Le nazioni per le strade

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1 La nazione per le strade. Odonomastica e segni urbani per la costruzione della nazione e per l’affermazione della monarchia nelle città dell’Italia postunitaria. (Maila Pentucci) «Maceratesi! Quel fausto giorno vagheggiato ne’ nostri pensieri, affrettato dal desiderio di tutti i buoni, spunterà alla fine anco su di noi. Il bel sole d’Italia, che da secoli non illuminava, che dolori e miserie, brillerà di tutta la sua luce abbagliante sulle gioje nostre, sulla era novella, che si apre a noi dinanzi. Quel Re, cui l’Onnipotente Iddio concedeva un cuore capace di comprendere le sofferenze di milioni d’italiani, ed una volontà salda nello imporre ad esse un termine, l’eroe di Palestro, di S. Martino, il glorioso Vittorio Emanuele II domani ci onorerà di sua Augusta presenza.» 1 Così il conte Tommaso Lauri, presidente della commissione municipale provvisoria per la città di Macerata, il 9 ottobre 1860, dalle colonne del foglio quotidiano marchigiano «L’Annessione Picena», incitava i propri concittadini a salutare il passaggio in città di Vittorio Emanuele. Il re attraversava le terre italiane da poco liberate, diretto verso l’Aspromonte, in una sorta di viaggio elettorale che doveva rafforzare il sentimento di appartenenza alla nazione ed il riconoscimento del potere di casa Savoia nelle popolazioni che si apprestavano a votare per i plebisciti. Di fatto, nonostante che i maceratesi e tutti i marchigiani sarebbero stati chiamati alle urne solo il 4 e 5 novembre successivo, già fin dall’esito positivo della battaglia di Castelfidardo 2 avevano iniziato a sentirsi italiani. Infatti tra il 19 ed il 20 settembre 1860, appena giunse in città la notizia della vittoria sabauda sui papalini, i liberali maceratesi organizzarono una manifestazione a grande partecipazione popolare durante la quale fu abbattuto lo stemma pontificio dai palazzi e dalle porte cittadine e sostituito con il tricolore, segno tangibile del passaggio dal governo del papa a quello 1 «L’Annessione Picena», n. 8, 9 ottobre 1860, p. 1. 2 La battaglia di Castelfidardo, combattuta tra un corpo d’armata dell’esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini e le truppe papali – in prevalenza francesi – al comando del generale Christophe De Lamoricière, definì l’annessione delle Marche e dell’Umbria al Regno d’Italia e aprì la strada per la presa di Ancona. Ebbe luogo nelle piane adiacenti al fiume Musone, tra i comuni di Castelfidardo e Loreto, in provincia di Ancona, il 18 settembre 1860. Per approfondimenti si vedano UFFICIO STORICO DEL CORPO DI STATO MAGGIORE, La battaglia di Castelfidardo (18 settembre 1860), Roma, Tipo-litografia del Genio Civile, 1903, SEVERINI, Marco (cur.), Le Marche e l’Unità d’Italia, Milano, Codex, 2010.

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La nazione per le strade. Odonomastica e segni urbani per la costruzione

della nazione e per l’affermazione della monarchia nelle città dell’Italia

postunitaria.

(Maila Pentucci)

«Maceratesi! Quel fausto giorno vagheggiato ne’ nostri pensieri, affrettato dal

desiderio di tutti i buoni, spunterà alla fine anco su di noi. Il bel sole d’Italia, che da

secoli non illuminava, che dolori e miserie, brillerà di tutta la sua luce abbagliante

sulle gioje nostre, sulla era novella, che si apre a noi dinanzi. Quel Re, cui

l’Onnipotente Iddio concedeva un cuore capace di comprendere le sofferenze di

milioni d’italiani, ed una volontà salda nello imporre ad esse un termine, l’eroe di

Palestro, di S. Martino, il glorioso Vittorio Emanuele II domani ci onorerà di sua

Augusta presenza.»1

Così il conte Tommaso Lauri, presidente della commissione municipale provvisoria per

la città di Macerata, il 9 ottobre 1860, dalle colonne del foglio quotidiano marchigiano

«L’Annessione Picena», incitava i propri concittadini a salutare il passaggio in città di

Vittorio Emanuele.

Il re attraversava le terre italiane da poco liberate, diretto verso l’Aspromonte, in una

sorta di viaggio elettorale che doveva rafforzare il sentimento di appartenenza alla

nazione ed il riconoscimento del potere di casa Savoia nelle popolazioni che si

apprestavano a votare per i plebisciti.

Di fatto, nonostante che i maceratesi e tutti i marchigiani sarebbero stati chiamati alle

urne solo il 4 e 5 novembre successivo, già fin dall’esito positivo della battaglia di

Castelfidardo2 avevano iniziato a sentirsi italiani. Infatti tra il 19 ed il 20 settembre

1860, appena giunse in città la notizia della vittoria sabauda sui papalini, i liberali

maceratesi organizzarono una manifestazione a grande partecipazione popolare

durante la quale fu abbattuto lo stemma pontificio dai palazzi e dalle porte cittadine e

sostituito con il tricolore, segno tangibile del passaggio dal governo del papa a quello

1 «L’Annessione Picena», n. 8, 9 ottobre 1860, p. 1. 2 La battaglia di Castelfidardo, combattuta tra un corpo d’armata dell’esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini e le truppe papali – in prevalenza francesi – al comando del generale Christophe De Lamoricière, definì l’annessione delle Marche e dell’Umbria al Regno d’Italia e aprì la strada per la presa di Ancona. Ebbe luogo nelle piane adiacenti al fiume Musone, tra i comuni di Castelfidardo e Loreto, in provincia di Ancona, il 18 settembre 1860. Per approfondimenti si vedano UFFICIO STORICO DEL CORPO DI STATO MAGGIORE, La battaglia di Castelfidardo (18 settembre 1860), Roma, Tipo-litografia del Genio Civile, 1903, SEVERINI, Marco (cur.), Le Marche e l’Unità d’Italia, Milano, Codex, 2010.

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del re. Così pochi giorni dopo Vittorio Emanuele attraversò la città imbandierata a festa

da porta Romana a piazza Maggiore, tra due ali di folla acclamante giunta da tutti i

municipi vicini, le cui manifestazioni di consenso, richieste da pubblici proclami, erano

comunque anche spontanee3.

Fa riflettere il fatto che il re ripercorre la stessa strada, da porta Romana fino alla piazza

centrale, ancora denominata piazza Maggiore, che circa 20 anni prima il papa Gregorio

XVI aveva attraversato in solenne corteo, durante una visita ufficiale al capoluogo della

delegazione pontificia maceratese ed in occasione della quale furono poste ben 13

epigrafi celebrative e memoriali sui muri della città4.

Il passaggio del re invece, che pure è documentato in maniera minuziosa negli atti e nei

verbali5 del primo governo nazionale dopo la cessazione del dominio pontificio e sulla

stampa locale6, non lascia tracce di pietra in città. Rintracciamo tuttavia esempi di

odonomastica spontanea che si è poi codificata prima nell’uso e successivamente negli

atti ufficiali del passaggio del corteo reale: a Montecassiano, paese attraversato dal re

nel suo percorso verso il capoluogo, sopravvive una fontana pubblica denominata dei

cavalli in quanto vi sostò il corteo sabaudo e vi si abbeverarono i cavalli di Vittorio

Emanuele7.

La mancanza di una subitanea comparsa della cosiddetta patria di pietra, ovvero del

corredo di lapidi, intitolazioni, statue, spazi pubblici dedicati, a fare da memento agli

entusiasmi postunitari dei maceratesi, ci dà una lettura abbastanza chiara della

transizione da un potere all’altro.

Infatti la città, che pure ebbe un ruolo di primo piano e fu teatro di eventi importanti

durante il processo risorgimentale8, assorbì il passaggio al nuovo stato in maniera tutto

sommato indolore. L’adesione al regno d’Italia e la scelta di Vittorio Emanuele II come

re, come dimostrano i numeri del plebiscito9 fu senza dubbio piena ed indiscussa,

probabilmente grazie anche al fatto che la classe dirigente non subì grandi mutamenti.

3 Archivio di Stato di Macerata (d’ora in poi ASMC), Archivio antico del Comune di Macerata, busta n. 586. 4 ASMC, Archivio antico del Comune di Macerata, Volumi e Registri, n. 1027. 5 ASMC, Archivio antico del Comune di Macerata, Volumi e Registri, n. 1047. 6 «L’Annessione Picena», n. 8, 9 ottobre 1860, n.9, 10 ottobre 1860. 7 SVAMPA, Gabriele, Montecassiano. Dalle origini, Macerata, Tip. Alvise Slavi, 1934. 8 Macerata vide la nascita precoce di un movimento indipendentista di stampo carbonaro, che culminò in un tentativo di moto fallito nel 1817, ma soprattutto ebbe un ruolo importante nella breve esperienza della Repubblica Romana, in quanto in città si acquartierò Giuseppe Garibaldi con la Legione in marcia verso Roma e nel periodo del suo soggiorno maceratese (gennaio 1849), fu eletto deputato alla Costituente della Repubblica Romana proprio nel collegio di Macerata. La città (considerare se metterlo nel corpo del testo) 9 Sui 4.127 votanti si erano registrati in città 4104 sì, 17 no e 6 schede nulle. In ASMC, Commissario Provinciale, busta n. 8.

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Il notabilato maceratese postunitario era composto da elementi dal retroterra politico

rassicurante e mette insieme borghesi di orientamento liberali, cavouriani più che

garibaldini, insieme ad esponenti della vecchia classe politica al potere durante i

trascorsi papalini10. Il commissario straordinario per la Marca, Lorenzo Valerio viene

accusato sulle colonne de «L’Annessione Picena» di preferire come collaboratori per la

gestione della transizione politica verso la monarchia sabauda, personaggi

compromessi con il vecchio governo piuttosto che i sostenitori della causa patriottica11.

Del resto la vecchia classe dirigente, coinvolta nel governo postunitario, si sente garante

della continuità e dà prova di trasformismo ante litteram aderendo alla richieste del

nuovo potere costituito, per il quale comunque aver avuto meriti nel vecchio governo è

comunque titolo preferenziale. Tra l’altro tra il ceto alto borghese e liberale, che aveva

sostenuto le istanze risorgimentali a livello locale, e la vecchia nobiltà papalina il

rapporto è improntato alla collaborazione ed al reciproco riconoscimento.

Lo stesso Tommaso Lauri, primo sindaco di Macerata e nominato nel 1863 senatore del

regno, nobile di antico lignaggio, era stato, nel 1848, ministro delle finanze del governo

di Pio IX.

Il trasformismo politico impedisce un vero rinnovamento della classe dirigente nelle

piccole patrie locali, ma segni evidenti dell’affermazione della nuova patria italiana e

del regno unificatore dei Savoia si trovano nelle mutazioni e nei segni che il potere

iniziò a lasciare sul tessuto urbano, sull’apparato viario, sugli spazi pubblici dell’ex

capitale della marca pontificia, declassato nel passaggio alla monarchia sabauda a

semplice capoluogo di provincia. Come tutte le città italiane, anche a Macerata la storia

fu iscritta sui muri.

Fare gli italiani

Dunque la trasformazione politica così significativa per la storia d’Italia lascia il segno,

più che sulla conformazione delle classi dirigenti e sulle strutture dei rapporti

economici e sociali, sulle mutazioni che si possono osservare nei tessuti urbani delle

città, che diventano casse di risonanza a cielo aperto per la narrazione di una nuova

10 Si vedano MAGNARELLI, Paola, Appunti sulla classe dirigente maceratese tra antico regime e restaurazione, in TORRESI, Enzo, TORRESI, Franco, Macerata. Dal primo Ottocento all’Unità, Macerata, Agenzia libraria Einaudi, 1984, pp. 9 – 19 e SEVERINI, Marco (cur.), Macerata e l’Unità d’Italia, Milano, Codex, 2010. 11 I continui attacchi che l’élite liberale maceratese lanciava al commissario Valerio dalle colonne del giornale, nato nel 1860 per accompagnare con un lavoro di commento e di esortazione il processo di italianizzazione dei cittadini maceratesi, ne provocò la chiusura il 23 febbraio del 1861. In GIANANGELI, Vittorio (cur.), Bibliografia della stampa operaia e democratica nelle Marche 1860 - 1926. Periodici e numeri unici della provincia di Macerata, Ancona, Il lavoro editoriale, 1998, pp. 11 - 16.

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storia, che abbia un forte carattere nazionale e sia identificabile nei simboli delle lotte

risorgimentali: il re, l’esercito, i patrioti e gli eroi.

In effetti, L’uso pubblico della toponomastica e dell’odonomastica con funzione politica

e la ridefinizione dell’aspetto della città come luogo di condivisione di memorie e di

aggregazione in momenti precisi del calendario celebrativo nazionale, assumono un

aspetto rilevante nel complesso progetto di costruzione dell’identità nazionale e dello

spirito di popolo portato avanti dalle classi dirigenti dell’Italia postunitaria; tale

fenomeno si esplicita a partire dal 1848, anno di rivoluzioni diffuse in tutta la penisola,

si consolida nell’età delle annessioni e prosegue dopo il 1861, con la Destra Storica al

potere, ma diventa discorso politico e pedagogico dominante a partire dalla presa di

Roma e dall’avvento dei governi della Sinistra Storica, fino all’età Crispina12.

All’indomani della realizzazione dell’unità d’Italia, il problema più impellente percepito

dalle classi al potere fu quello di costruire, praticamente dal nulla, un sentimento di

identità nazionale che trasformasse delle plebi, per secoli divise, dominate, non

soggette a diritti di cittadinanza, in un unico popolo.

Furono molti e variegati i mezzi utilizzati in questo progetto politico e civile, che prese

le mosse già nel corso del Risorgimento e proseguì attraverso percorsi differenti e con

fini mutevoli durante tutto lo svolgimento della nostra storia nazionale. Questa

operazione di costruzione dell’italianità fu strutturata partendo da una visione

paternalistica dello stato, secondo la quale esso si deve assumere il compito di educare

le masse e guidarle, senza destabilizzare comunque l’assetto della società: lasciando,

cioè, al notabilato quel ruolo di potere, sia centrale che locale, in gran parte

sopravvissuto alle annessioni e successivamente trasposto da un sistema politico

all’altro.

La scuola, l’esercito, la famiglia ebbero un ruolo centrale e assimilabile per metodi e

organizzazione nella costruzione dell’identità italiana; questa aveva bisogno di essere

fondata su di un retroterra storico comune, che non esisteva di fatto, ma andava

fabbricato e diffuso; a ciò doveva prestarsi dunque la storia del recente Risorgimento,

che fu inteso come evento mitopoietico e privo di frizioni e contraddizioni, condiviso e

unitario, sul quale avviare il processo di nazionalizzazione dell’Italia e dei suoi cittadini.

La storia risorgimentale, così variegata e parcellizzata nello spazio e nel tempo,

diventava così una sorta di leggenda nazionale comune, che metteva insieme nord e sud

del paese e si apprestava a creare un retroterra di simboli, eroi, fatti nei quali

12 Si veda in proposito Sergio Raffaelli, I nomi delle vie, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma – Bari, Laterza, 2010, pp. 261 – 288.

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riconoscersi e dai quali prendere esempio. Infatti, come afferma lo storico inglese

Christopher Duggan, la celebre espressione «fare gli Italiani»13significava anche

correggere, tramite un’attenta proposta paidetica, la corruzione e le meschinità del

carattere italico, frutto di secoli di dispotismo, di strapotere politico e culturale della

chiesa, di subordinazione e abbrutimento morale e materiale14.

Tali aspetti connotavano la percezione dell’italianità e purtroppo emergevano

vividamente dalle cronache e dai diari dei tanti scrittori giunti in Italia per il gran tour

e attenti reporter del contrasto tra il pittoresco dei luoghi, il fascino dell’arte e della

storia e le miserrime condizioni delle genti visitate.

Il programma pedagogico doveva essere dunque unitario, ma capillarizzato, invasivo

dei vissuti quotidiani, tanto da instillare nelle menti e nelle coscienze un modo di

pensare.

La città fu uno dei luoghi deputati nei quali narrare il nuovo discorso nazionale,

utilizzando le strade, le piazze, i muri come superfici per raccontare la versione ufficiale

della storia e fare in modo che penetrasse nell’immaginario degli abitanti. Da questo

momento in poi il potere pubblico lascia intenzionalmente tracce e iscrizioni – in senso

reale o figurato – tantoché la città diventa un testo dove si stratificano e si

interconnettono le storie individuali e le storie collettive.

I nomi delle strade sono uno degli strumenti utilizzati, non più frutto di scelte casuali,

ma specchio di una precisa volontà politica rintracciabile sia nell’oggetto

dell’intitolazione che nella localizzazione nel tessuto urbano (centro o periferia non

danno la stessa visibilità e dunque si creano gerarchie); tale volontà è esplicitata nella

delibera di intitolazione, atto pubblico nel quale leggere ed interpretare le motivazioni

delle scelte odonomastiche attuate.

La città postunitaria e di età liberale

La città (piccola patria municipale) entra dunque a far parte del programma politico

risorgimentale e postrisorgimentale come luogo di esplicitazione del mutamento in atto

sia nella vita pubblica, sia nei ruoli e nei costumi sociali, sia nei valori di riferimento. Le

amministrazioni centrali e locali al potere elaborano piani urbanistici ispirati a un

modello unico: la Torino sabauda dalle vie larghe e diritte, con i palazzi dalle facciate

13«… il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno verso il polo opposto. Pur troppo s’è fatta l’Italia ma non si fanno gli Italiani». M. D’Azeglio, I miei ricordi, A. M. Ghisalberti (a cura di), Einaudi, Torino 1971, p. 4. 14 C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi, Mondolibri, Milano 2009.

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severe e porticati a livello di strada,atti a creare un diaframma tra esterno e interno che

incoraggi la socialità e la fruizione del luogo pubblico15.

L’odonomastica entra in questo progetto in maniera massiccia e con grande successo. I

nomi delle strade sono un mezzo per la pedagogizzazione del popolo molto efficace ed

economico: intitolare una strada costa meno che costruire un monumento o restaurare

un palazzo e ha un’incidenza diretta nella vita di tutti. Vedere e sentire ogni giorno eroi,

date, simboli scritti alle cantonate delle strade percorse continuamente, ripeterli per

necessità della loro funzione d’uso materiale, fa sì che essi diventino parte della

quotidianità individuale e collettiva dei cittadini italiani, con le stesse modalità e

caratteristiche da Torino a Palermo.

Gli spazi comuni, inoltre, rivestono un nuovo significato e assumono centralità in

questa opera di maquillage istituzionale; diventano infatti teatro e luogo deputato per

quelle ricorrenze e manifestazioni ufficiali, che coniugano la festa popolare e la

cerimonia, necessarie e funzionali alla creazione programmatica di un calendario civile

risorgimentale portatore di una doppia funzione: da una parte esso deve fornire al

popolo un promemoria potentemente sottolineato degli eventi considerati fondanti per

la nuova nazione, dall’altra deve soppiantare il calendario delle festività religiose

riproponendone però lo spirito, la funzione aggregativa e autocelebrativa e deve offrire

un apparato di nuovi simboli da riconoscere e nei quali sia facile riconoscersi.

Per l’Italia il Risorgimento, a partire dal biennio delle annessioni (1859 – 1861), segna

un importante passaggio nella modalità di intitolazione delle strade, prendendo le

mosse dall’uso francese introdotto dalla Rivoluzione, dopo la quale si osserva il

passaggio da una odonomastica spontanea, di derivazione medievale, a una celebrativa,

atta a dare una visibilità urbana al discorso nazionale e identitario. Prima della nascita

della nazione italiana non tutte le strade delle città e dei paesi avevano un nome e quelli

che esistevano erano endogeni, generati dal basso, dalla necessità pratica di avere o

dare punti di riferimento. Le strade prendevano il nome dalle caratteristiche

geografiche, architettoniche, naturali, dai tratti peculiari che presentavano, da elementi

che le rendevano riconoscibili e indicabili. Tuttavia, questi nomi attribuiti non erano

codificati. Anche le tracce da essi lasciati nei documenti ufficiali, e addirittura nelle

mappe catastali preunitarie, danno l’idea dello spontaneismo e dell’aleatorietà e

provvisorietà dei nomi16.

15C. Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, in A. M. Banti, P. Ginsborg, a cura di, Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 481 – 539. 16 Ricorrendo a esempi locali, la strada che collega Macerata al borgo di Villa Potenza, oggi chiamata via de’ Velini, è indicata nei verbali dei consigli comunali come “strada detta corta del

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Il nuovo stato si rende conto della potenzialità dell’odonomastica e inizia ad attribuire

alle strade nomi risorgimentali, che narrino ai passanti la storia recente della nazione,

resa uguale in tutte le città da nord a sud. Rispetto all’uso francese di scegliere simboli

astratti e concetti ideali (libertà, fraternità, giustizia, ecc.), l’Italia opta per la scelta di

nomi propri, eroi eponimi che diventano così padri della patria, ma anche di date,

luoghi e battaglie significative: una vera e propria narrazione storica che racconta, però,

la storia dei vincitori ricostruita e pacificata, dalla quale sono espunte tutte le anime

diverse e discordanti di un Risorgimento in realtà per nulla unitario né univoco.

La creazione di un palinsesto di stradari – medaglieri finalizzati all’appiattimento della

memoria sul modello proposto dalla borghesia dirigente e alla creazione di una

enciclopedia a uso e consumo delle masse17 – rappresenta il primo esempio, nella

nostra nazione, di uso pubblico della storia. Infatti,l’odonomastica diventa in questo

periodo atto intenzionale che emana dal potere costituito. Le municipalità assumono il

compito, tramite delibera del consiglio comunale, della decisione di intitolare o

reintitolare le strade, utilizzando tale provvedimento di solito come corollario e traccia

perpetua per qualche evento pubblico degno di nota (il passaggio del re o la visita di

qualche alta personalità dello stato, ma anche la celebrazione di un anniversario),

oppure incamerandolo in un piano più ampio di lavori pubblici.

Del resto la prima legge unitaria che si occupa sia pur marginalmente delle strade

comunali italiane è una legge sui lavori pubblici del 1865, che ha la finalità di stilare un

esatto inventario delle strade esistenti e di fissare norme di manutenzione,

attribuendone gerarchicamente la responsabilità a stato, provincia e comune18.

L’odonomastica diventa così una questione pubblica, afferente l’amministrazione e la

politica sia locali che nazionali19. Nel 1871 una legge del regno prescrive che tutte le

molino o corta di Villa Potenza”, ma nelle mappe del catasto gregoriano non porta nessuna denominazione. Si veda, per la prima notazione, Archivio di Stato MC, Fondo dell’Archivio antico del Comune di Macerata, Volumi e Registri, Registri, dei verbali del Consiglio Comunale. Per le mappe: Archivio di Stato MC, Catasto Gregoriano, Mappe Macerata, sez. città, cart. 1. 17«Si sostituiscono i nomi medaglia. Lo stradario diventa un medagliere. Tutta la paccottiglia della bassa erudizione si riversa nelle vie. I nomi sono suoni inerti, che non suscitano alcuna immagine di vita, che piombano nel fondo della coscienza materiale, morta, che non legano al passato, che strappano, con un atto violentemente illogico, i legami tradizionali tra l'uomo e la via. Lo stradario diventa un museo, un cimitero di illustri ignoti, povero ossame ammuffito e sbianchito dalla dimenticanza opportuna, perché meglio pone in rilievo chi veramente ha operato nella storia. La borghesia bottegaia non sa sostituire nulla di originale alla intensa vita spirituale del passato. La sua vita è la medaglia, la decorazione; stimolo, l'enciclopedia; metodo, il conguagliamento, l'appiattimento dei valori», in A. Gramsci, Sotto la Mole (1916 – 1920), Einaudi, Torino 1972, p. 318. 18 Legge n. 2248 del 20 marzo 1865, allegato F. 19 C. Marcato, Nomi di persona, nomi di luogo. Introduzione all’onomastica italiana, Il Mulino, Bologna 2009.

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strade abbiano un nome e tutte le case una numerazione, stabilendo delle regole di

massima che escludono la possibilità di avere due vie con lo stesso eponimo nella

medesima città20. Tale legge risponde essenzialmente a esigenze di controllo e di ordine

pubblico, così come è attestato dalle successive circolari emanate dal ministero degli

Interni in epoca crispina: si nota la tendenza ad avere una sempre maggiore

rintracciabilità dei cittadini attraverso l’accertamento della loro residenza, possibile

solo se le strade hanno nomi codificati e non ripetuti. Con una legge organica del

governo Crispi21, emanata nel 1888, si procede a una vera e propria anagrafe delle

strade italiane e si attribuisce ufficialmente ai comuni la competenza dell’intitolazione e

della numerazione. La nazionalizzazione dell’odonomastica in età liberale fa un

ulteriore progresso con la catalogazione dei nomi comuni ammessi per la prima parte

dell’odonimo, mutuati da una pratica importata in Italia da Napoleone e tendenti

all’omologazione linguistica. Vengono, infatti, aboliti quasi tutti i nomi di derivazione

dialettale o locale a favore dei generici via, piazza, piazzale, corso, con alcune note

eccezioni, talmente radicate nei rispettivi tessuti urbani da non poter essere abolite per

legge: calle, campo, campiello ed altri a Venezia;lungarno a Firenze (che passa però da

nome proprio a nome comune, assumendo un’ulteriore aggiunta intitolatoria); rua ad

Ascoli Piceno22.

La pratica corrispondente a tale idea di una odonomastica fissata per atto

amministrativo e con mansione sempre altra rispetto alla semplice funzione d’uso, è

quella di un vero e proprio furore intitolatorio, volto alla riscrittura del Risorgimento in

chiave piemontesistica e filomonarchica23. Le giunte comunali di molte città d’Italia

procedono a operazioni di «sventramento odonomastico»24che a volte modificano il

nome storico e universalmente condiviso di una via con odonimi di richiamo patrio o

risorgimentale, che devono dichiarare l’adesione della città alla neonata nazione ed

educarne gli abitanti ai nuovi valori di riferimento. È il caso di via Toledo a Napoli, che

per breve e infelice periodo diventa via Vittorio Emanuele per poi tornare alle

origini,praticamente a furor di popolo, o della proposta di intitolare allo statuto la

storica piazza Castello a Torino, proposta rientrata per diverbi interni alla stessa

20 Legge n. 297 del 20 giugno 1871. 21 Legge sulla sicurezza pubblica n. 5888 del 23 dicembre 1888. 22 Per una panoramica completa delle pratiche legislative relative all’odonomastica italianasi veda G. Melis, La legislazione sulla toponomastica, in «Bollettino della deputazione di Storia Patria per l’Umbria», n. CI, fasc. II, pp. 89 – 103. 23 M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Il Mulino, Bologna 2004. 24S. Raffaelli, I nomi delle vie, in M. Isnenghi, a cura di, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma – Bari 2010, pp. 261 – 288.

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amministrazione e sostituita con l’apposizione di una lapide commemorativa. Tale

sovrapposizione tra nome d’uso e nome ufficiale ha portato nel tempo vere e proprie

duplicazioni odonimiche, come quella tuttora presente nello stradario di Ancona: la

centrale piazza Plebiscito, così intitolata nel 1870 in occasione delle celebrazioni per il

decennale dell’annessione delle Marche allo stato sabaudo, aveva già subito successive

revisioni legate ai mutamenti del potere fin dal 1500: da piazza Nuova, a piazza

Grande, a piazza Napoleone dopo la conquista dei francesi, a piazza San Domenico in

seguito alla restaurazione, essa è nota e indicata fin dal Settecento come piazza del

papa in virtù di una statua di Clemente XII che vi ha sede. Questa intitolazione prevale

ancora oggi nell’uso corrente, ed è segnalata anche in molti stradari, guide turistiche e

in alcuni database di navigatori satellitari, nonostante il nome ufficiale sia quello

risorgimentale25.

Le scelte prevalenti nelle reintitolazioni dall’età postunitaria a quella liberale vanno

nella direzione della tradizione ufficiale e coniugano la storia nazionale e quella locale.

In ogni città si creano dei veri e propri percorsi nel Risorgimento e le vie e le piazze

centrali, spesso sedi di palazzi pubblici, assumono i nomi dei cosiddetti medaglioni del

Risorgimento, ovvero le quattro figure esemplari, lontanissime tra loro per idee e

comportamenti nella realtà fattuale, ma accostate nell’epica unitaristica a

rappresentare ciascuna un aspetto dello spirito risorgimentale: il guerriero Garibaldi, lo

statista Cavour, il re galantuomo Vittorio Emanuele, il filosofo Mazzini. Questo

processo si intensifica a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, quando i primi

interessi della sinistra storica per le imprese coloniali spingono sulla questione della

nazionalizzazione delle masse e sul consolidamento dell’epica guerriera e patriottica

propria della riscrittura della storia risorgimentale. Accanto all’intitolazione di strade,

le città vengono costellate di lapidi che mettono insieme le quattro glorie nazionali, di

volta in volta denominati «i sommi che restituirono l’Italia agli Italiani»26, «forti tra

forti … che per diversa via signoreggiando uomini e tempi votati al patrio riscatto

vindici di eterno diritto conquistaste degno seggio nell’areopago europeo»27, esaltati

rispettivamente per «il pensiero divinatore e l’eterna parola, l’audacia guerriera

25 Per notizie sulla topografia di Ancona si veda S. Sebastiani, Ancona, forma e urbanistica, L'Erma di Bretschneider, Roma 1996. 26Recanati (MC), lapide apposta il 25 agosto 1907 sulla facciata interna al porticato del palazzo comunale. 27 Montecassiano (MC), lapide apposta nel 1899 sulla facciata del palazzo comunale.

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magnanima, il genio politico, la lealtà cavalleresca»28, appiattendo su un generico

eroismo patriottico posizioni storiche diverse e contrastanti.

Le intitolazioni non si limitano a fatti e personaggi contingenti della storia recente, ma

tendono a un discorso pedagogico più ampio rispetto al semplice memento: si scelgono,

nel vasto repertorio di biografie delle antichità italiane, diverse personalità che a vari

livelli spesero la propria vita per la libertà o in difesa della patria, e si celebrano come

antesignani dell’idea risorgimentale. È il caso di Francesco Ferrucci, di Arnaldo da

Brescia, ma soprattutto di Giordano Bruno, assunto nel doppio ruolo di difensore

estremo della libertà di pensiero e martire dell’oscurantismo religioso, eroe soprattutto

per la massoneria anticlericale, che ha notevolmente contribuito all’unificazione ed è

ben inserita nella classe dirigente dell’Italia liberale. In corrispondenza con le note e

sofferte questioni legate all’erezione – avvenuta dopo lunghe traversie e discussioni

politiche nel 1889 – della statua a Giordano Bruno di Ettore Ferrari a Campo de’ Fiori,

in moltissime città furono intitolate vie e dedicate lapidi al filosofo nolano29.

Contestualmente, il mito della grande Italia viene esaltato ricordando al popolo i padri

della patria, per cui si procede ad intitolare vie ai pittori, ai letterati, ai musicisti che

fanno grande la storia della nazione: Dante è uno degli eponimi più diffusi, anch’egli

investito di una duplice funzione, quella di precursore sul piano politico del discorso

unitario30e quella di codificatore di una lingua nazionale necessaria al superamento dei

dialetti e degli usi linguistici locali.

L’analisi delle procedure di intitolazione ci permette inoltre di avere una panoramica

sia cronologica che geografica dei processi politici in atto per il consolidamento

dell’unità: a partire dal 1870, ad esempio, la data del 20 settembre diventa

imprescindibile negli stradari di quasi tutte le città italiane, così come dopo la

sfortunata battaglia di Dogali entrano nell’odonomastica le denominazioni via o piazza

dei cinquecento o dei cinquecento martiri, a memoria dei soldati caduti. È possibile

ipotizzare che tale scelta intitolatoria andasse in un senso antididascalico, in quanto

solo evocativa di un’impresa infausta che non venne quasi mai esplicitata attraverso il

28San Severino Marche (MC), lapide apposta in occasione del cinquantesimo anniversario dell’unità (1911) sulla facciata del palazzo comunale. 29 A Macerata, nel 1888, fu affissa alla facciata del palazzo comunale una lapide che recitava: «La cieca immobilità del papato contro cui ragionando insorgesti o frate Giordano Bruno te ancora paventa dopo tre secoli che ti bruciò sul rogo ma l’Italia da te antico riscossa alla nova libertà di pensiero centuplica per le sue terre il degno monumento che indarno conteso ti starà a Campo de’ Fiori». Nella stessa occasione fu intitolata a Giordano Bruno la centrale via del commercio. Si veda la deliberazione del Consiglio comunale di Macerata del 21 giugno 1888, in Archivio di Stato MC, Fondo Archivio antico del Comune di Macerata, Busta 590. 30 Ciò avviene a partire dalla rilettura in chiave nazionalistica del libro VI dell’Inferno.

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nome della battaglia perché controproducente nella costruzione di un’idea di nazione

conquistatrice31.

È altrettanto importante notare come le differenti correnti politiche interne alle

amministrazioni locali abbiano determinato le scelte intitolatorie: è il caso di Giuseppe

Mazzini, assunto nel pantheon dei medaglioni risorgimentali solo alla fine del secolo e

spesso relegato, per il suo repubblicanesimo, in posizione defilata e non centrale nelle

mappe cittadine.

La prima guerra mondiale e il fascismo

Il Novecento segna una svolta nelle procedure odonomastiche: da un intento

prettamente pedagogico e memorialistico si passa a una ideologizzazione32 nelle

intitolazioni, che assumono una decisa connotazione politica via via che si intensificano

le istanze irredentistiche e la diatriba tra interventisti e non interventismi precedente

alla Grande Guerra.

Entrano nel tessuto stradale Trento e Trieste, Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti e,

soprattutto, il susseguirsi degli eventi bellici è scandito da intitolazioni,che avvengono

quasi in tempo reale, che segnano le tappe vittoriose dell’esercito italiano e i loro

protagonisti: i nomi dei fiumi Piave e Isonzo che compaiono negli stradari di buona

parte delle città italiane esulano dalla connotazione geografica e ricordano, invece, gli

spostamenti del fronte, così come il Carso o Gorizia, Zara e la Dalmazia.

Ma la caratteristica che il primo conflitto mondiale introduce nell’odonomastica è la

collettivizzazione del culto dei morti. Collettivizzazione intesa sia dal punto di vista dei

celebranti che dei celebrati: infatti, la dimensione di massa del conflitto e il numero

maggiore di morti rispetto alle guerre risorgimentali aveva fatto sì che praticamente

ogni famiglia italiana vivesse il lutto per un congiunto caduto al fronte. L’elaborazione

di tale dolore aveva bisogno di riti collettivi e cittadini, i quali rendessero tutti partecipi

del sacrificio e accomunassero le vittime, impossibili da rievocare per nome sia a causa

del numero sia a causa della tecnologizzazione della guerra, che spesso rendeva

irriconoscibili o irrintracciabili i singoli cadaveri33.

Ciò si esplicita nelle intitolazioni ai ragazzi del ’99 o ai caduti del Piave, che

sostituiscono il nome del singolo eroe, locale o nazionale, tipico del periodo

31 Anticipiamo rispetto alla disamina storica che il fascismo, nel periodo delle conquiste coloniali, eliminò moltissime vie dedicate ai caduti di Dogali, proprio con l’intento di cancellare il ricordo della sconfitta. 32 Si veda a tal proposito S. Raffaelli, I nomi delle vie, cit. 33 M. Isnenghi, Il mito della Grande guerra, Il Mulino, Bologna 1989.

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risorgimentale o postunitario. Inizia a porsi anche il problema dell’ideologizzazione del

lessico della morte, che prosegue fino ai nostri giorni: l’uso del neutro ‘morti’ è, di fatto,

sempre sostituito da sostantivi connotati. Molto utilizzato è il termine ‘martiri’, che

unisce l’elemento della volontarietà del sacrificio – necessario da sottolineare in una

chiamata alle armi in realtà imposta e subita dalle classi subalterne, che pagarono il più

alto tributo ad una guerra non voluta o almeno non compresa e lontana – a una

dimensione quasi religiosa. La parola ‘caduti’ invece, propria della semantica bellica,

allontana attraverso l’uso dell’eufemismo la crudità della morte e la riconduce in una

sorta di orizzonte di dovere del soldato nei confronti della patria. Meno ricorrente è

invece ‘vittime’, che pone l’accento sull’innocenza e sull’estraneità della morte, che avrà,

invece, grande fortuna nelle intitolazioni afferenti la seconda guerra mondiale, i

totalitarismi e i relativi eccidi34.

Tutto l’apparato memoriale allestito nel corso e subito dopo la grande guerra fu ripreso

dal fascismo, che trovò nella città uno dei più potenti mezzi di propaganda e di

consolidamento del proprio consenso. Come tutte le dittature, l’appropriazione degli

spazi pubblici attraverso marcature ideologiche che ne riscrivessero la storia in

funzione celebrativa del regime, fu programmatica nella politica di fascistizzazione

delle masse messa in atto da Mussolini fin dai primi anni di potere.

Le città, infatti, diventano veri e propri teatri entro i quali celebrare i fasti presenti del

fascismo, ma anche fondali di una storia nazionale volta all’esaltazione della Nazione

attraverso i suoi eroi. Il Duce avvia opere pubbliche imponenti con l’intenzione di

cambiare il volto alle città e al territorio: dagli sventramenti di interi quartieri alle città

di fondazione, l’urbanistica deve concorrere all’autocelebrazione, alla spinta verso il

rinnovamento, controbilanciata, però, da scelte architettoniche con forti richiami

all’antico; spesso i lavori coincidono con le visite ufficiali dello stesso Mussolini, per il

quale si apprestano vere e proprie quinte sceniche ristrutturando i centri urbani

interessati. È il caso, a livello locale, della città di Corridonia, così battezzata in

occasione della visita del Duce del 24 ottobre 1936: per l’occasione il centro medievale

fu completamente cancellato e venne costruita la piazza in stile metafisico –

razionalista studiata per fare da contesto alla statua all’eroe locale Filippo Corridoni,

sindacalista amico dello stesso Mussolini, morto sul Carso e assunto nel pantheon dei

martiri fascisti, in onore del quale fu anche modificato il nome dello stesso paese che gli

aveva dato i natali, da Pausula in Corridonia.

34 Sull’argomento si vedano Oliver Janz e Lutz Klinkhammer (a cura di) La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma 2008.

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L’odonomastica non è ovviamente esclusa da questo programma politico e ideologico:

dare il nome alle cose è, infatti, un modo di ribadire l’autorità su di esse, di ricrearle

sottraendole al passato e rinconducendole entro il proprio universo valoriale.

È proprio del periodo fascista la prima legge organica dedicata all’odonomastica: essa

viene regolata prima con il decreto legge n. 1158 del 1923, che per iniziativa del

ministero della Pubblica istruzione «dettava norme per i mutamenti del nome delle

vecchie strade e piazze comunali»35, successivamente convertito nella legge n. 1188 del

1927, che ancora oggi disciplina le intitolazioni delle strade.

Con la legge 1188sono introdotte la necessità dell’autorizzazione prefettizia, a

limitazione dell’iniziativa dei comuni, e la norma che vieta l’intitolazione a personaggi

morti da meno di dieci anni, con alcune deroghe per i membri della famiglia reale e per

individui benemeriti per la causa nazionale o caduti per la patria.

Inoltre, il filosofo e ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile vuole che per ogni nuova

intitolazione sia sentito il parere delle locali deputazioni di storia patria o società

storiche, per evitare anacronismi e attribuzioni di nomi assolutamente slegati rispetto

al contesto e conferire dignità storica alla scelta odonomastica36.

Nel contempo vengono emanate, a volte direttamente da Benito Mussolini, ulteriori

circolari e disposizioni relative all’odonomastica: per fermare lo zelo intitolativo di

molte amministrazioni che intendono dedicare vie al Duce, il quale, non gradendo tale

omaggio (pare, per motivi scaramantici), indica di sostituirle con la data della marcia su

Roma;per ripristinare o cancellare nomi graditi o meno alla chiesa dopo i patti

Lateranensi (il primo a farne le spese è proprio il già ricordato Giordano Bruno, che

perde quasi tutte le intitolazioni);per orientare alcune scelte, come quella che dal 1932

impone a ogni comune italiano di avere una strada intitolata alla capitale, o quelle degli

anni Quaranta per espellere gli ebrei dalla toponomastica o italianizzare alcuni odonimi

delle regioni di confine e non solo: non si salva alla xenofobia linguistica neppure

Sidney Sonnino, che a causa del nome anglofono (forse, unitamente al fatto che fosse di

origine ebrea) perde le vie a lui dedicate.

Resistenza, RSI e Repubblica

L’armistizio dell’otto settembre, oltre a dividere l’Italia in due sul piano bellico e

politico, lo fa anche a livello odonomastico. Infatti, mentre nel Regno del sud si procede

alla semplice cancellazione dei nomi più direttamente riferiti all’appena caduto regime

35 S. Raffaelli, I nomi delle vie, cit. 36 S. Raffaelli, Il primo dopoguerra e il ventennio fascista, in «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», vol. CI, fasc. II, pp. 155 – 173.

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e alla loro sostituzione con nomi della casa reale, i territori del centro-nord subiscono

modifiche successive, indicative del complicato e movimentato momento storico. Già

nei pochi giorni che intercorrono tra la caduta del fascismo del 25 luglio e l’occupazione

tedesca iniziano le revisioni da parte delle amministrazioni comunali che si affrettarono

ad espellere dagli stradari i nomi di stampo fascista. L’avvento della Repubblica di Salò,

però, frena le reintitolazioni di matrice antifascista o libertaria. La damnatio memoriae

colpisce innanzitutto i membri di casa Savoia, in particolare l’attuale re, colpevoli di

tradimento, e i gerarchi fascisti, rei di aver determinato la caduta del Duce, coi loro

familiari, come succede, ad esempio, al padre di Galeazzo Ciano, Costanzo. Nella

rappresentazione della nuova Repubblica Sociale devono inoltre entrare i recenti eroi

della seconda guerra mondiale, ma anche i capisaldi della prima rivoluzione fascista, a

richiamo degli ideali dimenticati.

La liberazione porta con sé una circolare del primo ministro della Pubblica istruzione, il

giurista Arangio Ruiz, che, conscio dell’accelerazione e delle sovrapposizioni che si

erano succedute nei passaggi storici precorsi, invita a ripristinare i nomi delle vie

precedenti al 1922, a sospendere la cancellazione dei nomi di casa Savoia fino a che non

sia definito il nuovo assetto istituzionale e a dare sempre comunicazione al ministero

stesso dei mutamenti in atto. In effetti,le giunte del Comitato di Liberazione Nazionale

stanno procedendo con grande celerità all’unica epurazione che è stata effettivamente

attuata in Italia, quella odonomastica, a favore di personaggi esemplari

dell’antifascismo e della Resistenza, Gramsci e Matteotti primi tra tutti37.

Le amministrazioni comunali della nuova Repubblica italiana, dopo il 2 giugno 1946, si

adeguano invece anche nell’odonomastica al clima di pacificazione oramai prevalenti

nel Paese: i riferimenti alla Resistenza, infatti,diminuiscono a favore di intitolazioni, sul

modello francese, a concetti astratti,ad essa non così esplicitamente riconducibili. Si

preferisce libertà o Italia libera a liberazione, e si ritorna al vasto patrimonio del

Risorgimento, a cui la Resistenza idealmente si riallaccia, per celebrare la riconquista

dell’indipendenza e della sovranità.

Dopo le elezioni del 1948, ma soprattutto negli anni Cinquanta, con il definirsi della

contrapposizione tra i due blocchi a livello internazionale e il conseguente

schieramento della maggioranza e dell’opposizione italiane, l’odonomastica diviene

terreno di scontro ideologico e il colore delle giunte al potere ne influenza

pesantemente le scelte fino a tutti gli anni Settanta.

37 R. Ridolfi, La transizione democratica e la nascita della repubblica, in «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», n. CI, fascicolo II, pp. 175 – 201.

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Tendenze odonomastiche attuali

Ben più interessante dell’ovvio repertorio delle vie rosse o bianche – che riportano in

auge da un lato la memoria della Resistenza, dall’altro l’uso di intitolazioni di stampo

ecclesiastico – è osservare come la contemporaneità, sul piano odonomastico, viaggi tra

i due estremi del disimpegno e dell’uso pubblico strumentalizzato.

Terminata negli anni Ottanta l’epoca delle forti contrapposizioni politiche interne,

anche le scelte odonomastiche risentono del riflusso: infatti, i sindaci, per evitare

lunghe diatribe in seno ai consigli comunali, ripiegano su scelte neutre, appiattite su

stereotipi politici o culturali ‘ecumenici’, che non possano essere contestati né fatti

propri da nessuna fazione politica, pescando spesso nel catalogo straniero (Kennedy,

Martin Luther King) oppure ricorrendo alle cosiddette vie seriali38.

L’uso della serialità nelle intitolazioni prende piede contestualmente al boom edilizio

degli anni Settanta-Ottanta, quando sorgono interi quartieri, di solito periferici o in

zone precedentemente rurali, e di conseguenza si presenta l’esigenza di dare il nome a

molte nuove vie. Scegliere la serialità ha due vantaggi: da una parte offre un repertorio

che può essere aumentato per accumulo in qualsiasi momento, nel caso in cui l’abitato

si estenda, dall’altra non ha connotazioni politiche e ideologiche e si presta alla

neutralizzazione dell’atto pubblico dell’intitolazione. In genere si scelgono nomi di fiori,

di colori, oppure l’infinita gamma di nomi geografici o naturalistici, che provocano

situazioni di assoluta estraneità tra il luogo e il nome giungendo a esiti ai limiti

dell’assurdo.

È il caso di molte cittadine costiere, dove si è iniziato a intitolare con i nomi dei mari

italiani e si è proseguito, man mano che nuove strade nascevano, con mari lontanissimi

e assolutamente alieni alla realtà di riferimento. Si producono anche piccole

aberrazioni, come nel caso della cittadina laziale di Torvajanica, dove i nomi dei pesci

del Mediterraneo non sono stati sufficienti per colmare la recente esplosione edilizia e

si è arrivati ad avere un lungomare delle meduse, di certo non invitante per un sito a

vocazione balneare. La frazione Sant’Egidio di Perugia, non lontana dall’aeroporto, ma

in un’amena posizione sulle verdi colline umbre, ha una serie di vie denominate via

elica, via aliante, via astronauta, via mongolfiera, via radar, via aerostato, fino

all’escatologica via Dedalo. A Novasiri, in provincia di Matera, una serie di traverse del

lungomare sono intitolate a film di Federico Fellini (cosa che sarebbe alquanto

giustificata a Rimini, meno vicina alle spiagge della Magna Grecia):vi troviamo via la

strada (che sembra una tautologia), via luci del varietà, via amarcord, piazzetta la

38 C. A. Maestrelli, Aspetti storico – linguistici della odonomastica, in «Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria», n. CI, fasc. II, pp. 61 – 73.

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dolce vita, via la voce della luna,via Giulietta degli spiriti, via tre passi nel delirio, che

forse è la sintesi perfetta dell’operazione odonomastica messa in atto.

Accanto alla scelta del disimpegno, la contemporaneità ci restituisce tuttavia anche

modelli di rinnovata strumentalizzazione dell’odonomastica, con fini di vero e proprio

abuso pubblico della storia39.

La cosiddetta “seconda repubblica” esordisce con un esempio eloquente: una delle

prime interrogazioni parlamentari prodotte dalla allora Lega lombarda, a nome di

Umberto Bossi e Roberto Castelli, propone di abolire il necessario placet delle

prefetture e il parere delle deputazioni di storia patria nella legislazione odonomastica

in vigore40 al fine di permettere l’uso, nei comuni controllati dallo stesso partito, di una

toponomastica dialettale41. Lo scontro prosegue negli anni su un piano di bassa

ideologia, con tentativi di improbabile par condicio odonomastica che controbilancia

una intitolazione a Pasolini con una a Ezra Pound. Un esempio di cerchiobottismo

politico ci viene dal comune di Codogno, in provincia di Lodi, dove nel 2000 la nuova

amministrazione di centrodestra propone di intitolare una strada a Sergio Ramelli, un

giovane militante neofascista milanese ucciso nel 1975 da due esponenti di Avanguardia

operaia. La prefettura, sentita la società storica lombarda, si oppone alla decisione per

motivi di inopportunità, ma il sindaco, anziché ritirare la proposta, rilancia

programmando di intitolare un’altra strada a Claudio Varalli, diciassettenne studente di

sinistra ucciso dai fascisti sempre nel 1975. Nonostante la reiterazione del parere

sfavorevole del prefetto, che consiglia di evitare il caso politico, la doppia intitolazione

viene effettuata grazie a una sentenza del TAR che si appella all’autonomia

amministrativa prevista dalla legge Bassanini, in nome di una sorta di pareggio dei

morti tra le opposte fazioni42.

L’appropriazione della storia da parte di amministrazioni ideologizzate e la sua messa

in discorso nelle vie cittadine è un fenomeno che attraversa tutto il Paese nel ventennio

berlusconiano, in cui si risveglia una contrapposizione ideologica spesso banalizzata e

fondata su false mitologie e su una distorsione e semplificazione delle categorie

storiche. È esemplare il caso delle molte intitolazioni ai morti nelle foibe istriano-

dalmate, seguite all’istituzione del Giorno del ricordo, anch’esso risarcimento e

39 A. Giannuli, L’abuso pubblico della storia. Come e perché il potere politico falsifica il passato,Parma 2009 40 La già citata legge fascista n. 1188 del 1927. 41 A. Bonomi, P.P. Poggio, a cura di, Ethnos e Demos. Dal leghismo al neopopulismo, Mimesis, Milano 1995. 42 Si veda a tal proposito il riassunto della vicenda sul «Corriere della Sera» del 6 febbraio 2001 a firma di Diego Scotti.

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bilanciamento verso destra della Giornata della memoria43. Ricompare, nelle

lunghissime discussioni delle delibere per l’intitolazione, la diatriba sulla scelta del

sostantivo:‘martiri’ o ‘vittime’ a seconda della connotazione strumentale che si intende

dare.

Altri esempi riguardano lo sdoganamento di molti nomi fascisti utilizzati per

intitolazioni, da Bottai a Italo Balbo, ad Almirante, ai caduti della Repubblica Sociale

titolari di una strada a Rovato, in provincia di Brescia, dal 2006. Ancora più segnata da

ideologismo è la scelta inversa, quella della cancellazione e della sostituzione degli

odonimi, che comporta anche dei costi per le amministrazioni e delle problematiche di

tipo logistico: la Lega nel 2009 toglie l’intitolazione della biblioteca a Peppino

Impastato perché ritenuto avulso dalla realtà locale, mentre il sindaco del PdL di

Pecorara, in provincia di Piacenza, suscita nel 2010 una sollevazione nazionale

proponendo di eliminare piazza XXV aprile.

Anche il revisionismo storico coinvolge l’odonomastica: nel corso dell’anno delle

celebrazioni risorgimentali abbiamo avuto una via di Sciacca intitolata a Maria Sofia di

Borbone e a Castelvetrano una piazza e una via intitolate a Francesco II e alla regina

consorte.

Risemantizzazioni

A conclusione di questa panoramica sulla storia e sull’uso pubblico e politico

dell’odonomastica è opportuno introdurre il discorso della risignificazione che molti

odonimi oggi hanno subito nella nostra percezione e nel sentire comune.

Fin dall’introduzione di una vera e propria politica odonomastica, che come abbiamo

visto risale alla Rivoluzione francese e in Italia al Risorgimento, il nome della via è stato

investito di una vera e propria modificazione della sua funzione d’uso originaria, quella

dell’indicazione spaziale, per assumere significati simbolici e finalità pedagogiche,

memorialistiche, propagandistiche, ideologico-politiche, comunque strumentali al

potere costituito.

Ma la risemantizzazione può avvenire anche per processi spontanei, legati

all’immaginario collettivo e alla forte connotazione che i luoghi assumono quando sono

associati a fatti storici o politici fondanti la nostra identità di nazione e di popolo, tanto

da diventare delle vere metonimie che trasferiscono il significato sul segno, ovvero

sull’odonimo. È il caso per esempio di piazzale Loreto, il cui nome perde

completamente la sua connotazione geografica e diventa evocativo di un sentimento di

43 G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.

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rivalsa (o vendetta, a seconda delle letture ideologiche) legato a un preciso evento

storico44.

Stesso processo di risignificazione lo hanno subito i teatri di alcuni eventi luttuosi nella

storia della nostra Repubblica: piazza Fontana o piazza della Loggia sono simboli delle

cosiddette stragi di stato, via delle Botteghe Oscure evoca un momento e una storia

politica oggi tramontati.

Infine, occorre mettere in evidenza il processo di intitolazione dal basso, che avviene

quando il popolo si vuole appropriare di un luogo per non perdere la memoria

dell’evento in esso successo. A Milano abbiamo la reintitolazione “abusiva” di via

Mancinelli in via Fausto e Iaio, con tanto di lapide apposta e imbullonata con ganci di

acciaio, a memoria dei due giovani autonomi del Leoncavallo Fausto Tinelli e Lorenzo

Iannucci, uccisi dai fascisti nel 1978, così come a Genova l’odonimo piazzaAlimonda è

stato cancellato e riscritto in piazza Carlo Giuliani, a memoria del giovane ucciso dai

Carabinieri durante le manifestazioni contro il G8 del 2001. Si tratta di fenomeni di

ritorno a un’odonomastica dal basso, spontaneamente attribuita come quella di età

preunitaria, ma portatrice della stessa funzione ideologica, politica e memoriale di cui

oramai i procedimenti di intitolazione sono inevitabili portatori, siano essi espressione

del potere costituito o della libera iniziativa popolare.

Il Risorgimento è solo l’inizio della risignificazione e della riscrittura degli spazi

pubblici con finalità propagandistiche, memoriali, politiche. Infatti la messa in discorso

della storia per le strade delle città avrà esiti interessanti sul piano della affermazione

del potere in età fascista e come testimonianza di rinnovamento e cambiamento a

partire dalla Liberazione e con l’avvento della Repubblica. Fino ai giorni nostri la

questione del conferire un nome e di conseguenza un significato altro, rispetto alla

semplice funzione d’uso di indicarne la posizione sulla mappa, allo spazio urbano si

44 Piazzale Loreto fu teatro il 10 agosto 1944, prima dell’esposizione del corpo del Duce in seguito all’esecuzione di Dongo, di un eccidio di partigiani impiccati e lasciati esposti per giorni da parte della legione Ettore Muti. Dopo la rimozione dei cadaveri, una mano ignota affisse la dicitura ‘piazza quindici martiri’ a memoria della strage. Per ritorsione e sfregio la piazza fu reintitolata dalla Repubblica sociale piazza Ettore Muti. Dopo la liberazione, per un giorno, essa fu ufficialmente piazzale dei quindici martiri, ma tornò subito all’antica denominazione, forse primo esempio di rimozione di una memoria scomoda in nome della pacificazione. Parte della storia è narrata in S. Raffaelli, I nomi delle vie, cit., la ricostruzione intera è invece affidata a fonti orali indirette.

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configura come atto pubblico complesso e interessante punto di osservazione del

divenire storico e della stratificazione della memoria nella società.