LA SUA VOCE - Intervista e discorsi dell'Imperatore HAILE SELASSIE I

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LA S UA VOCE discorsi, interviste e messaggi di Sua Maestà Imperiale HAILE SELASSIE I traduzioni di Ras Caleb (G. Farella) Stampato in proprio – diritti riservati

Transcript of LA SUA VOCE - Intervista e discorsi dell'Imperatore HAILE SELASSIE I

LA SUA VOCE

discorsi, interviste e messaggi

di Sua Maestà Imperiale

HAILE SELASSIE I

traduzioni di Ras Caleb (G. Farella)

Stampato in proprio – diritti riservati

INDICE

Pag. 3 ALLA SOCIETÀ DELLE NAZIONI

9 LETTERA ALLA SOCIETÀ DELLE NAZIONI 11 LETTERA AL CONSIGLIO MONDIALE DELLE CHIESE 12 AL POPOLO AMERICANO 13 LETTERA ALL’ARCIVESCOVO DI CANTEBURY 15 MESSAGGIO AI PATRIOTI 15 AL PRIMO ALZABANDIERA

18 IL PROGRESSO È MORALE

19 ALL’ETHIOPIAN WOMEN WELFARE ASSOCIATION

19 LIBERTÀ ED UNITÀ AFRICANA

22 ISTRUZIONE

23 MORALITÀ INTERNAZIONALE

25 IL MODERNO ETIOPIANISMO

27 AL PARLAMENTO GIAMAICANO

28 DAL DISCORSO DI BERLINO

28 INTERVISTA AD ORIANA FALLACI

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ALLA SOCIETÀ DELLE NAZIONIGinevra, 30 Giugno 1936

Sua Eccellenza Signor Presidente, Vostre Ec-cellenze Ambasciatori, mi sarebbe piaciuto par-larvi in francese ma, dal momento che solo espri-mendomi in amarico riesco a tradurre in parole quel che sento nel cuore, ed a farlo con tutta la forza del mio spirito, prego l’intera Assemblea Generale della Società delle Nazioni di perdo-narmi.

Io, Haile Selassie I, Imperatore d’Etiopia, so-no venuto qui a reclamare la dovuta giustizia per il mio paese ed a sollecitare quell’aiuto che gli fu promesso otto mesi orsono, allorquando cin-quantadue nazioni condannarono l’aggressione militare subìta dall’Etiopia, considerandola un vero e proprio crimine internazionale. E chi al-tri, se non l’Imperatore in persona, avrebbe po-tuto presentare l’appello della popolazione etio-pica a queste cinquantadue nazioni?

Forse, prima d’ora, nessun Capo di Stato ha mai preso la parola di fronte a codesta Assem-blea; ma certamente è la prima volta che si ve-dono commettere simili violenze ai danni di un intero popolo, ed esso è sul punto di soccombe-re al suo aggressore.

Mai, fino ad oggi, vi era stato l’esempio di un governo che procedesse allo sterminio di mili-tari e civili usando mezzi così crudeli; per giun-ta in piena violazione di un accordo solenne-mente e pubblicamente sottoscritto da numerose nazioni; accordo secondo il quale nessuno de-gli aderenti sarebbe dovuto arrivare alla guerra per sopraffarne un altro, e che, comunque, non si sarebbero utilizzate armi chimiche per infie-rire su vite umane innocenti.

Io, l’Imperatore d’Etiopia, dopo aver perso-nalmente combattuto alla testa del mio esercito, sono venuto a Ginevra per adempiere al mio su-premo dovere di difendere la lotta intrapresa dal popolo etiopico per conservare la propria mil-lenaria indipendenza. Prego Dio affinché nes-sun’altra nazione al mondo subisca i tormenti inflitti all’Etiopia e le nauseanti crudeltà di cui gli ufficiali che mi accompagnano sono stati,

nel contempo, vittime e testimoni.Illustrerò dettagliatamente ai rappresentan-

ti dei governi qui riuniti, responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, i perico-li mortali a cui queste creature vanno incontro ed il destino che ha sopraffatto l’Etiopia. Infat-ti, il governo italiano non sta combattendo solo contro l’esercito etiope, ma sta infierendo anche su intere popolazioni inermi, molto lontano dai campi di battaglia, seminando morti con spieta-te incursioni terroristiche e sterminandole com-pletamente.

Agli inizi di questa guerra, nel 1935, gli aerei italiani cominciarono a lanciare sul mio eserci-to bombe di gas lacrimogeno. Esse non provo-carono gravi danni, perché i miei soldati impa-rarono presto a disperdersi in attesa che il vento dissolvesse i gas rapidamente. Allora l’aviazione italiana ricorse all’iprite1; barili pieni di questo liquido venivano sganciati sui gruppi armati. Pe-rò anche questo sistema si rivelò poco efficace. Infatti, il liquido non colpiva che pochi soldati e i barili che finivano a terra mettevano in guar-dia dal pericolo sia i militari che i civili.

Fu quando le forze etiopi accerchiarono Makallè che il comando italiano, avendo buo-ne ragioni per temere una disfatta, diede l’or-dine di usare l’iprite in maniera diversa. È mio dovere adesso rivelare al mondo gli effetti di quella decisione.

A bordo degli aerei furono installati dei va-porizzatori in modo da produrre una sottile, ma micidiale, pioggia d’iprite, che venne fatta cade-re su vaste distese di territorio. In gruppi di no-ve, di quindici, di diciotto, gli aerei sorvolavano avanti ed indietro le zone prescelte, provocando un’aspersione continua di veleno.

Fu così che, a partire dalla fine di Gennaio del 1936, questa pioggia mortale è stata spruz-zata ininterrottamente su soldati, su donne e bambini, sul bestiame, sui fiumi, sui laghi e sui campi. Il comando italiano fece passare e ripas-sare gli aerei, dimostrando di voler sistematica-mente uccidere ogni creatura vivente ed avvele-

1 Aggressivo chimico ad effetto vescicante

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nare, nel contempo, tutte le acque ed i pascoli. Lo sterminio è diventato il suo principale stru-mento di guerra.

È stata una crudeltà pensata ed attuata con astuzia malvagia per annientare intere popola-zioni assai distanti dal fronte e trasformare il loro territorio in deserto. Si è voluto spargere terrore e morte su gran parte dell’Etiopia, ed il deplore-vole intento è stato, alla fine, raggiunto.

Esseri umani ed animali sono inesorabilmen-te periti. Chiunque è entrato in contatto con la pioggia venefica prodotta da quegli aerei ha tre-mendamente sofferto; coloro che hanno bevuto o mangiato ciò che da essa era stato contamina-to sono morti dopo una terribile agonia. Il nu-mero delle vittime causato dall’iprite è di molte migliaia, ed io sono venuto a Ginevra proprio per far conoscere al mondo civilizzato il suppli-zio che l’Etiopia ha subìto.

Chi, se non io stesso, se non qualcuno di que-sti uomini che sono stati in guerra con me, può fornire alla Società delle Nazioni una testimo-nianza veramente inconfutabile?

I miei ambasciatori, all’inizio di questa guer-ra, hanno già presentato un appello alla Società delle Nazioni; appello rimasto senza alcuna ri-sposta. Essi non hanno partecipato ai combat-timenti e non sono stati quindi testimoni diretti delle sofferenze causate all’Etiopia. Per questo motivo ho deciso di venire personalmente a de-scrivere i crimini commessi contro il mio po-polo.

Voglio ricordare all’Assemblea qui riunita gli avvenimenti che, in questi ultimi tempi, hanno riguardato l’Etiopia.

Da vent’anni ormai, prima in qualità di Prin-cipe Ereditario e di Reggente, poi come Impera-tore e guida del mio popolo, sto ininterrottamen-te sforzandomi di ottenere, anche per l’Etiopia, quei benefici derivanti dalla moderna civilizza-zione; in particolar modo ho cercato di instau-rare rapporti di buon vicinato con tutti i governi dei paesi confinanti. Proprio con l’Italia ho sti-pulato, nel 1928, un trattato di amicizia secon-do il quale il ricorso alle armi era – in ogni cir-

costanza – bandito. Qualsiasi disputa tra i due governi avrebbe

dovuto essere risolta amichevolmente attraverso l’arbitrato, una procedura diventata ormai ba-silare per il mantenimento della pace fra i po-poli ed adottata da tutte le nazioni civilizzate del mondo.

Nella relazione presentata il 6 Ottobre 1935 dal Comitato delle Tredici Nazioni si prendeva atto esplicitamente degli sforzi da me compiu-ti. In essa si leggeva:

Queste nazioni hanno considerato che, aderendo alla Società delle Nazioni ed acquisendo conseguente-mente nuova sicurezza sul rispetto della sua integrità territoriale e della sua indipendenza, l’Etiopia potrà migliorare il suo livello di civilizzazione e di progres-so. Attualmente non sembrano più sussistere quelle condizioni di instabilità ed illegalità che ancora si notavano nel 1923 (l’anno di adesione alla Società). In effetti, il paese è più unito di prima e l’autorità centrale è, senz’altro, più rispettata di quanto fosse nel passato.

Se il Governo italiano non mi avesse causa-to tanti guai, sobillando le rivolte ed armando i ribelli, il lavoro da me compiuto sarebbe stato ancora più fruttuoso ed avrebbe raggiunto risul-tati ancora migliori.

Adesso anche il Governo di Roma ammet-te apertamente di aver incessantemente conti-nuato a preparare piani per la conquista milita-re dell’Etiopia. Ne deduco che tutti gli accordi raggiunti con me non furono mai sottoscritti in buona fede, ma che sono piuttosto serviti a na-scondere le sue reali intenzioni. Il Governo ita-liano ha, infatti, confermato di aver preparato per quattordici anni quello che oggi ha messo in atto con la forza. Si può dunque afferma-re che, appoggiando l’ammissione dell’Etiopia alla Società delle Nazioni nel 1923, stipulando con essa il Trattato di Amicizia del 1928 e sot-toscrivendo il Trattato di Parigi per la messa al bando della guerra, non ha fatto altro che tra-dire la fiducia del mondo.

Il Governo etiopico ha invece creduto di tro-vare in questi solenni trattati nuove garanzie per

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portare a termine il lavoro iniziato con tanta for-za e passione: guidare cioè il paese verso la civi-lizzazione, seguendo un cammino di pace.

Gli scontri del Dicembre 1934 presso i pozzi di WalWal sono stati per me come un fulmine a ciel sereno; lo stesso non si può dire per l’Italia, alla quale serviva – ovviamente – solo un prete-sto per mettere in atto i suoi piani.

Subito informai dell’incidente la Società del-le Nazioni e chiesi che la controversia fosse sì affrontata secondo il trattato del 1928, ma an-che sulla base del patto che unisce i membri della Società, cioè attraverso la procedura del-l’arbitrato.

La situazione europea era tale che, disgrazia-tamente per l’Etiopia, alcuni governi ritennero assolutamente essenziale mantenersi – a qualsia-si costo – in buoni rapporti con l’Italia. Il prez-zo che si è dovuto pagare per fermare le prete-se coercitive del Governo italiano è stato la fine dell’indipendenza etiopica. Questo vergognoso accordo segreto ha soppiantato gli obblighi che le nazioni del mondo hanno assunto entrando a far parte della Società, ed è diventato un peso spaventoso per tutte quelle questioni che, allora come adesso, riguardano l’Etiopia. Ecco perché è stato così difficile, per l’Etiopia, e per il mon-do intero, affrontare una simile calamità. Il pro-blema, purtroppo, ancora persiste.

Questa prima deroga ai doveri che l’adesio-ne alla Società impone non è rimasta, infatti, l’unica. Il Governo di Roma, sentendosi ancora più sicuro della politica adottata contro l’Etio-pia – e nel caso in cui la pressione che già eser-citava si fosse rivelata insufficiente per indurre il popolo etiopico ad accettare un dominio stra-niero – cominciò a preparare una vera e pro-pria guerra.

L’Italia aveva, quindi, tutto l’interesse a ri-tardare l’avvio dell’arbitrato; mise perciò in at-to una serie di stratagemmi con il chiaro inten-to d’impedire la designazione dei conciliatori e l’inizio della loro inchiesta. Alla fine si riu-scì a far partire tutta la procedura, ma si dovet-tero superare ostacoli di ogni tipo per portarla a termine.

Gli sforzi di chi voleva indurre i conciliatori ad emettere un verdetto favorevole all’Italia ri-sultarono completamente inutili perché essi, due dei quali erano italiani, si pronunciarono unani-memente a favore del Governo etiopico, affer-mando che nè per l’incidente di WalWal nè per quelli successivi si potevano attribuire all’Etio-pia responsabilità tali da renderla colpevole da-vanti al Comitato.

Il Governo etiopico sperò veramente che que-sto verdetto avrebbe aperto una nuova era di amicizia con l’Italia, perciò porsi la mia mano al Governo di Roma con estrema sincerità.

Il Comitato delle Tredici Nazioni, nella già citata relazione del Settembre 1935, ha fornito all’Assemblea Generale un resoconto dettaglia-to sull’intera vicenda; in esso se ne riassumeva-no le fasi salienti a partire dal Dicembre 1934. Vorrei ora ricordarvi solo quello che si leggeva nei paragrafi 24, 25 e 26:

L’Italia ha consegnato il suo memorandum al con-siglio il 4 Settembre 1935. Il primo appello dell’Etiopia è datato 14 Dicembre 1934. Nel periodo intercorso fra le due date, il Governo italiano ha sempre sostenuto che la questione avrebbe dovuto essere risolta secondo quanto stabilito nel trattato italo-etiopico del 1928, evitando cioè di sottoporla al Consiglio. Nel frattem-po, però, quello stesso Governo continuava ad invia-re materiale bellico e truppe verso l’Africa Orientale; nascondendo le sue vere intenzioni, giustificava tali manovre con l’esigenza di tranquillizzare le proprie colonie in quella zona, le quali si dimostravano molto preoccupate per i preparativi militari che fervevano in Etiopia.

Il Governo etiopico, d’altrocanto, ha ripetutamente fatto notare che, contrariamente a quanto si dichia-rava in sede internazionale, i discorsi ufficiali fatti in Italia non lasciavano dubbi sulle intenzioni ostili del suo Governo.

Fin dall’inizio della disputa, il Governo etiopico ha cercato di risolvere il problema in maniera pacifica, affidandosi alle procedure in uso nella Società delle Nazioni. Il Governo italiano sosteneva invece che, visti gli aspetti della controversia, ci si doveva basare solo sulle clausole contenute nel trattato bilaterale del 1928. Il Governo etiopico acconsentì, dichiarandosi

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pronto ad accettare qualsiasi verdetto dell’arbitrato ed a rispettare le eventuali condizioni che gli fossero state imposte. Quando il Governo italiano si oppose anche all’arbitrato, l’Etiopia dimostrò ancora una vol-ta la sua buona volontà rimettendosi alle decisioni del Comitato. Il suo Governo chiese al Consiglio di nominare dei conciliatori neutrali ai quali sottoporre la faccenda e si dichiarò, comunque, disponibile a favorire tutte le indagini necessarie per arrivare ad un giudizio imparziale.

L’arbitrato fu finalmente avviato e consentì di far piena luce sull’incidente di WalWal. Il Gover-no italiano, che evidentemente non aveva gradito le conclusioni espresse nel verdetto, presentò al Consiglio un puntiglioso memorandum nel quale si chiedeva, in pratica, completa libertà di azione nei confronti dell’Etiopia. In esso si affermava che il patto della Società non prevedeva niente di veramente appropriato per risolvere l’intera questione dei suoi rapporti con l’Etiopia; annunciava, inoltre, che, considerandola una questione di vitale importanza e di primario in-teresse per la sicurezza stessa dell’Italia, sarebbe stata una grave negligenza continuare ad avere fiducia nel Governo etiopico e non compiere – pur avendone pieno diritto – tutti gli atti necessari per salvaguardare i propri interessi e difendere le sue colonie.

Questi furono i termini del resoconto presen-tato dal Comitato delle Tredici Nazioni. Sulla base di quella relazione, il Consiglio e l’Assem-blea Generale hanno ufficialmente dichiarato che il Governo italiano ha unilateralmente aggredi-to l’Etiopia e sta, perciò, violando le regole della So-cietà delle Nazioni.

Io ho incessantemente ripetuto di non aver mai cercato questa guerra; essa mi è stata im-posta. Ho accettato sì lo scontro, ma solo per difendere la libertà del mio popolo e l’integri-tà territoriale dell’Etiopia. Difendendo i diritti dell’Etiopia, difendo un diritto che ogni nazio-ne ha, specialmente se piccola e debole: rima-nere libera ed indipendente.

Nell’Ottobre del 1935, le cinquantadue na-zioni qui presenti mi hanno promesso quanto segue: L’aggressore non prevarrà; sono in gioco le re-gole del nostro accordo, quindi sosterremo il governo

aggredito. Chi ha usato la forza, avendole deliberata-mente violate, sarà battuto.

Invito queste nazioni a non rivedere l’atteg-giamento assunto in questi otto mesi, perché so-no io colui che l’ha fatto proprio; io, confidando nel vostro appoggio, ho guidato il mio popolo in questa lotta contro un governo ormai da tut-ti condannato.

Non possedendo un esercito ben equipaggia-to, non disponendo di un’aviazione o di un’arti-glieria, senza nemmeno gli ospedali per curare i feriti, le mie speranze sono tutte riposte nel patto che ci unisce. Ritengo impossibile che cinquan-tadue nazioni, alcune delle quali sono fra le più potenti del mondo, possano essere sconfitte dai propositi aggressivi di un solo stato.

Confidando nell’efficacia dei trattati – pro-prio come accadde ad altre piccole nazioni eu-ropee – non ho voluto prepararmi a sostenere una guerra. Ma quando il pericolo è diventato incombente ed il peso della responsabilità che mi assumevo si è fatto troppo pesante per la mia coscienza, ho iniziato a cercare armi all’estero. Molte nazioni, per impedire che me ne procu-rassi, bloccarono le loro esportazioni di armi; nessuno ha però impedito che il Governo italia-no, attraverso il Canale di Suez, rifornisse inin-terrottamente il suo esercito con truppe, canno-ni e munizioni.

Il 3 Ottobre 1935 gli Italiani varcarono le fron-tiere del mio paese. Io proclamai la mobilitazio-ne generale alcune ore più tardi; anzi, continuan-do a sperare nella pace, avevo fatto arretrare le mie truppe di trenta chilometri, non volendo offrire agl’invasori alcun pretesto per attaccare; esattamente come fece un’importante nazione ai tempi della Grande Guerra. Ma il gesto non è servito a niente; i combattimenti iniziarono e proseguirono con quella feroce violenza che ho già descritto al Consiglio.

In questa lotta così impari fra il Governo di una nazione con quarantadue milioni di abitan-ti, che ha potuto equipaggiare il suo esercito di tutto il necessario, che è tecnicamente in grado di produrre armi micidiali, ed un piccolo popo-

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lo di appena dodici milioni d’individui, che ha confidato solo nell’imparzialità e nelle regole della Società delle Nazioni e che non possiede nè armi nè denaro per acquistarne, il Governo etiopico, dovete voi stessi ammetterlo, non ha ricevuto alcun aiuto concreto. Eppure l’Italia è stata condannata per aver violato il patto della Società, e le nazioni in essa rappresentate han-no dichiarato di voler impedire la vittoria del-l’aggressore.

Ha ogni singolo Governo considerato se stes-so vittima dell’aggressione subìta dall’Etiopia, così come stabilisce l’articolo 16 dell’accordo da tutti sottoscritto? Avevo riposto le mie spe-ranze nel doveroso adempimento di quest’ob-bligo, e le dichiarazioni solenni fatte nella So-cietà me le avevano rafforzate.

Infatti, nel dicembre 1935, il Consiglio fece chiaramente intendere di condividere l’opinio-ne delle centinaia di milioni di persone che, nel mondo intero, avevano condannato il piano di spartizione dell’Etiopia2. Inoltre, è stato più vol-te detto che: Questo conflitto non oppone l’Italia al-l’Etiopia, ma l’Italia alla Società delle Nazioni. Ec-co perché io ed il mio popolo non abbiamo mai accettato le proposte fatteci dal Governo italia-no; potevamo, forse, risparmiarci molte soffe-renze, però avremmo inficiato le ragioni stesse del patto che fa esistere la Società. Non stiamo perciò difendendo solo un nostro diritto; difen-diamo i diritti di tutte le nazioni più deboli espo-ste ad altre eventuali aggressioni. Ebbene, che fine hanno fatto tutte quelle promesse di aiuto che ho ricevuto?

Tre governi3 hanno già dimostrato, con mio grande dolore, di non tenere in alcun conto gli obblighi che l’adesione alla Società impone. Gl’interessi che li legano all’Italia gli hanno im-pedito qualsiasi azione rivolta a fermarne gli in-tenti aggressivi. Ma ciò che più mi ha avvilito è stata la posizione di quei governi che, pur di-chiarando incessantemente di confidare nei po-teri della Società delle Nazioni, hanno ostacola-

2 Il piano Hoare-Laval3 Austria, Ungheria ed Albania

to, con uguale assiduità, l’attuazione delle sue direttive. Ogni qualvolta sono state fatte propo-ste veramente adeguate per stroncare le inizia-tive dell’aggressore, essi, con mille pretesti, si sono adoperati per ritardarne la discussione e renderle, così, inefficaci. Dobbiamo ritenere ta-le atteggiamento ostruzionistico frutto di quegli accordi segreti del Gennaio 19354?

Il Governo etiopico non pretendeva che al-tri governi versassero il sangue dei propri sol-dati per una questione non direttamente riguar-dante loro. Quello che i combattenti etiopici si aspettavano erano solo i mezzi per difendersi. Ho chiesto più di una volta che mi venissero concessi i fondi necessari per rifornirmi di armi, ma mi sono stati negati. Come va interpretato allora quanto scritto nell’articolo 16 del nostro patto? E che valore dare alla promessa solenne fatta dalle nazioni di resistere insieme, attraver-so l’assistenza reciproca, contro chi minaccia la sicurezza altrui?

La compagnia che gestisce la linea ferroviaria GibutiAddis Abeba ha reso molto difficile il tra-sporto di armi e materiali destinati all’Etiopia, impedendoci così di poterne usufruire in tempo utile. Adesso, invece, essa è diventata la principa-le via di rifornimento per le truppe italiane che hanno illecitamente invaso il mio paese.

Pur volendo ragionare in termini di neutrali-tà, sarebbe comunque inaccettabile permettere che una delle parti belligeranti si rifornisca a suo piacimento a scapito dell’altra; ma, visto come sono andate le cose – e secondo quanto stabili-sce l’articolo 16 – nessun governo membro della Società delle Nazioni può considerarsi neutra-le rispetto a questo conflitto. Infatti, se uno sta-to-membro aggredisce un altro stato-membro, i governi di tutte le altre nazioni sono obbligati a sospendere la loro neutralità e sono chiamati ad offrire il loro aiuto alla vittima dell’attacco, non certo all’aggressore.

È stata rispettata questa regola in passato? Ed è possibile affermare che viene oggi rispettata?

Ultimamente, poi, alcune grandi nazioni – la cui influenza sulle decisioni della Società è con-

4 Trattative segrete tra Mussolini e Laval

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siderevole – hanno annunciato nei loro Parla-menti che, siccome gli aggressori sono comun-que riusciti ad impossessarsi di buona parte del territorio etiopico, non ritengono più necessa-rio continuare a mantenere sanzioni economi-che contro l’Italia.

Questa è, dunque, la posizione in cui si tro-va oggi l’Assemblea Generale mentre si accingead esaminare la situazione scaturita dall’aggres-sione italiana.

Ma voi non siete chiamati a pronunciarvi so-lo sull’operato dell’Italia; siamo, infatti, di fron-te ad un problema che riguarda tutti i governi del mondo, perché investe la sicurezza collettiva degli Stati e la fiducia da essi riposta nei trattati internazionali. È in gioco l’esistenza stessa del-la Società delle Nazioni, la credibilità di quel-la promessa con la quale si è garantito ai picco-li Paesi il pieno rispetto della loro inviolabilità territoriale ed indipendenza.

Si tratta, insomma, di affermare il principio dell’uguaglianza fra le nazioni, a meno che non si voglia imporre agli stati più deboli il dominio di quelli più potenti.

Perciò, non è solo l’Etiopia ad essere minac-ciata: è in gioco il quieto vivere di tutti i popoli della terra. Dobbiamo forse ritenere che le firme poste in calce ad un trattato valgono solo fino a che permettono ad alcuni firmatari di raggiun-gere un proprio personale, diretto ed immedia-to interesse?

Queste sottili considerazioni non devono di-stoglierci dal problema principale, nè devono sviare la discussione. Ho voluto rendere parte-cipe l’Assemblea Generale delle mie riflessio-ni e l’ho fatto con la sincerità nel cuore. Oltre al Regno di Dio, non v’è alcun governo uma-no più meritevole di un altro; però, visto che un governo assai potente si è da tempo arrogato il diritto di sterminare un popolo dal quale non ha ricevuto alcun torto dimostrabile, gli aggre-diti ritengono ormai giunta l’ora di riferire alla Società delle Nazioni tutte le ingiustizie subìte. Dio e la storia saranno testimoni del giudizio che esprimerete.

In un momento in cui l’aiuto della Società po-trebbe ancora salvare il mio popolo da un’estin-zione, altrimenti, molto vicina, mi venga alme-no concesso di parlare franco, senza reticenze nè prevaricazione.

Qui si è affermato che le sanzioni fino ad ora adottate non hanno dato i risultati sperati. Ma già si sapeva che queste sanzioni, rimaste sempre inadeguate, rese intenzionalmente in-sufficienti e mai completamente applicate, non avrebbero in alcun luogo o circostanza fermato gli aggressori. Non siamo riusciti a respingerli, ma non certo perché fosse impossibile.

L’Etiopia ha già chiesto un aiuto finanziario ed io adesso rinnovo tale richiesta; perché non è stata ancora accolta? Eppure la Società delle Na-zioni ha già assistito finanziariamente, ed in tem-po di pace, proprio quei governi che ora rifiutano di applicare le sanzioni contro l’Italia. Devo an-zi tristemente rilevare che, malgrado l’evidente crudeltà con cui il Governo italiano sta condu-cendo questa guerra – e nonostante esso abbia più volte violato le leggi internazionali – si sta addirittura mettendo in atto un vero e proprio piano per abolire quelle sanzioni. Tale iniziati-va può annullare una delle ultime opportunità rimaste all’Etiopia per ottenere aiuto e garan-zie dalla Società delle Nazioni; tanto varrebbe, allora, abbandonare l’Etiopia completamente a se stessa, lasciando così libero il governo aggres-sore di fare ciò che più gli conviene.

O non sarà forse proprio questo che i mem-bri della Società dovranno aspettarsi dalle gran-di potenze e dalla loro capacità di condizionare l’Assemblea? Ed anche ammesso che l’aggres-sione italiana avesse davvero determinato un si-mile stato di cose, vedremo i governi qui rappre-sentati sottomettersi alla forza bruta e creare un precedente pericoloso?

Sono già state annunciate delle proposte per migliorare il patto costitutivo della Società, in modo da rendere più efficaci le garanzie di aiu-to reciproco. Ma è davvero necessario cambiare il nostro accordo? Se chi lo ha sottoscritto non ha poi anche la volontà di rispettare fino in fon-do le sue clausole, quale miglioramento potrà

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mai salvaguardarne l’efficacia? Il difetto non sta nel patto, ma nelle reali intenzioni dei governi.

In nome del Popolo Etiopico, chiedo all’As-semblea della Società delle Nazioni di fare quan-to è necessario affinché il patto a cui tutti abbia-mo aderito venga finalmente rispettato. Rinnovo ancora una volta la mia protesta per la violazio-ne dei trattati occorsa a detrimento dell’Etiopia e per le violenze perpetrate contro la sua gente.

Dichiaro davanti al mondo intero che l’Im-peratore d’Etiopia e tutto il suo popolo non ac-cetteranno mai ciò che gli si vuole imporre con la forza. Dichiaro, inoltre, che essi faranno qual-siasi cosa in loro potere per far trionfare l’ordi-ne internazionale, per far rispettare il patto del-la Società e per vedersi restituire l’autorità ed i territori che gli appartengono.

Chiedo a cinquantadue nazioni, quelle che promisero di aiutare l’Etiopia quand’essa venne aggredita, di mantenere il loro impegno e fornire tutto il sostegno necessario per impedire all’ag-gressore di sconfiggerci. In che modo intendete aiutare l’Etiopia? Voi, grandi potenze, voi che a-vete promesso di garantire la sicurezza interna-zionale, quale assistenza volete fornire all’Etio-pia affinché la sua libertà non venga distrutta e la sua integrità territoriale sia ripristinata? Af-finché ogni piccola nazione non debba temere di scomparire, vittima di quello stesso tremen-do destino che ha oggi colpito l’Etiopia?

Rappresentanti del mondo qui riuniti, sono venuto a Ginevra per adempiere al più ingrato dei doveri che spettano ad un Imperatore. Qua-le risposta dovrò riferire al mio popolo?

LETTERA ALLA SOCIETÀ DELLE NAZIONI

Bath, Inghilterra – 25 Marzo 1937

A Sua Eccellenza Signor Joseph Avenol, Se-gretario Generale della Società delle Nazioni – Ginevra

Mi rivolgo alla pregiata attenzione di Vs. Ec-cellenza affinché tutti i membri della Società del-

le Nazioni siano messi a conoscenza di quan-to segue:

Primo – In aperta violazione del patto che lega i membri della Società delle Nazioni, e fin dai primi giorni in cui le barbarie degli Italiani si sono abbattute sul mio Paese, lo sfortunato popolo etiopico sta soffrendo per innumerevoli atrocità, brutalità e sciagure.

Oggi, la sorte di chi è morto in battaglia è da considerarsi migliore di chi sta ancora soffren-do a causa delle continue torture che un crude-le nemico continua ad infliggergli.

Il grande dolore che provo per la dispera-zione del mio popolo mi ha già portato ad ap-pellarmi alla Società delle Nazioni ed al mon-do intero. Ciononostante, la nostra voce rimane ancora inascoltata. I governi hanno chiuso le orecchie alle nostre lamentele, ma la speranza non è scomparsa dai nostri cuori. Ed anche le vostre decisioni, se solo foste venuti a conoscen-za delle brutalità di chi ci ha attaccato, sarebbe-ro state più eque.

Nel frattempo, le barbare violenze degl’inva-sori sono raddoppiate. Stizzito da una così lunga resistenza, il Governo italiano sta continuando la sua violenta ed aggressiva politica di stermi-nio nei confronti di una popolazione – le cui sorti, ormai, dipendono solo dagl’impegni da noi tutti sottoscritti – che ancora fa affidamen-to sul rispetto di quegli accordi per riguadagna-re la sua libertà ed essere protetta dalla buona volontà delle nazioni qui rappresentate.

A fronte di ciò, finora nessuna denuncia era stata mai fatta contro singoli atti di brutalità. Mi sono sempre imposto, infatti, di non accusare mai nessuno senza averne prima prove concrete ed innegabili, preferendo sempre verificare per-sonalmente ciò che mi viene riferito.

Secondo – Il caso che oggi presento alla So-cietà delle Nazioni, ed all’intera comunità mon-diale, riguarda alcuni episodi di selvaggia vio-lenza commessi in Addis Abeba e dintorni nel Febbraio del 1937. A cominciare dalla spietata esecuzione di Ras Desta, di Dejazmatch Beyene e di migliaia di altri nobili, ammazzati dopo es-sere stati catturati nei campi di battaglia. A cui

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si aggiunge il tremendo massacro di molte mi-gliaia di persone durato tre interi giorni e scate-nato come rappresaglia all’attentato subìto dal Maresciallo Graziani. Un quotidiano di Londra ha stimato in almeno seimila il numero degli E-tiopici che sono stati deliberatamente trucidati. Mi sia permesso affermare che il numero del-le vittime di cui io ho avuto notizia è di molto superiore a quanto riportato da quel giornale.

Tutte queste atrocità sono state commesse in aperta violazione delle leggi internazionali che dovrebbero regolamentare i conflitti cau-sati da dispute territoriali, secondo quanto vie-ne definito nella quarta sezione del Trattato di La Hague del 1907 sulle guerre convenziona-li. I firmatari di quel trattato, consci della ne-cessità di tener conto sia degli obblighi imposti dal continuo sviluppo della modernizzazione, sia dei concomitanti interessi delle popolazio-ni, sono arrivati a specificare e a definire esat-tamente le regole entro cui far rimanere i con-flitti. Conseguentemente, in ossequio a quanto dovrebbe accadere tra nazioni civili, alle leggi naturali dell’uomo ed a quello che la coscienza pubblica mondiale richiede, hanno deciso che devono essere leggi internazionali a governare le popolazioni e le nazioni belligeranti.

Terzo – Le immediate esecuzioni dei nobi-li catturati in battaglia violano le regole stabili-te dal suddetto trattato, perché i prigionieri di guerra sono sotto la custodia del governo nemi-co e non diventano di proprietà dei soldati da cui vengono catturati. A parte il denaro, le armi, i cavalli ed i documenti da loro usati per scopi militari, i prigionieri hanno il diritto di restare in possesso dei propri averi personali. Hanno il diritto di essere trattati in modo umano e com-passionevole.

L’articolo 3 del trattato proibisce espressa-mente l’esecuzione o il ferimento dei soldati ne-mici che, arrendendosi, consegnano le proprie armi restando, così, indifesi. Tali punizioni so-no da considerarsi atti premeditati di atrocità, perché il Governo di Roma le ha inflitte pub-blicamente proprio per affermare la sua politi-ca basata sul terrore.

Nel Dicembre 1936, i tre figli di Ras Kassa, Dejazmatch Aberra, Dejazmatch Wondebewos-sen e Dejazmatch Asfa Wossen sono stati ucci-si a sangue freddo col solo scopo di terrorizza-re la popolazione etiopica. Anche questi nobili avrebbero avuto il diritto di essere trattati con rispetto e pietà, così come il Trattato di La Ha-gue e le nazioni civili garantiscono a chiunque, per cause di guerra, si trova esposto a simili eve-nienze.

Quarto – Dopo l’attentato al Marescial-lo Graziani, le autorità italiane hanno ordina-to una terribile azione di sterminio. Moltissimi sono stati gli Etiopici uccisi senza alcuna inda-gine o processo. È stato un atto di pura vendet-ta nei confronti di persone innocenti, e non può essere, in alcun modo, considerato come una pu-nizione legittima.

Le truppe militari italiane hanno circondato la zona dell’incidente e tutti gli Etiopi trovati in quell’area sono stati uccisi, compresi molti lea-der religiosi sia cristiani che musulmani.

Quinto – A partire dall’attentato, le autorità italiane hanno attuato un piano terroristico di esecuzioni sommarie durato tre giorni. Aiuta-ti da civili armati, ai soldati italiani è stato or-dinato di uccidere quanti più uomini, donne e bambini etiopici. Posso fornire ampie prove di quest’orribile e rivoltante atto.

Alle ‘Camice nere’ – ed ai loro fiancheggia-tori – sono state distribuite pistole, fucili, gra-nate, baionette e mazze. Essi hanno percorso i quartieri della città uccidendo chiunque gli ca-pitava a tiro, incluse donne e bambini.

Altri, forniti di lanciafiamme, bruciavano ca-se e capanne, uccidendo chiunque tentasse di scappare. Tutte queste atrocità non sono state commesse durante azioni di guerra, ma ordina-te e volute dalle autorità italiane.

Le vittime erano tutte disarmate; erano uo-mini, donne e bambini innocenti che il paese oc-cupante, l’Italia, secondo quanto stabiliscono le leggi internazionali, avrebbe dovuto protegge-re. Il massacro avvenuto nel Febbraio 1937 la-scerà all’aggressore italiano una stigmata per-petua di vergogna.

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Sesto – Quelli che ho appena raccontato so-no solo alcune delle brutalità che lo sciagurato popolo etiopico ha dovuto subire. Ed è a favore del mio popolo che io sottopongo il mio caso al-la Società delle Nazioni ed al mondo intero, un popolo che sta ancora soffrendo indicibili pene a causa di una spietata e crudele aggressione.

Cari membri della Società, voi siete ora ben consapevoli di quali tormenti sta soffrendo l’Etiopia. C’è qualcosa che potete fare per fer-mare questi crimini contro l’umanità? Ricordate la promessa che faceste alla popolazione etiopica e che oggi io vi chiedo di onorare? Sareste dav-vero capaci di rimanere solo a guardare mentre così tanta gente indifesa viene sterminata?

Come potete restare indifferenti di fronte al-le tremende ed odiose brutalità che affliggono il mio popolo e che presto trascineranno l’inte-ra Europa nella miseria e nella sofferenza, men-tre i responsabili di esse stanno progettando bar-barie ancora più terribili? Ci volete dimenticare per sempre? Di quali crimini ci siamo mai mac-chiati per meritare una simile punizione? Come può la vostra coscienza non ribellarsi vedendoci subire una condanna così immeritata?

Per queste ragioni, chiedo che una speciale Commissione sia istituita per investigare ed in-formare su tutti i brutali crimini perpetrati in Etiopia dal Governo italiano.

LETTERA AL CONSIGLIO MONDIALE

DELLE CHIESEBath, Inghilterra – Marzo 1937

Il mondo intero è ormai a conoscenza del-l’ingrata sorte abbattutasi sull’Etiopia pur es-sendo essa uno dei membri della Società delle Nazioni, nell’autorità della quale ho riposto la massima fiducia.

Ho più volte chiesto che il patto, e gli obbli-ghi da esso derivanti, fossero onorati ma, fino-ra, nessun concreto aiuto è stato dato al mio popolo. Ciononostante, non perderò la speran-

za nel ritorno all’indipendenza del mio Paese, perché credo che, alla fine, il Giudizio di Dio si abbatterà sia sui deboli che sui potenti, secondo quanto ognuno si merita. Ma, fino a quel mo-mento, non mi stancherò di adoperarmi a favo-re della mia gente.

Confido, dunque, nella capacità che i mem-bri del Consiglio Mondiale delle Chiese hanno di esercitare una qualche forma di pressione sul-l’aggressore, per alleggerire i problemi con i qua-li il mio popolo oggi si confronta, nel suo stre-nuo tentativo di porre fine a quelle atrocità che subisce a causa della guerra. È questo che mi auguro rivolgendo il presente appello al Consi-glio Mondiale delle Chiese.

Il mondo intero ha già provato sgomento nel-l’apprendere la notizia delle migliaia di persone massacrate in Febbraio ad Addis Abeba come rappresaglia all’attentato subìto dal Marescial-lo Graziani.

Un così atroce spargimento di sangue, inam-missibile nella nostra epoca, è stato compiuto deliberatamente e premeditatamente. Tutti gli ingressi della città sono stati chiusi e chiunque tentava di uscire veniva annientato. Questo cri-mine così bestiale è stato peggiore di tutti gli atroci atti imputabili alle autorità italiane.

Oltre al suddetto massacro ritengo il Governo italiano responsabile anche delle seguenti bar-bare azioni:

1) Nonostante i soldati italiani abbiano uc-ciso molte migliaia di uomini, donne e bam-bini in luoghi e tempi diversi, nessuno è stato mai punito.

2) Persone di città e villaggi diversi sono state arrestate e percosse a morte unicamente perché c’erano soldati etiopici nelle vicinanze. Il più or-ribile di questi delitti è stato la recente esecuzio-ne di seicento contadini nel Nakamte.

3) In più di un’occasione, oltre un migliaio di persone sono state sommariamente giustizia-te con l’accusa di possesso d’armi e aiuto ai ri-belli.

4) La tortura dei prigionieri ed il rogo per co-loro che sfidarono l’autorità italiana.

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5) Le sevizie inflitte a Ras Desta e ad altri uf-ficiali dopo la loro cattura.

6) Il sequestro ed il trasferimento in campi di concentramento per prostitute di ragazze nubili e di donne il cui marito risultava scomparso.

In aggiunta a quanto sopra elencato, sono stati commessi numerosi atti sacrileghi contro la religione e le pratiche spirituali del mio po-polo e della Chiesa Etiopica. Eccoli, qui di se-guito, descritti:

1) Tra le persone circondate ed uccise nella rappresaglia per il tentato assassinio del Mare-sciallo Graziani v’erano anche preti cristiani e musulmani.

2) Ai parenti di coloro uccisi nel massacro di Febbraio sono stati negati i cadaveri ed è sta-to loro impedito di celebrare funerali cristiani. Gl’Italiani hanno ammassato i corpi e li hanno bruciati come spazzatura.

3) L’incendio deliberato della Cattedrale di San Giorgio in Addis Abeba e di altre chiese.

4) La pubblica esecuzione il 1° Luglio in Ad-dis Abeba del Vescovo Petros, a causa del suo rifiuto di sottomettersi agl’Italiani e di scomu-nicare i patrioti combattenti etiopici.

5) Il trasporto a Roma di un antico e storico obelisco eretto da un nostro precedente Impe-ratore più di 1600 anni fa.

Le suddette atroci azioni, insieme a molte al-tre troppo numerose per elencarle ora, sono sta-te compiute per volontà di un governo che, nel nome della civilizzazione, ha sconfitto il mio Paese ricorrendo ai gas tossici. Dopo una valo-rosa resistenza contro il nemico, il mio popolo, esausto, è stato battuto ed è rimasto vittima del-la sua vendetta e dei suoi capricci.

La maggior parte dei nostri ufficiali è mor-ta in battaglia, ma molti altri, come già succes-so in numerose occasioni, sono stati catturati e percossi fino alla morte. Simili comportamenti sono in totale contrasto con le regole che tute-lano i diritti dei prigionieri di guerra.

Io supplico i Leaders ed i membri tutti del Consiglio Mondiale delle Chiese di denuncia-re le iniquità perpetrate ai danni del mio popo-

lo. Sollecito, inoltre, le vostre preghiere affinché cessino le spregevoli atrocità che vengono an-cora commesse per ordine o per tacito consen-so dei governanti italiani.

AL POPOLO AMERICANOMessaggio radiofonico dalla BBC – Natale 1937

In questo giorno benedetto per l’Umanità in-tera, è grande la gioia che provo nell’inviare a voi tutti i miei migliori auguri di felicità, di pa-ce e di progresso dalla capitale della Gran Bre-tagna, la cui ospitalità è da tempo ben nota. Che la pace regni nei vostri cuori, tra le vostre fami-glie, nell’unità dei vostri governi e nelle vostre relazioni con gli altri popoli del mondo.

Per i Cristiani, non c’è giorno più gioioso e colmo di gratitudine di quello in cui si festeg-gia la nascita del nostro Salvatore Gesù Cristo. In questo giorno di felicità, ogni cristiano, me-ditando sulla vita di Gesù e sulle opere da lui compiute per tutti noi, è portato a dimenticare le prove che affronta e le tristezze che lacerano il suo cuore; si tende a minimizzare i propri di-spiaceri, quelli dei propri congiunti ed amici, ed a perdonare chi ci affligge.

È fin dalla mia infanzia che la misteriosa e profonda spiritualità scaturita dalla nascita di quel divino fanciullo ha sopraffatto tutti i miei pensieri più profondi. La sento non solo carica di mistica espressività, ma anche misteriosa ed imperscrutabile. Similmente, al di là della re-putazione di cui godiamo, delle nostre grandi o piccole conquiste – faticose o inutili esse siano state – nel viaggio della vita, il mistero di Bet-lemme domina il nostro Spirito.

Con la nascita del Figlio di Dio si è verificato un evento senza precedenti, irripetibile anche se lungamente preannunciato. Egli nacque in una stalla invece che in un palazzo, fu deposto in una mangiatoia invece che in una culla. I cuori dei Magi vennero invasi dal timore e dalla meravi-glia di fronte alla sua regale umiltà. I re s’inchi-narono davanti a Lui e Lo adorarono.

Pace agli uomini di buona volontà ... fu questo

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il Suo primo messaggio; e quando sacrificò se stesso sul Golgota in remissione dei nostri pec-cati, Egli pregò fino all’ultimo respiro per il per-dono di chi Lo aveva torturato dicendo: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!

Si vergogni chi, tra noi, pur essendo cristiano, non segue la via del Salvatore del mondo, la vita del quale fu colma di bontà, umiltà e martirio! Se noi vivessimo secondo le leggi da Lui date e fossimo così tutti degni di essere chiamati cri-stiani, la pace già regnerebbe sulla terra.

Gli uomini dovrebbero essere tutti come an-geli viventi che cantano incessantemente lodi all’indirizzo del Dio Eterno. Se così fosse stato finora, il mondo non si sarebbe diviso su fron-ti tra loro nemici.

In verità, non c’è mai alcuna legittima ragio-ne o giusta causa che possa giustificare una guer-ra. Non è stato forse questo lo spirito di fondo che ha permesso agli statisti americani – e ai lo-ro fratelli in altre parti del mondo – di scrivere i nuovi principi di legalità internazionale secon-do le leggi del nostro Salvatore? Con tali prin-cipi s’intendeva evitare nuove guerre e permet-tere in tal modo alle nazioni grandi e piccole della terra di convivere come in una grande fa-miglia, capaci cioè di risolvere ogni eventuale disputa attraverso strumenti appropriati basati sulla legge e sul diritto.

Del resto, c’è poco da fare! Sebbene gli sfor-zi dei saggi possono far meritare loro grande ri-spetto, è ormai appurato che lo spirito dei mal-vagi continua a gettare la sua ombra su questo mondo. Leaders arroganti guidano apertamen-te la loro gente verso il crimine e la distruzione. Le regole della Società delle Nazioni sono co-stantemente violate da guerre e da ripetuti atti di aggressione. Anche il vostro Onorevole Pre-sidente si è recentemente espresso su questo ar-gomento. Ha detto che i principi fondativi del Patto, stabiliti per garantire la pace e la sicurez-za a tutti i popoli, sono stati calpestati, e che quell’Assemblea di pace è stata, conseguente-mente, tradita.

I nobili ideali su cui la Società si fonda sono diventati oggetto di derisione. La bimillenaria

civilizzazione cristiana corre il rischio di un’im-mane distruzione. Se ciò accadesse, si ritorne-rebbe ai tempi della barbarie, quando i più forti potevano permettersi qualsiasi sopruso.

Affinché lo spirito dei dannati non predo-mini sulla razza umana – per la salvezza del-la quale Cristo ha offerto il suo sangue – tutti i popoli amanti della pace dovrebbero coopera-re per resistere, difendere e promuovere la lega-lità. La guerra non è il solo mezzo per ferma-re un’altra guerra. Gli uomini di buona volontà che riconoscono pienamente il proprio dovere, dovrebbero essere capaci, con l’aiuto di tutti gli uomini liberi, di prevenire le guerre e di aiutare coloro che dalla guerra sono stati colpiti e dan-neggiati. È così che il prezioso diamante della Pace va protetto.

Popolo d’America! Vi auguro un Santo Na-tale. Invoco le vostre preghiere a favore di quei popoli deboli e minacciati che guardano con fi-ducia alle bandiere delle nazioni libere, speran-do di scorgere quella stella che annuncerà loro la pace e la futura sicurezza.

LETTERA ALL’ARCIVESCOVO

DI CANTEBURY1938

Sono certo che Vostra Grazia è stata mos-sa da sincera solidarietà cristiana quando il 27 Maggio scorso si è rivolta alla Camera dei Lor-ds parlando a mio favore ed a sostegno del mio Paese.

Vostra Grazia è certamente a conoscenza dei tentativi da me fatti prima, durante e dopo la guerra per raggiungere un accordo negoziato che salvaguardasse gli interessi del mio popolo. Ben sapendo che un accordo frutto della pazienza e della buona volontà ha molte più probabilità di durare rispetto ad uno imposto con la forza – e sentendo per intero il peso della responsabilità che il mio popolo mi ha affidato – ho cercato di fare tutto il possibile per evitare un inasprimen-to delle animosità ed il conseguente fallimento dei tentativi di pace. La mia gente, consapevo-

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le dei pericoli a cui un tale fallimento li avreb-be esposti, mi ha seguito fiduciosa e non mi ha posto di fronte a nessun ostacolo.

Vi rendo partecipe di tutto ciò non perché mi penta di qualcuna delle cose fatte finora. Non ho mai agito con leggerezza o spontaneismo, ma ho compiuto scelte e preso iniziative solo do-po aver seriamente ponderato ed attentamente valutato ciò che ritenevo fosse la soluzione mi-gliore. Lascio il giudizio finale alla storia ed al-la coscienza del mondo.

Il mio popolo, ed io stesso, siamo convin-ti che se il Signore Onnipotente ha a cuore la morte anche di un solo uccellino, sarà tanto più inquieto di fronte alla decimazione di un’intera popolazione. È questo che ci consola. A me in particolare, che osservo lo svolgersi degli even-ti da una posizione esterna, questa convinzio-ne dà un’ulteriore incoraggiamento.

Le atrocità perpetrate in Etiopia hanno scos-so le coscienze del mondo, specialmente quel-le del popolo inglese, che mi ha così generosa-mente offerto ospitalità. Ho sempre saputo che l’amore per la giustizia è ben saldo nelle men-ti degli Inglesi, ed il recente dibattito sull’Etio-pia alla Camera dei Lords, in cui l’azione del-l’Italia è stata condannata come illegale, me ne ha dato conferma.

Ho parlato in più di un’occasione con Lord Halifax5. Mi ha assicurato che il Parlamento Bri-tannico darà il suo sostegno a qualsiasi accordo che serva gli interessi e l’onore della mia gente. Ed io ritengo estremamente importante l’aiuto che proviene da una così grande istituzione e da un popolo così legato agli ideali di giustizia.

Apprezzo perciò in modo particolare le paro-le di Lord Halifax, ma l’ultima cosa che voglio è diventare lo strumento con cui gli Italiani pos-sono risolvere i loro problemi e distruggere gli interessi del mio popolo. Non posso acconsenti-re a niente che li aiuti ad imprigionare perenne-mente le anime ed i corpi della mia gente.

Fin dall’antichità, il dominio dei Romani non ha mai spiccato per le sue doti di clemenza. Sa-

5 Ministro degli Esteri di quel tempo

rei presuntuoso se ricordassi a Vostra Grazia co-sa significò per voi la sottomissione alla Chie-sa di Roma. Ritengo, inoltre, che il linguaggio e le parole usato con me dai fascisti siano sta-te non soltanto infide, ma ripugnanti. Se reagis-si apaticamente a ciò che è accaduto potrei an-che sentirmi pronto ad ignorare il passato ed a ricominciare da capo i negoziati. Ma, dovendo preservare il benessere di un intero popolo, ho il dovere di anticipare e di contrastare quello che potrebbe avvenire nel futuro, visto quanto è già accaduto nel passato.

Conosco la convinzione di coloro secondo i quali il Governo Fascista potrebbe rinunciare all’Etiopia se costretto ad affrontare problemi troppo grandi da risolvere. Ma quali sono que-sti problemi? Il primo di essi è il non ricono-scimento dei diritti che l’Italia pretende di ave-re nei confronti dell’Etiopia. Questo problema, però, sembra ormai prossimo alla soluzione. Il secondo ostacolo è di tipo finanziario. Ma se le pretese italiane otterranno sostanziale ricono-scimento, dubito fortemente che i soldi possa-no costituire un problema.

Il solo vero e formidabile problema per l’Ita-lia è lo spirito indomito del popolo etiopico. Ma se agli Italiani verrà riconosciuto il diritto di go-vernarla l’Etiopia, ad essi verrà consentita qual-siasi cosa, persino di separare le anime dai cor-pi. Cos’altro, dunque, potrebbe costituire più un problema per loro? Il riconoscimento delle prete-se italiane non significa anche la legittimazione delle atrocità perpetrate contro il mio popolo?

Gli Italiani non fanno segreto di come agi-scono in Etiopia. È chiaro a tutti che a loro in-teressa la terra, non le persone che la abitano; l’hanno ampiamente dimostrato coi fatti. Qual-cuno aveva anche pensato che di fronte a diffi-coltà troppo grandi, Mussolini avrebbe cercato di accordarsi, e che anch’io sarei stato pronto a fare compromessi. Mi preoccupa l’idea che i miei amici possano essere fuorviati da simili ipotesi. Inoltre, se penso alle condizioni in cui verserebbero tutti gli esiliati etiopici, che consi-dero come parte della mia famiglia, il futuro mi appare assai triste ed oscuro, e provo un infini-

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to senso di ansietà e sofferenza. Parlo di tutte queste cose per chiarire che io

non accetterò mai accordi che non prevedano anche la giusta compensazione per tutte le vit-time di crimini così atroci. Sono più preoccu-pato per la serenità della mia anima che per le sofferenze del mio corpo. Ed il mio popolo la pensa allo stesso modo. Vi prego, amici, di non dimenticarlo mai.

La simpatia che il popolo britannico mostra verso l’Etiopia è senza limiti. Desidero perciò far sapere ai Leaders di questa generosa nazio-ne che io sono seriamente preparato a conside-rare qualsiasi proposta di riconciliazione che si dimostri equa e rispettosa del mio popolo.

MESSAGGIO AI PATRIOTIda Radio Kartum, Sudan – Luglio 1940

La voce che ascoltate è quella del vostro Im-peratore Haile Selassie I.

Patrioti: proprio quando noi si stava dura-mente lavorando per portare il Paese, già difeso col sangue dai nostri Padri, verso i più alti livelli di civilizzazione, un nemico diventato ormai tra-dizionale, l’Italia, invidioso del nostro progres-so, ha violato le frontiere etiopiche scatenando una brutale guerra contro di noi.

Voi tutti sapete com’è andata. Dopo aver di-feso il Paese con tutte le forze che riuscimmo a radunare, ci siamo rivolti alla Società delle Na-zioni ed a tutti i paesi amici per chiedere la loro assistenza. Mentre noi continuavamo i negozia-ti, voi, Patrioti d’Etiopia, non avete deposto le spade e non vi siete ritirati dai fronti di guerra, e neanche avete buttato via le vostre bandiere.

Opponendovi al governo di gente straniera, avete combattuto con coraggio esemplare con-tro un nemico assai ben più armato. La vostra arma più efficace è stato il vostro innato eroi-smo e la vostra speranza nel Dio d’Etiopia. Ave-te combattuto senza tregua giorno e notte, nel-le gole e nei burroni, ed oggi il vostro sacrificio e la vostra incessante resistenza stanno dando i frutti sperati.

Quando l’Italia violò la sacralità dei nostri confini, Gran Bretagna e Francia l’hanno dap-prima sanzionata, ed ora ci concedono anche quell’aiuto che da tempo chiedevamo per tor-nare a soccorrervi. I loro potenti caccia stanno sorvolando sia il territorio italiano che quello e-tiopico. In Europa, l’Italia sta ricevendo la pu-nizione per il suo attacco sia dal cielo che dalle artiglierie. Ed io sono sicuro che le sue forze di terra non sfuggiranno a voi, patrioti d’Etiopia.

A coloro tra voi che sono ancora sotto il con-trollo degli Italiani, ovunque voi siate, dico di non credere alla falsa propaganda. D’ora in avanti, se continuerete ad essere strumenti de-gli Italiani, lascerete solo infamia ai vostri di-scendenti.

Oggi governi tiranni riescono a prevalere nel mondo. Riescono a separare gente di uno stesso popolo e li perseguitano come se fossero bestie. Nonostante il tempo sembri giocare a loro favo-re, non dimenticate il detto: nell’unità, un pugno di semplici corde può intrappolare un leone.

Grandi e piccoli, adulti e bambini, sollevate-vi da ogni orizzonte contro gli Italiani.

AL PRIMO ALZABANDIERAAddis Abeba – 5 Maggio 1941

Nessuna parola pronunciata da uomini può adeguatamente esprimere la gratitudine da me ora provata per quel Misericordioso Dio che mi permette di rivolgermi a voi in questo giorno, del quale nè gli angeli del Paradiso nè le crea-ture della terra avrebbero mai potuto immagi-nare o conoscere l’arrivo.

Prima di qualsiasi altra cosa, voglio dirvi e farvi capire che questo è il giorno nel quale co-mincia un altro capitolo della storia della Nuo-va Etiopia. È una nuova era quella che comin-cia oggi, che chiama tutti noi ad impegnarci per un nuovo lavoro.

Pur ricordando le sofferenze patite dall’Etio-pia in epoche passate, oggi vi parlerò solo della sua storia più recente. l’Etiopia è riuscita a pre-servare la sua indipendenza per migliaia di an-

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ni. Quando, nel 1895, fu attaccata dall’Italia – che già da tempo progettava di distruggere la sua libertà – i suoi coraggiosi figli combatterono ad Adua e la difesero ancora una volta. I motivi di quella battaglia non sono da ricercare nel Trat-tato di Wuchale. Anzi, esso fu solo il pretesto che l’Italia trovò per realizzare la sua volontà di conquistare l’Etiopia.

Sebbene interrotto per un po’ dalla prima Guerra Mondiale – e nonostante tutte le false ostentazioni di amicizia – l’Italia non ha mai ri-nunciato al suo piano d’invasione. La sconfit-ta di Adua, la vittoria della giustizia, l’avevano troppo irritata. Quando cominciò la sua guer-ra d’aggressione, noi le resistemmo con tutte le forze a nostra disposizione, pur sapendo di non disporre del suo stesso potenziale bellico. Lo fa-cemmo perché era nostro dovere resistere con-tro chi minacciava il nostro paese; e quando fu chiara la sua intenzione di sterminare il nostro popolo con i gas tossici, il cui uso era proibito dalle leggi internazionali, ci recammo alla So-cietà delle Nazioni per chiedere giustizia.

Il timore che le ostilità cominciate dall’Italia avrebbero potuto propagarsi anche altrove si e-ra già diffuso, e tutti i responsabili dei governi stavano cercando di salvare il mondo dalla cata-strofe che la seconda Guerra Mondiale avrebbe poi provocato. Fu allora che i nostri sinceri ami-ci della Gran Bretagna ci offrirono ospitalità. Io l’accettai e rimasi là a continuare il mio lavoro, anche se con lo spirito mi sentivo costantemente a fianco dei miei compatrioti, il cui sangue ve-niva versato brutalmente ed immotivatamente dagli Italiani, a fianco di quei monasteri e delle chiese che venivano bruciate, a fianco di colo-ro costretti all’esilio in terre straniere e di colo-ro che vivevano afflitti e sofferenti nelle foreste, nelle caverne e nei deserti del loro stesso paese.

Quanti sono i giovani, le donne, i preti ed i monaci ammazzati spietatamente dagli Italiani in questi anni? Nella sola Addis Abeba, come voi sapete, ne morirono a migliaia durante i tre giorni successivi alla festa di San Michele (19 Feb. 1937). Il sangue e le ossa di chi fu ucciso trafitto da pugnali e baionette, di chi fu squar-

tato dalle asce o percosso a morte con pietre e mazze, di chi fu arso vivo nella sua casa insie-me ai suoi figli, di chi morì di fame e sete in pri-gione, ancora piangono per ottenere giustizia.

Tutti sanno che tali barbarie e crudeltà non sono state commesse solo in Addis Abeba, ma in molte altre province etiopiche. È difficile tro-vare qualcuno che non sia stato catturato, pic-chiato, umiliato o imprigionato. Adesso però è tempo di passare alla nuova storia che ci aspetta.

Cinque anni fa, in questo stesso giorno, le for-ze fasciste entrarono nella nostra capitale; Mus-solini annunciò al mondo di aver istituito un Im-pero Romano in l’Etiopia. Egli credeva di aver conquistato per sempre questa terra, ma il va-lore del popolo etiopico è ormai impresso nel-la storia. Non avendo scali marittimi attraver-so cui ricevere armi, ne dovemmo fare a meno. Cinquantadue nazioni condannarono l’operato di Mussolini, ma lui si vantò delle sue violen-ze e non prese in alcuna considerazione la lo-ro condanna.

Sono stati cinque anni di buio per voi, popo-lo mio, ma non perdeste la speranza; sulle mon-tagne siete anzi gradualmente cresciuti in forza e determinazione. Il nemico non ha mai potuto avvicinarsi a quelle montagne perché voi, guer-rieri d’Etiopia, sopportando qualsiasi disagio, siete riusciti a difendere la vostra libertà.

Nonostante non fosse riuscito a conquista-re il nostro Paese, il nemico ha speso miliardi di lire, affermando di voler civilizzare le zone da lui controllate. Ma quei soldi non sono ser-viti a migliorare le condizioni del popolo op-presso d’Etiopia, e nemmeno per rimediare al-le ingiustizie da lui stesso provocate. Il suo vero scopo era quello d’impiantare una colonia fa-scista nella nostra sacra terra d’Etiopia, ed im-porre così quel dominio oppressivo già da tem-po programmato.

Mussolini ha cercato di sterminare la razza etiopica, senza nemmeno prendere in conside-razione l’ipotesi di amministrare il paese tramite un mandato o un protettorato; ipotesi comunque considerata assai pesante per il nostro popolo.

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Ma tutti quei miliardi e tutti quegli arma-menti hanno ottenuto un effetto che Mussolini non avrebbe mai voluto. Quando l’Italia decise di entrare in guerra per riuscire a strappare da una Francia ormai vinta tutto il massimo pos-sibile, il numero di truppe, di armamenti e di capitale inviati in Etiopia erano enormi: non meno di 250.000 uomini e provviste sufficien-ti per resistere, in caso di accerchiamento, per molti anni.

Contando, e vantandosene, sull’invincibilità del suo esercito, il governo fascista attuò la sua intenzione di controllare dittatorialmente il no-stro paese. Ma qualcosa di non previsto ostaco-lò questo disegno: l’ardore combattivo – essen-ziale nelle guerre moderne – da voi dimostrato. Siete stati capaci di distruggere un nemico su-periore a voi in numero ed armamenti perché voi siete un popolo coraggioso e clemente, per-ché, conoscendo le strategie della guerra, siete riusciti a cooperare ed a resistere.

Le truppe britanniche, già impegnate nel-la difesa dei diritti umani su altri fronti, hanno avuto bisogno di un po’ di tempo prima di po-ter intervenire in nostro aiuto. Ma voi, guerrieri d’Etiopia, avete incalzato il nemico, isolandolo e costringendolo a rifugiarsi nelle sue stesse for-tificazioni. Nonostante la fiducia riposta nel suo esercito, egli ha dovuto subire l’odio del popo-lo d’Etiopia da un capo all’altro del Paese. Ha dovuto riconoscere l’impossibilità di continua-re a vivere in un paese come il nostro, in mez-zo a gente come voi.

Dopo l’uso dei gas tossici e delle bombe, do-po tutte le atrocità commesse, non avrebbe mai potuto trarre alcun beneficio nel governare un paese dal quale non poteva aspettarsi altro che ostilità. Resosi conto di quanto forti erano gli av-versari che lo circondavano, ha cercato di accor-darsi con loro, di comprarne la lealtà. Si è guar-dato attorno, cercando un posto dove rifugiarsi in Etiopia, ma non ne ha trovato alcuno.

Quando giunse il momento, il nostro forte al-leato Britannico si preparò a sferrare un vero at-tacco contro il nostro comune nemico. Appena ne fui messo al corrente, sono partito alla vol-

ta del Sudan e da lì sono entrato nel Gojam. In questa regione il nostro nemico aveva robuste fortificazioni e truppe molto esperte appoggia-te da aerei e da artiglierie. In proporzione, ad ogni nostro soldato il nemico ne poteva oppor-re venti e noi non disponevamo nè di aviazione nè di artiglieria. Ma la mia presenza tra i miei guerrieri attrasse migliaia di uomini e fece au-mentare la sua ansia e la sua paura.

Mentre i miei soldati non gli concedevano al-cuna tregua, riuscendo ad isolarlo e costringen-dolo ad attraversare il fiume Abay, per poi inse-guirlo nello Showa e nel Begemdir, mi giunse la notizia della liberazione della nostra capita-le ad opera delle truppe imperiali britanniche, che già stavano muovendosi a nord verso Des-siè ed a sud verso Jima. Stesso successo stavano avendo le truppe partite dal Sudan, che distrus-sero la fortezza di Keren sconfiggendo totalmen-te il nemico.

Arrivò dunque anche il momento di entra-re nella capitale. Radunai perciò tutte le mie truppe ancora all’inseguimento del nemico ed oggi sono enormemente felice di essere potu-to arrivare qui, alla testa dei miei soldati, aven-do sbaragliato tutte le resistenze trovate lungo il cammino e sconfitto il potere che ci ha così brutalmente oppresso.

Miei compatrioti, sono profondamente gra-to al Signore Onnipotente per essere qui tra voi, nello stesso palazzo dal quale il Governo Fasci-sta ha dovuto andar via; oggi è davvero il gior-no in cui l’Etiopia ha steso le sue mani verso Dio in gioia e gratitudine, mostrando tutta la sua fe-licità ai propri figli.

Questo giorno, in cui i popoli d’Etiopia so-no finalmente liberi dall’oppressivo giogo stra-niero e dalla perenne servitù, in cui ho potuto ricongiungermi alla gente che amo e che mi è davvero mancata, sarà, d’ora in avanti, onora-to e celebrato ogni anno come un grande An-niversario Etiopico. In questo giorno noi ricor-deremo quegli eroici guerrieri che, ben decisi a non perdere la grande eredità ricevuta dai loro padri, si fecero martiri, versarono il loro san-

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gue ed ebbero le loro ossa spezzate per la liber-tà della terra che amano, per l’onore del loro Imperatore e della loro bandiera. Queste eroi-che gesta rimarranno per sempre impresse nel-la storia d’Etiopia.

Le tribolazioni e le sofferenze che ci hanno afflitto nei cinque anni trascorsi – e che non po-trebbero mai essere raccontate o enumerate in tutti i loro dettagli – dovranno servire a noi tut-ti come grande lezione. Con industriosità, uni-tà, cooperazione ma, soprattutto, con l’amore scolpito nel nostro cuore, devono diventare il vostro più grande incentivo per affiancarmi ed aiutarmi nella costruzione dell’Etiopia che ho in mente.

Nella nuova Etiopia voglio che voi diventiate un popolo senza divisioni e pienamente intito-lati a vivere nella libertà e nell’uguaglianza da-vanti alla legge. Dovete unirvi a me nello sfor-zo di portare prosperità al paese, ricchezza alle persone, sviluppo all’agricoltura, al commercio, all’istruzione, alla formazione, alla protezione della vita e delle risorse del nostro popolo, per il perfezionamento, secondo i criteri più moder-ni, dell’amministrazione del paese.

È mio fermo desiderio ed intento meritare la benedizione che Dio, nella sua misericordia, ha voluto dispensarci, prima di tutto mostrando la mia gratitudine ai nostri alleati Britannici; ai quali, per combattere il nemico comune anche su altri fronti, offro l’immediata disponibilità delle mie truppe nonché l’impegno a fornirne ancora allorquando ne avesse ulteriore bisogno.

In secondo luogo, adoperandomi a favore del-l’Etiopia e del suo popolo attraverso l’istituzio-ne di un governo che salvaguarderà gli interessi della nazione e la renderà rispettabile, garanten-do i diritti e la libertà di coscienza a tutti.

Per finire, popolo mio, quello che devo an-nunciarvi è la completa sconfitta del nemico. Oggi è un giorno di esultanza per tutti noi; ma dicendovi di esultare con tutto il vostro cuore, vi invito a farlo solo nello spirito del Cristo, in nessun altro modo.

Non rispondete male al male, non abbando-natevi a quelle stesse atrocità che il nemico, col

suo abituale agire, ci ha inflitto fino all’ultimo. Non infangate il buon nome dell’Etiopia con azioni degne solo del nostro nemico. Dobbia-mo solo disarmarli e farli uscire dal paese così come vi erano entrati.

Essendo San Giorgio, l’uccisore del drago, il santo patrono sia delle nostre forze armate, sia di quelle del nostro alleato, facciamo di que-st’amicizia un bene duraturo, per essere sempre in grado di resistere contro il crudele ed empio Dragone nuovamente comparso ad opprimere il genere umano. Vi chiedo perciò di considera-re i nostri alleati come amici e fratelli, mostran-dogli cordialità e rispetto.

IL PROGRESSO È MORALEIntervista a

The Voice of Ethiopia – 5 Aprile 1948

Ci sono persone, ovunque nel mondo, convinte che i mali portati all’umanità dalla civilizzazione sono maggiori dei benefici; essi sostengono che, insieme al-le comodità fisiche da esso introdotte, il cosiddetto pro-gresso moderno ha causato anche danni incalcolabi-li, indebolendo fortemente quei valori spirituali tanto considerati nel passato. Ciò che loro chiamano valori spirituali è abitualmente associato alla religione; in altre parole, il grande progresso compiuto attraverso i secoli ha contribuito ad indebolire l’influenza della religione sull’uomo, privandolo così di quella pace in-teriore di cui egli ha tanto bisogno per il suo benessere. Qual è l’opinione di Vostra Maestà in proposito?

Nessuno può negare che in passato la vita dell’uomo è stata piena di affanni e fatiche. È quindi corretto affermare che la moderna civi-lizzazione ed il progresso scientifico hanno for-temente migliorato le sue condizioni di vita, in-troducendo comodità e facilitazioni lungo il suo cammino. Ma l’uomo può servirsi della civi-lizzazione sia per buoni che per cattivi scopi. L’esperienza dimostra che essa ha portato im-mancabilmente grandi vantaggi a chi l’ha sapu-ta usare con buoni intenti, mentre ha causato danni e maledizioni incalcolabili a coloro che se ne sono serviti per scopi malvagi. È dunque

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segno di massima saggezza rendere i nostri de-sideri obbedienti all’influenza del bene, ed evi-tare, così, di perseguire il male. Per riuscire a se-guire questa strada bisogna farsi guidare dalla religione. Il progresso senza religione è come av-venturarsi nella vita circondati da pericoli igno-ti; si può paragonarlo ad un corpo senza anima.

Tutte le invenzioni umane, dagli arnesi pri-mitivi all’energia atomica, possono fortemen-te agevolare gli sforzi pacifici dell’uomo. Ma, se usate per raggiungere obiettivi malvagi, po-trebbero spazzare via dalla faccia della terra la razza umana. Solo quando l’uomo è guidato dalla religione e dalla moralità acquisisce quel-la visione necessaria per mettere tutte le inven-zioni del suo ingegno al servizio di scopi utili e benefici.

Il progresso scientifico danneggia la religione solo quando è usato per scopi malvagi, non cer-to per una sua pretesa priorità su di essa e sulla rivelazione che l’uomo riceve da essa.

È importante che l’avanzamento spirituale mantenga il passo con il progresso materiale. Se ciò avviene, il cammino dell’uomo verso va-lori più alti e duraturi mostrerà progressi ben più evidenti, mentre il male che c’è in lui retro-cederà sul fondo.

Coscienti che il progresso materiale e spiritua-le sono essenziali all’uomo, dobbiamo incessan-temente lavorare per un equo raggiungimento di entrambi. Solo allora saremo capaci di acqui-sire quella pace interiore così necessaria al no-stro benessere. Solo quando un popolo si batte, riuscendo a bilanciarli, per il progresso scienti-fico e l’avanzamento spirituale può considerare la sua personalità pienamente completa e perfet-ta. Questi sono i principi fondamentali sui quali abbiamo programmato il progresso dell’Etiopia.

ALL’ETHIOPIAN WOMEN WELFARE ASSOCIATION

19 Dicembre 1959

La Women Welfare Association celebra og-gi il suo 25° Anniversario e noi siamo veramen-

te felici di essere testimoni di un evento così im-portante. Fin dalla sua creazione, avvenuta in tempo di guerra, quest’associazione ha reso al Paese numerosi servigi di utilità sociale. Non e la prima volta che le donne etiopiche lavorano per il loro Paese ed il loro Imperatore fianco a fianco con la popolazione maschile; anche la storia ce ne fornisce più di una riprova.

Siamo veramente soddisfatti delle capacità mostrate dalle donne etiopiche nei nostri recen-ti sforzi per progredire in campo educativo. Noi non solo auspichiamo che in futuro la donna trovi opportunità pari a quelle solitamente tro-vate dall’uomo, ma desideriamo incoraggiarle a dare anche un uguale contributo, attraverso un’uguale partecipazione ai vari progetti di svi-luppo del nostro Paese. È nostra speranza che quest’Associazione di donne, istituita grazie al patrocinio e alla guida di Sua Maestà l’Impera-trice, continui a prosperare e veda crescere, co-me conseguenza del buon esempio da essa for-nito, il numero delle adesioni. Niente ci rende più felici quanto il constatare che, avendo Noi deciso i programmi di sviluppo, uomini e don-ne stanno ora egualmente beneficiando dei pro-getti che abbiamo avviato per l’Etiopia.

LIBERTÀ ED UNITÀ AFRICANAai Leaders africani – 25 Maggio 1963

L’Organizzazione dell’Unità Africana è sta-ta fondata dalla gente del nostro continente con l’intento di adempiere ad alcuni compiti. In bre-ve, l’Organizzazione ha lo scopo di assicurare una migliore protezione all’indipendenza de-gli Stati africani, e deve servire ad accelerar-ne il progresso sociale ed economico attraverso la cooperazione fra i rispettivi popoli. Essa ha inoltre l’importante compito di collaborare al mantenimento della pace e della sicurezza in-ternazionale.

Sappiamo che l’unità può essere ottenuta – così come già lo è stata – anche fra uomini dalle origini più disparate. Le loro differenze di raz-za, di religione, di cultura e tradizioni non so-

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no diventati ostacoli insormontabili di fronte al-la volontà della gente di unirsi.

Oggi, presentandoci uniti nel campo delle vi-cende planetarie, davanti all’opinione pubblica mondiale, desideriamo affermare il nostro ruo-lo nell’evoluzione dei rapporti internazionali, compiendo così il nostro dovere verso i due-centocinquanta milioni d’individui che abita-no il nostro vasto continente e della cui guida siamo responsabili.

L’Africa si trova oggi a metà strada, in tran-sizione dall’Africa di ieri all’Africa di domani. È la nostra stessa presenza qui a farci muovere dal passato al futuro. Il programma che ci sia-mo dati, la costruzione dell’Africa, non tarderà a realizzarsi; dobbiamo però agire per dar forma e consistenza al futuro, per lasciare la nostra im-pronta sugli eventi che la storia ci propone.

Con questa riunione desideriamo determina-re la direzione in cui muoverci e tracciare il cor-so del nostro destino. è quindi altrettanto impor-tante conoscere da dove proveniamo, perché la coscienza del nostro passato è essenziale per lo stabilimento della nostra personalità ed identi-tà di africani. Questo mondo non è stato crea-to un pezzo alla volta. L’Africa è nata né pri-ma né dopo qualsiasi altra area geografica del globo. Gli africani posseggono né più né meno attributi umani degli altri: talenti e deficienze, virtù e colpe.

Migliaia di anni fa in Africa fiorirono civil-tà che nulla avrebbero da perdere se compara-te a quelle di altri continenti. L’oscurità in cui è avvolto il periodo trascorso da quei giorni al-l’attuale riscoperta dell’Africa sta gradualmen-te schiarendosi. In quei secoli gli Africani erano politicamente ed economicamente indipenden-ti, istituivano da soli le proprie strutture sociali e davano vita a culture veramente indigene. Ma gente d’altri luoghi della terra, preoccupandosi solamente dei propri interessi e basandosi sul-le proprie concezioni, proclamarono che la ci-viltà iniziava e terminava all’interno dei propri orizzonti. Così, completamente ignorata, l’Afri-ca si è sviluppata secondo i suoi modelli, è cre-sciuta in base alla sua stessa vita, per riemerge-

re finalmente nella coscienza mondiale durante il 19° secolo.

Gli eventi che hanno caratterizzato gli ulti-mi centocinquant’anni non richiedono ulteriori lunghe esposizioni da parte nostra. Il periodo di colonialismo in cui fummo tuffati culminò nel-l’incatenamento ed imprigionamento del nostro continente; il popolo fiero e libero di un tempo fu costretto all’umiliazione ed alla schiavitù in un territorio ridotto a scacchiera da confini ar-tificiali ed arbitrari. Molti di noi, durante quel-l’amara stagione, furono sopraffatti in battaglia; chi sfuggì alla conquista dovette poi sopporta-re i costi della sua disperata resistenza e della perdita di vite che essa comportò. Altri furo-no venduti in catene, come prezzo preteso dai colonialisti per l’estendersi della loro protezio-ne e per il dominio che loro stessi imponevano. L’Africa era il mercato per i prodotti d’altre na-zioni e, contemporaneamente, la fonte di ma-terie prime con le quali le loro fabbriche pote-vano produrre.

L’Africa è oggi emersa da quel buio periodo. La nostra Armaghedeon è finita. L’Africa è ri-nata come un continente libero e gli africani so-no rinati come uomini liberi. Il sangue versato e le sofferenze sopportate reclamano adesso li-bertà ed unità. Coloro che rifiutarono di accet-tare il giudizio dei colonizzatori, che rimasero saldi, anche nei momenti più duri, nella visione di un’Africa emancipata dalla dominazione po-litica, economica e spirituale, saranno ricordati ed onorati dagli Africani ovunque essi si ritrove-ranno. Molti di loro non hanno mai messo pie-de in questo continente; altri sono nati e morti qui. Ciò che noi oggi reclamiamo poco aggiun-ge all’eroico sacrificio di quelli che, con il pro-prio esempio, ci hanno mostrato quanto prezio-se sono la libertà e la dignità umana, e quanto poco valore ha la vita senza di esse. Le loro o-pere sono scritte nella storia.

Ma la vittoria africana, pur se proclamata, non è ancora totale, perché ancora rimangono sacche di resistenza. Oggi perciò affermiamo che il nostro primo grande compito è la liberazio-

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ne di quegli Africani ancora dominati dal con-trollo e dallo sfruttamento straniero. In vista di questo traguardo, con il trionfo ormai alla no-stra portata, non dobbiamo esitare, rallentare o riposarci; dobbiamo invece compiere un ultimo supremo sforzo, nonostante la stanchezza, no-nostante quel senso di sazietà che ci proviene dall’aver ottenuto così tante vittorie.

La nostra libertà sarà insignificante fino a quando tutti gli Africani non saranno altrettan-to liberi. I nostri fratelli della Rodesia, del Mo-zambico, dell’Angola, del Sud Africa piangono angosciati ed aspettano il nostro aiuto. Dobbia-mo perciò sostenerli e reclamare la loro pacifi-ca conquista dell’indipendenza. Dobbiamo al-linearci ed identificarci con ogni aspetto della loro lotta. Se ci limitassimo ad un appoggio solo verbale, senza far seguire alle parole azioni con-crete, il nostro sarebbe un vero e proprio tradi-mento. A loro diciamo: la vostra causa non sarà ignorata; le risorse dell’Africa, e di tutte quelle nazioni amanti della libertà, sono dirette al vo-stro servizio. Rasserenate i vostri cuori, perché la liberazione è vicina.

Intorno a noi non mancano però le critiche ed i criticismi, i dubbi ed i pessimismi. C’è, infat-ti, chi afferma che l’unità africana è impossibile perché le forze che ci dividono sono troppo po-tenti per essere sconfitte. Essi parlano dell’Afri-ca e del futuro africano, della sua collocazione nel 20° secolo, in toni sepolcrali; manovrano il dissenso e lo sfaldamento fra i popoli del nostro continente provocando lotte intestine e caos. Il nostro operato dovrà confonderli e disperderli nella confusione.

Ci sono altri, però, che nutrono luminose spe-ranze per l’Africa, che si ergono a testa alta, sognando per essa una nuova e più felice vita. Hanno dedicato se stessi alla sua realizzazione e vengono spronati dall’esempio di quei fratelli verso i quali si sentono debitori per le conquiste che l’Africa ha raggiunto nel passato. Cerchia-mo dunque di premiare la loro fiducia e meri-tare la loro approvazione.

Il cammino dell’unità africana è già traccia-to da precisi segnali. Gli scorsi anni sono sta-

ti pieni d’incontri, conferenze, dichiarazioni e pronunciamenti. Sono state create organizza-zioni regionali e sono sorti gruppi locali basa-ti su interessi, presupposti e tradizioni comuni.

Ma c’è un tema unico che attraversa tutto quello che in questi anni è stato detto, scritto e fatto. Il traguardo da tutti accettato è l’Uni-tà. Possiamo discutere sui mezzi, sulle diverse strade possibili, sulle tecniche e sulle strategie; ma, una volta liberatoci dalle differenze seman-tiche, non avremmo molto su cui dissentire, per-ché siamo tutti ugualmente determinati a crea-re un’unione di africani.

Dobbiamo però evitare soprattutto le trappo-le del tribalismo. Dividendoci secondo le appar-tenenze tribali apriremmo le porte all’intervento straniero ed alle sue potenziali dannose conse-guenze. Il Congo fornisce una prova lampan-te di quanto ho detto. L’attuale miglioramento della sua situazione non deve farci cadere nel-la compiacenza. Il popolo congolese ha soffer-to una profonda miseria e la sua crescita econo-mica è stata ritardata proprio dalle lotte tribali.

Quindi, pur convenendo che sarà solo l’u-nione politica a sancire il destino definitivo di questo continente, dobbiamo contemporanea-mente riconoscere che gli ostacoli da superare per raggiungerla sono, al tempo stesso, nume-rosi e formidabili.

I popoli africani non sono giunti alla libertà in condizioni uniformi. Essi mantengono siste-mi politici ed economici diversi. I nostri ordina-menti sociali sono radicati in culture e tradizio-ni diverse; inoltre, non esiste un chiaro consenso sul come e sul cosa di questa unione. Dovrà es-sere federata, confederata, unitaria? Si dovrà li-mitare la sovranità dei singoli stati? Di quanto ed in quali settori?

Su queste questioni ancora non c’è accordo; ma se aspettassimo di avere risposte concordi per proseguire, gli avvenimenti non avanzereb-bero di molto ed il dibattito continuerebbe ad essere improduttivo.

Realisticamente parlando, il nostro continen-te non è ancora fatto. Esso attende ancora la sua creazione ed i suoi creatori. Il dovere ed il pri-

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vilegio che ci attende è quello di svegliare que-sto gigante sonnecchiante per portarlo non ver-so il nazionalismo europeo del 19° secolo, non verso una coscienza solo regionale, ma nella vi-sione di un’unica Fratellanza Africana che dedi-ca i suoi sforzi unitari al raggiungimento di una meta più grande e più nobile.

ISTRUZIONEalla Facoltà di Diritto

Addis Abeba – 14 Settembre 1963

L’istruzione sviluppa l’intelletto e l’intelletto distingue l’uomo dalle altre creature. È l’istruzio-ne che consente all’uomo di governare la natura ed utilizzarne le risorse per il suo benessere ed il miglioramento della sua vita. La chiave per pro-gredire e per vivere pienamente le opportunità che il mondo moderno offre è l’istruzione.

Ma non si vive di solo pane. Nell’uomo, per-ciò, insieme all’intelletto deve svilupparsi anche l’anima. Quindi l’istruzione, ed in particolar mo-do quella di grado più elevato, deve tendere a fornire, oltre al cibo per il corpo e per la mente, anche cibo per l’anima.

L’istruzione che, ignorando la natura intrin-seca dell’uomo, non valorizza e favorisce la sua capacità di ragionare, non può essere considera-ta veramente educativa. Un’istruzione ben strut-turata, inoltre, non dovrebbe essere finalizzata solo al raggiungimento d’alti guadagni. Deve piuttosto aiutare e guidare gli studenti verso l’ac-quisizione di una sempre maggiore chiarezza di pensiero, di una mente produttiva e di uno spi-rito elevato.

L’Etiopia, e gli altri paesi che si trovano nel-la sua stessa condizione, non hanno bisogno di persone che usano il proprio intelletto solo per accumulare conoscenze. L’individuo istruito di cui abbiamo bisogno è colui che riesce ad usare le idee che gli provengono dalle letture, dagli stu-di e dai confronti con gli altri per contribuire, nel migliore dei modi, al benessere del proprio pae-se e della sua stessa gente; colui che, in armonia

con gli aspetti economici e sociali della sua co-munità, diffonde queste nuove idee, affinché da esse possano scaturire fruttuosi risultati.

Sono queste le persone che saranno in gra-do di usare adeguatamente tutte le specifiche conoscenze accumulate nel corso del loro ap-prendimento, che sapranno dispiegare appieno la loro creatività nell’affrontare situazioni sem-pre nuove.

L’Etiopia è un paese dalle tante ricchezze; tra queste vi sono le sue varie espressioni culturali. La diversità delle nostre usanze è molto di più che il semplice risultato di un’eredità storica di tempi ormai passati; essa è l’originale caratteri-stica della nostra etiopicità, e noi non vogliamo perderle le nostre tradizioni. Desideriamo invece farle evolvere, arricchirle e trasformarle, anche con il contributo della moderna educazione.

Voi tutti siete consapevoli dei continui sfor-zi che l’Etiopia compie per sviluppare standard educativi profondi ed ambiziosi. Abbiamo un gran bisogno di persone istruite ed esperte nei campi della ricerca, dello studio e dell’utilizzo delle risorse, della tecnologia, della medicina, del diritto e dell’amministrazione, per organizzare la vita del nostro popolo in armonia con le sue usanze. Queste esigenze c’impongono di garanti-re, ad ogni livello, l’accesso gratuito all’istruzio-ne scolastica. Gli studenti, da parte loro, consci del privilegio di cui godono, dovrebbero impe-gnarsi a ricompensare la loro nazione.

Il nostro paese può permettersi di fornire istruzione solo a pochi; ciò non viene fatto per seguire una tendenza, una moda; essa viene im-partita per uno scopo: affidare loro un compito, un’alta responsabilità, affinché essi ne facciano un uso pieno ed esaustivo per il benessere no-stro e delle future generazioni.

Ciò di cui abbiamo appena parlato riguarda il tipo di risultati che ci aspettiamo dagli studenti, le responsabilità a loro affidate. È però sui mem-bri docenti di questa facoltà che noi contiamo per raggiungere i nostri obiettivi. Siamo certamente consapevoli del grosso sforzo che vi chiediamo, ma ci auguriamo che anche voi, credendo nelle

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vostre responsabilità ed accettandole come un sacro dovere, produciate, a vostra volta, persone che, sentendosi fiere sia di voi sia di quello che da voi apprenderanno, saranno pronte a rispon-dere alla chiamata per servire l’Etiopia.

Siete voi che dovrete modellare le menti dei vostri studenti per renderle sagge, lungimiran-ti, intelligenti e profonde, fedeli al loro paese, al loro governo e, soprattutto, produttive nei lo-ro specifici campi. Siete voi a dover fornire lo-ro un esempio, mentre spetta a loro apprendere non solo quello che di formale c’è nell’istruzio-ne scolastica, ma anche la virtù dell’autodisci-plina, altrettanto meritevole di essere trasmes-sa. Possa, dunque, l’Onnipotente Dio assistervi nel compimento del vostro dovere.

MORALITÀ INTERNAZIONALEall’ONU – 6 Ottobre 1963

Signor Presidente, distinti rappresentanti, da Imperatore d’Etiopia ventisette anni fa presi la parola per lanciare un appello alla Società delle Nazioni in Ginevra, Svizzera, a cui chiesi soc-corso per le distruzioni inferte dall’invasore fa-scista al mio popolo indifeso. In quell’occasio-ne credevo di parlare alla coscienza del mondo, ma le mie parole rimasero inascoltate. La Sto-ria è però testimone di quanto precisi furono gli avvertimenti che io diedi nel 1936, allorquan-do affermai che non solo il patto della Società era a rischio, ma che si stavano minacciando le basi stesse della moralità internazionale. Dissi anche che le imprese hanno ben poco valore se manca la volontà di condurle a termine.

Oggi mi presento davanti all’organismo che ha realizzato ciò che il suo screditato predeces-sore aveva rinunciato a fare. In questa istituzio-ne quel principio di sicurezza collettiva che io invocai, senza successo, a Ginevra viene quasi venerato; è perciò proprio in questa assemblea che si conserva la migliore speranza – se non, addirittura, l’ultima – di assicurare la pacifica convivenza tra gli uomini.

Nella Carta delle Nazioni Unite sono espres-

se le più nobili aspirazioni umane: rifiuto della forza per risolvere le dispute fra gli Stati; garan-zia e rispetto dei diritti umani per tutti, senza di-stinzione di razza, sesso, lingua o religione; la salvaguardia della pace e della sicurezza inter-nazionale. Ma anche queste, come quelle del pri-mo patto, potrebbero rimanere solo vuote parole, perché il loro vero valore è interamente condizio-nato dalla nostra volontà di rispettarle ed ono-rarle dando ad esse contenuto e significato.

La difesa della pace e la garanzia per tutti dei basilari diritti e della libertà richiedono co-raggio ed incessante vigilanza: coraggio di par-lare, agire e – se necessario – di soffrire e mori-re per la giustizia; incessante vigilanza affinché anche la più piccola trasgressione della morali-tà internazionale non rimanga ignota e irrisolta. Questa è una lezione che ogni nuova generazio-ne dovrebbe apprendere; fortunati sono coloro che la apprendono dalle amare esperienze altrui piuttosto che dalle proprie.

Quello che le Nazioni Unite – quale luogo in cui viene decisa e fatta rispettare la legalità in-ternazionale – sono riuscite a realizzare è anco-ra spiacevolmente lontano dalla meta che ci pre-figgiamo, ovvero la creazione di una comunità mondiale di nazioni. Ma ciò non significa che le Nazioni Unite hanno fallito. Su questa Orga-nizzazione, su ognuno dei suoi membri, grava ancora una pesante e tremenda responsabilità: assorbire la saggezza della Storia ed applicarla ai problemi di oggi, in modo da far nascere, vivere e morire in pace le future generazioni. Ognuno dei presenti sa che i risultati finora ottenuti non sono sufficienti e che i pronunciamenti delle Na-zioni Unite, laddove vengono ignorati e violati dai singoli Stati-membri, continuano a rimanere inapplicati. Eppure la maggior parte dei guai che ci affliggono insorgono proprio tra Stati-mem-bri, ma l’Organizzazione si rivela troppo spesso impotente nell’imporre soluzioni accettabili; la sua autorità viene beffata ogni volta che singo-li Stati, per conseguire propri scopi ed interes-si, agiscono violandone le risoluzioni. E quan-do sono gli Stati a trovare pretesti per sottrarsi agli obblighi a cui sono tenuti, è il vincolo stes-

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so dell’Organizzazione ad indebolirsi.Sono vissuto troppo a lungo per nutrire an-

cora illusioni sulla nobiltà dei principi che gli uomini rivelano quando sono chiamati a con-frontarsi davvero con i problemi che riguarda-no la propria sicurezza e quella dei propri beni; e non sono molte le nazioni che, pur davanti a rischi così immensi, si mostrano desiderose di affidare i propri destini in mani altrui. Purtutta-via è proprio questo l’ultimatum che si presenta oggi a noi: o garantire quelle condizioni in cui gli uomini possano fiduciosamente affidare la propria sicurezza ad un’autorità più grande, o rischiare il totale annichilimento. O persuade-re gli uomini che la loro salvezza sta nel subor-dinare gl’interessi locali nazionali agli interes-si generali dell’umanità, o mettere in pericolo il futuro stesso dell’uomo. Sono questi gli obietti-vi – ieri impensabili, oggi essenziali – che dob-biamo impegnarci a raggiungere.

Oggi voglio parlare di due argomenti che in-teressano profondamente tutti gli uomini: il di-sarmo e l’uguaglianza. Il disarmo è diventato l’imperativo più urgente del nostro tempo. Non dico questo per far coincidere l’assenza di armi con la pace o perché sia convinto che ferman-do la produzione di armi, specialmente di quelle nucleari – ed eliminando quelle già esistenti ne-gli arsenali del mondo – la si garantirebbe, cioè si arriverebbe a quel cambiamento di attitudine richiesto per risolvere pacificamente le dispute fra le nazioni. È l’immensa capacità distruttiva che oggi l’uomo possiede a rendere il disarmo una necessità vitale.

La produzione di armi è sempre stata per l’uomo causa della sua stessa distruzione. Per-ciò, anche se il raggiungimento di un completo e generale disarmo richiederà tempi molto lun-ghi, è incoraggiante constatare quanti sforzi sono già rivolti verso quest’obiettivo. Il mio paese, ad esempio, pur considerandolo solo un progresso parziale, appoggia il trattato che condanna gli esperimenti nucleari nell’atmosfera. Non è un trattato a garantirci contro un’improvvisa ripresa dei collaudi atmosferici e, comunque, tali armi

possono continuare ad essere perfezionate con test sotterranei; ma il suo vero significato è la tacita ammissione che le nazioni sottoscriventi fanno nel riconoscere la brutale ma inevitabile realtà di una guerra nucleare: essa non rispar-mierebbe nessuno, neanche i vincitori. È questa consapevolezza che ci consente – che consen-te alle Nazioni Unite – di trovare uno spiraglio attraverso il quale poter agire.

Ecco quindi delinearsi quella che, nel con-tempo, è sfida ma anche opportunità: se le po-tenze nucleari sono disposte ad una tregua, co-gliamo l’occasione per rafforzare le istituzioni e le procedure che ci serviranno per risolvere in modo pacifico le dispute tra i popoli. I conflit-ti tra le nazioni continueranno a nascere; la ve-ra questione è se risolverli attraverso la forza o attraverso metodi pacifici e procedure concor-date e governate da istituzioni imparziali. La più grande di queste istituzioni è proprio l’Or-ganizzazione delle Nazioni Unite, che noi desi-deriamo sempre più efficiente e nella quale vor-remmo trovare l’assicurazione per un futuro di pace. Quanti ampi e veloci cambiamenti delle condizioni di vita dei popoli avremmo potuto determinare se fosse stato già raggiunto un ve-ro ed efficace disarmo e se i soldi fin qui spesi in armamenti fossero stati impiegati a beneficio dell’umanità; se ci fossimo dedicati solo all’uso pacifico delle conoscenze raggiunte in campo nucleare! Questo deve diventare il nostro obiet-tivo, nella certezza che questa è la preghiera a noi rivolta dall’umanità intera.

Anche quando parliamo di uguaglianza tra gli uomini siamo di fronte ad una sfida e ad un’opportunità: la sfida d’infondere nuova vi-ta agl’ideali custoditi nella Carta, e l’opportu-nità di portare gli uomini più vicini alla libertà ed alla vera giustizia, più vicini perciò all’amo-re ed alla pace. L’uguaglianza a cui aspiriamo è l’antitesi dello sfruttamento tra i popoli che pagine di storia, specialmente quelle che par-lano del continente africano ed asiatico, descri-vono tanto estesamente. Lo sfruttamento così inteso ha molte facce ma, in qualsiasi guisa es-so si presenti, rimane una malvagità da evitare

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dov’è ancora assente e da schiacciare dove in-vece già esiste.

Il supremo dovere di questa Organizzazione, perciò, è quello di assicurare la definitiva rea-lizzazione del sogno di uguaglianza per tutti gli uomini e le donne a cui viene ancora negato, e di garantire che lo sfruttamento, laddove è stato già bandito, non si ripresenti in altre forme.

Se vogliamo sopravvivere questa Organizza-zione dovrà sopravvivere. Per sopravvivere deve essere rafforzata. La sua esecutività deve esse-re investita di maggiore autorità, devono esse-re rinvigoriti gli strumenti preposti ad attuare le sue decisioni e, se non ancora esistenti, devono essere inventati. Devono essere create procedu-re atte a proteggere le nazioni piccole e deboli dalle minacce di quelle forti e potenti. Tutte le nazioni che rispondono ai requisiti previsti de-vono essere ammesse a sedere in questa assem-blea. Deve essere garantita parità di rappresen-tanza in ognuno dei suoi organi. Devono essere colte ed usate quelle possibilità – che pure esi-stono nelle Nazioni Unite – di fornire i mez-zi per sfamare gli affamati, vestire gl’ignudi ed istruire gl’ignoranti ovunque essi siano, perché il fiore della pace non si sostiene in mezzo alla povertà ed al bisogno.

Per raggiungere tutto ciò ci vuole coraggio e fiducia. Io sono convinto che il coraggio non ci manca; la fiducia va invece creata, e per crearla occorre agire coraggiosamente. Le grandi nazio-ni farebbero bene a ricordare che, in quest’epo-ca moderna, anche i loro destini non dipendono solamente dalla loro volontà. La pace richiede gli sforzi di tutti noi. Chi può prevedere quale sarà la scintilla che darà fuoco alla miccia? Alle piccole nazioni non va solo chiesto di adempie-re scrupolosamente ai propri obblighi verso l’O.N.U. Fino a che non verrà loro consentito di in-tervenire nella soluzione dei problemi del mon-do, fino a che quell’uguaglianza per la quale Asia ed Africa hanno tanto lottato non si riscontre-rà anche nell’allargamento delle rappresentan-ze negli organismi che costituiscono le Nazioni Unite, la fiducia troverà ancora molte difficoltà

per crescere. Fino a che i diritti dell’ultimo de-gli uomini non saranno protetti quanto lo sono quelli dei potenti, i semi della fiducia cadranno sulla terra arida.

Il rischio a cui andiamo incontro è uguale per tutti: vita o morte. Tutti desideriamo vivere, tut-ti desideriamo un mondo in cui l’uomo possa vivere libero dal fardello dell’ignoranza, della povertà, fame e malattia. Ma se la catastrofe ci colpirà, saremo tutti drammaticamente costret-ti a ripararci dalla pioggia mortale che la rica-duta radioattiva provocherà.

IL MODERNO ETIOPIANISMO7 Maggio 1965

24° anniversario della Liberazione d’Etiopia

Così come col passare degli anni gli orizzon-ti di un uomo si ampliano e gli si moltiplicano le prospettive, ugualmente accade per l’Etiopia. Man mano che la nazione avanza nel raggiungi-mento di quegli obiettivi fissati per il suo svilup-po politico, sociale e culturale, ci troviamo a do-ver fronteggiare compiti sempre nuovi, sempre nuovi impegni a cui dedicare la nostra attenzio-ne. È su questo binario – e gliene siamo grati – che la ruota del progresso si è mossa, consenten-do all’Etiopia di trovarsi oggi così tanto avanti lungo quel cammino da noi già pianificato fin da quando ci assumemmo la responsabilità di avviarne la modernizzazione. Ma è soprattut-to la gente d’Etiopia a meritare la nostra grati-tudine ed il nostro apprezzamento per la piena collaborazione che ha dimostrato nella realiz-zazione di tutti i nostri programmi.

L’elenco dei traguardi e delle conquiste che in questo ventiquattresimo anniversario della Li-berazione d’Etiopia è stato presentato dà testi-monianza di tre aspetti che spiccano rispetto agli altri: 1) La continua guida dell’Onnipoten-te nel fruttuoso compiersi dei nostri propositi; 2) Il sacrificio incalcolabile sostenuto nella cam-pagna di liberazione dal popolo etiopico e dalla sua avanguardia, i patrioti, grazie al quale sono state difese e conservate la libertà e l’indipenden-

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za, insieme a quello stile di vita così tipicamen-te etiopico che ci è tanto caro; 3) L’instancabile fedeltà e lo spirito di collaborazione della nostra gente nella riuscita continuazione dei molteplici sforzi a sostegno degl’interessi nazionali.

L’Etiopia è una terra antica; la sua civilizza-zione è il risultato di un’armoniosa alchimia tra passato e presente sulla quale viene fiduciosa-mente costruito il futuro. Il retaggio che ce ne deriva fornisce fondamenta rocciose alla moder-na Etiopia. Il nostro popolo ha scelto di distil-lare dal passato ciò che di utile e durevole esso contiene e di applicare questi aspetti tanto pre-ziosi alle esigenze del mondo d’oggi, dando co-sì forma al moderno Etiopianismo, pilastro del nostro ordine sociale, quello che tanto ammire-volmente è servito a rendere stabile il progres-so della nazione.

Ci venga pertanto riconosciuto che, mentre le istituzioni trasmesse agli etiopi dai nostri ante-nati conservano orgogliosamente il carattere di un’antica designazione, il loro contenuto è stato sapientemente adattato per rispondere alle cre-scenti aspettative delle generazioni etiopiche at-tuali. E chi giudica le odierne istituzioni etiopi-che guardando solo alle etichette che abbiamo ereditato dalla nostra passata civilizzazione sap-pia che, indipendentemente da come vengono chiamate, esse sono il frutto dell’Etiopianismo, cioè di quella perfetta combinazione che lo stes-so popolo etiopico ha modellato per portare a compimento il destino della nazione.

Si comprenda perciò che, pur rimanendo noi Etiopi giustamente fieri della nostra tradizione nazionale, non guardiamo al passato per rag-giungere i nostri obiettivi; per la loro piena rea-lizzazione guardiamo invece decisamente in avanti.

L’anniversario della Liberazione che oggi ce-lebriamo è la conseguenza dell’aggressione su-bita dall’Etiopia, frutto, a sua volta, delle do-minanti condizioni internazionali dell’epoca. Sciaguratamente, la caduta del diritto e della moralità internazionale che condusse a quel-l’episodio non è stata ancora pienamente cor-retta e la lezione che quella triste esperienza ci

ha insegnato non ha generato nè gli sforzi ade-guati all’imperioso bisogno di garantire la sicu-rezza collettiva, e neanche l’intento unitario di garantire e proteggere la pace mondiale.

Contrariamente all’opinione di alcuni – che ritengono la difesa della pace mondiale compi-to esclusivo delle grandi potenze – la questio-ne della pace e della guerra, proprio perché ri-guarda la sopravvivenza dell’intera umanità, è intimamente e vitalmente legata a tutti i popo-li della Terra. Quindi tutti i popoli dovrebbero compiere sforzi maggiori per permettere alle po-tenze più immediatamente interessate al man-tenimento della pace di definire un programma veramente efficace nel garantire armonia tra le nazioni; essendo questa la prima e basilare con-dizione per evitare le guerre.

È grazie alle lotte della sua gente che l’Etio-pia è sopravvissuta; l’essere sopravvissuta le for-nisce ora l’opportunità di portare il peso della sua esperienza negli sforzi che la comunità in-ternazionale compie per costruire un mondo di pace, di progresso e comprensione umana. Ci sentiamo quindi veramente soddisfatti per la ca-pacità che il Paese ha mostrato nel sostenere il suo significativo ruolo in questa ricerca; ricer-ca alla quale l’Etiopia si è dedicata tanto nella politica estera che in quella interna.

Se riandiamo indietro nel tempo a quel 5 Maggio 1941 e consideriamo i progressi che l’Africa ha da allora compiuto verso il raggiun-gimento della sua piena indipendenza, l’odier-na realtà ci appare come il compimento di quel-lo che un tempo sembrava essere solo un sogno. Oggi sono trentasei le voci che si levano in dife-sa dell’Africa e delle questioni che la riguarda-no, nel 1940 erano solo tre.

L’Etiopia ha accolto con soddisfazione l’emer-gere di questi nuovi stati africani nella comunità degli stati sovrani. All’interno dell’Organizza-zione per l’Unità Africana essa è sempre pron-ta e desiderosa di svolgere il suo compito a fa-vore di una maggior cooperazione tra le nazioni già indipendenti e per continuare a fare tutto ciò che rientra nelle sue possibilità per contri-

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buire alla lotta di liberazione dell’intero nostro continente.

Desidero perciò ringraziarvi per i gentili ap-prezzamenti che avete espresso e per aver voluto ricordare tutti i risultati fin qui ottenuti. A colo-ro i quali volessero maggiormente meditare sul-la nostra attuale situazione, consiglio di leggere la Lettera di S. Paolo ai Corinzi, cap. 4: 16. Mi riservo inoltre di fornire in un prossimo futuro ulteriore dettagli sui doveri e sulle responsabili-tà dei nostri ufficiali. In questo ventiquattresimo anniversario della Liberazione d’Etiopia, e men-tre ci prepariamo ad assumere le grandi respon-sabilità a cui siamo chiamati nella costruzione del futuro per le prossime generazioni, possa l’Onnipotente aiutarci a raddoppiare gli sforzi.

AL PARLAMENTO GIAMAICANOAprile 1966

Distinti membri del Parlamento Giamaicano, sono felice di cogliere oggi questa opportunità per esporre alcuni miei pensieri al Parlamento ed alla popolazione giamaicana.

Il popolo della Giamaica ha una storia lun-ga e gloriosa. È un popolo che ha duramente sofferto per ottenere l’indipendenza e, una vol-ta acquisitala, ha continuato a lavorare, in uno spirito di unità nazionale davvero esemplare, per procurare ulteriore abbondanza e progres-so a se stesso. Conoscendo la storia di questo meraviglioso popolo e conoscendo pure i sen-timenti che la gente della Giamaica nutre per il popolo etiopico, ho sempre desiderato visitare questa terra. Ora, grazie a Dio, il mio desiderio è stato esaudito.

Una volta giunto in Giamaica ho visto mol-to di più di quello che mi aspettavo. Ho visto il progresso da voi compiuto ed ho visto la vostra determinazione nel marciare uniti verso ulterio-ri progressi. Ho anche personalmente constatato quanto intensi siano i sentimenti che i giamai-cani provano per gli etiopici. Colgo quindi an-cora una volta l’opportunità di porgere il mio ringraziamento al Governo ed alla popolazio-

ne giamaicana per la splendida accoglienza che mi è stata riservata.

Quando l’Etiopia venne aggredita, aspramen-te aggredita, il popolo giamaicano dimostrò per il popolo etiopico vero interesse e solidarietà, of-frendoci in questo modo grande incoraggiamen-to. Così facendo esso si è guadagnato la nostra eterna gratitudine.

In senso più ampio, le relazioni che legano la Giamaica all’Etiopia ed all’Africa sono pro-fonde e stabili. Noi abbiamo duramente lottato per mantenerci liberi ed indipendenti e voi sie-te stati egualmente perseveranti nell’appoggia-re la nostra lotta. L’obiettivo che abbiamo così raggiunto costituisce la base su cui continuare la cooperazione e lo sviluppo della benevolen-za fra le nostre genti. A questo legame di grati-tudine se ne aggiunge uno di fratellanza. Infatti, gran parte della popolazione giamaicana è origi-naria dell’Africa. Tale affinità fornisce ulteriore impulso alle nostre proficue relazioni, le qua-li non solo sono utili ai nostri rispettivi popoli ma contribuiscono a costruire rapporti pacifici e duraturi fra le nazioni del mondo. Possiamo perciò affermare che Giamaicani ed Etiopi sono egualmente impegnati a favore di un’altra causa: quella del progresso e della prosperità.

Sono dunque molti gli elementi in comune fra i nostri due popoli. Tali fattori possono, a lo-ro volta, servire da base per relazioni ancora più solide. In molte zone del mondo vivono genti di origine africana. Ovunque esse si trovano con-tinueranno ad avere un’esperienza storica simi-le. La soluzione dei problemi dipenderà molto dalla solidarietà, la quale può e deve essere usa-ta per rafforzare le nostre relazioni e per assicu-rarci ulteriori benefici.

Il popolo della Giamaica e quello dell’Etio-pia hanno un altro scopo in comune: il progres-so internazionale.

Pur sapendo che ogni paese può progredire anche da solo, non dimentichiamo quello che l’esperienza ci ha insegnato. La cooperazione internazionale, infatti, accelera le tappe del pro-gresso di ogni singolo Stato, e questa consape-

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volezza apre un’ulteriore area per l’espansione delle relazioni fra Giamaica ed Etiopia.

Tale obiettivo, inquadrato in una visione al-trettanto fondamentale, coincide esattamente con le motivazioni che hanno determinato la nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africa-na. Se il continente africano, abitato da due-centocinquanta milioni di persone, dovesse ri-manere diviso in più di trenta Stati, la voce di ogni singolo Stato non avrebbe alcun peso. Ec-co perché, vista l’identità di interessi, abbiamo cercato di includere in questo organismo an-che la Giamaica. Volevamo portare il peso del-la sua voce nel Consiglio delle Nazioni e, nel-lo stesso tempo, attraverso la cooperazione e l’estensione dei rapporti economici, accelerare il cammino di sviluppo di ogni singolo mem-bro dell’O.U.A.

DAL DISCORSO DI BERLINO28 Ottobre 1966

Dal momento che a nessuno è dato d’inter-ferire nel Regno di Dio, dobbiamo imparare a convivere con chi professa altre fedi e tollerare le loro differenze. Però, se ce ne sentiremo mi-nacciati, non mancheremo di resistere con co-raggio a tali aggressioni. Desidero qui ricorda-re a noi tutti lo spirito di tolleranza dimostrato da Nostro Signore Yesus Kristos allorquando egli seppe perdonare tutti, compresi coloro che lo crocifissero.

Un’infinità di cose vengono oggi stampate o teletrasmesse per accattivarsi la mente e lo spi-rito dell’uomo; gente erudita diffonde idee nuo-ve e vengono prodotti meravigliosi congegni per rendere la vita sempre più comoda. Le ricche su-perpotenze, terminato di esplorare e di sfruttare questo pianeta, stanno ora cercando di conqui-starne altri. Le conoscenze stanno aumentando in maniera sbalorditiva. Tutto è buono, splendi-do e meritevole di preghiere; ma a cosa porterà? Sono fermamente convinto che solo quello che il Signore desidera arriverà a compimento.

Non dobbiamo andare incontro allo stesso

destino della Torre di Babele, l’antica costruzio-ne che finì a pezzi nelle mani di coloro che l’ave-vano costruita. L’apostolo Paolo così dice: la sa-pienza di questo mondo è stupidità di fronte a Dio; ed ancora: il Signore conosce i pensieri del sapiente, essi sono vani. Questo perché, parlando in generale, l’uomo fa di se stesso e della sua conoscenza il principio e la fine dei suoi propositi di vita, ed io sono convinto che, così facendo, egli va in-contro alla distruzione ed alla morte.

Yesus Kristos dice: cosa avrà guadagnato un uo-mo dal possedere l’intero mondo avendo però perso la sua anima? E perché gli sforzi di coloro che co-struirono la Torre di Babele condussero a nien-te? Non fu così perché essi cercarono di vive-re separatamente dal loro Creatore? E perché, vantandosi della loro sapienza e desiderando ac-quisire fama, vollero costruire qualcosa di tanto grande da arrivare al Paradiso? Io ne sono con-vinto, così come sono convinto che tutte le atti-vità dei Figli dell’uomo, se non guidate dallo Spi-rito e dal consiglio divino, produrranno frutti di breve durata. Non saranno accettabili alla vista del Signore e, quindi, come la Torre di Babele, finiranno nel nulla.

È per questa ragione che la Chiesa di Dio, ed in particolare i leaders cristiani, hanno una responsabilità veramente enorme. Per quanto saggia o potente una persona possa essere, sa-rà come una nave senza timone se le mancherà l’aiuto di Dio; una nave in balia delle onde e del vento, sospinta ovunque e destinata a fracassar-si sugli scogli. Sarà come se non fosse mai esi-stita. È mia ferma convinzione che ad un’ani-ma senza Yesus Kristos non è riservato destino migliore.

INTERVISTA A ORIANA FALLACI24 Giugno 1973

Vostra Maestà, c’è una domanda che mi inquieta sin da quando ho veduto i poveri correre dietro la vostra macchina per contendersi una moneta: come vi sentite di fronte alla loro povertà?

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I ricchi ed i poveri sono sempre esistiti e sem-pre esisteranno. Perchè? perchè c’è chi lavora e chi no; ci sono coloro che desiderano guada-gnarsi da vivere e coloro che preferiscono non far niente. Chi lavora, chi desidera lavorare, non sarà mai povero. In verità, nostro Signore e Crea-tore ci mette al mondo tutti uguali. Quando na-sciamo non siamo nè ricchi nè poveri, ma sem-plicemente nudi. Solo in seguito, secondo i nostri meriti, diventiamo ricchi o poveri. Anch’io ri-tengo inutile distribuire elemosine; c’è un so-lo modo per risolvere il problema della pover-tà ... il lavoro.

Vostra Maestà, vorrei accertarmi di aver compreso bene: intendete forse dire che chi è povero merita di esserlo?

Ho detto che chiunque non lavora perchè non desidera farlo sarà povero. Ho detto. che la ric-chezza si guadagna con il duro lavoro e chi non lavora soffrirà la fame. Ed aggiungo che la capa-cità di guadagno è relativa al singolo individuo; ogni individuo è responsabile della sua sorte ed è sbagliato aspettarsi aiuto dall’alto senza esser-selo guadagnato. La ricchezza si deve meritare! Il lavoro è uno dei comandamenti di Nostro Si-gnore il Creatore. L’elemosina invece ...

Vostra Maestà, cosa pensate dell’attuale scontento generazionale? Mi riferisco agli studenti che protestano nelle università, specialmente ad Addis Abeba ...

I giovani sono giovani; non possiamo cam-biare i loro modi maldestri. Non c’è niente di nuovo in questo, niente è nuovo sotto il sole. Esaminando il passato si ritrova la disubbidien-za giovanile lungo tutta la storia. I giovani non sanno cosa vogliono; non possono saperlo per-chè gli manca l’esperienza, gli manca la sag-gezza. Spetta al Capo dello Stato mostrare lo-ro la strada da percorrere; e spetta sempre a lui punire chi si rivolta contro l’autorità. Spetta a me. Ma non tutti i giovani sono da punire; so-lo i più irriducibili vanno trattati inflessibilmen-te. Bisogna far ragionare gli altri e persuaderli a servire il loro Paese. Ecco come la penso, e co-sì dovrà essere.

Punire può anche significare esecuzioni capitali, Vostra Maestà?

Occorre esaminare le cose fino in fondo. Si scoprirà che la pena di morte è giusta e necessa-ria, per esempio in caso di disubbidienza. Per-chè? perchè è nell’interesse del popolo. Abbia-mo abolito molte cose, tra cui la schiavitù, ma non aboliremo la pena di morte; non possia-mo abolirla. Sarebbe come rinunciare a puni-re coloro che osano sfidare l’autorità. Ecco co-me la penso.

Vostra Maestà, vorrei chiedervi qualcosa su voi stesso. Ditemi: eravate anche voi disubbidiente? O dovrei prima chiedervi se avete mai avuto il tempo per essere giovane, Vostra Maestà?

Non capisco che razza di domanda è questa. È ovvio che anch’io sono stato giovane, non so-no nato vecchio! Sono stato bambino, ragazzo, giovane, adulto ed infine anziano; come chiun-que altro. Volete forse sapere che tipo di giova-ne sono stato? Bene, ero molto serio e diligen-te, molto ubbidiente. Sono stato anch’io punito qualche volta e sapete perchè? Perchè non mi bastava quello che riuscivo a studiare, volevo fa-re di più; volevo rimanere a scuola oltre l’ora-rio delle lezioni. Ero riluttante al divertimento, non volevo perder tempo in giochi.

Vostra Maestà, di tutti i sovrani tuttora regnanti, voi siete colui che da più tempo siede sul trono. Inoltre, in un epoca che ha visto la caduta di così tanti re, voi siete il solo monarca assoluto ancora in carica. Non vi sentite mai solo in un mondo così diverso da quello nel quale siete cresciuto?

La mia opinione è che il mondo non è per nulla cambiato. I mutamenti avvenuti non han-no portato alcuna vera modifica. Non vedo al-cuna differenza nemmeno tra monarchie e re-pubbliche. Esse mi appaiono come due modi sostanzialmente simili di governare una nazio-ne. Ditemi voi qual’è la differenza tra una re-pubblica ed una monarchia.

Allora, Vostra Maestà, cosa pensate della demo-crazia?

Democrazia, repubblica: ma cosa significa-no queste parole? È forse l’uomo diventato più buono, più felice, più onesto? Sono i popoli più felici? Tutto procede come nel passato; sono solo illusioni, illusioni. Bisognerebbe piuttosto pen-

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sare all’interesse vero di una nazione prima di sovvertirla attraverso le parole. La democrazia, in qualche caso, è necessaria, e riteniamo che alcuni popoli africani potrebbero adottarla; in altri casi sarebbe pericolosa, sarebbe un errore.

Vostra Maestà, intendete dire che qualche nazione, la vostra nazione, non è ancora pronta per la demo-crazia e che, quindi, non la merita? Intendete dire che la libertà di informazione e la libertà di parola non potrebbero essere tollerate in Etiopia?

Libertà ... libertà ... L’Imperatore Menelik e mio padre, due uomini illuminati, ai loro tempi studiarono questi problemi molto da vicino. In effetti se li posero, e giunsero a garantire molte concessioni al popolo. Più tardi fui io stesso a concedere ulteriori liberalizzazioni, come la già menzionata abolizione della schiavitù. Ma ripe-to: non è tutto buono per il popolo. Bisognerebbe conoscerlo il nostro popolo per capirlo. Occorre procedere lentamente ed attentamente per riusci-re a governare come un padre vigile sull’avveni-re dei suoi figli. La nostra realtà non è la vostra, e le nostre disgrazie sono interminabili.

Vostra Maestà, vi dolete mai del vostro destino regale? Avete mai sognato di vivere la vita di un co-mune mortale?

Non capisco la vostra domanda. Anche nei momenti più duri, più dolorosi, non ho mai avu-to rimpianti nè ho mai maledetto la mia sorte. Mai. Perchè avrei dovuto? Sono nato con sangue reale, l’autorità mi spettava per diritto. Da quan-do ne fui investito, e fino a quando il Creatore lo giudicherà opportuno, dovrò servire il mio po-polo come un padre serve suo figlio. Essere re mi riempie di gioia. Sono nato e sono sempre vissuto per adempiere a questo compito.

Vostra Maestà, sto cercando di capirvi come uomo non come re; lasciatemi insistere. Vi chiedo se questo ruolo vi è mai pesato, per esempio quando siete co-stretto ad usare la forza?

Un re non deve mai dolersi di usare la forza. Le necessità, per quanto dolorose, sono sempre necessità ed un re non deve fermarsi di fronte ad esse, nemmeno se lo addolorano.

Non ho paura di essere severo. È il re che co-nosce cosa occorre al suo popolo; il popolo, da

solo, non lo capisce. Riguardo alle punizioni, è mio dovere applicare ciò che mi impone la mia stessa coscienza, niente di più. E non c’è soffe-renza in me quando infliggo una punizione, per-che io credo fermamente in essa, confido piena-mente nella mia capacità di giudizio. Così deve essere e così è.

Vostra Maestà, state spesso menzionando puni-zioni e rimproveri. Siete dunque veramente tanto re-ligioso e devoto all’insegnamento cristiano come molti credono?

Sono sempre stato religioso, fin dal giorno in cui Ras Makonnen m’insegnò i comandamen-ti di nostro Signore il Creatore. Dedico perciò molto tempo alle preghiere e frequento la chie-sa più assiduamente possibile, quando posso an-che ogni mattina, ricevendo regolarmente i sa-cramenti ogni domenica. Però non considero valida solo la mia religione, e ho perciò garan-tito alla mia gente la libertà di osservare qual-siasi religione essi preferiscano. Credo nella riu-nificazione delle Chiese, ecco perche sono stato veramente contento di incontrare Paolo VI du-rante il mio viaggio in Italia. Egli mi ha molto colpito; lo ritengo un uomo di capacità supe-riori, specialmente se ci riferiamo alla sua in-tenzione di lavorare per il raggiungimento del-l’unità tra le Chiese. Mi ha accolto con grande amicizia.

Durante la vostra visita in Italia, Maestà, gli ita-liani hanno fatto del loro meglio per dimostrarvi quan-to dispiaciuti fossero di avevi mosso guerra. In altre parole, con l’accoglienza che vi hanno dato, hanno voluto dirvi che quella del 1935 fu la guerra di Mus-solini e non del popolo italiano. Ne siete convinto an-che voi adesso?

Non spetta a me dire se esisteva una differen-za tra il popolo italiano ed i fascisti. È solo la vostra coscienza che può dirlo. Se un’intera na-zione accetta e mantiene un certo tipo di gover-no, significa che tale governo viene da essa rico-nosciuto. Deve essere però chiaro che, nelle mie valutazioni, io ho sempre distinto la guerra di Mussolini dal suo governo. Sono state due cose diverse tra loro. Ma, al tempo stesso, riguardo l’aggressione subìta dall’Etiopia, non mi è pos-

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sibile giudicare il governo di Mussolini. È il go-verno infatti che stabilisce cosa può essere utile alla sua popolazione e, ovviamente, il governo di Mussolini ci ha attaccato credendo di compiere un atto utile al benessere degl’Italiani.

Maestà, forse non ho afferrato bene i vostri concetti. Posso chiedervi come giudicate Mussolini oggi?

Mi trattengo dal giudicarlo; egli è morto e non vedo motivi per esprimere giudizi sui mor-ti. La morte cambia tutto, spazza via tutto, per-sino gli errori. Non amo manifestare rancori o condanne per qualcuno che non è più in gra-do di rispondere. Mi regolo così anche rispetto agli altri invasori del mio Paese: Graziani, Ba-doglio ... sono tutti morti ed è più indicato il si-lenzio. Incontrai Mussolini nel 1924, quando ancora non ero Imperatore, durante una visi-ta ufficiale in Italia. Mi ricevette calorosamen-te, da vero amico. Fu gentile e cominciò. a pia-cermi. Parlammo con franchezza, discutemmo del passato e del futuro; m’ispirò fiducia. Dopo quei colloqui i miei sospetti sparirono. In segui-to però egli venne meno agl’impegni presi ed io non sono mai riuscito a capirlo. Ma adesso non ha più importanza.

Stando così le cose, Maestà, come ricordate quei dolorosi anni di guerra? Quella guerra che noi vi co-stringemmo a subire?

Li ricordo con reazioni differenti, contrastan-ti. Da un lato mi è impossibile dimenticare quel-lo che gl’italiani ci hanno fatto: abbiamo sofferto così tanto per causa vostra. D’altro canto cosa potrei dire? A chiunque può succedere di vince-re una guerra ingiustamente provocata.

Appena rientrato in Etiopia, nel 1941, dichia-rai che bisognava tornare ad essere amici degli italiani; ed oggi veramente lo siamo. Voi, per molti aspetti, siete cambiati; noi, per molti altri, anche. Mettiamola così: la storia non dimenti-ca, l’uomo sì; e l’uomo di buon cuore può an-che perdonare. Io ci provo e posso dire di aver perdonato, ma non ho certamente dimenticato. Ricordo tutto, tutto!

Anche il vostro discorso alla Società delle Nazioni, Maestà? Ed il giorno della vostra partenza?

Si, certo, ricordo molto bene quel discorso

e tutti i suoi antefatti. Ricordo gl’insulti che ri-cevemmo dai giornalisti fascisti e le parole che pronunciammo per reclamare giustizia: oggi suc-cede a noi, domani potrebbe succedere anche a voi ... Ed andò a finire proprio così.

Ricordo bene anche il giorno in cui partii per l’esilio, perchè quello è stato il momento più brut-to della mia vita, e forse anche il meno compre-so. Fu una decisione che richiese grande corag-gio. A volte sono proprio le cose che sembrano frutto della mancanza di coraggio a richiederne molto. In realtà non mi era rimasta più alcuna speranza se non quella di poter, un giorno, tor-nare a governare il mio popolo. Era una speran-za molto forte e, una volta lontano, diventò cer-tezza. Oh, non sarei mai partito se avessi temuto di dover rimanere in Europa per sempre! Avevo compreso come si delineava il futuro e nessuno mi vide disperare durante quegli anni.

Vostra Maestà, insistete spesso sull’amicizia nei confronti degli Italiani e vi siete veramente mostrato indulgente verso di loro una volta ritornato in Addis Abeba. Posso dunque chiedervi se gli Italiani hanno realizzato qualcosa di apprezzabile in Etiopia?

Certamente, perchè non dovreste? Gli Italiani hanno fatto cose orribili, specie all’inizio; ma in seguito hanno anche agito bene. Come sempre accade nella vita, niente è completamente bian-co e niente è completamente nero. Essi ci han-no enormemente danneggiato, ma hanno fatto anche qualcosa di buono. Nessuna vera novità, nessun miracolo; niente, per essere chiari, che noi non avessimo già iniziato. Ma se loro non aves-sero realizzato qualcosa di positivo, avrebbero avuto tutta la popolazione contro e, ovviamen-te, a loro serviva il sostegno popolare. Ad ogni modo ... diciamo che se per un verso gli italiani interruppero quello che noi avevamo comincia-to, per un altro lo hanno continuato ed io oggi posso ritenermi soddisfatto di averli protetti do-po il mio ritorno.

Maestà, ditemi ancora qualcosa su voi stesso. Si sa che siete particolarmente affettuoso con gli animali e con i bambini. Lo siete ugualmente con gli esseri umani adulti?

Gli esseri umani ... è difficile provare indul-

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genza per loro. È invece certamente più facile esserlo verso i bambini e gli animali.

Dopo aver vissuto una vita così difficile sen-to di essere più a mio agio con bambini ed ani-mali perchè in essi non c’è malvagità, delibera-ta malvagità. Tra gli esseri umani invece... Ce ne sono di buoni e di cattivi; i primi vanno mes-si in condizione di operare, i secondi vanno pu-niti, senza tentare di capire il perchè di questa differenza.

La vita è come assistere ad una commedia: non bisogna cercare di capire tutto subito, non ci sarebbe più interesse. Del resto, chiedere agli uomini di rispettarsi è forse pretendere troppo?

Cosa gli chiedereste allora, Maestà? Dignità, coraggio. E cosa chiedereste ad un re, a voi stesso Maestà? Anche in questo caso coraggio, ed una vi-

gilanza equilibrata. Un re dev’essere capace di manovrarsi, di oscillare tra amici e nemici, tra vecchio e nuovo. Un re deve saper lavorare col tempo per plasmare gli eventi secondo i suoi sco-pi. Io ho imparato questo in gioventù quando, così come desideravano l’Imperatore Menelik e mio padre, ho letto i vostri libri e ho assorbi-to da essi la cultura occidentale. Ho cominciato molto presto ad apprezzare tutte le novità che avete menzionato.

Ho viaggiato molto, pur non amando viag-giare; ma l’ho fatto perchè consideravo utile cer-carsi amici nel mondo. Ecco, queste sono le fun-zioni di un re.

Viaggi molto sorprendenti, Vostra Maestà, per cercare amici inaspettati. Siete stato persino in Cina ed avete incontrato Mao Tse Tung.

Abbiamo parlato a lungo e Mao Tse Tung mi è molto piaciuto. Ho un’impressione eccel-

lente di lui, eccellente. Proprio come quella che mi diede Paolo VI. Egli è un buon leader, molto serio; il suo popolo ha fatto una buona scelta. Anche la Cina mi è piaciuta. Hanno un modo di vivere completamente diverso, ma ogni popo-lo deve svilupparsi secondo il proprio stile, così come ho affermato durante i colloqui avuti in quel Paese; colloqui che hanno prodotto risul-tati assai favorevoli.

Maestà, voi siete l’Etiopia. Siete voi che la tenete in mano, che la tenete unita. Cosa succederà quando non sarete più qua?

Che intendete dire? non capisco la domanda. Quando morirete, Maestà. L’Etiopia esiste da 3000 anni. In effetti esi-

ste fin da quando l’uomo è apparso sulla Terra. La dinastia a cui appartengo vi ha regnato fin da quando la Regina di Saba, unendosi con re Salomone, partorì un figlio. È una dinastia per-petuatasi attraverso i secoli e continuerà ad esi-stere ancora per molti secoli.

Un re non è insostituibile e, comunque, la mia successione è già assicurata. C’è un Prin-cipe Ereditario, e sarà lui a governare il Paese quando Noi non saremo più qui. Così abbiamo deciso e così dovrà essere.

Nel suo complesso, Maestà, la vostra non è stata una vita molto felice. Coloro che avete amato sono tutti morti: vostra moglie, due dei vostri figli e due figlie. Avete perso molte delle vostre illusioni e dei vostri sogni. Immagino però che la saggezza da voi accumulata sia davvero grande. Per questo vi chiedo: Haile Selassie come vede la morte?

Cosa? Come vedo cosa? La morte, Vostra Maestà. La morte ...?! Ma chi è questa signora? Cosa

vuole da me? Che se ne vada via, via!