Le leggi di liquidazione dell’asse ecclesiastico nel biennio 1866-1867: un iter complesso e una...

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Le leggi di liquidazione dell’asse ecclesiastico nel biennio 1866- 1867: un iter complesso e una soluzione traumatica 2. Danilo Breschi Se le cosiddette leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850 e n. 1037 del 5 giugno 1850 dell’allora Regno di Sardegna) erano state all’insegna della dottrina del separatismo, le successive iniziative di legge ebbero un netto carattere neo-giurisdizionalista. Fra queste le più importan- ti furono la legge Rattazzi, n. 878 del 29 maggio 1855, e le cosiddet- te leggi “eversive”: la n. 3036, del 7 luglio 1866, e la n. 3848, del 15 agosto 1867. Il termine adottato fu quello di “eversione”, dalla radi- ce latina vertere, che significa: abbattere, rovesciare, sopprimere. Tutti verbi molto eloquenti. Nell’introdurre il discorso sulle leggi eversive dell’asse ecclesiastico non possiamo eludere il problema del debito pubblico, le cui vicende, come l’intera questione delle pubbliche finanze, furono determinan- ti nella vita politica, e non solo, del neonato Regno d’Italia e ne con- dizionarono consolidamento e direzione di sviluppo. 1 Nei dieci anni immediatamente successivi all’Unità, il debito pubblico salì dal 36% all’80% del PIL. 2 Se si pensa a come e in quali condizioni e sulla ba- se di quali premesse avvenne il processo di unificazione politica del- la penisola, ben si comprendono le ragioni di tale aumento. La spesa pubblica risultò fondamentale, assolutamente necessaria, per sostenere un vasto programma di opere pubbliche. Come vedremo, le date del 1866 e del 1867 non furono casuali, dal momento che tra il giugno e il luglio del ’66 si ebbe la guerra con l’Austria, dispendiosa come qual- siasi altro impegno bellico, ma per di più aggravato sul piano finan- ziario dal suo esito disastroso ed umiliante, con connesso pagamen- to delle relative indennità. Non si dimentichi, infine, che l’annessione delle province venete e di Mantova, frutto geopolitico faticosamente ottenuto proprio con quella che fu poi denominata “Terza guerra di indipendenza”, comportò anche l’incorporazione del debito dei terri- tori strappati al dominio austriaco. A causa della guerra di quell’ini- zio d’estate, definibile anche come la “prima guerra dell’Italia unita”, 3

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Le leggi di liquidazione dell’asse ecclesiastico nel biennio 1866-1867: un iter complesso e una soluzione traumatica

2.

Danilo Breschi

Se le cosiddette leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850 e n. 1037 del 5 giugno 1850 dell’allora Regno di Sardegna) erano state all’insegna della dottrina del separatismo, le successive iniziative di legge ebbero un netto carattere neo-giurisdizionalista. Fra queste le più importan-ti furono la legge Rattazzi, n. 878 del 29 maggio 1855, e le cosiddet-te leggi “eversive”: la n. 3036, del 7 luglio 1866, e la n. 3848, del 15 agosto 1867. Il termine adottato fu quello di “eversione”, dalla radi-ce latina vertere, che signifi ca: abbattere, rovesciare, sopprimere. Tutti verbi molto eloquenti.

Nell’introdurre il discorso sulle leggi eversive dell’asse ecclesiastico non possiamo eludere il problema del debito pubblico, le cui vicende, come l’intera questione delle pubbliche fi nanze, furono determinan-ti nella vita politica, e non solo, del neonato Regno d’Italia e ne con-dizionarono consolidamento e direzione di sviluppo.1 Nei dieci anni immediatamente successivi all’Unità, il debito pubblico salì dal 36% all’80% del PIL.2 Se si pensa a come e in quali condizioni e sulla ba-se di quali premesse avvenne il processo di unifi cazione politica del-la penisola, ben si comprendono le ragioni di tale aumento. La spesa pubblica risultò fondamentale, assolutamente necessaria, per sostenere un vasto programma di opere pubbliche. Come vedremo, le date del 1866 e del 1867 non furono casuali, dal momento che tra il giugno e il luglio del ’66 si ebbe la guerra con l’Austria, dispendiosa come qual-siasi altro impegno bellico, ma per di più aggravato sul piano fi nan-ziario dal suo esito disastroso ed umiliante, con connesso pagamen-to delle relative indennità. Non si dimentichi, infi ne, che l’annessione delle province venete e di Mantova, frutto geopolitico faticosamente ottenuto proprio con quella che fu poi denominata “Terza guerra di indipendenza”, comportò anche l’incorporazione del debito dei terri-tori strappati al dominio austriaco. A causa della guerra di quell’ini-zio d’estate, defi nibile anche come la “prima guerra dell’Italia unita”,3

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il disavanzo piombò a 721 milioni di lire, che sarebbe poi risultato il più pesante del primo cinquantennio unitario.4 Non fu un caso che la prima delle due leggi eversive fu approvata quattro giorni dopo la sconfi tta di Custoza. Motivo economico e fi nanziario, certamente, ma anche politico; un tentativo di rapida rilegittimazione presso un’opi-nione pubblica profondamente scossa e umiliata.

Che però il problema fi nanziario non fosse, o meglio, non venisse avvertito con particolare urgenza nei primi mesi successivi alla procla-mazione del Regno d’Italia, lo confermerebbe il fatto che ci si limitò ad estendere ai nuovi territori la legge sarda del 1855, la quale stabi-liva la soppressione di alcune corporazioni religiose, il conseguente versamento del loro patrimonio in una Cassa ecclesiastica, incarica-ta, poi, del pagamento delle pensioni ai religiosi delle case soppresse e delle congrue ai parroci indigenti. Tale provvedimento di semplice estensione fece entrare nelle casse dello Stato italiano un contributo di beni ecclesiastici assai modesto. Ciò, tra l’altro, stava proprio a si-gnifi care che scopo principale, se non esclusivo, del provvedimento era stato quello di sgravare lo Stato di ogni onere sopportato a fa-vore del clero.

Va detto, peraltro, che l’estensione di questa legislazione non fu uni-forme ed omogenea su tutto il territorio nazionale ma si diversifi cò. In Lombardia, ad esempio, le corporazioni religiose poterono continuare a disporre liberamente dei propri beni per la XVI clausola del tratta-to di Zurigo. In Sicilia, invece, il Governo ritenne più opportuno non applicare nemmeno una minima parte del provvedimento. Nemmeno dopo l’allocuzione pontifi cia del 18 marzo 1861, Cavour aveva ab-bandonato il proprio programma di trattative con la Chiesa di Roma, direttamente o per il tramite della Francia.

Scriveva Vincenzo Salvagnoli, ministro degli Affari ecclesiastici in To-scana, nella circolare del 27 gennaio 1860, in merito ai motivi dell’an-nullamento della convenzione conclusa il 25 aprile 1851 dal granduca Leopoldo II con la Curia romana:

Il presente governo della Toscana vuol che lo Stato sia religioso, ma indi-pendente, e che la religione cattolica goda di tutta libertà che l’è dovuta, perché il suo esercizio spirituale adempia ai fi ni del regno celeste, e non serva alle miserie della terra. Esso vuole inoltre che il Sommo pontefi ce e il sacerdozio abbiano ogni modo legittimo per dare l’esempio del come si concilii la religione con la libertà, e i benefi zi della civiltà con la san-tità del cristianesimo.5

Dal canto suo, «La Civiltà cattolica» ribatteva in un articolo del 1861: «Ma tant’è: se per libertà s’intende quella che oggi pretendesi dal liberalismo, libertà e cristianesimo sono cose incompossibili [sic]».6 Nell’ottobre di quello stesso anno Silvio Spaventa scriveva in una let-tera al fratello Bertrando:

Le questioni politiche importanti sono sempre a Roma e l’ordinamento interno dello Stato. Si comincia a dubitare forte se Ricasoli sia all’altez-

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za dell’una e dell’altra. Per Roma si ritiene da tutti che dopo la morte di Cavour non si sia fatto niun passo innanzi.7

Nella seduta del 14 febbraio dell’anno successivo, 1863, Marco Min-ghetti poteva dire che «la questione fi nanziaria primeggia e sovrasta in questo momento su tutte le altre».8 E mostrava di alludere alla questio-ne romana quando, insistendo, sviluppava il seguente ragionamento:

[sovrasta] perfi no quelle questioni politiche, la soluzione delle quali forma il supremo intento dei nostri pensieri, ove intendiamo consacrare tutti i no-stri sforzi; persino quelle questioni che sembrano in questo momento pas-sare innanzi alla stringente necessità dell’interno ordinamento. La fi nanza è come il fato degli antichi, che i volenti conduce e i ripugnanti trascina.9

Insieme ai beni demaniali, il patrimonio ecclesiastico costituì a lungo la risorsa principale per quelle spese straordinarie alle quali il neonato Stato unitario non si poteva sottrarre. Lo affermava esplicitamente la relazione Vacca-Sella al progetto di legge per la soppressione delle cor-porazioni religiose, presentato alla Camera il 12 novembre del 1864 dal ministro di Grazia, Giustizia e Culti, Giuseppe Vacca, d’intesa con l’allora ministro delle Finanze, ovvero Quintino Sella. Questo l’esat-to titolo del progetto: “Soppressione delle corporazioni religiose e di altri enti morali ecclesiastici od intervienti al culto”. Queste le parole con cui Sella ne accompagnò la presentazione:

Signori, il nuovo disegno di legge per la soppressione delle corporazioni religiose e di altri enti morali e per l’ordinamento dell’asse ecclesiastico, che di conserva col mio onorevole collega ministro delle Finanze mi pre-gio di rassegnarvi, muove sostanzialmente dal principio stesso a cui si in-formava quello che vi fu presentato dal mio onorevole predecessore nella tornata del 18 gennaio di quest’anno, e che già era stato tolto in esame e in varie parti modifi cato dalla vostra commissione; cioè dal principio che lo Stato ha piena facoltà di disporre circa l’esistenza degli enti morali e circa i beni ecclesiastici. Però in questo nuovo disegno di legge si traggo-no da quel principio conseguenze di maggior portata, ed ammettendosi le disposizioni principali del primo … altre se ne aggiungono che scatu-riscono dalle più larghe conseguenze del principio anzidetto, e danno un suo proprio carattere alla nuova proposta.10

Sella poi, nel precisare la struttura del disegno di legge, proseguiva nei seguenti termini:

Di due distinte parti consta questo disegno di legge: l’una riguardante la soppressione delle corporazioni religiose e di altri enti morali ecclesiastici od inservienti al culto, l’altra riguardante l’ordinamento dell’asse eccle-siastico. Nella prima parte si prese principalmente indirizzo dalle modifi -cazioni introdotte dalla vostra commissione nel primitivo disegno, tranne in ciò che concerne alla devoluzione dei beni degli enti soppressi, circa la quale si partì dal concetto di provvedere agli urgenti bisogni dello Stato;

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nella seconda si ebbe presente in ispecie questo medesimo concetto, e si procacciò di coordinarlo all’intendimento di costituire un fondo suffi -ciente pel culto e di migliorare la condizione dei parroci.11

Bisogna aggiungere che lo slittamento di provvedimenti legislativi in materia ecclesiastica fu determinato anche dalla necessità di conce-dere alla Cassa ecclesiastica, istituita con la legge sarda del 29 maggio 1855 (n. 878) in conseguenza delle leggi Siccardi ed estesa al nuovo Regno d’Italia, quel tempo necessario a compiere in Umbria, Marche e nelle Province Napoletane l’applicazione dei decreti dell’11 dicem-bre 1860, del 3 gennaio e del 17 febbraio 1861, con i quali furono soppresse in tali province alcune categorie di ordini religiosi e di altri enti morali ecclesiastici. Inoltre, gli anni immediatamente antecedenti ai due grandi provvedimenti adottati nel biennio 1866-1867 furono utilizzati dalla stessa Cassa ecclesiastica per consolidare l’assetto del-la propria struttura amministrativa e per verifi care se fosse o meno in grado di adempiere in modo adeguato agli scopi della sua istituzione.

Bisognava inoltre lasciare che si sviluppassero su larga scala sia le operazioni di vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici ordinate con la legge del 21 agosto 1862, sia quelle relative all’enfi teusi dei beni rurali ecclesiastici di Sicilia (ordinate con legge del 10 agosto 1862).

Il ritardo nell’approvazione di misure generali, infi ne, fu motiva-to, oltre che dalle vicende sopra narrate, anche dal fatto che i governi immediatamente postunitari dovettero avere il tempo necessario per raccogliere notizie sulla qualità e quantità delle istituzioni ecclesiasti-che fi no a quel momento esistenti nelle diverse province della peniso-la annesse, nonché sulla entità dei beni che ne costituivano l’effettiva dotazione, così come sulla entità degli eventuali oneri che vi gravava-no, in modo tale che risultasse più agevole al legislatore determinare le istituzioni nei confronti delle quali operare in termini di soppressione. Quel che trascorse dal 1862 al 1866 fu dunque anche un «periodo di studi e di preparazione».12

La convenzione di settembre, stipulata il 15 settembre del 1864 tra il Regno d’Italia e il Secondo Impero di Francia, prevedeva il graduale ritiro dei francesi da Roma in cambio dell’impegno italiano di non ag-gredire lo Stato pontifi cio e, con una clausola segreta, lo spostamento della capitale da Torino a Firenze quale segno tangibile della rinuncia a Roma. A seguito del trasferimento della capitale si formò in Piemonte l’Associazione Liberale Permanente, a cui aderirono molti uomini della Destra subalpina (ad eccezione di alcune importanti personalità, quali Lanza, Sella e La Marmora), ma anche alcuni esponenti della Sinistra. Questa associazione ebbe come scopo quello di sostenere l’azione per Roma capitale, ed assunse, inoltre, una posizione di fronda rispetto al Governo e agli altri gruppi della Destra. Loro obiettivo era la difesa degli interessi di Torino e del Piemonte. Di fatto, si assistette durante il periodo intercorso tra la fi ne del 1864 e la prima metà del 1865 al-la disgregazione del vecchio assetto cavouriano, mentre si riacuirono i contrasti tra i vari gruppi regionali.13

La maggioranza governativa uscì pertanto indebolita dalle elezio-

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ni che si tennero nell’ottobre del 1865. Sella, ministro delle Finanze di quel Governo, si trovò così impossibilitato a portare avanti alcuni progetti fi nanziari. Nel dicembre successivo Alfonso La Marmora ras-segnò pertanto le dimissioni, ma il re le respinse riconfermandogli la fi ducia. Nacque così il terzo governo La Marmora, in cui non erano però più presenti né Lanza né Sella, fi nendo per risultare ancora più debole di prima. Sarebbe comunque durato dal 31 dicembre del 1865 al 20 giugno successivo. Il dicastero delle Finanze fu affi dato ad An-tonio Scialoja, eminente economista.

Nel frattempo, le questioni di politica estera presero il sopravvento a causa dell’inasprirsi delle tensioni tra Austria e Prussia, a loro volta conseguenza della guerra che aveva portato le due potenze alla con-quista dello Schleswig-Holstein ai danni del Regno di Danimarca. La questione del dominio e della gestione delle terre prese aprì crepe nei rapporti diplomatici austro-prussiani. Era il primo successo del can-cellierato di Otto von Bismarck.14

L’8 aprile del 1866 l’Italia strinse l’alleanza con la Prussia allo scopo di colpire l’Austria in un suo momento di indubbia diffi coltà, anche per le tensioni in Ungheria che avrebbero portato l’anno seguente al cosiddetto Ausgleich (compromesso) tra la monarchia asburgica e la nobiltà magiara con la creazione di un Parlamento indipendente a Bu-dapest ed un Ministero per gli Affari Comuni (Finanze, Difesa, Esteri). Obiettivo dell’alleanza italo-prussiana era la conquista, e annessione, del Veneto. Lo stesso Napoleone III fece intendere di non essere ostile ad una simile alleanza, anche perché in cuor suo sperava di poterne ricavare qualche vantaggio territoriale, in particolare nell’area renana.

Approssimandosi lo scoppio delle ostilità, La Marmora lasciò l’in-carico di presidente del Consiglio per assumere quello di capo dello stato maggiore dell’esercito. Rientrò così in scena Bettino Ricasoli. Il ricorso al barone toscano fu motivato dal fatto che da parte del re e del suo entourage si cercava un “uomo forte”, in grado di tenere sotto controllo la situazione interna durante lo svolgimento dello scontro bellico. Una sorta di gabinetto di guerra super partes.15

Il 24 giugno 1866 si svolse la battaglia di Custoza che, come ab-biamo detto, si risolse in un disastro per l’esercito italiano. Fortuna-tamente, ai fi ni complessivi della posizione internazionale del Regno sabaudo, il 3 luglio i prussiani sconfi ssero nettamente gli austriaci a Sadowa. Il giorno successivo Vienna chiese a Napoleone III di svol-gere opera di mediazione e offrì all’Italia il Veneto a patto che essa si ritirasse dal confl itto. Accettata la mediazione di Napoleone III da parte della Prussia, l’Italia fu costretta ad adeguarsi. Mentre si svol-gevano queste trattative, da parte italiana si cercò di recuperare sul piano militare, ma giunse una cocente sconfi tta sul mare, a Lissa, il 20 luglio. Il giorno seguente, la Prussia fi rmò una tregua con il Go-verno austriaco; l’Italia si accodò cinque giorni dopo, il 26 luglio. Il 12 agosto fu fi rmato l’armistizio di Cormons, a cui seguì la pace di Praga (23 agosto) fra Prussia ed Austria, dove, tra l’altro, si stabilì la cessione del Veneto all’Italia tramite Napoleone III, in virtù anche del fatto che l’Italia era uscita sconfi tta sul campo. Questa clausola fu ri-

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badita dal trattato di pace di Vienna fra Austria ed Italia (3 ottobre 1866). Il 21 ottobre un plebiscito sanciva l’avvenuta annessione del Veneto al Regno italiano.

L’esito disastroso delle due sconfi tte e dell’intero confl itto per il giova-ne Regno acuì il malcontento popolare, già alimentato da una pesante crisi economica e fi nanziaria. Questa ulteriore guerra, dopo quella del 1859-1860, aveva aggravato le fi nanze dello Stato. Già nel maggio del 1866 era stato necessario ricorrere al corso forzoso dei biglietti della Banca Nazionale per impedire che i privati, accorrendo in massa a far convertire in oro i loro biglietti, potessero trascinare nella rovina la Banca stessa che, non dimentichiamolo, era l’istituto che provvedeva ai pagamenti in oro all’estero. Il provvedimento così preso provocò una svalutazione della moneta cartacea italiana ed un aumento dei prezzi, soprattutto per quel che concerneva le merci provenienti dall’estero e che potevano perciò essere acquistate soltanto con moneta aurea. Co-me è stato osservato,

la Banca Nazionale concedette un prestito di duecentocinquanta milio-ni ma esercitò forti pressioni perché si sospendesse la convertibilità dei suoi biglietti nella moneta metallica, l’oro e l’argento. E così rimase sta-bilito quando un regio decreto del 1° maggio 1866 sancì il corso forzo-so dei biglietti.16

Secondo alcuni osservatori, gli unici soggetti che trassero qualche

benefi cio da tale provvedimento (che sarebbe rimasto in vigore assai a lungo) furono le industrie nazionali, ma i salari dei lavoratori risul-tarono comunque ridotti nel loro potere d’acquisto, così come subì una diminuzione l’affl usso di capitali dall’estero. Come ha osservato Gianni Marongiu, il corso forzoso, tra il 1866 e il 1874,

determinando una differenza tra prezzi interni e prezzi esteri, che si tra-duceva in una protezione media del dieci per cento all’industria italiana, allentò le punte più aspre della concorrenza straniera, consentendo, con l’aumento delle esportazioni, un miglioramento della bilancia commer-ciale italiana.17

Tenuto conto del momento di scarsa credibilità del giovanissimo Re-gno d’Italia sul piano fi nanziario, con i capitali stranieri disinvestiti, si optò per l’emissione di cartamoneta e l’accrescimento delle imposte, rispetto all’altra possibile scelta, ossia emettere rendita e abbandonare il pareggio. In tutto questo scenario, si tenga conto inoltre che il tra-sferimento della capitale aveva innescato una serie di importanti ope-re pubbliche che avevano ulteriormente appesantito il bilancio dello Stato, che adesso subiva questo aggravamento aggiuntivo.

Tra le esplosioni di quel malcontento che la disastrosa estate del 1866 provocò, ci fu soprattutto l’insurrezione scoppiata a Palermo nel settembre, repentinamente repressa nel sangue dall’esercito appo-sitamente inviato da Firenze. Come ha sottolineato Marongiu, il 1866 fu un anno stretto tra due fuochi: la crisi dei mercati europei, da una

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parte, e la Terza guerra d’indipendenza, dall’altra. Nel marzo 1866, infatti, sopraggiunse una crisi fi nanziaria molto grave, «una delle più gravi che mai avesse sconvolto i mercati d’Europa, che pose fi ne alla libera convertibilità della lira».18

Fu esattamente per ovviare a questa gravissima situazione fi nanziaria che già prima della guerra era stato ripreso il dibattito sul problema della liquidazione dei beni ecclesiastici. Tornarono alla ribalta anche le diatribe ideologiche.

La teoria giurisdizionalistica considerava il sovrano quale proprie-tario sostanziale anche di tutti i beni ecclesiastici. Per questo motivo, lo Stato aveva la facoltà di incamerare tali beni con apposite leggi. Il giurisdizionalismo fu, di fatto, la base giuridica delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico emanate nel 1855 all’interno del Regno di Sar-degna e poi, nel 1866 e 1867, nel Regno d’Italia, nonché successiva-mente estese anche a Roma e al suo territorio, dopo l’annessione dei territori dello Stato pontifi cio all’indomani del 20 settembre del 1870.

Se rileggessimo le discussioni parlamentari e i dibattiti accesisi nella pubblicistica di quell’epoca, riscontreremmo una pluralità di argomen-tazioni politiche ed ideologiche. Accanto alla valutazione dell’oppor-tunità economica di porre fi ne alla manomorta ecclesiastica in modo da rendere più e meglio sfruttabile la terra così liberata e “liberalizza-ta”, troveremmo giudizi sprezzanti nei confronti degli ordini religiosi contemplativi, considerati come socialmente inutili. Non mancava poi l’idea che fosse necessario e possibile, tramite provvedimenti eversivi dell’asse ecclesiastico, agire, sia pure indirettamente, sulla vita interna della stessa Chiesa, favorendone una riforma che la ponesse al passo con i tempi postrivoluzionari.

Questo dibattito giunse fi nalmente ad un esito concreto con la pro-mulgazione del Regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli ordini e delle corporazioni religiose, in esecuzione della legge del 28 giugno 1866, n. 2987. La legge approvata era lo stralcio di un più vasto progetto del ministro di Grazia e Giustizia, Paolo Cortese, e di quello delle Finanze, Sella, risalente al 13 dicembre 1865 e che era stato successivamente modifi cato.19 Per altri aspetti ricalcava la legge emanata nel Regno di Sardegna nel 1855. Limitandosi alle con-gregazioni religiose (conventi e monasteri), e non coinvolgendo altri enti ecclesiastici, la legge stabiliva che tutti i beni appartenenti alle congregazioni e agli ordini religiosi venissero espropriati e incame-rati dal demanio statale, e contemporaneamente fu sancito l’obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a fa-vore del Fondo per il culto, che andò a sostituire la precedente Cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna. Questa rendita avrebbe dovuto essere corrispondente alla vendita presunta dei beni espropriati. Si stabilì, infatti, che sarebbe stata lasciata ai membri di questi ordini e comunità soppresse una pensione che sarebbe stata ricavata proprio dai redditi ottenuti da quella vendita. Il Fondo per il culto avrebbe dunque dovuto provvedere alle pensioni da erogare al clero escluso dai conventi, nonché occuparsi della gestione patrimoniale dei beni degli enti soppressi. Inoltre,

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il relativo regolamento, promulgato il 21 luglio 1866, defi nì struttura e competenze dell’Amministrazione del Fondo per il Culto, le modali-tà procedurali per “la presa di possesso”, la liquidazione e il pagamento delle pensioni e degli assegnamenti a religiosi degli ordini soppressi o al-trimenti a carico del fondo per il culto, e da ultimo la differenza fra beni demanializzati e beni convertiti, le rendite dei quali venivano convertite in titoli del debito pubblico.20

La Cassa ecclesiastica fu quindi soppressa e i suoi beni trasferiti al nuovo Fondo per il culto, amministrato, sotto la dipendenza del mini-stro di Grazia e Giustizia, da un direttore, assistito da un consiglio di amministrazione, nominati tutti per Regio decreto.

Fu inoltre istituita una commissione di vigilanza, composta di tre senatori e di tre deputati, eletti ogni anno dalle rispettive camere, e di tre membri nominati, su proposta del ministro dei Culti, dal re, che ne designava pure il presidente. Questa commissione aveva l’alta ispe-zione delle operazioni concernenti il Fondo per il culto, e su queste era tenuta a consegnare annualmente al re una relazione, distribuita anche al Parlamento. L’Amministrazione del Fondo per il culto era in-caricata di sorvegliare la presa di possesso dei beni, di provvedere alla liquidazione e al pagamento delle pensioni e degli assegnamenti con-cessi in base alla legge. Doveva altresì provvedere alla ripartizione e alla consegna della rendita e dei beni, nonché alla conservazione e re-stituzione di mobili ed immobili il cui usufrutto fosse stato concesso agli investiti di enti morali soppressi.

Furono esentati dalla devoluzione al demanio e dalla conversione gli edifi ci ad uso di culto, da conservarsi a questa destinazione, insieme ai quadri, le statue, mobili ed arredi sacri presenti all’interno. Esentati anche gli episcopi, i fabbricati dei seminari e gli edifi ci utilizzati a fi -ni abitativi dagli investiti degli enti morali, con le relative dipendenze, fi nché fosse durato l’uso temporaneo a questo concesso.

I fabbricati di conventi soppressi, che alla pubblicazione della legge erano già occupati dallo Stato per pubblico servizio, ai termini delle leggi 22 dicembre 1861 e 24 dicembre 1864, e quelli i quali per dispo-sizione della legge di soppressione, una volta sgomberati dai religiosi, dovevano essere ceduti ai comuni e alle province che ne avessero fatto domanda in tempo utile, giustifi cando il bisogno e l’uso come scuole, asili infantili, ricoveri di mendicità, ospedali ed altre opere di benefi -cenza e pubblica utilità sul territorio comunale o provinciale.

In forza della nuova legge, inoltre, ai religiosi e alle religiose che ave-vano fatto nello Stato regolare professione di voti solenni e perpetui pri-ma del 18 gennaio 1864, e che appartenevano, al momento della pub-blicazione della legge, a case religiose esistenti nel Regno, fu concesso un assegno annuo diversamente graduato, a seconda che si trattasse di ordini possidenti o di mendicanti, oppure di religiosi sacerdoti o religio-se coriste, oppure di laici e converse. Diverso trattamento per coloro che avessero fatto soltanto regolare professione di voti solenni e temporanei.

Sopprimendo le congregazioni religiose se ne negava dunque la per-sonalità giuridica e, conseguentemente, la titolarità del diritto di pro-

ricontrollare il periodo: non chiaro

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prietà di terre, conventi e monasteri. In base all’articolo 20 della legge, i fabbricati conventuali incamerati dallo Stato avrebbero dovuto essere alienati oppure concessi ai comuni e alla province, previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità entro il termine di un anno dalla presa di possesso. Dunque, le fi nalità potevano essere quelle della realizzazione, ad esempio, di ospedali, asili e scuole, ma anche di carceri e caserme. Nel contempo, stante l’articolo 24, i libri e i fondi documentari pre-senti in tali edifi ci sarebbero stati depositati nelle biblioteche comu-nali e nei musei civici, nuovi istituti di conservazione allora fondati, e gestiti, dalle rispettive province. Indubbia fu un’ampia dispersione del patrimonio culturale religioso, anche se nacquero su tale scia molte pinacoteche comunali su tutto, o quasi, il territorio nazionale.21

Si trattò di poco più di 1800 comunità religiose. Un’indagine con-dotta nel 1879 e relativa alle case monastiche accertò che, a partire dal 1855, ne erano state soppresse 4056, in cui avevano fi n ad allora vissuto 57 492 membri.22 Secondo alcune stime, comunque approssi-mative, si è calcolato che nell’Italia di fi ne Ottocento nove edifi ci pub-blici su dieci fossero beni incamerati.23

Esentati dalla devoluzione al demanio e dalla conversione furono anche gli edifi ci sacri, con le loro adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti d’arte, strumenti scientifi ci e simili, della Badia di Montecassino, della Cava dei Tirreni, di San Martino della Scala, di Monreale, della Cer-tosa presso Pavia e di altri analoghi conventi e chiese che si distingue-vano per il rilievo monumentale e per il complesso dei tesori artistici e letterari posseduti.24 Inoltre, si stima che, complessivamente, furono immessi sul mercato e ceduti a prezzi stracciati alla grande borghesia terriera oltre 3 milioni di ettari (2,5 nel Sud).25

Quel che però restava da stabilire era in quale modo si dovesse pro-cedere alla liquidazione di quei beni e rimaneva altresì da risolvere il problema della destinazione da dare ad altre istituzioni ecclesiastiche, come i canonicati e i benefi ci, e relativi redditi.

Ricasoli aveva pensato di discutere le questioni sul tappeto diret-tamente con lo Stato pontifi cio. Nel dicembre del 1866 presero dun-que avvio delle trattative che il barone toscano affi dò all’ex deputa-to, e ora consigliere di Stato, Michelangelo Tonello,26 e che intendeva condurre sulla base del principio separatista cavouriano a cui egli era rimasto sempre fedele. A tale proposito, sollecitò i ministri della Giu-stizia e delle Finanze, rispettivamente Francesco Borgatti27 e Antonio Scialoja,28 affi nché elaborassero un progetto di legge che affrontasse la questione patrimoniale del clero e intervenisse sulla “libertà della Chiesa e sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico”.

Il progetto fu presentato alla Camera il 17 gennaio 1867. In esso si stabiliva che lo Stato rinunciava ad intervenire nella nomina dei vescovi e così pure al placet e all’exequatur. La Chiesa, dal canto suo, doveva rinunciare alla pretesa di attribuire effi cacia normativa all’interno dello Stato italiano al proprio diritto e alle proprie costituzioni. Per quanto riguardava l’aspetto patrimoniale, il progetto prevedeva per la Chiesa il divieto di possedere beni immobili non legati all’esercizio del culto, e la conversione dei beni immobili, incamerati e da incamerare, in beni

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mobili. Da sottolineare che ciò doveva avvenire per opera della Chiesa stessa, secondo un principio genuinamente liberale e separatista di non ingerenza laico-statale nella vita della Chiesa cattolica.

Pertanto, si stabiliva un tempo di ben dieci anni per i vescovi, entro i quali essi avrebbero potuto (e dovuto) vendere il patrimonio ecclesia-stico, pagando allo Stato la somma di 600 milioni di lire e destinando il rimanente ai bisogni del clero. Ci si intendeva avvalere della media-zione del banchiere belga Lagrand-Dumonceau,29 il quale si era offerto – mediante apposita cauzione – di anticipare allo Stato la cifra in que-stione. Più precisamente, il Governo aveva stipulato una convenzione col banchiere, il quale, «se i vescovi avessero accettato la liquidazione proposta, avrebbe assunto l’impresa per la commissione del dieci per cento e assicurato all’erario i seicento milioni».30

Il progetto suscitò le animate proteste sia della Sinistra sia di diversi gruppi della Destra, timorosi che la Chiesa potesse in tal modo acqui-stare una eccessiva libertà d’azione. Quest’ultima si unì nell’opposi-zione al progetto. Di fronte a questi dissensi, che si estesero a buona parte dell’opinione pubblica, nel febbraio del 1867 Ricasoli rassegnò pertanto le dimissioni, ma esse furono respinte dal re, che lo reincari-cò di formare un nuovo esecutivo. Vittorio Emanuele II sciolse allora la Camera dei deputati e indisse nuove elezioni per il 10 marzo, con l’intento di riuscire a rafforzare la maggioranza a sostegno dell’ese-cutivo. L’esito delle urne, precedute da una campagna elettorale nella quale il progetto Borgatti-Scialoja fu al centro del dibattito e delle po-lemiche, non corrispose però alle aspettative. Impossibilitato a forma-re un Governo che lo potesse sostenere con forza e decisione, Ricasoli tentò quale ultima carta l’ingresso nell’erigendo Governo della fi gura di Quintino Sella, in qualità di ministro delle Finanze. Contrario alla politica draconiana che quest’ultimo avrebbe senz’altro introdotto in materia fi scale, Vittorio Emanuele II si oppose alla richiesta ricasolia-na, negando il proprio assenso, in piena conformità a quanto il dettato statutario gli consentiva. A questo punto, Ricasoli non poté far altro che rassegnare nuovamente le dimissioni il 4 aprile. Il mandato venne così affi dato dal re ad Urbano Rattazzi, uomo assai vicino a Vittorio Emanuele II. Nel frattempo, crescevano le voci circa il rischio sempre più prossimo di bancarotta.

La ricerca di una soluzione fi nanziaria che attingesse all’asse eccle-siastico, la cui liquidazione era ancora da portare a termine, fu nuova-mente la via prescelta, anche perché da poco intrapresa e bruscamen-te interrotta e rimasta perciò parziale. Inizialmente, Rattazzi incontrò diffi coltà analoghe a quelle che avevano sconfi tto Ricasoli e il proget-to Borgatti-Scialoja da questi promosso. Il nuovo presidente del Con-siglio pensò bene, allora, di abbandonare la posizione rigorosamente separatista, e liberale. Il neonominato ministro delle Finanze, l’econo-mista Francesco Ferrara, presentò pertanto un suo progetto, in cui si riproponevano alcuni punti della precedente iniziativa nata sotto l’au-spicio ricasoliano. Il progetto di Ferrara intendeva, in sostanza, lascia-re che fosse la Chiesa a gestire la liquidazione del proprio patrimonio nonché l’utilizzo dei ricavi, e ciò secondo un’ottica che si confermava

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di tipo separatista. Tale gestione autonoma si sarebbe compiuta una volta che la Chiesa avesse pagato allo Stato un adeguato contributo a titolo di imposta straordinaria. L’idea era, insomma, quello di sostitu-ire all’incameramento la tassazione del patrimonio ecclesiastico, per ottenere un gettito che fu valutato in circa 600 milioni.31

Ancora una volta, il progetto non piacque alla maggioranza par-lamentare, che lo giudicò troppo indulgente e accondiscendente nei confronti della Chiesa. Conseguentemente, e coerentemente, a tale bocciatura, Ferrara rassegnò le proprie dimissioni. Rattazzi assunse allora l’interim delle Finanze. Di fronte ad un disavanzo previsto in crescita di circa 220 milioni, e trovando un possibile sostegno presso i banchi della Sinistra parlamentare, il presidente del Consiglio deci-se di abbandonare ogni residua pregiudiziale separatista e di rendersi disponibile a sostenere posizioni giurisdizionaliste.

Si giunse così alla legge 3848 del 15 agosto 1867, «per la soppressio-ne di enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico». Questa legge sarebbe poi rimasta alla base dell’ordinamento giuridico italiano fi no al 1929, anno in cui sarebbero poi stati siglati i Patti lateranensi tra Regno d’Italia e Chiesa cattolica.

Con questa legge dell’agosto 1867 Rattazzi provvide alla soppres-sione, e dunque alla privazione del riconoscimento giuridico, di altri enti ecclesiastici, come i capitoli di chiese collegiate, canonicati e cap-pellanie di patronato regio e laicale dei capitoli cattedrali, abbazie e priorati, le prelature, fondazioni e legati per oggetto di culto. Le pro-prietà soppresse sarebbero passate per il 70% ai comuni e per il 30% allo Stato.32 In tutto si trattò di circa 25 000 istituzioni, fornite di un proprio patrimonio ma prive di cura d’anime. Da tale provvedimen-to restarono pertanto esclusi i seminari, la maggior parte dei capitoli cattedrali, le parrocchie, i canonicati, le fabbricerie e le confraternite. Al tempo stesso si era stabilito che i beni così incamerati dal demanio fossero divisi e venduti in piccoli lotti. Si stabilì, altresì, che soltanto un decimo del prezzo doveva essere versato al momento dell’acqui-sto, mentre il resto doveva essere pagato a rate in diciotto anni, con un interesse pari al 6%.

La legge non riconosceva più come enti morali:1. i capitoli delle chiese collegiate, le chiese ricettizie, le comuníe e

le cappellanie corali, ad eccezione di quelle che prestavano cura d’a-nime, nel cui caso si riconosceva un solo benefi cio curato oppure una quota curata di massa per congrua parrocchiale;

2. i canonicati, i benefi ci e le cappellanie di patronato regio e laicale dei capitoli delle chiese cattedrali;

3. le abbazie e i priorati di natura abbaziale;4. i benefi ci che, per tipologia di fondazione, non prevedessero una

cura d’anime attuale;5. le prelature e le cappellanie ecclesiastiche o laicali;6. le istituzioni con carattere di perpetuità, che «sotto qualsivoglia

denominazione o titolo erano generalmente qualifi cate come fondazioni o legati pii per oggetto di culto, ad eccezione delle fabbricerie ed altre opere destinate alla conservazione dei monumenti ed edifi ci sacri».33

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Si mantennero in vita le confraternite, così come, per quanto concer-ne gli istituti di natura mista, non venne soppressa la parte destinata alla benefi cenza, sottoposta a regolamentazione secondo quanto sta-bilito dalla legge sulle opere pie del 3 agosto 1862. È stato calcolato che la legge soppresse circa 25 000 enti ecclesiastici che non si occu-pavano della cura d’anime.34

A differenza di quanto previsto dal progetto Borgatti-Scialoja, che proponeva una rigorosa separazione tra Regno d’Italia e Chiesa catto-lica, la legge del 1867 ribadiva sostanzialmente modalità ed estensione del controllo esercitato dallo Stato sulla vita della Chiesa.35 L’intento evidente del provvedimento era quello di offrire ai contadini nullate-nenti la possibilità di diventare piccoli proprietari. Sotto questo profi -lo, però, la legge non raggiunse lo scopo prefi ssato. La maggior parte di quei terreni fu infatti vinta alle aste dai grandi possidenti oppure da speculatori. Una piccola parte di essi fi nì a gruppi di contadini, ma risultò essere quella meno redditizia. Peraltro, non poche di queste terre tornarono a coloro che, ad usura, avevano prestato ai contadini i soldi necessari per l’acquisto di quelle terre, degli attrezzi, del bestia-me e delle sementi.

Secondo alcuni critici, la legge non perseguì, dunque, la fi nalità so-ciale per la quale era stata anche concepita, né contribuì ad alleggerire in maniera sensibile la gravissima situazione fi nanziaria dello Stato.36 D’altro canto, va però detto che Rattazzi non aveva inteso inasprire la pressione fi scale, limitandosi all’emissione delle obbligazioni fondiarie sui beni ecclesiastici appena espropriati.

Secondo le stime fornite da Marongiu, invece, l’insieme di provve-dimenti adottati con la legge del 1867 furono effi caci e profi cui, «per-ché lo Stato, quindici anni dopo, registrò un provento complessivo di più di quattrocento milioni di lire, dei quali ben cinquanta nel 1868 e quaranta nel 1869, e cioè nei primi due anni delle vendite». E non si trattò solamente di

un duro colpo inferto alla potenza economica della Chiesa, fondata essen-zialmente su un vastissimo patrimonio terriero inalienabile: fu la consacra-zione della rivoluzione borghese che, iniziata dalle riforme illuministiche e napoleoniche, il movimento nazionale italiano aveva seguito dal 1848.37

Secondo i dati forniti dagli «Annali di Statistica», curati dal Mini-stero di Agricoltura, Industria e Commercio, il Fondo per il culto, con la rendita e con i beni che gli attribuiva la legge del 1866, fu posto in grado di sostenere tutti i pesi che la legge stessa gli aveva addossati, compreso il defi cit di 650 180 lire lasciato dalla cessata Cassa ecclesia-stica. Secondo le cifre fornite nei decreti ministeriali applicativi della legge del 7 luglio 1866, l’ammontare della rendita effettivamente pas-sata al demanio sarebbe stata eguale a 8 154 009 milioni di lire, di cui 6 182 074 provenivano dal patrimonio regolare, e 1 971 935 lire dal patrimonio secolare.38

Diverso invece il discorso per la legge del 15 agosto 1867. L’imposi-zione sul patrimonio ecclesiastico di una tassa straordinaria del 30%

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in favore dello Stato, eccettuando solamente i beni delle confraternite e dei benefi ci parrocchiali, fruttò alle casse dello Stato ottimi introiti. Assai meno redditizio fu, al contrario, l’innesto sulla vendita dei beni dell’operazione fi nanziaria delle obbligazioni ecclesiastiche. Quest’ul-tima avrebbe dovuto far entrare anticipatamente una somma effetti-va di 400 milioni di lire. I problemi sorsero a causa di vari motivi. In primo luogo, gli offerenti all’asta per l’acquisto di beni, i quali non fossero stati provvisti di mezzi per pagarne anticipatamente il prez-zo, erano posti in condizione molto inferiore a quella degli offerenti che fruivano di tutti i vantaggi concessi a chi poteva saldare il prezzo nell’anno stesso dell’acquisto. Venivano infatti accordati abbuoni del 7 o 3% ai compratori capaci di estinguere anticipatamente e intera-mente il prezzo dei beni. Il venditore, in questo caso lo Stato, fi nì per rimetterci, almeno parzialmente.

In secondo luogo, il Tesoro sostenne una spesa piuttosto ingente per «fabbricare e vendere» le obbligazioni ecclesiastiche, le quali (somman-do gli sconti, gli abbuoni e le provvigioni ai sottoscrittori e ai sindacati di banchieri) avrebbero raggiunto, a fi ne 1877, la somma di 4 642 648 di lire. Una spesa, insomma, «molto prossima all’1 per cento del totale capitale nominale emesso».39 In terzo luogo, poi, vi fu la differenza tra il prezzo nominale e il prezzo di vendita delle obbligazioni, differenza che, sempre alla fi ne del 1877, era di 71 632 492 di lire, in relazione ai 380 771 600 di capitale nominale già alienato.40

Sempre in data 31 dicembre 1877 questi erano i dati relativi agli enti morali ecclesiastici, e loro beni immobili e mobili, assoggettati al-le sanzioni delle leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867: il numero delle corporazioni religiose soppresse ammontava a 2179 per una rendita dei beni immobili pari a 6 861 598 di lire e una rendita dei beni mobili pari a 7 799 623 di lire. Inoltre, il numero degli altri enti ecclesiastici soppressi ammontava a 34 852, per una rendita dei beni immobili pari a 8 847 946 di lire e dei beni mobili pari a 7 767 139 di lire. Il numero di enti ecclesiastici conservati e assoggettati alla conversione dei beni immobili era pari a 16 121. In Toscana, in particolare, le corporazioni religiose soppresse risultavano 266 al 31 dicembre del 1877, mentre 6545 erano gli altri enti ecclesiastici aboliti; 485 erano invece gli en-ti ecclesiastici che nella stessa regione risultavano conservati e assog-gettati alla conversione dei beni immobili.41 Sempre restando alla To-scana, i fabbricati monastici ceduti a comuni e province a tutto il 31 dicembre 1877 ai sensi dell’articolo 20 della legge del 7 luglio 1866 risultavano 109 (contro, ad esempio, i 4 in Umbria e addirittura 1 in Lombardia), per un valore totale di oltre un milione e mezzo di lire.42 Sempre con riferimento al 31 dicembre del 1877, 4510 era il numero dei lotti venduti in Toscana dal demanio, previo esperimento d’asta, ai termini delle leggi del 15 agosto 1867 e successive.

Tornando ai giudizi storiografi ci, merita ricordare come alcuni de-cenni dopo, nel 1924, Francesco Ruffi ni ebbe a defi nire le due leggi del 1866-1867 come provvedimenti «poco felici», sia per la fretta con cui furono redatte sia per il mancato raggiungimento degli obiettivi economico-sociali che le avevano ispirate.43 Ha scritto, ad esempio,

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Maura Piccialuti in uno dei più recenti contributi di analisi sul tema:

L’evento storico si presta a molteplici letture e angolazioni di ricerca dif-ferenziate: le fi nalità prime dei due provvedimenti legislativi e dei rela-tivi argomenti furono notoriamente di stampo fi nanziario. La rimozio-ne della manomorta ecclesiastica, la vendita dei beni fondiari degli enti religiosi e l’immissione di questi ultimi sul libero mercato e nelle regole economiche liberistiche della circolazione dei beni furono obiettivi rea-lizzati concretamente, ma che non diedero alla fi ne l’esito sperato di un forte incremento alle fi nanze del Regno d’Italia, bisognose di sostegno per gravi diffi coltà di bilancio.44

Le reazioni da parte della Chiesa furono, ovviamente, molto dure e si denunciò il tentativo di scristianizzazione della società italiana die-tro simili provvedimenti messi in atto da un «così detto» Stato nazio-nale italiano, evidentemente in crisi, di fi nanze come di legittimità. In un articolo apparso nel numero di luglio, dell’estate 1867, l’organo dei Gesuiti, «La Civiltà Cattolica», ebbe, ad esempio, a rispondere nei seguenti toni:

Il così detto regno d’Italia, nato col latrocinio e col sacrilegio, non per altre vie, che per queste cerca di conservarsi … Invano dai pochi onesti e coraggiosi si gridò che questo era un attentato sacrilego contro quella Chiesa che il primo articolo dello Statuto proclama unica religione dello Stato. Invano si aggiunge che questa era una offesa fl agrante di un altro importantissimo articolo di esso Statuto, col quale si dichiarano invio-labili tutte le proprietà, senz’alcuna eccezione. La gran maggioranza di quei due grandi consessi riputò che ad infi rmare e ridurre al niente queste ragioni, bastasse la argomentazione fatta dal relatore della legge, e ripe-tuta pecorilmente [sic] dagli altri grandi oratori che gli fecero eco. E qual era codesta argomentazione? A spremere il sugo essa riducesi al seguen-te raziocinio: lo Stato ha diritto di spegnere l’ente morale. Spento l’ente morale, lo Stato ha diritto di attribuirsene la proprietà, come legittimo erede, trattandosi di beni vacanti. Ora questo e non altro fa la proposta legge. Dunque essa è giustissima e non offende la religione. L’argomento non è nuovo. Esso è il medesimo che facevano quei coloni, narrati dall’E-vangelio, i quali, scorto il fi gliuolo del padrone, dissero fra loro: “Ecco l’erede. Uccidiamolo, e così ci carpiremo l’eredità sua: hic est haeres; ve-nite, occidamus eum et habebimus haereditatem eius”.45

D’altronde, non dobbiamo dimenticarci che siamo ancora, a metà anni sessanta, in un contesto e clima politico e culturale nel quale il papato romano affermava la necessità del proprio potere temporale per la libertà della Chiesa. Proprio quelli erano, infatti, gli anni in cui più aspro si manifestò il contrasto con le società “clerico-liberali” di mutuo soccorso e contro tutti quei movimenti e tutte quelle iniziative di cattolicesimo liberale che da alcuni decenni, sulla scia del moto ri-sorgimentale, avevano sostenuto indirizzi antitemporalisti. Non a ca-so, reca la data del 1864 l’enciclica Quanta cura che in appendice ha

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il Sillabo, compendio ed «Elenco dei principali errori dell’età presen-te condannati nelle Allocuzioni, Encicliche ed altre lettere apostoliche del Santo Padre Pio IX», raccolti in dieci paragrafi per complessivi ot-tanta articoli.46

In questo testo si condannava, fra l’altro, la pretesa dello Stato laico di negare alla Chiesa il diritto «originario e legittimo» di acquistare e possedere beni, nonché la proposizione che è da separarsi «la Chie-sa dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa» (art. 55). Lo Stato non poteva far altro che riconoscere la religione cattolica quale unica religione (uffi ciale) di Stato e la connessa libertà di culto. I rapporti fra lo Sta-to pontifi cio e quello italiano raggiunsero il diapason della tensione e contrapposizione con il Concilio Vaticano I, aperto da Pio IX l’8 di-cembre 1869, in cui fu proclamato il dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale. Fu appunto il culmine del divario tra Stato e Chiesa in Italia.

Detto ciò, è ormai storiografi camente acclarato il fatto che il risana-mento si giovò soprattutto, se non in modo decisivo, dell’uso della leva fi scale. Ha scritto, in proposito, l’economista Ignazio Musu:

Quintino Sella e Marco Minghetti riuscirono infatti a far approvare dal parlamento una vera e propria riforma fi scale, i cui connotati struttura-li sono di fatto rimasti in vita per più di un secolo. … Il nuovo sistema fi scale cominciò a produrre i suoi effetti verso la fi ne del decennio degli anni sessanta, ma si trattò di effetti particolarmente signifi cativi. In soli tre anni, tra il 1870 e il 1873, il debito pubblico scese dall’80% a poco più del 60% del Pil.47

A proposito della soppressione dell’asse ecclesiastico, nel 1870 Quin-

tino Sella, in veste di ministro delle Finanze nel governo Lanza, aveva invece affermato che il totale dei beni ecclesiastici ancora da vendere fosse calcolabile in 355 milioni di lire, e che, inoltre, le rate dei residui prezzi di beni già venduti sarebbero salite a 144 milioni, mentre l’am-montare del valore delle obbligazioni in circolazione sarebbe giunto a 102 milioni. Detto ciò, il 19 giugno 1873 il presidente del Consi-glio, Giovanni Lanza, avrebbe esteso l’esproprio dei beni ecclesiastici al territorio degli ex Stati Pontifi ci e, quindi, anche a Roma, divenuta oramai nuova capitale.

In conclusione, è interessante notare come la comunità fi orentina accolse i provvedimenti “eversivi” dell’asse ecclesiastico. Questi ultimi ricaddero in un contesto che, agli occhi della prefettura e delle auto-rità ministeriali, risultava ancora non pienamente acquisito agli idea-li risorgimentali e alle istituzioni sabaude. In realtà, gli anni sessanta dell’Ottocento non videro ancora ingrossarsi le fi la, né a Firenze né nell’intera penisola, delle due opposizioni “estreme”, socialista e cat-tolica. Come ebbe ad osservare alcuni decenni fa Giovanni Spadolini

fra gli altri e non pochi benefi ci, l’avvento della capitale sulle rive dell’Arno servì ad inserire nella logica della nuova Monarchia nazionale e plebisci-taria una delle aristocrazie certamente più insigni di cui disponesse l’Ita-

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lia, gettò un ponte fra l’antica nobiltà lorenese e la nuova Italia liberale e sabauda, un’Italia cui si aderì di buon grado, cui ci si piegò volentieri.48

Inoltre, un’analisi dei rapporti prefettizi relativi all’azione svolta negli anni di Firenze capitale da parte dei fautori della restaurazio-ne lorenese, i cosiddetti “granduchisti”, ci mostra come l’operato del nuovo governo nazionale in materia ecclesiastica fu sostenuto, almeno inizialmente, da un certo consenso fra i ceti urbani, e soprattutto fra il patriziato cittadino, anche, probabilmente, perché nell’espropriazione dei beni del clero si intravedevano possibilità di risanamento e/o arric-chimento a vantaggio di una città che in quegli stessi anni avrebbe vis-suto crescenti diffi coltà fi nanziarie, legate anche e soprattutto all’onere di ritrovarsi d’improvviso capitale di un regno.

Detto ciò, il tentativo di sfruttare il sentimento religioso diffuso an-che tra la popolazione fi orentina, della città e del contado, allo scopo di coagulare energie e forze antiunitarie, fu massiccio e nient’affatto velleitario, come ci ricorda sempre Spadolini sulla base dei rapporti di funzionari del Ministero dell’Interno e del prefetto Girolamo Can-telli (che operò a Firenze dal 7 settembre 1864 al 3 novembre 1867):

Antiche fedeltà dinastiche e radicate convinzioni religiose tendono ad unirsi sul piano della comune resistenza all’anticlericalismo e soprattut-to all’anticlericalismo di governo – cemento unitario dello Stato appena nato … Di fronte alla nuova realtà, alla nuova realtà dell’Italia unitaria, granduchismo e clericalismo si mescolano e si sovrappongono nei primi mesi della Firenze capitale: non meno di quanto si mescoleranno e si so-vrapporranno nella consultazione elettorale dell’ottobre ’65.49

Un rapporto del delegato del quartiere di San Giovanni, risalente al gennaio del 1865, dunque ancor prima dell’adozione delle due grandi leggi “eversive”, raccomandava prudenza in materia di occupazione dei conventi:

Non può tacersi che, sia per alcuni pregiudizi popolari, sia per ciò che vanno sussurrando i Preti ed i retrivi, trovano una qualche accoglienza i lamenti che dagli avversari se ne fanno col giornalismo.50

Ma sempre nello stesso periodo, altri rapporti, stavolta del prefet-to, segnalavano come «la classe intelligente e liberale dei cittadini ap-plaude».51

A proposito di classe dirigente liberale fi orentina e toscana, vale la pena segnalare come in tema di soppressione e vendita dei beni eccle-siastici la linea politica sostenuta fosse quanto meno variegata al suo interno e, in generale, più ispirata a motivi di prudenza e opportunità che non a rigidi criteri, e pregiudizi, ideologici. Lo dimostra un discor-so tenuto alla Camera dal deputato pisano Giuseppe Toscanelli, perso-naggio infl uente sia per discendenza famigliare sia per il fatto di essere cognato di Ubaldino Peruzzi, il quale sarebbe stato a lungo sindaco di Firenze e più volte ministro. Già il 24 aprile 1865, proprio mentre

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si discutevano i progetti di legge sull’asse ecclesiastico presentati da Giuseppe Pisanelli, ministro della Giustizia, e poi da Sella, Toscanelli proponeva la regolamentazione delle associazioni religiose, anziché la loro soppressione.52 Secondo un’impostazione piuttosto diffusa nell’am-biente del moderatismo toscano, si sarebbe preferito seguire una linea giobertiana e neoguelfa di conciliazione fra trono e altare. Toscanelli, ad esempio, si diceva contrario alla formula cavouriana della “libera Chiesa in libero Stato”, dal momento che anche quella doveva essere sottoposta alla legge di quest’ultimo. Bisognava però saper distingue-re tra la Chiesa come istituzione dichiaratamente avversa allo Stato liberale e alle sue pretese ideali e politiche, e il vasto mondo cattoli-co, compreso il clero di campagna, che svolgeva una funzione di cura e assistenza sociale per larghi strati della popolazione, anzitutto con-tadina. Smantellare quella struttura assistenziale e inimicarsi il clero, facendolo peraltro passare per «martire» e «perseguitato», era, agli occhi di Toscanelli, ad esempio, una mossa alquanto miope e contro-producente. Alla vigilia dell’approvazione della legge del 1877, il de-putato pisano intervenne in aula per ribadire l’inopportunità di un si-mile provvedimento:

Se noi togliamo i benefi ci ecclesiastici, come potrà vivere il clero italiano? Solo con la carità dei fedeli e quindi potrà sempre lamentarsi e parlar ma-le dello stato. Invece, per non averlo nemico, bisogna lasciarlo vivere.53

Da parte della deputazione toscana, insomma, si era cercato sin dall’inizio una via di mediazione che non favorisse l’estraniazione delle masse cattoliche dall’ancor costituendo Stato nazionale unita-rio, come invece accadrà, anche in seguito al modo traumatico con il quale si giunse alla decisione di soppressione e liquidazione dell’asse ecclesiastico, che avrebbe lasciato in eredità un perdurante defi cit nel processo di Nation building e di consolidamento dello Stato liberale in termini di legittimazione e, dunque, consenso popolare. Un vulnus di lunga durata nella storia dell’Italia unita, che ebbe probabilmente origine in quel preciso momento.

Un problema, quello del rapporto tra Stato e popolo, ovvero di “na-zionalizzazione delle masse”, che Ricasoli ebbe sempre a cuore, special-mente in veste di presidente del Consiglio, come si evince dal discorso da questi tenuto il 15 luglio 1867 alla Camera dei deputati in replica alle reiterate accuse di subalternità rispetto al papato rivoltegli dal de-putato della Sinistra Giuseppe Ferrari. Così riassumeva le linee-guida della politica condotta in materia ecclesiastica nelle due esperienze di governo, e in specie nella seconda (ed ultima):

Mio intendimento era di facilitare la soluzione della questione romana, separando nettamente la questione politica dalla questione religiosa, e sbarazzando quella da questa; studiarsi in ogni modo che la questione romana, per nessun modo, sotto alcun pretesto non perdesse il suo ca-rattere di quistione [sic] interna, e non le si imponesse il carattere di que-stione internazionale.54

LE LEGGI DI LIQUIDAZIONE DELL’ASSE ECCLESIASTICO 40

E ancora più signifi cativi risultano i seguenti passaggi di quel discor-so, rivelatori della grande sensibilità e preoccupazione ricasoliane in tema di integrazione politica e sociale delle masse cattoliche nella vita del neonato Stato liberale nazionale:

Imperocché nella questione romana io ho veduto e vedo un duplice aspet-to. Vedo agitarsi in essa i diritti delle popolazione e i diritti della nazione; vedo agitarsi altri interessi che escono dal perimetro della mia nazione: gl’interessi cattolici. Io ho avuto in mira, e abbiamo avuto in mira, per quanto era possibile, di far in modo che la dignità e i diritti di quelle po-polazione e della nazione non venissero mai compromessi. … Egli [il Go-verno italiano, nda] guardava la nazione, i cui interessi e le cui sorti aveva nelle mani; e dovendola riconoscere nella sua gran maggioranza cattoli-ca, egli si credette in dovere di rispettarne i sentimenti religiosi per avere il diritto di dire, non solo ai ventiquattro milioni di cattolici italiani, ma ai cattolici di tutto il mondo, che gli interessi religiosi non sarebbero per opera sua messi a repentaglio, ma che in nessun modo avrebbe tollerato che se ne togliesse pretesto per offendere la dignità e i diritti della nazio-ne (Benissimo! A destra – Rumori a sinistra). Signori, possono condan-narmi, ma badino che i fatti futuri non abbiano da darmi ragione. (No! No! A sinistra) Sopra di noi abbiamo un altro tribunale, quello cioè del-la pubblica opinione; e poi, quando mancasse questa (Con forza), c’è la coscienza d’aver fatto il proprio dovere.55

E la parte conclusiva di quell’intervento del luglio 1867, nel bel mez-zo della discussione per l’approvazione della legge sulla soppressione di enti ecclesiastici e sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico, ci mostra in tutta evidenza quanto una parte signifi cativa del liberalismo mode-rato toscano56 si muovesse su criteri di realismo politico ancor prima e ancor più che di rigida dottrina separatista:

Era una politica di concordia che veniva inaugurata sotto il principio della libertà, della giustizia, cioè della legge comune. Noi abbiamo poi credu-to conveniente di mostrarci arrendevoli, ma giusti, pur non sacrifi cando alcuna delle prerogative dello Stato laico; e con questo metodo noi era-vamo persuasi di apparecchiare e facilitare la soluzione della questione romana. … Piaceva al Governo del Re di poter dire al mondo cattolico, sia per mezzo di atti pubblici, sia nelle trattative diplomatiche: Non ave-te alcuna ragione di mettervi in apprensione pel papa; non vedete come trattiamo la Chiesa? Togliendo di mezzo la questione spirituale, abbiamo creduto che col tempo si sarebbe resa più facile la soluzione della que-stione politica e civile.57

Testo in rosso ok così

Testo in rosso ok così

41 LE LEGGI DI LIQUIDAZIONE DELL’ASSE ECCLESIASTICO

1 Cfr. Marcello De Cecco, Antonio Pedone, Le istituzioni dell’economia, in Storia del-

lo Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di Raffaele Romanelli, Roma, Donzelli, 1995,

pp. 253-300: 270. Si veda anche Gianni Marongiu, La politica fi scale dell’Italia liberale

dall’Unità alla crisi di fi ne secolo, prefazione di Guido Pescosolido, Firenze, Olschki, 2010.

2 Cfr. Ignazio Musu, Il debito pubblico, 3a edizione aggiornata, Bologna, Il Mulino,

2012, p. 66. Secondo De Cecco e Pedone il PIL passò dal 60% a 96% tra 1861 e 1870.

Inoltre, essi ricordano come la Destra storica «avendo riconosciuto il debito degli Stati

preunitari (non poteva farlo perché metà era piemontese e il Regno d’Italia si considerava

continuatore del Regno di Sardegna) in diciassette anni di governo riuscì a farlo aumentare

in maniera imponente, da 3 miliardi nel 1861 a 11 miliardi nel 1876» (De Cecco-Pedone

1995, cit., p. 270).

3 Cfr. Fulvio Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 36-38.

4 Cfr. Marongiu 2010, cit., p. 75.

5 Pubblicata in «Monitore toscano», 29 gennaio 1860, n. 25, la circolare è stata ri-

portata in Giuliana D’Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fi no al 1867,

Milano, Giuffrè, 1961, pp. 138-140: 140.

6 Un raggio di luce fra le tenebre della quistione italiana, «Civiltà cattolica», s. IV, X,

1861, pp. 293-317: 297.

7 Silvio Spaventa, Lettere politiche (1861-1893), a cura di Giovanni Castellano, Bari,

Laterza, 1926, p. 13.

8 D’Amelio 1961, cit., p. 376.

9 Ibid.

10 Ivi, p. 438 (corsivo nostro).

11 Ivi, p. 440.

12 Giulio Cesare Bertozzi, Notizie storiche e statistiche sul riordinamento dell’asse eccle-

siastico nel Regno d’Italia..., «Annali di Statistica», s. II, IV, 1879, p. 45. Sempre secondo

qui riportati, nel quadriennio 1862-1866, «si studiarono da apposite Commissioni le con-

dizioni dell’istruzione pubblica nelle varie province d’Italia, si proposero ed attuarono le

scuole elementari e secondarie, le scuole normali, e le professionali e industriali, gli istituti

tecnici inferiori e superiori, ed anche gli studi universitari, rendendo in tal modo possibili

e la immediata secolarizzazione dell’insegnamento pubblico, e la completa soppressione

delle corporazioni religiose» (ibid.).

13 Si vedano, tra l’altro, Aldo Berselli, Accordi e disaccordi fra Quintino Sella e Marco

Minghetti sui mezzi per il raggiungimento del pareggio (1861-1876), «Rassegna Storica

del Risorgimento», XLIV, 1957, pp. 299-311; La nascita dell’opinione pubblica in Italia.

La stampa nella Torino del Risorgimento e capitale d’Italia (1848-1864), a cura di Valerio

Castronovo, Roma-Bari, Laterza, 2004.

14 Per un confronto in parallelo con le di poco precedenti vicende italiane di unifi ca-

zione politica nazionale, si veda Gian Enrico Rusconi, Cavour e Bismarck. Due leader fra

liberalismo e cesarismo, Bologna, Il Mulino, 2011.

15 Sul governo Ricasoli (20 giugno 1866-10 aprile 1867) nel contesto della Terza guer-

ra d’indipendenza, cfr. Alberto Aquarone, Alla ricerca dell’Italia liberale, introduzione di

Romano Paolo Coppini e Rolando Nieri, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 179-226.

16 Marongiu 2010, cit., pp. 70-71.

17 Ivi, p. 71.

18 Ivi, p. 70.

19 Cfr. Arturo Carlo Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di

Sardegna e nel Regno d’Italia (1848-1888), Torino, Tipolitografi a Bono, 1911; Bologna,

Il Mulino, 1974, pp. 121-126.

LE LEGGI DI LIQUIDAZIONE DELL’ASSE ECCLESIASTICO 42

20 Maura Piccialuti, A proposito della legge del 1866 sulla soppressione delle corpora-

zioni religiose: iniziative e linee di ricerca, «Le carte e la storia», V, 1999, 1, pp. 153-159:

156.

21 Ivi, pp. 153-154. Così recitava l’art. 24 della legge 7 luglio 1866: «I libri e manoscrit-

ti, i documenti scientifi ci, gli archivi, gli oggetti d’arte o preziosi per antichità che si tro-

veranno negli edifi zi appartenenti a case religiose e agli enti morali colpiti da questa e da

precedenti leggi di soppressione, si devolveranno a pubbliche biblioteche o a musei nelle

rispettive province, mediante decreto del ministro dei culti, previ gli accordi col ministro

della Pubblica istruzione» (cit. ivi, p. 158).

22 Cfr. Alfredo Capone, Destra e sinistra da Cavour e Crispi, introduzione di Giuseppe

Galasso, Milano, TEA, 1996, p. 96.

23 Si veda Giacomo Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870,

in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), atti del convegno (La Mendo-

la, 31 agosto-5 settembre 1971), 4 voll., Milano, Vita e Pensiero, 1973, I, Relazioni.1, pp.

194-335.

24 Cfr. Bertozzi 1879, cit., p. 49.

25 Si vedano, ad esempio, I cattolici che hanno fatto l’Italia, Religiosi e cattolici piemon-

tesi di fronte all’Unità d’Italia, a cura di Lucetta Scaraffi a, Torino, Lindau, 2011; Giaco-

mo Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia, Morcelliana,

2003.

26 Tonello avrebbe soggiornato a Roma dal 10 dicembre del 1866 al 31 marzo del 1867.

Ben visto dal pontefi ce e dalla Curia, riuscì a stipulare accordi intorno ad alcune questioni,

come quelle delle sedi vescovili vacanti, delle dogane, dei passaporti e delle poste. Nessun

risultato ottenne sulla questione della rinuncia papale al potere temporale.

27 Sulla fi gura e l’opera di Borgatti si vedano l’introduzione di Sandro Rogari a: Fran-

cesco Borgatti, Discorsi parlamentari, a cura di Sandro Rogari, Firenze, Le Lettere, 1997,

pp. 1-41; Fernando Manzotti, Francesco Borgatti e il progetto sulla “libertà della Chiesa”,

«Bollettino del museo del Risorgimento», V, 1960, 3, pp. 35-73. Circa la posizione poli-

tico-ideologica di Borgatti, Francesco Margotta Broglia – nella sua Premessa – ha scritto:

«Come Cavour, Borgatti voleva superare i capisaldi del cattolicesimo liberale attraverso

una maggiore garanzia della laicità dello Stato che avrebbe dovuto controbilanciare le co-

sì dette libertà della Chiesa, ma, prendendo atto delle reazioni pontifi cie ed ecclesiastiche,

dovette accettare l’accentuazione dei profi li giurisdizionalisti e anticlericali che la Destra

si trovò obbligata a sostenere distaccandosi dalle originarie ispirazioni separatiste del Ca-

vour» (Borgatti, ed. Rogari 1997, cit., p. XX).

28 Di cui si veda, almeno, Antonio Scialoja, La Chiesa, lo Stato e la liquidazione dell’as-

se ecclesiastico, «Nuova Antologia», n. 8, V, agosto 1867, pp. 741-764.

29 Si veda l’opuscolo di Giovanni Andrea Giglioni, Osservazioni sulla convenzione tra

il ministro delle Finanze e il conte Lagrand Dumonceau relativa alla liquidazione dell’asse

ecclesiastico, [s.l.], [s.n.], 1867.

30 Cfr. Manzotti 1960, cit., pp. 49-50.

31 Si veda, in proposito, Filippo Mazzonis, Ministro delle Finanze per tre mesi. L’“ano-

mala” esperienza di Francesco Ferrara nel secondo governo Rattazzi, in Ricerche di storia

in onore di Franco Della Peruta, a cura di Maria Luisa Betri e Duccio Bigazzi, 2 voll., Mi-

lano, Franco Angeli, 1996, I, Politica e istituzioni, pp. 292-326.

32 Cfr. Stefano Jacini jr., La politica ecclesiastica italiana da Villafranca a Porta Pia. La

crisi religiosa del Risorgimento, Bari, Laterza, 1938, pp. 187-197.

33 Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. V. La costruzione dello Stato unitario,

Milano, Feltrinelli, 1968; Milano, Feltrinelli, 1971, p. 321.

43 LE LEGGI DI LIQUIDAZIONE DELL’ASSE ECCLESIASTICO

34 Ibid.

35 Cfr. Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Ei-

naudi, 1948; Torino, Einaudi, 1949, pp. 254-258.

36 Si vedano, a titolo d’esempio, i vari saggi contenuti nel volume La Chiesa e l’Italia.

Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di Antonio Acerbi, Milano,

Vita e Pensiero, 2003; Giancarlo Rocca, Istituti religiosi in Italia fra Otto e Novecento,

in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di Mario Rosa, Roma-Bari, Laterza,

1992, pp. 207-252: 231.

37 Marongiu 2010, cit., p. 79.

38 Cfr. Bertozzi 1879, cit., pp. 64-65.

39 Ivi, p. 67.

40 Ivi, pp. 67-68, ove si riportano anche i dati della Commissione centrale di sindacato,

pubblicati nel 1877.

41 Ivi, p. 193.

42 Ivi, p. 197.

43 Cfr. Roberto Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concor-

dato (1914-1984), Bologna, Il Mulino, 2009, p. 29, nota 36.

44 Piccialuti 1999, cit., p. 153.

45 L’asse ecclesiastico, «La Civiltà Cattolica», luglio 1867, cit. in D’Amelio 1961, cit.,

pp. 604-606.

46 Cfr. Il Sillabo di Pio IX, a cura di Luca Sandoni, con introduzione di Daniele Menoz-

zi, Bologna, Clueb, 2012.

47 Musu 2012, cit., p. 67.

48 Giovanni Spadolini, Firenze capitale. Con documenti inediti e un’appendice di saggi

su Firenze nell’Unità, 5a edizione rivista e accresciuta, Firenze, Le Monnier, 1971, p. 141.

49 Ivi, pp. 146-147.

50 Cit. ivi, p. 147.

51 Cit. ibid., nota 2.

52 Cfr. Danilo Barsanti, Giuseppe Toscanelli, “Er deputato de’ Pontaderesi”, Pisa, ETS,

2013, p. 94.

53 Ivi, p. 95.

54 Bettino Ricasoli, Sul disegno di legge per la liquidazione dell’asse ecclesiastico, e

sull’interpellanza del deputato Ferrari intorno alle concessioni fatte alla Corte di Roma,

discorso tenuto presso la Camera dei deputati il 15 luglio 1867, cit. in Id., Discorsi parla-

mentari (1861-1879), a cura di Alessandro Breccia, Firenze, Polistampa, 2012, p. 258.

55 Ivi, pp. 258-259.

56 Si tenga conto dell’“eccezione” – rispetto a questa linea – rappresentata dall’operato

svolto da Luigi Guglielmo Cambray-Digny, già sindaco di Firenze tra il gennaio del 1865

e l’ottobre del 1867, una volta ricoperta la carica di ministro, prima dell’Agricoltura, Indu-

stria e Commercio e poi delle Finanze, ossia nel periodo compreso tra il 27 ottobre 1867

e il 14 dicembre 1869, nei governi Rattazzi e Menabrea.

57 Ricasoli, Discorsi parlamentari, ed. Breccia 2012, cit., pp. 259-260.