue, ma risulta rallentato, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.

Per concludere, un significativo e duraturo mutamento di segno del movimento migratorio potrebbe cambiare molte cose per la nostra città. Sul piano demografico per lo stesso movimento naturale e per la struttura per età della popolazio-ne. Sul piano del mercato del lavoro per rallentare e contra-stare il processo di invecchiamento e di assottigliamento della forza lavoro. Le proiezioni demografiche ci dicono che già ora e ancor più tra una decina d’anni si correrà il rischio di una crisi verticale dell’offerta di forza lavoro. I dati mostrano in-fatti una crescita sensibile nel periodo 2009-2014 dell’indice di ricambio della popolazione attiva, sino a prospettare una valore quasi doppio di persone in età pensionabile rispetto a quelle che si affacceranno sul mercato del lavoro.

Ancora un po’ di storia, per arrivare a oggi

Torniamo ora, per un attimo, alla storia. Il nostro paese diventa terra di immigrazione a partire dal 1973, anno in cui per la prima volta il numero di ingressi nel paese supera, sia pur di poco, quello degli espatri. L’inversione di tendenza si manifesta però con nettezza due anni dopo, quando è regi-strato un saldo positivo di circa 30.000 unità. Questo non

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significa che l’emigrazione italiana cessi per incanto, perché proprio nel 1973 si contano ancora 124.000 espatri. In effet-ti, la crisi petrolifera del 1973 separa due epoche diverse dello sviluppo industriale. Dalla produzione di massa basata sulla grande impresa si passa via via a modalità “postfordiste”. Si riduce drasticamente la domanda di forza lavoro e i paesi del Centro-Nord Europa, sviluppano politiche di dissuasione dei flussi migratori. La chiusura delle frontiere indirizza i nuovi migranti da un lato verso i paesi del Golfo, dall’altro verso il Sud Europa, verso paesi come la Spagna, la Grecia e l’Italia, sino ad allora rimasti estranei alle migrazioni di massa svilup-patesi nel dopoguerra.

Genova, se pur in misura minore rispetto ai tempi della nostra emigrazione di massa, riacquista un ruolo importante nella storia dei movimenti migratori. Genova è spesso pri-ma città italiana, primo approdo per migliaia di stranieri alla ricerca di lavoro e di speranza. Città di porto, il capoluogo ligure è sovente solo punto di passaggio per altre mete. Ciò nonostante il fenomeno, almeno a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, presenta caratteristiche di emergenza, se non altro per la concentrazione di nordafricani nel centro sto-rico di Genova. Ora, come un secolo prima, la popolazione migrante diventa presenza fastidiosa e talvolta preda allettante per le esigenze di trovare un alloggio, sfamarsi, di sbrigare pra-tiche o di proteggere la propria clandestinità.

Il culmine dell’insofferenza si registra nelle ormai triste-mente famose tre giornate del luglio 1993, durante le qua-li nel centro storico si verificano disordini, con “ronde” di energumeni alla caccia degli “spacciatori” immigrati. Il luglio 1993 rappresenta una sorta di spartiacque tra una prima fase disordinata e tumultuosa di manifestazione del fenomeno e una seconda fase caratterizzata da diverse novità. Si verifica un rallentamento degli arrivi dall’altra sponda del Mediterra-neo. Contestualmente si registra un forte aumento degli arrivi dall’America Latina, in particolare dall’Ecuador e dal Perù. Si

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modificano alcune catene migratorie e si afferma una forte presenza femminile. Rimane un’elevata concentrazione nel centro storico, ma al tempo stesso si delineano nuove scelte insediative nei quartieri periferici ex industriali. Si registra, specie tra i latinoamericani, una maggiore stabilizzazione e una notevole crescita delle famiglie.

Nonostante l’indubbia crescita negli anni più recenti – che vedremo meglio più avanti – non si può dire che il nostro territorio cittadino e regionale risulti eccezionalmente carat-terizzato dal fenomeno migratorio, se si considerano i valori delle altre regioni del Nord. La Liguria ha avuto un ruolo centrale, come punto di snodo dei flussi migratori, nel de-cennio 1985-1995, quando la predominanza era costituita da persone provenienti dal Maghreb. La maggiore articolazione dei flussi migratori ha determinato, nel tempo, il venir meno di quella posizione strategica.

Questa considerazione non riguarda solo gli aspetti quan-titativi del fenomeno che vedono Genova alle spalle non solo di grandi realtà metropolitane come Roma, Milano, Torino e Napoli, ma anche di realtà cosiddette “minori” del Nordest e del Centro Italia. Riguarda anche aspetti di tipo “qualitativo”, come le caratteristiche prevalenti di un’immigrazione che si rivolge a occupazioni e lavori di bassa e medio-bassa qualifica-zione, prevalentemente nel settore dei servizi alle famiglie. Si sta determinando uno squilibrio pesante tra gli immigrati e la società che li accoglie. Inoltre l’assenza di fasce di forza lavoro qualificata può determinare in prospettiva una grave difficoltà di formazione delle “leadership” delle comunità straniere.

Vediamo ora l’evoluzione più recente. Secondo i dati più recenti di fonte anagrafica al 31 dicembre 2008, gli stranieri a Genova sono pari a 7,0 ogni 100 residenti. Solo otto anni prima, alla fine del 2000, erano pari a 2,7 ogni 100 residenti. Sono ormai chiare due tendenze. La prima riguarda la forte accelerazione del fenomeno. Alla fine del 2000 gli stranieri residenti a Genova erano 16.857. Alla fine del 2008, a soli

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otto anni di distanza, sono 42.744, con un incremento del 153,6%. In soli otto anni quindi la presenza straniera risul-ta più che raddoppiata. La seconda tendenza, strettamente collegata alla prima, riguarda la composizione per sesso della presenza straniera. Sino alla prima metà degli anni Novanta è prevalente la componente maschile, specie di provenienza maghrebina e senegalese. A partire dalla seconda metà del decennio scorso si afferma una maggiore presenza femminile che negli anni Duemila diventa nettamente prevalente, grazie soprattutto all’immigrazione sudamericana.

Già nel 1999 la comunità più numerosa è quella ecuado-riana, dopo un lungo predominio della comunità marocchi-na. Alla fine del 2008 gli ecuadoriani residenti sono 14.788, con un incremento del 385,2%. Prevalgono nettamente le donne, la cui presenza rispetto a otto anni prima è più che quadruplicata. La comunità ecuadoriana da sola rappresenta più di un terzo (34,6%) dell’intera presenza straniera a Geno-va. In seconda posizione si trova la comunità albanese (4531, di cui 2518 maschi e 2013 femmine). Anche l’incremento degli albanesi, rispetto al 2000, è rilevante: +312,3%. In terza posizione si collocano i marocchini (3324, di cui 2270 ma-schi e 1054 donne), la cui crescita nel periodo considerato è nettamente più contenuta (+56,2%). Seguono in quarta po-sizione i romeni (2723, di cui 1234 maschi e 1489 femmine) che tra 2000 e 2008 decuplicano la presenza (erano solo 220 nel 2000), con un fortissimo incremento proprio nel 2008. In quinta posizione vengono i peruviani con 2344 unità (928 maschi e 1416 femmine) e un incremento in otto anni del 75,8%. Poi vengono in sesta posizione i cinesi che da tempo hanno scavalcato la comunità senegalese, componente “sto-rica” dell’immigrazione straniera a Genova, che oggi conta 1121 unità (di cui 971 maschi e 150 femmine), solo 21 unità in più rispetto al 2000.

Delle altre comunità nazionali presenti a Genova, si se-gnala la forte crescita nel periodo 2000-2008 degli ucraini (da

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72 a 1044) e degli emigrati dal Bangladesh (da 30 a 596). Si può notare una larga prevalenza femminile nelle comunità la-tinoamericane (ecuadoriani, peruviani) e, viceversa, un’ampia maggioranza maschile nelle comunità africane (marocchini senegalesi, tunisini). Tra le comunità asiatiche prevalgono an-cora le donne (indiani, filippini), a eccezione delle comunità dello Sri Lanka e del Bangladesh, dove prevalgono i maschi, e della comunità cinese che registra un sostanziale equilibrio tra le componenti maschile e femminile. Infine, tra le comunità provenienti dai paesi dell’Est europeo, talora prevale la com-ponente maschile (albanesi), talora quella femminile, netta-mente per ucraini e russi, meno nettamente per i romeni. È da ritenersi quindi che la fase attuale sia ancora interessata da fenomeni caratteristici della prima fase dell’immigrazione e che la tendenza all’inserimento stabile, di fatto familiare, sia tutto sommato relativamente minoritaria, a eccezione forse dei cinesi e dei rumeni.

L’inserimento degli stranieri nella realtà cittadina

Dati di diverse fonti indicano un processo piuttosto acce-lerato di integrazione della presenza straniera nella comunità cittadina. Il primo dato riguarda i matrimoni, in particolare i matrimoni tra stranieri e i cosiddetti “matrimoni misti”. In soli dieci anni, tra il 1999 e il 2008, l’incidenza dei matrimoni tra stranieri sul totale dei matrimoni passa dallo 0,7 al 10,2%. L’incidenza dei matrimoni misti passa dal 7,2% del 1999 al 17,7 del 2008. Conseguentemente l’incidenza dei matrimoni tra italiani scende dal 92,1% del 1999 al 72,1% del 2008. Per quanto riguarda i matrimoni misti, la stragrande maggioranza di questi, circa tre quarti, nei dieci anni ha riguardato matri-moni con sposo italiano e sposa straniera.

Il secondo dato riguarda l’incidenza dei nati con alme-no un genitore straniero sul totale dei nati vivi dichiarati allo

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stato civile. In soli dieci anni si passa dall’incidenza – già rile-vante – del 9,7% registrata nel corso del 1999 a un valore del 23,7% alla fine del 2008.

Infine è utile ricordare i dati di fonte scolastica che se-gnalano una crescente incidenza di alunni stranieri iscritti nelle scuole cittadine. Negli ultimi otto anni scolastici (dal 2000/2001 al 2007/2008) la percentuale di alunni stranieri sale dal 4,2 all’11,0 nella scuola dell’infanzia, dal 3,9 all’11,1 nella scuola elementare, dal 5,2 al 12,5 nella scuola media inferiore, dall’1,8 al 9,6 nella scuola media superiore.

Per quanto riguarda la struttura per età, la componente infantile e giovanile (0-24 anni) incide per il 31,8% sul totale degli stranieri. La componente più giovane della fascia adulta (25-44 anni) è nettamente maggioritaria (46,5%). Gli adulti dai 45 ai 64 anni rappresentano complessivamente il 19,3%. Gli stranieri di 65 anni e più sono solo il 2,4% del totale. Da questi dati esce confermata la caratteristica giovanile dell’im-migrazione. Può essere utile segnalare l’età media che, com-plessivamente, al 31 dicembre 2008, per i maschi stranieri è di 30,6 anni e per le femmine di 32,6 anni. Se si considerano le principali comunità, i maschi ecuadoriani hanno un’età media di 26,6 anni, le femmine di 31,1. I maschi albanesi hanno un’età media di 28,4 e le femmine di 26,7. I maschi marocchini di 33,0 e le femmine di 27,3. I maschi peruviani di 31,5 e le femmine di 36,0. I maschi cinesi di 28,6 e le femmine di 28,7. I maschi senegalesi di 40,8 e le femmine di 26,3. È da notare che generalmente l’età media più ele-vata riguarda, comunità per comunità, la componente mag-gioritaria (maschile e femminile) che è anche la componente di «primo insediamento» delle varie comunità (le donne per ecuadoriani e peruviani, i maschi per albanesi, marocchini e senegalesi). Fa ancora una volta eccezione la comunità cinese, ove le componenti maschile e femminile, oltre a registrare un equilibrio numerico, hanno un’età media piuttosto giovane e sostanzialmente identica.

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Otto anni prima, al 31 dicembre 2000, i 16.857 stranieri residenti rappresentavano il 2,7% della popolazione cittadina. L’insediamento più numeroso era nella circoscrizione Centro Est, in particolare nel centro storico. Dei 16.857 stranieri, 6190 (pari al 36,7%) risiedevano a Centro Est e di questi ben 4332 (pari al 25,7%) nel centro storico. L’incidenza sul totale della popolazione residente era pari al 6,6% a Centro Est e del 18,5% a Prè Molo Maddalena. Molto distanti seguivano le ex circoscrizioni di Cornigliano (4,2%), Foce (3,5%), Oregina-Lagaccio (3,0%), Sampierdarena (2,9%).

A distanza di otto anni l’incidenza della popolazione stra-niera sul totale della popolazione cittadina è più che raddop-piata. La presenza straniera a Centro Est, pur essendo cre-sciuta considerevolmente (da 6190 a 9581: +54,8%), riduce significativamente la propria incidenza sul totale della pre-senza straniera a Genova (dal 36,7% del 2000 al 22,4% del 2008). Il numero degli stranieri residenti nel centro storico cresce ancora negli otto anni (da 4332 a 5208: +20,2%), ma si riduce drasticamente l’incidenza sul totale degli stranieri residenti a Genova (dal 25,7% del 2000 al 12,2% del 2008). È la conclusione di un ciclo che negli anni Ottanta vede cre-scere progressivamente l’incidenza degli stranieri residenti nel centro storico (sul totale degli stranieri residenti a Genova) sino alla punta del 33,2% registrato alla fine del 1990. Cin-que anni dopo, alla fine del 1995, l’incidenza degli stranieri residenti a Prè Molo Maddalena scende al 27,1%, per risalire al 29,2 del 1997 e scendere nuovamente, sino al 12,2% del 2008. Negli altri municipi cittadini, nel periodo 2000-2008, gli incrementi della presenza straniera sono superiori a quello registrato a Centro Est. L’incidenza della popolazione straniera sul totale della popolazione residente vede ora al primo posto Centro Ovest con il 12,0%, seguita da Centro Est (10,4%), Val Polcevera (9,4), Medio Ponente (7,5), Bassa Val Bisagno (6,4), Val Bisagno (5,5), Medio Levante (4,1), Ponente (3,3), Levante (2,7). Se si considera ora il territorio delle venticin-

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que ex circoscrizioni, nel 2008 si trovano quattro ex circo-scrizioni con valori superiori al 10%: Prè Molo Maddalena (22,1%), Cornigliano (15,9), Sampierdarena (14,4), Rivarolo (12,0). Seguono Staglieno (9,8), Oregina-Lagaccio (9,6), San Teodoro (7,1), Bolzaneto (7,1), San Fruttuoso (6,4), Marassi (6,3), Portoria (5,5), Pontedecimo (5,3), Foce (5,3).

È dunque proseguita, rafforzandosi nel tempo, la tendenza già chiara alla fine dello scorso decennio di un progressivo al-largamento “a corona” della presenza straniera, con epicentro “storico” a Prè Molo Maddalena. Nello stesso tempo si vanno delineando altri poli territoriali. Oltre a quello tradizionale del centro storico ormai esteso al Lagaccio, si è affermato in questi ultimi anni un secondo polo che comprende Sampier-darena e Cornigliano. E un terzo valpolceverasco compren-dente Rivarolo e Bolzaneto e un quarto in Val Bisagno con epicentro a Staglieno.

Rimangono ancora sostanzialmente estranee, o toccate marginalmente dal fenomeno, le realtà territoriali del Ponen-te (sino a Sestri), del Levante e la parte alta delle due vallate. Le cause di questa morfogenesi insediativa sono da ricercarsi nella geografia dei valori immobiliari delle diverse zone citta-dine e nel peso crescente delle catene migratorie e quindi delle reti familiari e comunitarie che si vanno formando.

La situazione a livello regionale

Nel corso del 2008 nella nostra regione si è superata la soglia dei centomila residenti stranieri (da 90.881 del 2007 a 104.701), con un incremento (+15,2%) superiore alla varia-zione nazionale (+13,4). Nel 2007 era successo il contrario: l’incremento ligure (+12,6%) risultava nettamente inferiore a quello nazionale (+16,8), a causa del dato genovese (+8,0). Nel 2008 è ancora una volta La Spezia a guidare la classifica degli incrementi (+19,8%), seguita da Genova (+14,7), Sa-

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vona (+14,6) e Imperia (+14,1). Nonostante il forte incre-mento, l’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è pari al valore medio nazionale (6,5%) ed è inferiore a quel-lo di tutte le altre regioni del Nord, a eccezione della Valle d’Aosta (Emilia: 9,7; Lombardia: 9,3; Veneto: 9,3; Piemonte: 7,9; Trentino: 7,7; Friuli: 7,7; Valle d’Aosta: 5,9). La provin-cia con la maggiore percentuale è Imperia (8,0), seguita da Savona (6,5), Genova (6,2) e La Spezia (6,0). L’Istat rileva che l’incidenza in Italia (e quindi in Liguria, visto che i valori sono identici) è ormai prossima a quella di altri paesi come la Francia o il Regno Unito, nazioni d’antica immigrazione. C’è però una differenza importante: per esempio in Francia alla quota di cittadini stranieri (5,8% nel 2006) bisogna aggiun-gere un’altra quota pari al 4,3 di coloro che hanno acquisito la nazionalità francese. Se poi si considerano i paesi di immi-grazione relativamente recente come la nostra, in Spagna già alla fine del 2007 gli stranieri rappresentavano ben l’11,7% di tutti i residenti, quasi il doppio del valore italiano di un anno dopo.

Si conferma la peculiarità ligure del primato ecuadoriano tra le comunità straniere. Gli ecuadoriani, quasi tutti concen-trati (86,9%) in provincia di Genova, sono seguiti al secondo posto dagli albanesi, principale comunità a Savona e a Im-peria, e al terzo posto dai romeni, prima comunità a La Spe-zia, che nel 2008 a livello regionale scavalcano i marocchini. Come in tutta Italia, il vero boom del 2008 è rappresentato in Liguria proprio dall’incremento dei romeni (+43,2% in un anno), mentre gli aumenti delle altre comunità sono deci-samente più contenuti (ecuadoriani: +12,0; albanesi: +13,0; marocchini: +12,3). Un’altra peculiarità, strettamente colle-gata alla precedente, è la percentuale di donne (52,9) sul to-tale degli stranieri: è la più alta tra le regioni del Nord, ancora una volta a eccezione della Valle d’Aosta. Questo dato segnala l’elevata, se non prevalente, occupazione degli stranieri nel settore dei servizi alle famiglie.

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Il fenomeno più importante è però quello emergente delle “seconde generazioni”. Dei quasi quattro milioni di stranieri residenti, ormai più di mezzo milione, il 13,3%, sono nati in Italia. Degli oltre centomila stranieri in Liguria, l’11,6%, cioè oltre dodicimila, sono nati in Italia, quindi hanno frequen-tato, frequentano o frequenteranno la nostra scuola. Questi bambini e questi giovani non sono immigrati, e la cittadi-nanza straniera è dovuta al solo fatto di essere figli di genitori stranieri.

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agostino petrilloLe comunità di migranti e le nuove élite transnazionali

Il titolo propostomi per questo contributo è sicuramente intrigante, in quanto si presta molto bene a tutta una serie di chiarimenti: quando si parla di comunità di migranti, si rischia, come dicono i teologi, di ipostatizzare, cioè di dare una sostanza concreta a qualcosa che esiste solo in cieli meta-fisici, per cui il termine comunità di migranti va assolutamen-te preso sottraendo ogni pathos al concetto di comunità che altrimenti rischia di essere pericoloso e fonte di ambiguità. Le “comunità” di migranti fortunatamente non esistono, così come non esistono le favoleggiate “etnie”, inventate dagli an-tropologi dell’età vittoriana, ed è perciò meglio parlare più so-briamente di gruppi di una determinata origine nazionale.1

L’altra questione da analizzare è quella delle élite transna-zionali. Il concetto di transnazionalismo non è così scontato e neanche così immediatamente intuitivo come si potrebbe pensare.

Un’ulteriore difficoltà è data dal fatto che i due termini

1 Mi limito ad accennare qui temi che andrebbero trattati più diffusa-mente, sul concetto di comunità e sui suoi limiti rimando al dibattito con-temporaneo intorno al classico lavoro di Helmut Plessner Die Grenzen der Gemeinschaft (1924), cfr. W. Eßbach, J. Fischer e H. Lethen (Hg.), Plessners “Grenzen der Gemeinschaft. Eine Debatte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002. Per il concetto di etnia, cfr. G.W. Stocking, Victorian Anthropology, Free Press, New York 1987.

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potrebbero sembrare in qualche modo contrapposti o anti-tetici; quindi comunità di migranti, o presunte tali, da una parte e nuove élite transnazionali dall’altra; ma esiste anche un’altra possibile interpretazione, quella che cerca di definire in che modo invece le comunità di migranti entrano nel gioco delle nuove élite transnazionali.

Si tratta insomma di dipanare l’ingarbugliata matassa di tutta una serie di questioni, tutt’altro che puramente termi-nologiche, che rispecchiano un dibattito ampio su questi temi e da tempo in corso.

Nell’ultimo quarto di secolo, da quando cioè i processi di globalizzazione sono andati intensificandosi fino a rappre-sentare una cesura storica rispetto alle dimensioni storico-economiche precedenti, nel momento in cui oltre alla circo-lazione dei flussi finanziari, delle informazioni e delle merci, anche quella degli uomini è diventata una delle caratteristiche della globalizzazione stessa,2 sono mutati concetti e termini che riguardano lo spostarsi degli esseri umani sul pianeta. È una fase storica in cui sono nati molti nuovi lemmi, altri sono stati riscoperti, con un proliferare di terminologie che sovente si intrecciano o si sovrappongono tra loro, ma che stanno assumendo sfumature assai diverse e alludono ad ap-procci molto diversificati alla questione della mobilità uma-na planetaria. Provo ad accennarne alcune, tentando di fare ordine. Un grande tema è quello del “cosmopolitismo”, un altro, che analizzeremo successivamente, è quello del “tran-snazionalismo”, e l’ultimo è quello della cosiddetta “apparte-nenza multilocale”. Le difficoltà nascono dal fatto che questi tre concetti non individuano delle dimensioni chiaramente separate, univoche, ma molto spesso presentano molti aspetti

2 A questo proposito si è parlato di “epoca delle migrazioni”, cfr. S. Ca-stles e M.J. Miller, The Age of Migration. International Population Movements in the Modern World, 3a ediz., The Guilford Press, New York 2003. Per un quadro complessivo in italiano il rinvio è a T. Caponio e A. Colombo (a cura di), Migrazioni globali, integrazioni locali, Il Mulino, Bologna 2005.

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comuni, sono intersecati, il che rende ancora più complesso procedere nell’analisi.

Cominciamo dal cosmopolitismo. Il dibattito sul cosmo-politismo riprende vigore quando, dopo la caduta di alcune grandi barriere geopolitiche, comincia a profilarsi la possibi-lità, quantomeno teorica, di un’unificazione politica del pia-neta, con il ritorno di un antico mito, quello del cittadino del mondo, del cittadino globale. Sono riflessioni vecchie quanto la filosofia e la filosofia politica, c’è tutta una teoria del cosmo-politismo antico, anche se ai fini del nostro discorso queste cose sono rilevanti unicamente dal punto di vista della suc-cessione storico-teorica;3 ma quello che è interessante è che negli anni in cui la globalizzazione accelera il suo percorso, fino a far sembrare sempre più obsoleti alcuni aspetti della gestione degli Stati nazionali e delle frontiere, alcuni teori-ci, pensatori, sociologi individuano la possibilità di un nuovo cosmopolitismo. I cosiddetti iperglobalizzatori (un nome tra gli altri: David Held), vedono nella progressiva integrazione economica globale la premessa della nascita di forme di cit-tadinanza politica di tipo sovranazionale, non più legata agli Stati stessi.4 Nascono grandi teorie, grandi discorsi che molto spesso hanno trovato un’applicazione molto limitata in quello che è stato lo svolgimento storico successivo: gli entusiasmi degli iperglobalizzatori si sono andati pian piano smorzando con il tempo, soprattutto quando è stato necessario prendere atto di un certo ritorno dell’importanza degli Stati nazionali sotto il profilo per esempio del governo delle economie.5

Però un altro filone di analisi, che potremmo chiamare di co-smopolitismo delle élite, sottolinea come si sia dischiusa un’epoca

3 Cfr. P. Coulmas, Les citoyens du monde. Histoire du cosmopolitisme, Albin Michel, Parigi 1995.

4 Cfr. D. Held, Democracy and the Global Order: From the Modern State to Cosmopolitan Governance, Stanford University Press, Cambrid-ge 2000.

5 Cfr. U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005.

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di libertà di circolazione per il pianeta, di possibilità di svolgere percorsi di carriere in più luoghi nel mondo; questo approccio ha insistito per esempio sul fatto che esisteva un nuovo cosmopoli-tismo professionale, cioè che esistevano delle possibilità nuove di vivere delle carriere e dei percorsi di formazione (professionale, tecnica, personale) che non fossero più confinate a determinate realtà locali o nazionali.6 Si è sottolineato il fatto che diventava es-senziale, per il funzionamento delle grandi metropoli, una serie di professionalità, quelle che in gergo vengono dette high skilled, cioè professionalità con grandi competenze, “altamente qualificate” po-tremmo tradurre più semplicemente, persone che principalmente lavorano nelle nuove professioni “centrali”, come le chiamava il vecchio sociologo André Gorz. Egli sosteneva che nelle economie avanzate si era creata una realtà nuova, per cui si assisteva al pro-gressivo tramonto delle tradizionali professionalità legate alla pro-duzione materiale (quadri di fabbrica e impiegati) e all’irrompere invece di professionalità legate alla produzione immateriale (idee, progetti, know how, scienze, sapere, comunicazione ecc.). Queste competenze astratte diventavano fondamentali per la riproduzio-ne dei modelli economici, perciò i profili high skilled, assumevano un’importanza strategica nelle economie nazionali.7

L’osservazione delle traiettorie professionali degli high skil-led, i loro comportamenti sulla scacchiera delle “città globali” che spesso si disputano gli “altamente qualificati”, hanno pro-dotto degli studi sugli spostamenti di queste persone. È così possibile conoscere la ricostruzione delle vicende di gruppi di professionisti operanti nel campo delle comunicazioni piut-tosto che del software, dell’informatica, che per cinque anni vivono negli Stati Uniti, cinque anni a Londra, altri cinque anni in una metropoli emergente dell’ex (chiamiamolo così) terzo mondo (magari in India), poi vivono in Australia…

6 Cfr. T. Cresswell, On the Move. Mobility in the Modern Western World, Taylor & Francis, London 2006.

7 A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Borin-ghieri, Milano 2003.

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insomma un cosmopolitismo delle professioni.8 Però, come mostrano alcuni studi, queste dinamiche di spostamento non sono legate solo alla libertà personale, non si esprimono soltanto delle volontà di singoli indipendenti, autonomi che decidono dove, quando e come devono lavorare, ma molto spesso esprimono delle scelte di grandi compagnie, di grandi corporation multinazionali, che decidono della dislocazione dei loro dipendenti. Perciò, in realtà, questo gruppo di “no-madi globali” delle grandi professionalità mostra avere mar-gini di autonomia e di indipendenza molto relativi ed essere invece profondamente radicato su percorsi istituzionali di questo mondo dell’imprenditoria privata, che non vuol dire che non ci sia la libertà di cambiare. Ciò non vuol dire che il lavoratore high skilled debba per forza rimanere legato all’im-presa per cui lavora, però nel compiere tutti i diversi passaggi attraverso paesi, mondi, a volte anche attività, deve appog-giarsi a delle strutture “istituzionali”, che sono poi le strutture dell’azienda, che sia la vecchia di partenza, che sia una nuova di approdo; comunque in qualche modo questo nomadismo avviene prevalentemente sotto l’ombrello di un qualche tipo di realtà produttiva, lavorativa o aziendale di un determina-to genere, altrimenti incontra rilevanti difficoltà. Nonostante la libertà dei superprofessionisti venga spesso contrapposta ai muri e alle barriere cui si trova confrontato il “migrante nor-male”, anche queste libertà non sono poi così grandi come molti hanno ritenuto. Esistono reti, in questo caso dell’azien-da privata, e realtà che offrono un supporto, un puntello a questo cosmopolitismo delle professioni. Ci sono alcuni studi piuttosto interessanti in cui vengono analizzati i limiti di que-sto tipo di mobilità e di questo tipo di percorsi.9

Diverso invece è l’origine del discorso sul transnaziona-8 Cfr. J.V. Beaverstock, Transnational Elite Communities in Global Cities:

Connectivities, Flows and Networks, in «GAwC Research Bulletin», 63 (2001).9 S. Vertovec e R. Cohen (a cura di), Conceiving Cosmopolitanism.Theo-

ry, Context and Practise, Oxford University Press, Oxford 2002.

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lismo che nasce da un’analisi del mondo dei migranti e dei flussi migratori appunto “normali”. C’era un’immagine tradi-zionale e stereotipa del mondo delle migrazioni internaziona-li, che vedeva nel migrante una figura condannata a una serie di stazioni obbligate, di passaggi che rappresentavano un po’ delle piccole odissee personali. La sociologia delle migrazioni – così come si era andata costituendo come sapere discipli-nare e così come aveva funzionato almeno per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta – era legata a una concezione dei flussi migratori piuttosto statica, nel senso che esisteva un percorso, una catena migratoria, per cui il migrante partiva dal paese a e si trasferiva nel paese b, dove andava incontro a esperienze, difficoltà, avventure più o meno gradevoli. La dinamica attraverso cui veniva studiato il suo essere migrante era quindi una dinamica limitata a questa traiettoria da paese a a paese b, con eventuali processi di ritorno, quando magari era concluso il periodo della vita lavorativa (il vecchio pensio-nato greco, per esempio, che, dopo aver lavorato tutta la vita in Germania, tornava e apriva un negozietto sull’isola turisti-ca: questo era il tipico esempio del percorso a-b-a, percorso compiuto unicamente da una minoranza: i rientri avevano dimensioni contenute, alla fine pochi tornavano a Itaca).

Insomma, nell’ambito delle migrazioni da lavoro tutto avveniva all’interno di quello che in gergo tecnico potremmo chiamare un modello monodirezionale push and pull. Inoltre il mondo delle comunicazioni, l’universo comunicativo su cui si era formata questa immagine un po’ stereotipata del mi-grante come persona fondamentalmente sradicata, immersa in una realtà che non era più la sua, e che eventualmente po-teva progettare poi un rientro, una diversa stanzializzazione, era anche legata a possibilità di mobilità spaziale e geografica che erano sostanzialmente ancora quelle degli anni Settanta e Ottanta. Infatti una cosa è essere migrante nell’epoca del-la comunicazione generalizzata, in cui esistono i cellulari, è possibile con spesa irrisoria comunicare in tutto il mondo,

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ci sono i viaggi aerei low-cost, un’altra cosa è essere migran-ti in un’epoca in cui i viaggi aerei sono costosissimi, la nave impiega un mese a tornare in Italia dall’America Latina, le telefonate internazionali sono carissime e molte località, per esempio quasi tutte quelle terzomondiali, non sono raggiun-gibili telefonicamente. Questo vuol dire che nel giro di pochi decenni si è andato costituendo un intero universo nuovo, dal punto di vista della possibilità per i migranti di relazionarsi con parenti, amici, reti amicali, realtà lavorative che ha la-sciato nel paese d’origine. Non solo perché oggi viviamo nella società della comunicazione, in cui chiunque abbia impara-to a usare un computer può servirsi di Skype (non soltanto parlando, anche vedendo, interloquendo), ma anche perché nonostante l’infittirsi dei filtri, dei controlli e delle barriere, esiste oggi – quando se ne danno le condizioni anche dal punto vista burocratico e formale – la possibilità di andare e venire, di spostarsi tra più paesi, costruire reti di una sorta di “pendolarismo” tra più mondi. Non a caso il concetto di tran-snazionalismo è particolarmente forte e interessante, dato che vuole in pratica dire che esiste – per chi ha coraggio, energia e intelligenza sufficiente per farlo – la possibilità di giocare su più tavoli la partita della propria esistenza. È una partita che si gioca in parte sul tavolo del paese d’origine in parte sul tavolo del paese d’arrivo, che può non essere il primo dove si fa tappa nel proprio percorso migratorio, ma dove si scelga comunque di trasferirsi, in parte proprio su questa dimensione sospesa, transnazionale, che trascende i singoli paesi attraverso cui si transita.

Ludiger Pries ha scritto sul confine tra Stati Uniti e Mes-sico e sui messicani a New York:10 egli ha visto una crescente capacità da parte dei migranti di attraversare queste frontiere,

10 L. Pries, The Disruption of Social and Geographic Space. Mexican-US Mi-gration and the Emergence of transnational Social Spaces, in «International Socio-logy», XVI (2001), 1, pp. 55-74 e Transnationalisierung der sozialen Welt. Sozial-räume jenseits von Nationalgesellschaften, Suhrkamp, Frankfurt 2007.

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di vivere un po’ come jolly, sospesi tra mondi diversi, realtà diverse, e di riuscire ad acquisire competenze di tipo lingui-stico ed esperienziale che li mettevano in grado di scegliere su quale terreno potevano giocare meglio la partita della loro vita. In questa dimensione transnazionale, Pries ha quindi vi-sto una crescita di capacità soggettiva di definire, di scegliere la propria collocazione nel mondo, di pensarsi come apparte-nenti a più luoghi.

Altro saggio a suo modo interessante è quello di Zarifian,11 che scrive che oggi il migrante è un po’ nella condizione di certi gatti di città, che possono scegliere magari l’area urbana in cui vogliono insediarsi, e se hanno determinate caratteri-stiche vengono accettati dalla comunità felina, insediata in quella zona, che è pronta a riplasmarsi integrando i nuovi ar-rivati. Il paragone lascia un po’ il tempo che trova, ma l’idea è suggestiva, e il libro – un po’ enfatico per certi versi ma comunque molto interessante – descrive proprio vite di mi-granti, soprattutto di migranti con professionalità e qualifiche alte, che ormai si snodano tranquillamente attraverso due, tre, quattro paesi, senza che ci sia il prevalere di una realtà rispetto alle altre, una riserva di scelta opportunistica, una possibilità di cogliere le opportunità lì dove si vengono profilando nella maniera più chiara. Un dato di fatto, questo, confermato dal-la ricerca empirica, quando ricostruiamo certi percorsi di vita di amici senegalesi per esempio, che raccontano di traiettorie per cui dal Senegal si va un po’ di anni in Francia, però se in Francia le cose non vanno bene c’è l’Italia o la Spagna, poi si può tornare al paese per sei mesi a vedere se lì si è aperta qualche prospettiva di lavoro, si è accumulato qualche rispar-mio, se non va si riparte.12 Questa dimensione transnazionale

11 Ph. Zarifian, L’emergere di un popolo mondo, Ombre Corte, Verona 2000.12 F. Duevell ha parlato di dimensione «trans globale», in cui ci si sposta

potenzialmente per tutto il pianeta; cfr. F. Duevell, Some Reasons and Con-ditions for a World Without Immigration Restrictions, in «Acme: An Interna-tional E-Journal for Critical Geographies», 2 (2003), pp. 201-209.

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è dunque uno dei tratti che contraddistinguono la soggetti-vità di carattere contemporaneo; non solo: è anche possibile perché vi sono reti sociali, reti di appoggio e di sostegno, nel senso che come arrivo a Parigi vado a cercare il ristorantino “etnico” o arrivo già con quattro, cinque numeri di telefono, ho già una rete di conoscenti e parenti provenienti dal paese, dal quartiere, amici di amici, una rete che comunque mi offre appoggio e sostegno nelle prime fasi in cui devo riorientarmi nella nuova realtà.

Potremmo quindi argomentare che una delle grandi diffe-renze tra il cosmopolitismo degli high skilled e il transnaziona-lismo è che mentre il cosmopolitismo degli alti professionisti si poggia fondamentalmente su degli apparati di tipo istitu-zionale, sull’azienda (che a volte addirittura ti trova casa), il transnazionalismo è una dimensione che nasce dal basso, dal-la capacità e dall’abilità che il migrante acquisisce anche in contesti che non sono quelli di origine; perché per acquisire una dimensione transnazionale oggi bisogna aver preso un sacco di legnate; insomma è un apprendistato, un processo di apprendimento molto spesso segnato da durezze, da stress gravissimi, da difficoltà enormi e da eventi tragici; una situa-zione che però poi, grazie anche a queste reti sociali, permette elasticità e dinamicità, sconosciute non soltanto ai migran-ti di un tempo, alle vecchie migrazioni da lavoro, ma anche molto spesso agli stessi autoctoni.13 Il migrante (lo sappiamo anche vivendo la nostra esperienza quotidiana) molto spesso è come minimo poliglotta; chi ha seguito, dopo gli incidenti a Rosarno, le interviste ai lavoratori scacciati in malo modo e deportati avrà sentito che alcuni di loro si esprimevano in un inglese corretto, scolastico ma scorrevole; lo schiavo che raccoglie i pomodori probabilmente parla almeno due lingue

13 Per una rassegna di lavori su questi temi rimando a A. Petrillo e L. Queirolo Palmas, Sulle frontiere. Agency e catture, in «Mondi Migranti», VIII (2009), 2 , Franco Angeli, Milano.

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oltre alla sua lingua di origine, le parlerà male, in maniera a volte balbettata, però ha delle competenze linguistiche ed esperienziali che vanno molto spesso ben al di là di quelle degli autoctoni.

Un ultimo accenno all’appartenenza multilocale. Si tratta di un concetto che nasce da una riflessione in antropologia sull’“essere a casa in più luoghi” e che ha conosciuto una serie di applicazioni molto diversificate.14 Alcune letture attuali del concetto assumono invece una prospettiva più economica, per cui queste scelte dell’appartenenza a un posto piuttosto che a un altro verrebbero fatte principalmente secondo un’analisi costi-benefici; l’idea è che alla fine la partita dell’appartenenza del migrante si giochi su un’analisi molto attenta di quelle che sono le possibilità economiche delle singole realtà; esistono cioè delle griglie che cercano di cogliere questo aspetto per cui ci si basa su un criterio, un elemento di discrimine che, in base a questo tipo di studio interpretativo, sarebbe principal-mente di tipo economico.15

Questo è il quadro, assolutamente schematico, dei con-cetti che vengono oggi utilizzati dai ricercatori che studiano questi temi.

Occupandomi di città, di metropoli, in questo settore c’è l’aspetto di un filone teorico molto interessante, che ha sapu-to calare questo tipo di grandi trasformazioni nelle modali-tà di presenza dei migranti, nella loro soggettività, nella loro mentalità, nella loro maniera di muoversi attraverso i paesi del mondo, nello specifico delle modificazioni nelle grandi metropoli.

In particolare, nel filone dell’analisi delle città globali, tut-ti conoscono il nome di Saskia Sassen, ma in realtà prima

14 Cfr. J. Rolshoven, The Temptations of the Provisional. Multilocality as a Way of Life, in «Ethnologia Europaea», 37 (2008), voll. I-II.

15 Cfr. R. Nadler, Multilocality. An Emerging Concept between the Terms of Mobility and Migration, Unpublished Theoretical Paper for the Urbeur doctoral programme, University of Milan-Bicocca 2009.

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della Sassen è stato John Friedman a intuire che le grandi trasformazioni delle metropoli portavano anche in sé una mo-dificazione profonda delle loro componenti sociali. Quando Friedman scrive il suo lavoro fondamentale sulla World City Hypothesis,16 sulle trasformazioni delle grandi aeree metropo-litane del pianeta, intuisce che nelle metropoli sta nascendo una nuova classe globale, costituita dai cosmopoliti high skil-led di cui abbiamo parlato, i professionisti in grado di vivere indifferentemente cinque mesi a New York, otto anni a Cal-cutta, dodici anni a Sydney, continuando a mantenere più o meno lo stesso tipo di attività professionale e cambiando – a seconda delle opportunità che si presentano – carriera e pro-gresso economico.

La Sassen ha perfezionato quest’idea di Friedman e ha concluso che non c’è solo la classe globale; le grandi metro-poli emergenti hanno la caratteristica di rappresentare anche un enorme magnete, un grande attrattore, come dicono gli urbanisti, nei confronti dei migranti; questo fenomeno di attrazione di migranti che le grandi metropoli esercitano è un fenomeno che porta a una progressiva dualizzazione della struttura sociale della città.17

L’ipotesi della Sassen, per specificare meglio e usare i ter-mini che lei stessa usa, è un’ipotesi di polarizzazione sociale delle grandi concentrazioni metropolitane. Vuol dire che si avrebbe nelle grandi concentrazioni che oggi guidano l’eco-nomia mondiale un fenomeno di erosione dei ceti medi. Per-ché mutano le condizioni del lavoro, viene meno una serie di attività, per cui una classe operaia professionale perde oppor-tunità occupazionali, una moltitudine di quadri, intermedi di azienda, di piccoli impiegati vedono la loro attività o com-pletamente soppiantata dai progressi tecnologici (attività che

16 J. Friedman, The World City Hypothesis, in «Development and Chan-ge», 17 (1986), pp. 69-83.

17 S. Sassen, Città globali: New York, Londra e Tokio, Utet, Torino 1997.

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spariscono), oppure vedono addirittura la chiusura completa di intere branche produttive con l’esportazione di quelle atti-vità altrove.

È un quadro che gli storici dell’economia e dell’industria avevano già delineato a metà degli anni Settanta: l’idea che mano a mano che i mezzi di comunicazione progredivano ci potesse essere una dispersione planetaria di quelle attività che una volta erano concentrate in un unico stabilimento, in un’unica fabbrica.18 Infatti quello che succede oggi è che l’amministrazione della Swiss Air la tengono a Calcutta, a Bangalore, e invece gli annunci dell’aeroporto di Francoforte li danno da Los Angeles. Non è fantascienza, io stesso qualche anno fa ho sentito all’aeroporto di Francoforte gli annunci dei voli in diretta con un accento strano; ho chiesto a un dipen-dente dell’aeroporto e mi è stato risposto che i colleghi di Los Angeles in diurna fanno quello che da noi è il turno di not-te, perciò costano meno dei nostri, a cui dovevano pagare lo straordinario notturno, quindi gli annunci in diretta dell’ae-roporto di Francoforte li danno gli impiegati dell’aeroporto di Los Angeles.

Questo è il mondo attuale, e quindi si capisce anche perché certi mestieri, certe professioni spariscano e – come sostiene la Sassen – aumenti la polarizzazione sociale tra le nuove élite che svolgono i lavori importanti e una massa di lavoratori – più o meno indifferenziati, spesso migranti – che prestano servizi alla persona, esercitando lavori servili (babysitteraggio, giardinaggio, accompagnamento bambini a scuola, pulizia, badante, colf, pizzaiolo, pony express ecc.).

La Sassen calca ancora di più la mano e afferma che que-ste élite plasmano anche a modo loro le aree urbane in cui si trovano a intervenire: vogliono avere un piccolo mondo in

18 Ho approfondito questi temi in un lavoro di qualche anno fa: La metropoli nel nuovo capitalismo: riflessioni su alcuni aspetti della letteratura, in «Archivio di Studi Urbani e Regionali», XXXVI, 84 (2006), pp. 23-36.

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cui si ritrovano, per cui ci deve essere il teatro, ci deve essere l’opera, ci devono essere i Mc Donald’s se sono americani o comunque il ristorante tradizionale che frequentano al paese loro; riplasmano cioè un piccolo universo, creano delle città nelle città, al di là di quelle che sono le tradizioni locali, le architetture locali, i gusti delle persone del posto.19 C’è quindi un fenomeno di interazione, con le città globali stesse che – nella competizione fra loro per attirare i lavoratori altamente qualificati – partoriscono grattacieli per uffici, intelligence bu-ilding ecc., nella speranza di attirare così le grandi compagnie che renderanno quegli edifici la sede per i loro impiegati. A volte finisce male, come nel caso di Vienna, che ha costruito edifici intelligenti, centri commerciali, ma poi è arrivato sol-tanto un decimo dei lavoratori previsti e l’investimento si è così rivelato un colossale buco nell’acqua.20

Su questi temi della Sassen, è tornato ultimamente Richard Florida, teorico delle città creative, il quale addirittura ha svolto un’analisi su quelle che sono a parere suo le città che nel mondo vanno meglio, più all’avanguardia dal punto di vista di que-sta produzione intellettuale culturale che oggi secondo molti è quella veramente decisiva. Florida ha detto che la migrazione avviene quando c’è un determinato ambiente, una “movida”, una realtà urbana viva, vivace, di interscambio, di informazioni, di saperi, di cultura, giovani che arrivano, che hanno voglia di fare. Lì nasce una città creativa, le economie decollano, perché c’è un’élite intellettuale e culturale che è in grado di animare la vita urbana e di far sì che tutta una serie di saperi territoriali, di conoscenze locali ricada poi in quella che è la loro produzione di tipo intellettuale, artistico, culturale ecc.21

19 Cfr. A. Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci, Roma 2006.20 Cfr. S. Canepa, Donau City. La nuova Vienna sull’acqua. L’urbanizza-

zione della riva sinistra del Danubio e il nuovo skyline viennese nel XXI secolo, Tesi di dottorato in Storia dell’Urbanistica, Università di Roma, ciclo XIV (2004).

21 R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003.

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Il modello della Sassen è stato criticato, molti non sono d’accordo che esista questa polarizzazione esasperata. In un lavoro recente, molto bello, di Chris Hamnett su Londra, per esempio, si legge che nella capitale inglese le cose non vanno secondo il modello della Sassen, perché l’erosione dei ceti medi c’è ma è meno netta di quello che avviene negli Stati Uniti. La conseguenza più preoccupante è che vengono meno le possibilità occupazionali per i ceti medio-bassi, men-tre invece per chi appartiene già a ceti medio-alti comunque ci sono possibilità di espansione, di dedicarsi a nuove attività di tipo professionale, di crescita.22 Diciamo quindi che il mo-dello della Sassen ha trovato molte critiche in Europa, perché poi la dinamica delle città europee sarebbe diversa, essendo diversa la storia della città europea rispetto a quella delle gran-di metropoli americane.

Infine vorrei chiudere questo saggio con alcune note di tipo empirico.

Ho terminato da poco con un gruppo di colleghi al Poli-tecnico una grande ricerca comparata su sei metropoli euro-pee. Abbiamo messo a confronto l’andamento dell’economia e dei flussi migratori di sei città di livello medio-grande in Europa: Milano, Copenaghen, Barcellona, Monaco di Bavie-ra, Lione e Manchester.

Da questa ricerca è emerso che in realtà non è così chiaro se le élite internazionali circolino poi così tanto. La Germa-nia per esempio, in particolare Monaco, ha operato negli ulti-mi anni una politica particolarmente restrittiva nei confronti dell’immigrazione, salvo scoprire di avere un enorme bisogno di high skilled, di manodopera altamente qualificata, perché la città andava bene, l’economia tirava, le nuove attività – so-prattutto nel campo dei nuovi saperi astratti, della conoscenza e delle attività creative – funzionavano. Il fabbisogno di mano-

22 Cfr. C. Hamnett, Unequal City: London in the Global Arena, Rout-ledge, London 2003.

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dopera specializzata ha spinto perciò nel 2005 la Germania a varare una deroga alla legge sull’immigrazione per consentire l’ingresso dei professionisti high skilled, provenienti anche dal terzo mondo, purché in possesso di determinate competenze e purché venisse loro assicurato un certo tipo di reddito. Grazie a questo provvedimento sono entrati in Germania circa 3000 ingegneri indiani, di cui 1500 lavorano nella sola Monaco.

Monaco è però un caso particolare, ma anche altre città come Copenaghen, che hanno applicato una chiusura com-pleta verso l’immigrazione, si trovano ora nella condizione di dover da una parte cercare personale qualificato, e dall’altra dover combattere contro una serie di piccole norme che im-pediscono a queste persone di radicarsi sul territorio naziona-le. In Germania i professionisti entrati non possono effettuare ricongiungimenti familiari, anche quando sono stabili dal punto di vista professionale, se non a determinate condizioni. Un ingegnere indiano, che ha magari una certa età, un certo background, viene assunto, percepisce uno stipendio di oltre sessantamila euro all’anno, ma se vuole far venire sua moglie e i suoi figli dall’India, la moglie deve superare un esame di conoscenza della lingua tedesca, altrimenti non può vivere in Germania; così la donna deve in poco tempo imparare il tedesco a sufficienza per poter superare il necessario esame di conoscenza della lingua. In Germania viene inoltre eser-citato un controllo strettissimo sulla certificazione dei titoli: i migranti ad alta qualifica vengono sottoposti a una spietata verifica dei titoli di studio; non è sufficiente avere un titolo di studio di un’università straniera, bisogna anche dimostrare di avere competenze specifiche, attraverso esami che attestano la capacità di tradurre le competenze in lingua tedesca. Si può essere insomma un ingegnere nucleare bravissimo, ma se non si conosce la terminologia tedesca analoga a quella inglese su cui ci si è formati si rischia di essere allontanati.23

23 Rinvio a un lavoro in corso di pubblicazione: A. Petrillo, Flussi e

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Sull’ultimo numero di una rivista di sociologia di Colonia, molto orientata in senso empirico, c’è un lavoro davvero inte-ressante su questo aspetto del cosmopolitismo degli high skil-led in Europa. Da quel lavoro, basato sull’analisi di una serie di casi, emerge che in Europa questo tipo di cosmopolitismo è limitatissimo; molto spesso si va all’estero per fare esperien-za, i soggiorni sono brevi e soprattutto si rileva l’esistenza di cricche di potere locali, per cui lo straniero viene comunque marginalizzato e diventa difficilissimo procedere nella carriera al di là delle competenze possedute. In conclusione, questo nomadismo globale di professionisti, in Europa lo si registra e lo si percepisce ancora piuttosto poco, e soprattutto legato a periodi, a intertempi più che a dipanarsi di percorsi di vita, esattamente come nell’analisi dei nomadi globali di cui abbia-mo parlato prima.24

luoghi, in C. Ranci (a cura di) Città nella rete globale. Competitività e disu-guaglianze in sei città europee, Bruno Mondadori, Milano 2010.

24 Cfr. M. Pohlmann, Globale ökonomische Eliten? Eine Globalisierung-sthese auf dem Prüfstand der Empirie, in «Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie», IV (2009), 61, pp. 513-534.

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giuliano carliniIl rapporto fra immigrati e spazi cittadini:

rapporti interculturali nei quartieri

Quando si parla dei processi migratori e dei rapporti in-terculturali che ne derivano, occorre fare riferimento ai luoghi fisici dove questi processi avvengono. Bisogna partire dal ra-gionamento che gli immigrati vivono in posti e giocano ruoli che determinano per molti aspetti non solo il loro, ma anche il modo con il quale noi guardiamo gli altri. Innanzitutto è opportuno richiamare alla memoria quello che, per esempio, ha scritto Marco Aime1 sulla costruzione culturale dell’altro; di Salvatore Palidda2 ci sono alcuni elementi che mi interes-sano. Per primo, il richiamo forte da parte sua a considerare i processi migratori non come fatto a sé: la migrazione è un fatto totale, lo è sempre stato nella storia del mondo, ma è in maniera specifica un fatto totale nel tempo della cosiddetta globalizzazione: è strutturale a questo modo di organizzarsi e disorganizzarsi della convivenza su questo pianeta. Questo mi sembra un dato da non dimenticare mai; ma quando Pa-lidda parla di fatto totale, dice che noi non riusciamo a ca-pire veramente quello che succede se concentriamo la nostra attenzione su una fetta della popolazione, perché non è così

1 M. Aime, Eccessi di cultura, Einaudi, Torino 2004 e il saggio presente in questo libro.

2 S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008 e il saggio presente in questo libro.

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che funziona. Le modificazioni delle strutture, come mette bene in evidenza Arvati nel suo contributo in questo libro, sono modificazioni di una intera società e la posizione, la col-locazione, l’intervento, si devono situare sempre all’interno di questo tipo di processo. Questo è importante perché c’è un’operazione costante di cultura politica nel nostro paese che scardina questa visione e ne propone una che è falsa, ma redditizia nel breve termine sul piano del mercato politico, che è quella di concentrare tutti gli aspetti negativi della mo-dificazione di un processo su fette di popolazione, oggi gli immigrati, negli anni Settanta i giovani, in altre epoche le donne e così via. Settori della popolazione che assumevano una funzione fondamentale negli aspetti negativi dei processi di trasformazione. Non è così: la società si trasforma faticosa-mente in maniera complessa, e tutta insieme.

Le migrazioni sono una parte del processo, ma una parte che non può essere letta da sola. Per capire a fondo i movimen-ti migratori nella nostra città3 bisogna tenere in considerazione ciò che afferma Arvati, cioè che esistono momenti di passag-gio e questi momenti sono correlati: non è che da un lato ci fossero i cosiddetti autoctoni e dall’altro gli immigranti anzi, nell’Ottocento di autoctoni genovesi ce ne erano veramente pochi, c’erano e ci sono invece persone che arrivano e diven-tano autoctoni. Tutti noi siamo arrivati e diventati autoctoni nei confronti del processo migratorio successivo. Mentre al-cuni di noi, molti di noi, in alcune fasi specifiche “andavano a fare gli autoctoni” da un’altra parte. Il mio contributo vuole dire qualcosa su dove tutto ciò avviene. Tutte le cose citate dai colleghi nei contributi precedenti e successivi al mio hanno delle sedi fisiche che, nel quotidiano, definiamo con il termi-ne quartieri. La gente non arriva nella città ma in parti della città; per esempio tutti noi siamo di una città, ma non siamo di una città generica bensì siamo concretamente di un posto,

3 Genova [N.d.C.].

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piuttosto che di un altro, non perché ci viviamo, ma perché abbiamo un’immagine nostra situata e caratterizzata da luoghi. Quindi tutto avviene in luoghi, che normalmente chiamiamo quartieri. I quartieri hanno storie complesse, sono un nome dato a una realtà estremamente variabile e spesso indimostra-bile. Prendendo il caso genovese, se escludiamo l’area ristretta del centro storico, gli altri che noi chiamiamo quartieri sono in realtà quello che rimane di strutture di insediamento auto-nomo, paesi, parti non della città, ma parti dell’insediamento complessivo della nostra regione. Quindi noi ora li chiamiamo quartieri, li abbiamo chiamati quartieri da un certo momento in poi; ma ciò evoca un modo di lettura del territorio in cui le persone sono insediate che è essenzialmente di natura socio-politica (più politica che socio) perché a determinare dove ini-zia e dove finisce un quartiere sono delle norme amministrati-ve. Ciascuno di noi abita in un posto della città, non credo si preoccupi se per caso venendo a casa o andando al lavoro ha un piede in un quartiere e uno in un altro. Sono delle “cose” che vivono nei processi di immaginazione della nostra appar-tenenza, quindi nella nostra costruzione del sé e dell’altro. Al-lora chiamiamoli territori, perché questo è un termine che fa riferimento a qualcosa di abbastanza puntuale, ci evoca un dato in partenza fisico, geografico. Noi possiamo suddividere tutta la terra in territori. A noi interessano le persone in qual-che modo pro-tempore sistemate nei vari territori. Quindi per noi il territorio è soprattutto un processo di costruzione socio-politica perché noi, ma anche i poteri ai quali ci riferiamo, strutturiamo l’eterogeneità dello spazio nel quale viviamo se-condo delle linee, dei progetti; noi stessi leggiamo il territorio sulla base delle nostre concrete strategie di vita nel quotidiano. Ciascuno può benissimo disegnare nella sua mente il territorio in cui si svolge la maggior parte dell’esistenza, territorio che ha anche un riferimento fisico, ma soprattutto un riferimento di relazioni con persone, e questo mi fa dire che non si abita la città, ma si vivono dei percorsi che sono territori della propria

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esistenza. C’è un posto dove prevalentemente si dorme, uno dove si lavora, il posto dove si passano i momenti di gioia e tutto questo costituisce tutto insieme quello che ciascuno di noi chiama territorio. Ma anche i riferimenti di potere econo-mico, sociale, culturale costruiscono costantemente, attraverso processi, i territori, anzi dovremmo dire che i territori derivano da un progetto politico, non sono casuali in nessun momento della storia. Innanzitutto perché questo progetto politico ten-de a creare di volta in volta delle forme di identità collettiva; ecco perché in questo momento sono di moda i quartieri. Dal punto di vista amministrativo questa città non ha quartieri, ha i municipi. Credo che la maggior parte delle persone avrebbe difficoltà a definire i confini territoriali dei propri municipi, salvo chi lo fa per mestiere, perché in realtà non è lì che si si-tuano i territori, da nessun punto di vista. Tuttavia, come mai si sono costruiti i municipi? Dietro c’è appunto un progetto politico tendente a costituire, dal punto di vista della rappre-sentanza politica, delle identità collettive; le ripartizioni am-ministrative non nascono da ragioni fortemente legate al senso di appartenenza delle persone, nascono per altre ragioni. Per esempio, per delle ragioni di mercato politico, cioè stabilire una ripartizione della città che consenta concentrazione o de-concentrazione di atteggiamenti di propensione di voto di un tipo piuttosto che di un altro. Ci sono anche altri elementi, di carattere economico, legati alla struttura del mercato, mercato di ogni genere. Intere aree a un certo momento smettono di essere, per esempio, quartieri caratterizzati da specificità delle persone e diventano qualcos’altro. Basti pensare a cosa è suc-cesso negli anni nella zona che parte dall’attuale Fiumara4 e che arriva fino a buona parte della Val Polcevera. Quello che importa è che alcune parti hanno smesso di essere posti di un insediamento, sono diventate altre cose, per esempio luo-ghi di concentrazione momentanea di persone in movimento,

4 Centro commerciale genovese [N.d.C.].

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sono diventati luoghi privilegiati per scambi o, se preferite, luoghi privilegiati di consumo. Ciascuno di noi va all’Ikea, in momenti specifici della sua esistenza, ma nessuno di noi ha sognato, anche negli incubi peggiori, di sistemare la famiglia all’Ikea. Si va lì non necessariamente e non solo per ragioni di rapporti economici, può essere che ci si vada anche per ragioni legate a rapporti sociali; ci si va perché non si sa dove andare, in molti casi, lì alla Fiumara o in altri posti. Tutto ciò non è stato certo deciso da chi abitava in quelle zone, non faceva parte della strategia di queste persone. Ci sono altri criteri, il fatto è che, nella situazione attuale, i processi reali delle perso-ne sono processi di costante altalena tra fasi di deterritorializ-zazione e (ri)territorializzazione. Le persone che abbandonano il territorio e le persone che riconquistano il territorio, entrano nella costruzione del territorio stesso. I migranti non arrivano e rimangono migranti, i migranti entrano nei processi di ri-strutturazione del territorio, costituiscono insieme a tutti gli altri, naturalmente, nuovi territori. Ecco perché si può affer-mare che l’operazione di scindere e immaginare che a un certo momento un territorio diventi bravo, cattivo, bello o brutto è un’operazione mentale, di cultura politica che serve a dire che certe zone, certe aree assumono una colorazione di questo tipo, su cui si innestano strategie molto concrete che sono di carattere economico, sociale, politico, culturale. Ciò avviene perché ci sono processi localizzati nel tempo di concentrazione o deconcentrazione di presenza estranea o immaginata come estranea. È questo il dato che, perlomeno noi che facciamo ricerche empiriche, abbiamo messo in evidenza; tuttavia se i soggetti producono i territori, non li producono solo dal pun-to di vista materiale ma anche, e in certi momenti soprattutto, dal punto di vista dell’immaginario. I quartieri di cui parliamo sono al 90% creazioni fantastiche sia che li vediamo belli o brutti sia che li vediamo come posti che vogliamo abbando-nare il più presto possibile, comunque il dato portante è che sono costruzioni dell’immaginario anche se non senza elemen-

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ti concreti. Molti abitanti hanno con il territorio un rapporto limitato nel tempo e nello spazio, e quindi i loro quartieri, i loro territori sono costruzioni sempre meno verificabili nelle condotte del quotidiano.

Una città come Genova che ha una così alta percentua-le di anziani è una città in cui una parte consistente della popolazione non è più in attività produttiva. Questa parte cosa fa concretamente? Quello che conta è come si sviluppa la vita di queste persone, e la vita di queste persone si muove in un arco strettissimo del territorio, in spazi ristretti; questi diventano l’unica prova della loro immagine del territorio, aggiunta a un’altra finestra aperta di conoscenza del mondo, che è quella che frequentano con molta più consistenza, attra-verso i media, dove i territori vengono costantemente costru-iti sulla base di tesi, di cose che si vogliono far passare. Non c’è programma televisivo che non sia una ricostruzione, non esiste la finestra sul mondo, nessun programma televisivo è una finestra sul mondo. La televisione è una cosa attraverso la quale si fanno costruzioni che hanno una loro logica, ma se alla fine, nei tempi di vita che si hanno a disposizione, la par-te maggiore della relazione col territorio ci viene raccontata, ecco che allora ci si va costruendo delle immagini, migliori o peggiori, ma diverse dall’esperienza diretta. Si potrebbe cita-re a questo proposito la rivolta genovese del ’93. Io sono un abitante del centro storico e nel ’93 ero nel centro storico di Genova con mia moglie e mio figlio piccolissimo e abbiamo visto queste persone con i bastoni, persone che conosceva-mo e che sapevamo chi erano, solo che li conoscevamo in un’altra veste, non come persone che tutelavano l’ordine e la disciplina di un quartiere nei confronti dell’attacco di in-cursori di chissà quale paese; li conoscevamo come la rete di coloro che operavano nello spaccio, oppure come esponenti dei clan di controllo di zone del centro storico. Infatti per la questura era lo scontro fra diversi interessi relativi alle zone di spaccio del centro storico, a quel tempo molto più vivaci di

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adesso perché si era nella fase di espansione. L’immagine che si è diffusa è stata però quella che la concentrazione iniziale di immigrati di prima generazione abbia portato al degrado, tanto che si è dovuto ricorrere a vere e proprie deportazioni negli anni Sessanta, ma ciò era dovuto ad altri fattori, non l’arrivo degli immigrati di prima generazione aveva provocato un degrado della zona, ma il degrado della zona aveva attirato gli immigrati, la stessa ragione per la quale io ho potuto com-prare casa nel centro storico perché costava poco, adesso non potrei. Non è che le migrazioni arrivano e fanno decadere, ma arrivano perché in quelle zone esistono già delle situazio-ni problematiche. Quando le condizioni mutano nel centro storico, gli immigrati di prima generazione vengono spostati. Altri erano arrivati direttamente perché attirati dal mercato del lavoro e andavano nelle zone a quell’epoca costruite appo-sitamente nelle varie parti delle città.

La migrazione attuale ha seguito lo stesso tipo di proces-so, non appena si assesta la condizione di persone concre-te sviluppa nuove strategie di vita, come abbiamo fatto tutti noi. Il mercato ha segnato e condotto per mano la seconda migrazione attraverso situazioni molto concrete, per esempio quella del mercato delle abitazioni. In certe zone, operaie un tempo, è rimasto chi non poteva più andarsene, cioè gli an-ziani, oppure gli eredi vendevano a prezzo di liquidazione. Nel concreto i territori sono andati costruendosi sotto que-sto tipo di leggi e non perché gli immigrati abbiano deciso di concentrarsi in quella zona piuttosto che in un’altra, non perché ci sia tutta questa sorta di malvagità per cui le persone vanno coagulandosi per disturbare il prossimo. Però nella co-struzione del territorio compartecipiamo con risorse materiali ma anche culturali e di stili di vita, ogni volta il concreto del territorio viene co-costruito. I giovani hanno cambiato il volto di una parte del centro storico genovese, alcuni dicono in peggio, tanto che qualcuno ha scritto dei cartelli ridateci i drogati: perché poi alcuni giovani, andandosene in giro,

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disturbano molto più dei drogati, che intorno a mezzanotte sono belli fatti e non danno nessun fastidio. Mentre i gio-vani continuano a stare in vita, a bere e a fare rumore. Però è vero che questo è uno stile di vita che non caratterizza un settantenne. Questo avviene indipendentemente dall’esisten-za degli immigrati. Si tratta di elementi che sono legati a delle situazioni. Però gli immigrati portano ovviamente elementi di cambiamento. Per esempio in quartieri che erano diventati morti, se arrivano coppie giovani con figli, si creano situazioni che, coloro che si erano costruiti una visione del territorio nel tempo, non tollerano o considerano una rottura rispetto all’immagine buona, corretta e accettabile della situazione.

Gli immigrati sono pilotati nel loro spostarsi da normati-ve, da movimenti di mercato, da scelte che vengono operate in una zona piuttosto che in un’altra. Queste sono strategie immaginate che pilotano il comportamento delle persone e quindi creano i territori. In linea di principio non esistono territori totalmente precostituiti ma sono frutto di scelte che poi creano delle condizioni, delle possibilità. La zona della Fiumara, nel momento in cui c’era la fabbrica dell’Ansaldo era ben diversa. Da quel tempo ci sono stati dieci anni di de-cadenza pura, non provocata da drogati o immigrati; era una scelta operata a livello macro, che stabiliva che era finita l’era siderurgica. Si è costruita la Fiumara e da lì tutte le cose (cine-ma, palestra ecc.); gli amministratori comunali hanno detto: «Restituiamo alla città una vasta area», ma è stata restituita alla città teorica, perché la città pratica non si muove in que-sta direzione. Hanno costruito tre palazzi, la gente ha pagato profumatamente e cosa è la prima cosa che hanno chiesto? Di costruire una cintura che non consentisse a nessuno di entrare nelle zone verdi. Quindi non è stata una acquisizione da parte di chi abitava in queste zone ma è stata di fatto un’altra cosa. Il centro commerciale è una struttura privata. Allora benissi-mo, ma tutto ciò non ha niente a che fare con un quartiere, non ha niente a che fare con la storia vera o immaginata.

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Tuttavia continuano a vigere creazioni immaginarie, la gente vive in un certo modo, ma si immagina un altro territorio. Vi appartiene e se lo costruisce nell’immaginazione, anche gli immigrati partecipano a questo tipo di processo, anche quan-do la creazione di quartieri con caratteristiche immaginarie porta a quartieri di esclusione. Tra coloro che mettono i pa-letti, molti sono di origine immigrata. È ovvio questo, questo è quello che concretamente accade, quando vivo una situazio-ne compartecipo alla costruzione del posto ideale o presunto tale. Quindi i quartieri (territori) sono tutto ciò. Nel tempo breve si generano dinamiche relazionali: innanzitutto ci sono delle retoriche xenofobe che sono andate crescendo nel tem-po. Di fatto adesso registriamo che, soprattutto da parte della popolazione autoctona, ci sono delle retoriche xenofobe. Ci sono anche delle realtà di interazioni positive nelle dinamiche relazionali che constatiamo nei percorsi di ricerca concreta (per esempio il “vicino” che pur essendo immigrato è una bra-va persona…): ciò permette la convivenza in questi territori che talvolta sono esclusivi. Noi viviamo giorno per giorno le nostre strategie nel quotidiano e queste sono garantite dalle interazioni positive. Poi le retoriche xenofobe le riserviamo a momenti particolari, soprattutto se queste possono avere anche una resa sul piano del mercato politico, economico e sociale. Ricordo che quando non c’erano gli immigrati a Ge-nova, c’erano i tossicodipendenti; ricordo che cosa succedeva quando un Sert doveva essere sistemato da qualche parte, c’era la rivolta. Il Sert era una garanzia per la popolazione eppure non c’era verso, perché al Sert non ci andavano certo i tossici peggiori, ma solo quelli “addomesticati”, ma se si andava a scavare, la ragione principale era la svalutazione della casa.

In questo processo l’immigrato deve essere considerato al singolare, sono cioè le singole persone che entrano e si relazio-nano con i non immigrati: solo se si costruisce una situazione specifica allora sì che c’è il raggruppamento.

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luca queirolo palmasGangs attack! Diritto all’indifferenza

e protagonismo giovanile1

Primitivi urbani?

Proverò a illustrare alcune mie esperienze di ricerca che in qualche modo evocano le categorie teoriche che Agostino Petrillo ha illustrato nell’intervento precedente. Da circa cin-que anni studio il fenomeno delle gang; Genova è una piazza importante per l’affermazione di questo tipo di cultura della strada, una cultura giovanile che oggi, grazie alle migrazioni delle persone e degli immaginari, favorisce la costruzione di appartenenze transnazionali. Ma cosa sono le gang? Il senso comune ci inviata a pensarle come qualcosa che viene da fuo-ri – noi buoni loro cattivi –, un’orda di primitivi urbani, di soggetti barbari e violenti che portano qui pratiche e stili che non ci appartengono. Chi ha seguito un corso base di socio-logia si ricorderà della scuola di Chicago e del suo imperativo categorico molto semplice ed efficace: «Scendete per le strade, prendete il vostro taccuino e guardatevi attorno». Così facen-do, quei ricercatori esplorano lo spazio urbano – la Chicago degli anni Venti – e approdano negli slums, nei quartieri in

1 Il presente testo è la trascrizione rivista e modificata dall’autore dell’intervento da lui tenuto al ciclo di lezioni da cui ha preso spunto que-sto libro.

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cui viveva il proletariato migrante di quei tempi. In chi e in cosa si imbattono? Quartieri ghetto popolati in gran parte da italiani in cui la gang era la cifra dell’organizzazione sociale e morale dei migranti nelle loro forme di residenzialità e convi-vialità. Se rileggiamo un classico della sociologia come Street corner society. The social structure of an Italian slum,2 scritto da William Foote Whyte negli anni Trenta, appare evidente come le gang sono un tratto caratteristico della costruzione sociale dell’italianità, un dispositivo che articola un rapporto con un fuori, fa girare una macchina politica e nel mentre co-struisce un dentro pieno di relazioni. La forma-gang la trovia-mo così alle origini della sociologia americana nel momento in cui si confronta con la sedimentazioni delle migrazioni, in particolare quella degli italiani. È per questo paradossale che oggi, quando pensiamo alle gang, immaginiamo i primitivi urbani, qualcosa che viene da fuori, qualcuno arrivato a por-tare violenza nelle nostre ordinate città; e non vediamo che stiamo parlando di un fenomeno alle origini della sociologia, che ci parla anche della nostra storia di migranti.

Distanze?

Nel caso genovese, abbiamo provato a pensare questo ter-reno attraverso una dinamica di co-ricerca: non osservare e studiare le gang, quanto fare ricerca con le gang. Il che ha significato costruire dei meccanismi di fiducia, relazioni che ci hanno permesso di accedere a questi mondi. Se voglio de-scrivere un qualunque oggetto sociale, posso scegliere di guar-darlo dall’esterno, assumendo una visione positivista della scienza costruita sulla base della distanza. Qual è la garanzia della scientificità secondo questo approccio? La distanza del ricercatore rispetto all’oggetto di studio, che appunto viene

2 Titolo in italiano: Little Italy, uno slum italo-amercano [N.d.C.].

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costruito in quanto oggetto. Qui si è seguito un altro percor-so, che è appunto quello della scuola di Chicago, dell’etno-grafia, dell’immersione; essere e stare dentro significa provare a capire quali sono le rappresentazioni, i significati, i modi di vedere il mondo che i membri di un determinato gruppo costruiscono. Questo percorso è durato circa cinque anni e continua tuttora; di esso, dei suoi risultati ma anche delle sue ambiguità e contraddizioni, si trova traccia in numerose pub-blicazioni.3

Giovani e migranti

In che misura questo tipo di esperienze – le gang figlie in parte delle migrazioni – eccede la dimensione dello sta-to nazione, in che misura alludono a qualcosa che va oltre il gruppo – la street corner society – ed evocano invece una tra-sformazione globale del mondo in cui viviamo, una trasfor-mazione degli immaginari e di come questi immaginari circo-lano e costruiscono nuovi terreni di appartenenza che vanno al di là dell’essere italiani o francesi, articolando una nuova cartografia, in cui soggetti vulnerabili possono incontrare una dimensione di dignità e riconoscimento. Qual è l’importan-za di queste forme di socialità? Introduciamo le parole di un giovane delle periferie parigine estratte da un importante rac-conto autobiografico: «I nostri genitori non sono più se stessi, altrimenti come si spiega questo silenzio, sono stati costretti a tacere, a vivere in punta di piedi, a occupare poco spazio, ci si mette fra parentesi per turbare il meno possibile; i nostri nonni e i nostri genitori sono timidi e paurosi al tempo stesso, le qualità richieste a ogni persona sottomessa, a ogni buon colonizzato, a ogni buon aspirante all’abuso».4 Qui appunto

3 A questo proposito si veda la bibliografia [N.d.C.].4 H. Djouder H., Disintegrati. Storia corale di una generazione di immi-

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risiede una delle funzioni principali delle gang: fuoriuscire da questa messa fra parentesi, permettere a determinate categorie di soggetti invisibili di dire «io ci sono, io sono qui e tu mi devi guardare». La posta è in gioco è allora il capitale simbo-lico, l’accumulazione di un capitale guerriero (ecco la funzio-ne della violenza, della cura del corpo e della sua esposizione pubblica fra le gang): una lotta per il rispetto, per la dignità, una lotta per essere visti e per far sì che lo sguardo della società ricevente riconosca queste presenze.

Abbiamo iniziato a intervistare i membri delle gang dei giovani latinos a Genova e Milano nel 2005 e si siamo tro-vati di fronte alcune narrative ricorrenti: «Sono arrivato, la mamma che non vedevo da molti anni, la gioia del ritorno e dell’incontro, sono precipitato in una città estranea, una casa, quattro mura, la solitudine, il mio circuito di socialità nella città in cui vivevo rotto d’incanto e il desiderio di dare una ri-sposta a questa solitudine, provare a ricostruire un mondo di affetti, di riconoscimenti, di desideri attraverso cui fuoriuscire dalla condizione di migrante contro volontà». Ma chi è il mi-grante? Se seguiamo Sayad, il migrante è l’ospite che cammi-na a testa bassa: «Tu sei qui ma non sei a casa tua, lavora e stai zitto, non sei una persona, sei provvisoriamente qui in modo definitivo».5 Insomma Rosarno, per rimanere sull’attualità, è la cifra della tua esistenza; poi, forse, lo schiavo ha anche più titoli di studio, più cultura, più lingue conosciute del suo padrone. Cosa significa per un giovane praticare l’esodo da questa illusione del provvisorio? Illusione del provvisorio ali-mentata dalla cura di un mito del ritorno che mentre viene agito come proiezione permette paradossalmente di costruire carriere di residenza lunghe decine di anni.

I giovani che abbiamo incontrato nelle gang operano pra-

grati, Il Saggiatore, Milano 2007.5 A. Sayad, L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del prov-

visorio, Ombre Corte, Verona 2008.

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tiche di appropriazione dello spazio e del tempo nel momento in cui affermano: «Questa è casa mia, io qua ci sto, abito qui, qui ho diritto a costruirmi una vita che eccede la dimensione del lavoro». Proprio il lavoro costituisce l’altro grande mecca-nismo di legittimazione subalterna della presenza migrante: puoi stare fino a quando sei utile, sei utile fino a quando lavo-ri. Così, in virtù della legge Bossi-Fini e di altri e più recenti dispositivi di razzismo istituzionale, dopo sei mesi di disoccu-pazione diventi irregolare, diventi una persona potenzialmen-te soggetta a meccanismi di deportazione.

La violenza delle gang

Quando interpretiamo la violenza, almeno nel caso geno-vese e milanese, non scorgiamo nelle gang il sigillo violento di un mercato e di un insieme di interessi economici. Diffe-rentemente dall’esperienza americana, o a quella italiana del-le mafie, la funzione economica delle gang non consiste nel proteggere con la forza determinati mercati illegali: il furto, la ricettazione, la prostituzione, la droga, le armi. Nel caso da noi studiato la violenza si muove su terreni diversi, essenzial-mente simbolici; si muore per motivazioni meno materiali. Ho incontrato in carcere e discusso sulla funzione della vio-lenza con un ragazzo di vent’anni, ex Vatos Locos (nome di una gang operante in diversi paesi), detenuto per omicidio. Notorietà, rispetto, visibilità, essere qualcuno, uscire dal silenzio erano le parole e le espressioni usate per dare un senso alla violenza. Il paradosso è che questo giovane – sulla cui violen-za ci interroghiamo – è in cella nella zona dei protetti dove coabita con diversi ex poliziotti condannati per aver stuprato delle lavoratrici del sesso o per aver organizzato falsi sequestri di droga da rivendere poi sul mercato.

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Atlantico Latino

Le narrative che abbiamo incontrato vanno oltre Geno-va e vanno oltre i luoghi in cui sono incentrate. Chiamiamo questo spazio Atlantico Latino, perché la storia delle gang è la storia di un luogo, ovvero ha un’inerzia alle spalle, e del suo movimento; per esempio il giovane che ho intervistato in carcere fa parte di un gruppo il cui nome è Vatos Locos. Se leggete L’educazione di una canaglia di Bunker – la storia di un giovane criminale cresciuto nella Los Angeles degli anni Trenta – scoprirete come i chicanos (i messicani di Los Ange-les dell’epoca) esprimevano una cultura e un’estetica di stra-da che andava sotto il nome di Vatos Locos. Questa cultura viene mediatizzata attraverso un film californiano, girato con attori indiani, alla fine degli anni Settanta (Sangre por San-gre) abilitando così la circolazione di un immaginario globale su questo gruppo; in effetti ogni volta che usiamo il termine “gang”, non possiamo rimuovere dall’analisi del fenomeno l’influenza costitutiva delle industrie culturali, dal rap al reg-gaeton, dai fumetti al cinema. Immaginari in circolazione che contribuiscono a spiegare la tragica contingenza di un ragazzo di vent’anni nato in Perù, che si iscrive dentro questo logo globale dei Vatos Locos, che oggi vive in un carcere ligure per espiare una condanna per omicidio.

Uno dei padri fondatori dei Latin King, uno fra i grup-pi globali che abbiamo incontrato e frequentato durante la ricerca, porta il nome di Lord Gino: era il figlio di una emi-grante siciliana a Chicago negli anni Quaranta. In quell’epoca i Latin King erano sostanzialmente una forma di autodifesa, di organizzazione sociale dei migranti (italiani, ebrei, latinoa-mericani, portoricani) in relazione alla maggioranza wasp che teneva le redini del potere economico, materiale, simbolico. La storia dei Latin King, il loro viaggio, inizia negli anni Qua-ranta a Chicago e attraversa tutte le contraddizioni in cui si imbattono i subalterni; in essa ritroviamo una permanente

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oscillazione fra l’economia della strada, vivere della rapina e di reati predatori, e la politica della strada, ovvero i tentativi di organizzare i subalterni, garantendo loro altre fonti di dignità, rispetto. Il giovane che ho intervistato in carcere, prima della sua vida loca da bandito, lavorava come operaio metalmecca-nico nei cantieri navali, aveva un titolo professionale e guada-gnava 1700 euro al mese dall’età di diciassette anni. Questo dato biografico è la cifra di un processo più grande: la crisi del lavoro come fonte di identità collettiva. Un’identità operaia che non veicola più un senso di appartenenza, di desiderio, di trasformazione; da qui i Vatos Locos come terreno di fascina-zione e costruzione di un noi.

I Vatos sono un gruppo che nasce e si sviluppa nei vicoli della città, un gruppo assolutamente meticcio composto da latinoamericani, cileni, marocchini, italiani, i figli della mala tradizionale del centro storico; sono lo specchio, se vogliamo, di un’integrazione, lo specchio del meticciato di questa città. Questo il racconto dal carcere: «Be’, sono entrato perché i soldi erano facili, non dovevi lavorare, ti potevi alzare invece che andare a fare il turno alle sei di mattina a Sestri Ponente, ti alzavi alle 11, la sera entravi in discoteca ed eri un gran fico, tante donne, tanti soldi, tanto denaro, tante droghe, noi non siamo come gli ecuadoriani che si fanno il cafè (l’eroina fumata), noi o maria o cocaina, tanti soldi, c’erano dei furti, si facevano dei negozi, degli appartamenti e poi rimettevamo in circolo la roba rubata». Vedete come le cose sono sempre più complicate di quanto possano apparire: questa è la storia dei Vatos, una storia profondamente legata alla dimensione del codice della strada. I Latin King presentano invece uno sviluppo diverso, ma anche in questo caso assolutamente nomadico. Nel momento in cui intersechi l’economia della strada trovi anche il carcere e se trovi il carcere trovi anche le deportazioni; la deportazione è il grande meccanismo giu-diziario attraverso cui decine di migliaia di persone che han-no fatto l’esperienza delle gang in Usa ritornano in America

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Latina durante gli anni Ottanta e iniziano a fondare nuovi chapters, capitoli delocalizzati di queste organizzazioni. Così i Latin King arrivano in Ecuador alla fine degli anni Ottanta e alla fine degli anni Novanta si rimettono in viaggio, partendo per l’Europa e giungendo in Italia e Spagna nel 2002/2003. Questa è una storia di nomadismo, di individui che viaggiano e utilizzano le gang come testi e come strumenti attraverso cui accumulare capitale simbolico.

Osserviamo ancora l’esperienza dell’Associazione Ñeta; anche in questo caso, perché dovremmo trovare un ragazzo che rivendica tale identità di gang nei vicoli di Genova? Per-ché un ragazzo di sedici anni cresciuto nelle scuole genovesi giunge a dire io sono boricua? I Ñeta nascono da una storia assolutamente contingente, la lotta per l’indipendenza di Por-torico dagli Stati Uniti, una movimento degli anni Settanta precipitato infine in carcere, dove l’Associazione diventa una forma di auto-organizzazione dei detenuti; da Portorico l’As-sociazione viaggia, arriva negli Stati Uniti, dove alterna eco-nomia e politica della strada, e nuovamente incontra il carcere come orizzonte delle vite dei membri. Roberto Gatto era un detenuto, di origine italiana, e di passaporto ecuadoriano, pa-ese in cui viene deportato. Si avvia così la storia dell’Associa-zione Ñeta ai primi degli anni Novanta in Ecuador che appro-derà poi in Europa seguendo il corso delle grandi migrazioni dall’America Latina durante gli anni Novanta.

La traiettoria delle gang nell’America centrale – tutti avre-te visto le foto dei mareros, quelli brutti, tatuati in faccia – è anch’essa figlia di una circolazione globale, di persone e im-maginari. Maras in Centro America rappresenta il gruppo amicale; quando le maras si professionalizzano nel crimine e nell’economia della strada? Nel momento in cui esplodono i grandi riot in California. Ricordate Rodney King, il nero massacrato dalla polizia di Los Angeles, ricordate i riot che infiammano la città per circa una settimana? Quell’esperien-za si chiude con la deportazione di massa di guatemaltechi e

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salvadoregni verso l’America Centrale e da lì nasce una nuova cultura di maras e una nuova generazione di mareros in quei paesi.

L’Atlantico Latino è uno spazio di movimento, in cui cir-colano memorie (i Latin King e i Vatos hanno una storia di sessant’anni alle spalle, i Ñeta di quaranta), circolano scritture e testi fondativi (quello che i membri chiamano la “bibbia” o la “filosofia”) che consentono a distinti soggetti di appropriar-si di quell’esperienza e rifondarla in altri contesti. L’Atlantico Latino è uno spazio di partenze e di arrivi in cui la migrazione internazionale ha un ruolo fondamentale, così come lo hanno le deportazioni o le nuove tecnologie della comunicazione (il web, i blog, i siti, Skype, le chat, i social network). Come siamo entrati in contatto con questi mondi? Attraverso i ca-nali della comunicazione via internet, entrando nelle chat e provando a costruire delle procedure di incontro, di accre-ditamento, di fiducia. I vettori che trasportano le esperienze globali delle gang sono spesso culturali, come nel caso della musica rap o del reggaeton, inventato a Portorico e oggi balla-to in tutte le discoteche latine in Europa; in tale prospettiva le gang danno forma a culture giovanili transnazionali che uti-lizzano le nuove tecnologie delle comunicazione per costruire identità eccedenti le forme dello stato nazione.

L’autentico?

In uno spazio circolatorio come questo, dove sono possi-bili mille appropriazioni localizzate di loghi e icone che flut-tuano, si generano lotte e conflitti sulla definizione dell’au-tentico; per esempio molti episodi di violenza avvengono sulla base di contese fra gruppi rivali che reclamano la proprietà su uno stesso marchio. Cosa significa essere Latin King? Esi-ste l’autentico Latin King? Conviene viceversa pensare queste iscrizioni come segni che viaggiano e che vengono poi utiliz-

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zati sotto forma di franchising. Sappiamo infatti che l’auten-tico non esiste se non come finzione, che ogni testo culturale può essere appropriato a partire da determinati rapporti di potere e che il significato di questi testi culturali risiede pro-prio nell’appropriazione. Appadurai6 scrive pagine bellissime sulla decolonizzazione del cricket, una pratica, che insieme al tea club, rappresentava il segno distintivo dell’amministra-zione britannica in India; se eri inglese, colono e funzio-nario dell’Impero dovevi frequentare i tuoi simili, e il tuo essere passava attraverso pratiche culturali che ti definivano socialmente. Il cricket oggi è lo sport popolare per eccellenza in India, Pakistan, Bangladesh, un segno che è stato preso, sottratto all’amministrazione coloniale e cambiato completa-mente di significato; a distanza, di tempo e di spazio, nelle città dell’Emilia o nei parchi e nelle piazze romane è possibile imbattersi in giovani di origine indiana che giocano a cricket e attraverso quella pratica sportiva costruiscono rappresenta-zioni ed esposizioni pubbliche del sé.

Ciò che diviene cruciale è allora l’uso contingente, l’ap-propriazione, il lavoro della significazione. A Genova, a Mila-no, nelle culture della strada e delle gang che abbiamo incro-ciato, questi loghi – con le loro esotiche denominazioni dei gruppi – servono per dire «io esisto, guardami!». Ovviamente vi sono molte altre possibilità attraverso cui questa condizione di esistenza simbolica può essere affermata: chiese evangeliche, pratiche sportive, gang sono tutti spazi entro cui i subalterni accumulano visibilità e self-help. Oltre le retoriche che co-struiscono i mondi delle gang, articolate sull’idea costituente di una raza latina, nessuno dei membri da noi incontrati ha saputo rispondere in modo esauriente sulle caratteristiche di questa presunta raza; la raza è un contenitore, un ombrello, che in realtà significa altro. Samantha ha quindici anni, è cre-sciuta a Genova e per un periodo è stata la leader dell’orga-

6 A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001.

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nizzazione femminile dei Latin King; perché Samantha, una genovese, si iscrive dentro questo tipo di narrativa? Quando le chiediamo cosa è la raza latina, così ci risponde quasi sorpresa della nostra ingenuità: «… per me è il quartiere in cui vivo».

La sineddoche della raza

La lettura dell’integrazione risente spesso del nostro sguar-do coloniale, i migranti sono i primitivi che devono inserirsi ed essere civilizzati all’interno di una cornice culturale da noi definita. Loro si devono assimilare, e sono impensabili altre situazioni di interazione. Dentro le gang abbiamo intervistato ragazzi filippini, genovesi, siciliani, rom… tutti perfettamente a loro agio dentro questa narrativa della raza latina. Ma allora cosa c’è dietro, di che cosa è spia questa narrativa? In una figu-ra retorica chiamata “sineddoche”, la parte sta per il tutto.

In primo luogo occorre partire dai significati che i membri assegnano ai mondi che costruiscono; non abbiamo di fron-te vittime, ma soggetti che creano, in mezzo a mille vincoli, mondi sociali, soggetti capaci di fare casa (home-making). E dunque di quale sineddoche stiamo parlando? Quando ci sia-mo interrogati sul significato del nome – Latin King – che si attribuivano decine di migliaia di ragazze/i sparsi per il mon-do, alcuni membri del gruppo ci hanno invitato a questo tipo di riflessione: «Guardate un po’ il nostro e vostro crocifisso, Cristo, la croce, il segno di un omicidio, di una morte che viene indossato da milioni di persone, come se mettessimo intorno al collo un patibolo, una ghigliottina [e come non pensare allora al meccanismo classico di Goffman7 della tra-sformazione dello stigma in emblema]; tu mi dici che sono latino, che sono un migrante, sono l’ultimo e devo accudire i tuoi anziani o aggiustare le mattonelle nuove del tuo nuovo

7 E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Ombre corte, Verona 2003.

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bagno, non ho diritto alla voce, non ho diritto alla parola, non esisto e io vi dico invece che sono un Re e faccio sì che tutti coloro che si uniscano a me possano essere considerati come Re, una monarchia collettiva, perché qui sono tutti Re, tu entri in questo gruppo e sei un Re, sei una Regina, è bel-lissimo, ti fanno Re, ti danno un titolo nobiliare, puoi esser bello, puoi essere brutto, puoi essere ricco, puoi essere povero, puoi parlare italiano o no, se entri lì dentro sei considerato un Re e quando vai per le strade, nei campetti da calcio, nelle di-scoteche, i luoghi per noi importanti, vieni considerato come un Re».

La raza latina opera allora come sineddoche di una con-dizione di oppressione più generale rispetto a cui i membri delle gang da noi incontrati mettono in atto meccanismi di resistenza simbolica collettiva. Per questo è cruciale partire dai significati che i membri associano a determinate pratiche, evitando di ripararsi dietro una distanza ipotetica se vogliamo essere in grado di interpretare correttamente, dal punto di vista delle poste in gioco, le caratteristiche di un determinato mondo sociale.

Diritto all’indifferenza

La cifra della nostra interpretazione risiede nel concetto di agency, il protagonismo, la trasformazione di una doppia assenza in una doppia presenza. Il migrante, chi è? Secondo Sayad,8 è colui che ha abbandonato il paese da cui proviene, colui che non è riconosciuto nel paese in cui risiede, colui che vive nell’illusione del provvisorio. I membri dei gruppi da noi incontrati sono divenuti, si sono sentiti, raza latina in Europa, dato che in America Latina non utilizzavano questa

8 A. Sayad, L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del prov-visorio cit.

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maschera come forma di rappresentazione pubblica. Il latino è qualcosa di inventato e fabbricato; i giovani delle gang inter-vengono sui regimi di visibilità e invisibilità che articolano la loro presenza, provano a metterci le mani dentro spegnendo i riflettori che sono puntati loro addosso e costruendo dal basso altri fasci di luce. Spegnere i riflettori significa garan-tire anche un terreno di immunità; Hebdige, studioso delle culture giovanili, si interrogava sull’ambivalenza di queste pratiche: hiding in the light,9 come puoi nasconderti quando hai i fari puntati addosso, come costruisci un meccanismo di immunizzazione, di protezione, ma al tempo stesso come ti rappresenti e accedi allo spazio pubblico, scrivendo dal basso nuove forme di cittadinanza? Goffman,10 nel tratteggiare la figura di cittadino, indicava colui che gode di una “disatten-zione cortese”; disattenzione cortese significa che nessuno ha diritto a giudicare e intervenire sulla vita privata dei cittadini, arrogandosi il diritto di indagare sulla religione, l’etnia, gli stili sessuali, le preferenze politiche o gli orientamenti morali. Questa è la condizione del cittadino: non esiste alcuno sguar-do che in prima battuta possa esercitare il diritto a chiedere “chi io sia”, ottenendo spiegazioni e giustificazioni. Ecco, i migranti stanno in una condizione totalmente opposta, in cui tale disattenzione cortese non è mai garantita; c’è sempre qual-cuno che ha il diritto di interrogare e di chiedere spiegazioni. Porti il velo? Non sarai una pericolosa fondamentalista? Giri per la strada con un’estetica hip hop? Non sarai un membro delle gang? Sei meticcio e parli una lingua non comprensibile? Dovrò aver paura di te quando ti incontro perché in te vedo i segni del potenziale criminale? Ma che pezzi di carta avrai in tasca che mi garantiscano che tu non sia un clandestino? Molteplici sono gli sguardi e i poteri che possono permanen-

9 D. Hebdige, Hiding in the light. On images and things, Routledge, London-New York 1988.

10 E. Goffman, Stigma. L’identità negata cit.

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temente interrogare tali presenze, insinuando l’illegittimità dei comportamenti o della semplice esistenza.

Forse il primo terreno su cui contrastare il razzismo, di cui questo nostro paese è impregnato e dalle cui retoriche è attualmente governato, è la rivendicazione non tanto del di-ritto alla differenza, quanto di quello che Goffman chiamava diritto all’indifferenza, il diritto a essere chiunque e a definire sulla base di un principio di autodeterminazione quale faccia pubblica mostrare in un determinato spazio. Le esperienze che abbiamo provato a raccontare e di cui sono protagonisti i membri delle gang, agendo su un campo pieno di contrad-dizioni, di sangue e lutti ma anche di gioia e fascinazione, portano il segno di un esercizio di questo diritto all’indiffe-renza nel momento il cui affermano dal basso il diritto a esse-re chiunque e ad andare ovunque.

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alessandra balleriniAnalisi delle politiche dell’immigrazione

e del sistema giuridico italiano

Per parlare del sistema giuridico italiano in materia di immigrazione bisogna andare ad analizzare innanzitutto il cosiddetto “pacchetto sicurezza” (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, legge n. 94/2009). Non tutto il pacchetto riguarda l’immigrazione ma noi ci limiteremo ad analizzare solo le parti relative a questo argomento. In materia di im-migrazione il legislatore è particolarmente “pigro” e quindi anziché varare un testo unico, ovvero una legge unitaria che disciplini tutta la materia ex novo, si è limitato a integrare e modificare il “vecchio” decreto legislativo Turco-Napolitano del ’98, aggiungendone alcune parti e abrogandone altre. Pe-raltro il testo di legge del ’98 era già stato modificato con la legge cosiddetta Bossi-Fini del 2002. In definitiva il pacchet-to sicurezza ha aggiunto o abrogato parti della legge del ’98, come già modificata “a pezzi” nel 2002. Il risultato è quello di un testo di non facile lettura.

Incominciamo ad analizzare il pacchetto sicurezza a par-tire dall’articolo 11 della legge 94/2009 che recita: «Il coniu-ge straniero o apolide di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando dopo il matrimonio risieda le-galmente da almeno due anni nel territorio della Repubbli-ca»… La direzione intrapresa è quella di rendere più difficile l’acquisto della cittadinanza per uno straniero coniugato con

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un italiano, per cui, attualmente, per prendere la cittadinanza italiana bisogna avere la residenza successiva al matrimonio per due anni, poi richiedere la cittadinanza, concessa dopo circa tre anni. Se in questi cinque anni di tempo interviene la separazione dei coniugi, la cittadinanza non viene più conces-sa. Ciò è di per sé un assurdo giuridico, perché la separazione tra coniugi non annulla gli effetti civili del matrimonio, che restano validi fino al divorzio (tant’è vero che non ci si può risposare, tant’è vero che marito e moglie separati ereditano l’uno dall’altro fino al divorzio): pertanto gli effetti civili del matrimonio cessano con il divorzio, non con la separazione. Se sei straniero invece, gli effetti civili del matrimonio – al-meno quelli legati all’acquisto della cittadinanza – cessano con la separazione (una norma che ha validità soltanto per gli stranieri).

La legge 94/2009 stabilisce inoltre che per potersi sposare deve essere richiesto un documento attestante la regolarità del soggiorno: ciò sta a significare che chi non si trova in possesso del permesso di soggiorno non si può sposare. La disposizione è stata ufficialmente creata per contrastare il fenomeno dei “matrimoni truffa” (matrimoni contratti dagli stranieri solo per ottenere il permesso di soggiorno), ma in realtà si esten-de a tutti gli irregolari. Il fenomeno dei cosiddetti matrimo-ni truffa in realtà è assolutamente circoscritto e riguarda un esiguo numero di casi di irregolari coniugati con italiani, a fronte di un corrispettivo di denaro, al solo fine di ottenere il permesso di soggiorno. Il rimedio per questi rari casi esiste già: si tratta appunto del reato di truffa e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e come tale, se accertato, andrà perseguito e punito. Pertanto non si può, solo per il rischio che venga commesso un reato, vietare una condotta di per sé assolutamente lecita come quella di contrarre matrimonio col proprio fidanzato/a. Vietando i matrimoni per chi è privo di permesso di soggiorno, di fatto si impedisce anche a due fi-danzati, magari genitori di diversi figli, di “contrattualizzare”

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la loro situazione familiare solo perché non hanno il permesso di soggiorno. Questa norma, infatti, vale per tutti gli irregola-ri, non solo per chi si sposa con un italiano, ma anche per l’ir-regolare che voglia sposarsi con la propria compagna anch’essa irregolare (e quindi senza alcun interesse secondario).

Veniamo ora al reato di clandestinità introdotto sempre con il pacchetto sicurezza (art. 10 bis). Il reato di clandesti-nità prevede che chiunque faccia ingresso illegalmente e si trattenga nel territorio dello Stato venga processato e condan-nato come criminale. Fare ingresso e soggiornare sono due cose diverse. Fare ingresso nel territorio illegalmente è una cosa che non riguarda, in concreto, nessuno, nel senso che chi entra nel nostro paese, per circa il 90% dei casi, entra o con un visto di ingresso turistico o perché esonerato dal visto d’ingresso, provenendo da uno dei molti Stati che ha stipula-to un patto con lo Stato italiano (Brasile, Argentina e anche l’Ecuador fino al 2002), per cui sono sufficienti il passaporto e la disponibilità economica minima. Tuttavia, le persone che arrivano in Italia più o meno tranquillamente con un volo di linea o una nave di linea, per legge devono diventare clande-stini perché possono stare in Italia come turisti per tre mesi al massimo e, se anche trovano un datore di lavoro disposto a metterli in regola, devono comunque fare ritorno al loro paese. La pratica dell’assunzione internazionale (che si attua ogni due o tre anni con i cosiddetti flussi) prevede infatti che il datore di lavoro possa inoltrare richiesta di nulla osta all’as-sunzione (tramite una procedura complicatissima e intermi-nabile) solo in favore di un lavoratore che si trovi in uno di quegli Stati esteri per cui sono state riservate dal governo le quote di ingresso. Quindi tutte le persone che sono entrate in Italia per turismo, se anche trovano un datore di lavoro dispo-ste ad assumerle, allo scadere del termine massimo di tre mesi dall’ingresso nel nostro Stato diventano per legge “clandesti-ni”, così come sono clandestini per legge tutte quelle persone che hanno il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, che

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hanno lavorato in Italia per anni e che in un momento come questo, di crisi, perdono il lavoro e stanno per più di sei mesi disoccupati; scaduto il sesto mese non possono rinnovare il loro permesso di soggiorno, indipendentemente dal fatto che molto spesso vivono nel nostro paese da vent’anni, che hanno stipulato un mutuo sulla casa e che al loro permesso sono collegati anche la moglie e i figli: perdono tutti il permesso di soggiorno e diventano clandestini. Inoltre si deve dimostrare di avere non semplicemente un lavoro, ma un lavoro in rego-la, per cui ci sono tantissime persone che perdono il permesso di soggiorno anche continuando a lavorare, loro malgrado, in nero, magari convinti di avere un lavoro in regola mentre in realtà il datore di lavoro non ha più versato i contributi, a loro insaputa. Questo è un caso classico: il migrante non può dimostrare che è in regola e di fatto non lo è con l’Inps, ma non è colpa sua e così diventa clandestino. Quando si parla di persone irregolari in Italia sono perlopiù persone che sono en-trate regolarmente; c’è una piccola parte che però nel nostro immaginario è quella preponderante ed è quella di coloro che arrivano su barconi sovraffollati. Categoria che ormai non esi-ste quasi più, visti i respingimenti in acque internazionali. In ogni caso è da sottolineare che coloro che riescono ad arrivare via mare in realtà non sono irregolari clandestini, ma richie-denti asilo (per questo i respingimenti sono di fatto illegitti-mi) e quindi non solo regolari, ma degni della maggiore con-siderazione e tutela. Se approdano e se riescono a presentare la domanda da rifugiato prima di essere rinchiusi e rimandati indietro sono richiedenti asilo a tutti gli effetti, ma per come ci viene proposta la legge, questi entrano irregolarmente. Il problema è che non esiste un “visto” per richiedenti asilo e oltretutto chi viene nel nostro paese irregolarmente quasi mai ha un passaporto, tenendo conto che è scappato e non è rico-nosciuto dal proprio governo: è irregolare per forza di cose.

Veniamo ora all’aggravante della clandestinità introdotta con la legge n. 125/2008. Il legislatore prevede che se una

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persona è priva di permesso di soggiorno e commette un rea-to, per esempio un furto, venga imputata, invece che di furto semplice, di furto aggravato, che comporta quindi la pena aggravata di un terzo: non ottenere più la condizionale e an-dare in carcere. In teoria le aggravanti nel nostro codice sono legate a una condotta, viene punita maggiormente una con-dotta perché maggiormente odiosa o pericolosa (per esempio perché si è agito con particolare crudeltà ecc.), ma qui non appare così. L’esempio classico è quello del concorso di perso-ne in un reato: se un immigrato va a rubare la medesima cosa, nel medesimo posto, con un amico italiano, per l’italiano è furto semplice e se ne va via subito, ma per il clandestino è furto aggravato, va in galera pur avendo tenuto entrambi lo stesso comportamento. Viene così di fatto sospeso l’articolo 3 della nostra costituzione: non siamo più uguali di fronte alla legge. L’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; è compito della Repubbli-ca rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, im-pediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». Occorre specificare che con la parola “cittadini” non si intendono i soli cittadini italiani, ma cittadini del mondo (benché esista una corrente minoritaria di giuristi che sta proponendo l’interpretazione “cittadini ita-liani”).

È da notare come molto spesso si diventi clandestini, quin-di criminali, senza aver fatto nulla: si può perdere il permesso di soggiorno perché non si ha più un lavoro. Altro caso è quel-lo dello straniero che da minorenne diventa maggiorenne: i bambini sotto i diciotto anni non possono essere considerati clandestini, essendo minori: lo diventano appena compiuta la maggiore età. Una volta che i clandestini vengono di fatto

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etichettati come criminali non viene prevista immediatamen-te la pena detentiva, ma viene loro comminata una sanzione penale pecuniaria (il pagamento di un’ammenda da 5000 a 10.000 euro) che difficilmente può essere riscossa nei con-fronti di persone senza soldi, conto in banca e proprietà. Si finisce quindi per assegnare loro un decreto di espulsione, che li avrebbe colpiti in ogni caso, anche in assenza del reato di clandestinità.

A questo proposito mi sembra interessante aprire una pa-rentesi sull’espulsione. Il governo nel 2009 ha disposto espul-sioni con accompagnamento coatto soltanto 9000 volte circa. La politica di espulsione è di fatto inattuabile perché costa: accompagnare uno straniero nel paese d’origine vuol dire pa-gare il biglietto aereo a lui e alla scorta (di almeno due perso-ne, che poi devono tornare indietro e magari anche dormire una notte in trasferta). Pertanto, le espulsioni vengono attua-te sotto forma di autoespulsione: è lo straniero che in cinque giorni deve lasciare il paese. Nel caso in cui la persona non ci riuscisse o deliberatamente non lo facesse, si apre il carcere: arresto, processo per direttissima, carcere da uno a quattro anni. Anche per questo motivo le carceri sono piene di immi-grati. Questa disposizione è del 2002, introdotta con la Bossi-Fini (art. 14 comma 5 ter). In alternativa all’allontanamento coatto o all’ordine di lasciare il territorio, la legge prevede il trattenimento dell’immigrato in un centro di identificazione per sei mesi, e se, trascorso il termine, lo Stato non riuscis-se comunque ad affrontare il costo dell’allontamento coatto, allo straniero viene consegnato l’ordine di autoespellersi a sue spese entro cinque giorni. E se non se ne va? Da uno a quattro anni di carcere.

Altro problema legato al reato di clandestinità è che questo comporta che tutti i clandestini non possono avere a che fare con lo Stato, alla luce dell’articolo 371 del codice penale che prevede il reato di omessa denuncia: tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio hanno l’obbligo di denun-

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ciare un reato di cui sono a conoscenza. In questo caso il reato non viene compiuto: il reato è nella persona. In teoria, quindi, qualsiasi persona che venisse a contatto con stranieri senza un permesso di soggiorno (infermieri, medici, dirigenti scolastici, insegnanti ecc.) dovrebbe denunciare il reato di clandestinità. Dopo l’entrata in vigore del reato di clandestinità, da più par-ti ci si è interrogati se gli stranieri senza permesso di soggiorno potessero andare in ospedale e se, recandovisi, incorressero nel rischio di essere denunciati. Questo perché se da una par-te c’è il codice deontologico dei medici e l’articolo 35 della Turco-Napolitano (poi rimasto uguale in tutte le altre leggi, attestante che chiunque, anche senza permesso di soggiorno, ha diritto alle cure essenziali e urgenti da parte delle strutture sanitarie pubbliche senza incorrere in nessuna segnalazione all’autorità), che danno una risposta affermativa alla possibili-tà di andare in ospedale, dall’altra c’è il reato di clandestinità e l’obbligo di denuncia, che, al contrario, sostengono che i clandestini si devono segnalare. Cosa prevale? Oltretutto si profila anche una violazione dell’articolo 32 della costituzione che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

I diritti inviolabili dell’uomo sono indivisibili, per forza, sempre, vuol dire che se questi diritti vengono limitati a una categoria di persone non è che l’altra categoria ne gode di più. Il diritto alla salute è quello che rende meglio questo concet-to: se il mio diritto alla salute è meno tutelato, è meno tutela-to anche il suo; se una persona non si può curare all’ospedale e ha una malattia contagiosa, può contagiare anche tutti gli altri. Il 27 novembre 2009 il ministro Maroni ha poi emesso una circolare interpretativa per chiarire che le cure essenziali e urgenti sono dovute anche agli stranieri senza permesso di soggiorno, e in questo caso nessuno può segnalarli. Bisogna però tenere conto che le circolari non possono cambiare le leggi, essendo solo lettere inviate da un ministro a determi-nate istituzioni.

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La legge stabilisce inoltre che gli atti dello stato civile, le licenze e le autorizzazioni non possono essere rilasciate a chi non ha il permesso di soggiorno (una norma che in parte va-leva già prima per le sole autorizzazioni e licenze); se non si ha il permesso di soggiorno non si possono ottenere una licenza per venditore ambulante, la residenza e gli atti dello stato civile, tra cui i certificati di nascita e di morte. Pertanto, se un’immigrata clandestina, una volta partorito, si reca all’ana-grafe per riconoscere il figlio, si trova davanti l’incaricato di un pubblico servizio che può denunciarla, e comunque non potrà ottenere l’atto di stato civile, e quindi non potrà ricono-scere suo figlio. Tuttavia, lo Stato italiano non prevede che ci siano figli non riconosciuti, perciò il neonato viene dichiarato in stato di abbandono e quindi immediatamente adottabile, e per assurdo cittadino italiano. Alla madre senza permesso di soggiorno viene tolto il figlio perché non può riconoscerlo e lui è cittadino italiano immediatamente adottabile, probabil-mente da una famiglia italiana. Anche qui il ministro Maroni ha inoltrato una circolare interpretativa (agosto 2009) con la quale si precisa che, considerato il rifiuto degli atti di stato civile a chi non ha il permesso di soggiorno e considerato con-temporaneamente che l’atto di riconoscimento di un figlio è un atto nell’interesse del minore (mai clandestino), l’atto può essere concesso. La circolare non ci dice se la madre può essere segnalata oppure o no per il reato di clandestinità, e comunque una circolare, come ho già detto, non cancella una legge. Un caso analogo potrebbe capitare con la richiesta di un certificato di morte, caso sicuramente meno grave, ma che comunque comporta la lesione dei diritti della persona (per esempio, per far rimpatriare la salma di un defunto è necessa-rio il certificato di morte).

La legge predispone anche l’obbligo di chiedere il permes-so di soggiorno in capo a tutte le agenzie e le attività finan-ziarie che effettuano movimenti di denaro all’estero, di cui gli stranieri usufruiscono per mandare soldi a casa.

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Per i ricongiungimenti familiari, poi, è previsto che le anagrafi dei paesi d’origine non valgano più per ricostruire le parentele: nel caso in cui sorga un dubbio, l’ambasciata ita-liana nel paese di origine può richiedere il test del dna, un test ovviamente costosissimo e che va fatto sui due parenti nei due paesi. Non sarà più possibile inoltre richiedere il visto d’ingresso se il nulla osta non verrà rilasciato dopo 180 giorni dal perfezionamento della pratica. In questo modo non ci sa-ranno più limiti alle lentezze burocratico-amministrative.

Vorrei concludere, infine, sfatando il mito della stretta relazione fra immigrazione e aumento della criminalità, con-nessa alla percezione del fatto che siano in maggioranza gli stranieri a delinquere. In realtà non è così. È vero che le car-ceri italiane sono piene di stranieri (a Genova, a Marassi, più o meno il 50% sono stranieri extracomunitari), ma in realtà gli stranieri delinquono più o meno come gli italiani. Soprat-tutto è curioso vedere come, a fronte di una crescita nume-rica degli stranieri (nel 2007 erano 144.000, adesso si stima siano quattro milioni e mezzo), i reati, quelli gravi contro la persona, non siano aumentati, anzi siano diminuiti: si può quindi facilmente dedurre che l’aumento degli stranieri non ha incidenza sui reati gravi. In realtà, gli stranieri affollano le nostre carceri per una serie di ragioni, una delle quali molto tecnica: non possono usufruire di misure alternative. È molto difficile che uno straniero possa usufruire degli arresti domi-ciliari, non avendo il permesso di soggiorno, una residenza e un domicilio. Poi c’è anche una questione assoluta, di mezzi economici: usufruiscono dell’avvocato d’ufficio, che spesso non può rintracciarli perché non hanno un domicilio, i pro-cessi vanno avanti in contumacia e così vengono condannati. Inoltre, come ho già chiarito prima, perché vengono creati dei reati che possono commettere solo gli stranieri: c’è in pratica un diritto penale speciale per gli stranieri, vedi l’introduzione del già citato reato di clandestinità.

La legge Bossi-Fini prima, e le modifiche apportate col

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cosiddetto pacchetto sicurezza poi, hanno creato un vero e proprio diritto penale speciale per gli stranieri: vale a dire che sono state ideate dal legislatore alcune fattispecie di reato e circostanze aggravanti applicabili solo agli stranieri. Si prenda per esempio la citata circostanza aggravante della clandestini-tà: in base a questa norma (che aggrava la pena della medesima condotta criminosa esclusivamente in base allo status del reo e non alla pericolosità della condotta medesima), se un italiano e uno straniero rubano la stessa cosa, lo straniero senza per-messo di soggiorno rischia il carcere perché gli si applicherà l’aggravante speciale con aumento della pena di un terzo, e l’italiano no perché gli verrà applicata la condizionale.

Se si valuta il tasso di criminalità tenendo conto di alcune variabili quali età, sesso, regolarità/irregolarità del soggiorno, etnie, si deduce che le persone straniere con un progetto di vita, e quindi “integrate”, commettono meno reati rispetto agli italiani.

In seguito all’introduzione del reato di clandestinità – nor-ma evidentemente incostituzionale perché viola il principio di uguaglianza e punisce le persone per quello che sono e non per quello che fanno – se, come si stima, i migranti irregolari in Italia sono circa 700.000, c’è il rischio che i dati del gover-no, se letti in maniera superficiale e tendenziosa, indichino la presenza sul territorio, quest’anno, di 700.000 criminali in più, tutti stranieri.

Il cosiddetto pacchetto sicurezza prevede altri reati specia-li creati ad hoc per gli stranieri: il migrante che viene fermato dalla polizia e non ha con sé, oltre alla carta di identità, anche il permesso di soggiorno in originale, rischia un anno di car-cere e duemila euro di ammenda. Di anni di carcere ne rischia quattro lo straniero inottemperante all’ordine di autoespeller-si, ovvero all’intimazione a lasciare il territorio dello Stato in cinque giorni contenuta nel decreto di espulsione.

Concludendo, è necessario ricordare che gli esseri umani non dovrebbero mai essere considerati illegali né da uomini

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che si professano di fede né da uomini che dovrebbero essere di legge. Il numero altissimo di stranieri in carcere è frutto di una scelta politica che si traduce in procedure repressive, costose e insensate. La percezione di maggiore insicurezza che alcune forze politiche e alcuni mass-media creano ad arte pro-duce una maggiore repressione nei confronti degli stranieri e il carcere diventa lo strumento principale, se non l’unico, di intervento sociale a queste problematiche. L’integrazione è evidentemente un’altra cosa e, senza una politica che investa su questo, non può esserci nessuna vera sicurezza.

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bianca baggianiImmigrazione e criminalità: il caso italiano

Introduzione: cenni teorici sul concetto di devianza

Prima di proporre alcuni cenni statistici e teorici specifici del fenomeno criminalità-immigrazione sul caso italiano, è utile definire il concetto di devianza sociale e riportare alcune delle teorie sociologiche che tentano di spiegare atteggiamen-ti e comportamenti deviati e/o criminali. «La devianza è un atto, una credenza o un tratto che viola le norme conven-zionali della società e che determina una reazione negativa da parte della maggioranza delle persone».1 Per Émile Dur-kheim2 è proprio nella mancanza di norme sociali (anomia) che si annida il comportamento deviato. Successivamente il sociologo americano Robert Merton riprese e riadattò questa idea,3 sostenendo che «la devianza è provocata da situazioni di anomia, che a loro volta nascono da un contrasto fra la struttura culturale e quella sociale»:4 quando le “mete” e gli obiettivi da raggiungere (per esempio il successo economico)

1 E. Goode, Deviant behavior, Prentice-Hall, Londra 2001; citato in M. Barbagli, A. Colombo e E. Savona, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna 2003, p. 13.

2 É. Durkheim, Le suicide, Alcan, Paris 1897.3 R. Merton, Social theory and social structure, The Free Press, Glencoe 1949.4 A. Bagnasco, M. Barbargli e A. Cavalli, Sociologia, Il Mulino, Bologna

1997: vol. I, p. 221.

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imposti dalla società sono troppo pressanti si generano ano-mia e devianza. Se non ci si conforma alle mete culturali e ai mezzi istituzionalizzati conseguenti per raggiungerle, il rischio è quello di creare una tensione (da qui il nome di “teoria della tensione”) che porta gruppi eterogenei di individui a “cade-re” nel comportamento deviante. C’è chi abbandona le mete ma resta fedele alle norme sui mezzi leciti, c’è chi rinuncia a entrambi, c’è chi rifiuta mete e mezzi condivisi sostituendoli con altri e c’è chi, invece, pur continuando ad ambire alle mete proposte, decide di perseguirle utilizzando altri mezzi non istituzionalizzati. «La criminalità usa mezzi socialmente devianti per perseguire i fini dominanti».5 Questa teoria ci aiuta a spiegare il comportamento deviante di alcuni gruppi sociali, come i giovani immigrati e i cosiddetti immigrati di seconda generazione, che sostituiscono i “fini dominanti” del paese di provenienza o di origine con quelli del paese di ap-prodo o di nascita. «Vi sono alcuni [migranti] che vengono in Europa a fine esplorativo, per conoscere di persona la vita di quei paesi di cui hanno sentito parlare innumerevoli volte a scuola o alla televisione. E ve ne sono altri che emigrano proprio per gettarsi nei consumi di quei beni pubblicizzati dai mezzi di comunicazione di massa. In un caso e nell’al-tro, ancora prima di partire, questi migranti hanno assorbito la meta del successo economico nel paese dove andranno e hanno scelto come gruppo di riferimento gli abitanti di que-sto paese. E alcuni, quando si rendono conto che raggiungere questo obiettivo non è loro consentito, scelgono la strada del-le attività illegali»;6 e ancora su questo punto: «La teoria della tensione e della privazione relativa ci aiuta anche a spiegare le differenze fra immigrati di prima e di seconda generazione. […] Se gli immigrati della seconda generazione hanno com-

5 Pozzi; citato in S. Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti, Fondazione Cariplo-Ismu, Milano 2001, p. 12.

6 M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, Il Mulino, Bologna 2002, p. 182.

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messo sempre più reati di quelli della prima è almeno in parte perché diverso è il loro gruppo di riferimento e più elevate le loro aspirazioni».7

Negli anni Trenta il sociologo americano Thorsten Sellin8 parlò di “conflitto di culture” per spiegare il fenomeno della de-vianza. Delineò tre situazioni tipiche di conflitto: 1) alla fron-tiera di zone di culture diverse; 2) al momento della “conquista/annessione” da parte di un paese o di una comunità di un altro paese/comunità a cui imporre le proprie norme di comporta-mento; 3) al momento in cui un gruppo emigra verso un paese con norme di condotta molto diverse dalle proprie di partenza. I migranti portano con sé nel paese di approdo un bagaglio culturale, valoriale e di esperienza già ben definito e «finché questi migranti non avranno subito un processo di risocializza-zione, finché non avranno abbandonato i valori e le forme di comportamento della società di partenza per fare propri quelli della società di arrivo, il conflitto si ripresenterà».9 Se questa teoria può aiutarci in parte a spiegare alcuni fenomeni delle prime migrazioni del Novecento (vedi il “delitto d’onore” de-gli emigranti siciliani in America o il costume, sempre sicilia-no, della fuitina), attualmente sembra non poter più spiegare i comportamenti criminosi maggiormente frequenti in quanto, gran parte degli atti criminali, valutati anche nei nostri dati, sono oggi sicuramente condannati in tutte le società e spesso l’insistenza su presunti atteggiamenti culturali diversi è più una costruzione sociale priva di riscontri empirici concreti.

Di impostazione molto diversa è la teoria del controllo so-ciale, la quale vede nell’uomo un animale naturalmente por-tato alla devianza, e che, partendo da questo assioma, tenta di spiegarci la conformità. Sono i controlli e i legami sociali che frenano e limitano la naturale inclinazione dell’indole umana

7 Ibid., p. 180.8 T. Sellin, Culture Conflict and Crime, Social Science Research Council,

New York 1938.9 M. Barbagli, A. Colombo e E. Savona, Sociologia della devianza cit., p. 32.

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a delinquere. Travis Hirschi10 individua quattro elementi base dei legami sociali, che agiscono da freni inibitori: l’attacca-mento, l’impegno, il coinvolgimento e le credenze. I legami affettivi rendono più difficile compiere atti che le persone alle quali siamo “attaccati” disapproverebbero; gli sforzi e le ener-gie impiegate per il raggiungimento di obiettivi importanti rendono più sconveniente la disonestà, quando la posta in gioco da perdere è alta; il coinvolgimento temporale dimi-nuisce il tempo libero non organizzato a nostra disposizione per violare le norme e, non ultimo, l’interiorizzazione di nor-me morali e di condotta ci inibisce dal compiere atti deviati. Molte sono le ricerche svolte sul canovaccio di questa teoria nell’America della prima metà del Novecento, tra le tante si possono citare la ricerca di Thomas e Znaniecki11 sui conta-dini polacchi immigrati negli Stati Uniti (1918-20) o quella di Frederic Thrasher sulla città di Chicago.12 Per quest’ultimo il problema della criminalità delle seconde generazioni nasce-va da una “americanizzazione” troppo rapida dei figli degli immigrati, che aveva disintegrato i meccanismi di controllo sociale e familiare e accelerato i comportamenti criminali di questi. Secondo Marzio Barbagli la teoria del controllo sociale può servire a spiegare «perché, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei, in Svezia gli immigrati della seconda generazione violano le leggi meno spesso di quelli della prima. In Svezia infatti il welfare system promuove in vario modo l’in-tegrazione dei figli degli immigrati. Nelle scuole per l’infanzia a questi bambini viene insegnata la lingua madre, in modo che essi restino in contatto con la cultura d’origine. E sia in queste che nelle scuole elementari, essi vengono sottoposti a

10 T. Hirschi, Causes of deliquency, University of California Press, Ber-keley-Los Angeles 1969.

11 W.I. Thomas e F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in Ame-rica, Comunità, Milano 1968 [ed. orig. 1918].

12 F. Thrasher, The gang: a study of 1313 gangs in Chicago, University of Chicago Press, Chicago 1927.

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programmi di educazione compensatrice che mirano a ridur-re i loro svantaggi sociali iniziali e a rafforzare i legami tra questi ragazzi e gli insegnanti».13 L’ultima teoria che si ritiene di prendere in esame è la teoria dell’etichettamento. Un com-portamento deviante non è deviante in sé ma così è etichet-tato dal comune sentire. Quando all’individuo che compie un atto deviante viene applicata l’etichetta di deviato dalla collettività, e sulla base di questa vengono riesaminati anche i suoi comportamenti passati, la stigmatizzazione e l’isolamen-to a cui l’individuo incorre lo porta a proseguire il cammino deviante intrapreso e a tessere relazioni sociali con gli altri outsiders ai margini della società. Una profezia autoavverante che imprigiona gli individui ad agire secondo l’etichetta che gli è stata imposta dall’esterno.14

La situazione italiana: uno sguardo ai dati

Al 31 dicembre 2009 si contano 68.258 detenuti nelle carceri italiane, di cui 24.067 stranieri, per un’incidenza stra-niera del 37,15%. Da fine 2000 l’incidenza straniera sul to-tale dei detenuti è cresciuta di 8 punti percentuali, passando dal 29,3% del 2000 al 33,32% del 2007, al 37,15% attuale, a fronte di una popolazione straniera residente sul territorio nazionale più che raddoppiata. Infatti se nel 2000 si conta-vano 1.464.589 stranieri residenti, oggi le stime dell’Istat si aggirano tra i 3,8 e i 4 milioni. L’incidenza straniera sul totale dei reati ascritti ai detenuti è cresciuta dal 18,2% del 2000 al 23,3% del 2007, arrivando al 30,1% del 2009. Questa for-te accelerazione registrata in soli due anni deve tenere conto delle nuove disposizioni in materia di immigrazione contenu-

13 M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia cit., p. 178.14 E.M. Lemert, Social pathology: Systematic approaches to the study of

sociopathic behavior, McGraw-Hill, New York 1951.

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te nel testo cosiddetto “pacchetto sicurezza”, che introduce il reato penale di immigrazione clandestina. Guardando infatti alle fattispecie di reato più ricorrenti ascritte ai detenuti stra-nieri, i reati contro la legge sugli stranieri passano dal 4,8% del 2007 al 7,7% del 2009. Rispetto al 2007 crescono i reati in materia di droga (dal 24,8% al 32,4%) e i reati contro la pubblica amministrazione, che passano dal 5,4% al 7,2%, tra i quali si annoverano violenza e resistenza a pubblico ufficiale e il reintrodotto “oltraggio a pubblico ufficiale”. Diminuisco-no parallelamente i reati contro il patrimonio e la persona (tab. 1).

Si possono confrontare questi dati con quelli che riguar-dano l’intera popolazione detenuta (italiani più stranieri). I reati contro il patrimonio, droga e persona rappresentano più del 50% dei reati ascritti sia che si parli di soli stranieri, soli italiani o totale dei detenuti. Per quanto riguarda i reati contro la persona la percentuale si attesta sul 17% per tutte e tre le categorie prese in considerazione, differenze più mar-cate si riscontrano nei reati di droga che, se per gli stranieri rappresentano il 32,4% dei reati ascritti, per i soli italiani la percentuale scende al 15,9%. Per gli italiani un 9,5% è rappresentato dai reati contro la legge sulle armi, tipologia che non compare in questi termini per i detenuti stranieri (2,1%) (tab. 2).

Guardando ai reati con maggiore incidenza degli stranie-ri sul totale al 31 dicembre 2009, non sorprende il 96,3% dei reati contro la legge sugli stranieri. Rimane sempre molto alta e stabile nel tempo l’incidenza nei reati di prostituzione (81,2%), mentre conosce un’accelerazione la percentuale di incidenza sui reati di droga, che passa dal 40,1% del 2007 al 46,7% di fine 2009. Cresce di oltre 10 punti l’incidenza nei reati contro la fede pubblica che arriva al 41,1%, intenden-dosi tutte quelle tipologie di reato che implicano la contraffa-zione, alterazione di beni, prodotti, atti, documenti e denaro ecc. L’incidenza straniera sui reati contro la persona rimane

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pressoché stabile, così come quella sui reati contro il patrimo-nio (24,2% nel 2007, 25,9% nel 2009) (tab. 3).

Per un confronto più approfondito sembra utile riportare i dati per tutte le fattispecie di reato per gli anni 2000, 2007 e 2009 (tab. 4).

«Che la presenza degli stranieri negli istituti di pena sia fortemente aumentata è indubbio. […] Ma vi sono molti buoni motivi per considerare questo come il meno affidabile degli indicatori dei reati commessi nel nostro paese da citta-dini non italiani. In primo luogo, è noto che si entra e si resta in carcere per ragioni del tutto diverse: per custodia cautelare, in attesa di giudizio, e in esecuzione di pena, dopo la con-danna definitiva. Ma, a parità di reato commesso, la custodia cautelare è imposta più spesso agli stranieri che agli autocto-ni. In secondo luogo, a parità di pena, gli stranieri godono meno degli italiani delle misure alternative e di pene sostitu-tive alla detenzione. In terzo luogo, i reati commessi di solito dagli stranieri sono proprio quelli che più spesso portano in carcere».15 Su questo terzo punto i dati presentati sembrano confermare questa tendenza. Per quanto riguarda le misure alternative al carcere è interessante riportare gli ultimi dati del ministero di Grazia e Giustizia al 31 dicembre 2009 (tab. 5).

Gli stranieri detenuti che hanno goduto di misure alter-native alla detenzione nell’anno 2009 rappresentano il 14,2% del totale degli incarichi gestiti, a fronte di una popolazione straniera in carcere, al 31 dicembre 2009, del 37,15% sul to-tale della popolazione detenuta. «La stessa esclusione del de-tenuto straniero dalle misure alternative al carcere e quindi da progetti di reinserimento sociale e la contemporanea impos-sibilità di espulsione, produce un effetto perverso che fa ine-vitabilmente aumentare la popolazione carceraria straniera».16 Su questo tema vanno letti anche alcuni dati riguardanti il

15 M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia cit., p. 53.16 S. Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti cit., p. 73.

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provvedimento di indulto del luglio 2006. Al settembre 2006 la percentuale di detenuti stranieri sul totale dei detenuti è ri-masta pressoché invariata (passando dal 33% al 32%) perché pochi hanno beneficiato del provvedimento, nonostante «i detenuti stranieri imputati di reati di bassa gravità siano sem-pre proporzionalmente di più dei detenuti italiani e malgrado la loro alta percentuale in custodia cautelare […] la percen-tuale di stranieri sul totale è rimasta invariata».17

Analizzando invece l’andamento delle denunce per gli anni 2001-2005, si registra che le denunce contro autori stra-nieri sono cresciute nel quinquennio del 45,9%, e l’incidenza delle denunce contro stranieri sul totale dei denunciati è pas-sata dal 17,4% al 23,7%, con un aumento del 36,2% (fon-te: Dossier statistico Immigrazione Caritas/Migrantes 2009 – presentazione della ricerca). «Nella grande maggioranza dei casi gli stranieri sono imputati di reati meno gravi rispetto agli italiani o soltanto di reati propri alla condizione di immigrati, oltre a essere palesemente privilegiati nelle attività di control-lo e repressione da parte delle polizie. […] Si tratta appunto delle prede facili, soprattutto per quegli agenti di polizia che si autorizzano una discrezionalità che diventa libero arbitrio, trasformando questo tipo di sorvegliati in prede redditizie da tanti punti di vista: sono molto ricattabili; possono fornire informazioni e persino diventare confidenti; possono essere derubati di beni preziosi o di denaro senza conseguenze».18 Si rileva difatti un’incidenza straniera maggiore per reati connes-si con la condizione stessa di immigrato e per reati considerati di “minore gravità” (tab. 6).

Guardando al tasso di criminalità generale per il 2005 (rapporto tra le denunce presentate contro autori noti e il totale della popolazione di riferimento) questo si attesta per

17 S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migra-zioni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p. 133.

18 Ibid., p. 126.

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gli italiani allo 0,75%, per immigrati regolarmente residenti (fonte Istat) per l’1,41%, per immigrati regolarmente sog-giornanti (stima Dossier) per l’1,24% (fonte: Dossier stati-stico Immigrazione Caritas/Migrantes 2009 – presentazione della ricerca). A questo punto va tenuto conto, per la lettura di questi tassi, della diversa composizione anagrafica delle due popolazioni di riferimento (italiani e immigrati). «Le variabili più fortemente correlate con il comportamento deviante sono il genere e l’età. […] Le probabilità che una persona commet-ta un reato crescono molto rapidamente durante la preadole-scenza e l’adolescenza, raggiungono il valore più elevato un po’ prima o un po’ dopo la maggiore età e scendono di nuovo bruscamente dopo di allora».19 Guardando all’incidenza sul totale delle condanne per fasce di età (anno 2004), si nota che il 95,5% delle condanne a carico di stranieri si concentra nella fascia di età tra i 18 e i 44 anni, per quanto riguarda gli italiani la percentuale di incidenza per questa fascia di età scende al 73,7%. Alla luce di questo viene ricalcolato il tasso di criminalità per fasce di età per l’anno 2005 (Fonte: Dossier statistico Caritas/Migrantes 2009 – presentazione della ricer-ca): italiani 18-44 anni: 1,5%; 45-64 anni: 0,65%; immigrati regolarmente residenti (fonte Istat) 18-44 anni: 2,14%; 45-64 anni: 0,5%; immigrati regolarmente soggiornanti (stima Dossier) 18-44 anni: 1,89%; 45-64 anni: 0,44%. «La diffe-renza tra italiani e stranieri si concentra tra i ventenni e i tren-tenni, una fascia di età in cui è più frequente che gli immigrati inizino la loro vicenda migratoria. Dai 40 anni in poi, quando l’inserimento si è consolidato, il tasso di delinquenza è mi-nore degli italiani. Se anche tra gli italiani i giovani di 18-44 anni fossero il 92,5% del totale, le denunce per questa fascia di età aumenterebbero di più di 200.000 unità e, nel com-plesso, la popolazione italiana avrebbe un tasso di criminalità dell’1,02%, molto vicino all’1,24% registrato per la popola-

19 M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia cit., pp. 69-70.

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zione immigrata regolare. Considerando poi i reati commessi in quanto stranieri (con infrazioni legate alla normativa che li riguarda in maniera specifica) si conclude che il tasso di delin-quenza tra italiani e stranieri è equiparabile».20

Questa è brevemente la fotografia dell’Italia “criminale” al 31 dicembre 2009. Possono questi dati confermare e ali-mentare l’allarmismo sociale o ne minano le ragioni alla base? Possono questi dati fomentare la percezione di insicurezza dell’“uomo della strada” ed essere interpretati come la con-ferma di una maggiore indole criminale dello straniero o al contrario presentano essi stessi l’infondatezza di tale percezio-ne? La valutazione di questi dati «può essere oggetto di con-troverse interpretazioni: sono a volta usati come prova di una maggiore attitudine criminale di alcune nazionalità piuttosto che di altre, oppure come la prova di una maggiore crimina-lizzazione dei primi rispetto ai secondi. Al di là delle interpre-tazioni strumentali, e al di là della stessa banale, ma anch’essa strumentale, opposizione tra l’idea che i migranti sarebbero buoni e quella che sarebbero devianti per definizione o tra col-pevolezza dei migranti e colpa dei paesi dominanti, ci sembra comunque evidente che il fenomeno acquista oggi un’impor-tanza mai avuta nel passato (innanzitutto per quanto riguarda l’uso politico-mediatico che ne viene fatto)».21

L’ipotesi della sostituzione

È interessante riportare la distribuzione geografica della popolazione straniera detenuta sul territorio nazionale. Va precisato che la distribuzione degli stranieri residenti sul terri-torio italiano è caratterizzata da forte disomogeneità: «Decisa

20 Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2008. XVIII rap-porto sull’immigrazione, Edizioni Idos, Roma 2008.

21 S. Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti cit., p. 77.

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concentrazione nell’area settentrionale e, in misura inferiore, nelle regioni del Centro: più di uno straniero su 3 risiede nel Nordovest, il 26,9% nel Nordest e il 25% nel Centro, solo il 12,5% nel Mezzogiorno».22 A questo va sicuramente aggiun-to il dato che nel corso del 2007 «l’aumento di popolazione straniera si è verificato in maniera generalizzata su tutto il ter-ritorio italiano, ma in misura relativamente superiore laddove era minore il numero degli stranieri residenti. In particolare, nel corso del 2007 nel Sud e nelle isole si è osservato un incre-mento pari, rispettivamente, al 26,2% e 25%. Le regioni con l’incremento massimo sono la Calabria e la Basilicata (+44,5 e +42,7%) seguite dal Molise (+29,7%), mentre regioni stori-camente molto attrattive per l’immigrazione dall’estero, come la Lombardia o l’Emilia-Romagna, hanno avuto incrementi relativi più ridotti (rispettivamente 11,9% e 15%)».23

Come illustrato dalla tab. 7, la differenza nella popolazione detenuta tra Centro-Nord e Sud del paese è lampante. Il terzo rapporto Antigone24 sulle condizioni di detenzione del 2003 poneva già l’enfasi su questo punto e i dati rilevati al dicembre 2009 confermano la tendenza già evidenziata in quella sede. La regione Campania, nel 2009 come nel 2003, mantiene il “record” di regione con meno incidenza straniera sulla sua popolazione detenuta, contando l’11,7% della popolazione totale detenuta, così come contemporaneamente il Veneto si configura, tra le regioni del Nord a popolazione detenuta nu-mericamente considerevole (4,9% della popolazione detenuta totale), quella a maggiore incidenza straniera. I dati riportati qui non sono confrontabili con quelli a cui fa riferimento il rapporto Antigone, in quanto presi da fonti diverse (ministero di Grazia e Giustizia per quelli del 2009, elaborazione su dati

22 Caritas/Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2008. XVIII rap-porto sull’immigrazione cit., p. 74.

23 Ibid., p. 74.24 G. Mosconi e C. Sarzotti (a cura di), Antigone in carcere. Terzo rappor-

to sulle condizioni di detenzione, Carocci Editore, Roma 2004.

108

Dap per quelli di Antigone 2003), ma sembra comunque op-portuno riportarli per chiarire le analogie riscontrate. Al 31 dicembre 2003 la percentuale di detenuti stranieri sul totale dei detenuti parte dal 14,2% della Campania e dal 15,1% della Sicilia, passa per il 44,7%, 44,1% e 41,6% rispettiva-mente di Lombardia, Piemonte e Lazio, e arriva alla punta di 53,4% della regione Veneto.

Il rapporto Antigone avanzava due ipotesi a spiegazione del fenomeno dell’abissale differenza tra Centro-Nord e Sud nella composizione della popolazione detenuta: «1) Le agen-zie di controllo istituzionale nelle regioni del Sud sarebbero chiamate a confrontarsi prioritariamente con forme strutturate di criminalità autoctona, ancora in grado di contendere allo Stato il controllo sul territorio ma anche capaci di mantenere una sorta di monopolio sulle attività illegali (spaccio di stupe-facenti, gestione della prostituzione, furti e ricettazioni) per le quali gli stranieri sono in prevalenza sanzionati a livello nazio-nale. 2) Il processo di criminalizzazione dei migranti sarebbe in queste regioni attenuato anche dalle possibilità di costoro di inserirsi nelle economie informali come braccianti e lavora-tori a giornata. Tale possibilità, strettamente dipendente dalla conformazione dei mercati del lavoro locale, contribuirebbe a rendere meno esposti a percorsi di delinquenza i migranti privi di uno status di regolarità giuridica (clandestini nell’accezione mediatica) ovvero consentirebbe loro di sopravvivere più age-volmente nelle condizioni di precarietà tipiche di un’economia degli espedienti. Il lavoro irregolare a giornata o stagionale, pur estremamente gravoso e sottopagato, permetterebbe infatti a questi immigrati irregolari di far fronte a costi di mantenimen-to significativamente contenuti rispetto a quelli delle regioni centro-settentrionali. Avallando l’idea che l’inserimento nei mercati del lavoro informali costituisca l’alternativa più plau-sibile e percorsa alla delinquenza, avanziamo quindi l’ipotesi che il suo rapporto con il costo della vita e con una diffusa tol-leranza culturale e istituzionale possa paradossalmente favorire

109

chi lo persegue nelle regioni economicamente meno sviluppate del paese».25

Molti sono gli studiosi che avanzano l’ipotesi della “sostitu-zione” degli stranieri immigrati agli italiani, ipotesi che abbrac-cia quindi allo stesso modo sia l’analisi del mercato del lavoro e dell’andamento di domanda e offerta di lavoro (lavori che gli autoctoni non accettano più di fare ecc.) sia il mondo della criminalità. Barbagli ritiene che guardare al mondo della cri-minalità con gli schemi concettuali degli economisti del lavoro non riesca a delineare un quadro efficace e completo della que-stione criminale e soprattutto tali schemi non possano essere applicati a tutti i tipi di reato. L’ipotesi della sostituzione per Barbagli sembra essere più convincente per quanto riguarda il mondo dei mercati illegali (stupefacenti, ricettazione ecc.) dove autoctoni e immigrati entrano in competizione sulla stessa seg-mentazione di mercato. Palidda, tra gli altri, guarda all’ipote-si della sostituzione da un altro punto di vista, ovvero quello dell’oggetto dell’azione repressiva da parte delle autorità. «I dati confermano il fatto che il processo di sostituzione degli italiani con gli stranieri si afferma nel Centro-Nord mentre nel Sud e nelle isole sono ancora i giovani e minori autoctoni ad essere l’oggetto principale dell’azione repressiva, poiché sono ancora questi che incarnano quella questione sociale che di fatto tende ad essere trattata come questione criminale»26 e ancora «in re-altà nel Sud sono ancora la devianza e la delinquenza locali ad essere l’oggetto privilegiato dell’azione repressiva e allo stesso tempo non vi è molto spazio per una devianza o delinquenza di immigrati trattandosi di zone saturate da locali, dove la so-stituzione di questi con lo straniero è ancora allo stato iniziale o è parziale».27

25 Ibid., pp. 172-173.26 S. Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti cit., p. 73.27 Ibid., p. 80.

110

Conclusioni

Si è cercato in questa sede di analizzare brevemente alcuni punti fondamentali della questione criminale e carceraria ita-liana, con la consapevolezza che ognuno degli argomenti toc-cati meriti un necessario approfondimento sia teorico che sta-tistico. La domanda posta a conclusione della panoramica sui dati recitava: «La valutazione di questi dati può essere oggetto di controverse interpretazioni: sono a volta usati come pro-va di una maggiore attitudine criminale di alcune nazionalità piuttosto che di altre, oppure come la prova di una maggiore criminalizzazione dei primi rispetto ai secondi». I dati e le informazioni riportate non sono in grado di poter rispondere affermativamente a una o all’altra interpretazione, ma voglio-no invitare a guardare al fenomeno immigrazione-criminalità fuori dagli schemi allarmistico-mediatici e “lombrosiani” che spesso invece accompagnano questo tipo di ragionamenti.

«Il postulato principale consiste nella considerazione che in ogni periodo storico e in ogni contesto quasi tutti i migranti sono suscettibili di conoscere tre principali tipi di inserimento ed anche di possibilità di passaggio da uno all’altro:– l’inserimento regolare/legale;– quello informale;– quello deviante/legale.

È particolarmente importante sottolineare che non solo l’approdo ad una di queste tre condizioni, ma anche l’even-tuale passaggio dall’una all’altra dipende dal contesto. Nella storia delle migrazioni si sono sempre verificate congiunture maggiormente favorevoli all’inserimento regolare o alla rego-larizzazione delle situazioni di irregolarità e congiunture in cui invece il passaggio dall’informale e dall’illegale alla regola-rità è stato difficile se non impossibile».28

28 Ibid., p. 17.

111

Tab. 1. italia. Reati ascritti ai detenuti stranieri (primi cinque capitoli di reati).

2000 2007 2009Legge droga(38,5%)

Contro il patrimonio (28,1%)

Legge droga(32,4%)

Contro il patrimonio (19,1%)

Legge droga(24,8%)

Contro il patrimonio (20,1%)

Contro la persona(14,3%)

Contro la persona(19,2%)

Contro la persona(16,9%)

Legge stranieri(3,6%)

Contro la p. amm.(5,4%)

Legge stranieri(7,7%)

Legge armi(3,1%)

Legge stranieri(4,8%)

Contro la p. amm.(7,2%)

Fonte: elaborazioni su dati Dossier statistico Immigrazione Caritas/Mi-grantes e dati ministero di Grazia e Giustizia.

112

Tab. 2. italia. Reati ascritti ai detenuti stranieri, italiani e all’intera popola-zione detenuta al 31 dicembre 2009.

Detenuti stranieri Detenuti italiani Intera pop. detenutaLegge droga(32,4%)

Contro il patrimonio (24,8%)

Contro il patrimonio(23,3%)

Contro il patrimonio (20,1%)

Legge droga(15,9%)

Legge droga(20,9%)

Contro la persona(16,9%)

Contro la persona(17,0%)

Contro la persona(17,0%)

Legge stranieri(7,7%)

Legge armi(9,5%)

Legge armi(7,2%)

Contro la p. amm.(7,2%)

Contro la p. amm.(4,5%)

Contro la p. amm.(5,6%)

Fonte: elaborazioni su dati Dossier statistico Immigrazione Caritas/Mi-grantes e dati ministero di Grazia e Giustizia.

113

Tab. 3. italia. Reati ascritti ai detenuti : fattispecie con maggiore incidenza degli stranieri sul totale (31 dicembre 2009).

2000 2007 2009Legge stranieri(88,9%)

Legge stranieri(95,0%)

Legge stranieri(96,3%)

Prostituzione(76,7%)

Prostituzione(82,6%)

Prostituzione(81,2%)

Legge droga(33,0%)

Legge droga(40,1%)

Legge droga(46,7%)

Fede pubblica(26,7%)

Contro la p. amm.(35,6%)

Fede pubblica(41,1%)

Contro la p. amm.(26,3%)

Fede pubblica(29,2%)

Contro la p. amm.(38,4%)

Contro la persona(18,7%)

Contro la persona(28,5%)

Contro la persona(29,9%)

Fonte: elaborazioni su dati Dossier statistico Immigrazione Caritas/Mi-grantes e dati ministero di Grazia e Giustizia.

114

Tab. 4. italia. Reati ascritti ai detenuti stranieri (2001-2009) al 31 dicem-bre 2009.

2000 2007 2009

Reato v.a. % vert. Inc. % v.a. % vert. Inc. % v.a. % vert. Inc. %

Ass. di stampo mafioso

36 0,1 0,9 104 0,3 2,1 67 0,2 1,2

Legge droga 11.612 38,5 33 9591 24,8 40,1 12.571 32,4 46,7Legge armi 926 3,1 7,8 2722 4,5 7,1 805 2,1 8,6Ordine pub-blico

1408 4,7 5,4 645 1,8 26,3 815 2,1 27,4

Contro il patrimonio

5753 19,1 13,8 12.235 28,1 24,2 7782 20,1 25,8

Prostituzione 1715 5,7 76,7 788 2 82,6 866 2,2 81,2Contro pubbl. amministraz.

1352 4,5 26,3 2090 5,4 35,6 2780 7,2 38,4

Icolumità pubblica

82 0,3 6,7 173 0,4 10,3 208 0,5 12,2

Fede pubblica 1109 3,7 26,7 1405 3,6 29,2 1531 4,0 41,1Moralità pubbl.

38 0,1 19,5 46 0,1 22,4 69 0,2 29,7

Contro la famiglia

70 0,2 11,0 196 0,5 18,0 329 0,8 21,5

Contro la persona

4300 14,3 18,7 7428 19,2 28,5 6545 16,9 29,9

Contro perso-nalità

24 0,1 5,3 62 0,2 13,6 63 0,2 35,2

Contro amm. giustizia

157 0,5 4,8 431 1,1 10,6 667 1,2 12,4

Economia pubblica

1 0,0 0,0 6 0,0 1,5 10 0,1 2,4

Contravven-zioni

290 1,0 8,9 422 1,1 11,6 496 1,3 13,7

Legge stranieri 1082 3,6 88,9 1873 4,8 95,0 2952 7,7 96,3Contro sentim. relig. pietà defunti

28 0,1 3,7 76 0,2 6,4 88 0,2 8,2

Fallimento e bancarotta

4 0,0 0,8 n.r. n.r. n.r. n.r. n.r n.r

Reati finanziari 83 0,3 4,8 n.r. n.r. n.r. n.r. n.r. n.r.Altri reati 72 0,2 14,9 360 0,0 14,0 229 0,6 7,9Totale 30.146 100 18,2 38.653 100 23,3 38.873 100 30,1

v.a. = valore assoluto; % vert. = rapporto % fra il numero di detenuti stranieri per fattispecie di reato sul totale dei detenuti stranieri; Inc. % str. = rapporto % fra il numero dei detenuti stranieri per fattispecie di reato sul totale dei detenuti per la stessa fattispecie di reato.

Fonte: elaborazioni su dati Dossier statistico Immigrazione Caritas/Mi-grantes e dati ministero di Grazia e Giustizia.

115

Tab. 5. italia. Misure alternative alla detenzione, dati ripartiti per cittadi-nanza, anno 2009.

Tipo di incarico

Italiani Straniericomunit.

Stranieriextracom.con P.d.s.

Stranieriextracom.

senza P.d.S.

N.R. Totaleincarichi

Affidamentoin prova

10.400 206 792 492 7 11.897

Semilibertà 1409 34 97 99 4 1643

Domiciliari 6289 171 578 523 21 7582

Totale 18.098 411 1467 1114 32 21.122

P.d.S. = permesso di soggiornoN.R. = non rilevato

Fonte: dati ministero Grazia e Giustizia.

116

Tab. 6. italia. Incidenza dei reati connessi, a vari livelli, con la condizione stessa di cittadino straniero (anno 2005).

Tipo di reatoLeggi in materia di immigrazione (87,2%)Tratta e commercio di schiavi (81,7%)False dichiarazioni sull’identità (74,4%)Riproduzione abusiva registrazioni cinematografiche (60,8%)Furto (39,5%)Rissa (37,1%)Resistenza a pubblico ufficiale (34,8%)Stupefacenti (34,0%)Falsità in atti privati e uso atti falsi (31,2%)Ricettazione (29,1%)

Fonte: Dossier statistico Immigrazione Caritas/Migrantes – presentazione della ricerca.

117

Tab. 7. italia. Rapporto tra detenuti e detenuti stranieri per regione di detenzione al 31 dicembre 2009 (in ordine decrescente per % di detenuti stranieri sul totale).

Regione % vert. Tot. di cui % detenutiValle d’Aosta 0,5 242 162 67Trentino Alto Adige 0,7 402 248 61,7Friuli Venezia Giulia 1,3 864 527 61Veneto 4,9 3207 1890 59Liguria 2,6 1664 919 55,2Emilia-Romagna 6,9 4488 2361 52,6Piemonte 7,5 4890 2473 50,6Toscana 6,7 4344 2184 50,2Umbria 2,1 1391 652 46,9Lombardia 13,6 8829 3903 44,2Sardegna 3,6 2321 980 42,2Marche 1,6 1066 443 41,6Lazio 9,1 5891 2235 38,0Calabria 4,4 2866 791 27,6Sicilia 11,7 7581 1909 25,2Abruzzo 3,1 1965 447 22,7Molise 0,6 421 86 20,4Basilicata 0,9 577 105 18,2Puglia 6,5 4188 751 18,0Campania 11,7 7594 1001 13,2Italia 100 64.791 24.067 37,15

Fonte: elaborazione su dati del ministero di Grazia e Giustizia.

119

giacomo solanoImmigrazione, mass media e opinione pubblica

Gli effetti dei media sull’audience

Nel campo della sociologia della comunicazione ci si è concentrati, fin dagli inizi, principalmente sullo studio de-gli effetti che i mass media provocano sull’audience. Quan-do si parla degli effetti si fa riferimento a tutte «le possibi-li conseguenze dirette e/o l’impatto dei messaggi mediali sull’individuo o su una certa collettività».1 I principali effetti prodotti dai media possono essere individuati in base a due coordinate:2 quella temporale (breve termine/lungo termine) e quella dell’intenzionalità (effetti involontari/effetti volon-tari). Gli effetti volontari di breve termine sono la risposta individuale, la campagna di comunicazione e l’acquisizione di informazioni, mentre quelli di lungo termine sono la pro-mozione dello sviluppo, la diffusione dell’informazione e la distribuzione del sapere. Per quanto riguarda gli effetti invo-lontari, nel breve termine, questi sono la reazione individuale e quella collettiva, mentre nel lungo termine sono il controllo sociale, la socializzazione, la definizione della realtà, il cam-biamento sociale e il mutamento culturale.

1 M. Livolsi (a cura di), Manuale di sociologia della comunicazione, La-terza, Roma-Bari 2000, p. 213.

2 D. McQuail, Sociologia dei media, Il Mulino, Bologna 1996.

120

Sembra opportuno, dal punto di vista teorico, introdur-re la distinzione fra pragmatica e semantica. «Per pragmatica della comunicazione si intende l’intenzione pratica contenuta nel messaggio, la possibilità che esso possa confermare o mo-dificare l’opinione o gli atteggiamenti dei lettori. Per semanti-ca, invece, si intende la capacità dei messaggi, in quanto segni o sistemi di segni, di rappresentare una determinata realtà sociale».3

In seguito agli sviluppi della materia, la concettualizza-zione del ruolo dei mass media in termini di effetti è stata parzialmente superata. Oggi il dibattito resta aperto anche se sempre più i media possono essere considerati «come am-biente di relazioni e repertori di risorse simboliche per la costruzione delle identità e per l’interazione sociale e come realtà incorporata nelle nostre pratiche di azione e relazione quotidiana»:4 il loro ruolo principale è quindi quello di esse-re agenti di socializzazione. Oltre alla famiglia, alla scuola, al gruppo dei pari, anche i mass media contribuiscono a forgiare l’individuo ma, a causa della potenza massmediatica, gli altri agenti di socializzazione sono in difficoltà. D’altro canto gli input che i mass media ci mandano non sono uniformi, ma anzi vi è una tale offerta di programmi, canali e approfondi-menti che i messaggi possono risultare fra loro contradditori. Va detto però che in molti casi gli individui hanno percorsi di fruizione mediale abbastanza omogenei e questo può favorire un forte condizionamento sul pubblico.

Una notizia, seppur insignificante e facilmente cancellabi-le dalla mente, suscita sempre un qualche effetto. È però chia-ro che, per formare e modificare credenze collettive, atteg-giamenti e rappresentazioni sociali di determinati fenomeni, occorra un tempo piuttosto lungo e un’esposizione continua-

3 V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 260.

4 C. Giaccardi, La comunicazione interculturale, Il Mulino, Bologna 2005, p. 132.

121

tiva a notizie di un certo tipo. Detto questo, è però innega-bile che nella nostra società, sempre più caratterizzata da un bombardamento mediatico, il ruolo dei mass media non può essere trascurato: «Anche se non siamo in condizione di sta-bilire con precisione il grado di influenza dei mass media sul pubblico, è opinione piuttosto condivisa che il loro ruolo non sia trascurabile».5 Gli effetti dei media vanno principalmente ricercati e individuati nel campo della costruzione della cono-scenza e delle rappresentazioni della realtà che ogni individuo forma continuamente. Dal primo punto di vista, quello della conoscenza, i media tendono ad amplificare alcuni fatti, a dar loro importanza anche quando questi non hanno una rilevan-za sociale, e a cancellarne di fatto altri. Essi infatti attuano un processo di selezione (che non è mai neutrale) delle notizie e degli avvenimenti sociali. Non priva di problematicità è poi la modalità con cui questa conoscenza viene trasmessa: lo stesso linguaggio utilizzato per diffondere una notizia non è affatto neutrale (come si vedrà più avanti) ma anzi va a influenza-re profondamente la lettura della notizia stessa. Per quanto riguarda invece l’interpretazione e le rappresentazioni della realtà da parte degli individui, i media ci forniscono, insieme alla notizia, anche contenuti simbolici e immagini della realtà che ci guidano poi nell’interpretazione della stessa. Il processo di costruzione sociale operato dai media avviene sulla base del meccanismo che porta le persone a considerare e a interpre-tare la realtà concreta in base a schemi cognitivi ricavati dal-la fruizione stessa: vengono proposti valori, interpretazioni e visioni del mondo sociale che vanno a influenzare in qualche modo il pubblico.

Malgrado tutto ciò il pubblico non è un soggetto mera-mente passivo: l’informazione non è passivamente recepita ma questi la analizza, la interpreta e poi la accetta o la rifiu-

5 V. Cotesta, Lo straniero. Pluralismo culturale e immagini dell’altro nella società globale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 81.

122

ta parzialmente o nella sua totalità. Infatti ogni persona ha un proprio schema interpretativo mentale attraverso il quale “legge” la notizia. Inoltre, affinché un messaggio influenzi for-temente una persona deve esserci un rapporto di fiducia da parte della stessa nei confronti del medium in questione: se non c’è fiducia l’influenza sarà pressoché nulla. «È possibile, invece, che il materiale simbolico (rappresentazioni, concetti, formule, modi di dire) prodotto dal giornale svolga il ruolo del sedimento mnemonico, di disposizione. Quando il lettore deve comunicare o agire, può far ricorso a quel materiale».6 Il ruolo dei mass media, dal punto della costruzione del patri-monio culturale può essere considerato quindi molto rilevan-te. Il “potere” dei mass media si concretizza inoltre nell’in-fluenza sulla definizione dell’agenda, cioè sull’importanza che i singoli individui, ma anche le istituzioni danno a determi-nati argomenti piuttosto che ad altri. I media (secondo anche quanto elaborato dalla teoria dell’agenda setting) «do not de-termine how people think, but mostly what to think about».7 Infatti, «i media concentrano in maniera molto variabile l’at-tenzione del pubblico, su questo o quel problema, indipen-dentemente dalla sua urgenza reale e dalle effettive condizioni del suo superamento, in base ad eventi per lo più accidentali, i media fanno esplodere l’interesse di una collettività su taluni problemi, drammatizzandoli per un breve periodo e creando intorno ad essi attese ed inquietudini di vari gruppi sociali, per poi lasciarli cadere in stato di latenza, inseguendo altri problemi, e così via, secondo un ciclo in genere perverso di drammatizzazione».8

6 V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici cit., p. 262. 7 P. Hartmann e C. Husband, Racism and mass media, Davis-Poyntner,

London 1974, cit. in J. ter Wal, Racism ad Cultural Diversity in the Mass Media, Eumc (European Monitoring Centre of Racism and Xenophobia), Vienna 2002, p. 438.

8 C. Marletti, Mass media e razzismo in Italia, in «Democrazia e dirit-to», novembre-dicembre 1989, p. 114.

123

Se è incontestabile il fatto che vi sia un’influenza dei media sul pubblico, è anche vero che vi sono una moltitudine di fat-tori individuali e sociali che rendono tale influenza mediata: i media risultano efficaci solo se si “sposano” con gli elementi cognitivi e le convinzioni che già gli individui avevano pre-gressi. A questo proposito bisogna rilevare come il pubblico non sia affatto omogeneo, ma anzi sia composto da persone con differenti orientamenti e stili di fruizione. Una ricerca recente9 ha individuato alcune variabili che determinano il grado di influenza che i mass media hanno sull’audience; con-dizionamento che dipende da numerosi fattori, i quali vanno a individuare la “tipologia” di persona che riceve il messaggio. La variabile più importante è l’esperienza personale: coloro che hanno nel quotidiano esperienza diretta di un fenome-no (nel nostro caso l’immigrazione) saranno più difficilmente influenzabili dalle immagini che i mass media forniscono del fenomeno. In questo caso «il ruolo dei media risulta piuttosto assimilabile ad una sorta di legittimazione dell’opinione»:10 la rilevanza dei messaggi che i media ci offrono, soprattutto per quanto riguarda i fenomeni migratori, è data dal fatto che la maggioranza delle persone ha un contatto concreto limi-tato con i fenomeni trattati e per questo spesso l’“informa-zione mediata” è l’unica fonte di conoscenza di determinati fenomeni sociali. Pertanto le funzioni di rappresentazione dei mass media sono tanto più importanti quanto questi rendono conto di realtà poco conosciute o di problematiche portatri-ci di una qualche diversità. Il messaggio è quindi tanto più efficace e pervasivo quanto l’individuo che le riceve manchi di opinioni e conoscenze del fenomeno trattato: il potere dei media tende a crescere quando si fa riferimento a fenomeni di cui gli individui non hanno esperienza diretta.

9 M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media italia-ni, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2004.

10 Ibid., p. 245.

124

Un’altra variabile significativa è data dalla tipologia, dall’ampiezza e dalla varietà della fruizione mediale: infatti coloro che basano la loro conoscenza su più fonti hanno senza dubbio una visione più completa e meno parziale di un fe-nomeno, essendo di fatto meglio e maggiormente informati. Importante è inoltre il tessuto sociale dell’individuo che rice-ve il messaggio: si è visto che coloro che hanno interazioni “di qualità” all’interno del nucleo familiare, delle associazioni di cui fanno parte ecc. conoscono meglio il mondo. Col termine “interazioni di qualità” si fa riferimento alla «radicata parte-cipazione sociale dell’individuo e alla formazione intersogget-tiva dell’opinione»:11 coloro che sono abituati a confrontarsi quotidianamente con altre persone su temi “caldi” hanno opi-nioni più complesse e meno stereotipate.

Il tema si presenta comunque complesso e influenzato da una molteplicità di fattori. Essendo impossibile in questo bre-ve contributo analizzare tutti i vari aspetti teorici della materia, quello che sembra interessante mettere in luce è l’importanza di tali questioni in quanto i media vanno a definire la realtà sociale mettendo in circolazione risorse simboliche e imma-gini del mondo, utilizzate poi dalle persone per muoversi, in-teragire e interpretare la stessa realtà sociale. Pertanto il ruolo dei media non deve essere inteso come quello di strumenti di manipolazione e persuasione ma più che altro «ambienti, sia in quanto strumenti di interconnessione planetaria e di compressione spazio-temporale, sia come luoghi (virtuali) e facilitatori di esperienze e relazioni, sia in quanto repertori di contenuti simbolici che vanno ad alimentare le risorse indivi-duali e collettive di autocomprensione e autodefinizione e di definizione e interpretazione della realtà sociale».12

11 Ibid., p. 253.12 C. Giaccardi, La comunicazione interculturale cit., p. 137.

125

Un’analisi dell’immagine dei fenomeni migratorinei mass media fra prospettiva teorica e ricerca empirica

I media spesso attuano una distorsione nella presentazione dei fatti e dei fenomeni e, a questo proposito, sembra oppor-tuno mettere in evidenza alcune cose. Per molto tempo i mass media sono stati considerati come uno specchio della società. Questo perché essi stessi fanno parte dell’opinione pubbli-ca: questa appartenenza è duplice in quanto da una parte ne riflettono gli atteggiamenti e i punti di vista (infatti i gior-nalisti presentano una loro interpretazione della realtà e dei problemi sociali che è fortemente influenzata dai loro valori e orientamenti), e dall’altra contribuiscono a formare l’opinio-ne pubblica stessa. Infatti, se da un lato è la distorsione nella rappresentazione dei mass media a influenzare i pregiudizi del pubblico, dall’altra il pregiudizio è insito nella società e quindi anche i giornalisti ne sono fortemente influenzati. Inoltre la causa della distorsione può anche essere imputata al processo di costruzione della notizia. Sotto questo aspetto i principali fattori sono:13 il valore delle notizie, il testo della notizia, i temi della notizia, il rapporto fra proprietà, controllo e “af-filiazioni politiche”, il differente accesso ai media e infine le relazioni fra media e politica e la linea e le politiche editoriali. Per quanto riguarda il valore della notizia, i mass media spesso sono portati a scegliere le notizie non solo in base alla loro im-portanza ma anche in base alla loro “vendibilità”. La notizia viene inoltre confezionata in modo da seguire un canovaccio precostituito (per esempio immigrato irregolare che delinque) entro il quale viene inserita la storia da narrare. I media, nella scelta delle notizie, sono poi fortemente influenzati dal fat-to che i giornalisti privilegiano fonti istituzionali come fonti delle notizie. Anche nell’accesso ai media, cioè nella possibi-lità di essere considerati come attori rilevanti nell’esposizione

13 J. ter Wal, Racism ad Cultural Diversity in the Mass Media cit., p. 430.

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di un dato problema o nella esposizione di una data opinio-ne, i mass media privilegiano fortemente “voci” istituziona-li (politici, polizia ecc.). Infine, le pratiche di costruzione e confezionamento delle notizie sono fortemente determinate dalle politiche editoriali, dall’orientamento politico aziendale e necessariamente devono rispondere alla quasi inevitabile ri-duzione della complessità sociale in un articolo o in un tempo di trasmissione limitato. Inoltre il giornalista occupandosi di una pluralità di questioni, difficilmente potrà essere esperto di tutte quante.

Per quanto riguarda più nello specifico la rappresentazione che i mass media forniscono dei fenomeni migratori, si può evidenziare come ci sia, nei discorsi dei media, un rapporto stabile fra immigrazione e criminalità. La connessione fra cri-minalità e immigrazione diventa sia un criterio di selezione delle notizie che criterio di interpretazione e inquadramento della notizia stessa. Si tende di fatto a mettere in rilievo la provenienza straniera degli autori di reati (e molto meno di chi subisce un reato, come si vedrà) anche quando questa è solo presunta. Il discorso sulla criminalità si unisce anche a una visione pietistica degli immigrati,14 considerati come per-sone che vivono in situazioni di marginalità e degrado sociale. Questa visione si sposa perfettamente con la precedente in quanto nell’immaginario collettivo una persona marginale, povera e in difficoltà viene considerata socialmente pericolo-sa. I media fanno attenzione solo alla quotidianità, ai piccoli atti criminali: il fenomeno “immigrati” viene presentato so-prattutto nella cronaca.

Considerando i mutamenti nel discorso mediale sull’im-migrazione, si può vedere come sia avvenuto un cambiamen-

14 Tra gli autori che mettono in rilievo questo aspetto c’è per esempio M. Maneri, nel suo intervento Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, in A. Dal Lago (a cura di) Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, Costa & Nolan, Genova 1998, p. 243.

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to tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novan-ta: «Si può parlare del passaggio da un’emergenza-razzismo a un emergenza-criminalità».15 Aumentarono cioè le notizie riguardanti la criminalità e la devianza degli immigrati e di-minuirono invece quello su episodi razzisti e di carattere xe-nofobo. Con l’inizio degli anni Novanta si assiste, soprattutto per quanto riguarda i conflitti fra cittadini italiani e stranie-ri, al sorgere di una rappresentazione dei migranti come di persone marginali e disperate. Le due fasi presentano alcu-ne caratteristiche differenti (oltre al fatto di trattare il tema dell’immigrazione e dei rapporti con gli stranieri da prospetti-ve diverse). Nella prima fase il problema (il razzismo) era trat-tato problematizzandolo e non dando mai niente per scontato e vi erano molte voci che relegavano i fenomeni di razzismo a persone devianti, negando quindi il razzismo degli italiani in generale. Invece nella seconda fase il problema (immigrazione e criminalità) viene trattato in maniera aproblematica, con generalizzazioni e categorizzazioni rigide e tipiche dei discorsi di senso comune. Vi è poi una differenza più strutturale fra i due periodi: nella prima fase la tematica razzismo si affacciava all’improvviso e, seppur con periodici momenti di intensità, nei momenti meno “caldi” tendeva a scomparire; invece dagli anni Novanta in poi il tema immigrazione-criminalità per-mane “all’apice” costantemente: fra un picco e l’altro cambia semplicemente il reato (prostituzione, droga, ingressi clande-stini ecc.). Questo meccanismo è stato riscontrato in tutti i paesi di recente immigrazione:16 all’inizio l’opinione pubblica ha una positiva inclinazione verso i nuovi arrivati, basata su principi umanitari di aiuto e soccorso, mentre, quando l’im-migrazione si fa più consistente, questa retorica umanitaria lascia il posto a retoriche allarmistiche che vedono l’immigra-zione portatrice di enormi problematiche.

15 Ibid., pp. 237-238.16 J. ter Wal, Racism ad Cultural Diversity in the Mass Media cit., p. 67.

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Solitamente si parla di immigrazione nell’ambito della politica interna e della cronaca (nera nella maggior parte dei casi). Numerose ricerche hanno confermato questa tendenza: nella ricerca del Censis17 la cronaca copre il 90% delle notizie sull’immigrazione nei telegiornali nel 2001 e l’80% nel 2002. Secondo un’altra ricerca,18 i quotidiani presentavano il 56,7% di notizie su cronaca e terrorismo sul totale di notizie riguar-danti l’immigrazione, e a seguire il 20,3% di notizie su arrivi e regolarizzazioni mentre i telegiornali rispettivamente il 40% sul primo argomento e il 42% sul secondo. Sono da sempre invece molto scarsi, se non quasi assenti, inchieste e appro-fondimenti sul tema dell’immigrazione.19 Le notizie ci sugge-riscono l’idea di un binomio fra immigrazione e devianza: le notizie di atti criminosi da parte di immigrati si susseguono di giorno in giorno, al più cambia il reato che gli si imputa. Gli argomenti sono quelli dell’invasione (sbarchi, sovraffollamen-to ecc.) e della sicurezza legata alla criminalità (prostituzione, spaccio, terrorismo islamico ecc.). Si può vedere, leggendo qualsiasi giornale, come vi siano alcuni leitmotiv per quanto riguarda le notizie sull’immigrazione e sugli immigrati: que-ste ricorrenze possono essere individuate su tre livelli. Nelle pagine “internazionali” e nazionali di carattere generale i due argomenti ricorrenti sono il terrorismo di matrice islamica (legato agli immigrati di fede musulmana) e l’arrivo, come

17 Censis, L’immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei me-dia, Rapporto finale, Roma 2002, p. 30.

18 M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media ita-liani cit., pp. 47-49.

19 Per dati più specifici si può far riferimento, fra la ricerche più recenti, a: Censis, L’immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei media cit.; M. Corte, Stranieri e mass media. Stampa, immigrazione e pedagogia interculturale, Cedam, Padova 2002; M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media italiani cit.; M. Morcellini (a cura di), Sintesi del rapporto di ricerca riguardo alla Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani, 2009, reperibile all’indirizzo http://www.uni.net/sos.razzi-smo/Sito/Ricerca_Imm.pdf.

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se fosse un’orda, di “clandestini” sulle nostre coste. A livel-lo nazionale, ma prevalentemente nelle pagine dedicate alla cronaca, e in quelle locali, l’immigrato viene descritto nella maggior parte dei casi come un deviante: vengono infatti pre-sentate un susseguirsi di notizie riguardanti atti di microcri-minalità imputabili a stranieri. Emergenza, clandestinità, in-vasione, sbarchi, criminalità, disperazione e terrorismo sono parole che ricorrono costantemente in relazione all’immigra-zione (come si vedrà più avanti).

Come scrive Grossi, «ci troviamo dunque di fronte a un’informazione molto schiacciata sugli eventi contingenti – e su quelli più sensazionali ed emotivi connotati in termini di conflitto, emarginazione etc. – e poco propensa non solo all’inchiesta e all’approfondimento del fenomeno immigrato-rio ma anche alla sua semplice problematizzazione secondo diversi punti di vista. L’immigrato infatti fa notizia soprat-tutto se è coinvolto in episodi di cronaca nera o è oggetto dell’azione istituzionale; raramente diventa protagonista di reportage giornalistico in quanto espressione di un mondo, di una cultura, di un vissuto diverso che viene a contratto con la nostra realtà».20

Il tema immigrazione viene trattato prettamente come un problema da risolvere (solitamente di ordine pubblico) e come emergenza, più che come un fenomeno da analizzare e appro-fondire: questa dimensione problematica e di eterna eccezio-nalità ed emergenza trasmette un’idea erronea del fenomeno, non facendo comprendere all’audience che l’immigrazione è un fenomeno ormai strutturale e ordinario della nostra so-cietà. La migrazione viene così presentata quasi come una fatalità, non come l’inevitabile conseguenza di una sviluppo economico diseguale fra paese e paese. La continua ripetizio-ne di immagini di sbarchi, l’uso di termini come “invasione”,

20 In M. Belluati, G. Grossi e E. Viglongo, Mass media e società multiet-nica, Anabasi, Milano 1995, p. 52.

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“clandestini” ecc. porta a creare una sorta di panico morale nella società, creando una sindrome da invasione ben chiarita da Cotesta con la metafora della “cittadella assediata”.21 «Il triangolo criminalità, clandestinità e arrivi riassume la per-cezione del problema. Il fenomeno migratorio viene vissuto come costante emergenza e invasione».22 I media vanno di fatto a costruire e a riprodurre il cosiddetto senso comune e le conoscenze sociali condivise. Infatti essi hanno la capacità di presentare in modo oggettivo, neutrale e generale rappresen-tazioni soggettive e particolari della realtà sociale. Proprio per l’apparente carattere di oggettività, queste rappresentazioni della realtà sociale entrano in noi e ci influenzano profonda-mente, soprattutto nella valutazione di fenomeni di cui non abbiamo una conoscenza diretta o che generano paure e in-quietudini.

I media costruiscono e fomentano l’allarme sociale a par-tire dai singoli episodi di cronaca. «L’allarme per la crimina-lità e quello per l’immigrazione emergono progressivamente nel corso del decennio,23 hanno una configurazione simile – identificando un loro, portatore di minaccia – e presentano un diverso grado di focalizzazione: il primo ha come bersa-glio una categoria situazionale o contestuale – i devianti –, il secondo una categoria allo stesso tempo sociale, etnica e giuridica – gli immigrati extracomunitari. I tre temi, immi-grazione, criminalità, insicurezza (o forse sarebbe più corret-to parlare di frame, per la loro capacità di incorniciare di-versamente gli stessi concetti), si pongono per certi versi su uno stesso continuum che va da un minimo a un massimo di astrazione. L’allarme per l’immigrazione, e in particolare per i reati che questa comporterebbe, identifica un nemico

21 V. Cotesta, La cittadella assediata. Immigrazione e conflitti etnici in Italia, Editori Riuniti, Roma 1992.

22 M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media ita-liani cit., p 31.

23 Anni Novanta [N.d.C.].

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pubblico definito, visibile, suscettibile di interventi preven-tivi o repressivi ad hoc. L’allarme per la criminalità si rivolge ancora a un nemico, ma definito situazionalmente o conte-stualmente e dunque sfuggente e meno personificabile. L’al-larme sull’insicurezza sottintende gli altri due temi, ma perde il riferimento al nemico e si rivolge, in positivo, al noi da difendere».24 È pertanto con l’unione di questi tre “allarmi” sociali che si va a ottenere una minaccia concreta a livello sociale. Ciò che caratterizza il discorso sull’immigrazione è inoltre la creazione di un senso comune sull’argomento. La rappresentazione che i media danno di un dato fenomeno «assume una forma di senso comune, [in quanto] ne presenta gli ingredienti tipici: la definizione consensuale della questione (il problema-immigrazione), il dato per scontato che caratte-rizza il tema della criminalità, la naturalizzazione delle cause delle difficoltà di convivenza, l’evidenza usata come strategia retorica, la condivisione come strumento di legittimazione dei propri ragionamenti».25 Si creano così una serie di stereotipi e categorizzazioni che rappresentano l’extracomunitario come portatore di degrado, violenza e criminalità: si impone di conseguenza l’idea che l’immigrazione debba essere control-lata se non addirittura completamente fermata. A dare una legittimazione a quanto detto dai mass media sono le nume-rose citazioni di rappresentanti istituzionali (forze dell’ordine, politici ecc.) o presunti esperti del tema; a ciò fa da contraltare una pressoché assenza di parola dei diretti interessati. Infatti i media italiani non fanno mai parlare gli immigrati, privandoli praticamente sempre dell’occasione di spiegare il loro punto di vista, la loro situazione. I media di fatto veicolano lo stes-so senso comune in un’altra modalità: spesso politici, forze

24 M. Maneri, Il panico morale come dispositivo di trasformazione dell’in-sicurezza, in «Rassegna Italiana di Sociologia, 1 (2001), pp. 12-13.

25 M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, in A. Dal Lago (a cura di) Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea cit., p. 265.

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dell’ordine e istituzioni si avvalgono dei giornali per capire ciò che l’opinione pubblica pensa e per decidere i settori di intervento.

I mass media contribuiscono quindi alla costruzione so-ciale della paura dello straniero: questa si alimenta però anche con la “complicità” di altri attori sociali quali istituzioni, citta-dini, comitati di cittadini e politici e agisce su più livelli:26

– definizione del frame entro il quale leggere e interpretare la notizia;

– rafforzamento del senso comune attraverso il meccanismo che Dal Lago definisce “tautologia della paura”;27

– autopoiesi: «Nella costruzione autopoietica del significa-to, le definizioni soggettive di una situazione diventano reali, cioè oggettive».28

La “tautologia della paura” non è altro che il meccani-smo attraverso il quale «la semplice enunciazione dell’allarme dimostra la realtà che esso denuncia»,29 che si articola in più fasi:30

- risorsa simbolica circolante nel senso comune (gli stranieri sono una minaccia per i cittadini);

- definizioni soggettive degli attori “legittimi”: «Abbiamo paura, gli stranieri ci minacciano»;

- definizione oggettive dei media;- trasformazione della risorsa simbolica in frame dominan-

te: «È dimostrato che gli immigrati clandestini minaccia-no la nostra società e le autorità devono agire»;

- conferma soggettiva degli attori legittimi: «Non ne possia-mo più, che fanno i sindaci, la polizia, il governo?»;

- intervento del “rappresentante politico legittimo” e degli

26 C. Giaccardi, La comunicazione interculturale cit., pp. 186-187.27 A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società glo-

bale, Feltrinelli, Milano 2004.28 Ibid., p. 73.29 Loc. cit.30 Ibid., pp. 74-75.

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“imprenditori” [morali]: «Se il governo non interviene in-terveniamo noi»;

- misure legislative: eventuali misure legislative, politiche e/o amministrative che confermano il frame dominante.Le notizie di cronaca nera diventano così prove empiriche

del fatto che il gruppo sociale citato sia in toto criminale. Im-portantissima, come si può evincere dallo schema, è la voce del cittadino che fornisce legittimazione alla trasformazione di una risorsa simbolica nel frame dominante. I reati che i mass media riportano diventano la conferma empirica di quanto i cittadini pensano già: cioè che gli immigrati sono pericolosi. Oltretutto il fatto che il discorso sull’immigrazione rimanga sempre incentrato sul singolo fatto senza mai approfondire il tema generale porta il pubblico a generalizzazioni erronee.

La visione generale riguardo all’immigrazione si sposa perfettamente e viene a sua volta rinforzata dal “ruolo” dei migranti nella rappresentazione dei media, dove solitamente vengono presentati in una prospettiva noi/loro; “loro” sono presentati sempre o come soggetti attivi in azioni negative e/o problematiche oppure come soggetti passivi destinatari di aiuti filantropici da parte degli autoctoni o come soggetti a politiche amministrative e di controllo. Poche sono infatti le notizie che parlano degli immigrati come soggetti attivi in senso positivo nella nostra società. L’immigrato è presentato quasi sempre in articoli di cronaca (solitamente come col-pevole di un atto criminoso) e viene considerato di volta in volta extracomunitario, clandestino: egli «è prevalentemen-te associato ad episodi di delinquenza, anomia e devianza e la dimensione più quotidiana dei processi di integrazione non compare in genere nei prodotti della comunicazione».31 «L’immagine (funzionale) di immigrato come lavoratore stenta ad affermarsi; tendono a prevalere le sub-immagini di

31 Censis, L’immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei me-dia cit., p. 5.

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povero, affamato, diseredato, etc. per un verso; di dedito ad attività illecite, e comunque di potenziale recluta della crimi-nalità comune o organizzata, per l’altro».32 I migranti sono cioè presentati «con le caratteristiche del sottoproletariato ur-bano: lo stereotipo di immigrato-criminale consente […] di operare un duplice accostamento fra immigrazione-povertà e immigrazione-delinquenza; ambedue motivi di rifiuto collet-tivo e, quindi, di esclusione simbolica dalla società».33 Il tipico migrante è maschio, a dispetto della realtà italiana che vede addirittura una leggera prevalenza femminile:34 nel 2002, il Censis35 rilevava che nell’80% delle volte il migrante è ma-schio contro una presenza maschile di quell’anno di immigra-ti regolari che si attestava al 54,2%.36 Per quanto riguarda la tipologia di notizie date dai media sui migranti è importante sottolineare ciò che scrive Grossi scrive: «Gli immigrati sono presenti soprattutto in notizie di cronaca nera e cronaca bian-ca oppure in articoli focalizzati sulle polemiche politiche (tra partiti) o sulle risposte istituzionali (in termini di accoglienza o repressione); mentre solo in pochi casi si parla direttamente della loro identità culturale, etnica o religiosa o anche delle loro semplici manifestazioni pubbliche, siano esse sociali o politiche».37 Difficilmente i media dedicano spazio alle richie-ste, alle istanze e alle tematiche religiose, culturali ecc. delle comunità di migranti. La rappresentazione che i media danno del fenomeno ignora fortemente l’identità culturale e la va-lenza economica dello stesso, non presentando mai le iniziati-

32 M. Mansoubi, Noi stranieri d’Italia. Immigrazione e mass-media, Ma-ria Pacini Fazzi, Lucca 1990, p. 117.

33 Ibid., p. 118.34 All’1 gennaio 2010 l’incidenza degli immigrati di sesso maschile sul la

popolazione immigrata residente in Italia è del 48,7% (fonte: Istat).35 Censis, L’immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei me-

dia cit., p. 7.36 Ibid., pp. 28-29.37 In M. Belluati, G. Grossi e E. Viglongo, Mass media e società multiet-

nica cit., p.51.

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ve culturali e aggregative che le comunità e le associazioni di migranti attuano. Anche quando si parla della cultura, delle iniziative delle associazioni e dei gruppi di migranti si fa sem-pre riferimento all’esotico, all’etnico (per esempio ristorante “etnico”, musica “etnica” ecc.).

Spesso la nazionalità è infatti l’unica informazione che viene fornita del deviante nelle notizie. Ogni crimine viene di fatto etnicizzato ponendo in bella mostra, come prima ca-ratteristica del criminale, la sua nazionalità: questo fa scattare in chi legge un meccanismo di generalizzazione per cui alla lunga si penserà che tutti i rumeni stuprino, che i nigeriani spaccino ecc. Vi è da una parte la personalizzazione del fat-to di cronaca (per esempio immigrato albanese) e dall’altra un’inevitabile generalizzazione (tutti gli immigrati albanesi sono criminali). Inoltre, alcune azioni negative sono attribu-ite agli immigrati senza che vi siano prove certe, spesso solo sulla base di supposizioni fatte da rappresentanti delle forze dell’ordine o dalle vittime stesse. È da notare che, se quasi sempre la nazionalità viene citata quando l’immigrato è im-putato di qualche delitto, molte meno volte questo avviene se invece ne è vittima: per esempio in una ricerca condotta da Marcello Maneri è emerso che «già nel 1993 gli immigrati coinvolti in episodi di cronaca nera erano nominati con un appellativo etnicizzato nel 99% delle volte nel caso fossero gli autori del reato e il 72% delle volte quando si trovavano nella posizione di vittime».38 E in questo secondo caso spesso si attivano processi di criminalizzazione e colpevolizzazione della vittima39 o problematizzazione della situazione. Infatti

38 M. Maneri, I media e la guerra alle migrazioni, in S. Palidda (a cura di), Razzismo democratico. La persecuzione degli stranieri in Europa, Agenzia X, Milano 2009, p. 69.

39 Cfr. T. van Dijk, Racism and the Press. Critical Studies in Racism and Migration, Routledge, London 1991 e J. ter Wal, The reproduction of ethnic prejudice and racism through policy and new discorse. The Italian case (1988-1992), tesi di dottorato, Firenze 1997.

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un discorso spesso che si sente spesso in occasione di qualche aggressione nei confronti di immigrati è che la situazione di sovraffollamento e di eccessiva concentrazione di immigrati in alcuni quartieri provoca tensioni fra autoctoni e nuovi ar-rivati, che possono sfociare in episodi deprecabili ma comun-que frutto di questa situazione insostenibile e intollerabile. Viene quindi sempre più spesso stabilita una connessione fra l’origine etnica, il fatto di essere stranieri e il comportamento criminale, quasi come se il solo status di migranti fosse sinto-mo di maggior propensione al crimine. Proprio per questo, alcuni autori, fra cui ter Wal,40 affermano che nei media ita-liani è possibile rintracciare una sorta di razzismo sottile, che si cela dietro un’apparente neutralità nella modalità con cui le notizie vengono date.

A tutto ciò va poi ad aggiungersi il tono utilizzato: questo è continuamente allarmistico o, al più, pietistico e la presenza e la trattazione del fenomeno immigrazione è quasi sempre ricondotta e ridotta al suo stereotipo. Anche quando vi è un uso di termini e toni apparentemente neutri, questi di fatto contribuiscono fortemente alla definizione e alla costruzione della percezione negativa che l’audience elabora riguardo ai fenomeni migratori.

C’è inoltre la tendenza alla spettacolarizzazione e alla cre-azione di pseudoeventi: «Più che documentarci su una situa-zione realmente accaduta, tali notizie si pongono spesso come profezie che si autoadempiono».41

Per quanto riguarda il linguaggio, questo è «prevalente-mente metaforico e iperbolico. Non mancano, tuttavia, de-scrizioni sobrie».42 I termini usati fanno riferimento sia al lin-guaggio militare che a un’immagine “idraulica” delle migra-zioni (“flusso”, “ondata” ecc.), vengono cioè usate «metafore

40 J. ter Wal, Racism ad Cultural Diversity in the Mass Media cit.41 Censis, L’immagine degli immigrati e delle minoranze etniche nei me-

dia cit., p. 55.42 V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici cit., p. 272.

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idrauliche».43 In Italia si possono identificare tre nuclei di te-matiche (con annessa terminologia) riguardo all’immigrazio-ne.44 Il primo fronte è quello esterno, relativo agli sbarchi di navi piene di migranti sulle coste del Sud Italia. Il secondo è il fronte interno, relativo a criminalità, devianza e ruolo della polizia. Dal 2001 si è poi aggiunto il fronte internazionale, con la minaccia del fondamentalismo e del terrorismo di ma-trice islamica. Riguardo al primo fronte, il termine più usato è quello di “clandestino”, che etichetta tutti coloro che arrivano via nave, nonostante questi siano nella maggior parte dei casi richiedenti asilo, rifugiati politici ecc. I termini usati in que-sto caso sono “invasione”, “orda”, “sbarchi”, “pattugliamento” ecc. Nel secondo fronte si concretizza la stretta connessione fra “emergenza-sicurezza” e immigrazione. Le parole più usa-te sono quelle tratte dal linguaggio della guerra e poliziale (“blitz”, “lotta”, “intervento”, “sgomberi”, “perquisizioni”), quelle relative alla devianza (“droga”, “prostituzione”, “sicu-rezza”) e quelle relative alla marginalità (“sovraffollamento”, “ghetto”, “disperati”, “degrado”) e infine alcuni termini lega-ti alle “reazioni” degli autoctoni nei confronti della presenza di immigrati (“esasperazione”, “rivolta”, “crociata”). Il fronte internazionale vede invece l’utilizzo di termini come “terrori-smo islamico”, “minaccia”, “allarme”, “rischio”, “al-Qaeda” e “minaccia di attacchi”.

Attualmente si può notare come il termine “extracomuni-tario” sia il riferimento principale di tutte le rappresentazioni dell’immigrazione. Questo termine è fortemente legato alla dimensione regolarità/irregolarità e al tema della sicurezza e della criminalità. Questo termine sottolinea inoltre di fatto la non appartenenza, l’esclusione dei migranti dal “progetto” di Unione Europea. Inoltre nei giornali, spesso implicitamente o

43 M. Maneri, I media e la guerra alle migrazioni, in S. Palidda (a cura di), Razzismo democratico. La persecuzione degli stranieri in Europa cit., p. 81.

44 Ibid., p. 77.

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addirittura esplicitamente, si connette il degrado di una zona all’arrivo degli immigrati: in ogni caso questi vengono sempre presentati, anche quando sono visti con sguardo più benevolo, come miserabili e come disperati. «L’extracomunitario diven-ta così, nel senso comune, motivo di pericolosità sociale, che richiede un intervento di controllo».45 L’extracomunitario di-venta quindi portatore di criminalità o, nel migliore dei casi, di degrado e pertanto diventa un problema in sé e, in quanto problema, deve essere soggetto a controlli da parte del sistema politico e amministrativo. Questo termine è di per sé indicativo di come gli immigrati vengano “categorizzati”. Infatti lo status di extracomunitario non è in questo caso inteso come categoria giuridica ( visto che si sa benissimo che un americano o un ca-nadese, per esempio, non saranno mai ricompresi, almeno nei giornali e nei discorsi di senso comune, in questa categoria). Invece, nazionalità che giuridicamente fanno parte dell’Unione Europea (come per esempio i cittadini di nazionalità rumena) vengono sempre e comunque considerate appartenenti alla categoria dell’“extracomunitario”. «È proprio il termine extra-comunitario a rappresentare uno dei terreni di congiunzione tra l’immigrazione e il comportamento dei singoli immigrati. Collega infatti il comportamento del deviante alla nazionalità estendendo lo stigma personale dovuto al crimine alla sua pro-venienza culturale, territoriale o etnica».46 Attualmente poi si sta ponendo sempre più l’accento sul termine “clandestino”. Ter-mine che esce dall’ambito giuridico per definire, nel senso co-mune, l’“immigrato cattivo”, cioè quello che quasi sicuramente è dedito ad attività delinquenziali: la condizione di clandestino diventa pertanto predittrice di comportamenti devianti.

Sembra poi interessante spendere qualche parola riguardo

45 M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, in A. Dal Lago (a cura di) Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea cit., p. 242.

46 M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media ita-liani cit., p 37.

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alla rappresentazione dell’Islam nei media. Vari studi47 han-no evidenziato come questa sia distorta (anche prima dell’11 settembre). I media, quando parlano di Islam, ricorrono sem-pre alla presunta relazione fra religione e politica, fra Islam e fondamentalismo-terrorismo. Inoltre non si fa differenza fra Arabi e Musulmani mostrando il mondo arabo e quello mu-sulmano come un blocco unico e inscindibile, senza divisioni all’interno. Sebbene nei media, almeno apparentemente, non si rilevi un’aperta contrapposizione noi/loro, quando si parla di religione questa invece diviene manifesta: «La religione si presenta […] come una differenza meno negoziabile di altre. […] Il legame fra tema terrorismo e immigrazione si esprime il più delle volte nella forma di riferimento alla presenza stra-niera in Italia come area grigia in cui potrebbero nascondersi fondamentalisti islamici»48 e quindi potenziali terroristi. C’è da precisare però che non sono i mass media a paventare que-sta minaccia ma sono le stesse autorità (ministro degli Interni, rappresentanti delle forze dell’ordine ecc.) a lanciare il (pre-sunto) allarme.

Per concludere questo breve saggio, sembra opportuno riproporre i principali punti evidenziati nella trattazione del rapporto fra mass media e immigrazione, sintetizzati da Quei-rolo Palmas49 e tratti da ter Wal:50

47 C. Marletti, Televisione e Islam. Immagini e stereotipi dell’Islam nel-la comunicazione italiana, Vqpt-Rai, Roma 1995; G. Soravia, L’immagine dell’Islam nei media italiani, Commissione per l’integrazione, Dipartimen-to per gli Affari sociali, Workin Paper, Roma, 7 (2000); M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media italiani cit.

48 M. Binotto e V. Martino, FuoriLuogo. L’immigrazione e i media ita-liani cit., pp. 85-87.

49 L. Queirolo Palmas, Guayaquil nei vicoli genovesi. I giovani migranti e il fantasma delle bande, contributo per il seminario interdisciplinare Pro-blemi e rappresentazioni della devianza tra i giovani immigrati, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2005, pp. 4-5 (l’intervento è reperibile all’indiriz-zo http://www.fga.it/fileadmin/storico/pdf/queirolo_palmas.doc).

50 J. ter Wal, Racism ad Cultural Diversity in the Mass Media cit.

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– quando un discorso negativo sui migranti si istituisce ten-de a dar vita a un repertorio di immagini costanti e ricor-renti;

– non è solo il giornalismo di una certa parte politica o l’in-formazione scandalistica dei tabloid a produrre razzismo o discriminazione; spesso è nell’informazione comune e nel giornalismo neutro che si riproducono in maniera più sot-tile, ma anche più pericolosa, pregiudizi e stereotipi;

– è carente un approccio al tema in termini di contesti e background delle migrazioni, mentre il lato emergenziale è messo costantemente in primo piano;

– spesso le fonti usate dai media sono a senso unico, ovvero si basano sulle dichiarazioni rilasciate o fatte filtrare dalle autorità di polizia;

– migranti e minoranze etniche godono di un diritto di parola molto limitato nei media, dato che normalmente sono altri i soggetti incaricati di raccontarli e di giudicarli;

– il legame col crimine è enfatizzato ed è associato all’origi-ne etnica o nazionale dei soggetti;

– spesso la forma del racconto si basa sul modello in cui «loro sono un problema» e «noi siamo le vittime»;

– le immagini in negativo dei migranti non sono compensa-te dalla presentazioni di immagini anche positive.

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laura longoniUna conclusione per non concludere.

L’immigrazione: riflessioni e risorse per la società

La posizione assegnata a queste pagine nel presente volu-me rende assai arduo il compito di procedere con osservazioni e considerazioni che concludano i contributi precedenti letti e ascoltati in occasione dell’iniziativa che ha dato vita alla pre-sente pubblicazione. Lungi l’idea di voler trarre conclusioni dai numerosi temi proposti e dall’esperienza di ricerca plu-riennale dei vari docenti e professionisti intervenuti, si ritiene, però, importante tratteggiare brevemente alcune suggestioni ricavate da questa esperienza.

La prima osservazione è di carattere metodologico. Il pri-mo dato che appare rilevante, scorgendo l’indice del presen-te volume, è la varietà e complessità di letture che vengono offerte al tema immigrazione. I contributi, sia pur nei limiti inevitabilmente connessi alla tipologia dell’iniziativa, hanno saputo evidenziare la complessità del tema. Complessità che deve necessariamente essere tradotta in più linguaggi specia-listici (giuridici, antropologici, sociologici, ecc.) e affrontata con diversi sguardi e sottolineature, complessità che pone alla ribalta e mette in gioco questioni che riguardano le caratteri-stiche delle intere società e della vita di ciascuno di noi, indi-pendentemente dal luogo in cui è nato. La presenza di autori provenienti da differenti discipline e da diverse strutture (sia facoltà universitarie che realtà private) suggerisce una moda-

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lità di lavoro che deve sempre più necessariamente essere in-tegrata e pronta al confronto e alla collaborazione, per tentare di ricostruire via via un mosaico i cui pezzi cambiano conti-nuamente forma e incastro. Dialogo e confronto vanno con-siderati come processi cui occorre dare spazio e continuità nel tempo, affinché non restino incompiuti e affinché riescano a produrre progetti condivisi di lettura e azioni, senza rischiare di procedere in modo parziale e/o ripetitivo, per portare con-tributi non ridotti e poco innovativi.

La seconda riflessione riguarda la scelta del tema. La pro-posta autonoma ed entusiasta di studenti che hanno deciso di poter organizzare alcune giornate di studio e riflessione, non-ché pubblicare le indicazioni raccolte in un volume, paiono significative e ci fanno ben sperare in un clima sociale, cultu-rale e politico che, in realtà, promuove la tendenza a non far riflettere sulla realtà ma insegna a restituire, semmai, visioni stereotipate e pregiudiziali che nulla hanno a che vedere con una seria osservazione delle società e di ciò che accade.

Riflettere sul tema immigrazione è un modo per pensare a noi stessi. Non si tratta di prefigurare un altro mondo – un mondo futuro, possibile o impossibile – bensì di pensare questo mondo, questo presente. L’analisi del tema dell’immi-grazione oggi, infatti, non è a senso unico e non può più ne-cessariamente essere legata al bisogno, all’emergenza, ma deve essere inserita in riflessioni più generali sui cambiamenti che riguardano l’intera società, e in modo particolare le condotte di vita quotidiane delle persone in cui si creano e si ridefi-niscono strategie, relazioni e progetti sia conflittuali che di collaborazione. La mobilità delle persone trasforma i luoghi. Ciascun soggetto contribuisce alla definizione del territorio in cui si trova attraverso una serie molto ampia di pratiche socia-li e politiche, economiche e culturali.1 Considerazione impor-tante a maggior ragione oggi, in quanto la mobilità, declinata

1 Cfr. A.M. Brighenti, Territori migranti, Ombre Corte, Verona 2009.

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in differenti forme di cui l’immigrazione è solo un aspetto e non necessariamente il più originale, risulta essere elemento caratterizzante delle società. Gli spostamenti di popolazione, infatti, hanno interessato la vita dell’uomo a partire dal suo primo apparire sulla terra. Le ragioni che hanno determinato questi spostamenti sono state diverse ma, nel loro complesso, hanno generalmente riguardato la rottura dell’equilibrio fra la comunità umana e l’ambiente fisico e sociale. Oggi, nei decenni che hanno visto il sorgere e l’affermarsi dei processi di globalizzazione a livello planetario, i movimenti di popolazio-ne hanno ripreso a essere ingenti, caratterizzati da mutamenti sia qualitativi che quantitativi. Il rovesciarsi del rapporto di genere fra i migranti, il moltiplicarsi delle aree di provenienza, la modificazione dei rapporti fra le varie componenti nazio-nali, l’aprirsi di elementi di differenziazione all’interno della comunità migrante, l’accrescersi dei matrimoni misti e del fenomeno dei ricongiungimenti familiari, sono solo alcuni degli aspetti che via via vengono sottolineati dai vari studi e riflessioni sul tema.

La molteplicità di strade di lettura e analisi svolte, però, deve tener conto ed essere inserita in un più generale quadro di riflessione che consideri i contesti in cui queste trasforma-zioni avvengono; contesti che alimentano e a loro volta sono alimentati da tali fenomeni e che repentinamente modificano la loro forma. La modernità ha innescato nelle società occi-dentali una serie di processi e di dinamiche, ancora ben pre-senti nell’epoca contemporanea. Nelle società preindustriali la vita umana era infatti caratterizzata dal vivere un numero limitato di relazioni, in cerchie sociali decisamente ristrette, che finivano per assorbire il soggetto in tutti gli aspetti della sua vita, da un lato tutelandolo, ma dall’altro mantenendolo sotto uno stretto controllo sociale. Nella moderna società in-dustriale si era invece moltiplicato il numero di cerchie sociali cui l’individuo apparteneva. Si assisteva a una moltiplicazio-ne dei ruoli che finiva per affievolire la forza del controllo di

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ognuna di queste cerchie sulla vita del singolo, il quale perciò era complessivamente più libero, più consapevole della pro-pria libertà, e tendenzialmente più individualista. Caratteristi-che accentuate e ulteriormente vivificate dai processi indotti dalla globalizzazione, dalla sua erosione delle fonti tradizio-nali di certezze. La crisi del welfare, la perdita di importanza del ruolo dello Stato (tanto più diminuisce la sua capacità fattuale, tanto più si reinventa l’etnia nazionale, mantenuta e rinvigorita attraverso l’accento sulla paura, sul controllo, sulla chiusura), i forti cambiamenti nell’organizzazione del lavoro (con il moltiplicarsi di situazioni occupazionali instabili e a bassa tutela), il carattere sempre più competitivo della vita sociale, la costante necessità di adeguarsi allo sviluppo delle tecnologie, l’accresciuta mobilità e, quindi lo sradicamento con luoghi e persone, portano ansietà e un parziale cambia-mento nelle fonti di inquietudine.2

Le persone si ritrovano a vivere in una società individua-lizzata, sempre più povera di riferimenti collettivi. Il rischio maggiore è quello della solitudine del singolo, costretto a muoversi in una folla indifferente, intesa nel duplice senso di simile, omologata a lui, ma nello stesso tempo poco attenta e partecipe ai bisogni dell’altro.3 Se nel mondo globalizzato le persone vivono a stretto contatto maggiormente che in pas-sato e condividono più aspetti della vita di quanto non sia avvenuto un tempo, oggi la condizione umana è autocentrata e autoreferenziale. Gli individui vivono in uno stato di apatia e passività che nasce dalla consapevolezza che tutto può cam-biare da un momento all’altro per ragioni al cospetto delle quali sono assolutamente impotenti. L’instabilità e la sfiducia nelle istituzioni tradizionali, non più in grado di fornire ri-sposte e riferimenti certi e l’assenza, quindi, di una sicurez-

2 Cfr. V. Cotesta, Sociologia del mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2004.

3 Cfr. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000.

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za di lungo periodo, portano a considerare la “gratificazione immediata” quale unica strategia possibile. Non si può più confidare nel fatto che ciò che accade oggi si ripeta doma-ni o che le persone che incontriamo oggi siano le stesse del giorno successivo, quindi è preferibile puntare sul massimo godimento nel tempo più breve possibile. In questa condizio-ne anche la convivenza si liquefa e l’Altro assume lo status di qualsiasi oggetto.4

Lo sguardo indirizzato all’immediato più che al lungo termine, all’utilità più che al valore, dissolve il legame tra le persone e induce a diventare individui, ovvero a tentare di perseguire, ciascuno per proprio conto, obiettivi e sicurezze. Senza la certezza che può derivare dall’avere un ruolo prede-finito, relazioni e risposte durature, ciascun individuo si fa carico in prima persona dei propri bisogni, deve costruire se stesso, le proprie certezze e speranze. Impegno gravoso che lo coinvolge totalmente e lo fa desistere dal guardarsi intor-no e dal farsi portatore di interessi collettivi. Amendola, con un’espressione apparentemente contraddittoria, parla di “in-dividualismo di massa”.5 Tale definizione è possibile perché indica che larghi strati della popolazione condividono una cultura che privilegia la ricerca di percorsi in seno alla propria esistenza centrati sull’individuo o comunque sulle relazioni private, più che aderire a progetti collettivi di trasformazione della società, a forme di progettualità basate su valori sociali ampiamente condivisi.

La complessità che caratterizza la composizione della po-polazione e gli stili di vita, quindi, fa sì che il legame che con-solida gruppi e individui faccia riferimento a una condivisio-ne di interessi più privati che pubblici6 e a forme aggregative

4 Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.5 G.D. Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli

contemporanea, Laterza, Bari 1997.6 Nell’età della modernità liquida, stiamo passando dall’epoca dei “grup-

pi di riferimento” preassegnati a quella del “raffronto universale”: cfr. Z. Bau-

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contingenti e costruite più nell’immaginario che nella realtà. La condizione di mutevolezza e instabilità che vede ridefinire i rapporti tra le persone e tra gli individui e i luoghi si traduce, quindi, in una sensazione di inquietudine diffusa che di volta in volta si coagula intorno a situazioni vissute o immaginate come pericolose e in tentativi di recupero e riscoperta di rife-rimenti e memorie del passato, rispolverate e fatte proprie con l’intento strumentale di ritrovar riferimenti. Inquietudine che riguarda i singoli ma anche gruppi che portano a “voglia di comunità”,7 alla volontà di innalzare intorno a spazi, fisici o immaginati, frontiere alle quali viene attribuito il compito di assicurare una difesa verso l’esterno e contemporaneamente un rafforzamento dei legami all’interno. Si tratta spesso più di condizioni narrate che non concretamente realizzate ma che incominciano a farsi consistenti in alcune aree piuttosto che altre, fino a prefigurare isole di sicurezza presunte e ben difese.8

L’insicurezza favorisce, così, atteggiamenti che ricercano coloro che vengono percepiti come propri simili e che tendo-no a escludere quanti sono visti come altro da sé. Si cerca di stare con i propri simili perché l’incontro con chi è diverso ap-pare sempre più inquietante. L’eterogeneità sociale sta diven-tando una delle principali fonti di paura. Se non so più bene chi sono io, se non è più netta e definibile la mia identità (la-vorativa, territoriale, familiare, ecc.) so di certo che non sono l’altro e, a maggior ragione, mantengo le distanze se quest’Al-tro è in condizioni deprivate e mi ricorda una situazione di precarietà, di cui, in realtà, rischio di essere vittima anch’io.

Inseriti in queste dinamiche i processi migratori appaio-no, quindi, fattori rilevanti nella ri-costruzione dell’imma-ginario personale e collettivo, spesso additati come la causa

man Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.7 Cfr. Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2003.8 Cfr. A. Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci, Roma 2006.

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di modificazioni e comportamenti negativi. Ma una reale e attenta verifica sui dati e sugli accadimenti della realtà (come ben dimostrano i saggi del presente volume) mostrano quan-to questa lettura sia costruita e immaginifica.

La differenza “tra di noi”, la differenza in casa nostra (una differenza che sorge dall’interno di uno spazio culturale che si credeva politicamente e religiosamente omogeneo) è quel-la che scatena la massima sorpresa e che tende a giustificare comportamenti discriminatori e negativi. Ma le presunte dif-ferenze culturali di cui sono portatori i migranti non sono poi così rilevanti, a un’attenta lettura dei modi di vita delle persone, ma vengono ingigantiti nella coscienza diffusa dal doppio effetto prodotto dal verificarsi di situazioni particolari presentate come esemplari e dall’assoluta prevalenza concessa a queste ultime dai media.9

In realtà la stragrande maggioranza degli stranieri residenti proviene da aree urbane ed è quindi prima di tutto portatrice di pratiche di comportamento diffuse in ogni parte del piane-ta e legate agli aspetti concreti dei processi di globalizzazione. Su questa linea i comportamenti di vita quotidiana rafforzano semmai tendenze già presenti, come quella di privilegiare, sul fronte del consumo di cose ma anche di utilizzo del tempo li-bero, occasioni tendenzialmente più massificate, proposte dal diffondersi dei grandi centri commerciali e/o di svago.10

Emerge, quindi, il paradosso, a cui costantemente assistia-mo, di utilizzo del discorso della “differenza culturale” quale frontiera teorica e concreta di comportamenti e decisioni da attribuire solo a certi gruppi e circostanze, in una realtà, in-vece, in cui si verificano nuovi fenomeni di circolazione e di nomadismo per tutti e in cui, semmai, parlare di diversità significa parlare di reti diasporiche, con nuovi spazi, reali o

9 Cfr. E. Colombo e G. Semi (a cura di), Multiculturalismo quotidiano, Franco Angeli, Milano 2007.

10 Cfr. L. Longoni (a cura di), Multiculturale a chi? Le aspettative cultu-rali degli immigrati, Fratelli Frilli, Genova 2008.

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virtuali, di transito, piuttosto che di origine o di accoglienza; di appartenenze transnazionali con rappresentazioni nuove o rinnovate, di dimensioni ibride, difficili da categorizzare o che perlomeno richiedono nuove categorie.11 Il discorso sulla “differenza culturale”, quindi, si complica e si intreccia per tutti, stranieri e non, declinandosi da un lato nella ricerca di qualcosa che non c’è, non può più esserci, almeno nella forma passata, e dall’altro in strumento di separazione e discrimina-zione.

La presenza dei migranti, semmai, è spia della più genera-le complessità sociale e risente anch’essa dei fenomeni e delle trasformazioni sociali e culturali di cui si è accennato. Se la modernità, infatti, è sempre stata un periodo di migrazioni massive di persone da un continente all’altro e la politica do-minante verso gli stranieri, per la maggior parte della storia moderna, è stata una politica di assimilazione,12 oggi le mi-grazioni contemporanee hanno un carattere diasporico, non assimilatorio. Le persone che vanno in un altro paese non ci vanno con l’intenzione di diventare come la popolazione ospite e, come indicato in precedenza, tendenzialmente, la popolazione ospite non è particolarmente interessata ad assi-milarle. Il problema diviene quindi quello di saper affrontare queste tensioni, questo oscillare tra istanze omologatrici e di differenziazione, tendenze che paiono opposte ma che in real-tà sono frutto degli stessi eventi.

Come possono convivere, come possono comunicare? La tolleranza, spesso altro volto della discriminazione, non è sufficiente, bisogna «passare a un livello più alto, cioè a un atteggiamento di solidarietà»13 e consapevolezza dei proces-

11 Cfr. A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi Editore, Roma 2001.

12 Cfr. M. Ambrosini, Multiculturalismo e cittadinanza, in L. Sciolla, Processi e trasformazioni sociali, Laterza, Roma-Bari 2009.

13 Z. Bauman, Quel diverso che ci fa paura, in «la Repubblica», 16 no-vembre 2009, p. 37.

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si in atto per riuscire a riconoscere e potenziare la ricchezza dell’eterogeneità e la possibilità del confronto. Costruire per-corsi di solidarietà e consapevolezza può essere lo strumento per far convivere persone che in realtà condividono condizio-ni di vita e tensioni sociali molto simili, che sono compagne di un percorso che si sta giocando e costruendo, volenti o nolenti, insieme.

Indipendentemente dai tentativi, formali o informali, di arginare lo spostamento di persone, infatti, l’arrivo di nuovi cittadini è e sarà un elemento strutturale della nostra società e la verifica empirica, come dimostrato nei saggi del presente volume, mostra, quanto i “diversi” si mescolino ai normali un po’ in tutte le aree, e quanto, semmai, le separazioni e le fron-tiere che vengono erette sono piuttosto frutto della disparità di risorse disponibili e della difficoltà di accesso al sistema di chances proposte.

La sfida da vincere, quindi, è quella di contrastare le più generali spinte alla disgregazione indotte dai modi più com-plessivi di organizzarsi della vita e della produzione materiale delle società e dalla capacità di leggere le informazioni ricevu-te e le proprie esperienze liberandosi da stereotipi e pregiudizi che nulla hanno a che vedere con una seria e proficua possibi-lità di conoscenza e di crescita.

Profondamente convinti della necessità di percorrere questa via sono gli autori del presente volume, un piccolo tassello verso questo percorso e un tentativo di proporre ri-flessioni e suggestioni per suscitare il desiderio e l’esigenza di continuare a procedere verso questo cammino, avendo ben presente che sono le persone a dialogare e interagire e non le culture: persone con i propri ricordi, paure e speranze; che è necessario pensare alla cultura come un liquido e non come un’essenza fissa e statica che esiste al margine di azioni, espe-rienze e pratiche; che la nostra società è plurale e che noi siamo parte integrante di questa pluralità; che, infine, par-lare di identificazione e di differenziazione è far riferimento

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a processi con effetti molteplici, e non la giustificazione per agire con una sola identità idealizzata e reagire a una sola differenza stereotipata.

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Gli autori

Marco Aime, professore associato, insegna Antropologia culturale presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Genova. Fra i numerosi campi di studio, si è interessato dello svi-luppo e del rimodellamento di concetti come cultura, identità ed etnia, da molti anni studia le dinamiche identitarie delle comunità e le problematiche delle relazioni tra culture differenti. Ha inoltre condotto numerose ricerche in Africa occidentale e sulle Alpi.

Paolo Arvati, sociologo, è docente a contratto di Statistica sociale presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Genova. Per molti anni è stato dirigente responsabile del Servizio statistica del Comune di Genova.

Bianca Baggiani, laureata in Scienze politiche – laurea triennale (indirizzo Politiche sociali e Ricerca sociale) – presso l’Università degli Studi di Genova, laureanda in Scienze politiche – laurea spe-cialistica – e organizzatrice del ciclo di lezioni Noi e l’altro? Analisi dei fenomeni migratori e dei rapporti interculturali nell’era della globa-lizzazione da cui ha preso spunto questo libro.

Alessandra Ballerini, avvocato civilista esperta di diritti umani e immigrazione, lavora con l’ufficio immigrati della Cgil. Nella sua attività quotidiana si occupa di donne vittime di violenza, affidi di minori, tutela di emarginati e delle cosiddette fasce deboli.

Giuliano Carlini, docente di Sociologia delle relazioni intercultu-rali presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi

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di Genova, membro del comitato scientifico del Cedritt (Centro di documentazione e ricerca sui trasferimenti di tecnologia). Ha svolto numerose ricerche su Genova e la Liguria, sui giovani, sugli immi-grati, sul disagio e la tossicodipendenza, sulla povertà. Si occupa da tempo di problemi relativi alla mobilità e agli scambi nell’area mediterranea e – negli ultimi anni – dei processi di trasformazio-ne delle realtà urbane, con particolare riguardo alle identità delle comunità locali e dei quartieri e ai fenomeni di insediamento dei processi migratori.

Laura Longoni, dottore di ricerca in Scienze politico-sociali e psi-cologiche presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Genova, collabora da anni con il Dipartimento di scienze e politiche sociali (Dispos), presso il quale ha svolto numerose attività come assegnista di ricerca. Docente a contratto di Sociologia della co-municazione presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Genova, direttrice del Cedritt, lavora da tempo su modalità e criticità delle trasformazioni urbane con particolare riguardo ai muta-menti degli atteggiamenti culturali delle popolazioni nei quartieri.

Salvatore Palidda, professore associato, insegna Sociologia dei processi migratori presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Genova; ha inoltre condotto ricerche sulle migrazioni per più di tredici anni presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e il Cnrs francese.

Agostino Petrillo, ricercatore di ruolo confermato, insegna Socio-logia generale presso il Politecnico di Milano, si occupa di conflitti, metropoli e problematiche urbane. Più nello specifico, fra i numero-si ambiti e interessi di ricerca, si è interessato delle relazioni tra crisi urbana e trasformazioni del lavoro, dei mutamenti delle identità urbane e degli effetti che la globalizzazione ha nel contesto urbano.

Luca Queirolo Palmas, ricercatore in Sociologia dei processi cultu-rali, insegna Sociologia delle migrazioni e Sociologia dell’educazio-ne presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Genova. È fondatore e condirettore di «Mondi Migranti», rivista di studi e ricerche sulle migrazioni internazionali.

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Giacomo Solano, laureato in Scienze politiche – laurea specialisti-ca – presso l’Università degli Studi di Genova (dopo essersi laureato presso la medesima università in Scienze politiche, laurea triennale, indirizzo Politiche sociali e Ricerca sociale), organizzatore del ciclo di lezioni Noi e l’altro? Analisi dei fenomeni migratori e dei rapporti interculturali nell’era della globalizzazione da cui ha preso spunto questo libro.

Indice

7 Bianca Baggiani e Giacomo Solano Introduzione: Noi e l’altro?

11 Marco Aime Culture, non pietre 19 Salvatore Palidda Le mobilità umane nel contesto li-

berista 29 Paolo Arvati Genova e Liguria, una storia di mi-

grazioni 45 Agostino Petrillo Le comunità di migranti e le nuove

élite transnazionali 61 Giuliano Carlini Il rapporto tra immigrati e spazi cit-

tadini: rapporti interculturali nei quartieri 71 Luca Queirolo Palmas Gangs attack! Diritto all’indif-

ferenza e protagonismo giovanile 85 Alessandra Ballerini Analisi delle politiche dell’immi-

grazione e del sistema giuridico italiano 97 Bianca Baggiani Immigrazione e criminalità: il caso

italiano 119 Giacomo Solano Immigrazione, mass media e opinio-

ne pubblica 141 Laura Longoni Una conclusione per non concludere.

L’immigrazione: riflessioni e risorse per la società 151 Riferimenti bibliografici 161 Gli autori

Finito di stampareda Digital Print di Segrate (Mi)

nel mese di febbraio 2011