Napoli nelle opere di Campanella

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Napoli 1. Dalla necessità biografica alla questione teorica. -- Trattare la questione di Napoli (nel doppio significato della città di Napoli e del Regno omonimo) nel pensiero di C. potrebbe sembrare un’impresa non problematica. Abbiamo a che fare con un autore vissuto a Napoli durante la propria formazione intellettuale e, oltre al fatto che fu incarcerato 27 anni nei ‘castelli’ della città, C. è anche un uomo che ha sofferto nella propria pelle l’attaccamento alla terra natia e che, fin dai primi testi teorici importanti, rivendica la sua appartenenza alla lunga linea dei filosofi meridionali, dai gloriosi letterati della Magna Grecia a Bernardino Telesio, facendo addirittura della sua Calabria la fonte prediletta del sapere universale, come scrive nella Philosophia sensibus demonstrata, nel 1589. Nonostante ciò, Croce poteva scrivere, cogliendo un primo nodo problematico, che se C. è «tra i filosofi (meridionali) [...] quello più strettamente congiunto alle condizioni del suo paese, nel quale fu cospiratore e tentò una rivoluzione», lo Stilese «è tutto teso verso un’utopia» che in fin dei conti non concerne proprio il Regno più di qualsiasi altra parte del mondo cristiano [1]. Non si tratta qui di discutere un enunciato opinabile (specialmente nella sua seconda parte), ma di sottolineare che la questione napoletana nel pensiero di C. si articola in vari segmenti, non senza paradossi. In primo luogo, conviene fare una distinzione tra la pregnanza ‘biografica’ di Napoli e quella testuale (anche se esistono intersezioni tra le due). Inoltre, da un punto di vista 1

Transcript of Napoli nelle opere di Campanella

Napoli

1. Dalla necessità biografica alla questione teorica. -- Trattare la questione di

Napoli (nel doppio significato della città di Napoli e del Regno

omonimo) nel pensiero di C. potrebbe sembrare un’impresa non

problematica. Abbiamo a che fare con un autore vissuto a Napoli

durante la propria formazione intellettuale e, oltre al fatto che

fu incarcerato 27 anni nei ‘castelli’ della città, C. è anche un

uomo che ha sofferto nella propria pelle l’attaccamento alla

terra natia e che, fin dai primi testi teorici importanti,

rivendica la sua appartenenza alla lunga linea dei filosofi

meridionali, dai gloriosi letterati della Magna Grecia a

Bernardino Telesio, facendo addirittura della sua Calabria la

fonte prediletta del sapere universale, come scrive nella

Philosophia sensibus demonstrata, nel 1589. Nonostante ciò, Croce

poteva scrivere, cogliendo un primo nodo problematico, che se C.

è «tra i filosofi (meridionali) [...] quello più strettamente

congiunto alle condizioni del suo paese, nel quale fu cospiratore

e tentò una rivoluzione», lo Stilese «è tutto teso verso

un’utopia» che in fin dei conti non concerne proprio il Regno più

di qualsiasi altra parte del mondo cristiano [1]. Non si tratta

qui di discutere un enunciato opinabile (specialmente nella sua

seconda parte), ma di sottolineare che la questione napoletana

nel pensiero di C. si articola in vari segmenti, non senza

paradossi. In primo luogo, conviene fare una distinzione tra la

pregnanza ‘biografica’ di Napoli e quella testuale (anche se

esistono intersezioni tra le due). Inoltre, da un punto di vista

1

strettamente testuale, o teoretico, va notato fin dall’inizio che

Napoli compare in modo esplicito spesso in parentesi, in isolotti

ristretti nel mare magnum della scrittura campanelliana. Se, ad

esempio, la critica cita di frequente la famosa frase su Napoli

nella Città del Sole, si dice meno spesso che essa è un vero hapax del

testo. Conviene poi tener conto della cronologia di tale

questione nei testi campanelliani, per tentare di discernere

un’eventuale evoluzione del suo pensiero. Infine, non si

prescinderà dalla costrizione che impongono all’autore i quasi

tre decenni di carcere che sono decenni pur sempre «napoletani»,

di una Napoli che tutti gli sforzi e tutte le strategie del

prigioniero tendono a fuggire (donde lo statuto particolare, per

esempio, degli arbitrii e dei vari memoriali tra il 1605 e il 1611). E

l’ultimo paradosso risiede forse nel fatto che C. abbia salvato

la propria vita facendosi appunto portare nella capitale,

evitando in tal modo di essere giustiziato immediatamente in

Calabria, come indicano le prime dichiarazioni processuali. Si

potrebbe considerare che, sul filo di un percorso che conduce C.

a programmare fughe successive dalla Calabria, da Napoli e,

infine, dall’Italia, Napoli passa da uno statuto di episodio

biografico a una rilevanza politica, con un conseguente processo

di astrazione che perde di vista buona parte della specificità

delle riflessione sulle condizioni del Regno meridionale.

2. Napoli come ambigua necessità biografica. -- Napoli è un orizzonte

obbligato per il giovane frate, che ben presto non vuole rimanere

circoscritto nell’ambiente calabrese, nonostante l’indubbia

2

ricchezza della vita culturale cosentina (specialmente attorno

all’amato Bernardino Telesio) [2]. Infattti, Napoli era allora

una delle capitali culturali, se non la capitale culturale,

dell’impero spagnolo. È poi largamente avviato il processo che

porterà Napoli a un «destino parigino» – anche se ben presto

interrotto [3]. Una situazione che rafforza il predominio

assoluto della città sul Regno con, addirittura, una capacità di

concentrare in sé la maggior parte delle forze vive del meridione

[4]. Ma, al di là di queste generalità, il ruolo di Napoli per il

giovane C. rimane complesso e ambivalente, difficile da trattare

non solo perché non abbiamo moltissime ricerche concernenti gli

ambienti culturali della fine del Cinquecento napoletano [5], ma

anche perché C., nei testi che ci rimangono, sembra spesso

indifferente nei confronti di questa città. Ne parla in

definitiva poco: non molte lettere sono databili a quel periodo

e, nella Philosophia sensibus demonstrata, è la sua Calabria ad essere

laudata specificamente. Questo è vero anche per una poesia quale

Sovra il monte di Stilo [6], mentre in altre più tarde (come Agl’Italiani che

attendono a poetar con le favole greche) celebra Telesio, se stesso e

l’Italia o Roma in generale, di fronte alla Grecia [7]. Ma C.

venne accolto nella capitale del Regno a braccia aperte. A San

Domenico Maggiore ebbe l’occasione di entrare a contatto con le

cerchie più aperte della vita culturale napoletana. Il convento

sembra infatti essere stato legato all’Accademia laica degli

Svegliati (forse ne fu anche per un certo periodo di tempo la

sede) [8], dove si ritrovavano numerosi letterati cosentini e

3

dove il pensiero telesiano aveva grandi sostenitori (in

particolare Giulio Cortese, che verrà citato nella Dichiarazione di

Castelvetere [9], o ancora Giacomo da Gaeta, interlocutore del

Dialogo contro Luterani e ricordato con ammirazione nella poesia Al

Telesio Cosentino). L’Accademia annoverava anche importanti letterati

della cultura napoletana quali il giovane Giambattista Marino,

Giulio Cesare Capaccio o Camillo Pellegrino. C. visse poi qualche

tempo nel palazzo del marchese Mario Del Tufo (dedicatario della

Phil. sens. dem.) ed è probabile che l’ambiente dellaportiano sia

stato di notevole rilievo per lo sviluppo dei suoi lavori: lo

ricorda egli stesso nel Syntagma a proposito del Senso delle cose e

della magia, che dice originato dal dibattito a proposito del De

humana physiognomia di G.B. Della Porta pubblicato nel 1586 [10].

Rimangono tuttavia molte incertezze sulla natura e la profondità

di questi scambi intellettuali di cui ci rimangono solo poche

tracce. Prevalgono a questo proposito ipotesi fondate su incroci

e indubbie affinità di pensiero (quale la convincente analisi di

Lina Bolzoni delle affinità della poetica di C. con la poesia

neotelesiana di Giulio Cortese, o i raffronti tra i testi di

Della Porta e quelli di C.). Ma si sa anche che ben presto, nel

1592, C. fu indotto ad allontanarsi in seguito ai primi problemi

con l’Inquisizione. Si fa anche l’ipotesi che la chiusura nel

1593 dell’Accademia degli Svegliati fosse stata parzialmente

dovuta alle accuse contro C. Ma il telesianesimo o la simpatia

per la magia dellaportiana avevano davvero bisogno, per

esprimersi nell’Accademia in modo inquietante per il potere

4

spagnolo, di ricorrere all’ancora giovane e poco noto C.?

Inoltre, non va dimenticato che C. si allontana da Napoli con il

chiaro proposito di sviluppare la propria carriera altrove,

soprattutto a Firenze: lo scacco di quel progetto, appoggiato da

Giambattista da Polistena, già provinciale dell’Ordine domenicano

per la Calabria, non deve farne sottovalutare l’importanza.

L’adesione di C. alla cerchia dei letterati-filosofi-poeti

napoletani si configura quindi come una parentesi, e le

motivazioni della chiusura di essa rimangono incerte. Dissenso

politico di fondo con gli aristocratici filospagnoli dominanti

nell’Accademia (protetti da Matteo di Capua, che l’avrebbe anche

ospitata dopo il convento di San Domenico Maggiore) ? [11]

Dissensi teorici con i dellaportiani? Più semplicemente,

inadequatezza dell’ambiente napoletano al suo progetto

universalista? Risulta difficile privilegiare un’ipotesi (ammesso

e non concesso che ci sia bisogno di scomodarne una diversa

dall’evidente necessità di fuggire le prime persecuzioni). Di

Napoli e su Napoli in quel periodo dell’attività di C.

rimarrebbero essenzialmente quattro dati: un riscontro (o una

coincidenza) di stampo politico-amministrativo; un aneddoto

dubbio; un riferimento testuale importante; infine, un rimando

processuale esplicito a quegli anni napoletani. L’atto amministrativo

concerne la decisione di chiudere l’Accademia degli Svegliati il

24 febbraio del 1593: è notevole infatti che l’ingiunzione

provenga addirittura da Filippo II stesso, dopo una consultazione

del suo Consiglio, e che enunci esplicitamente la paura che le

5

sedute avessero conseguenze di tipo politico – un pericolo

giudicato sufficientemente concreto da giustificare un intervento

da parte del re identico a quello di Pietro da Toledo nel lontano

1547. En passant, si segnalerà che la violenza della decisione di

chiusura dell’Accademia ha in comune con la repressione della

futura congiura una sproporzione notevole tra l’entità del

pericolo e la reazione del potere centrale. L’aneddoto rimanda a

una battuta del padre di C., secondo il quale il figlio «venne

tanto grandito che malamente me accettava per patre et pratticava

solamente con Principi e Signori» [12]. È probabile che

l’esperienza napoletana abbia segnato, nel percorso di C., un

salto di qualità che gli dava motivo di credere che fosse

possibile sfuggire alla sua condizione di semplice frate,

insegnante e studioso, contribuendo a fare crescere in lui la

convinzione di avere un destino più alto. La traccia testuale chiara,

posteriore alla sua prima partenza da Napoli (databile al 1595) è

la scelta della città partenopea come luogo dell’ambientazione

per il Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, scelta

rafforzata poi dall’identità degli interlocutori (il telesiano

Giacomo da Gaeta, il poeta-scienziato, principe arciaccademico

degli Svegliati, Giulio Cortese, e l’uomo politico Girolamo Del

Tufo). Le due scelte sono tanto più notevoli quanto dei tre

dialoghi di C. (gli altri due sono la Città del Sole e il Dialogo politico

sopra i passati romori di Francia) questo è l’unico a presentare un luogo

della finzione e degli interlocutori ancorati in una storia e in

uno spazio identificabili. Orbene, questo dialogo presenta due

6

caratteristiche: da un lato, si tratta di un testo esplicitamente

politico, concepito (anche, ma non solo, in chiave strumentale

per dimostrare di essersi ravveduto) come elemento di lotta

ideologica contro tendenze ereticali napoletane, presunte o vere

che fossero; dall’altro si tratta di un testo in volgare rivolto

a un pubblico ampio, come dimostra anche l’importante lettera

dedicatoria al cardinale Bonelli. Il testo è quindi in contrasto

radicale con l’impostazione aristocratica – sia pure

un’aristocrazia della mente – della riflessione degli Svegliati e

specialmente di Giulio Cortese, come mostrano in modo esplicito,

ad esempio, le due dedicatorie scritte dall’amico accademico

Francesco Mauro, detto l’Errante, per l’edizione delle Rime del

Cortese nel 1588. Di ritorno a Napoli all’inizio del 1598, C. è

costretto a lasciare la città dopo pochi mesi. Prima che Napoli

diventi la città mostruosa e oziosa della Città del Sole sarà ancora,

un’ultima volta, il luogo ambito dal prigioniero in una strategia

processuale obbligata. È questo il quarto dato ineccepibile a cui

si alludeva sopra.

3. Napoli come «Caucaso». -- Alcuni degli interlocutori

napoletani, reali e fittizi (nel dialogo citato sopra), del C.

ritornano esplicitamente nella Dichiarazione di Castelvetere [13],

rilasciata il 10 settembre 1599, subito dopo la cattura. In essa

C. allude alle conversazioni avute a Napoli con tre letterati,

accademici Svegliati e/o dellaportiani, come a una delle fonti

del suo primo interesse per l’astrologia e la profezia (sono

ricordati Giulio Cortese e i filosofi-scienziati Giovan Paolo

7

Vernaleone e Colantonio Stigliola, bruniano ed ex compagno nel

carcere del Sant’Uffizio nel 1594). Nel rinvio agli incontri

napoletani di qualche anno prima è in gioco (oltre alla possibile

strategia processuale che porta ad alleggerire le proprie

responsabilità e a ricondurre la sua pratica profetica

all’influenza altrui) la storia stessa del Regno di Napoli. La

discussione astrologico-profetica riguarda infatti le mutazioni

nel Regno considerate imminenti. Parallelamente a tale rimando,

C. insiste fin da subito – e lo ribadirà senza sosta fino alla

fine dei suoi 27 anni di carcere – sul fatto che la congiura non

era anti-spagnola, ma mirava a protestare contro gli abusi degli

ufficiali del Regno e, soprattutto, ad accompagnare i grandi

sommovimenti a venire. In questa logica, non si deve processarlo

per ribellione e lesa maestà (in tale situazione la sentenza

sarebbe stata la pena capitale), ma, casomai, per eresia (come è

noto, a uno stadio successivo, la sua strategia processuale lo

porterà a rifiutare lo scontro dottrinale a vantaggio della

scelta, tutta politica, della follia, che ritorce contro i

giudici la loro stessa logica). In conseguenza di ciò, è doveroso

portarlo a Napoli, o meglio ancora a Roma, in quanto uomo di

chiesa. Non si tratta qui di riprendere la questione del

processo, ma di notare soltanto che C. sceglie consapevolmente di

proiettare la sua azione passata nella storia presente e nel

futuro prossimo del Regno (di qui anche un collegamento esplicito

tra profezia e analisi politica). Si tratta della prima vistosa

svolta, della prima uscita allo scoperto tutta storico-politica

8

del frate. Si potrebbe obbiettare che è ora pacifico che il

ricordato Dialogo contro Luterani, o i Discorsi ai principi d’Italia e la

Monarchia di Spagna, furono scritti almeno in parte prima della crisi

del 1599 e della carcerazione. Ma il dialogo, da un certo punto

di vista, regolava i conti con Napoli, i Discorsi rimangono

incompiuti e la Monarchia, trova proprio grazie alla congiura e al

processo, il suo posto nel dispositivo teorico campanelliano. Il

processo e il carcere sono anche in questa prospettiva il campo

di una riorganizzazione – non solo strumentale – del complesso

piano di studi e di lavori di C.: la questione di Napoli nei

testi citati va riletta in tale prospettiva. Che cosa ci dicono i

Discorsi e la Monarchia di Spagna su Napoli? I Discorsi introducono

un’argomentazione che diventerà ricorrente in tutti i testi

politici di C.: le guerre tra Francesi e Spagnoli (o tra

imperatori e papato nel lontano Duecento e nel Trecento, o più

generalmente le guerre tra cristiani), soprattutto quelle per il

dominio sul Regno di Napoli, sono andate ad unico vantaggio dei

Turchi, il comune ed eterno nemico [14]. Come nella Monarchia di

Spagna, la costatazione non toglie che gli Italiani debbano

preferire il dominio spagnolo a quello francese [15], nonché,

ovviamente, l’impero spagnolo a quello turco, il suo unico rivale

potenziale, perché il Turco estingue i principi e i letterati

[16]. Nella Monarchia di Spagna, viene confermato il destino

imperiale degli Spagnoli. Ma va notato che il caso napoletano è

trattato insieme con quello milanese e in un capitolo dedicato

all’Italia [17], con un elogio dell’unità imperiale e

9

dell’‘amicizia’ italo-spagnola: C. vi anticipa, si potrebbe dire,

alcune delle tesi degli storici moderni sull’impero spagnolo

polisinodale, l’unità imperiale essendo garantita dalla difesa di

interessi incrociati tra i vari regni ‘spagnoli’, o il sentimento

orgoglioso dei Napoletani di appartenere – e non in modo

periferico – a tale Impero [18]. Inoltre nella stessa Monarchia,

diventa per la prima volta più preciso il programma di un buon

governo iberico sul Regno di Napoli. C. scrive che «bisogna

trattare di modo Napoli e Milano che li popoli vicini li

ammirino come felici stati e desiderino d’esser di loro» [19],

incrementando in questo modo l’impero e favorendo la progressiva

unione del gregge cristiano sotto una legge unica. Se si vuole

raggiungere questo fine bisogna «scemar i tributi», «augumentare

l’armi e religione», fare «provvisioni contro li usurai e li

monti di pietà», abbassare i baroni, visitare le carceri per

sorvegliare il corretto esercizio della giustizia, torre «gli

alloggiamenti dei soldati [...] faccendo più gran numero di

galere», dato che «il signore del mare sempre della terra fu

anche signore» [20]. Questi assi portanti dell’auspicato buon

governo ripropongono d’altronde alcune delle principali

caratteristiche dell’analisi di quegli straordinari osservatori

che sono gli ambasciatori veneziani a Napoli [21]. L’elenco delle

proposte campanelliane dimostra poi in modo ovvio che, a parte la

questione delle tasse, i rimedi sono più adatti a Napoli che a

Milano. Soprattutto alla lettura delle due ultime

raccommandazioni: da una parte, favorire un’alleanza permanente

10

con il sovrano pontefice (giacché «se il re col papa s’accosta,

mai può temere, perché nessuno re d’Italia senza suo volere mai

si mutò. E tutte le mutazioni di Napoli, egli le fece» [22]);

dall’altra smettere di vendere terre del Regno ai Genovesi [23].

Ma si tratta di speranze e di auspici campanelliani: la Spagna ha

vocazione a soddisfare queste attese, è il paese meglio preparato

per farlo, benché rimanga uno stato straniero come gli altri e

potrebbe, cosa che si intuisce già alla lettura degli ultimi

capitoli dei Discorsi ai principi, fallire e delludere gli ‘Italiani’

(va notato che C. nei due testi – sarà diverso nella Monarchia di

Francia – non usa mai la parola «napoletani» né «regnicoli» e

parla solo d’italiani e di «popoli d’Italia», come se si

riferisse a una prospettiva globale e peninsulare). Di questo

passo, un’altra lettura potrebbe rovesciare radicalmente

l’analisi e trarre dalle stesse raccommandazioni una severa

critica della situazione nel Regno e della Monarchia spagnola. E

questo spiegherebbe il famoso passo della Città del sole sulla città

di Napoli, la quale si inserisce nel dialogo poetico come un

anti-modello, ma anche come un esempio storico di riduzione

involutiva dello stato a una città con la storica crescita di una

capitale parassitaria sottolineata da tutti gli storici moderni

(con il doppio aumento simmetrico del gruppo nobiliare napoletano

urbanizzato, staccato dalle terre produttive del Regno, e di un

ceto popolare assistito e povero). In modo più generale,

adottando questa chiave, si è potuto rileggere l’intera Città del

sole in funzione della politica annonaria e fiscale napoletana

11

[24]. Ritroveremo d’altronde la convinzione (che è poi un topos

degli economisti del tempo) di una centralità della politica

annonaria nel primo degli Arbitrii sopra l’aumento delle entrate del Regno di

Napoli scritti da C. nel 1608 [25]. L’attenzione di C. per le

condizioni di vita nel Regno, che ebbe la sua importanza per il

progetto della congiura, lascia quindi tracce nei testi, ma senza

che gli assi portanti dell’analisi si differenzino da una

generica denuncia delle tasse, delle forme di circolazione

usuraie della moneta e dei soprusi commessi da baroni o ufficiali

del Regno. C. non coglie ancora questioni capitali, come la

dialettica potere regio/potere aristocratico (centrale nel

dibattito politico tra il 1550 e il 1647), la diversificazione

della nobiltà del Regno, la questione dei Genovesi e della

vendita dei titoli nobiliari, il posto del contributo del Regno

di Napoli nelle finanze e nell’esercito imperiale, la forza del

ceto togale, il peso della ‘quiete’ garantita dal governo

spagnolo [26], il dibattito contemporaneo sulla propensione

napoletana alla mutazione, alle «cose nuove» e all’infedeltà. Se

alcuni di questi temi acquisteranno un peso crescente nella sua

riflessione dopo il 1628, i tre Arbitrii del primo decennio non

mostrano grande interesse per tali tematiche, nonostante

l’insistenza a riprenderne la materia nei vari memoriali degli

anni 1606-1611 [27]. Tale considerazione è ovvia se facciamo il

confronto con il testo quasi contemporaneo di un altro

prigioniero, Antonio Serra, intitolato Breve trattato delle cause che

possono far abbondare li regni d’oro e argento dove non sono miniere con applicazione

12

al Regno di Napoli – un’opera scritta nel 1613 nel carcere della

Vicaria. Pubblicato quell’anno stesso, il testo comprende una

severa critica degli «espedienti proposti come crescere la moneta

propria o bassarla di peso e di lega», la quale critica potrebbe

essere rivolta al secondo arbitrio di C., anche se non si ha

nessuna testimonianza di una circolazione del manoscritto degli

Arbitrii. Come confermano le poesie del carcere, siamo infatti nel

tempo della deplorazione: Napoli è prima di tutto legata alle

mura del carcere, un Caucaso, il luogo dell’infinita prigionia

dalla quale si sogna la fuga, un antro di Polifemo, una caverna

buia. Di questa Napoli le poesie non parlano nemmeno, come se le

spesse mura dei castelli fossero diventate metonimia della città.

Ma rimangono ancora da indagare la vita in carcere per tentare di

ricostituire la rete degli incontri di C. e di questo suo

«magistero ufficioso e sui generis, ma prolungato e importante»

[28]. La situazione cambia quando, finalmente, C. lascia Napoli

per Roma ed è in grado di sviluppare una più libera riflessione

sul Regno. Abbiamo un’anticipazione dei testi successivi nel

memoriale di autodifesa scritto nel 1620 a proposito della

lontana congiura quando C. insiste, per la prima volta, su una

delle accuse che gli furono rivolte: aver voluto consegnare il

Regno al Papa [29].

4. Napoli baricentro della politica europea. – Se consideriamo l’insieme

dei testi storico-politici scritti dal C. tra il 1628 e il 1636,

possiamo constatare una specie di esplosione del caso napoletano

nella riflessione, caratterizzato da una sua presenza continua,

13

nonché da un’argomentazione ricorrente che giustifica il ruolo

assegnatogli. In sintesi, si potrebbe dire che dopo l’Avvertimento

al Re di Francia, al Re di Spagna et al Sommo Pontefice, circa alli passati e presenti mali

d’Italia databile al 1628, C. innalza il caso napoletano a zoccolo

della riorganizzazione dell’assetto territoriale della

Cristianità, in nome di una ‘antica’ convinzione (l’unione

necessaria dei Cristiani sotto il Pontifice) e di un’analisi

invece nuova delle forme del governo spagnolo nel Regno. Il testo

dell’Avvertimento è breve, ma di una rara densità: l’autore

comincia con il ricordare che «per tutte l’historie è noto, e da

santi dottori e da poeti italiani lacrimato, che il Regno di

Napoli è stato cagione, o pur occasione, che la Cristianità

avesse perduto più di cento provincie occupate da Mahomettani e

quaranta più da Luterani e d’altri eretici » [30]. Stabilisce per

la prima volta che né i Francesi né gli Spagnoli hanno potuto

mantenere il Regno pacificamente (assunto paradossale per una

terra a cui, dal 1528, erano stati risparmiati tutti i conflitti

europei). Continua con un’analisi della congiuntura specifica

sorta dalla ribellione olandese in poi: l’indebolimento della

potenza spagnola impedisce una difesa del Regno contro i Turchi

e, a breve scadenza, la Spagna potrebbe perdere sia l’Olanda che

tutta l’Italia e il Nuovo Mondo! In questa situazione, «ottimo et

unico rimedio è, né si può trovar meglio, metter questo Regno in

man del Papa Padre comune ». È anche l’occasione per riprendere

la sua proposta di un Senato dei principi cristiani a Roma per

risolvere i conflitti tra di loro. Il « remedio », come C. sa

14

bene, non verrà accolto: rimane quindi da pregare... ma anche da

« animar tutti Popoli a questo effetto contro quelli che [...]

s’ostinono». A quella data, Francia e Spagna sono ancora

equiparate e trattate nello stesso modo, e l’argomentazione tiene

conto solo di fattori esterni al Regno (Olanda, Turchi, principi

tedeschi eretici). Ma viene pure sottinteso già una potenziale

ritorsione contro quelli che s’ostinano a non capire (e il

bersaglio sono qui gli Spagnoli). In un paradossale movimento del

pensiero di C., l’universalismo imperiale cattolico passa dalla

soluzione del caso specifico napoletano per trasformare Napoli in

unico rimedio alla storica divisione dei cristiani. Possiamo

considerare che si illustra qui l’applicazione territoriale della

comunità dei beni dei Solari alla geopolitica europea (giacché

dare il Regno al Papa significa non darlo a nessuno, ma a tutti i

cristiani – «quel che usurpa un solo di suoi figli, con gelosia

degli altri, saria accommunato a tutti»; «il dar alla Chiesa non

è dare ma metter in comunità»), il che si configura come una

ripresa in chiave territoriale, nell’ambito di un modernissimo

sistema di equilibrio degli stati, della spinta profetica della

congiura per fare partire dalla Calabria la riforma necessaria

della Cristianità. La proposta di consegna del Regno al pontefice

non è poi assurda se si ricorda che essa si trova anche negli

scritti di Sully, ex ministro del re di Francia Enrico IV. In

molti testi successivi (Dialogo politico sopra i passati romori di Francia,

Documenta ad Gallorum nationem, Aforismi politici per le presenti necessità di

Francia, Monarchia di Francia, De politica, ultimi scritti politici ai

15

principi italiani ecc.), C. trae nuove conseguenze di

quest’adattamento radicale della spinta profetico-messianica alla

congiuntura storica sviluppando una critica precisa delle

modalità del governo spagnolo nel Regno. Non è più solo a causa

delle circostanze esterne che il Re cattolico deve rinunciare al

dominio su Napoli, ma anche perché non è stato e non è un buon

principe per il Regno di Napoli [31]. A differenza di quanto

succedeva nei suoi primi testi, C. articola questa volta una

critica precisa del malgoverno spagnolo nel meridione: sistema di

tasse, finanziamento delle guerre spagnole, crisi demografica,

strapotere dei baroni-traditori, dipendenza economica nei

confronti di Genova, predazione dei beni del Regno, assenza di

legittimità della conquista del Regno, miseria popolare

dilagante. Dal punto di vista stilistico, la retorica

dell’‘elenco’, infinito quanto improbabile, diventa una delle

forme predilettte dell’autore per descrivere i mali causati dal

dominio spagnolo o, simmetricamente, le ricchezze potenziali di

Napoli [32]. L’attacco sferrato contro la monarchia spagnola non

si limita a un lamento generico riguardo il malgoverno straniero,

ma si dispiega sempre in modo binario: alle ricchezze infinite

del Regno si contrappone la realtà della sua economia o della sua

demografia scadente per colpa degli Spagnoli, e in tal modo C.

mette insieme due topoi delle descrizioni del Regno di Napoli: il

paese ricchissimo e il paese in preda alla miseria più nera e a

una conflittualità sociale endemica. Secondo la teoria dei tre

‘capi’ [33], mentre l’Impero (o la Germania a seconda dei testi)

16

è il capo dell’essenza e la Spagna il capo dell’esistenza, Napoli

è il «capo del valore», perché da Napoli viene la forza della

monarchia spagnola. Infatti, da Napoli, come da una specie

d’improbabile cuccagna bellica, gli Spagnoli traggono «li soldati

buoni e capitani, piloti, il ferro, il legname, la pece, i

cavalli, i denari, bombarde, archibugi e tutti i necessarii

strumenti della monarchia; oltre le tratte di vini, frumenti,

oglio, cannavi, lini, sale, seta, frutti della terra d’ogni sorte

per sostegno, e uomini d’ingegno per tutte l’arti di guerra e di

pace» [34]. Napoli assume poi il ruolo di testa anche dell’Italia

intera nella misura in cui «tutte le potenze italiane sono come

capelli di questo capo» [35]. Più razionalmente, è colto questa

volta con grande acutezza il ruolo capitale dei Genovesi

nell’economia meridionale [36]. La conclusione di C. non è solo

di tipo conoscitivo: vuole essere radicalmente politica con un

doppio richiamo. Da un parte, ai Napoletani perché si ribellino

(ma il monito è rivolto, di fatto, a tutti gli stati italiani);

dall’altra ai Francesi, perché aiutino militarmente questa

rivolta, ma senza pretendere di mettere piede stabilmente in

Italia [37]. È auspicata una nuova forma d’Impero fondato su un

dominio indiretto e un’inflenza, ma non su un controllo diretto

del territorio. La ribellione è una necessità presente [38],

perché C. considera – non senza esagerazione quando asserisce

che la popolazione del Regno è passata da 8 a 2 millioni [39] –

che è in atto a Napoli una politica di sterminio della

popolazione paragonabile a quella degli Spagnoli in America!

17

[40]. Quando, per la prima volta nel pensiero di C., la questione

napoletana acquista un posto di rilievo, ciò avviene nell’ambito

di une globale redistribuzione delle carte in tutta l’Europa. Per

pensare un Impero ancora possibile, C. torna a pensare come

prioritario il futuro dello stato in cui è nato: lo aveva già

fatto, in un certo senso, quando il progetto di congiura aveva

rappresentato una possibile, sognata e folle, anticipazione

dell’utopia della città solare (e non il contrario). Ma questa

volta la guerra dei Trent’anni è scoppiata, Francia e Spagna sono

apertamente in guerra dal 1635 e la liberazione di Napoli dagli

Spagnoli non è solo una proposta utopica. È diventata un opzione

strategica, come se non gli interessasse Napoli di per sé, bensì

Napoli nei confronti della Spagna, nell’ambito del complesso

equilibrio degli stati europei. Curiosamente, il livello di

astrazione massima del caso napoletano, che diventa totalmente

strumentale al grande disegno dell’unione dell’ecumene sotto il

pastore di Roma, coincide con un ripiegamento quasi

campanilistico che fa della piccola patria la chiave di volta del

destino del mondo.

NOTE. [1] B. CROCE, Storia del regno di Napoli (1925), Bari, 1967, 34. –

[2] Cfr. Bernardino Telesio e la cultura napoletana, Napoli, 1992 e la nota

di F. Giancotti alla poesia n. 68 Al Telesio cosentino, in Poesie, 278-

282. – [3] Cfr. G. GALASSO, Alla periferia dell'impero: il Regno di Napoli nel

periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, 1994. – [4] G. D’AGOSTINO, La

capitale ambigua: Napoli dal 1458 al 1580, Napoli, 1979. – [5] Il

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rinnovamento degli studi storici negli ultimi decenni sembra più

sensibile nei confronti dello ‘stato’ napoletano, grazie agli

studi di Galasso e Musi. – [6] Poesie, 480-481. – [7] Ivi, 193-

202. – [8] Cfr M. MAYLENDER, Storia delle accademie d’Italia, V, Bologna,

1930 (rist. Forni editore, 1991), 280-281, il quale attinge a C.

MINIERI RICCIO, Cenno storico delle accademie fiorite nella città di Napoli,

«Archivio storico per le provincie napoletane», III-IV, 1879-1879.

– [9] Sul Cortese si vedano gli articoli di L. Bolzoni citati in

bibliografia. – [10] Cfr G. ERNST, Religione, ragione e natura, Milano,

1991 nonché W. EAMON Natural Magic and Utopia in the Cinquecento: C. the Della

Porta circle and the Revolt of Calabria, «Memorie domenicane», 1995, 369-

402. – [11] Ma rimane a questo proposito convincente quanto

segnala L. Bolzoni sui punti di contatto tra le posizioni di

Cortese nella sua Oratione alle potenze italiane e i Discorsi ai principi italiani

di C. – [12] L’aneddoto è trasmesso da AMABILE, Congiura, III, 300. –

[13] Processi, 102. – [14] Discorsi ai principi, 108. – [15] Ivi, 148. –

[16] Ivi, 100. – [17] Mon. Francia, 226 sgg. – [18] Ivi, 220. Cfr.

Italia 1650: comparazioni e bilanci, a cura di G. Galasso e A. Musi,

Napoli, 2002; G. GALASSO, Alla periferia dell’Impero. Il regno di Napoli nel

periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), cit., 23; M. PEYTAVIN, Visite et gouvernement

dans le royaume de Naples (XVIe-XVIIe siècles), Madrid, 2003, 220-221. – [19]

Mon. Francia, 220. – [20] Ivi, 226-228. Su questo strano detto cfr.

la voce Mare in questo volume dell’EBC. – [21] Cfr le relazioni

dei diplomatici veneziani Lippomano e Leoni in Corrispondenze

diplomatiche veneziane da Napoli. Relazioni, Roma, 1992. – [22] Mon. Francia,

230. – [23] Ivi, 234. – [24] Cfr A. MUSI, L’Italia dei vice-re. Integrazione

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e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de' Tirreni, 2000. – [25]

Arbitrii in Discorsi ai principi, 167-199. – [26] A. SPAGNOLETTI, Principi

italiani e Spagna nell’età barocca, Milano, 1996. – [27] Lettere, 25, 35,

157, 173. – [28] Secondo il richiamo di Giorgio Fulco, «B&C», II,

1996, I, 2, 33-56. – [29] Processi, 290-313 – [30] AMABILE, Castelli,

II, doc. 241. Vd. J.-L. FOURNEL, T. C. et la Monarchie de France: empire

universel et équilibre des puissances, Firenze, 1997, 1-35. – [31] Mon. di

Francia, 564-566. – [32] Ivi, 440, 564-566. – [33] Ivi, 438-440 e

508-510; Aforismi politici per le presenti necessità di Francia nel 1635, in

AMABILE, Castelli, II, doc. 295. – [34] Mon. Francia, 440, 510, dove si

scrive che Napoli «ha l’arme, soldati, capitani, cavalli,

danari». – [35] Ivi, 510. – [36] Ivi, 450: con le gabelle e

tributi, le «esazioni di Genovesi» sono la terza causa principale

della miseria dei regnicoli; cfr anche Documenta ad Gallorum nationem

e Mon. Francia, 536. – [37] Ivi, 546. –Ivi, 582, e bisogna

cominciare la guerra da Napoli. – [39] Ivi, 564-566. – [40]

Ibidem; cfr anche De Politica, cap. XII, con un’aggiunta nell’edizione

del 1637, assente nell’edizione francofortese del 1623, che

enuncia «è nuovo rimedio degli Spagnoli o sterminare i popoli

come in America o diminuire come nel regno di Napoli perché non

si ribellino».

BIBLIOGRAFIA

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1974] ; T. COSTO, La Apologia istorica del Regno di Napoli di Tommaso Costo.

Contra la falsa opinione di coloro che biasimano i Regnicoli d’incostanza e d’infedeltà,

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Napoli, Bari, 1925; L. BOLZONI, Note su Giulio Cortese. Per uno studio delle

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serie VII, 1978, 475-499 ; G. D’AGOSTINO, La capitale ambigua: Napoli dal

1458 al 1580, Napoli, 1979; L. BOLZONI, Conoscenza e piacere. L’influenza di

Telesio in teorie e pratiche letterarie fra ’500 e ’600, in Bernardino Telesio e la cultura

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XVII), Torino, 1994; A. MUSI, L’Italia dei vice-re. Integrazione e resistenza nel

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JEAN-LOUIS FOURNEL

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