Malatesti e dintorni

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1 Antonio Montanari Malatesti e dintorni Articoli apparsi sul settimanale riminese "il Ponte" tra 1990 e 2013 Edizione informatica 02.03.2015

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Antonio Montanari

Malatesti e dintorni Articoli apparsi sul settimanale riminese "il Ponte" tra 1990 e 2013

Edizione informatica 02.03.2015

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Sommario Tempio, il sorriso del saggio. Tempio, il segreto delle tombe. I pianeti di Sigismondo. Novello Malatesti. Passioni malatestiane del 1718. Eruditi e maldicenti, 1756. «Ritrovati» i Malatesti dei Lincei. Sigismondo il «terrorista», 1461. Le spie della Serenissima, 1461. Un orologio turco per l'Europa. Il sacerdote che difese Sigismondo. Paolo e Francesca vittime di un delitto politico? Il primo Malatesta, detto "il Tedesco". Cleofe, un concilio, le nozze, un delitto. Elena, la regina di Cipro. Malatesti, Petrarca e Visconti, 1357. Umanesimo riminese. Tempio Malatestiano, cultura senza segreti. Recensioni. Sigismondo, il sogno di Bisanzio. Le Signorie dei Malatesti. Cesena tra Quattro e Cinquecento. Se Dante rassomiglia a Francesca.

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Tempio, il sorriso del saggio. "Tempus loquendi, tempus tacendi". Uno dei primi libri che ho letto nella mia giovinezza è quello scritto dal canonico don Domenico Garattoni sul Tempio Malatestiano. Imbevuti com'eravamo d'un sacro timore della donna, vista come simbolo della dannazione eterna, mi fece un certo effetto trovarvi al secondo capitolo una definizione che poteva suonare altamente provocatoria o persino empia alle nostre orecchie adolescenziali, la definizione di "Tempio erotico". Nel primo capitolo svettava il "Tempio eroico", a sottolineare la gloria che il principe aveva voluto per sé, immortalata in un edificio solenne, che pur sempre era la Casa del Signore, di un altro Signore, Quello per cui proprio lì, nel 1952, ero stato cresimato dal vescovo monsignor Luigi Santa. La discussione di don Garattoni sul "Tempio erotico" termina con la citazione del motto sapienzale che è inciso su due fasce, "alla sommità del padiglione che ammanta la magnifica Arca" d'Isotta. Motto che, aggiungeva il sacerdote, "ìntima silenzio per reverenza al Tempio e per pietà verso la Morta". Il motto, preso dall'"Ecclesiaste", recita: "Tempus loquendi, tempus tacendi". Cresciuto (da un po') in età, mi pare ora che sia troppo riduttivo applicare il valore di quel motto soltanto alla figura di Isotta, quasi fosse un segnale simile a quello che all'ingresso delle città una volta imponeva il silenzio alle trombe automobilistiche, con il divieto di segnalazioni acustiche. Anche perché, soprattutto, il motto è presente pure in altri luoghi del Tempio. Cresciuto in età, inoltre, sono costretto a correggere il mio ricordo giovanile per via del titolo del libro a cui appartiene il motto: oggi se citate l'"Ecclesiaste" denunciate la vostra data di nascita, perché il libro è ora chiamato "Qohélet". Se cambia un titolo della "Bibbia", si può forse anche cambiare un'interpretazione di una scritta del Tempio Malatestiano. Dunque, "Tempus loquendi, tempus tacendi" potrebbe significare qualcosa d'altro rispetto a quello che quarant'anni fa vi leggeva il canonico don Garattoni, personaggio celebre in città, allora, non soltanto per la sua raffinata cultura, ma anche per certi trascorsi, diciamo, di simpatia fascista, che oggi piacerebbero molto, temo. Il problema del motto sapienzale riguarda questo dato: in che rapporto esso si pone con tutto il resto della costruzione? E' un semplice accrescimento culturale erudito, o può persino offrirci un significato aggiuntivo a quello della sua semplice presenza? (Ogni segno è un segnale.) Nel "Qohélet" troviamo scritto, in ordine di successione, che nulla di nuovo c'è sotto il sole; che è inutile cercare di capire il senso delle cose accadute nel mondo; che "per ogni cosa c'è il suo momento": ed è qui che incontriamo l'elenco dei "tempi", a cui appartiene il moto citato. C'è il tempo di piangere, e quello di ridere, quello di lutto e quello di baldoria. Insomma, anche la gloria è qualcosa di passeggero, non è quel sogno d'immortalità che un condottiero, un signore, un principe pensa per sé e proietta nel futuro. "Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità", dice il testo, ricalcando la "Vulgata" di san Gerolamo: "Vanitas vanitatum et omnia vanitas". Soltanto "chi ha fiducia in Dio riesce bene in tutto". La lezione, d'altra parte molto semplice del "Qohélet", demolisce e ridicolizza ogni pretesa di eternità umana. L'eternità spetta soltanto a Dio, Sua è ogni grandezza; nostra, ogni miseria e fallacia. Ecco: detto così sembra un'ovvietà, ma provatevi a calare dentro un Tempio solenne, dentro ad un monumento autocelebrativo, il senso di questa condizione relativa (e misera) dell'uomo rispetto alla supremazia del Giudizio divino: "Dio giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male, anche le azioni fatte in segreto". Sono le parole poste a conclusione del "Qohélet". Proiettatele sopra le scritte di marmo, applicatele alle intenzioni di chi volle fare incidere l'ammonizione del "Tempus loquendi, tempus tacendi": vi accorgerete che c'è qualcosa che non quadra, i conti non tornano, anzi tornano benissimo se ipotizziamo che un saggio abbia voluto quel motto proprio come motivo conduttore,

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ideale e reale, della costruzione, a dominare su ogni altro aspetto, per moderare, anzi per smentire la pretesa assoluta, assurda, del principe di elevarsi il monumento, di passare alla Storia per la sua grandezza, per le sue imprese: "Vanitas vanitatum et omnia vanitas". Immaginiamolo, questo saggio, mentre disegna il suo progetto, prima nella propria mente, poi sulla carta, e mentre colloca in quel gesto il senso di una propria convinzione, il desiderio di esprimere copertamente una verità che è scopertamente sotto gli occhi di tutti, ma che, proprio per questo fatto, nessuno vuol applicare a chi da tutti si distacca e differenzia: il principe. Ma anche tu, principe, partecipi del trascorrere dei tempi, nulla ti rende diverso dagli altri. Il saggio sorride perché il principe, ogni principe non accetta quest'idea del tempo che livella, distrugge, illude. "Sic transit gloria mundi", ammonisce un semplice cerimoniere nell'atto in cui il novello pontefice sale all'altare. Ed uno stoppino acceso si consuma facilmente, immagine altrettanto semplice. "Sic transit gloria mundi" sembra ripetere anche il motto di "Qohélet". Ma chi, tra gli uomini di Sigismondo Pandolfo dei Malatesti, poteva suggerire quel gesto di sorriso quasi compassionevole al suo signore, per rendere omaggio però ad un altro Signore, l'unico da riconoscere come tale nella nostra vita? Qualche anno dopo aver letto il libro di don Garattoni, mi avvicinai a Leon Battista Alberti ed al pensiero umanistico per obblighi universitari: ho riaperto anche quel saggio dove si parla di Alberti, ha quarant'anni e lo scrisse il nostro docente di Pedagogia, Giovanni Maria Bertin. Di lì ho iniziato a ripercorrere la strada albertiana, per trovare materiale che potesse dare un qualche fondamento alla mia ipotesi del sorriso del saggio che fa incidere il motto sapienzale. Ed ho sfogliato un vecchio testo di Eugenio Garin, sulla filosofia italiana, oltre ad opere più recenti, trovando questa citazione dal "De Iciarchia" (il governo della casa) di Leon Battista Alberti: "Smetti, smetti, uomo di ricercare gli arcani del dio degli dèi più oltre di quanto è concesso ai mortali: a te e alle altre anime prigioniere del corpo vorrei che fosse concesso da' superni non più di questo, di non ignorare del tutto le cose che vedete con gli occhi". (Il discorso si potrebbe ampliare, manca lo spazio.) "Il sorriso dell'ignoto marinaio", s'intitola un libro di Vincenzo Consolo. Il sorriso del noto architetto, potrebbe chiamarsi l'"historia" di questa iscrizione del nostro Tempio, ripresa dal "Qohélet", e proposta provocatoriamente ancora oggi a noi che, entrando nel Tempio, non abbiamo quella consapevolezza che la citazione biblica dovrebbe suggerirci. C'è un tempo per parlare, ed uno per tacere. Ma ovviamente, parlare a proposito, senza inventarsi quello che non c'è, perché nel Tempio c'è già tutto. Basta fermarsi un attimo, tacendo, ad ascoltare quelle pietre che parlano. Ci basta non ignorare "le cose che vediamo con gli occhi". E soprattutto ricordare che "Dio giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male, anche le azioni fatte in segreto". ["il Ponte", 2.12.2001/43]

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Tempio, il segreto delle tombe. La discussa ricognizione del 1756. Una nuova iniziativa editoriale merita di essere segnalata, con l'augurio di buona fortuna: è il primo volume di «Penelope, Arte Storia Archeologia», a cura dell'Associazione riminese per la ricerca storica ed archeologica (Arrsa), che contiene contributi di grande interesse. Segnalo i saggi riguardanti la chiesa di Santa Maria dei Servi, gli scavi in San Lorenzo in Monte, il crocifisso di Spadarolo, i monaci di San Paolo, e i due articoli sulla tomba di Sigismondo, a cura di Stefano De Carolis (esame dei resti mortali), e di Elisa Tosi Brandi (le vesti funebri del signore riminese). Aveva ragione un grande giornalista bolognese, Giorgio Vecchietti, a scrivere nel 1950 che Sigismondo fu «disturbato troppe volte nel suo sepolcro». Le ricognizioni registrate sono quattro in tre secoli: nel 1756, 1920, 1944 e 1950. Le ultime due sono legate agli eventi bellici che portano distruzione anche all'interno del Tempio con i bombardamenti del 28 dicembre 1943 e del 24 gennaio 1944, i quali rendono necessario «mettere in salvo i poveri resti, che furono deposti in una cassetta di legno sigillata», come racconta De Carolis, prima di essere ricollocati al loro posto l'11 maggio 1950. La ricognizione del 28 settembre 1920 è voluta da Corrado Ricci, il celebre studioso che dedica nel 1924 al nostro Tempio un volume di grande respiro (su cui, oltre al lavoro di P. Novara, «C. Ricci e Rimini», qui in «Penelope», segnalo un saggio di F. Canali, «Studi e ricerche nel Tempio malatestiano di Rimini», in «Ravenna Studi e Ricerche», VII/2, 2000). Le ossa di Sigismondo sono ricollocate nella loro tomba l'8 febbraio 1921, «coll'augurio che non vengano mai più disturbate»: così il giorno successivo scrive a Ricci il riminese Alessandro Tosi (ispettore onorario alle Antichità), aggiungendo che era stato steso gratuitamente il relativo atto dal notaio Camillo Ferri (Novara, p. 207). La prima ricognizione nel 1756 (21 agosto), assieme all'ispezione di tutti i sepolcri malatestiani di San Francesco (15 agosto), nacque dalla disputa che allora vedeva confrontarsi due opinioni, secondo quanto osservò Giovanni Antonio Battarra in una «Lettera» a stampa (Milano, 1757) diretta al conte G. M. Mazzuchelli di Brescia (e ripubblicata nel 1994 da Alessandro Serpieri). C'era chi sosteneva che «nella maggior parte» degli avelli del Tempio «vi fossero le ceneri degli indicati soggetti», e chi invece riteneva trattarsi di semplici cenotafi, ovvero tombe senza salme. Il «promotore dell'impresa» è padre Francesco Antonio Righini, «procuratore» del convento dei Padri Conventuali di San Francesco, custodi allora del Tempio. Le «Novelle letterarie» di Firenze (n. 17/1757), in un articolo contenente la «Relazione d'apertura» degli avelli malatestiani, lo descrivono quale «uomo non letterato», ma comunque di «buon genio per le cose spettanti all'erudizione del suo Convento», e «tutto intento da molte pergamene di trarre materia da poter tessere una storia della sua Chiesa e del suo Convento». Sul «procuratore» di San Francesco, è meno tenero il giudizio di uno studioso nostro contemporaneo che, a proposito della vicenda medievale della beata Chiara da Rimini, lo definisce «un falsario». Richiamando i passi appena citati dalle «Novelle letterarie» (n. 17/1757), Jacques Dalarun in un recente volume («Santa e ribelle», Laterza, 2000), scrive: «Esiste modo più chiaro per rimetterlo al suo posto, quello di erudito locale, autodidatta in perpetuo? Oggi considerarlo un falsario è almeno un modo di parlarne ancora». La colpa di padre Righini è d'aver imbrogliato le carte sulla storia della nostra beata, inventando la scoperta d'un manoscritto datato 1362 che la riguardava. Ma (spiega Dalarun), i raggi ultravioletti della lampada di Wood consentono di leggervi una data raschiata («14 agosto 1685») che svela il suo trucco. Chi è l'autore della «Relazione d'apertura», dove padre Righini è chiamato «buon genio» erudito? De Carolis scrive che «sicuramente» si tratta di Battarra. Il quale era stato presente alla ricognizione, mentre il medico e scienziato riminese Giovanni Bianchi, già professore di Anatomia umana a Siena, non era stato

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invitato (ritengo a causa della sua condanna all'Indice per il «Discorso in lode dell'arte comica» nel 1752). A Bianchi spetta il merito di aver acceso pubblicamente la polemica. A proposito di uno scritto di G. M. Mazzuchelli su Isotta, sul n. 10/1757 delle «Novelle» fiorentine, Bianchi aveva scritto (in forma anonima) che di recente e «privatamente» era stata aperta la tomba della donna di Sigismondo, dove non si erano «ritrovate che l'ossa nude, perciocché quei sepolcri altre volte prima da altri per uno spirito forse d'avarizia erano stati frugati». L'opinione di Bianchi non piacque a padre Righini ed ai suoi amici che avevano partecipato il 16 agosto 1756 alla ricognizione del sepolcro d'Isotta, come si ricava da un passo della «Relazione d'apertura», il cui autore replica al medico concittadino: «non resto persuaso, che [il sepolcro] possa essere stato smosso in altro tempo, perché tutto l'andamento del corpo è in un sito troppo aggiustato, per autenticare la sua prima positura, conforme anche può vedersi al presente, non essendo stato toccato da veruno». Però si precisava che «uno dei pezzi dell'arca era scostato dagli altri per essersi rotto un legamento di ferro, onde l'arca ha potuto coadiuvare alla putrefazione del cadavere e delle vesti». Quel «legamento di ferro» si era rotto, oppure l'avevano rotto (come pensava Bianchi)? Alla «Relazione d'apertura» Bianchi rispose come «Persona, che vien supposta Amica della Nobilissima Casa Malatesta» con un testo, rimasto inedito (ora in Gambalunga), con il quale confuta non soltanto l'articolo delle «Novelle» ma tutto l'operato di padre Righini. Il quale è accusato da Bianchi d'aver agito in violazione delle leggi, «per semplice vana curiosità». Bianchi ricordava benissimo quanto aveva dovuto faticare circa il «permesso per anatomie». (Dopo una «Istanza autografa a Benedetto XIV per ottenere di fare le sezioni di cadaveri», il 18 aprile 1745 aveva finalmente ricevuta «la grazia con rescritto» pontificio.) Nel 1759 le «Novelle letterarie» (n. 37), recensendo la «Lettera» a Mazzuchelli di Battarra, sostengono che questi si sarebbe deciso a comporla e pubblicarla perché la «Relazione d'apertura» di due anni prima «era mancante di molte notizie». E che le note della stessa «Lettera» erano state curate «dall'illustre Giovane Sig. Epifanio Brunelli da Rimino, Vice-Bibliotecario dell'insigne Libreria Gambalunga; e dilettante di medaglie, delle quali possiede in bronzo una sufficiente raccolta». Lo scritto termina con i rallegramenti dell'estensore diretti sia a Battarra sia ad Epifanio Brunelli. Brunelli (il quale pure fu presente alla ricognizione del 1756), è l'autore di questa recensione alla «Lettera» di Battarra, come si ricava da una missiva che il direttore delle «Novelle», Giovanni Lami, invia a Battarra medesimo il 28 agosto 1759: «ora mai l'articolo trasmessomi dal Signore Epifanio Brunelli è stampato, e non può più arretrarsi, onde bramo altra occasione di secondare il suo genio». Battarra, dunque, si era preparato da solo una recensione della sua «Lettera» per le «Novelle», ignorando che vi aveva già provveduto Brunelli. (Le date combaciano. Lami scrive il 28 agosto, la nota di Brunelli esce nel numero che reca la data del 14 settembre, e che quindi alla fine di agosto era già in composizione in tipografia.) Questo dato permette di ipotizzare che a comporre la «Relazione d'apertura» sia stato non Battarra ma lo stesso Brunelli (curatore poi, come s'è visto, delle note alla «Lettera» battarriana del 1759). Epifanio Brunelli è figlio di Bernardino, tipo alquanto tirannico nei rapporti con la prole, e bibliotecario gambalunghiano dal 1748 al 1767. Durante questo periodo, assieme ai due fratelli dottor Giovanni Battista e canonico don Giulio Cesare, Epifanio collabora con il padre, a cui (dal 1767 al 1796) subentra nell'incarico. Pure Epifanio è stato allievo di Bianchi, un cui scritto, con parere favorevole a che il figlio prenda il posto del padre alla Gambalunghiana, attesta: entrambi, padre e figlio, hanno lavorato bene in quella pubblica «Libraria», facendo provviste di volumi all'estero, «specialmente dalla Germania, e dall'Olanda». Giovanni Battista Brunelli, fratello di Epifanio ed ex allievo di Bianchi anch'egli, è uno dei due medici presenti alla ricognizione del 1756. L'altro è Girolamo Grassi. Bianchi li considera, nella replica inedita, troppo «giovani» per essere capaci di un'ispezione

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anatomica come quella richiesta dall'apertura degli avelli malatestiani. Alla quale Bianchi non avrebbe mai partecipato, come conclude, «per non autorizzare colla sua presenza, e colla sua direzione un fatto contro le leggi» civili e canoniche. ["il Ponte", 12.01.2003/2)

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I pianeti di Sigismondo. La cultura della corte malatestiana. Con nuovi volumi della «Storia delle Signorie dei Malatesti» prosegue intensa l'attività del Centro Studi Malatestiani e dell'editore Bruno Ghigi che lo ha creato e lo sostiene in mezzo ad enormi difficoltà (tra cui l'indifferenza di troppe istituzioni locali). Di alcuni di questi recenti volumi diamo notizia sommaria in questo ed in un successivo servizio, avvertendo che la scelta degli argomenti e dei temi presentati dipende unicamente dal desiderio di informare circa parti che sono apparse soggettivamente importanti, senza voler con questo creare graduatorie di merito od esprimere censure preventive verso chi non verrà ricordato se non con una breve citazione. D'altro canto, la messe delle informazioni è tale che, in un àmbito non specialistico come il nostro, dobbiamo per forza selezionarne alcune, senza svolgere discorsi sui «massimi sistemi» che non ci competono. Buone ragioni per diffidare Il testo sulla «Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti», curato da Antonio Piromalli (noto studioso riminese di adozione, recentemente scomparso), offre con Franco Bacchelli dell'Università di Bologna un'indagine sulla Cappella dei Pianeti che si trova nel Tempio malatestiano: è un discorso attento sopra un tema spesso trattato con fanatismo pregiudiziale e fantasioso dai locali circoli massonici. Non per nulla Bacchelli premette: «vi sono certo buone ragioni per diffidare» di questo argomento, dato che si attribuiscono misteriose velleità esoteriche a Sigismondo, partendo da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del «De re militari» di Roberto Valturio. In tale pagina, Valturio accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle «parti più riposte e recondite della filosofia». In una preziosa nota, Bacchelli riporta «la fulminante diagnosi espressa» da Carlo Dionisotti in un volume del 1980, dal quale leggiamo: «Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica, anche nella forma allora e poi normale dell'astrologia giudiziaria». (Basta quest'autorevole «diagnosi» per togliere ogni validità sul piano storico e critico alle pur suggestive ma devianti interpretazioni dei ricordati circoli massonici locali.) I bassorilievi della Cappella dei Pianeti, prosegue Bacchelli, dimostrano la convinzione del committente «che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri». Questo principio era «pacificamente accettato» nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che Giovanni Pico della Mirandola procedesse alla fine del XV secolo «ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali». Pico rifiuta l'astrologia Occorre a questo punto accennare brevemente alla figura di Pico della Mirandola. Nelle «Disputationes contra astrologiam divinatricem» egli considera la materia e non l'influenza degli astri la sola causa del disordine, delle irregolarità e delle imperfezioni esistenti nel mondo terreste. In un altro testo, l'«Oratio de hominis dignitate», Pico fa riferimento ad una dottrina segreta, riservata agli eletti, e sviluppatasi nel seno della tradizione ebraica. Da questi pochi elementi si comprende perché Pico sia stato già in vita considerato un eretico. Nell'«Oratio» egli considera l'uomo come creatura dalla natura illimitata, dominatore dell'Universo, contribuendo grandemente così al mito orgoglioso dell'Umanesimo per cui l'uomo stesso può sì «degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti», ma può anche rigenerarsi «nelle cose superiori che sono divine». Questo mito sembra proiettarsi nella struttura ideale del nostro Tempio, dove esso però soccombe davanti all'immagine del Cristo

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Crocefisso che svela agli occhi semplici di ogni cristiano la natura folle di quel sogno. Influssi astrali e libertà umana Alle dottrine che parlavano degli influssi astrali, avevano aderito «sostanzialmente anche tutti i dottori della Scolastica cristiana, quali i tomisti, che avevano mitigato, però, questa concezione con una distinzione volta a salvaguardare la libertà dell'arbitrio». A queste parole di Franco Bacchelli, aggiungiamo una citazione importante ai fini della comprensione dell'argomento. Nel canto XVI del «Purgatorio», Marco Lombardo spiega la teoria del libero arbitrio con tre versi che sono centrali nel poema dantesco e rimandano alla teologia di san Tommaso: «A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura» (79-81). San Tommaso aveva scritto: «contra inclinationem coelestium corporum homo potest per rationem operari» («contro l'inclinazione dei corpi celesti l'uomo può operare con la ragione»). In questo passaggio del «Purgatorio» si affronta un tema cruciale, la causa del male che domina il mondo. Marco Lombardo (che rappresenta la saggezza applicata alla politica) dichiara che gli uomini solitamente attribuiscono quel male «al cielo». Se così fosse, egli puntualizza, sarebbe tolto all'uomo il libero arbitrio, e non vi sarebbe giustizia nel premiare o punire i nostri comportamenti perché essi non sarebbero determinati dalle nostre scelte, ma unicamente da qualcosa scritto negli astri. Un richiamo a Dante Questo argomento della Scolastica nega valore all'astrologia classica che pone i moti delle stelle come cause «necessarie» (che cioè, detto in linguaggio filosofico, non possono essere diverse da quelle che sono), e supera la concezione medievale che le intendeva invece quali segni o indizi di eventi possibili. Va infine precisato che il XVI del «Purgatorio» è il canto in cui Dante dopo avere esposto il principio del libero arbitrio, enuncia la teoria dei «due soli» («Soleva Roma, che 'l buon mondo feo / due soli aver, che l'una e l'altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo», 106-108), di cui leggiamo nel terzo libro della sua «Monarchia», dove si spiega che al papa spetta il compito di condurre gli uomini «ad vitam aeternam», mentre l'imperatore deve guidarli «ad temporalem felicitatem». Quindi, entrando nel nostro Tempio e soffermandosi sulle immagini che potrebbero indurre a considerazioni pagane, occorre pensare a tutto questo cammino testimoniato anche da Dante il quale, oltre che poeta, è teologo e non mago come qualcuno tenta di farlo passare, falsificando le carte in tavola. (Tornando al XVI del «Purgatorio», va ricordato che esso precede tutto il discorso contenuto nel canto successivo, relativo all'ordinamento morale che governa quel regno, in correlazione al principio che l'amore «naturale» ovvero innato, non può errare, al contrario di quello «d'animo» in cui intervengono ragione e volontà. Si ribadisce quindi che il male nasce dalle scelte sbagliate che noi compiamo, non dalle predisposizioni dei pianeti celesti.) Corruzione politica Come avverte Piromalli nell'introduzione al volume, Bacchelli «propende per una lettura [...] nel senso del neoplatonismo pagano di Giorgio Gemisto Pletone». Tuttavia Bacchelli illustra chiaramente le contraddizioni del nostro Tempio che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e degli uomini del suo ambiente che fanno convivere elementi cristiani e pagani. Molto interessante è la parte in cui Bacchelli sviluppa questo aspetto, accennando a quanto succederà in momenti successivi della nostra storia culturale, quando il problema più urgente fu «l'opera di reinglobamento del neoplatonismo in un discorso apologetico cristiano». In ciò trova conferma l'importanza che la vicenda riminese del Tempio assume, nel quadro della cultura italiana quattrocentesca.

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Il saggio introduttivo (composto da Piromalli) si apre proprio nel nome di Dante, facendo i conti con la sua visione ideologica, e quindi con i giudizi negativi che esprime al riguardo dei Malatesti, considerati «emblemi di una corruzione che investiva una regione intera, la Romagna». Piromalli ha organizzato il suo testo affacciandosi anche alle età successive a quelle di Sigismondo: ad esempio, parla della storiografia del Settecento (ripercorrendo tappe e figure di grande rilievo nella storia culturale della nostra città, laddove tratta di Angelo e Francesco Gaetano Battaglini), degli interessi di Luigi Tonini (con l'esame della sua formazione e della sua cultura), e dei miti malatestiani in Burckardt e D'Annunzio. L'opera contiene la ristampa anastatica di due scritti di Augusto Campana e di uno di Aldo Francesco Massera, oltre a due studi di Giovanna Ragionieri (sui codici miniati malatestiani) e di Alfonso Costantini (sull'umanesimo di Roberto Valturio). ["il Ponte", 20.07.2003, 27]

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Novello Malatesti, un principe per la cultura. Dominato dalla madre e non amato dalla sposa. Attorno alla figura di Malatesta Novello Malatesti ruota il vol. XVII della «Storia delle signorie malatestiane» (ed. Bruno Ghigi, 2003), a cura di Pier Giovanni Fabbri e di Anna Falcioni. Vi hanno collaborato Andrea Maiarelli, Grazia Bravetti Magnoni, Bianca Orlandi, Claudio Riva e Luigi Vendramin (per gli indici). Fabbri esamina gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Novello. Maiarelli considera i lineamenti della politica comunale attuata a Cesena, soprattutto con la biblioteca che ancor oggi glorifica il suo nome. Bravetti Magnoni racconta la vicenda di Violante Montefeltro moglie di Novello e signora di Cesena. Orlandi si sofferma sulla figura di Antonia da Barignano, madre di Novello. La morte dello zio Carlo Malatesti Il 14 settembre 1429 a Longiano muore senza eredi Carlo Malatesti, marito di Elisabetta Gonzaga. Suo fratello Pandolfo III Malatesti se n'è andato due anni prima, lasciando tre figli naturali: Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e Domenico (Novello) Malatesta. A questi nipoti passa il potere sopra un vasto territorio proprio per merito di Carlo che ne ha ottenuto la legittimazione dal papa, dopo due mesi di difficili e complesse trattative nel corso del 1428. Domenico cambia il nome in Novello nel 1433, tre anni dopo che lui ed i suoi fratelli hanno ottenuto dal papa il vicariato ecclesiastico sborsando trentamila ducati, ricevuti in prestito da personaggi eminenti di Cesena che gareggiarono fra loro per favorire i nuovi signori della città. Il mutamento del nome vuole ricordare lo zio Andrea Malatesti detto Malatesta, già signore di Cesena sino al 1416, «cui è legato da una particolare ammirazione» come scrive Maiarelli. Carlo aveva avuto contro anche il cugino Pandolfo, arcivescovo di Patrasso, figlio del signore di Pesaro, Malatesta Malatesti: quest'ultimo non voleva che quei tre bastardi fossero innalzati alla dignità di eredi del governo di Rimini, Fano e Cesena, che esercitano in forma collegiale con Elisabetta Gonzaga sino alla morte di Galeotto, avvenuta il 10 ottobre 1432 nel castello di Santarcangelo. Il cronista cesenate Giuliano Fantaguzzi (nato nel 1453), scrive che allora i due fratelli si divisero i possedimenti: «al signor Sismondo da la Marecchia in là e a Domenico Malatesta da la Marecchia in qua». Antonia, la madre, da Brescia a Rimini Galeotto fu un principe mite ed amante della cultura, poco adatto all'attività politica. Era nato nel 1411 da Allegra de' Mori e da Pandolfo III divenuto signore di Brescia nel 1404 e vedovo di Paola Bianca Orsini (morta nel 1398 senza prole). Sigismondo e Domenico invece sono entrambi figli di Antonia da Barignano, nati rispettivamente il 19 giugno 1417 ed il 6 aprile 1418. «Quando Pandolfo III e Antonia s'incontrano», scrive Orlandi, «lui è un uomo maturo, ricco e potente, lei una ragazza esuberante che ama circondarsi di arredi preziosi e oggetti raffinati; non lesina sulle spese, in particolare su quelle destinate all'abbigliamento». Per il primogenito Sigismondo, ordina «un corredino ricco di ricami, elegante, raffinato». Nel 1421 Antonia lascia Brescia al sèguito dello spodestato marito ed accompagnata dai propri quattro fratelli maschi che vengono a stabilirsi con lei nei possedimenti malatestiani. Nei primi anni della sua permanenza in Romagna, Antonia vive prevalentemente a Rimini cambiando spesso di residenza, e frequenta Bellaria soprattutto nel palazzo sull'Uso, fiume lungo il quale possiede anche l'osteria «da le Smirre» provvista di capanno, orto e barca con diritto di traghetto e di riscossione del relativo dazio. Diritto che Antonia vanta pure sul Fiumicino (quello che Mussolini sancì essere il «Rubicone degli antichi»), secondo quanto scoperto da Falcioni e Claudio Riva.

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Carattere deciso, media tra i figli Forte e determinata, la definì Falcioni [«Storia di Bellaria, II»], sottolineandone il carattere deciso che si riflette anche sui figli quando interviene come mediatrice per appianare i dissensi politici e militari che spesso li dividevano. Richiamando un atto notarile scoperto da Oreste Delucca, Orlandi ricorda che Antonia si mosse a compassione dell'indigenza di certi suoi debitori a cui cedette in uso quasi gratuito la casa che era stata loro confiscata a San Mauro. Antonia, prosegue Orlandi, fu «molto legata ai suoi figli». A Sigismondo riserva una stanza nel palazzo di Bellaria, dove Novello muore quasi a testimoniare (come fu ipotizzato da Delucca) il suo bisogno di cercare rifugio e conforto presso la madre piuttosto che con la consorte Violante. Violante bambina promessa sposa Sulle cause di questo bisogno, appaiono illuminanti le intense pagine di Bravetti Magnoni dedicate appunto a Violante. Nel 1434 il sedicenne Novello, per iniziativa di Sigismondo, firma il contratto di matrimonio con Violante che aveva soltanto quattro anni e mezzo: è la premessa ad un accordo politico fra le loro famiglie che si erano continuamente combattute. Le nozze giungono otto anni dopo, il 4 giugno 1442 a Gubbio, dove la corte feltresca ogni anno soggiornava a lungo. Lui ha 24 anni, lei soltanto dodici. Per questa sua età immatura ai fini coniugali, dopo le gioiose feste pubbliche i due giovani sono costretti alla separazione. Violante resta ad Urbino, poi è spedita a Roma, mentre sullo sfondo si delinea un inquietante quadro politico: «Il costretto ed indecifrabile soggiorno di Violante a Roma» aumentava il dissidio tra lei ed il fratello Federico, dopo la morte del padre Guidantonio nuovo duca d'Urbino, contro il quale s'indirizzavano le accuse dei nemici d'aver cacciato la sorella dalla propria casa e dai propri beni. Ed alla fine va in convento Violante, nella notte del 23 luglio 1444 quando cui venne ucciso suo fratello Oddantonio, fa voto di rimanere pura ed illibata per sempre. Immaginiamo quindi con quale spirito giunga tre anni dopo a Cesena, accolta dalla città come se le nozze fossero state celebrate il giorno prima. Passati pochi giorni Novello cade infermo per un'emorragia ad una gamba: l'imperizia del suo medico personale lo costringe a ricorrere alle cure di quello del fratello Sigismondo a Rimini. Scrisse Fantaguzzi che Domenico, «fattosi alazare una vena grossa d'una gamba», rimase storpiato. Le cronache del tempo ricordano Violante bella quant'altri mai, semplice e mansueta, ma anche piena di ogni festevolezza. Nel 1458 avviene il dramma della sorella Sveva, accusata di adulterio e di tentato veneficio dal marito Alessandro Sforza, signore di Pesaro. Il fratello Federico, scrivendo al cognato duca di Milano, riesce a salvare Sveva dai malvagi tentativi del consorte (che per ben tre volte cercò di farle bere del veleno), rinchiudendola in un convento di Pesaro. «Profondamente scossa nell'anima, Violante volle farsi in qualche modo partecipe del dolore di Sveva», e decise di astenersi anche dal cibo. Ma pensò anche alla salute dei propri concittadini: il marito concordò con lei quando gli propose la demolizione del vecchio ospedale di San Gregorio fuori Porta cervese, per fabbricarne uno nuovo, detto del Crocifisso, nei pressi del duomo. Novello muore nel novembre 1465 quando Violante ha 35 anni. Qualche tempo dopo, con il nome di suo Serafina, lei si ritira a Ferrara in un monastero dove scomparirà nel 1493. Violante, scrive Bravetti, aveva ricevuto una solida formazione umanistica alla quale si aggiungeva una ricca e precisa conoscenza dei testi sacri. Grazie a questa sua formazione, dovette partecipare con entusiasmo e competenza al progetto della biblioteca che ancor oggi costituisce un vanto tutto cesenate. Le imposte per i libri

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La biblioteca nacque nel 1452 ed i lavori durarono sino al 1454. Osserva Fabbri che Cesena non aveva «all'interno della propria comunità le forze in grado di dare vita» al progetto, e che Novello destinò parte delle proprie risorse al finanziamento della costruzione dell'edificio. Risorse che provenivano dai possedimenti della famiglia e dalla riscossione delle imposte indirette. Novello fece acquistare grandi quantitativi di pecore che avrebbero dovuto fornire la materia prima per lo «scriptorium», il luogo destinato alla ricopiatura dei testi su «carte ottenute mediante conciatura delle pelli» degli animali. Maiarelli spiega che Novello, «nonostante il rapporto strettissimo che lo lega ai Francescani ed al loro Studium» preferisce affidare le sorti della biblioteca non a loro ma alla tutela delle autorità comunali. L'impegno rivolto da Novello all'edificazione ed alla dotazione della biblioteca, conclude Maiarelli, «ha permesso a Cesena di dotarsi di un'istituzione culturale di primissimo livello, che la città ha saputo conservare e valorizzare nel tempo, fino a farne l'unico e meraviglioso esempio di biblioteca umanistica ad oggi perfettamente conservato». ["il Ponte", 7.9.2003, 32]

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Passioni malatestiane del 1718. Vivaci difese della sacralità del Tempio di Sigismondo. Nella recensione ad un recente volume dell'editore Ghigi (apparsa su queste colonne il 20 luglio 2003 con il titolo «I pianeti di Sigismondo»), è stato ricordato che «le contraddizioni del nostro Tempio rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e degli uomini del suo ambiente che fanno convivere elementi cristiani e pagani». Secondo lo storico Franco Bacchelli si attribuiscono misteriose velleità esoteriche a Sigismondo, partendo da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del «De re militari» di Roberto Valturio, in cui è accennata la suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle «parti più riposte e recondite della filosofia». Ma Bacchelli (abbiamo pure letto) riporta una «fulminante diagnosi espressa» dal grande studioso Carlo Dionisotti: «Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica [...]». Le parole di Dionisotti, si aggiungeva in quella recensione, tolgono ogni validità sul piano storico e critico alle devianti interpretazioni di quanti s'adoperano continuamente in una battaglia esoterico-massonica per dimostrare l'indimostrabile. Garuffi, prete e bibliotecario Le polemiche sul Tempio non sono però nuove. Ne troviamo una testimonianza importante all'inizio del secolo XVIII quando il concittadino Giuseppe Malatesta Garuffi contestò un padre francescano che aveva scritto della nostra illustre chiesa un secolo prima. Garuffi fu sacerdote e direttore della Biblioteca Gambalunghiana dal 1678 al 1694. Tra l'altro, compilò una storia delle accademie italiane, «L'Italia Accademica», il cui primo ed unico volume a stampa apparve nel 1688, mentre il resto dell'opera è conservato manoscritto nella Biblioteca Gambalunghiana. Quel testo non piacque a Ludovico Antonio Muratori. A Forlì nel 1705 Garuffi animò il «Genio de' letterati». Egli aveva avviato un ampio programma, sotto il titolo di «Bibbioteca Manuale degli Eruditi» («Bibbioteca» e non «Biblioteca» come viene quasi sempre riprodotto), per pubblicare 130 titoli, «i quali contengono moltissime Erudizioni, Istoriche, Poetiche, Morali, varie, e di sagra Scrittura». Garuffi trattò anche di Filosofia, dimostrandosi attento a quella sperimentale, «in cui il nostro secolo ad occhi aperti si esercita dopo d'essersi per l'addietro lungamente perduto ad occhi chiusi» in vane ed inutili questioni. Un francescano del secolo XVII Nel 1718 Garuffi pubblica nel veneziano «Giornale de Letterati d'Italia» (tomo XXX, pp. 156-186) una «Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco», per criticare quanto era apparso in latino quasi un secolo prima (1628) negli «Annali Francescani» dell'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, dopo aver studiato a Lisbona e Coimbra. Wadding fu il fondatore e guardiano del collegio dei frati osservanti della nazione irlandese a Roma, presso la chiesa di san Isidoro che aveva avuto origine dalla canonizzazione fatta da Gregorio XV nel 1622 di cinque santi, fra i quali lo spagnolo Isidoro. In quell'anno vennero dalla Spagna alcuni padri «riformati scalzi» di san Francesco per fondarvi un ospizio per i frati loro connazionali. Dopo due anni però essi l'abbandonarono. L'ospizio fu così concesso a padre Wadding, che è sepolto nella stessa chiesa di san Isidoro. Sigismondo: eroe o gran peccatore? Il testo di Wadding secondo Garuffi, conteneva «alcuni periodi» che sono «pieni di calunnia contro il Tempio di san Francesco di Rimino». Padre Wadding definisce Sigismondo uomo da ricordare più

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per le doti del fisico che per quelle dello spirito. Famoso per gloria militare, straordinaria eloquenza e forza del corpo, lo giudica però ignobile per infami costumi ed un genere di vita che nulla aveva avuto di cristiano. A questo punto Wadding ricorda la biografia di Sigismondo scritta da Pio II che niente aveva tralasciato dei presunti delitti del signore di Rimini. Wadding prosegue sostenendo che Sigismondo dedica sì il Tempio alla memoria di san Francesco, ma lo riempie di immagini con miti pagani e simboli profani, aggiungendovi pure un mausoleo (di fattura e materia bellissima) per la sua amante, con un epitaffio chiaramente pagano («Dedicato alla divina Isotta»). Garuffi taglia corto: Sigismondo è stato «un eroe insigne non meno per valore, che per la religione», e Wadding aveva scritto soltanto «una serie di cose falsissime». Il principe e le sue donne Garuffi sapeva che Pio II l'aveva accusato di aver ripudiato la prima moglie, avvelenata la seconda, strangolata la terza. Ed anche per papa Piccolomini, il bibliotecario riminese ha pronte le risposte in difesa di Sigismondo. La prima moglie era la figlia del Carmagnola: rifiutò di sposarla dopo la condanna a morte del futuro suocero (1432). Per Ginevra d'Este, la seconda (ma in realtà la prima ad essere impalmata), il sospetto di una morte per veleno fu diffuso dai parenti del Carmagnola. Circa Polissena Sforza, Garuffi spiega che se anche l'avesse fatto, Sigismondo avrebbe agito «per giusta ragione di Stato» avendo lei rivelato al padre, in lettere intercettate dal marito, «alcuni militari segreti del consorte». Infine Garuffi scrive che Isotta era stata sposata da Sigismondo, quindi non si poteva definire sua amante. Nelle pagine successive Garuffi passa alla difesa del Tempio, con la descrizione delle singole cappelle, riservando la conclusione al problema della scritta sulla tomba d'Isotta («D. Isottae Ariminensi B. M. sacrum. MCCCCL»). Quel «D.» sta ad indicare «Dominae» e non «Divae» come aveva interpretato Wadding. Ma se anche fosse come proponeva lo storico francescano, spiega Garuffi, non ci sarebbe nulla di male, perché chiamare «diva» Isotta significava soltanto usare un titolo degno per la moglie di un principe, senza alcun «sentore di gentilesimo», cioè di paganesimo. (Sul «B. M.» gli studiosi si sono sbizzarriti: beata o buona memoria, oppure benemerita.) La vicenda di Isotta Fortunatamente Wadding non sapeva quanto scoperto nel 1912 da Corrado Ricci. La discussa iscrizione per Isotta era stata sovrapposta ad un'anteriore, ancora più compromettente: «Isote ariminensi forma et virtute Italiae decori. MCCCCXLVI». Era di un'audacia scandalosa quel «decoro d'Italia» riservato ad una giovinetta come Isotta che aveva circa tredici anni nel 1446, quando fu sedotta da Sigismondo mentr'era ancor viva la moglie Polissena. Isotta nello stesso anno concepì da Sigismondo un figlio, Giovanni, che morì in fasce il 22 maggio 1447. Wadding ricorda che origine e genealogia riminese dei Malatesti erano state riassunte da fra Leandro Alberti in una sua opera («Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa», 1550). Leandro Alberti osserva: Sigismondo fu «valoroso capitano de i soldati», e la sua vita è stata descritta da Pio II «che narra i suoi vitij, et opere mal fatte», anche se «nell'ultimo di sua vita, chiese perdono ad Iddio con lagrime de i suoi errori, et passò di questa vita da buon Christiano». Neppure una parola per il nostro Tempio c'è in fra Leandro, il quale invece per Malatesta Novello spiega che «essendo letterato, et virtuoso edificò quella sontuosa libraria nel monasterio di San Francesco di Cesena, ove pose nobilissimi libri tutti in carta pecora, e a mano scritti, et ornati di belli mini». L'anonimo mascherato A Garuffi nello stesso anno («Rimino, 15 dicembre 1718») risponde un anonimo con altra «Lettera» a stampa, prendendo le difese di padre

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Wadding e presentandosi come Minore Osservante: è una minuziosa e pedante requisitoria contro la presunta religiosità di Sigismondo, in cui si richiamano altri autori riminesi che in passato avevano accettato senza fare una piega l'accusa di eresia rivoltagli da Pio II. L'anonimo corregge errori di datazione commessi da Garuffi circa le morti delle mogli di Sigismondo; rispolvera la vicenda (leggendaria) del frate martirizzato per non avergli voluto rivelare i segreti del confessionale di una sua sposa; ed aggiunge come ciliegina sulla torta che i cesenati sospettavano il signore riminese d'aver aiutato nel 1432 la morte del mite fratello Galeotto Roberto, come premessa alla ripartizione del potere con Novello [su cui vedi «Ponte», 7.9.2003]. Dopo ben nove anni, nel 1727, Garuffi risponde all'Anonimo con altre citazioni alle contestazioni che gli erano state indirizzate, e discutendo secondo lo spirito del tempo sul valore dei simboli presenti nella chiesa di san Francesco. La notizia più curiosa, in questa «Seconda lettera», Garuffi la riserva all'Anonimo: non sei dei Minori Osservanti, gli dice; so per certo che appartieni ad un altro ordine religioso. L'«egregio» scritto di Mazzuchelli L'attenzione sul Tempio, ed in particolare sulla figura di Isotta, si riaccende nel 1756 quando nella «Raccolta Milanese» appare uno scritto («Notizie intorno ad Isotta da Rimino») del bresciano Giammaria Mazzuchelli, in cui è citata una «Cronica a penna in pergamena, che tuttavia si conserva nell'Archivio de' Padri Minori Conventuali di S. Francesco di Rimino composta da Fr. Alessandro da Rimino Proccuratore di quel suo Convento». Frate Alessandro vi definisce Sigismondo «Iniquus Princeps», e ricorda che costui prese come moglie Isotta «qua cum per multos annos libere sine matrimonio vixit». Mazzuchelli, circa le nozze di Isotta con Sigismondo, ipotizza il principio del 1453, quando lui le regala abiti e gioielli. E sottolinea che il Malatesti negava di aver contratto segretamente tale matrimonio. Dal quale nasce Antonia, poi maritata con Rodolfo Gonzaga. Nel freddo Natale del 1483 il consorte la raggiunge nel castello di Luzzara. Un ebreo favoritissimo a corte gli ha fatto credere adultera la giovane moglie. Rodolfo Gonzaga aggredisce Antonia e la trascina a morire nel giardino ricoperto di neve. Circa le «Notizie» di Mazzuchelli, ricordiamo il giudizio datone da Augusto Campana (1951): «Piccola cosa se si vuole, ma veramente egregia» e «primo lavoro monografico moderno di argomento malatestiano». Campana ricorda la collaborazione che Mazzuchelli aveva ricevuta dal «nostro Giuseppe Garampi il futuro cardinale e uno dei più grandi figli di questa città». Mazzuchelli, va aggiunto, aveva ringraziato nel suo testo soltanto il «dottor Giovanni Bianchi di Rimino» (Iano Planco) il quale gli aveva fornito varie notizie, dando «in ciò saggio egualmente della sua gentilezza, che della sua singolare erudizione». Planco, quando recensisce sulle «Novelle letterarie» di Firenze il lavoro di Mazzuchelli, scrive d'aver inteso «che privatamente sia stato ora, non ha molto, aperto in Rimini» il sepolcro di Isotta. Ne nasce una polemica di cui si è già qui detto qualcosa («Tempio, il segreto delle tombe», 12.1.2003). E su cui si potrebbe ritornare aggiungendo altri curiosi particolari sui velenosi eruditi riminesi del secolo XVIII. ["il Ponte", 5.10.2003/35]

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Eruditi e maldicenti. 1756, contestata la riapertura degli avelli nel Tempio. Il 22 luglio 1756 padre Francesco Antonio Righini, «procuratore» dei Minori Conventuali di San Francesco, apre furtivamente l'Arca degli Antenati, nella cappella della Madonna dell'Acqua al Tempio malatestiano. Con sé porta quale esperto il pittore Giambattista Costa, e come tecnici due muratori: quello che entra all'interno dell'Arca, ne scompiglia i poveri resti. Il 15 agosto Righini ispeziona le casse di marmo nella fiancata esterna destra alla presenza di alcuni testimoni, ed il giorno successivo il sepolcro d'Isotta davanti a dodici persone. Il francescano compie l'esplorazione degli avelli proprio mentre architetta un colpo con cui spera di diventare famoso. Imbroglia le carte sulla storia della beata Chiara da Rimini, ed inventa la scoperta d'un manoscritto datato 1362, raschiando la data originale del 1685. La sua impresa al Tempio non piace a molti in città. Le critiche gli piovono addosso abbondantemente. Il 19 agosto padre Righini scrive a Giuseppe Garampi, prefetto dell'Archivio Segreto Apostolico Vaticano e studioso di meritata fama. Invoca una specie d'assoluzione per la sua iniziativa. Gli confida d'aver agito soltanto per «curiosità» ed allo scopo «di porre con ogni sincerità il vero della Storia di ciò che concerne questo nostro magnifico Tempio». In cerca di notizie Righini con Garampi non usa la stessa «sincerità» e non ricorda tutto «il vero». Tralascia la visita fatta il 22 luglio all'Arca degli Antenati. Cita solamente la seconda esplorazione dell'Arca, svolta il 16 agosto dopo quella nella tomba d'Isotta. In quest'occasione nell'Arca si vede soltanto un mucchio d'ossa confuse fra gli stracci, grazie all'imperizia di quel muratore pasticcione. Righini sa poco o nulla della storia illustre della chiesa di cui è custode. Lo dimostra quando, nella stessa missiva, chiede a Garampi di suggerirgli «qualche notizia particolare» attorno «a questo nostro Tempio», da inserire «nella rozza composizione» che gli è stata richiesta, ovvero una storia del Malatestiano. Un suo compagno d'avventura, il filosofo e naturalista Giovanni Antonio Battarra, scriverà in una «Lettera» a stampa (Milano, 1757) che in città attorno alle tombe del Tempio correvano due opposte opinioni. C'era chi, seguendo la tesi di Giuseppe Malatesta Garuffi (1655-1727), riteneva che nella maggior parte di esse vi fossero le ceneri dei 'titolari'. Altri invece sostenevano che fossero vuote. Righini, secondo Battarra, si era mosso «per decidere chi dei due partiti avesse ragione». Il mistero d'un silenzio Il silenzio di Battarra sul progetto del frate (di scrivere qualcosa sulla vicenda secolare del Tempio), s'accompagna a quello sullo stesso padre Righini mai citato nella «Lettera» milanese. Battarra riferisce vagamente di «alcuni Galantuomini» che la sera del 15 agosto «si portarono a que' Monumenti di Marmo che sono nella facciata laterale del Tempio dalla parte di mezzodì». Resta un mistero perché non indichi il nome del frate come ideatore di tutta l'impresa. Neppure nelle note alla «Lettera», curate da un suo allievo (Epifanio Brunelli), si parla di padre Righini, ma si cita vagamente un «Promotore» dell'iniziativa. Battarra (come lo stesso Righini) inizia la «Lettera» dal 15 agosto, 'dimenticando' l'anteprima del 22 luglio nell'Arca degli Antenati. L'ha ricordata invece in una «Relazione» manoscritta inviata nell'estate del 1756 ad alcuni amici, tra cui lo stesso Garampi che la conservò a noi posteri. Può essere stato lo stesso Righini a suggerire a Battarra di tacere sul 22 luglio. L'accusa in città:

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«troppo audace» Righini, il 19 agosto, con Garampi osserva che restava da aprire soltanto un altro sepolcro, quello di Sigismondo: «se la curiosità mi trasporterà a farlo voglio farlo con tutta la pulizia possibile», cercando di avere presenti il vicario generale della Diocesi, il notaio «ed altre persone graduate per testimonj». Il desiderio di agire, per così dire, alla luce del sole e «con tutta la pulizia possibile», nasce dalla volontà di mettere a tacere le malelingue che lo hanno «tacciato per troppo audace». Padre Righini confida a Garampi di non curarsi però dei «latrati» insussistenti e vani indirizzati alla propria persona. E precisa d'aver agito «colla licenza» del vicario generale della Diocesi e del «Religioso superiore» dell'Ordine a cui appartiene. Finalmente il 21 agosto c'è la ricognizione alla tomba di Sigismondo, a cui concorrono più di trenta amici di padre Righini. Il vicario non interviene, ma si presenta il Capoconsole pro tempore Lodovico Battaglini. L'assenza del vicario, il canonico Francesco Maria Pasini (futuro vescovo di Todi ed educatore, un po' sfortunato, di Aurelio Bertòla), è interpretata come un modo elegante per non approvare un'azione sulla quale gli avversari di padre Righini avanzavano dubbi circa il rispetto di alcune norme del Diritto canonico. Garampi conosce dunque tutti i particolari della vicenda malatestiana soltanto dalla «Relazione» manoscritta di Battarra, contenente il racconto completo delle esplorazioni, a partire proprio dal 22 luglio e dall'Arca degli Antenati. Dal confronto tra questa «Relazione» di Battarra (senza data) e la lettera del francescano, Garampi poteva dedurre che padre Righini aveva voluto nascondere l'atto iniziale della sua impresa per non apparire quello sprovveduto che apertamente si confessava con il suo silenzio. Il 5 settembre Battarra (provetto disegnatore ed incisore) invia a Garampi un abbozzo del cadavere di Sigismondo. Il dottor Bianchi si è offeso Quando padre Righini scrive a Garampi dei «latrati insussistenti e vani» rivolti contro la sua persona, sa con certezza chi poteva accusare: Giovanni Bianchi (Iano Planco), medico, naturalista, docente di Anatomia umana a Siena dal 1741 al '44, e rifondatore dell'Accademia dei Lincei nel '45. Secondo Battarra, il suo maestro Bianchi era fra quanti militavano nel partito dei cenotafi, cioè delle tombe vuote. Bianchi se l'è presa a male perché è stato tenuto fuori dall'impresa. In effetti, in città egli era l'unico che per dottrina ed esperienza fosse in grado di esprimere consapevolmente un parere scientifico e storico sull'esplorazione agli avelli del Tempio. Alla quale fu presente un suo ex allievo, il medico Giambattista Brunelli, fratello di Epifanio, assieme al collega Girolamo Grassi. «Ignoranti e di poca mente» Quando pubblica sulle «Novelle letterarie» di Firenze una recensione delle «Notizie intorno ad Isotta da Rimino» di Giammaria Mazzuchelli [vedi «Passioni malatestiane del 1718», «Ponte», 5.10.2003], Bianchi sottolinea con studiata malizia d'aver appreso che il sepolcro della donna di Sigismondo era stato da poco aperto «privatamente». A Bianchi scrivono lo stesso Mazzuchelli ed alcuni redattori editoriali di Venezia, per saperne qualcosa di più. Lui risponde a tutti, ma prima di avviare le missive al corriere, le legge pubblicamente in città. Ce lo fa sapere Battarra in una lettera del 7 maggio 1757 ad un suo corrispondente, Ferdinando Bassi: Bianchi sostiene che quei «sepolcri sono stati aperti privatamente da un Fraticello ignorante che si è unito con alcuni di poca mente e che nottetempo sono andati a frugacciare» nelle tombe. Alla lettura di queste missive, Bianchi accompagna commenti cordialmente osceni in faccia allo stesso Battarra ed agli altri della compagnia di Righini.

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Uno stile da «villano» Battarra protesta con Giovanni Lami, direttore delle «Novelle» per la recensione di Bianchi dove si parla dell'esplorazione della tomba di Isotta fatta «privatamente», e gli invia una «relazione di dette aperture», che è pubblicata il 29 aprile 1757, e che provoca la furia del dottor Bianchi. Questa lettera di Battarra a Lami portò Alessandro Tosi (1927) ad attribuire a Battarra medesimo la paternità del testo apparso sulle «Novelle». Lo stile di questo scritto non è però quello di Battarra. Fra le espressioni usate, e che Bianchi critica (per lui sono «parole da villani del nostro contado»), ve n'è una che si riferisce all'Arca degli Antenati: in mano ad un cadavere giudicato di donna, fu trovata «una rama d'ulivo». Battarra nel testo inviato manoscritto a Garampi ha scritto correttamente: «in mano un ramo d'Ulivo». Proprio nelle note di Epifanio Brunelli alla «Lettera» milanese di Battarra, appare la stessa espressione censurata da Bianchi: «una rama d'ulivo in una mano». Può essere questa la prova (stilistica) per attribuire lo scritto fiorentino non a Battarra ma ad Epifanio Brunelli. Dal fatto che la «Relazione d'apertura d'Avelli» sia stata inviata a Firenze da Battarra, non deriva nulla circa la sua paternità letteraria. Battarra conosceva Lami, delle cui «Novelle» Epifanio Brunelli diventerà collaboratore soltanto successivamente. Nel 1759 Epifanio Brunelli vi pubblica la recensione proprio alla «Lettera» milanese di Battarra, senza avvisare quest'ultimo (il quale, nel frattempo, ne aveva inviata a Lami una di suo pugno). «Cose infami da forca» Il dottor Bianchi reagisce duramente alla «Relazione». Con Mazzuchelli dichiarerà che l'ha elaborata Battarra, dopo aver letto nella seconda edizione delle «Notizie» su Isotta dello stesso Mazzuchelli (1759), che essa era «d'altra penna» da quella di Battarra. Bianchi invia varie lettere a Lami, sostenendo che quello scritto portava disonore alle «Novelle», e che esso era stato composto «male e scioccamente» soltanto per combattere la sua affermazione fatta sull'apertura della tomba d'Isotta compiuta «privatamente». Questi signori, scrive Bianchi, hanno commesso il reato di violazione di sepolcro, «cose infami che hanno in oltre con sé la pena della forca». Battarra con il suo corrispondente Bassi, il 21 giugno 1757 osserva che Bianchi lo ha colpito «con un esercito d'impertinenze», ed è «diventato sì fanatico» da farsi compatire dappertutto, e da divenire inavvicinabile. Ma il 29 settembre Battarra ricorre a lui, per chiedergli una visita urgente al padre «aggravato dal mal d'orina». Pace fatta. Secondo Battarra, il dottor Bianchi aveva giudicato il mancato invito alle esplorazioni nel Tempio al pari d'un delitto di lesa maestà. Al nipote di Bianchi, Girolamo (anch'egli medico), Battarra confida: suo zio se l'è presa con me, «ed il maggior mio dispiacere è di vederlo rendersi pressocché ridicolo e puerile». Giovanni Bianchi interpreta la vicenda in modo diverso. Rammenta che cinque anni prima, proprio dagli ecclesiastici riminesi, è stato montato lo scandalo per la sua lettura ai Lincei del discorso sull'«Arte comica», messo poi all'Indice con una procedura che Giuseppe Garampi giudicò rapida ed «improvvisa». Per non dire quasi irregolare. ["il Ponte", 19.10.2003/37]

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«Ritrovati» i Malatesti dei Lincei. Sono copie di lettere del 1700 in Gambalunga. In tre recenti articoli («Tempio, il segreto delle tombe», 12 gennaio 2003; «Passioni malatestiane del 1718», 5 ottobre; ed «Eruditi e maldicenti», 19 ottobre), abbiamo documentato l'interesse dimostrato dalla cultura italiana e riminese del Settecento nei confronti della storia dei Malatesti e del Tempio voluto da Sigismondo Pandolfo. Un nome che ricorre spesso in quegli scritti è quello di Giovanni Bianchi (Iano Planco) che nella sua Accademia dei Lincei parlò ripetutamente degli antichi Signori della città. L'argomento non è mai stato trattato negli studi che toccano le vicende malatestiane e gli sviluppi della cultura settecentesca locale. I Lincei riminesi riservarono tre dissertazioni ai Malatesti. Il 30 aprile 1751 si dà lettura di sette epistole di Roberto Malatesti (1479). Successivamente (forse il 7 maggio dello stesso anno), segue un'epistola di Leonida Malatesti del 1546. Infine il 17 marzo 1752 Bianchi presenta sei missive del governo di Firenze inviate ai Malatesti di Rimini (1378-1400), e ricopiate da Lodovico Coltellini da un codice manoscritto di Coluccio Salutati (1331-1406), esistente presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze. Coltellini trasmette a Bianchi queste copie il 29 gennaio 1752: «La prego di communicarle opportunamente, alla nostra Accademia Lincea, ai soci della quale costì dimoranti, mi ricordo servidore ossequiosissimo». Alle copie, Coltellini premette una breve presentazione in cui egli dichiara di comunicarle «ai virtuosissimi Signori Accademici Lincei di Rimino, comecché appartengono all'istoria di quella illustre città». Le copie di Salutati Della radunanza lincea del 17 marzo 1752, sono rimaste due annotazioni di mano di Bianchi nel fasc. 222 del «Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese» in Biblioteca Gambalunga. Nella prima è spiegata l'origine delle copie fornite da Coltellini: cioè, il codice «scritto dal celebre Coluccio Salutati», poi «posseduto da Pietro Crinito, o sia del Riccio, altro famoso Segretario della medesima Repubblica» fiorentina come lo stesso Salutati. Nella seconda annotazione si legge: «Giacché per incidenza questa sera s'è fatta onorata menzione de' Signori Malatesta, che erano fautori delle Lettere greche e latine, e d'ogni altra cosa a scienza e ad erudizione appartenente, e massimamente tra questi Carlo Malatesta Signore di questa Città, che fu cognominato il Catone de' suoi tempi, e Sigismondo, e Malatesta Novello suoi Nipoti, uno Signore di Rimino, e l'altro Signore di Cesena, che favorirono amendue le Lettere in un grado eccellente, come dalle scelte Librerie che fondarono, e dagli uomini illustri in Lettere, che appo ebbero è manifesto, io vi riferirò o Graziosi uditori una lettera del Sig. Dott. Lodovico Coltellini di Firenze nostro Accademico Linceo, colla quale egli ci manda un sonetto d'un tal Pandolfo Malatesta ad un tal Messer Andrea lasciando a noi la cura d'investigare chi fosse questo tal Pandolfo giacché moltissimi di questa famiglia Malatesta, e Signori, e non Signori della Città nostra con un tal nome di Pandolfo furono». L'avvocato cortonese Coltellini (1720-1810) era stato nominato accademico Linceo nel 1750. Fu dotto e polemico corrispondente di Bianchi. Giovanni Lami, direttore delle «Novelle letterarie» fiorentine, lo classificò in una lettera allo stesso Bianchi come «un birro, ed una spia, che non posso patire». Nel 1757 Coltellini farà ascrivere Bianchi all'Accademia cortonese di Botanica e Storia Naturale, della quale era segretario. Gambetti svela il «mistero» Le due pagine del fasc. 222 sono state il punto di partenza per rintracciare le lettere malatestiane di cui esse parlano. Abbiamo anzitutto consultato il fascicolo contenente le missive di Coltellini a Bianchi, senza però trovarvi quella con le copie delle lettere malatestiane presentate ai Lincei. Un funzionario, nella

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«Sala chiusa» dei manoscritti dove è conservato un catalogo generale non accessibile al pubblico (quello a disposizione degli utenti non è completo), ha fatto una ricerca con esito negativo partendo dalla voce Coltellini. Allora abbiamo preso visione delle preziose «Schede Gambetti». Qui alla voce Coltellini abbiamo trovato due informazioni. La prima (conosciuta) circa le ricordate lettere a Bianchi; e la seconda (inedita, nella scheda 114) sulla missiva di Coltellini a Bianchi del 29 gennaio 1752, «con copia di varie lettere della Repubblica Fiorentina ai Signori Malatesta di Rimini». Riproduciamo il testo completo della scheda 114, con l'elenco delle lettere malatestiane: «Il Coltellini le copiò dal codice cartaceo della Libreria Riccardiana segnato M II n° 3. La prima è diretta Domino Galeotto de Malatestis. Florentiae die XI Augusti 1378. La seconda è diretta allo stesso. Florentiae die 9 Nov. 1738. La terza è diretta Karolo et Pandolfo de Malatestiis Florentiae die 10 Aprilis 1390. La quarta è diretta Ghaleoto Belfiore Florentiae die 5 Junii VII Ind. 1399. La quinta è diretta Karolo de Malatestiis Florentiae die 5 Junii 1399 VII Ind. La sesta è diretta Karolo, et Fratribus et aliis de Malatestiis. Florentiae due 7 Junii 1399. Mss. Sc. V. 48». Quest'ultima indicazione («Mss. Sc. V. 48») documenta che in Gambalunga nel corso dell'altro secolo, le lettere malatestiane furono tolte dal fascicolo delle missive di Coltellini a Bianchi, ed inserite diversamente. Ma dove e come, se il nome di Coltellini non è elencato nel catalogo generale riservato? Nel catalogo dei manoscritti gambalunghiani accessibile a tutti, se nulla c'è sotto il nome Coltellini, invece sotto quello di Coluccio Salutati, autore della prima trascrizione, con la segnatura «ms. 414» appare elencato il materiale che cercavamo: la missiva di Coltellini del 29 gennaio 1752 e le trascrizioni delle sei lettere malatestiane lette nei Lincei. Dalla medesima missiva di Coltellini a Bianchi si ricava che pure le precedenti epistole malatestiane, lette nei Lincei in due precedenti adunanze, erano state inviate da Coltellini al medico riminese. Ma di esse non siamo riusciti a trovare alcuna traccia negli schedari gambalunghiani. Lite erudita con un gesuita Nella stessa radunanza del 17 marzo Bianchi presentò anche una «Lettera ad un amico di Firenze intorno varie cose d'Antichità», poi pubblicata sulle «Novelle» fiorentine: è un'accesa polemica contro l'autore (anonimo) della «Storia letteraria d'Italia», il cui primo volume era apparso due anni prima (1750) a Venezia, con una citazione critica di uno scritto archeologico dello stesso Planco, di cui si diceva (senza nominarlo) che era un medico al quale era «saltato in capo di far da antiquario». Bianchi si difese sostenendo che i migliori studiosi d'Antiquaria erano stati proprio dei medici come lui. L'autore della «Storia letteraria» è il gesuita Francesco Antonio Zaccaria (1714-1795). E pure Planco lo sapeva bene. Nella risposta a Zaccaria, Bianchi sostiene che per fare una storia letteraria «non ci vuole il solo capitale di quattro ciance volgari» come accaduto nell'opera veneziana, «ma bisogna essere versato in tutte le scienze, e in oltre bisogna sapere bene le lingue de' Dotti, vale a dire la Greca, e la Latina, ed anche le antiche d'Oriente, non meno che molte delle moderne d'Occidente». Infine, per poter più liberamente attaccare l'autore della «Storia letteraria», Planco sostiene che non potevano essere tali né Zaccaria né alcun altro padre gesuita perché nessun seguace di sant'Ignazio avrebbe potuto scrivere in quella forma e con «tanta ignoranza», in quanto «i Gesuiti sono persone dotte e colte, che si pregiano più che altro di usare civiltà e gentilezza con ognuno, non che con i Letterati, che non gli hanno mai offesi». Bianchi scriveva di sospettare qualcuno dei suoi soliti «saputelli calunniatori» che avevano agito sempre da anonimi o con nomi finti. Planco riconosce che negli ultimi due tomi quell'autore (Zaccaria) «pare un poco più moderato» verso la sua persona, anche se dimostra d'avere ancora «una certa rabbietta, ed amarulenza», dato che non parla mai bene di lui se non «a mezza bocca, e quasi per forza». Bianchi definisce l'autore della «Storia letteraria» come «un miserabile copista» da novelle e giornali, «non veggendo egli mai alcuna cosa nell'originale». Ed aggiunge: «e crediamo con alcuni, i

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quali giustamente pensano, che sia meglio esser biasimato da lui, che l'esser lodato». Chi studia non odia Planco, parlando di quella «certa rabbietta, ed amarulenza», si riferiva a quanto apparso nella «Storia letteraria» del 1751, dove Zaccaria aveva richiamato uno scritto del senese Giovanni Girolamo Carli contro Bianchi, in cui si sosteneva che il medico riminese quando fu professore d'Anatomia a Siena «non incontrò molto il genio di que' Cittadini». Per la verità, Carli aveva pure scritto in difesa di Bianchi, accusato di conoscere soltanto «quattro parole di greco»: «Buono per la nostra Toscana, se ci fossero due dozzine di persone che sapessero di Greco quanto il Signor Dottor Bianchi». A proposito dello scritto di Carli, Zaccaria osservava che esso era caratterizzato da uno stile «un po' amaro», aggiungendo: «Noi vorremmo, che gli scrittori cristiani non in parole, ma co' fatti si mostrassero persuasi della verace carità, che dall'altre sette ne dee più che altra cosa distinguere». Di questa regola, però Zaccaria non è rispettoso proprio con Bianchi, laddove osserva che il gazzettiere fiorentino pubblicava le notizie inviategli dal riminese per riempire «senza molta sua fatica» i propri fogli. Nel novembre 1763 Zaccaria entrerà con Bianchi in un cordiale rapporto epistolare, durato sino al giugno 1768. Nella sua ultima lettera, Zaccaria definisce Planco «un letterato sì celebre». Nella prima gli aveva detto (in latino), tanto per cominciar discorso, che pur avendolo qualche volta (ma senza malevolenza) contestato nella «Storia letteraria», tuttavia lo aveva sempre considerato uomo dalla dottrina molteplice e di grande valore, non facendo finta di non riconoscerla. E che se lo aveva attaccato era stato soltanto perché Planco era in strettissimo legame con il loro «assai aspro persecutore», cioè il responsabile delle «Novelle» fiorentine Giovanni Lami. Bianchi rispose (sempre in latino) con spirito di riconciliazione, che era stato amico e non socio di Lami, aggiungendo per chiudere il discorso: «Litterae in honestis hominibus verum inimicitiam non pariunt», gli studi letterari nelle persone oneste non generano risentimenti. La pagina più gustosa scritta da Zaccaria contro Bianchi è quella in cui parla della disputa sul «malvagio Rubicone» («Annali letterarj d'Italia», 1762): «Se Roma ha già decisa la lite per questa rara cosa tra' Riminesi, e Cesenati, e ha condannati nelle spese quest'ultimi, io vorrei vedere imposta una buona multa a coloro, che con fogli, libri, libercoli, Dissertazioni, Scritture osassero di più infestare l'umana generazione sopra questa controversia, teruntii, flocci, e nihili eziandio», cioè di poco, anzi di nessunissimo valore. ["il Ponte", 21.12.2003/46]

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Sigismondo il «terrorista». Fu accusato nel 1461 di spingere Maometto II contro Roma. Nei fatti della Storia come nei romanzi gialli o nelle indagini poliziesche, i dettagli vanno raccolti e raccontati con attenzione. Essi aiutano a comprendere un personaggio, a ricostruire una vicenda collettiva, a tessere o decifrare una trama che altrimenti resterebbe lontana e confusa come un paesaggio remoto. Il quale, se affascina nella sua sommaria sintesi, non offre però la possibilità di descrivere i tratti caratteristici del suo territorio. Partiamo da un notizia di cronaca, prima di entrare nel merito dell'argomento. Londra ha di recente ospitato alla Royal Academy of Arts una mostra intitolata «Turchi, un viaggio lungo mille anni». Tra i pezzi in mostra c'era il ritratto di Mehemed (Maometto) II attribuito a Shiblizade Ahmed ed eseguito nel 1480. Maometto II era nato ad Adrianopoli (Edirne) nel 1430, e morì nel 1481. Il 29 maggio 1453, conquistò Costantinopoli ponendo fine al millenario impero bizantino. L'antica Bisanzio aveva cambiato nome nel 330 quando Costantino vi pose la sede imperiale (prima è detta Roma Nuova poi Costantinopoli). Nel 293 il riordinamento dell'impero voluto da Diocleziano aveva creato la doppia capitale, per un più capillare controllo dei territori: Nicomedia (Izmit) per lo stesso Diocleziano che guidava la parte orientale, e Milano per Valerio Massimo che governava quella occidentale. A Milano è emanato nel 313 l'Editto di tolleranza. La riforma di Diocleziano prevede oltre ai due Augusti altrettanti loro vice destinati a succedergli: sono i Cesari, Galerio per l'Oriente (residente a Sirmio nell'Illiria) e Costanzo Cloro in Occidente (residente a Treviri nella Gallia e ad Eboracum in Britannia). Roma diventa così un nome vuoto. Tra Occidente ed Oriente Nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d'Occidente, si apre una nuova fase storica. L'eredità latina sopravvive ad Oriente con i bizantini. In Italia, Gallia, Spagna ed Africa nascono i regni romano-barbarici. Inizia formalmente quel «medio evo» che si fa concludere con la scoperta dell'America (1492) o con la conquista nel 1453 di Costantinopoli (che diviene Istanbul), quando all'impero bizantino subentra l'ottomano che crolla al termine della prima guerra mondiale (1914-1918) assieme a quelli austriaco, tedesco e russo. Nel 553 i bizantini stabiliscono il loro dominio sulla nostra penisola, con l'esarca (governatore militare e civile) che risiede a Ravenna, nella regione detta Ròmania (da cui Romagna). Rimini fa parte della Pentapoli marittima con Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona. Queste città nell'ottavo secolo passano allo Stato della Chiesa, nato per l'intervento dei Franchi in Italia (chiesto nel 754 da papa Stefano II). Nel 1453 Costantinopoli è una città spopolata e in decadenza. Con Maometto II ridiviene un centro fiorente, abitato da una popolazione multirazziale e plurireligiosa. Per numero di residenti e per importanza commerciale essa supera qualsiasi altra città del mondo musulmano e cristiano. Maometto nel 1456 è sconfitto a Belgrado, e tre anni dopo conquista il Peloponneso, Trebisonda (ultimo stato bizantino ancora autonomo), parte dell'Albania, le colonie genovesi di Crimea e la Serbia. La sua ultima impresa militare nel 1479 è la campagna d'Ungheria che si conclude con una sconfitta. La caduta di Costantinopoli del 1453 provoca forte tensione internazionale. Papa Niccolò V emana una bolla in cui si parla dell'avvento della bestia dell'«Apocalisse» avanguardia dell'Anticristo. Le altre potenze politiche invece pensano soltanto agli affari. Le loro reazioni, è stato osservato da Corrado Vivanti, furono soltanto «sentimentali o retoriche». Non va dimenticato che i cannoni usati per espugnare Costantinopoli erano stati costruiti da un ingegnere ungherese. A Rimini nasce

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il Tempio Il 1453 è anche l'anno in cui prende forma il Tempio riminese con l'innalzamento delle pareti esterne secondo il disegno di Leon Battista Alberti. Due anni prima Piero della Francesca ha firmato e datato l'affresco nella cella delle Reliquie, ed il primo maggio 1452 è stata consacrata la cappella di san Sigismondo re di Borgogna, la cui statua è opera di Agostino di Duccio. In quell'affresco (interpretazione laica di un soggetto di devozione, secondo Roberto Longhi), Sigismondo Pandolfo Malatesti fa celebrare il proprio protettore con le fattezze dell'omonimo imperatore (1368-1437) il quale nel 1433 era stato incoronato a Roma ed aveva visitato Rimini, concedendo il 3 settembre la sua investitura allo stesso Sigismondo ed al fratello Malatesta Novello. La conquista di Costantinopoli, provoca sgomento nel mondo cristiano, mentre l'Islam esulta dall'Andalusia all'India. Il vescovo di Siena Enea Silvio Piccolomini (futuro Pio II, e grande avversario del nostro Sigismondo) scrive a Niccolò V: «Pudet iam vitae, feliciter ante hunc casum obiissemus!», mi vergogno di vivere, almeno fossi morto. Niccolò V si converte allo spirito di crociata contro i turchi. La spada dei turchi pende ormai sulle nostre teste, e noi ci facciamo la guerra l'un l'altro, scrive lo stesso Piccolomini al cardinale e filosofo Niccolò Cusano. Il 18 aprile 1454 Venezia stipula un accordo con Maometto II. Pochi giorni prima, il 9 aprile, è stata firmata la pace di Lodi fra gli Stati italiani, favorita da una generale spossatezza e dalla conclusione della guerra dei Cento anni (1453) che rendeva disponibile la Francia ad un intervento in Italia. Tra Stati europei ed impero ottomano, secondo Luciano Canfora, dal 1453 «almeno fino al tempo del Bonaparte» s'instaura un rapporto caratterizzato dal «massimo di retorica demonizzante» in Occidente, e sull'altro versante dal «massimo di spregiudicatezza diplomatica». Su questo scenario internazionale va collocato il «dettaglio» che riguarda Sigismondo. Siamo nel 1461. Maometto, tramite l'ambasciatore veneto in Egitto, il nobile Girolamo Michiel, chiede al signore di Rimini il favore d'inviargli Matteo de' Pasti per farsi ritrarre. Matteo si trovava nella nostra città dal 1446, «gelosamente» custodito da Sigismondo (come scrisse nel 1909 Giovanni Soranzo), per lavorare all'interno del Tempio. Matteo de' Pasti è soprattutto noto grazie alle medaglie che ritraggono lo stesso Sigismondo ed Isotta. Sigismondo di buon grado accetta la richiesta di Maometto II, a cui invia tramite lo stesso Matteo una lettera in latino composta da Roberto Valturio, il suo «più dotto e benemerito segretario», accompagnandola con il dono d'una copia del «De re militari» opera dello stesso Valturio, famosa ancor oggi per l'elogio del Malatesti: «... tu, o Sigismondo, che nella difesa della religione e nel certame della gloria non sei inferiore ai più illustri condottieri ed imperatori, dopo la conclusione della guerra italica, nella quale hai sconfitto ed annientato tutti i nemici grazie all'invincibile ardimento del tuo animo, volgendo il pensiero dalle armi ai pubblici affari, con i bottini delle città assediate e sottomesse, confidando nella somma religione del santissimo e divino Principe, hai lasciato, oltre ai sacri edifici posti a tre miglia dalla città sul monte e dinanzi al mare, quel Tempio famoso e degno d'ogni ammirazione, ed anche unico monumento del tuo nome regale, entro le mura, al centro della città e nei pressi del foro, costruito dalle fondamenta e dedicato a Dio, con tanta abbondanza di ricchezza, tanti meravigliosi ornamenti di pittura e di bassorilievi, di modo che in questa famosissima città, quantunque si trovino moltissime cose degne d'essere conosciute e ricordate, niente vi sia di più importante, e niente che di più sia stimato da vedere, soprattutto per la grande vastità dell'edificio, per le numerose ed altissime arcate, costruite con marmo straniero, ornate di pannelli di pietra, e nelle quali si ammirano bellissime sculture ed insieme le raffigurazioni dei venerabili antenati, delle quattro virtù cardinali, dei segni zodiacali, dei pianeti, delle Sibille, delle arti e di altre moltissime nobili cose». La missione di Matteo de' Pasti non va in porto. Nel novembre 1461 è catturato in Candia e condotto a Venezia dove lo processano riconoscendolo innocente (e pertanto lo rilasciano il 2 dicembre). Da Venezia si diffonde (tramite la corte milanese) la falsa notizia

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che Sigismondo aveva cercato di contattare Maometto per esortarlo a venire a combattere in Italia. Il nuovo papa Pio II che stava allora esaminando la «posizione» di Sigismondo (sarà scomunicato il 27 aprile 1462), è dello stesso parere. Secondo Soranzo, l'accusa rivolta al nostro principe era «insussistente». Tuttavia essa circolò da Milano sino a Napoli al solo scopo di denigrare Sigismondo come nemico della Religione, dello Stato della Chiesa, delle signorie e dell'Italia tutta. Insomma, lo presentavano (oggi diremmo) quale «terrorista» al soldo del Turco. Questa in breve è la vicenda della missione fallita di Matteo de' Pasti, i cui particolari racconteremo in un secondo articolo. Notizie sui suoi studi Per ora ci limitiamo ad osservare che Sigismondo scrivendo a Maometto II (per mano di Valturio), dichiara di voler far partecipe il sultano dei propri studi ed interessi («te meorum studiorum mearumque voluptatum partecipem facere»). Non ha progetti politici nascosti. Desidera semplicemente ribadire un suo sogno o ideale: una cultura aperta all'ascolto di tutte le voci, nel solco della tradizione umanistica, testimoniata dallo stesso Tempio. Il monumento riminese rispecchia i temi dell'intero mondo mediterraneo dove greci, romani ed arabi avevano costruito un sapere universale. Gli arabi avevano poi permesso ai dotti europei di recuperare ciò che alla fine dell'era classica era andato smarrito in campo filosofico e scientifico. Bisanzio è l'altra metà di quel mondo, come ha dimostrato Niccolò V che, dopo il decreto conciliare del 1439 per l'unione delle due Chiese, ha tentato di rinnovare la tradizione classica greca. Il Tempio racconta il senso della continuità storica del mondo mediterraneo, fatta di sintesi unificatrice che privilegia l'accordo, l'identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune, mentre l'analisi strettamente geo-politica delle singole entità territoriali tende a dividere ed a contrapporre. E la vicenda del 1461 ne è piena conferma. Forse Sigismondo sognava di trasformare Rimini in una città-ponte con tutti i centri intellettuali del Mediterraneo, un specie di faro di sapienza che potesse vantarsi di succedere a Roma, Bisanzio e Ravenna. Scheda. Letterati al soldo «Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati. [...] Ma è l'Italia de' letterati, con il suo centro di gravità nelle corti. [...] I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio; il nemico del'oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto». Francesco De Sanctis, «Storia della letteratura italiana» (1870-71) Pio II e Maometto II Pio II (eletto nel 1458) compone nel 1461 in latino una «Epistola a Maometto», intesa («ma forse solo apparentemente», è stato osservato da Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo. Papa Piccolomini è noto in campo storico-letterario per i suoi «Commentari» editi con mutilazioni a Roma nel 1584. Ha scritto Eugenio Garin che in essi «l'attenzione dell'uomo nuovo si rivolge a sé e al mondo con una concretezza veramente moderna». Pio II muore nella notte sul 15 agosto 1464. «Ha coltivato [...] il sogno anacronistico di una crociata: non di una guerra europea contro i turchi, ma proprio una crociata», pensando di coinvolgere il re d'Ungheria Mattìa Corvino (Mátiás Hunyadi, 1440-1490), che ebbe vari contatti con l'Italia e che prese in moglie Beatrice di Napoli, figlia del re Ferdinando I d'Aragona (Giampaolo Dossena). Piccolomini e l'antipapa Quando Niccolò V emana il decreto conciliare (1439) per l'unione delle due Chiese, a Basilea si elegge un antipapa, Felice V, il principe Amedeo VIII di Savoia, scomunicato immediatamente dal concilio di Firenze. Fra i suoi elettori c'è Enea Silvio Piccolomini

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che divenne il suo segretario particolare, prima di lasciarlo per passare al servizio di Federico d'Asburgo, e di riconciliarsi con il pontefice romano, Eugenio IV. Prese gli ordini sacri e divenne nel 1447 vescovo di Trieste. «Nove anni dopo era cardinale, due anni dopo papa», il Pio II nemico di Sigismondo. (F. Rondolino) «Cospirò» dice il romanziere Il Malatesti voleva nel 1461 «aprire al Turco le porte dell'Europa», ha scritto il romanziere Alberto Cousté in «Sigismondo» (1990): «per lui, ansioso d'assoluto, ogni eccesso era un tentativo di sintetizzare l'universo» (pp. 360-1). ["il Ponte", 1.5.2005/16]

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1461, le spie della Serenissima contro Rimini. Come fallì la missione di Matteo de' Pasti a Maometto. Nella precedente puntata abbiamo visto che Maometto II, tramite l'ambasciatore veneto in Egitto Girolamo Michiel, nel 1461 chiede a Sigismondo Pandolfo Malatesti il favore d'inviargli un artista che lavorava allora a Rimini, Matteo de' Pasti, per farsi ritrarre. Michiel aveva ricevuto l'incarico di recarsi in Egitto il 7 luglio 1460. L'incontro con Maometto avvenne forse nello stesso anno «perché si sa che il Gran Turco stette lontano da Costantinopoli parecchi mesi nel 1461 per la guerra contro le popolazioni ribelli dell'Asia Minore e delle regioni finitime al Mar Nero, e nella sua capitale fece solenne ritorno solo il 6 ottobre». Così scriveva nel 1909 Giovanni Soranzo, aggiungendo: «Solo dopo questo avvenimento poté allontanarsi Matteo de' Pasti da Rimini alla volta di Costantinopoli». Matteo amico degno di fiducia Il veronese Matteo de' Pasti abitava da quasi vent'anni a Rimini, lavorando come «valente direttore dei lavori» nel nostro Tempio. «Più volte aveva avuto l'invito di potenti e illustri principi italiani di recarsi alla loro corte, dove gli si promettevano onori e ricchezze», spiega Soranzo, «ma per compiacere Sigismondo suo mecenate e signore, aveva rifiutato». Un concittadino di Matteo de' Pasti, il canonico lateranense Matteo Bosso che fu a Rimini nel 1457, scrisse che lo stesso de' Pasti occupava un posto distinto nella corte malatestiana. Nella lettera credenziale che Sigismondo fa comporre in latino da Valturio per Maometto, Matteo de' Pasti è definito suo assiduo compagno ed amico, artista mirabile, diligente in ogni lavoro, degno di somma fiducia, dotato di una modestia singolare e di una non comune erudizione. Probabilmente la partenza da Rimini di Matteo de' Pasti avviene verso la fine dell'ottobre 1461. Egli porta con sé per Maometto II non soltanto la lettera latina di Valturio e una copia del «De re militari» dello stesso Valturio, ma pure un'opera propria, come scoprì Augusto Campana nel 1928, citando un cronista contemporaneo di Sigismondo, il forlivese Giovanni di Pedrino. Si trattava di una carta di tutta l'Italia «de sua mano disegnada». Il cronista annotò che essa serviva «per informare el Turco del paexe d'Italia per monte e per piani e per terra e per aqua». Lo scopo nascosto sia del viaggio sia del dono della carta veniva identificato dal cronista forlivese nella volontà del signore di Rimini di chiamare Maometto in suo soccorso contro il papa, il quale stava facendo grande guerra a Sigismondo considerandolo uno scomunicato. La cattura e il processo Matteo de' Pasti nel novembre 1461 è catturato in Candia e invece d'essere condotto a Costantinopoli è trasferito a Venezia: «esaminato e forse sottoposto alla tortura dal Consiglio dei Dieci, fu giudicato innocente e liberato il 2 Dicembre», spiega Soranzo in una sua celebre opera del 1911 («Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesti 1457-1463», p. 272). Al Consiglio dei Dieci (che creando un regime di terrore salvaguardò l'istituzione oligarchica), facevano capo anche le spie della Serenissima, sparpagliate dappertutto. La scarcerazione di Matteo de' Pasti significava la sua innocenza, secondo Soranzo (1909): avrebbe subìto un diverso trattamento, oltretutto quale suddito della Repubblica, se ci fosse stata in qualche modo la certezza che egli «era complice di un'impresa che non solo metteva a repentaglio i più sacri interessi della Cristianità, ma minacciava gravemente la potenza, l'incolumità dei dominii coloniali e la prosperità dei traffici della Regina dell'Adriatico». L'innocenza di Matteo de' Pasti è di conseguenza un'assoluzione per Sigismondo, ritenuto il mandante della missione politica presso il Turco. Soranzo aggiunge che il papa non fa mai parola della presunta colpa del Malatesti né nelle bolle di scomunica né nei propri scritti. Inoltre ne tacciono i pubblici documenti di Milano, Venezia, Firenze e Mantova. Ed infine i contemporanei quando parlavano dei misfatti di Sigismondo non accennavano a «qualsiasi tentativo di accordo» con Maometto II.

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Interviene lo Sforza Nel 1910 Soranzo pubblicò una lettera che il 10 novembre 1461 Antonio Guidobono scrisse da Venezia al duca di Milano Francesco Sforza, di cui era agente nella città lagunare, informandolo della missione di Matteo de' Pasti inviato a Costantinopoli dal «Signor Sigismondo» per esortare il Turco a venite in Italia. Guidobono suggeriva allo Sforza d'informare il papa del contenuto della missiva. (Sigismondo nel 1441 aveva sposato Polissena Sforza, figlia di Francesco, morta nel 1449). Sforza diffonde la notizia a Napoli, Roma e Parigi. Prima scrive ad Antonio da Trezzo suo ambasciatore presso Ferdinando I d'Aragona re di Napoli. In questa lettera lo Sforza dice che la richiesta al Turco corrispondeva agli «usati costumi» di Sigismondo, ovvero «cercare cose nuove». Il 24 novembre lo Sforza informa Ottone del Carretto, suo ambasciatore presso la corte pontificia inviandogli anche copia della lettera di Guidobono con l'ordine di leggerla al papa senza citare chi ne fosse l'autore e da dove fosse giunta. Il 26 lo Sforza si rivolge anche ai tre rappresentanti che ha presso la corte di Parigi, Tommaso da Rieti, Lorenzo Terenzi da Pesaro e Pietro Pusterla. L'accusa contro Sigismondo è al centro di altri documenti. Ottone del Carretto da Roma risponde allo Sforza il 5 dicembre. Lo stesso giorno il messo dei Gonzaga a Roma, Bartolomeo Bonatto ne scrive a Lodovico marchese di Mantova, precisando che Mattia de' Pasti recava con sé «el colfo disignato», cioè quella carta di cui parla il cronista forlivese Giovanni di Pedrino. Penosa impressione Come commenta Soranzo (1909), la notizia della cattura del messo di Sigismondo si diffuse in tal mondo «per tutta Italia». «L'impressione fu dovunque penosissima: persino a Venezia, dove il Malatesti aveva i migliori amici e godeva grandi simpatie; a Roma poi esultarono i suoi nemici, i quali accoglievano con facile soddisfazione questa novella e stimolavano il papa a volerla finire con quell'infame nemico del nome cristiano». Bartolomeo Monatto e Ottone del Carretto raccontano nei loro dispacci le reazioni romane e veneziane. Ottone osserva prima che il papa era già stato informato «per altra via et in questa corte è divulgata questa cosa et ogniuno ne dice male». In altro testo del 2 gennaio 1462 aggiunge che il papa è più che mai deciso a colpire Sigismondo con la «sententia» (ovvero scomunica maggiore, interdetto e privazione del vicariato), ritenendo raggiunta la prova con l'arresto di Matteo de' Pasti che lo stesso signore riminese aveva cercato di contattare il Turco, «ad invitarlo et confortarlo a venire in Italia». Il papa ottiene da Venezia di potere esaminare il libro sequestrato a Matteo de' Pasti. Tardando la sua restituzione, il governo della Serenissima il 13 aprile 1463 solleciterà il pontefice a consegnarglielo. Il papa il 5 giugno 1462 rimprovera a Borso d'Este duca di Modena vari torti, tra cui i favori fatti al nostro Sigismondo il quale «Turcorum impiam gentem studuit advocare». Commenta Soranzo (1909): Pio II aveva un desiderio di vendetta contro Sigismondo e per questo «da più mesi manteneva una guerra forte e resistente» contro di lui. Ad accusare Sigismondo c'era una testimonianza del 4 settembre 1461, cioè precedente la partenza di Matteo de' Pasti: Galeotto Agnense luogotenente di Pesaro scriveva a Francesco Sforza che Sigismondo «ha incominciato a dire che poi chel re fa venire Scandarbeco cheesso mandarà per lo Turco». Ovvero se l'Aragonese aveva invitato in Italia il prode albanese Giorgio Scanderbech ad aiutarlo, Sigismondo avrebbe chiamato Maometto. Quella del Malatesti era una minaccia o una spavalderia? Conclude Soranzo che era insussistente l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo, mancando validi argomenti per sostenerla. La leggenda del 1462 Contro il signore di Rimini nacque una seconda, infondata leggenda: d'aver tentato di ripetere nel 1462 la missione presso Maometto II. Alla fine di quell'aprile, racconta Soranzo, si spargeva la voce del

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nuovo viaggio d'un suo messo, ser Rigo, ovvero Enrico Aquadelli (siniscalco e maggiordomo della corte riminese). Nasce da Pesaro la soffiata per mano di Niccolò Porcinari da Padule, governatore provvisorio della città, che il 29 aprile ne riferisce in termini non certi al duca di Milano. Ser Rigo, spiega Porcinari, il giorno 28 si rifiutò di partire perché la luna era in combustione. Il giorno prima Roma aveva pubblicato la notizia della «terribile scomunica» contro Sigismondo. Ser Rigo partì successivamente? Impossibile, spiega Soranzo (1910), perché il 27 aprile 1462 Sigismondo accredita Ser Rigo presso il duca di Milano. Che lo ricevette il 16 maggio, ricevendone in omaggio una copia del «De re militari», lo stesso titolo che Sigismondo aveva prescelto per Maometto II come biglietto da visita. Lo Sforza veniva consultato da Sigismondo per ricevere suggerimenti come comportarsi con il papa. La risposta del duca di Milano fu: umiliarsi e chieder perdono. Ma ormai era tardi. Il 26 aprile 1462 tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono bruciati in tre punti diversi di Roma, ed il giorno seguente il papa emana la bolla Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini, inaugurando quella «leyenda negra» su di lui, che ritorna successivamente. (Leandro Alberti nella Descrittione di tutta l'Italia e Isole pertinenti ad essa, 1550, definisce Sigismondo «valoroso capitano de i soldati», ricalcando quanto scritto da Pio II «che narra i suoi vitij, et opere mal fatte». Lo stesso fa negli Annali Francescani del 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), chiamando Sigismondo uomo da ricordare più per le doti del fisico che per quelle dello spirito, per aver condotto una vita che nulla aveva avuto di cristiano.) Con la scomunica il papa vuole fermare Sigismondo che, come ha scritto Anna Falcioni, era «sostenuto dalla diplomazia francese e dall'arrivo di nuovo denaro», e stava preparando con il principe di Taranto un piano per impossessarsi di Pesaro ed attaccare Urbino. Il 2 dicembre 1463 la Chiesa romana lascerà allo «splendido» Sigismondo (così lo chiama Maria Bellonci) una città privata per lo più dei territori che aveva governato fin dai tempi del Comune. Al triste declino, Sigismondo tenta d'opporsi come condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. Chiede una raccomandazione presso il papa. Venezia lo accontenta, anche per giustificare con Pio II la propria scelta: non si trovava chi volesse accettare il mandato. La condotta di Sigismondo non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistrà, l'antica Sparta capitale della Morea, nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna. Se Pio II non fosse già morto il 15 agosto 1464, Sigismondo avrebbe fornito al papa forti motivi per un'altra condanna. ["il Ponte", 8.5.2005/17]

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Un orologio turco per l'Europa. Rapporti con l'Oriente dal tempo di Sigismondo al 1700. Nella vicenda del 1461 che ha quali protagonisti Sigismondo Pandolfo Malatesti e Maometto II (vedi «il Ponte», 1.5 e 8.5.2005), ci sono altri aspetti molto interessanti da considerare per delineare alcuni tratti della Storia italiana in generale e non soltanto del secolo XV. Franco Gaeta (1978) esaminando la «leggenda» di Sigismondo, ha sostenuto che a formarla contribuirono pure i contatti con il Gran Turco. Tutto ciò restituisce oggi a Sigismondo stesso una fama allora oscurata dall'infamia. Ed attesta pure quanta differenza passi fra la Storia e la Politica. La prima cerca di raccontare i fatti. La seconda vuole affermare le proprie presunte verità. Abbiamo ricordato l'opinione di Giovanni Soranzo, secondo cui «era insussistente» l'accusa gravissima rivolta a Sigismondo d'aver invocato l'intervento militare di Maometto II. Gaeta riprende il discorso di Soranzo, avanzando un'ipotesi. Se Pio II tacque su quell'accusa, per Soranzo la spiegazione più logica era che il papa non ne aveva trovato le prove, e quindi non aveva «validi argomenti» per produrla in atti ufficiali. Una «colpa» in più non avrebbe recato gran danno a Sigismondo. Di fronte al tribunale della Storia, occorre tuttavia procedere con grande cautela. Quella stessa cautela che ispirò forse Pio II facendogli tacere il particolare dell'invito (presunto) a Maometto. Il silenzio del papa Gaeta contesta la posizione di Soranzo: le ragioni del silenzio del papa non sono «quelle di un rigoroso accertamento della verità, dato che ragioni di questo genere non sembra abbiano avuto gioco nella lotta politico-diplomatico-propagandista-militare antimalatestiana». Gaeta riassume il grande paradosso della vicenda di Sigismondo: Pio II poteva sparare le accuse contro di lui senza preoccuparsi che esse fossero fondate, anzi più erano gravi e più s'imponevano soprattutto perché provenivano dalla suprema autorità della Chiesa, sul cui operato nessuno avrebbe dovuto avanzare dubbi. Gaeta ipotizza «ragioni d'altro ordine» per il silenzio sul fatto del 1461. Proprio fra l'ottobre ed il dicembre di quell'anno, «Pio II stava pensando anche lui ad un accordo col Turco e andava scrivendo la famosa lettera a Maometto II», alla quale abbiano già accennato, precisando che essa era intesa («ma forse solo apparentemente», come osserva Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo. In quella lettera, aggiunge Gaeta, «erano contenute ben più gravi - anche se imaginifiche - proposte che quella di passare in Italia». Gaeta ricorda come ancora nel febbraio e nel marzo 1462 Pio II stesse lavorando alla lettera a Maometto II: «Dunque una specie di remora psicologica, forse ha trattenuto Pio II dal formulare quest'ultima accusa contro il Malatesta e forse anche la volontà di non diffondere una voce di questo genere in imminenza dell'auspicata crociata». Protagonista europeo Il discorso di Gaeta spiega come la figura di Sigismondo continui ad inquietare gli storici che se ne sentono attratti anche dal fatto che la sua demonizzazione affascina e convince ad approfondire i temi a cui essa è legata. Sempre più, ogni volta che appare qualcosa su Sigismondo, ci si accorge che quella figura ebbe un rilievo non soltanto italiano anche sotto il profilo culturale per cui va sottolineato, come abbiamo già sostenuto, che il suo Tempio rispecchia veramente i temi dell'intero mondo mediterraneo. In un recente volume di Ezio Raimondi («La metamorfosi della parola») è citato un pensiero di Henri Bergson, secondo il quale «è il futuro che ci permette di capire meglio il passato». Applicando questa massima filosofica alla vicenda malatestiana del 1461, si comprende facilmente come essa possa dimostrare la centralità del personaggio di Sigismondo nel quadro internazionale a metà del Quattrocento. Gli sviluppi successivi della Storia europea hanno rivelato come spesso (molto spesso) il tempo sul quadrante della vita dei popoli del vecchio continente sia stato scandito

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dall'orologio turco, su cui gli altri Stati hanno dovuto regolare i propri calendari politici. Basti ad accennare a due eventi. Il 7 ottobre 1571 la «lega santa» con una flotta comandata da don Giovanni d'Austria sconfigge a Lepanto i turchi. Che nel 1683 giungono sotto le mura di Vienna. La loro sconfitta il 12 settembre è celebrata in tutta l'Europa cristiana. Cultura per l'unità Tra queste due date si svolge un'intensa attività culturale, studiata di recente da Andrea Battistini nel volume «Il Barocco. Cultura miti immagini». Smorzatasi l'euforia di Lepanto, «l'Europa, sentendosi di nuovo minacciata dal pericolo turco, lancia da più parti appelli alla fratellanza» (pp. 74-75). Il farmaco capace di «medicare i traumi che hanno diviso il mondo cristiano» è l'enciclopedismo. A Rimini un esponente di questo indirizzo seicentesco è il sacerdote Giuseppe Malatesta Garuffi, 1655-1727, agguerrito difensore della grandezza di Sigismondo (v. «il Ponte» 5.10.2003). Ritorneremo altra volta su Garuffi, formatosi a Roma alla scuola gesuitica, in cui (secondo Battistini) l'enciclopedismo è un modo per raccordare Tomismo e nuova Scienza. Battistini sottolinea che «siffatti disegni di sintesi del sapere non sono una prerogativa secentesca», avendone espressi già l'Umanesimo oltre alla cultura classica con Quintiliano. Leggendo ciò, non si può non ricordare Sigismondo con il suo Tempio quale «summa» che, come già ci siamo espressi, racconta la continuità storica del mondo mediterraneo, e che è sintesi unificatrice rivolta a privilegiare l'accordo, l'identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune. Feste a Bologna A Bologna quando il 18 settembre 1683 giunge la notizia della liberazione di Vienna, il Legato fa distribuire abbondanti quantità di vino e di pane. Una cronaca registra «un rumore per la Città» che faceva pensare ad «una vera sollevazione». Dopo il solenne «Te Deum» celebrato in San Petronio, si festeggia per tutta la notte in piazza Maggiore, mentre i poeti danno sfogo alla loro ispirazione anche con poemetti in dialetto, come Lotto Lotti che dedica al conte Alessandro Sanvitali il poemetto giocoso «in lingua popolare» intitolato «Ch' n' hà cervel hapa gamb». Il 24 agosto 1684, durante la «festa della porchetta», il Senato fa rappresentare uno spettacolo sull'assedio di Vienna, tema che tornerà al teatro Malvezzi addirittura nel 1736 con un dramma replicato per tutto il periodo di carnevale. A Rimini nel settembre 1683 gli atti pubblici non segnalano nulla circa gli echi dei fatti viennesi, stando a quanto scrive Carlo Tonini: «ci reca meraviglia, che tra i documenti da noi veduti non ne rimanga memoria e che il 1683 sia tra quegli anni, che meno di tutt'altri somministrano materia alla storia nostra». E dire che, aggiunge, la nostra riviera era stata «tanto minacciata» in passato dalle scorrerie dei turchi. Va precisato che non tutti gli atti dell'archivio comunale, tranne il registro del pubblico Consiglio (ora in Archivio di Stato) di cui parla Carlo Tonini, sono sopravvissuti sino a noi. Davìa, un Nunzio a Rimini Nel 1684 come ingegnere alla spedizione militare della Lega santa nella guerra di Morea (Peloponneso), troviamo il futuro vescovo di Rimini, il bolognese Giovanni Antonio Davìa, poi presente all'assedio della fortezza di Santa Maura a Corfù, conclusasi con la capitolazione turca. Tornato in Italia, Davìa è mandato Internunzio a Bruxelles (1687). Nel 1690 è consacrato vescovo, e destinato alla nunziatura di Colonia, da dove è trasferito a quella di Polonia (1696). Il 18 marzo 1698 è nominato vescovo di Rimini. Due anni dopo, il 26 aprile 1700, è promosso alla prestigiosa nunziatura di Vienna, nei momenti difficili della guerra di successione spagnola (1702-1713). A Rimini si ritira il 25 maggio 1706. All'insegna di politica e vita militare si svolge negli stessi anni l'esperienza di un altro «viaggiatore» bolognese, Luigi Ferdinando Marsili che tra 1679 e 1680 va a Costantinopoli con l'ambasciatore

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della Serenissima Pietro Civran, ricavando dal viaggio il materiale per le «Osservazioni intorno al Bosforo tracio, overo Canale di Constantinopoli» che pubblica a Roma nel 1681 con dedica alla regina Cristina di Svezia. Si arruola l'anno dopo nell'esercito austriaco. Cade prigioniero, mentre i turchi sono sconfitti a Vienna. Liberato dietro pagamento d'un riscatto nella primavera del 1684, va militare in Ungheria, in Transilvania, in Ungheria, diventa colonnello, partecipa alle trattative con i turchi come osservatore non ufficiale (1691-1692). Lo sospendono dal comando del suo reggimento, in base ad accuse delle alte gerarchie. Presenzia i negoziati per la pace di Karlowitz del 1698 tra Austria, impero ottomano, Polonia e Venezia. Lo nominano «generale di battaglia». Il pericolo è a Mosca Tra 1698 e 1701 Marsili lavora lungo la linea del Danubio per concordare con i rappresentanti turchi una linea di confine. Per il collega orientale divenuto ormai suo amico, Ibrahim Effendi, Marsili fa costruire uno speciale orologio a sveglia capace di scandire le fasi del Ramadan. Il progetto di Marsili è quello di avvicinare i due imperi lungo il Danubio. Il fiume avrebbe trasferito in Oriente le nuove tecnologie europee, e veicolato in Occidente le ricchezze ottomane. Marsili denuncia a Vienna il pericolo costituito dal monarca moscovita, pronto a lanciare i cosacchi contro l'Ungheria. E suggerisce di fomentare una guerra fra russi e polacchi onde distogliere l'attenzione dei primi verso il Mediterraneo ottomano. Per favorire i turchi, secondo il progetto di Marsili, gli Stati cristiani avrebbero dovuto lottare fra loro. Ma proprio il re di Polonia aveva salvato l'Occidente sotto le mura di Vienna, quando Marsili era prigioniero dei turchi. Ora gli fa più paura il regno ortodosso che la fede in Maometto. Come ha osservato Fabio Martelli, da cui abbiamo ripreso queste notizie, il bolognese antepone la logica della Ragion di Stato ad un primato della Tolleranza. Marsili scrive le sue relazioni più scottanti al governo di Vienna nel tempo in cui il Nunzio apostolico nella capitale austriaca è Davìa. Nel 1714 Marsili fonda l'Istituto delle Scienze di Bologna ispirandosi ai modelli della londinese Royal Society (1662) e dell'Académie Royale des Sciences di Parigi (1666). All'Istituto Davìa nel 1725 dona vari strumenti scientifici tra cui un orologio. Diverso ovviamente da quello fatto costruire da Marsili per Ibrahim Effendi. ["il Ponte", 26.6.2005/24]

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Il sacerdote che difese Sigismondo. Giuseppe Malatesta Garuffi, bibliotecario ed astrologo. Sigismondo Pandolfo Malatesti trovò un dotto difensore nel sacerdote riminese Giuseppe Malatesta Garuffi (1655-1727) che per la sua intensa attività di studio si meritò una discreta fama. Una sua biografia fu scritta nel 1725 da Giovanni Antonio Montanari per il «Genio de' letterati» (Forlì 1726). Un'altra era intenzionato a comporla Giovanni Bianchi per la serie delle vite degli eruditi italiani curata a Firenze da Giovanni Lami che gliene aveva chieste alcune di riminesi illustri. Bianchi il 30 gennaio 1745 invia a Lami l'elencò dei personaggi prescelti: «Marco Battaglini, che scrisse la Storia de' Concilj, gli Annali Ecclesiastici, e altre cose», Garuffi e Silvio Grandi «che stamparono ciascuno moltissime cose; e due Gentiluomini miei Amici il Sig. Andrea Battaglini, e il Sig. Giovanbattista Gervasoni, i quali hanno stampato veramente poche cose, ma erano molto dotti». Alla fine Bianchi stende soltanto quelle di Marco ed Andrea Battaglini. In quest'ultima egli può ritrovare una certa sintonia con alcuni suoi comportamenti, come l'insofferenza verso gli studi imposti dai Gesuiti, l'esperienza da autodidatta, e l'interesse nei confronti della Filosofia. Garuffi fu direttore della Biblioteca Gambalunga dal 1678 al 1694. Ideò nel 1705 un ampio programma editoriale e culturale sotto il titolo di «Bibbioteca Manuale degli Eruditi». Il titolo della «Bibbioteca Manuale» è quasi sempre riprodotto erroneamente come «Biblioteca». Allora le parole «bibbioteca» e «bibbiotecario» erano usate normalmente. Il giudizio di Muratori Garuffi ancor oggi è citato per la sua storia delle accademie italiane, «L'Italia Accademica», il cui primo ed unico volume a stampa apparve nel 1688, mentre il resto dell'opera è conservato manoscritto in Gambalunga. Il barocchismo del lavoro di Garuffi è confermato da pareri odierni. Quel testo non piacque a Ludovico Antonio Muratori. Il suo giudizio negativo non è di poco conto per misurare la distanza che separa un intellettuale «di provincia» dal grande studioso, con il quale il nostro fu in corrispondenza. L'epistolario di Garuffi con Muratori, ha scritto Angelo Turchini, è improntato ad «uno scambio di sterili notizie» aldilà delle quali il riminese non poteva andare con la sua cultura che spaziava entro limitati orizzonti. (Nel 1739, Bianchi scrive a Muratori. lamentando che la di lui «nobilissima raccolta de' Scrittori delle cose italiche» mancava nella «libreria pubblica» di Rimini, dandoci così la conferma di una totale indifferenza locale verso le opere del bibliotecario di Modena.) Giovanni Antonio Battarra (1714-89) annotò che Garuffi era «uomo noto per molte opere sue stampate parte sufficienti, parte mediocri, e parte ridicole». Piero Meldini ha scritto che il Garuffi letterato ed erudito «camminò sul filo del rasoio tra genialità e stravaganza». Da un'opera di Garuffi («L'antidoto de' malinconici», 1687) Meldini ha preso spunto per il suo romanzo «L'antidoto della malinconia» (1996). La figura di Garuffi è stata riproposta di recente da Claire Vovelle Guidi in un saggio francese (2002) sulla sua opera «Il Maritaggio della Virginità o sia lo sposalizio di Maria Vergine con S. Giuseppe» (1691). Il Barocco e il buon gusto Abituato a scrivere poesie che Carlo Tonini avrebbe definito «lo stillato e la quintessenza di tutte le stravaganze del Seicento», Garuffi si dedicò anche a trattare di argomenti letterari, con la dichiarata cautela di non ricorrere allo «stile illuminato» che egli identificava in quelle «gonfiezze di elocuzione, che oggi chiamasi del buon gusto». Nel suo giudizio Garuffi si contrappone alle teorie che si leggono in un famoso testo del 1654, «Il cannocchiale aristotelico» di Emanuele Tesauro. A Garuffi sfugge però che la condanna delle «gonfiezze» barocche era stata pronunciata in quegli anni tra fine Seicento ed inizio Settecento anche in nome del «buon gusto» contro cui lui invece si

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lanciava in uno scritto del 1705. Tre anni dopo sarebbero uscite le «Riflessioni sopra il buon gusto» di Muratori che segnano un punto fermo nel dibattito letterario sull'argomento, apertosi nel 1674 con la celebre «Art poétique» di Nicolas Boileau. Del 1693 è il «Buon gusto nei componimenti rettrici» del gesuita bolognese Camillo Ettori, mentre nel 1698 appare «L'istoria della volgar poesia» di Giovanni Mario Crescimbeni il quale in Arcadia guida un'operazione non aliena «da forti tratti autoritari» (R. Merolla) che, in stretta consonanza con il clima politico, trionfano su quelli indirizzati al rinnovamento ed alla laicizzazione del pensiero. Gian Vincenzo Gravina se ne va allora sbattendo la porta, e assieme a Pietro Metastasio e a Paolo Rolli crea l'Accademia dei Quiriti. Le «Riflessioni» di Muratori, oltre ad invitare i letterati ad accostare all'erudizione la filosofia perché non esiste cultura senza spirito critico, contrappongono «pulitezza e chiarezza di stile» alla prosa barocca. Quando scrive delle «gonfiezze di elocuzione, che oggi chiamasi del buon gusto», intendendole come frutto delle nuove concezioni, Garuffi dimostra una scarsa conoscenza delle novità prodottesi da Galileo in poi sul piano della pratica stilistica e delle concezioni estetiche. Non pare accorgersi che il dibattito sul puro fatto formale, diventa anche un discorso sui contenuti e le finalità della letteratura. L'attendibilità di Garuffi come studioso era stata messa in dubbio già da Bianchi che così ne scrisse a Muratori: «[...] il Garuffi, come con una mediocre attenzione per ognuno si conosce e anche i giornalisti di Lissia [Lipsia] modestamente il notarono, non solamente era poco esatto, ma ha riferite molte cose, copiate da altri, che non ci sono più, e Dio sa se ci sono mai state». La figura di Garuffi, per Turchini, sembra quasi assumere il valore paradigmatico di quell'ambiente provinciale riminese che era «posto, e per interessi e per problemi, ai margini dell'ideale Repubblica letteraria italiana del Settecento». Ritardi e condanne Il ritardo culturale del bibliotecario gambalunghiano viene confermato da un episodio del 1726. Garuffi chiede a Muratori «qualche notizia di libri suoi e d'ultimi». Non avendo ricevuto risposta, Garuffi pubblica il «Genio de' letterati» di quell'anno senza neppure una recensione di un'opera del Muratori. Quel ritardo culturale (che per certi aspetti sarà superato proprio grazie all'attività di studiosi come Bianchi e Battarra), trova giustificazione e conferma nella censura con cui ci si oppone alla diffusione delle nuove idee. Monsignor Davìa, benemerito alla città per tanti motivi, passa alla storia come colui che avversò nel 1722, quale vescovo di Rimini, la diffusione del «Saggio sull'intelligenza umana» di Locke, con molto anticipo sulla condanna romana del 1734, giudicando quel filosofo «cento volte più pericoloso del Machiavelli». Garuffi s'interessò anche d'Astrologia, come dimostra un breve testo, il «De modo figurarum astrologicarum describendi» (SC-MS. 462, cc. 99-110, in Gambalunga). Sono istruzioni tecniche su come compilare un oroscopo. Tra gli autori citati c'è Regiomontano, ovvero Iohannes Müller, il principale astronomo del Quattrocento, le cui «Tabulae directionum» (Firenze 1524) Garuffi utilizzò (con rinvii anonimi nel proprio testo), usando l'esemplare tuttora conservato in Gambalunga (segn. BP. 664). Tra Terra e Cielo Sempre in Gambalunga si conservano altri mss. di Garuffi che però non sono opera sua, bensì copie di testi del gesuita Egidio Francesco De Gottignies di Bruxelles il quale fu suo maestro a Roma nel Collegio Romano. Nella «Cosmographia» (SC-MS. 473) troviamo una descrizione dei nove corpi dell'Universo: Terra, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse. Gli sviluppi successivi della Scienza hanno dimostrato che quei corpi erano soltanto otto, eliminando le Stelle fisse che tali non erano proprio. A fianco dell'elenco dei nove corpi c'è un foglietto inserito fra le carte del manoscritto, con tre disegni relativi al sistema tolemaico, tyconico e copernicano sul tipo di una celebre

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tavola di Athanasius Kircher («Iter extaticum», 1671) che però contiene sei sistemi (tolemaico, platonico, egiziaco, tyconico, semi-tyconico, copernicano). Nel «De modo figurarum» troviamo elencati otto «segni»: i sette pianeti di cui egli parla in sèguito (Sole, Luna, Saturno, Mercurio, Giove, Marte, Venere) più il «Nodo Lunare Nord». Come mi è stato spiegato da un'esperta, i «Nodi Lunari corrispondono al punto di intersezione delle orbite Terra/Luna nel loro percorso attorno al Sole, oppure più semplicemente corrispondono ai punti di allineamento Sole/Terra/Luna come si verifica nelle eclissi». Garuffi poteva avere una fonte autorevole d'ispirazione (e di conferma) a questi studi nel Tempio malatestiano, i cui bassorilievi dei Pianeti dimostrano, secondo Franco Bacchelli, la convinzione del committente «che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri»: questo principio era «pacificamente accettato» nelle corti di Venezia, Ferrara e Rimini, prima che alla fine del XV secolo Giovanni Pico della Mirandola procedesse «ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali». Attraverso l'Aristotele «neoplatonico» degli arabi, Medioevo ad Umanesimo considerano compatibili la fede negli astri e quella in Dio, ha scritto di recente M. Fumagalli Beonio Brocchieri in «Federico II. Ragione e fortuna». Alla corte riminese, ha osservato ancora F. Bacchelli, Basinio Basini nei libri VIII e IX dell'Astronomicon suggerisce una «visione religiosa dei cieli», forse alla base d'un confronto fra Sigismondo e Valturio sul progetto iconografico della Cappella dei Pianeti. Lo scherzo di G. Montanari Secondo Antonella Imolesi, se la Chiesa aveva condannato magia ed astrologia, nel corso del 1500 «molti rappresentanti della alte gerarchie ecclesiastiche si appassionarono all'astrologia» («Cultura e scienza in Romagna nel '500», Forlì 2003, pp. 13-15). Tra le interpretazioni cristiane del fenomeno, rientra la «Somma de 4 mondi» (1581) del frate osservante riminese Pacifico Stivivi, che dedica l'opera a Francesco de' Medici granduca di Toscana. Stivivi nel 1602 è alla corte di Praga, «luogo a cui accorrevano alchimisti da ogni parte d'Europa» per ottenere la protezione di uno specialista del settore, l'imperatore Rodolfo II d'Asburgo. Stivivi, secondo l'Imolesi, fa confluire in questo trattato «le Sacre Scritture, la cabala, l'alchìmia, la fisica aristotelica, il profetismo allora in voga». Stivivi, morto nel 1611, fu guardiano del convento di San Bernardino. L'Astrologia sopravvive ufficialmente a Bologna sino al finire del Settecento, quando il docente di Astronomia dell'Università ha ancora l'obbligo di compilare il Taccuino per uso dei medici felsinei: l'ultima testimonianza al proposito risale al 1799, quando l'incarico è affidato al «cittadino dottore» Luigi Palcani Caccianemici (1748-1802). Sempre a Bologna il matematico Geminiano Montanari in cattedra a quell'università dal 1664, prima di andarsene a Padova (1678), aveva voluto ridicolizzare l'Astrologia ed i suoi cultori con una burla. Inventò un almanacco, il «Frugnolo degli Influssi del Gran Cacciatore di Lagoscuro», che risultò più azzeccato di quello dell'astrologo «ufficiale» della città. [Questo articolo appare nel mio volume «Giuseppe Antonio Barbari da Savignano (1647-1707). Un itinerario scientifico tra Rimini, Bologna, Parigi e Londra» in corso di stampa.] ["il Ponte", 7.8.2005/29]

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Paolo e Francesca vittime di un delitto politico? Una vicenda divisa fra istanze della Poesia e ragioni della Storia. Marzo 1282. Papa Martino IV, eletto l'anno prima nel conclave di Viterbo durato sei mesi, invia Paolo Malatesti a Firenze quale nuovo Capitano del Popolo e Difensore della Pace. Paolo è il secondogenito del «Mastin vecchio», il Malatesta da Verucchio detto il Centenario (1212-1312). La scelta di Martino IV fa pensare che Paolo, non soltanto abile condottiero, fosse tra i figli di Malatesta da Verucchio quello che, più dei fratelli, ne avesse ereditato le grandi doti di politico e di diplomatico. Il primo febbraio 1283, dopo undici mesi, Paolo Malatesti rinuncia all'incarico e rientra a Rimini. Egli giustifica la scelta con i negozi famigliari da curare. Alla base della sua decisione c'è forse il contrasto nato tra il suo ufficio e quello con analoghi poteri del nuovo Difensore delle Arti, istituito sul finire del 1282. In questi momenti Paolo ha sui trent'anni. Pochi in meno rispetto al primogenito Giovanni detto lo Sciancato, il marito di Francesca da Polenta da cui ha Concordia. La bimba rinnova il nome della nonna paterna la quale sposando il «Mastin vecchio» aveva portato in dote «massime ricchezze e possedimenti infiniti» (Marco Battagli, 1343), ed aveva soprattutto sancito un'unione politica tra il Malatesti forestiero ed i Parcitadi, la più importante famiglia riminese. I Malatesti erano schierati dalla parte guelfa. I Parcitadi da quella imperiale. Concordia (la nonna), come ipotizza Luigi Tonini (Storia di Rimini, III, p. 235), è figlia di una sorella sine nomine del Parcitade IV antagonista del «Mastin vecchio». Il quale nel 1295 ad 83 anni scaccia da Rimini lo stesso Parcitade IV, instaurandovi la propria Signoria. Accordi matrimoniali Giovanni e Francesca sono stati promessi nel 1275. L'accordo comprende anche un altro futuro matrimonio: tra Bernardino fratello di Francesca, e Maddalena Malatesti, sorella minore di Giovanni e Paolo. Secondo Boccaccio, il matrimonio fra Giovanni e Francesca riconosce la fine di una lunga e dannosa guerra tra i Malatesti e i Da Polenta. Paolo verso il 1269 ha preso in moglie la poco più giovane quindicenne Orabile Beatrice, figlia di Uberto di Ghiaggiolo che gli dà due eredi, Uberto jr. e Margherita, nata dopo l'uccisione del padre. Anche Uberto jr. sarà ucciso (1323). Dal cugino Ramberto, figlio di Giovanni. (Su ciò dovremo ritornare.) Anche questo matrimonio è politico. Orabile, ultima erede dei conti di Ghiaggiolo rimasti senza discendenza maschile, è costretta a sposare il figlio di un nemico del padre. D'altro canto Malatesta non voleva perdere l'investitura di Ghiaggiolo ricevuta tra 1262 e 1263, e contestatagli da Guido da Montefeltro anche a nome della stessa Orabile Beatrice di cui era zio. Guido da Montefeltro aveva sposato Manentessa sorella del padre di Orabile Beatrice. Le lotte militari Il 1271 è un anno nero per i ghibellini. Sono espulsi da Rimini. Guido da Montefeltro, mentre sta battendo i guelfi di Malatesta nelle Marche, cade da cavallo ed è catturato: «Sic victor a victo devictus est», scrive un cronista piacentino. I Malatesti liberano Guido, forse per intercessione di Orabile Beatrice. Nel 1274 le parti si invertono. Malatesta è sconfitto due volte. Da Ravenna nel 1275, Guido Da Polenta per cacciare i Traversari chiede l'intervento di Malatesta che gli invia cento fanti guidati da suo figlio Giovanni. Nei pressi di Faenza avviene la disfatta dei guelfi. Orabile Beatrice sa che la sua gente di Ghiaggiolo è andata contro suo marito Paolo Malatesti. Le convenienze dinastiche e le preoccupazioni politiche reggono (spesso dolorosamente) le sorti collettive delle famiglie. E regolano i destini dei singoli personaggi. Su questo sfondo, irrompe il fattaccio reso celebra da Dante, la tragedia dell'uccisione di Paolo e Francesca per mano di Giovanni. Possiamo collocarla ragionevolmente tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo a Rimini) ed

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il 1284. Luigi Tonini data al 1286 il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli [III, cit., pp. 256-8]. Bisogna lasciare un poco di tempo tra il delitto ed il nuovo sposalizio dell'omicida. Quindi il delitto non può essere accaduto dopo il 1284. Questi calcoli cronologici sono ininfluenti da un punto di vista generale. Sono invece molto utili se non necessari per una duplice osservazione sulla "verità" storica particolare della vicenda malatestiana. Una storia senza documenti Mancano documenti che la attestino. Il passo di Dante nel quinto canto dell'Inferno, è l'unica fonte esistente. Una fonte oltretutto letteraria e non cronachistica. Posteriore a Dante (e da lui derivato) è il racconto di Marco Battagli (1343): «Paulus autem fuit mortuus per fratrem suum Johannem Zottum causa luxuriam». Nessun indizio autorizza a formulare altre ipotesi. Delitto d'onore, delitto d'amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni, non «causa luxuriam» ma per invidia, avrebbe potuto progettare l'eliminazione fisica del fratello minore Paolo, diventato protagonista stimato della scena nazionale come attesta l'incarico fiorentino affidatogli dal papa. In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica di Giovanni, un alibi che travolgeva anche l'innocenza di sua moglie. Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripete con i loro eredi, come abbiamo preannunziato. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino. A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione del suo recente tentativo di conquistare la città. La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295, come s'è visto, i Malatesti hanno il potere a Rimini. E chi comanda controlla i documenti meglio delle situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda, potrebbe quindi essere il frutto di una direttiva di governo, finalizzata ad oscurare un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città. All'interno di questa ipotesi, come estrema conseguenza, si potrebbe immaginare pure la sublimazione del fatto politico nella vicenda amorosa, onde allontanare dalla famiglia un marchio d'infamia rispetto all'autorità religiosa e temporale della Chiesa. Allo stato degli atti, nulla permette di far luce circa i misteri sulla morte dei due cognati. Nel testamento di Giovanni si legge il nome di una Francesca della quale non si dice però il casato di provenienza. Che fosse figlia di Guido da Polenta lo apprendiamo soltanto dai commentari danteschi. Di Francesca infatti non sono giunte a noi altre attestazioni. Tutto ciò dimostra che le istanze della Poesia procedono separatamente dalle ragioni della Storia. La sfera perfetta e luminosa della Poesia può alimentarsi degli orrori e degli errori della cronaca. Tutta la Divina Commedia ne è dimostrazione continua. Ma ciò non impedisce d'interrogarsi su quei retroscena misteriosi che si rivelano nell'episodio di Paolo e Francesca. E che si possono riassumere nell'interrogativo: perché ne parla soltanto Dante? L'Inferno dei Malatesti Dante quando compone il canto quinto dell'Inferno è lontano dalla Romagna dove giungerà nel 1318 e dove resterà sino alla morte (1321). Fama volat. Quindi la storia dei due sfortunati amanti circola per l'Italia e raggiunge Dante altrove. Se non sono stati i Malatesti a rendere passionale ciò che era soltanto un delitto politico, come abbiamo ipotizzato per absurdum, potrebbe essere stato lo stesso Dante a rendere erotica una semplice vicende legata a beghe di famiglia ed a rivalità di parte. Dei Malatesti come perfidi politici e crudeli signori della città, Dante parla ripetutamente nell'Inferno. Al canto XXVII, vv. 46-47 («E 'l Mastin vecchio e 'l nuovo da Verucchio, / che fecer di Montagna il mal governo»), si ricorda l'uccisione del ghibellino Montagna dei

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Parcitadi da parte di Malatestino di cui era prigioniero, nel 1295, l'anno della presa di Rimini. Montagna era cugino della madre di Malatestino, in quanto figlio di Parcitade IV dalla cui sorella sine nomine (come abbiamo visto) nasce Concordia, madre di Malatestino. Il Mastin «nuovo» torna nel canto XXVIII, al girone dei seminatori di discordie: «tiranno fello» (v. 81) e «traditore» (v. 85) lo definisce Dante. Al Dante che rilegge la storia politica italiana, dunque, i nostri Malatesti avevano già recato il loro contributo. Un omicidio politico quale domestico regolamento dei conti, poco o nulla poteva aggiungere all'economia del suo poema. Invece quella storia d'amore è di un segno così perfetto da uscire dalla contingenza della cronaca, e da riceverne immortalità letteraria per i suoi protagonisti. È una storia che torna utile ai piani di lavoro di Dante. Sempre ammesso che non siano stati gli stessi Malatesti a diffondere la versione passionale d'un delitto politico. Se non se ne fosse occupato Dante, in effetti oggi nessuno si ricorderebbe di Paolo e Francesca. Ma la memoria universale non significa ovviamente una conseguente verità della vicenda tramandata sotto la specie della Poesia. La verità della Poesia sta soltanto nella stessa Poesia. Tutta la vicenda di Paolo Malatesti e della sua dinastia di Ghiaggiolo è raccontata nel vol. XX della Storia delle signorie malatestiane (Ghigi editore), a cura di Anna Falcioni (Università di Urbino), con testi di Silvia Pari, Anita Delvecchio, Maria Teresa Indellicati, Laura Fabbri e Pierluigi Sacchini, e con indici di Alessandro Ghigi. Antonio Montanari ["il Ponte", 21.7.2006/27]

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Il primo Malatesta, detto "il Tedesco." La sua storia raccontata in antichi volumi. La malattia della lettura ha aspetti molto positivi. Tra cui quello di divertirci con gli incontri casuali che si fanno nelle pagine dei libri. Ne racconto uno soltanto per introdurre il nostro tema. Nel febbraio 2010 è uscito un volume intitolato "Prima lezione di metodo storico", a cura di Sergio Luzzatto che insegna Storia moderna all'Università di Torino. La sua premessa termina dichiarando lo scopo dell'opera: fare una visita guidata all'officina della buona storiografia per combattere l'inquinamento ambientale "prodotto dagli storici finti, dagli storici servili, dagli storici irresponsabili". Le tre categorie potrebbero servire per schedare molti degli autori che hanno parlato del nostro argomento, l'origine di casa Malatesti. Lasciamo fuori da ogni classificazione uno studioso inglese, John Larner (1930-2008), autore di una storia delle Signorie di Romagna (1965) riproposta due anni fa da un editore cesenate. Egli scrive che "ogni tentativo di tracciare la discendenza delle famiglie signorili dai periodi precedenti l'undicesimo secolo, o dalle località fuor di Romagna, è costretto a perdersi in una ricerca senza frutto". Accanto a lui va posto un altro autore, Leardo Mascanzoni (associato di Storia medievale a Bologna), che mostra il pollice verso nei confronti di tali tentativi, definendo "falso" il problema delle origini dei Malatesti (2003). Tanto di cappello ai pareri illustri di Lor Signori. Girando tra le pagine di qualche volume antico o moderno, ci permettiamo di proseguire, incuranti del fatto di poter essere multati dalle severe guardie dei sentieri storici. Partiamo da un libro un po' vecchiotto per ricordare che in passato la ricerca delle origini malatestiane, tanto deprecata oggi, ha avuto i suoi sostenitori appassionati senza alcuno scopo di vantaggio personale. Di cui potrebbero essere accusati invece gli antichi intellettuali di corte. Dunque, nel 1574 appare a Venezia la prima parte (15 libri) della storia del Regno d'Italia composta dal modenese Carlo Sigonio, vissuto fra il 1520 circa ed il 1584. La seconda parte con i restanti 5 libri esce a Francoforte nel 1591. Nel 1613 l'opera completa è pubblicata ad Hanovia oggi Hanau, nel land dell'Assia. Nel libro VII leggiamo che nell'aprile 997 a Ravenna l'imperatore Ottone III (980-1002) nomina dei marchesi, ed onora con la concessione di alcuni feudi in Romagna, un tal Malatesta che taluni definiscono "il Tedesco" ("Germanum nonnulli fuisse perhibent"). Da costui "nobilis Malatestarum familia in hunc usque diem est in ea provincia propagata". La raffinatezza linguistica di Sigonio ci obbliga a segnalare che egli scrive "Malamtestam quendam [...] feudis aliquot in Romaniola honestavit". Nell'accusativo doppio di quel nome ("Malamtestam" e non semplicemente "Malatestam"), c'è traccia di un aspetto fondamentale: si tratta di un vocabolo composto. Aggiungiamo che la frase "nobilis Malatestarum familia" va tradotta: la nobile famiglia dei Malatesti (e non dei Malatesta), come già si sapeva una volta sin dalla scuola media. Per restare nei tempi passati, ricordiamoci del settecentesco concittadino Francesco Gaetano Battaglini, uno studioso dal palato fino, che nelle sue "Memorie istoriche di Rimino" (Bologna 1789, p. 164, ed. an. Rimini 1976) cita Sigonio senza alcuna contestazione. Ma non tralasciamo fonti nostre contemporanee. Francesco Vitali, uno specialista in Storia europea, osserva sul web che "l'agire politico di Ottone III istituisce una chiara dipendenza della penisola dalle risoluzioni imperiali". John Larner cita come origine dei Malatesti un fratello dell'imperatore Enrico III (1017-1056), dopo aver sostenuto che il feudalesimo in Romagna nasce al tempo degli Ottoni nel decimo secolo. Con Ottone III siamo proprio tra la fine del decimo e l'inizio dell'undicesimo. Dunque, per tornare a Sigonio, chi può essere mai il Malatesta Tedesco? Ricominciamo da capo. L'arrivo dei Malatesti in Romagna è collocato al 1002, quando Ottone III nomina un suo vicario per Rimini, identificato in un figlio della di lui sorella Matilde di Sassonia, moglie di Ezzo conte palatino di Lorena. Matilde, essendo nata attorno al 980 (da Ottone II e Anna Theophania di Bisanzio), però non poteva aver generato un erede che nel 1002 fosse già in età

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da ricevere quella carica. Ezzo di Lorena (detto anche Erenfrido) ha un fratello, Ezzelino (+1033), che è padre di Enrico I (+1060) detto "der unsinnige", ovvero "senza testa". Il vicario nominato da Ottone III potrebbe quindi essere Ezzelino, e la dinastia dei Malatesti essere così chiamata dal soprannome affibbiato ad Enrico I. Muratori osserva che spesso i soprannomi "tuttoché fossero imposti più per vituperio che per onore, tuttavia passarono di poi in cognomi di famiglia" (cfr. "Annali", III, Milano 1838, p. 21). Come scrive Gaetano Moroni nel "Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica" (LVII, Venezia 1852, voce "Rimini", pp. 264-265), nella storia di Fano composta da Pier Maria Amiani (1751) "si dice che nel 969 i Malatesti possedettero alcune terre in Fano [...]. Il Sigonio narra, che Ottone III dopo il 983 o più tardi, venuto in Italia e fermatosi in Ravenna, concedé in feudo alcune terre di Romagna a Malatesta suo gentiluomo che aveva condotto di Germania, e dal quale uscirono i Malatesti di Rimini, di Fano e di altre città". Le fonti di Amiani sono Raffaele Maffei detto il Volterrano (1451-1522) e Marcantonio Coccio detto Sabellico (1436-1506) che fu allievo di Giovanni Antonio Pandoni detto Porcelio o Porcellio (ca. 1405-1485). Pandoni visse presso la corte riminese dei Malatesti, componendo i ben noti versi elegiaci in onore di Isotta ("De amore Jovis in Isottam"). Ma, come osserva in una lettera indirizzata da Roma il 20 novembre 1801 ad Alessandro Da Morrona (1741-1821) che la pubblica nella sua "Pisa illustrata nelle arti del disegno", II (Pisa 1812), il riminese Angelo Battaglini (fratello di Francesco Gaetano ed autore della "Corte Letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta Signor di Rimino"), Pandoni fu "più storico che vate pregiato" (dal web). Il giudizio di Angelo Battaglini può suggerire di ritenere valido quanto sostenuto da Sabellico, il quale fu autore di 63 volumi di storia universale. A Sabellico e Maffei non credette invece Francesco Sansovino (1521-1586) che nel libro "Della origine e de' fatti delle famiglie illustri d'Italia" (1582), fa nascere la dinastia dei Malatesti "in Roma" (cc. 221-222). La pista lasciataci da Sansovino, pur partendo da Roma, rimanda però alla Germania: "... si può credere [...] che ne tempi di Othone Terzo" nascesse la famiglia dei Malatesti, "e che poi sopita dall'anno 900 fino al 1248, risorgesse di nuovo nel predetto millesimo". La notizia della famiglia "sopita" è smentita da documenti prodotti da altri autori. Della stranezza di questo lungo silenzio è consapevole lo stesso Sansovino: "Tuttavia parrebbe gran cosa che dal 900 fino al 1248 essendo stato Malatesta arricchito da Othone di Castella, di giurisditioni, e di altri titoli di grandezza, si fosse per lo spatio di 348 anni del tutto estinta ogni memoria fino all'anno 1248 e tanto più che Arimino era camera di Imperio, e fu posseduta da gli Imperatori". ("Camera di Imperio" significa città fedele all'impero.) Giuseppe Betussi (1515-1575) scrive nel 1547 dei Malatesti, chiamandoli "antichissimi signori di Arimino, il cui principio e la cui grandezza incomincia ai tempi di Ottone III". Il testo è nella "Addizione al libro delle donne illustri di Boccaccio" (Venezia 1545-1547), al cap. 46 dedicato a "Ginevra Malatesta". Questa può essere la fonte di Sigonio. Ai nostri giorni si continua a definire frutto di "semplici fantasie" la questione delle origini germaniche dei Malatesti, ma poi si sostiene che ciò non compromette l'attendibilità di un documento del 1186 che riguarda appunto un Malatesta Tedesco. Quest'ultimo personaggio rimanda proprio all'omonimo Germanus che due secoli avanti (997) da Ottone III ricevette un'investitura, come abbiamo letto in Sigonio. L'aspetto più interessante di tutto questo discorso, è che alla sua base stanno due secoli di differenza, contratti in una breve parentesi come se fossero soltanto due decenni. La stessa cosa succede al ricordato Betussi che identifica il Malatesta amico di Ottone III nel Malatesta che fu padre del Mastino e visse però due secoli dopo Ottone III. Betussi aggiunge che Malatesta "con l'amicizia, e autorità" di Ottone III, "dal quale ottenne più luoghi, diventò gran Signore". Consola il fatto che, se tutto cambia nel mondo, certi abbagli sopravvivono a garantire la continuità nelle storie umane, anche in quelle scritte, sempre miste di certezze e bugie.

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Scusate la brutale sincerità da lettore che non ha colpa delle cose che trova nei libri. A chi sostiene che non esistono notizie sulle origini della famiglia Malatesti, si possono contrapporre ventitrè documenti di cui diciotto inediti che saranno resi noti prossimamente. Essi raccontano un preciso itinerario tra Romagna, Marche e Toscana. ["il Ponte", 23.5.2010/33]

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Malatesti, protagonisti in Europa. Per Cleofe, un concilio, le nozze, un delitto. Ginevra, 1999. Al Musèe d'Art et d'Histoire arrivano i resti della cosiddetta mummia di Mistra, l'antica Sparta capitale della Morea. Sono reperti ossei, biologici e vestimentari che un gruppo internazionale di studiosi di varie discipline deve sottoporre a restauro e ad analisi molto sofisticate. Li guida Marielle Martiniani-Reber, famosa archeologa dei tessuti all'università di Lione. Nel 2000 è lei che fornisce l'identikit della mummia, una giovane aristocratica occidentale, anzi un'italiana. Silvia Ronchey ne scrive raccontando della "Flagellazione" di Piero della Francesca ("L'enigma di Piero", 2006). Quella giovane si chiama Cleofe Malatesti, ed è nata a Pesaro all'inizio del XV secolo dal signore della città Malatesta I, detto "dei Sonetti o Senatore" (1366 ca-1429) e da Elisabetta Da Varano (1367-1405) di Camerino. Malatesta I è figlio di Pandolfo II e Paola Orsini (pronipote di un fratello di papa Niccolò III); nipote di Malatesta Antico detto Guastafamiglia (1299-1364); e pronipote di Pandolfo I nato da Malatesta da Verucchio "il centenario". Fratello di Malatesta Antico è Galeotto I (1301c-1385) che nel 1367 sposa Gentile da Varano, sorella di Elisabetta madre di Cleofe. Da loro nascono Carlo (1368-1429), marito di Elisabetta Gonzaga (sorella di Francesco che sposa Margherita sorella di Carlo...), e Pandolfo III (1370-1427) signore di Brescia nonché padre di Sigismondo Pandolfo Malatesti e di Domenico Novello, rispettivamente signori di Rimini e di Cesena. Malatesta "dei Sonetti" oltre a Cleofe ha altri sei figli (che elenco in ordine sparso). Galeotto muore a 16 anni (1414). Galeazzo "l'inetto" nel 1405 sposa Battista di Montefeltro. Paola nel 1410 sposa Gianfrancesco Gonzaga (figlio di Francesco e Margherita Malatesti). Di Carlo diremo fra poco. Taddea, moglie (1417) del signore di Fermo Ludovico Migliorati, muore nel 1427. Infine c'è Pandolfo (1390-1441), nel 1424 inviato quale arcivescovo alla diocesi di Patrasso dipendente da Costantinopoli. "Grande religioso di bona vita" e "dottissimo in iscienza" lo descrive Gaspare Broglio. Nel 1415 Pandolfo è presente al concilio di Costanza e nel 1417 al conclave che elegge Martino V. Arcidiacono bolognese (1404), governatore dell'abbazia di Pomposa (1407) ed amministratore "loco episcopi" (1413-1418) della diocesi della città di Brescia governata da Pandolfo III, egli è poi vescovo di Coutances in Normandia sino al 1424, nei duri momenti della conquista inglese durante la guerra dei cento anni. Nel 1430, quando Patrasso passa dal dominio veneziano (iniziato nel 1424) a quello bizantino, Pandolfo fugge dalla propria sede e ritorna a Pesaro. Nel 1429 a difenderlo presso i sovrani bizantini si è recato suo padre, approfittando di una fallita missione a Mistra affidatagli da Venezia. Ritorniamo al corpo esaminato a Ginevra. Se è di Cleofe, resta il mistero di un particolare autoptico: "una perforazione all'altezza del cuore, la cui natura non è certa", scrive Ronchey. Ciò conferma l'ipotesi di una drammatica fine della giovane che "visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito" (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425), sposato il 19 gennaio 1421. Così nel 1782 Annibale Degli Abati Olivieri Giordani per primo rivela la drammatica vicenda di Cleofe, pubblicando la lettera inedita inviata nel 1427 da Battista di Montefeltro a Martino V, Oddone Colonna, per invocare un intervento "in difensionem" della cognata. Malatesti e Montefeltro sono imparentati con il papa tramite due sue nipoti: Vittoria Colonna nel 1416 ha sposato Carlo, fratello di Cleofe; Caterina Colonna dal 1424 è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro (1377-1443), fratello di Battista. La prima consorte di Guidantonio era stata, dal 1397 al 1423, Rengarda dei Malatesti di Rimini. Le nozze del 1421 tra Cleofe e Teodoro sono state combinate durante il concilio di Costanza (1414-1418). Carlo Malatesti signore di Rimini e rettore vicario della Romagna dal 1385, sabato 15 giugno 1415 arriva a Costanza quale procuratore speciale di Gregorio XII

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"ad sacram unionem perficendam". Carlo è molto legato a Cleofe che di frequente soggiorna presso di lui a Rimini. Il 16 Carlo si presenta all'imperatore, "significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva" (L. Tonini). Lo stesso 16 giugno Carlo incontra pure Manuele II imperatore d'Oriente e futuro suocero di Cleofe. Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi, dimostrandosi mediatore sapiente e fermo ma aperto alle altrui ragioni. A Costanza si trova pure il patriarca di Costantinopoli Jean de la Rochetaillée. Anche il padre di Cleofe ha acquisito benemerenze religiose nei tormentati anni dello scisma occidentale (1378-1417). Nel 1410 l'antipapa Giovanni XXIII lo ricompensa dei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, "circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissimae unionis", attribuendogli "vita durante" la somma di seimila fiorini l'anno, pari a cinque volte il censo che il signore di Pesaro pagava a Roma. A Giovanni XXIII, Carlo di Rimini ha scritto prospettando vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III di Brescia, al fine di "reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae". Gregorio XII in una bolla (20.4.1411) scrive che Carlo, "verae fidei propugnator", ha giustamente deciso "se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae". In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, affidano un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo. Nell'agosto 1412, Carlo resta ferito per cui lascia il comando al fratello Pandolfo III. Nell'ottobre 1418 Martino V, mentre sta ritornando da Costanza, fa sosta prima a Brescia e poi a Mantova. A Brescia avviene il suo incontro con l'arcidiacono Pandolfo, fratello di Cleofe, amministratore della diocesi. A Brescia il papa trova il signore di Rimini Carlo accompagnato dalla moglie Elisabetta Gonzaga, e Malatesta I di Pesaro. Il quale ottiene dal pontefice due provvedimenti: la rinnovazione della propria signoria e la sede vescovile di Coutances per il figlio arcidiacono. Per cancellare la storia di Cleofe, bastano le fiamme che nel 1462 distruggono a Rimini gran parte dell'archivio malatestiano (poi spogliato delle carte superstiti su iniziativa pontificia fra 1511 e 1520); ed a Pesaro il 15 dicembre 1514 la biblioteca ed i documenti della famiglia della sposa bizantina, dopo che nel 1432 e nel 1503 un "arrabbiato popolo" vi aveva distrutto le scritture pubbliche. In quelle fiamme scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente, scelta dal papa con soddisfazione del suo casato: per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio. Sopravvivono soltanto le memorie orientali. E resta la leggenda del ritorno in patria di Cleofe: forse accreditata dagli stessi Malatesti per nascondere la sconfitta politica subìta, o forse diffusa dalla Chiesa al fine di mascherare le proprie colpe. Roma, consapevole di possibili tracce accusatorie lasciate a Pesaro ed a Rimini dalla clamorosa vicenda, avrebbe provveduto a distruggerle. Sono semplici ipotesi. Come quella di Silvia Ronchey circa la fine di Cleofe: una morte che ha "poche probabilità di essere stata accidentale", e che sarebbe dovuta alla "longa manus della curia romana". Cleofe "probabilmente assassinata, certamente travolta dal doppio gioco al quale era stata costretta fin dal suo arrivo a Bisanzio", visse cercando un impossibile equilibrio sul filo che collegava il papa ed il consorte. Giocò con coraggio una partita che da sola non poteva vincere. Ronchey ipotizza l'uccisione di Cleofe per evitare che mettesse al mondo un erede al trono bizantino. Se un figlio maschio fosse nato, "il corso della storia avrebbe potuto essere diverso": "se la storia potesse farsi con i se". Le nozze di Cleofe sono state celebrate il 19 gennaio 1421 assieme a quelle di Sofia di Monferrato con Giovanni VIII Paleologo. Sofia e Cleofe sono state unite nello stesso progetto di Martino V (che secondo Ronchey scelse "personalmente" la Malatesti), per riunire la

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Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054. Assieme Sofia e Cleofe s'erano imbarcate a Venezia per Costantinopoli. Il prologo del viaggio di Cleofe era stato segnato dal triste presagio dell'imbarcazione costretta dal maltempo a rientrare in porto a Rimini, per cui dovette compiere via terra il viaggio sino alla laguna. Anche di Sofia di Monferrato le cronache del tempo offrono scarse notizie: nell'agosto 1425 Sofia scappa da Costantinopoli, poco dopo la scomparsa del suocero Manuele II. Cleofe muore nel 1433, lasciando una figlia, Elena, nata tra 1427 e 1428. ["il Ponte", 20.6.2010/37]

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Elena, la regina di Cipro. Figlia di Cleofe Malatesti e di Teodoro di Bisanzio. Nel 1421 Cleofe Malatesti sposa Teodoro Paleologo despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II. Sul finire del 1427 o all'inizio del 1428 nasce la loro figlia Elena Paleologa. Nel 1433 Cleofe muore, forse vittima di un delitto politico. Elena è la prima erede diretta al trono di Costantinopoli oltre che di Mistra, perché i fratelli di suo padre non hanno e non avrebbero avuto figli. Nel 1442 sposa Giovanni III di Lusignano (1418-1458), re di Cipro (1432-1458), e muore l'11 aprile 1458. Elena è la seconda moglie di Giovanni III. La sua prima sposa, Amadea di Monferrato (1420-1440), è figlia di Giangiacomo (1395-1445) fratello di Sofia, unita in matrimonio con Giovanni VIII Paleologo e cognata di Cleofe. Le nozze di Sofia e Cleofe sono state celebrate il 19 gennaio 1421. Le due giovani erano partite assieme da Venezia per Costantinopoli nell'agosto 1420. Nell'agosto 1425 Sofia (+1434) scappa da Costantinopoli. La madre di Amadea di Monferrato è Giovanna di Savoia (1392-1460) figlia di Amedeo VII il Conte Rosso (1360-1391). Si chiama Carlotta la primogenita di Elena Paleologa e Giovanni III. Carlotta (1442-1487) andrà a nozze dapprima (1456) con Giovanni di Portogallo (1433-1457) e poi (1459) con Luigi di Savoia conte di Genova (1436-1482). Il titolo di re di Cipro passa ai Savoia che lo conservano (puramente onorifico) sino al 1946. Luigi di Savoia è figlio di Ludovico (1413-1465) e di Anna di Lusingnano, sorella di Giovanni III. Anche Luigi è alle seconde nozze, dopo quelle (1444) non consumate ed annullate (1458) con Annabella Stuart, figlia di Giacomo I di Scozia. La secondogenita di Elena rinnova il nome della nonna Cleofe ed ha breve vita. Carlotta regna tra 1458 e 1460, prima di Giacomo II il Bastardo (nato nel 1418 da Marietta di Patrasso) che per legarsi a Venezia nel 1468 sposa Caterina Cornaro. Giacomo II uccide il ciambellano di Elena, Tommaso di Morea. Contro Carlotta nel 1459 cerca al Cairo l'aiuto del sultano Al-Achraf Saïd ad-Din Inal. Giacomo II muore il 7 luglio 1473. Il 28 agosto nasce l'erede Giacomo III che scompare il 26 agosto 1474. Caterina Cornaro (1454-1510) regna dal 1473 sino al 1489. Nel 1463 Carlotta è fuggita a Roma. Qui scompare nel 1487 (ed è sepolta in San Pietro). Riprendiamo le due notizie relative ad altrettante fughe di spose italiane: Sofia da Costantinopoli (1425) e Carlotta da Cipro (1463). Anche per Cleofe è stato accreditato un inesistente ritorno in patria, associandolo a quello del fratello arcivescovo di Patrasso nel 1430, quando al dominio veneziano subentra il bizantino. Saltiamo al 1794: a Rimini appare un volume dedicato agli scritti di Basinio Parmense (1425-57), curato da due eruditi, i fratelli Francesco Gaetano ed Angelo Battaglini. Angelo è bibliotecario alla Vaticana. L'opera comprende nel primo tomo le "Notizie intorno la vita e le opere di Basinio Basini" (pp. 1-42) del padre Ireneo Affò dei Minori Osservanti (1741-97, dal 1785 alla morte prefetto della Biblioteca Palatina di Parma); un testo di Angelo Battaglini sulla "corte letteraria" di Sigismondo (pp. 43-255: esso riguarda i letterati forestieri alle pp. 43-160, e quelli riminesi, pp. 161-255). Nel secondo tomo c'è il lavoro di Francesco Gaetano, "Della vita e fatti di Sigismondo Pandolfo Malatesta" (pp. 257-698). Battaglini spiega che tra le tante altre notizie che non avrebbe potuto elencare, c'è quella che Cleofe "infine tornasse a casa". Lasciato il modo verbale della certezza usato in precedenza, ricorre al congiuntivo per indicare un'ipotesi. Battaglini non aggiunge altro, confidando nella capacità dei lettori di cogliere il senso di quello scarto stilistico, tanto discreto da poter passare anche inosservato. Sembra essersene accorto invece Luigi Tonini con l'acribia che gli era propria. Anche se non cita Battaglini, Tonini in una breve scheda su Cleofe annota: "Morì nel 1433, dicono in Pesaro". Questo si legge a p. 334 del quarto volume, tomo primo della sua storia di Rimini. A p. 335, Tonini però aggiunge che Cleofe fu condotta in Italia dal fratello Pandolfo arcivescovo di Patrasso. Tonini tralascia la drammatica situazione vissuta da Cleofe, e testimoniata nel 1427 da Battista di Montefeltro con la lettera a papa Martino V. Tonini (morto nel 1874) non poteva ignorare quella

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lettera in difesa di Cleofe, oltretutto riproposta a Londra nel 1851 dallo scozzese James Dennistoun (1803-1855) e da Filippo Ugolini in un testo edito ad Urbino nel 1859. Da queste omissioni di Tonini, nasce la leggenda del ritorno di Cleofe in Italia, durata sino al libro di Silvia Ronchey da cui siamo partiti ("L'enigma di Piero", 2006). 1433, visita l'Italia l'imperatore Sigismondo, il protagonista del concilio di Costanza. A Roma è incoronato da papa Eugenio IV. Diretto al concilio di Basilea, sosta il 30 agosto ad Urbino ed a Rimini il 3 settembre. Ad Urbino gli rende omaggio un messo di Elisabetta Malatesti moglie di Piergentile Da Varano e figlia di Galeazzo di Pesaro e di Battista dei Montefeltro signori di Urbino. Piergentile è stato arrestato agli inizi di quell'agosto, e suo fratello Giovanni II ucciso poco dopo dai fratellastri Gentile IV Pandolfo e Berardo III (ammazzati poi nel 1434), figli della prima moglie Elisabetta Malatesti sorella di Malatesta I di Pesaro. Elisabetta nel 1441, alla morte dell'arcivescovo Pandolfo, è nominata sua erede. Battista pronuncia davanti all'imperatore Sigismondo una commossa orazione latina per chiedere quanto anche sua figlia Elisabetta implorava per Piergentile, ovvero grazia e liberazione. Tutto è inutile, Sigismondo se ne lava le mani avendo ricevuto una diffida dal papa. Piergentile è decapitato il 6 settembre 1433. Battista aveva ricordato all'imperatore anche le sventure dei Malatesti. Ovvero, è immaginabile, pure la sorte di Cleofe oltre alla recente cacciata da Pesaro. Dove essi possono tornare nello stesso settembre 1433 grazie ad estensi e veneziani, e ad una rivolta popolare, quando Carlo devasta il contado ed assedia la città. La sosta a Rimini dell'imperatore serve a Sigismondo Pandolfo ed al fratello Novello per fortificarsi, ricevendo un'investitura laica contrapposta a quella papale "in temporalibus". Ispirati da una rigida Realpolitik, essi non hanno tempo per pensare a Cleofe ed a Mistra. Dove Sigismondo va per la crociata in Morea del 1464-1466 al soldo di Venezia. Francesco Gaetano Battaglini nel riproporre il poema "Hesperis" di Basinio Parmense in lode di Sigismondo (per i trionfi su Alfonso d'Aragona, 1448), annota: "quello che forse prima non si sapeva, s'intende" da certi suoi versi dove racconta di "quell'Elena figliuola di Cleofe" regina di Cipro che aveva "recato seco sfortunatamente l'erronea credenza del padre [...] con ingiuria della Chiesa latina". Battaglini rimanda al brano di Basinio riassumibile con il titolo del libro settimo in cui è contenuto: "Ad Cypri reginam agnatam suam navigare se velle simulat" (il titolo inizia: "Dum Sigismundus meditatur Neapolim ne, an Iberiam invadat..."). Battaglini spiega: "quello che forse prima non si sapeva, s'intende da' versi di Basinio in quel luogo del libro settimo, dove fa che Sigismondo imbarcandosi, finge che il suo navigare abbia ad essere a Cipro per visitare quella reina. La quale egualmente sarebbe piacciuto di ricordare, sendo quell'Elena figliuola di Cleofe". Di Elena nel 1647 Giovanni Francesco Loredano, ricorderà la vendetta consumata contro Marietta di Patrasso, amante del marito Giovanni III, con il taglio del naso e delle orecchie, nel tentativo forse di farla abortire della creatura che aveva in seno, il futuro re Giacomo II il Bastardo. Anche Elena era allora incinta. Della primogenita Carlotta. Sigismondo non poteva essersi dimenticato di Cleofe, vissuta "per lo più" (Clementini) alla corte di Rimini, dove lui stesso era stato portato fanciullo da Brescia nel 1421, l'anno delle nozze della giovane pesarese. Di lei certamente aveva sentito parlare dai famigliari, con narrazioni che risalivano al concilio di Costanza. Navigando verso la Morea nel 1464, Sigismondo non poteva non avvertire il peso di una storia ormai lontana nel tempo e rimossa nella memoria politica, tuttavia sempre presente alla sua coscienza di principe indocile ma sapiente. Il suo sguardo era senza i sereni accenti immaginati dalla poesia di Basinio: la bella Cleofe aveva generato Elena "alle spiagge dolci di graziosa luce". Anche Elena era già scomparsa, a trent'anni, nel 1458. Basinio aggiunge che il glorioso Malatesti aveva concesso a Cleofe d'andare ad uno sposo greco, essendosi degnato d'imparentarsi con gli antichi Achei. Non un greco qualsiasi, però, bensì un grande re. Che la condusse alle patrie rive. Sotto la retorica encomiastica di

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Basinio, c'è una verità storica: il ricordo di Cleofe era presente nella corte riminese, anche se il poeta nulla dice della sua sorte. Con Sigismondo Pandolfo i Malatesti svolgono un ruolo politico europeo che ha salde radici. Il nonno di Cleofe, Pandolfo II, nel 1357 è a Praga ed a Londra, non soltanto per sparlare dei Visconti dai quali era stato umiliato, ma per svolgere una missione da agente segreto al servizio della Chiesa. Con la quale la sua famiglia si era rappacificata l'8 luglio 1355. ["il Ponte", 4.7.2010/39]

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Malatesti, Petrarca e Visconti. 1357, intrighi politici fra Milano e Praga. Amico del Petrarca, è detto Pandolfo II nonno di Cleofe. Si conoscono nel 1356. Il poeta arriva a Milano presso i fratelli Galeazzo e Bernabò Visconti che l'inviano come ambasciatore a Praga dall'imperatore Carlo IV. Pandolfo è ingaggiato dai Visconti quale comandante dell'esercito. La situazione nei loro territori è inquieta, con una rivolta a Bologna e la minaccia del marchese del Monferrato di conquistare le città del Piemonte. Petrarca va a Praga verso la fine di maggio, passando per Basilea. Ritorna dopo tre mesi. In autunno Pandolfo si ammala seriamente. Petrarca si reca da lui quasi ogni giorno. Quando sta meglio Pandolfo restituisce le visite. Non può camminare, e si fa trasportare dai servi. Il vicario imperiale, vescovo di Augusta, Markward von Randeck che sta a Pisa, capeggia l'opposizione italiana ai Visconti per i danni arrecati alla Chiesa ed all'imperatore. Intima loro di discolparsi davanti a lui l'11 ottobre 1356. Galeazzo gli risponde con una lettera ingiuriosa. L'ha composta Petrarca. Il vicario si mette in marcia contro Milano: è fermato soltanto a Casorate il 14 novembre. I Visconti fanno prigioniero Markward trattandolo "decorosamente" e rispedendolo in Germania (P. Verri, "Storia di Milano", I, 1783). Novara è conquistata dal marchese del Monferrato, mentre a Genova scoppia una rivolta antiviscontea. Secondo il cronista trecentesco Matteo Villani (VII, 48), Bernabò teme che Pandolfo faccia troppo montare suo fratello Galeazzo nella comune signoria. Per questo lo aggredisce, minacciandolo di un'esecuzione capitale. Bernabò ha la fama di tiranno sfrenato, al cui nome "tutti tremavano né alcuno ardiva far parola. Due frati minori che osarono fare a lui stesso lagnanza di tante estorsioni li fece bruciar vivi". Per giustificarsi Bernabò accusa Pandolfo di aver corteggiato una sua concubina, Giovannola di Montebretto, che gli ha dato una bimba (Bernarda) nel 1353, quando nasce pure Marco, suo terzo figlio legittimo. Bernabò è un "sovrano truce e ignorante" secondo Verri. Nel 1361 accoglie due nunzi papali ad un ponte sul Lambro, imponendo loro la scelta "o mangiare o bere", cioè essere buttati nel fiume. Essi masticano tutta intera, compreso il bollo di piombo, la pergamena pontificia che gli avevano recato. Uno dei due nunzi, Guillaume de Grimoard, nel 1362 diventa papa con il nome di Urbano V. Nel 1367 Pandolfo II è uno dei signori che accompagnano da Napoli a Roma Urbano V, per difenderlo dai cardinali contrari al suo progetto, realizzato soltanto per un triennio, di riportare a casa da Avignone la sede di Pietro. Urbano V scomunica Bernabò, dichiarandolo eretico e comandando "che alcuno non osasse più trattare con lui". Nello stesso 1362 i messi di Padova, Verona, Ferrara e Rovigo sono fatti vilipendere dalla ciurmaglia, vestiti con tuniche bianche e mandati a cavallo in giro per Milano. Il vicario arcivescovile Tommaso Brivio è torturato. L'abate di San Barnaba, è impiccato per aver preso delle lepri. Bernabò si accontenta di sbattere in carcere il presunto rivale in amore. Galeazzo fa poi liberare Pandolfo che scappa da Milano e prepara la sua vendetta. La quale coinvolge il vecchio amico Petrarca, costretto a scrivere cose turche contro Pandolfo. Nel primo semestre del 1357 Petrarca si rivolge a Ludovico (Luigi) di Taranto re di Gerusalemme e Sicilia, secondo marito della regina Giovanna I di Napoli e nipote del defunto re Roberto d'Angiò. Giovanna, donna bella e gentile, di cuor tenero ed appassionato, era rimasta vedova del cugino Andrea d'Ungheria, un tipo selvaggio e duro, fattole sposare quando entrambi non avevano ancora otto anni. La morte di Andrea è attribuita ad uno strangolamento deciso da Giovanna e da Ludovico per coronare il loro sogno d'amore (racconta A. Levati, 1770-1841). La chiamavano la Cleopatra napoletana. Il titolo dell'epistola di Petrarca dice tutto, "Contro Pandolfo Malatesti". Allo stesso 1357 appartiene la lettera inviata da Petrarca ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti, in cui si parla della perfidia di Pandolfo verso il signore di Milano che invece lo aveva amato come un fratello. Bernabò non si riferisce soltanto alla storia della presunta relazione con Giovannola. Si basa su fatti veri. Pandolfo liberato da Galeazzo e fuggito da

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Milano, partecipa ad un intrigo internazionale in cui agisce da provetto politico, ma non per il solo scopo di togliersi la soddisfazione di sparlare dei Visconti e di danneggiarli. Un testimone del tempo, il dotto cronista (e notaio delle truppe viscontee) Pietro Azario, scrive che il Malatesti fu a Milano, su ordine di Bernabò, talmente offeso che, per vergogna ed altre azioni commesse contro di lui, provò dolore in perpetuo. L'esperienza personale di Pandolfo va collegata al contesto politico. I Malatesti sono in pace con la Chiesa dall'8 luglio 1355, data del documento scoperto dal cardinal Giuseppe Garampi nell'Archivio segreto apostolico vaticano, con cui si concedono ai Malatesti in vicariato le città di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone ed i loro contadi (Tonini, IV, 2, doc. CXVIII, pp. 209-224). Mentre è del 14 luglio 1356 un altro documento "garampiano" con le lodi di papa Innocenzo VI verso Malatesta Malatesti (ivi, doc. CXX, pp. 225-226). Matteo Villani (V, 46, p. 174) attribuisce la resa dei Malatesti alla mancanza di denaro e rendite. Dal luglio 1355, comunque essi rientrano nel gran gioco della politica. La loro sottomissione al papa "si traduce ben presto in un fattivo e duraturo rapporto di collaborazione militare" (A. Vasina), quando la Chiesa cerca di evitare che i signori cittadini "potessero far blocco fra di loro e costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio della sovranità papale" (G. Fasoli). Nel 1362 Pandolfo II sposa Paola Orsini il cui nonno Orso è figlio di un fratello di papa Niccolò III (1277-1280). Con il quale un suo altro nipote, Bertoldo fratello di Orso, nel 1278 è conte di Romagna. Prima a Praga e poi a Londra, Pandolfo non opera per proprio conto, o in difesa di Galeazzo Visconti. Lo dimostra un altro documento scoperto da Garampi (Tonini, IV, 1, p. 156). Pandolfo il 2 giugno 1357 è invitato dal papa a recarsi ad Avignone. Al suo posto (perché impedito dagli impegni militari con i fiorentini), va il padre che due anni prima aveva già incontrato il cardinal Egidio Albornoz legato di Romagna con il quale viaggia verso Avignone. Dove arriva il 24 ottobre e si ferma per oltre tre mesi, tornando a Rimini il 16 febbraio 1358. La pace con i Malatesti, si legge in Carlo Tonini (I, 391), libera il legato da una guerra che poteva essere lunga e difficile, e gli fornisce un alleato contro gli altri signori romagnoli per prendere Cesena, Forlì e Faenza. Albornoz rappresenta la linea dura con i Visconti, che il papa voleva invece favorire per usarli contro gli Ordelaffi. Nel 1360 i Malatesti sono al fianco della Chiesa avversando Bernabò Visconti. Il 29 luglio 1361 alla battaglia di San Ruffillo a Bologna, Bernabò è sconfitto dalle truppe del legato guidate da Galeotto I Malatesti, figlio di Pandolfo I che era il nonno del nostro Pandolfo II. Da Galeotto I discende il ramo riminese (suo nipote è Sigismondo Pandolfo). I commentatori alla "Storia di Milano" (1856, p. 247) di Bernardino Corio (1459-1519) scrivono che la sconfitta dei Visconti avviene ad "opera del vecchio Malatesti di Rimini", uomo che "come tiranno e come Romagnolo, doveva essere in concetto di consumato maestro di perfidia: che di questi tempi la malvagia fede degli abitanti della Romagna era in ogni parte d'Italia passata in proverbio". Perfidia è la parola usata, come si è visto, da Petrarca contro Pandolfo nell'epistola scritta ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti. Nessuna perfidia invece dimostra Pandolfo II verso Petrarca. Nell'ottobre 1364 il poeta esprime a lui ed al fratello Malatesta Ungaro il suo dolore per la morte del loro padre Malatesta Antico, di cui attesta il grandissimo ricordo lasciato con la sua vita piena di gloria. Nel 1372 il Malatesti invita il poeta a Pesaro. La risposta (negativa) del 4 gennaio successivo contiene le condoglianze per la morte della moglie e del fratello di Pandolfo, e l'annuncio dell'invio delle proprie rime volgari, ovverosia il "Canzoniere", che definisce "cosucce" (nugellae). Pandolfo e Petrarca sanno che la vita politica (di cui entrambi sono testimoni e protagonisti), richiede sottomissioni, umiliazioni ed astuzie. Nel 1366 i Malatesti congiurano con il papa per far sconfiggere i Visconti. Con loro s'incontrano a Pavia (dove trovano Petrarca) e Milano, mentre sono diretti ad Avignone. Non è una riconciliazione, come scrive un oscuro cronista bolognese del tempo, il cartolaio Floriano Villola rilanciato nel 1949 da Roberto Weiss.

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Ma una manovra di aggiramento, ben descritta da Muratori (Annali, VIII, 1763). Alla fine i Visconti si dimostrano i più abili e danarosi, e possono assoldare truppe inglesi e tedesche. La loro penetrazione in Emilia è irresistibile (Fasoli). Circa Pandolfo II, Lorenzo Mascetta-Caracci ("Zeitschrift für romanische Philologie", 1907, vol. 31) osservando che si accetta che a soli sei anni, nel 1331, egli cominciasse una vita politica di capitano e dominatore, proponeva di anticiparne la nascita dal 1325 al 1310-15. Di ciò s'accorge nel 2004 soltanto la danese Gunilla Sävborg, concordando con i dubbi dello studioso italiano. Circa Malatesta Ungaro, Mascetta-Caracci parla di caso ancor più miracoloso, perché a soli quattro anno nel 1331 figura nei libri come capitano di Santa Chiesa. Misteri degli storici, non della Storia. Ne riparleremo. ["il Ponte", 31.10.2010/52]

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Umanesimo riminese. Parliamone. A proposito dell'Umanesimo tragico di cui ha trattato a Rimini il prof. Massimo Cacciari, riferendosi alla "Resurrezione di Cristo" di Piero della Francesca, una piccola ricerca su Internet permette di ricostruire la fortuna della formula. Nel 1994 appare nell'annuario del Centro mondiale di Studi "umanisti" (non umanistici), che ha un vago sapore esoterico più che di analisi della cultura dell'Umanesimo in senso stretto. Nel 2004, a proposito del proprio libro "Della cosa ultima", il prof. Cacciari dichiara al "Mattino" di Padova: "Da tempo vado pensando che occorrerebbe, anche sulla traccia dell'autentica storiografia filosofica italiana da Gentile a Garin, rivalutare la nostra tradizione. È un umanesimo tragico, ma appunto di una tragedia che si conclude con un Ma 'vittorioso'...". Nel 2005, il prof. Cacciari a Caserta tratta dell'Umanesimo tragico parlando di quattro testi letterari: il canto XXVI dell'Inferno; il De vita solitaria di Petrarca; la Lettera al Vettori di Machiavelli; l'Infinito di Leopardi. Ricorda anche il vero testimone dell'Umanesimo tragico, Leon Battista Alberti, consapevole che è una stupida pretesa quella di essere "fabbro del proprio destino". Nel 2007 a Milano, all'Università San Raffaele, si laurea brillantemente Silvia Crupano (Roma, 1983), con una tesi dedicata al pensiero tragico di Leon Battista Alberti: "Virtus contra fatum. La dialettica dell'Umanesimo tragico. Per una Filosofia della Storia" (relatore Andrea Tagliapietra, correlatore Ernesto Galli della Loggia). Nel 2010 il prof. Cacciari tiene una lezione magistrale a Napoli intitolata "L'umanesimo tragico di Leopardi". Per tornare all'inizio del nostro discorso, sarebbe molto importante che nella nostra città ci si decidesse a ricordare l'Umanesimo riminese, in cui confluiscono tutti i temi dell'Umanesimo italiano. Come dice il prof. Cacciari, "occorrerebbe rivalutare la nostra tradizione". Un'annotazione conclusiva. Cacciari collega il concetto di "tragico" al 1453, ovvero alla caduta di Costantinopoli. Forse si potrebbe andare un pochino più indietro, sino al 1415, anno in cui culmina la tragedia dell'Europa cristiana. Durante il Grande Scisma (1378-1417), Giovanni Huss assieme all'allievo Girolamo da Praga è mandato al rogo, dopo essere stato invitato con salvacondotto imperiale a Costanza, dove si trovavano i padri conciliari. Inizia allora una fase drammatica in Boemia, che dura sino al 1433. Sono fiamme che ne preannunciano altre: nel 1553 per Miguel Serveto a Ginevra su decisione dei calvinisti, ed il 17 febbraio 1600 a Roma per Giordano Bruno. Giustamente, Franco Cardini (come si legge sul "Ponte" del 5 febbraio scorso) smorza i toni dello "scontro di civiltà", che alcuni vorrebbero far iniziare appunto nel 1453 e culminare nel 1683, anno dell'assedio di Vienna. Cardini osserva: non fu un conflitto di civiltà, ma soltanto "storico". Da questa differenza Cardini arriva alla conclusione che non si debbono "incentivare pericolosi contrasti religiosi", partendo da episodi militari o politici che hanno provocato sì rotture ma spesso pure accordi. Nel suo libro recente dedicato all'argomento (pp. 3-8), introducendo il tema Cardini osserva che tre-quattro secoli sono stati "dominati, sul piano della politica e dei rapporti interstatuali, da una tensione che si traduce in una rete complessa e mutevole di alleanze e di rivalità". Pure questo aspetto riguarda Rimini da vicino. Sigismondo Malatesti fa il condottiero al soldo di Venezia nella crociata in Morea dal 1464 al 1466. La sua condotta non approda a nulla, anzi è considerata grandemente dannosa. Il 25 gennaio 1466 egli fa ritorno a casa. Sembra, come in effetti è, un uomo sconfitto. Ma il bottino che reca con sé, le ossa del filosofo Giorgio Gemisto Pletone (nato a Costantinopoli nel 1355 circa e morto a Mistra, Sparta nel 1452), gli garantiscono un prestigio perenne. Con la tomba che le accoglie nel Tempio, Sigismondo offre l'immagine di Rimini quale faro di sapienza che poteva illuminare Roma, l'antica e lontana Bisanzio e la vicina Ravenna.

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E con Pletone, oggi, si torna da dove si era partiti, a quell'Umanesimo riminese da studiare nella sua vera portata, al di là delle suggestioni esoteriche che nel 2001 portarono a proclamare (il povero) Sigismondo "massone ad honorem". ["il Ponte", 26.6.2012] Tama 1066, "il Ponte" n. 4/2012 Per essere liberi. S'intitola "Breviario" la nota rubrica che appare la domenica nel supplemento culturale del "Sole 24 Ore", firmata dal card. Gianfranco Ravasi. Il 15 gennaio scorso il tema era "la libertà": "L'educazione a essere liberi, non solo da un'imposizione sottile, com'è quella della deriva mediatica, ma anche per una scelta e un impegno personale, è un'opera severa e faticosa". Di quest'opera severa e faticosa abbiamo un'illustrazione proprio a Rimini nel Tempio malatestiano, nella cappella detta delle sette arti liberali, ovvero le materie di studio per gli uomini liberi (ai servi toccavano le arti manuali): Grammatica, Dialettica, Retorica (il "Trivio"), Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia (il "Quadrivio"). Nella cappella le immagini sono però diciotto. Per questo motivo uno studioso come Corrado Ricci scrisse che in essa vi è "altro ancora", con un'incerta espressione simbolica delle figure. Noi vi proponiamo una veloce lettura delle diciotto immagini suddivise nelle due colonne laterali ed in tre strisce per colonna, partendo dall'alto verso il basso per ogni striscia che indichiamo con lettera dell'alfabeto. Striscia A: la Natura ispira l'Educazione che opera attraverso la Filosofia. Strisce B e C, le materie di studio: Letteratura, Storia, Retorica (Arte del discorso), Metafisica (o Teologia), Fisica, Musica. Nelle due strisce successive (D, E), si mostra come conoscere la Natura attraverso le Scienze che sono: Geografia, Astronomia, Logica, Matematica, Mitologia e Botanica. L'ultima striscia (F) rivela lo scopo della cultura, ovvero educare ad una vita tra cittadini tutti uguali e quindi liberi: qui le tre immagini rappresentano la Concordia, la Città giusta, e la Scuola. Il tema della Concordia ha una doppia lettura. Esso riguarda non soltanto la vita della città (opponendosi ai governi dei prìncipi come Sigismondo), ma pure l'Unione fra le due Chiese (proclamata il 6.7.1439 con un decreto destinato a breve durata). Per quella unione i Malatesti hanno svolto un grande ruolo in nome della Chiesa. Nella tavola della Concordia si raffigura un'unione matrimoniale: la donna potrebbe essere Cleofe Malatesti, scelta dal papa come sposa (1421) di Teodoro, figlio dell'imperatore di Costantinopoli, e poi finita uccisa. Nella scelta delle immagini c'è la mano dello stesso architetto (ed ottimo scrittore) Leon Battista Alberti, seguace di un umanesimo civile che vuole una società nuova diversa dai principati. [1066] Tama 1071, "il Ponte" n. 9/2012. Grecia, anzi Europa. L'inedito e cospicuo piano di salvataggio dell'economia ellenica (130 miliardi), adottato a Bruxelles all'alba del 21 febbraio, significa qualcosa non soltanto sul piano politico. C'è un suo aspetto culturale che lo stesso giorno è stato ben spiegato, nell'editoriale dei lettori sulla "Stampa", da Mauro Artibani, studioso d'Economia dei consumi. Egli sostiene che tutti noi europei abbiamo un debito verso la cultura ellenica: "L'alfabeto greco ci consente di scrivere, noi stessi pensiamo attraverso le parole greche; con la filosofia, che proprio lì nasce, articoliamo quel pensiero", per non parlare della fondazione della democrazia che oggi ci governa. L'articolo termina con una battuta che contiene una grande verità: tra i maggiori indebitati con la Grecia, c'è l'intera "filosofia tedesca". Anche a Rimini abbiamo forti legami e consistenti obblighi con la cultura ellenica. Nel Tempio Malatestiano ci sono le due epigrafi scritte nella lingua greca, considerate da Augusto Campana come le

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prime testimonianze del Rinascimento sia italiano sia europeo. Nella cappella dei Pianeti del Tempio, c'è l'immagine del "rematore", letta di solito come raffigurazione dell'anima di Sigismondo, scesa agli Inferi e risalita in Cielo. Essa ci sembra però riassumere la storia dell'Ulisse dantesco ("Inferno", c. 26, vv. 90-142) che ai compagni d'avventura con la sua "orazion picciola" ("fatti non foste a viver come bruti"), lancia un "manifesto pre-umanistico", come lo definisce un noto studioso dell'Alighieri, Franco Ferrucci. Ulisse insegna che la nostra dignità sta nel "seguir virtute e canoscenza", anche se ciò può costarci un naufragio in cui però si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello dell'età e delle pagine di Dante. La smorfia del volto del "rematore", richiama l'Ulisse dantesco. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il "turbo" che affonda la "compagna picciola" (vv. 101-102). Alla corte di Rimini nel 1441 prima dell'edificazione del Tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ciriaco ha frequentato i circoli umanistici di Firenze, ed è un "lettore di Dante" che per la sua ansia di sapere ama presentarsi nei panni d'Ulisse, come leggiamo in Eugenio Garin. A Ciriaco potrebbe attribuirsi il suggerimento del tema di Ulisse da inserire nel Tempio, quale parte del discorso umanistico già accennato qui (nella rubrica n. 1066) per la cappella delle Arti liberali. [1071]

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Tempio Malatestiano, cultura senza segreti. Le polemiche del teologo irlandese Wadding risalgono al 1628. Le buone ragioni per diffidare di certe interpretazioni, illustrate da Franco Bacchelli spiegando l'Umanesimo riminese Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani. Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio. Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (1678-1694). A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727 con un ritardo che significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli. Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro le quali metteva in guardia nel 2002 Franco Bacchelli in un saggio prezioso. Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica". Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri". Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che, sul finire del XV secolo, Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali". Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani e pagani. Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella scomparsa Biblioteca dei Malatesti in San Francesco. Il dato locale di Rimini va inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo". Nel convento di San Francesco a fianco del Tempio, a metà Quattrocento sorge la prima Biblioteca pubblica in Italia, modello di quella gloriosa (e sopravvissuta) di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432. Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio. Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche. Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella malatestiana in San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini, con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante

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solaio, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792). Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa" da legare alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse verso il tema dell'Umanesimo riminese. Il saggio di Franco Bacchelli si trova nel volume dedicato alla "Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti", a cura di Antonio Piromalli, con scritti pure di Augusto Campana e di Aldo Francesco Massèra. È il XIV della "Storia delle Signorie Malatestiane", edita da Bruno Ghigi. ["ilPonte”, 11.3.2012]

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Recensioni. Sigismondo, il sogno di Bisanzio. I Malatesti di Pesaro e Rimini sono la trama sulla quale Silvia Ronchey, docente di Civiltà bizantina all'Università di Siena, compone un affascinante e colorito arazzo letterario che ha per centro logico la «Flagellazione» di Piero Della Francesca ed i suoi significati allegorici. L'autrice colloca Sigismondo ed il nostro Tempio in un contesto di politica internazionale (la contrapposizione tra Roma e Bisanzio), nel quale il signore di Rimini è considerato protagonista del tentativo (fallito) di salvare Costantinopoli, con la spedizione in Morea del 1464-1466. Sigismondo si sarebbe rappacificato con il papa in vista di questa spedizione che aveva come scopo quello di occupare il trono di Bisanzio. Dove invano si era atteso un erede proprio da una Malatesti, Cleofe (o Cleopa), cugina pesarese di Sigismondo e dal 1421 sposa di Teodoro II Paleologo despota di Morea e secondogenito dell'imperatore di Costantinopoli Manuele II. Cleofe scompare nel 1433. La sua è una morte «oscura» secondo la Ronchey. Cleofe era stata minacciata di ripudio per non volere abiurare la fede cattolica. Altre fonti raccontano diversamente (ed erroneamente) la fine di Cleofe, e la dicono fuggita da Bisanzio assieme al fratello Pandolfo, gobbo e sfortunato vescovo di Patrasso dal 1424. In questo libro si accenna all'ipotesi che sia di Cleofe la mummia ritrovata nel 1955 in una chiesta di Mistra l'antica Sparta capitale della Morea. Se Cleofe «fosse stata assassinata, Sigismondo Malatesta avrebbe avuto da parte sua anche un motivo in più per tenere tanto a condurre la crociata» in Morea. Anna Falcioni dell'Università di Urbino ha spiegato (1999), in maniera infondata, che Cleofe e Pandolfo nel 1430 fuggirono da Mistra. Due anni prima Cleofe si era detta «sagurata» (sciagurata) scrivendo alla sorella Paola, e si era raccomandata alle di lei preghiere. La Ronchey mette in guardia contro le «elucubrazioni fantastiche» degli ambienti esoterico-massonici, ma finisce per accettarne pienamente una che, con il francese Charles Yriarte [1832-1898], conclude appunto sulla via esoterico-massonica del Tempio pagano, come confermerebbe il trasferimento in esso da parte di Sigismondo, delle ossa di Pletone definito da qualcuno capo supremo della massoneria europea... Yriarte nel 1882 («Un condottiere au XV siècle») aveva sottolineato come nelle allegorie e nei simboli del nostro Tempio ritornassero miti, credenze e spirito dei greci, scartando in tal modo sbrigativamente ogni influsso cristiano («Non è Dio che qui si adora, è Isotta; è per lei che bruciano l'incenso e la mirra»). Corrado Ricci nel suo celeberrimo studio sul Tempio parla di «facilità irriflessiva» di Yriarte. Per la Ronchey le ossa di Pletone trasferite a Rimini sono un «messaggio politico», testimonianza della pretesa di Sigismondo di accampare diritti sul trono bizantino. Su quest'ipotesi si elabora tutto il discorso del libro, essere cioè la «Flagellazione» un'opera di propaganda per una crociata diretta a liberare Costantinopoli caduta nel 1453 in mano ai mussulmani. Il volume («L'enigma di Piero. L'ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro», Rizzoli, pp. 540), ha un'appendice di completamento su Internet liberamente consultabile. La Ronchey nel 2003 a Montefiore ha partecipato con Mary de Rachewiltz (figlia di Ezra Pound) e Giuseppe Scaraffia alla presentazione dell'opera di Yriarte su Sigismondo, tradotta da Moreno Neri (del «Rito simbolico italiano») e pubblicata dall'editore Walter Raffaelli di Rimini. ["ilPonte”, 7.5.2006/17]

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Le Signorie dei Malatesti. Ammettiamolo, senza timori di smentite. Per molti, troppi, quasi tutti, i Malatesti voglion dire soltanto la fosca historia di un cavalier perduto dietro ad una donna, e di un conseguente amore tragicamente finito. Paolo e Francesca. Punto e basta. Di lì si parte, lì si arriva. Invece. Invece che cosa? Padre Dante parla ancora dei Malatesti: questo volevamo aggiungere? Ne riparleremo. Per ora, accantoniamo il discorso sulla «Divina Commedia». Dunque: che cosa si sa dei Malatesti? Ah, sì: il Castello. Oh, perbacco, il Tempio. E poi? Una frase del prof. Piergiorgio Pasini, è finita recentemente in una pagina speciale del "Corriere della Sera" su Rimini: se furoreggia il ferragosto al mare, "il luogo più tranquillo" resta proprio il Tempio malatestiano. La gente lo ignora. (E se il Tempio fosse in qualche altro Paese d'Europa, scuole, circoli, associazioni e tribù vacanziere, organizzerebbero gite istruttive, con colazioni al sacco). Allora, per concludere la premessa: che cosa significano per noi i Malatesti? Un aiuto, fresco e quindi aggiornato, per nulla polveroso, lo offre alla città (e non solo ad essa, ma anche alla cultura nazionale ed oltre), l'iniziativa del Centro Studi Malatestiani, presieduto da Bruno Ghigi che edita sotto la sua ormai nota sigla, una collana di libri. Sono gli atti delle giornate di studio che s'intitolano alle "Signore dei Malatesti", e che unificano uno sforzo di ricerca di grande significato. Siamo a livello colto, di specializzazione. Cose non impossibili, ma talora difficili. L'augurio (e la necessità), è che presto questa scienza si traduca in una sintesi agile per divulgare notizie e nozioni in modo facile ed organico. Gli ultimi tre volumi, freschi di stampa, sono dedicati a Santa Maria di Scolca in Rimini, Cesena e Civitanova Marche. Dedicati, nel senso che in questi luoghi si sono svolte le giornate di studio, e che a quei luoghi sono riservati quasi tutti gli argomenti trattati. A Cesena, ad esempio, si è anche parlato del commercio di pietre di Giorgio da Sebenico con i Malatesti, e dei rapporti tra i Malatesti e la Bosnia. A Civitanova, si è detto di Spalato e delle sue relazioni con Romagna e Marche in epoca malatestiana; di slavi ed albanesi a Macerata nel sec. XV, di presenza slava a Loreto, di tracce slave a Recanati, e di Arbe nel Quattrocento. Il volume su Santa Maria di Scolca in Rimini contiene anche l'albero genealogico malatestiano delle origini, che rimanda inevitabilmente a Dante. E qui facciamo una prima divagazione. Nell'ultimo quaderno di "Studi sammarinesi" (1989), è pubblicato il discorso che Giuseppe Pochettino tenne il primo aprile 19O7 in occasione dell'insediamento dei Capitani Reggenti, su "La Repubblica di San Marino durante l'esilio dell'Alighieri": vi si ricorda che Dante non fu mai a San Marino e che mai ne parlò nella sua «Divina Commedia». Quel discorso del 1907 ricostruisce però climi ed eventi di Romagna che ritroviamo in Dante stesso: siamo tra 1283 e 1285. Seconda divagazione. Gianciotto Malatesta, intorno al 1275, ha sposato Francesca da Polenta, figlia del Signore di Ravenna. Nasce Concordia, la figlia che nel suo nome ripete quello della nonna, ma soprattutto rappresenta la pacificazione tra due famiglie, avvenuta col matrimonio dei suoi genitori. Francesca muore verso il 1283/1285. Gianciotto si risposerà con la faentina Zambrasina, figlia di quel Tebaldello che Dante sprofonda all'Inferno (XXXII, 122-123), tra i traditori, per aver aperto le porte della sua città, lui ghibellino, ai guelfi bolognesi che l' assediavano, di notte, mentre "si dormìa". Ah, questi romagnoli. Se Malaparte avesse scritto a quei tempi i suoi "Maledetti toscani", Dante avrebbe rovesciata l'"accusa" in "Maledetti romagnoli". Le prove? Sùbito, e sufficientemente note, da Inferno, XXVII: "Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni".

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E poi , in questo canto, il richiamo riminese: "E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo...": sono versi che sintetizzano non solo la condizione del dominio riminese dei Malatesta, ma anche la loro crudeltà dei due tiranni, definiti appunto "mastini". I quali sono Malatesta il Vecchio e suo figlio Malatestino, che uccise Montagna de' Parcitadi, ghibellino della nostra città. Come scrive Currado Curradi nel vol. 6 (Santa Maria di Scolca), Malatesta da Verucchio "viene giustamente considerato il principale artefice della fortuna dei Malatesti, realizzata per merito delle sue eccezionali capacità politiche e di governo, ma anche attraverso una serie molto accorta di matrimoni suoi e dei suoi figli" (pag. 77). Due o tre mogli, comunque una (Concordia) ricchissima, con denari e proprietà recati in dote. Hanno quattro figli: Ramberto si fa prete; per gli altri tre (Gianciotto, Paolo e Malatestino 'mastino'), il padre organizza ricchi matrimoni. Curradi racconta la lunga preparazione di quello tra Paolo e la contessa di Ghiaggiolo. Insomma, gente che ai soldi ci teneva, e sapeva anche come farli. Cose che Dante conosceva, lui che non sopportava il "maladetto fiorino" della "gente nova" di Firenze! Giriamo pagina. Nello stesso volume sesto, G.F.Fiori tratta di "Carlo Malatesta e gli Olivetani" di Scolca (1421-1430), illustrando anni tormentati per la storia della Chiesa: 1406, è eletto papa Gregorio XII, è lo scontro con lo scisma avignonese (1378-1417), ma è anche agitazione interna alla Curia romana ed alla terra italiana: "Papa Gregorio XII, non potendo tornare a Roma occupata da Ladislao re i Napoli, decise di trasferirsi in Romagna, ma venne avvisato da Carlo Malatesta, signore di Rimini, che il card. Cossa tentava di impadronirsi della sua persona " (pag. 9). Prima di venire a Rimini, nella villa-castello di Scolca, il papa a Siena nomina nove nuovi cardinali, tra cui Bandello, vescovo della nostra città. Nel frattempo, a Pisa (1409) è eletto il terzo papa contemporaneamente: quello di Roma è Gregorio XII, quello di Avignone è Benedetto XIII, e questo nuovo è Alessandro V, che muore poco dopo. Carlo Malatesta si adopra per far conoscere ai cardinali ribelli residenti a Bologna, le "nuove proposte di Gregorio XII per togliere lo scisma" (pag. 10), ma non viene ascoltato: anzi, i cardinali eleggono ed incoronano l'antipapa Giovanni XXIII. Poi, dal Concilio di Costanza, voluto dall'imperatore tedesco Sigismondo, esce pontefice Martino V (1417): Carlo Malatesta è presente, quale portavoce di Gregorio XII che aveva deciso di ritirarsi (1415) dalla competizione, prima di morire (1417). Benedetto XIII è deposto (26 luglio 1417). Lo scisma è finito. Nel suo saggio, Fiori parla anche del monastero di San Lorenzo in Monte a Rimini, e dell'abbazia di San Gregorio in Conca a Morciano, legata al nome di San Pier Damiani e del riminese Bennone: quest'ultimo è un personaggio importante della nostra storia cittadina, vittima di lotte precomunali di cui parlammo sui queste colonne, ma di cui non c'è traccia né in questo né in altri volumi successivi alla nostra nota. (Nessuno ci ha letto!). Giriamo ancora pagina. Antonio G. Luciani tratta delle "Iscrizioni greche gemelle del Tempio malatestiano", proponendo la sua versione dell'epigrafe: "A Dio immortale/ Sigismondo Pandolfo Malatesta/ di Pandolfo, scampato a moltissimi e grandissimi/ pericoli durante la guerra d'Italia,/ vincitore per le imprese da lui/ compiute con valore e con fortuna, a Dio/ immortale e alla città innalzò questo Tempio, come in/ quel frangente aveva fatto voto,/ splendidamente sostenendone le spese, e / lasciò un monumento glorioso e sacro". Oreste Delucca offre i "primi appunti" sui "Rapporti fra Rimini e la Dalmazia in età malatestiana". Sono storie di emigrazione: "Le genti slave (ed anche albanesi) per vari secoli -e particolarmente nel XV- sono emigrate numerose sulla costa italiana, premute dall'espansionismo turco che tendeva a comprimerle verso il mare, sollecitate dalla precarietà delle loro condizioni economico-sociali su cui influiva non poco la natura sfavorevole di tanto suolo dalmata, incentivate... da alcune scelte politiche malatestiane. (...) Anche a Rimini la loro presenza era piuttosto numerosa. La comunità slava e albanese, nel XV secolo, contava qualche centinaio

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di persone: un numero significativo, in rapporto alla ridotta popolazione di quel tempo" (pagg. 90-91). Ivan Pederini, nel volume ottavo su Cesena, trattando del "Commercio delle pietre di Giorgio da Sebenico con i Malatesti", racconta di questo celebre architetto che "si era obbligato a fornire pietre da costruzione per il Tempio malatestiano a Rimini, ma non mantenne la promessa fatta a Sigismondo Malatesti per cui questi se le procurò, nel 1554, a Verona" (pag. 38). Nello stesso volume ottavo, Stefania De Biase discute dell'"Epitaffio di Galeotto Malatesti": morto a Cesena nel 1385, "il suo corpo venne trasportato con gran pompa a Rimini", per essere sepolto nella chiesa di San Francesco, che diventa così (secondo quanto scrisse nel 1951 Augusto Campana), Tempio malatestiano ancora prima dei lavori voluti (nel 1447) da Sigismondo. Corpo di Galeotto che, per quei lavori, fu forse spostato nell'arca degli antenati, anche se andò perduta l'epigrafe della vecchia sepoltura. Epigrafe che, passata tra varie carte, viene qui ricostruita e riproposta . E che celebra il personaggio, guerriero famoso, il più grande di tutti. Perché l'epigrafe andò perduta? Non si sa. E se Sigismondo, invidioso di così alti elogi per un suo antenato, fosse stato proprio lui a farla sparire?

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Pier Giovanni Fabbri, «Cesena tra Quattro e Cinquecento». Malatesta Novello, signore di Cesena, muore senza lasciare eredi il 20 novembre 1465. L'anno prima, è deceduto Pio II che nel 1463 aveva mandato «campo a Cesena», per convincere quei cittadini a passare sotto il diretto dominio della Chiesa, una volta scomparso il loro signore che era malato. I cesenati «se obbligarono» con il papa. E nel '65, infatti, Cesena capitola a Paolo II. Nello stesso anno, Roberto Malatesta, nipote del defunto Novello, e «figliolo de Sismondo da Rimino, magniffico nell'arme... prese la signoria de Cesena, el dominio de ogne cosa sua e presto lasollo». Roberto confidava nell'aiuto di Francesco Sforza, con cui scambiava lettere cifrate. All'indomani della morte dello zio Novello, Roberto scrive: «Questi signori preti fanno adunate assai di gente...», ed agita lo spauracchio di un intervento di Venezia. Mentre Roberto confida invano in un aiuto dello Sforza, il milanese rassicura il papa della propria neutralità. Gli altri signori romagnoli si schierano contro Roberto. Il 7 dicembre 1465, Roberto si arrende. L'8, entra in Cesena il governatore pontificio. La resa è giudicata una mossa saggia da Federico di Montefeltro. Abbandonato da tutti, Roberto era stato ingannato «da ogni homo», compresi i 500 fanti alle sue dipendenze. I patti firmati lo stesso 7 dicembre, lasciano a Roberto Malatesta, Meldola, le Caminate, Polenta con «quatro o cinque altre brichole». Roberto il 13 scrive da Meldola allo Sforza che la colpa della sua sconfitta è dei patrizi cesenati i quali avevano convinto «citadini e contadini e tutto el populo minuto» a gridare «viva la chiesa, el populo e le libertà». I contadini si erano mossi per far cessare le razzìe e le scorrerie dell'esercito ecclesiastico. Il papa fa sapere a Roberto che non vuole la sua rovina, e lo invita a Roma per discutere la situazione. Ma quattro anni dopo, quando la Chiesa muove all'assalto di Rimini, «Cesena fu una buona base per far partire gli attacchi ai fianchi di Roberto Malatesta...». Non aiutato quando poteva vincere, Roberto viene rimpianto dai cesenati dopo la sua sconfitta: il governatore pontificio Lorenzo Zane, arcivescovo di Spoleto, fa impiccare otto filomalatestiani. Il terrore doveva eliminare ogni avversario. Ricaviamo queste notizie dal 1° capitolo di un interessante saggio di Pier Giovanni Fabbri, «Cesena tra Quattro e Cinquecento», Longo editore, lire 25 mila. Nelle pagine successive, seguendo una cronaca stesa da Giuliano Fantaguzzi, ritornano i contrasti tra Rimini e Cesena. Alcuni cesenati vengono esuli a Rimini, sotto la protezione dei Malatesta. Tra questi esuli, c'è una Francesca Martinelli che impazzisce: essa «gettava i panni nel fuoco "cagando ne le pignatte", poi inforcava il cavallo nella stalla, speronandolo a sangue» e gridando "ghingari" (zingari) ai signori di Cesena, i Tiberti. I Tiberti compiono scorrerie nei territori riminesi. Pandolfo, quando nel 1498 sventa una congiura contro di lui, «cominciò a sospettare che i riminesi esuli a Cesena avessero trovato una base nella città, per complottargli contro». Sul finire del secolo, in Romagna si affaccia la figura del duca Valentino: i cesenati sperano che Cesare Borgia elimini le signorie di Forlì e di Rimini. Il 12 gennaio 1500, Forlì cade. Ma il 2 agosto, il duca Valentino viene proclamato Vicario della città di Cesena, in base ad un "breve" papale giunto il 27 luglio. Nella notte tra 27 e 28 luglio, molti nobili «fugirono commo putane fora da Cesena abandonando le cose e le robbe sue». Poi toccherà a Rimini, di cui Cesare Borgia diventa duca nel novembre. Narra Guicciardini (Storia d'Italia, V, II): con 700 uomini d'arme e 6.000 fanti, il Valentino «prese senza resistenza alcuna le città di Pesero e di Rimini, fuggendosene i suoi signori». Pandolfo Malatesta scappò travestito a Bologna, dove aveva già mandato la moglie con i beni che aveva potuto raccogliere. 0 Malatesta Novello, il cui vero nome era Domenico, fu fratello di Sigismondo Pandolfo. Il padre, Pandolfo signore di Brescia, li aveva generati con Antonia Barignani. Un terzo figlio, Galeotto Roberto, era nato dalla cesenate Allegra dei Mori.

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Pandolfo di Brescia muore nel 1427, quando il nostro Sigismondo ha 10 anni. Carlo Malatesta, signore di Rimini, senza figli, ottiene da Martino V che i tre nipoti Domenico, Sigismondo e Galeotto siano legittimati nella successione. Carlo muore nel '29, ed i nipoti restano per tre anni sotto la tutela della sua vedova, Elisabetta Gonzaga. Galeotto, che si dedica ad una vita di sacrifici e penitenza, assume il governo, immaginiamo contro voglia. Quando contro i tre fratelli nel 1431 viene organizzata una sollevazione popolare, Sigismondo a soli 14 anni blocca ogni tumulto, e ferma Carlo Malatesta signore di Pesaro che mirava al possesso di Rimini. Sigismondo, nel 1432, alla morte di Galeotto (che, lasciati il governo e la moglie Margherita d'Este, si era ritirato in un monastero a Santarcangelo), ebbe Rimini e Fano. A Malatesta Novello, andarono Cesena e Cervia. Nel 1789, scriveva Francesco Gaetano Battaglini che la memoria di Malatesta Novello «a' Cesenati particolarmente grata riesce ancor oggi», perché aveva fatto costruire la «rinomata Biblioteca, i Molini pubblici e lo Spedale degl'Infermi». Il Ponte 1990.

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Se Dante rassomiglia a Francesca. Un episodio "inventato" e riscritto da Boccaccio. La Romagna terra di "tiranni" e "bastardi", secondo il suo ospite Dante (che vi lascia le proprie ossa), genera la più celebre delle eroine di tutta la letteratura mondiale. La ravennate Francesca "da Rimini" è protagonista di una vicenda inventata dall'autore, secondo il filologo Guglielmo Gorni ("Dante. Storia di un visionario", 2008) che "dopo anni di studio del poema e delle altre opere", non vuole accreditare "pie leggende" sull'Alighieri. Lorenzo Renzi ("Le conseguenze di un bacio", 2007) invece suggerisce di cercarne la fonte "non nella vita (nella storia), ma nella letteratura". Il tipo di analisi di Renzi è da lui stesso così dichiarato: "Infaticabili violatori di tombe, abbiamo cercato di portare nello studio delle fonti lo spirito dei formalisti russi, distruttori di orologi per vedere come sono fatti dentro". Gorni delinea una specie di "ritratto in piedi" del grande poeta, partendo da un principio: "poche certezze e molti dubbi" ne segnano la vita sin dalla nascita. Gorni ricorda che "non si può dire neppure quando cominciò, per Dante, il periodo ravennate del suo esilio. I pareri dei dantisti sono al riguardo molto divisi. Soprattutto per carità di patria, ad esempio, Giovanni Pascoli opinava che tutta quanta la 'Commedia' fosse stata composta in Romagna, soprattutto perché la selva oscura del primo canto sarebbe ispirata dalla pineta di Classe, allora estesissima rispetto all'attuale, di cui ad ogni buon conto è menzione nel celebri versi" del "Purgatorio" (c. 28). Quelli della "divina foresta spessa e viva", le cui fronde tremolavano per l'aura dolce che Dante avverte. Gorni conclude: "Bisognerebbe dire agli amici di Ravenna" che la pineta di Classe "non può ispirare due selve diversamente connotate", quella "aspra e forte" del primo canto e questa amenissima dell'Eden. Francesca non ha nome nel poema né si precisa il suo casato nel testamento del suocero, Malatesta da Verucchio. Soltanto gli antichi commentatori le danno una precisa identità. Dante non cita i nomi né del marito di Francesca né dell'assassino di entrambi. Scrive Gorni: l'episodio di Paolo e Francesca "ignorato dalle cronache contemporanee", è "inventato dal nostro autore" che aveva dovuto conoscere Paolo nel 1282 a Firenze quando fu capitano del popolo e conservatore della pace. Le cronache malatestiane che ne trattano, sono di età successiva e mediano la 'verità' dai primi commentatori: i due figli di Dante, Jacopo e Pietro, Jacopo della Lana, l'Ottimo ed altri ancora che precedono Boccaccio. Al quale si deve la leggenda romanzesca "dell'inganno per cui Francesca crederà di essere destinata a Paolo, per scoprire solo più tardi che il vero marito sarà il fratello" Giovanni, detto Gianciotto perché "sozo della persona e sciancato". Così spiega Renzi, che si chiede: ma "sarà vera anche la storia dell'uxoricidio?". Renzi suggerisce di cercare una fonte per la vicenda di Francesca "non nella vita (nella storia), ma nella letteratura". Qui sta il paradosso di Francesca: la sua tragedia diventa reale attraverso la creazione poetica. L'uccisione di Paolo e Francesca si colloca tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo da Firenze a Rimini) ed il 1284. Nel 1286 c'è il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli. Zambrasina è figlia di Tebaldello di Garatone Zambrasi, ghibellino faentino, morto nel "sanguinoso mucchio" di Forlì (1282) assieme al primo marito di lei, Ugolino dei Fantolini. (Il primo maggio 1282, Guido da Montefeltro capitano del comune di Forlì infligge una durissima sconfitta ai mercenari francesi al servizio dei papi, per domare la ribellione dei Romagnoli alla Chiesa.) Tebaldello è raccontato da Dante all'"Inferno" fra i traditori (c. 32) per aver aperto di notte le porte della sua città ai Geremei, guelfi bolognesi. Zambrasina ha avuto da Ugolino una figlia, Caterina Fantolini, che sposa Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto marito di Margherita figlia di Paolo Malatesti. Delitto d'onore, delitto d'amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? La vicenda sentimentale rispondeva all'economia della "Commedia" meglio di un evento legato a rivalità di famiglia, tipiche dei tiranni deprecati come rovina generale

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dell'Italia. La figura di Pia de' Tolomei, simmetrica a Francesca per collocazione ("Purgatorio", c. 5), può illuminare l'episodio grazie alle corrispondenze interne dell'opera. Anche Pia muore per una violenza coniugale. Suo marito Nello de' Pannocchieschi la fa rinchiudere nel proprio castello e poi uccidere: "Siena mi fé, disfecemi Maremma". Si tratta di un uxoricidio che attesta il senso di arroganza del tiranno e dell'amoralità della sua visione del mondo, tutta incentrata sulla violenza come strumento e mistica del potere, esercitata pure nella vita matrimoniale. Ovviamente al lettore della "Commedia" non interessano le cause della tragica fine di Pia, ma l'immagine ideale che Dante ne offre. Se esportiamo da questa vicenda maremmana la ricerca del suo senso nascosto per estenderla all'analogo fatto romagnolo, ci accorgiamo che Dante neppure per Francesca dice molto, aldilà della scena letteraria. Sulla quale giustamente sono stati versati, e si versano, fiumi di nobile inchiostro, sino alla fulminante definizione di Gianfranco Contini, di Francesca "intellettuale di provincia". Poco interessano di solito le basse ragioni della cronaca nera che stanno alla base del discorso storico. Anche per Pia, come osservava Umberto Bosco, i documenti "tacciono": e se "non è possibile fabbricare sulla rena di testi extrapoetici", si deve soltanto constatare che Dante non spiega le ragioni per cui Pia fu uccisa, "forse anche perché non le sapeva, semplicemente le sospettava". Pure per Francesca è possibile sospettare che Dante non conoscesse "la ragione" per cui fece una fine così letterariamente seducente. In lei Teodolinda Barolini (2000) ha visto come la "figura" di Dante, al punto che il poeta le appare quale doppio della sposa malatestiana: "the male pilgrim faints [...] because he is like", "il pellegrino uomo sviene [...] perché è come Francesca". E Renzi aggiunge: Dante avrebbe potuto gridare alla Flaubert: "Francesca c'est moi!". Secondo Franco Ferrucci (2007) nella vicenda di Francesca "Dante proietta tanto di sé e della sua storia intellettuale oltre che sentimentale". Se il poeta non conosceva la ragione del duplice omicidio, poi Boccaccio l'ha costruita, con "una personale, molto boccacciana, versione cortese dei fatti", chiudendo perfettamente il cerchio dell'invenzione poetica (Renzi). La quale si alimenta delle sue stesse creature, fingendo di sottrarle pietosamente all'orrore autoptico del giudizio della Storia, ma in realtà per tutelare soltanto se stessa. Come l'antico dio greco Crono che mangiava i figli appena nati nel timore d'essere da loro evirato. Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni per invidia avrebbe potuto progettare l'eliminazione fisica del fratello minore Paolo, stimato protagonista della scena nazionale, come attesta l'incarico fiorentino affidatogli dal papa. In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica, un alibi che avrebbe travolto pure l'innocenza di sua moglie. Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripeterà con i loro eredi. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo e di Orabile Beatrice. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino. A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione di un suo tentativo di conquistare la città. La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295 i Malatesti hanno il potere a Rimini. Chi comanda controlla i documenti meglio delle situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda avrebbe oscurato un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città, ed allontanato un marchio d'infamia rispetto all'autorità religiosa e temporale della Chiesa. Quando compone il canto quinto dell'"Inferno" Dante è lontano dalla Romagna. Ma vi è già stato nel 1302. A Ravenna giunge (forse) soltanto nel 1318 restandovi sino alla morte (1321). Potrebbe aver appreso della vicenda, od approfondito la sua conoscenza, secondo la "suggestiva" ipotesi avanzata da Ignazio Baldelli ("Dante e Francesca", 1999), nei primi anni dell'esilio in Casentino nell'ambiente in cui viveva Margherita figlia di Paolo Malatesti. Se non se ne fosse occupato Dante, oggi nessuno si ricorderebbe della vicenda di Paolo e Francesca, avvertita da lui "come un fatto

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non di cronaca privata" ma di una "vicissitudine pubblica" (G. Petrocchi). La memoria universale non significa una conseguente verità della narrazione poetica. Nulla permette di far luce circa i misteri sulla morte dei due cognati. La verità della poesia sta soltanto in essa stessa. Come sostengono gli studi più recenti che considerano "letterari" i moventi di questa storia d'adulterio, facendo giocare a Francesca il ruolo di "peccatrice perché letterata". Con lei, come sostiene Renzi, Dante rappresenterebbe il proprio "abbandono degli errori giovanili, del mondo dell'amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo)". ["ilPonte”, 30.5.2010]