La libertà: aspetti teorici ed empirici

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1 La libertà: aspetti teorici ed empirici Marcello D’Agostino, Università di Ferrara Valentino Dardanoni, Università di Palermo Vito Peragine, Università di Bari In: Diritti, Regole, Mercato. Economia Pubblica e Analisi Economica del Diritto. A cura di: M Bernasconi, e M Marrelli. Milano: Franco Angeli 1999, pp. 13-40. La riflessione teorica sulla libertà e sulla sua misurazione ha visto, negli ultimi dieci anni, un notevole sviluppo quantitativo e qualitativo in diverse aeree, dalla filosofia alle scienze politiche, dall’economia normativa alla teoria della giustizia. Tuttavia, questi studi hanno mostrato finora una scarsa preoccupazione per gli aspetti empirici del problema, ovvero per il modo in cui le varie misure teoriche possano essere incorporate in modelli in grado di generare asserzioni empiricamente controllabili. Anzi, soprattutto nei circoli filosofici, vi è un certo scetticismo nei confronti della possibilità stessa di dare al concetto di libertà una tale dimensione empirica stabilendo una correlazione fra la libertà di scegliere qualcosa o di compiere una certa azione e i comportamenti individuali osservabili. Il principale scopo di questo lavoro è quello di mostrare che questo scetticismo è in una certa misura infondato e che è possibile dare un contenuto empirico ad alcuni tipi importanti di asserzioni sulla libertà. Nei paragrafi 1 e 2 inseriamo la nostra proposta nel contesto della letteratura filosofica ed economica sul concetto dei libertà. Nei paragrafi successivi presentiamo il nostro approccio statistico 1 e discutiamo brevemente gli aspetti dinamici del modello da noi proposto. 1. Libertà positiva e libertà negativa “[...] Lasciando all'uomo la facoltà di professare qualsiasi religione, gli si concede di poter impunemente dimenticare o snaturare a sua posta un dovere fra tutti santissimo, e quindi di portarsi al male, volgendo le spalle al sommo e immutabile bene: ciò che non è libertà, come si disse, ma licenza e servaggio di un animo avvilito nella colpa.” Così Leone XIII, nella Enciclica Libertas, 20 Giugno 1888. E’ suggestivo contrapporre a questo vero e proprio manifesto della concezione paternalistica della libertà, la brillante perorazione della tolleranza espressa nelle parole del repubblicano irlandese John Mitchell, in un articolo sul The Citizen di New York (1854): “il Congresso si troverà ad ammettere negli Stati Uniti una comunità di poligami o magari di politeisti; sicché gli uomini che hanno quaranta mogli presso le Montagne Rocciose o che adorano trentamila dèi nel Nuovo Messico figureranno a Washington come membri del legislativo del paese più

Transcript of La libertà: aspetti teorici ed empirici

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La libertà: aspetti teorici ed empirici

Marcello D’Agostino, Università di Ferrara Valentino Dardanoni, Università di Palermo

Vito Peragine, Università di Bari In: Diritti, Regole, Mercato. Economia Pubblica e Analisi Economica del Diritto. A cura di: M Bernasconi, e M Marrelli. Milano: Franco Angeli 1999, pp. 13-40.

La riflessione teorica sulla libertà e sulla sua misurazione ha visto, negli ultimi dieci anni, un

notevole sviluppo quantitativo e qualitativo in diverse aeree, dalla filosofia alle scienze politiche,

dall’economia normativa alla teoria della giustizia. Tuttavia, questi studi hanno mostrato finora una

scarsa preoccupazione per gli aspetti empirici del problema, ovvero per il modo in cui le varie

misure teoriche possano essere incorporate in modelli in grado di generare asserzioni

empiricamente controllabili. Anzi, soprattutto nei circoli filosofici, vi è un certo scetticismo nei

confronti della possibilità stessa di dare al concetto di libertà una tale dimensione empirica

stabilendo una correlazione fra la libertà di scegliere qualcosa o di compiere una certa azione e i

comportamenti individuali osservabili. Il principale scopo di questo lavoro è quello di mostrare che

questo scetticismo è in una certa misura infondato e che è possibile dare un contenuto empirico ad

alcuni tipi importanti di asserzioni sulla libertà. Nei paragrafi 1 e 2 inseriamo la nostra proposta nel

contesto della letteratura filosofica ed economica sul concetto dei libertà. Nei paragrafi successivi

presentiamo il nostro approccio statistico1 e discutiamo brevemente gli aspetti dinamici del modello

da noi proposto.

1. Libertà positiva e libertà negativa

“[...] Lasciando all'uomo la facoltà di professare qualsiasi religione, gli si concede di poter

impunemente dimenticare o snaturare a sua posta un dovere fra tutti santissimo, e quindi di portarsi

al male, volgendo le spalle al sommo e immutabile bene: ciò che non è libertà, come si disse, ma

licenza e servaggio di un animo avvilito nella colpa.” Così Leone XIII, nella Enciclica Libertas,

20 Giugno 1888. E’ suggestivo contrapporre a questo vero e proprio manifesto della concezione

paternalistica della libertà, la brillante perorazione della tolleranza espressa nelle parole del

repubblicano irlandese John Mitchell, in un articolo sul The Citizen di New York (1854): “il

Congresso si troverà ad ammettere negli Stati Uniti una comunità di poligami o magari di politeisti;

sicché gli uomini che hanno quaranta mogli presso le Montagne Rocciose o che adorano trentamila

dèi nel Nuovo Messico figureranno a Washington come membri del legislativo del paese più

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illuminato del mondo.” Come osservava sir Isaiah Berlin nel suo celebre Two concepts of liberty,

“quasi tutti i moralisti nella storia umana hanno innalzato lodi alla libertà. Il significato di questo

termine, come quello di felicità e bontà, di natura e di realtà, è così poroso che non c’è praticamente

interpretazione che non consenta.”2 La fondamentale distinzione di Berlin fra il significato positivo

e quello negativo del termine “libertà”, che è al centro del suo saggio, ha svolto e continua a

svolgere un ruolo pervasivo nel dibattito filosofico, economico e politico contemporaneo. In realtà,

persino questa distinzione, forse proprio in virtù della sua vaghezza, ha subito diverse

interpretazioni che hanno determinato sostanziali slittamenti semantici.3 Per Berlin, la libertà

negativa (libertà da) riguarda la sfera entro cui un agente può essere o fare qualcosa senza

interferenze altrui, e dunque dipende dalla presenza o assenza di vincoli e restrizioni imposti

deliberatamente a una persona da parte di altre persone; la libertà positiva (libertà di) ha invece a

che fare con cosa o chi determina che un agente faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. Nelle

sue stesse parole:

il senso “negativo”è quello a cui ci si riferisce nel rispondere alla domanda: “Qual è l’area entro cui si lascia o si dovrebbe lasciare al soggetto – una persona o un gruppo di persone – la libertà di essere ciò che è capace di fare o di essere, senza interferenze da parte di altre persone?”. Il secondo, che chiamerò il senso positivo, è quello che interviene nella risposta alla domanda: “Che cosa, o chi, è la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre qualcuno a fare, o ad essere, questo invece di quello?”. Le due domande sono chiaramente diverse, sebbene le risposte possano sovrapporsi.4

La libertà negativa è dunque, essenzialmente, assenza di coercizione: “In questo senso [negativo] la

libertà politica è semplicemente l’area entro cui una persona può agire senza essere ostacolata da

altri. Nella misura in cui mi si impedisce di fare qualcosa che altrimenti potrei fare, io non sono

libero [...] Non si può tuttavia usare il termine di coercizione per qualsiasi forma di incapacità. Se

affermo di essere incapace di saltare più in alto di dieci piedi o di non saper leggere perché sono

cieco o di non riuscire a capire le pagine più oscure di Hegel, sarebbe un’eccentricità dire che in

questo senso io sono costretto con la forza a non farlo o schiavizzato. La coercizione implica una

deliberata interferenza di altri esseri umani all’interno dell’area in cui potrei altrimenti agire. [...] La

semplice incapacità di raggiungere un obiettivo non può essere definita mancanza di libertà

politica.”5

Per contrasto, la libertà positiva è quella che consiste nell’avere un’effettiva capacità di

autogoverno. Il concetto positivo di libertà mette l’accento sulle creazione delle condizioni che

consentono una scelta autenticamente libera, per questo è stato storicamente associato a ideali di

emancipazione tipici della cultura socialista, così come la sua controparte negativa lo è stata alla

difesa dei diritti individuali tipica della cultura liberale. Mentre la libertà negativa è protettiva, mira

a disegnare un’area in cui l’individuo deve essere libero da interferenze esterne da parte dello stato

3

o di altri individui, quella positiva è espansiva, rinvia alla costruzione di un ordine sociale ed

economico complessivo in cui le libertà “formali” diventano sostanziali, gli individui accrescono le

loro capacità di scegliere il meglio per se stessi e per la collettività, vengono “liberati dalle loro

catene” (anche culturali) per diventare finalmente “padroni di se stessi”, secondo una metafora

apparentemente innocua ma che i seguaci della concezione “negativa” dipingono a volte “come

niente di più di uno specioso travestimento della brutale tirannide.”6 Per illustrare questa idea,

Berlin ricorre a una suggestiva catena di slittamenti di significato: “ ‘Io sono padrone di me stesso’,

‘non sono schiavo di nessuno’; ma non potrei essere (come tendono a dire i platonici e gli hegeliani)

schiavo della natura? O delle mie passioni sfrenate?”7 E qual è il mio “vero io”? La tentazione di

postulare l’esistenza un “io reale” o “razionale” e di distinguerlo da un “io inferiore”, irrazionale ed

eterodiretto, che ha bisogno di essere disciplinato, è il peccato originale di tutte le ideologie

totalitarie. La versione infallibilista del razionalismo, secondo cui per ogni problema reale vi è

un’unica risposta vera e la cui verità può essere dimostrata, è per Berlin, come per il Popper della

Società Aperta, la fonte ultima del totalitarismo. Se si può dimostrare in che cosa consiste il bene

ultimo dell’individuo, o l’ordine sociale “giusto”, o la “vera” teoria del mondo morale e politico, chi

non si adegua è o ignorante o irrazionale, deve essere “liberato” dall’errore e, come nella enciclica

di Leone XIII citata all’inizio, si può e si deve impedire che la parte irrazionale del suo “io” lo

costringa a scegliere il male. Se si può dimostrare che un certo assetto della società è “razionale”,

non si deve lasciare che la libertà degli uomini di sceglierlo sia ostacolata dall’ignoranza e dal

condizionamento psicologico. Così il razionalismo finisce per giustificare una concezione

autoritaria come una sorta di terapia psicoanalitica a rovescio, volta a fare emergere, eventualmente

attraverso la coercizione, il vero “io razionale” e a “liberarlo” dalla schiavitù degli impulsi e dei

desideri che impediscono all’individuo di perseguire il suo stesso bene o il bene superiore della

comunità a cui appartiene. Dunque ogni visione della società e della morale che assume vi sia

un’unica risposta vera a ciascuna domanda (sensata) fa scivolare pericolosamente i fautori del

concetto positivo di libertà sul piano inclinato che conduce al dispotismo, per quanto benevolente e

“illuminato” nelle intenzioni, in cui tutti sono obbligati a obbedire alle direttive di un’appropriata

élite di guardiani platonici che conosce le risposte giuste. Così se l’ideale positivo viene perseguito

con troppo zelo, esso conduce alla tirannide, alla de-politicizzazione del mondo e al trionfo della

tecnocrazia, riducendo le questioni politiche a questioni meramente tecniche: “coloro che ripongono

la propria fede in qualche immenso fenomeno di trasformazione del mondo, come il trionfo

generale della ragione o della rivoluzione proletaria, devono per forza credere che tutti i problemi

politici e morali siano con ciò stesso trasformati in problemi tecnologici. E’ questo il significato

della famosa frase di Saint-Simon a proposito della ‘sostituzione del governo delle persone con

4

l’amministrazione delle cose’ e delle profezie marxiste sulla scomparsa dello stato e l’inizio della

vera e propria storia dell’umanità.”8 E’ facile avvertire nelle preoccupazioni di Berlin l’eco delle

tragedie politiche del XX secolo: “una credenza più di ogni altra è responsabile del massacro degli

individui sull’altare dei grandi ideali storici [...] Si tratta di quella secondo cui, nel passato o nel

futuro, nella rivelazione divina o nella mente di qualche pensatore, nei pronunciamenti della storia o

della scienza, o nel cuore semplice dell’uomo buono e incorrotto, vi sia una soluzione finale di tutti

i problemi.”9 Ma la critica del concetto di libertà positiva non implica una condanna del socialismo

o dell’intervento pubblico a favore dei meno avvantaggiati, semmai un invito a un’attenta

considerazione del modo in cui tali interventi devono essere giustificati: “gli argomenti a favore [...]

del welfare state e del socialismo [...] possono essere costruiti in modo altrettanto valido a partire da

rivendicazioni di libertà negativa [...] se questo, storicamente, non è accaduto tanto spesso è perché

il male contro cui il concetto di libertà negativa era diretto come un’arma non era il laissez-faire,

ma il dispotismo.”10

Se l’attenzione della tradizionale letteratura “libertaria” si è concentrata quasi

esclusivamente sulla concezione “negativa” di libertà, l’importanza di assegnare un giusto peso

anche a una concezione “positiva” (sebbene leggermente diversa da quella messa in luce dalla

dicotomia classica di Berlin) è stata ripetutamente sottolineata, fra gli altri, da Amartya Sen.

Secondo Sen, la libertà positiva riguarda “ciò che, tenendo conto di tutto, una persona può o meno

conseguire,”11 senza rivolgere particolare attenzione alla natura delle restrizioni che determinano

l’incapacità da parte di una persona di raggiungere un certo obiettivo. Dunque, una violazione della

libertà negativa implica una violazione della libertà positiva, mentre non è vero il contrario.” Così è

possibile sostenere che “se noi riteniamo importante che una persona sia in grado di condurre la vita

che preferisce, allora ci dobbiamo servire della categoria generale della libertà positiva. Se, cioè,

riteniamo di grande importanza l’essere ‘liberi di scegliere’, allora è la libertà positiva che ci

interessa.” Questo non implica affatto che la libertà negativa non debba ricevere una speciale

attenzione, anzi: la restrizione della libertà negativa implica sempre una restrizione corrispondente

della libertà positiva, e di un tipo particolarmente grave dal punto di vista degli assetti sociali, dal

momento che è causata dall’azione di altri individui. D’altra parte, non è difficile vedere come

circostanze che comportano una grave limitazione della libertà positiva di un individuo possono

causare violazioni estreme della sua libertà negativa, come nel caso dell’uomo che, spinto dalla

povertà ad avventurarsi in un territorio ostile, finisce ucciso per mano di criminali nel corso di

disordini etnici. A ben vedere, dunque, la dicotomia di Berlin non deve portare a schierarsi fra i

sostenitori dell’uno o dell’altro concetto di libertà: “non vi è particolare ragione di discutere se si

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debba assumere una visione della libertà di tipo positivo oppure di tipo negativo. Una adeguata

concezione della libertà dovrebbe essere sia positiva sia negativa, poiché sono entrambe importanti

(anche se per ragioni differenti)”12 Anche se vi è una distinzione effettiva fra l’aspetto positivo e

quello negativo, questi diversi aspetti possono essere in realtà profondamente intrecciati e

“concentrarsi solamente su uno oppure sull’altro non solo è incompleto dal punto di vista etico, ma

può anche risultare incoerente dal punto di vista sociale.”13

La dicotomia tra libertà positiva e negativa è stata contestata da Gerald MacCallum, per il

quale è invece possibile ricondurre le due nozioni a un unico concetto “formale”. Secondo

MacCallum14, ogni asserzione sulla libertà ha la forma di una relazione triadica: un agente

(individuale o collettivo) x è libero da un determinato insieme di vincoli y di scegliere l’opzione z.

Le controversie fra i fautori delle diverse concezioni di libertà, come sottolinea MacCallum,

riflettono conflitti sull’estensione di queste variabili, ossia sulla “natura” degli agenti, dei vincoli e

delle opzioni. Questo quadro concettuale conduce ad abbandonare la dicotomia fra libertà positiva e

negativa a favore di una descrizione che prevede, almeno in linea di principio, una varietà illimitata

di concezioni diverse della libertà. Sull’estensione della variabile y, ad esempio, può darsi una

pluralità di posizioni. Quali vincoli occorre considerare come rilevanti: solo i vincoli imposti da

altri agenti, come sembra sostenere la maggior parte dei teorici della libertà negativa, o anche i

vincoli naturali? E nel primo caso, occorre considerare tutti i vincoli imposti da altri agenti, o solo i

vincoli imposti da agenti che possono essere ritenuti “moralmente responsabili”

dell’impedimento?15 Ancora, tra gli impedimenti esterni, occorre considerare solo l’impossibilità

fisica,16 o anche forme meno ovvie come la persuasione o la presenza di offerte e di minacce? In

questo continuum, i fautori della cosiddetta “libertà positiva” ammettono solitamente che la libertà

possa essere ristretta da un insieme molto più ampio di “ostacoli” di quelli che vengono solitamente

ammessi dai fautori della cosiddetta “libertà negativa”. In mancanza di un accordo generale sul tipo

di vincoli che possono essere considerati come autentiche restrizioni della libertà, molti autori

hanno fatto ricorso alla metafora delle “porta chiusa”: le asserzioni sulla libertà riguardano

l’esistenza o non esistenza di “porte chiuse” per un agente (o gruppo di agenti) rispetto all’esercizio

di determinate opzioni.

L’importanza, dal punto di vista sociale, di rimuovere le “porte chiuse” che ostacolano lo

sviluppo degli individui e la piena realizzazione delle loro capacità, non deve nascondere il fatto che

la libertà individuale non è l’unico, né necessariamente il più importante, valore che una società

può desiderare di perseguire. Anzi, spesso risulta in conflitto con altri fini altrettanto legittimi, primo

fra tutti l’uguaglianza. L’idea ottimistica che questi fini possano essere in armonia fra loro e che

l’obiettivo della politica possa essere quello di creare circostanze adeguate perché si realizzi una

6

tale armonia viene stigmatizzata da Berlin come un esempio “della naturale tendenza di quasi tutti i

pensatori, tranne pochissimi, a credere che tutte le cose che essi ritengono buone debbano essere

intimamente connesse o almeno compatibili l’una con l’altra”17 E’ proprio questa tendenza a

caricare il termine “libertà” di significati che gli sono estranei:

La libertà non è l’unico fine dell’uomo. Posso dire, come il critico russo Belinsky, che se altri devono esserne privi – se i miei fratelli devono rimanere nella povertà, nello squallore e in catene – allora non la voglio per me, la rifiuto senza esitazione e preferisco condividere il loro destino. Ma non si ottiene niente confondendo i termini della questione. Per evitare l’evidente disuguaglianza o la miseria diffusa sono pronto a sacrificare parte della mia libertà o addirittura tutta; posso farlo volentieri e liberamente: ma è la libertà a cui sto rinunciando per amore della giustizia o dell’eguaglianza o per amore dei miei simili. [...] Ogni cosa è quello che è: la libertà è la libertà e non l’uguaglianza, l’imparzialità, la giustizia, la cultura, la felicità umana o una coscienza tranquilla. Se la mia libertà o quella della mia classe o nazione dipende dall’infelicità di molti altri esseri umani, il sistema che promuove questa situazione è ingiusto e immorale. Ma ha luogo una perdita assoluta di libertà se limito o perdo la mia allo scopo di ridurre la vergogna di questa disuguaglianza, senza con ciò aumentare materialmente la libertà individuale degli altri. Ciò potrebbe essere compensato da un guadagno in termini di giustizia, di felicità o di pace, ma la perdita resta, ed è solo una confusione di valori dire che, anche se la mia libertà “liberale” e individuale è spazzata via, qualche altro tipo di libertà – “sociale” o “economica” – è invece aumentata.18

Esattamente per gli stessi motivi la libertà, secondo il “pluralismo dei fini” sostenuto da Berlin, non

deve essere confusa con il benessere e non c’è nessun vantaggio a presentare un accrescimento del

benessere di un individuo o di un gruppo di individui come se si trattasse, ipso facto, di un

accrescimento della loro libertà. Tanto meno appare fruttuoso il tentativo di ridurre il concetto di

libertà a qualche altro concetto più fondamentale, come quelli di utilità o di felicità. Come ha

osservato Sen, sebbene la tradizione utilitarista abbia avuto un notevole impatto nella valutazione

dei risultati di politiche antagoniste e abbia determinato cambiamenti sociali che, oltre ad aumentare

la felicità delle persone, hanno contribuito ad accrescerne la libertà, “queste estensioni della libertà,

quando si sono effettivamente verificate, hanno costituito solamente risultati fortuiti di una politica

di stampo utilitaristico, poiché la libertà, come tale, non costituisce un valore nel calcolo

utilitaristico.”19 Il riduzionismo in chiave utilitarista confonde la libertà con il suo valore in termini

di beni, il che conduce a conclusioni paradossali relative a situazioni di scelta in cui vi è, per un

dato individuo, una spiccata preferenza per una delle opzioni, il che renderebbe del tutto “inutile” il

suo essere libero di scegliere anche le altre.20 Non solo: negare alla libertà un valore indipendente

apre la strada alle distorsioni che sorgono quando, per dirla con Sen, “le condizioni soggettive del

desiderio si adeguano a situazioni di persistente diseguaglianza.”21 Così, “la misura dell’utilità può

isolare l’etica sociale dalla valutazione dell’intensità della privazione del lavoratore precario, del

disoccupato cronico, del coolie sovraccarico di lavoro o della moglie completamente succube, i

7

quali hanno imparato a tenere sotto controllo i loro desideri e trarre il massimo piacere da minime

gratificazioni.”22

Il riconoscimento di un valore indipendente alla libertà, distinto da altri valori misurabili in

termini di beni e risorse, pone immediatamente due problemi nuovi: quello della sua misurazione –

come facciamo a valutare se una certa politica pubblica ha causato una crescita della libertà

complessiva? – e quello della sua distribuzione – quali sono i principi di giustizia distributiva che

devono essere applicati nel valutare gli effetti di un intervento pubblico sulla libertà degli individui

all’interno di una società?

2. La misurazione della libertà nella teoria economica

Ci sono frequenti riferimenti ai gradi di libertà sia nel dibattito politico ordinario sia nella

riflessione filosofica e nell’analisi economica e sociale. Questi riferimenti alla libertà implicano un

notevole interesse per la possibilità di misurarla. Questo vale certamente per analisi di tipo

descrittivo.All’interno della scienza economica e politica ci potrebbero essere buone ragioni per

misurare la libertà, in modo da stabilire relazioni empiriche fra gradi di libertà e, per esempio,

sviluppo economico, o stabilità politica, o democrazia. Ma è anche vero per l’analisi normativa.

L’interesse per la possibilità di misurare la libertà può per esempio nascere da un interesse per la

valutazione del benessere sociale o per il concetto di giustizia distributiva. Molte delle teorie

contemporanee della giustizia distributiva sono formulate in termini di regole per la distribuzione

della libertà in una data società, assumendo quindi che la libertà sia quantificabile. I libertari

parlano di “massimizzare” la libertà, la teoria della giustizia di John Rawls richiede che ogni

persona abbia “un eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale compatibile con una simile

libertà per gli altri.”23 Alcune teorie sostengono la necessità di garantire almeno un “minimo” di

libertà a tutti, e altre ancora suggeriscono di rendere perfettamente egualitaria la distribuzione delle

libertà individuali.24 In tutti questi casi, si pone implicitamente il problema di misurare o di

verificare l’esistenza della libertà individuale. Ma questi problemi presuppongono in via preliminare

la soluzione di una serie di complessi problemi teorici e concettuali.

Due sviluppi negli ultimi due decenni hanno rinnovato l’interesse degli economisti per

l’analisi e la misurazione della libertà. Il primo, che è emerso all’intero della letteratura sulla

crescita economica ed era basato sul paradigma proposto dalla nuova economia istituzionale,25 ha

enfatizzato il ruolo delle leggi e delle istituzioni nel determinare opportunità produttive e

performance economica in una società. In una nuova e più empia cornice analitica, questo

approccio sostiene che l’infrastruttura istituzionale e, specificamente, l’estensione e la distribuzione

8

dei diritti e delle libertà in una società, può contribuire a formare gli schemi di incentivi che

favoriscono od ostacolano l’attività produttiva. Questi sviluppi teorici hanno ispirato un’ampia mole

di ricerche empiriche volte a indagare la connessione fra perfomance economica e regimi politici.

La maggior parte degli studi analizzano la relazione fra crescita e libertà politica,26 altri estendono

l’indagine alle possibili interazioni fra crescita, libertà politica ed economica.27 Queste indagini

sono eseguite usando, rispettivamente, il Gastil Civil Liberties Index,28 che è una misura di libertà

politica, e l’Index of Economic Freedom29 pubblicato annualmente dall’Economic Freedom

Network.30 Con poche eccezioni, gli autori che appartengono a questo ramo della letteratura

dedicano scarsa attenzione all’implicito concetto di libertà sottostante alla misura da loro usata.

Danno per scontato che la libertà è importante e che, di conseguenza, una misura della libertà è uno

strumento utile per confrontare i regimi politici e studiare i determinanti della crescita; ma in che

modo diverse concezioni della libertà possano influenzarne la misura, sembra essere una questione

poco comune in questa area di ricerca.

La crescita dell’interesse per il ruolo e la misurazione della libertà nell’ambito

dell’economia normativa è dovuta in gran parte ai lavori di Amartya Sen31. Come abbiamo visto,

Sen parte da una critica del welfarismo, in base al quale la valutazione di un assetto sociale è

effettuata concentrandosi esclusivamente sulle “acquisizioni” delle persone, tradizionalmente

misurate in termini di utilità, e sostiene la necessità di ampliare la base informativa della

valutazione sociale includendo variabili quali i diritti e le libertà individuali.

Un problema scoperto da Sen32 e molto discusso dalla letteratura successiva è quello della

tensione tra libertà individuale e ottimalità paretiana. Questo contributo ha dato origine ad una vasta

letteratura il cui tentativo principale è stato quello di costruire strutture valutative in grado di

utilizzare informazioni sulle utilità così come sui diritti individuali. In scritti successivi, Sen ha

formulato due diverse critiche all’impianto welfarista che domina la scena nell’economia

normativa. La prima considerazione critica riconosce la bontà di una valutazione del benessere

collettivo fondata esclusivamente sui livelli di benessere individuali; tuttavia, sostiene che la libertà

di scelta sia parte importante del benessere individuale. Per fare un esempio, supponiamo che, dato

il salario orario e le preferenze individuali tra reddito e tempo libero, la scelta ottima di un agente

sia quella di lavorare 8 ore al giorno, ottenendo così un reddito pari a Y: in questo modo l’agente

avrà massimizzato la propria utilità. Supponiamo ora che all’agente x sia imposto di lavorare 8 ore

e di avere un reddito pari a Y. Ebbene, sostiene Sen, il livello di utilità dell’agente x nei due casi,

sarebbe fondamentalmente diverso. Tuttavia, queste differenze sfuggono completamente a qualsiasi

valutazione di tipo welfarista. E’ evidente come in questo caso alla libertà sia assegnato un valore

puramente strumentale: la libertà ha valore in quanto determinante del benessere individuale.

9

La seconda valutazione critica mette invece in discussione l’idea che il benessere

individuale debba essere l’unica variabile da cui far dipendere il benessere collettivo. In questo

secondo caso alla libertà è riconosciuta un’importanza intrinseca, non dipendente dal benessere

individuale. In entrambi i casi, il concetto di libertà fatto proprio da Sen, come abbiamo visto nel

paragrafo precedente, sembra essere quello di libertà positiva, interpretata nel senso della

“capacità”: sebbene riconosca l’importanza della libertà negativa e dell’autodeterminazione, Sen

preferisce concentrarsi sul fatto che una persona, per poter essere libera, deve essere in condizione

di scegliere tra una pluralità di alternative. Di conseguenza, la metrica di libertà su cui si è esercitata

la letteratura successiva è una metrica dell’estensione delle possibilità di scelta di un individuo.

L’ormai vasta letteratura che, nel campo dell’economia normativa, ha esplorato le questioni

sollevate da Sen, non ne ha discusso le premesse interpretative, concentrandosi cosiì in maniera

quasi esclusiva su una interpretazione della libertà come libertà di scelta.33 Sotto un profilo

metodologico, questa letteratura ha costruito delle strutture assiomatiche che catturano alcune delle

intuizioni di base sull’estensione della libertà e ha derivato, sulla base di queste strutture, degli

ordinamenti che permettono di confrontare i gradi di libertà di diversi individui.34

Una prima derivazione assiomatica di una misura della libertà, che ha influenzato gran parte

della letteratura economica sulla libertà degli ultimi anni, è stata fornita da Pattanaik e Xu35, che

hanno caratterizzato un criterio per confrontare insiemi di opportunità in termini di libertà di scelta

introducendo tre assiomi. Il primo assioma (Indifferenza), asserisce l’indifferenza fra qualunque

coppia di insiemi unitari (contenenti una sola opzione). Il secondo, (Monotonicità stretta), asserisce

che un insieme di due elementi offre sempre più libertà di qualunque suo sottoinsieme unitario. Il

terzo (Indipendenza) asserisce che la relazione fra due insiemi A e B non cambia se un elemento x

che non è contenuto in nessuno dei due viene aggiunto a entrambi. Si mostra che questi tre assiomi

caratterizzano un unico modo di confrontare gli insiemi: la regola di cardinalità. Questo criterio,

che si applica solo a insiemi finiti di opportunità, li confronta secondo il numero di opzioni che essi

contengono. Si tratta di una misura puramente quantitativa in cui l’informazione sulla natura o il

valore delle alternative non svolge alcun ruolo. Essa non viene infatti difesa dagli autori che, al

contrario, hanno concepito il loro risultato come una sorta di teorema di impossibilità. La letteratura

che si è sviluppata in reazione all’articolo di Pattanaik e Xu può essere grossolanamente suddivisa

in due categorie.

La prima è motivata da una critica degli assiomi suggerita dagli autori stessi che, nello

stesso lavoro in cui presentano il loro risultato, attribuiscono la responsabilità della banalizzazione

cui esso dà luogo all’ultimo assioma, quello di indipendenza, che non prende in considerazione il

grado in cui alternative distinte possono essere “vicine” o simili l’una all’altra. Consideriamo il

10

seguente esempio. Supponiamo che le alternative riguardino mezzi di trasporto e che gli insiemi da

confrontare siano A = {macchina rossa} e B = {treno}. Per il primo assioma (Indifferenza),

dovremmo essere indifferenti fra A e B, dal momento che si tratta di insiemi unitari. Supponiamo

ora di aggiungere l’alternativa “macchina blu” a entrambi gli insiemi. Secondo l’assioma di

Indipendenza dovremmo essere indifferenti anche fra gli insiemi {macchina rossa, macchina blu} e

{treno, macchina blu}. Tuttavia il senso comune sembra dirci che il secondo insieme fornisca una

maggiore libertà di scelta del secondo. Così un possibile sviluppo di questa critica consiste nel

introdurre formalmente una nozione di “vicinanza” o similarità di opzioni e nel riformulare

l’assioma di Indipendenza. Questa è la direzione intrapresa dagli stessi autori in un lavoro

successivo,36 e anche da altri.37

Una diversa spiegazione del risultato di banalizzazione di Pattanaik e Xu è quella data da

Sen:38 la radice del problema è, a suo modo di vedere, che noi troviamo assurdo dissociare il grado

della nostra libertà dalle nostre preferenze riguardo alle alternative. Secondo la concezione di Sen,

la struttura assiomatica di Pattanaik e Xu non è in grado di catturare quell’aspetto della libertà che è

associato alla possibilità di scegliere ciò che ha valore per noi. Questo è quello che Sen chiama “la

dimensione di opportunità” della libertà. Da questo punto di vista, un individuo è libero se ha

accesso ad alternative alle quali attribuisce un valore secondo certi criteri. Tali criteri possono

essere costituiti dalle sue preferenze effettive, come sembra suggerire Sen, o anche da un dato

insieme di preferenze potenziali. Di conseguenza, sono state proposte varie soluzioni che

comportano la sostituzione di uno o più degli assiomi originari con assiomi che fanno riferimento

alle preferenze potenziali o attuali.39

Jones e Sugden40 hanno suggerito per primi l’uso delle preferenze potenziali nella

valutazione della libertà di un individuo interpretandole come le preferenze di una persona

“ragionevole”. Per loro, il valore intrinseco della libertà di scelta non dovrebbe essere giudicato in

termini delle preferenze che una persona di fatto ha, né in termini delle sue preferenze future, ma in

termini di quelle che una persona “ragionevole” può avere. Così, per esempio, se qualunque persona

ragionevole fosse indifferente fra due particolari alternative, allora offrire a qualcuno la scelta fra

tali alternative contribuirebbe molto poco alla sua libertà di scelta. Pattanaik e Xu41 hanno

sviluppato ulteriormente l’idea di Jones e Sugden e hanno costruito un ordinamento compatibile con

essa. Nel confrontare due insiemi di opportunità A e B, Pattanaik e Xu si concentrano sugli insiemi

max(A) e max(B), cioè gli insiemi delle alternative di A e di B, rispettivamente, che possono essere

scelte da persone ragionevoli. Il loro modello ha il merito di catturare la dimensione di opportunità

della libertà, ossia il valore delle differenti alternative, senza collassare in un ordinamento di utilità

indiretto.42

11

Da questa breve rassegna del tema della misurazione della libertà nella letteratura

economica, possiamo notare che quest’ultima è per la gran parte caratterizzata da un filone

prettamente empirico, con scarsa attenzione alle problematiche teoriche che abbiamo descritto, e da

un filone prettamente teorico, con scarsa o nessuna attenzione alla possibilità di utilizzare

empiricamente le misure di libertà caratterizzate teoricamente.

3. Un approccio statistico alla libertà

In questo paragrafo e in quelli seguenti illustriamo un modello per formulare, controllare e rivedere

ipotesi sulla libertà.43. Il nostro approccio è empirico, nel senso che le ipotesi sulla libertà sono

controllate sulla base delle osservazioni, e statistico in quanto tali controlli riguardano campioni e

popolazioni piuttosto che singoli individui.

Chiariamo subito che non è nostra intenzione, proporre un metodo per misurare la libertà

individuale o collettiva. Da questo punto di vista, anzi, riteniamo ci possano essere buone ragioni

per condividere lo scetticismo di diversi autori, primo fra tutti Isaiah Berlin, sulla possibilità stessa

di eseguire tali misurazioni.44Nello stesso tempo, tuttavia, comprendiamo la posizione di Ian Carter

quando afferma “il mio interesse per la possibilità di misurare la libertà [...] nasce da un interesse

per il concetto di giustizia distributiva [...] Gli scrittori odierni sulla giustizia distributiva si

occupano spesso del progetto di stabilire regole per la distribuzione della libertà in una data società,

presupponendo che la libertà sia quantificabile.”45 Secondo Carter è dunque necessario, almeno per

gli studiosi di orientamento liberale, ammettere la possibilità di misurare (magari in un senso

debole, cioè ordinale) la libertà complessiva di cui godono gli individui in una determinata società.

Ma, se concentriamo la nostra attenzione sul significato empirico delle asserzioni sulla libertà,

l’idea di “misurare la libertà” rinvia all’esigenza di stabilire opportune condizioni di verificabilità

per asserzioni della forma “l’agente x è libero di esercitare l’opzione z”. Il nostro punto di vista è

diverso: a nostro modo di vedere la maggior parte delle asserzioni interessanti sulla libertà non sono

verificabili, ma hanno la forma di asserzioni universali incurabilmente ipotetiche e, come qualunque

altra ipotesi scientifica, non possono essere verificate in modo conclusivo sulla base delle

osservazioni, ma solo (provvisoriamente) falsificate. Il contenuto empirico delle ipotesi generali

sulla distribuzione della libertà in un data società consiste proprio nell’inferire da esse asserzioni

che possano essere controllate empiricamente, in questo senso negativo, sulla base delle

osservazioni. Inoltre, come per qualunque teoria scientifica, neppure le “confutazioni” sono

conclusive, e il progresso o il regresso della nostra conoscenza è determinato dall’atteggiamento

metodologico che assumiamo nel processo di revisione delle ipotesi provvisoriamente confutate.

12

Questa concezione radicalmente fallibilista della conoscenza scientifica è ben nota e non è certo il

caso di illustrarla in modo più dettagliato in questa sede46. Il nostro scopo è quello di discutere il

suo impatto sul dibattito odierno intorno alle teorie della libertà e di proporre un modello fallibilista

del controllo empirico delle asserzioni sulla libertà. Una caratteristica del nostro modello consiste

nel fatto che i controlli empirici vengono effettuati sempre su asserzioni relative a libertà specifiche,

come la libertà di scegliere una qualunque opzione all’interno di un insieme dato. Un’altra

caratteristica è che le asserzioni controllabili non si riferiscono a singoli individui, ma ad insiemi di

individui, da cui segue che i controlli sono intrinsecamente di natura statistica.

Un primo problema che sorge quando si cerca di controllare empiricamente le asserzioni

sulla libertà è costituito dal fatto che alcune restrizioni o ostacoli possono non essere direttamente

osservabili. Per fissare le idee, supponiamo che il nostro principio di distribuzione della libertà

implichi che un certo agente x (magari subordinatamente al possesso di determinati requisiti o

risorse) possa scegliere liberamente se entrare in una fra due stanze A e B. Chiaramente questo

principio risulta violato se una delle due porte di queste stanze si trova chiusa per x. Supponiamo

però che noi, in quanto osservatori esterni, non siamo in grado di controllare direttamente se queste

porte sono chiuse o aperte per l’agente x, né possiamo fare affidamento sul resoconto di x a questo

proposito. Questo è proprio il tipo di situazione che ci troviamo di fronte in molti casi interessanti.

Possiamo tuttavia osservare in quale delle due stanze x è effettivamente entrato, diciamo nella

stanza A. Come facciamo ad inferire se x era libero o meno di entrare in ciascuna delle due stanze?

Vi sono tre possibilità: o (a) tutte e due le porte erano aperte e x è entrato nella stanza in cui voleva

entrare; oppure (b) la porta della stanza B era chiusa e x voleva entrare nella stanza B ma, trovando

la porta chiusa, è stato costretto ad entrare nella stanza A; oppure ancora (c) la porta della stanza B

era chiusa, ma x voleva entrare proprio nella stanza A. Mentre nel caso (a) noi possiamo

legittimamente sostenere che x era libero di entrare in ciascuna delle due stanze, nei casi (b) e (c)

dobbiamo concludere che la sua libertà di scelta era limitata dal momento che una delle due porte

era chiusa. Dunque, dalla semplice osservazione non siamo in grado di stabilire se x era libero o no

di entrare nella stanza B (anche se possiamo ovviamente concludere che era libero di entrare nella

stanza A). Potremmo però confutare l’asserzione “x è libero di entrare nella stanza B”47 se avessimo

informazioni sicure sulla preferenza di x per B e sull’assenza di ostacoli “naturali”, o comunque

“irrilevanti” rispetto alla nostra concezione della libertà, che gli impediscano di realizzare la sua

scelta; ossia se avessimo informazioni sicure su quello che x farebbe se fosse libero di scegliere.

Assumendo, per esempio, di sapere che x ha una forte preferenza per la stanza B, e che la sua scelta

non è ostacolata da restrizioni che non sono restrizioni della libertà (secondo la nostra concezione

13

della libertà), dall’ipotesi che x è libero di entrare in questa stanza potremmo ragionevolmente fare

una predizione sul comportamento osservabile di x secondo il seguente schema di ragionamento:

1. x sceglierebbe B se fosse libero di farlo

2. la porta della stanza B è aperta per x

__________________________________________

x entrerà nella stanza B

Ciò implica, per il modus tollens, che se x non entra nella stanza B, allora una delle

assunzioni 1-2 deve essere falsa. Si osservi che questo è il modo in cui comunemente funzionano le

teorie scientifiche mature: abbiamo sempre bisogno di ipotesi ausiliari (e condizioni iniziali) per

trarre predizioni empiriche da un’ipotesi che non sia controllabile direttamente.

Tuttavia un primo sguardo a questo semplicistico modello predittivo rivela immediatamente

la sua inadeguatezza per almeno due ragioni. In primo luogo, come facciamo a formulare ipotesi

affidabili su quello che x farebbe se fosse libero di scegliere? Si noti che ipotesi del genere

comprendono necessariamente ipotesi sulle preferenze di x (oltre che sull’assenza di altre restrizioni

che non sono classificate come restrizioni della libertà). Tutto quello che possiamo fare, per

formulare ipotesi del genere, è basarci su una descrizione (necessariamente finita) di x in termini

delle sue caratteristiche osservabili. Ma allora queste ipotesi riguarderanno sempre insiemi di

individui, ossia quelli che condividono le caratteristiche che ricorrono nella descrizione. Ma ipotesi

di questo tipo non possono mai condurre a predizioni deterministiche sulle preferenze dei singoli. Il

massimo che possiamo ottenere sono predizioni probabilistiche. Così nel nostro modello predittivo

dovremmo sostituire l’ipotesi 1 con “x sceglierebbe la stanza B con probabilità p” e, analogamente,

dovremmo sostituire la conclusione con “x entrerà nella stanza B con probabilità p”. Ovviamente, in

tal caso l’osservazione che, di fatto, x sceglie la stanza A invece della B, non ha nessuna

implicazione sulle assunzioni 1-2. In secondo luogo, ragionando sui singoli individui può ben darsi,

come abbiamo visto nel caso (c), che l’agente x non sia libero di esercitare un’opzione alla quale

non è interessato. In casi del genere, dovremmo dire che x non è davvero libero di scegliere fra A e

B anche se questa illibertà non influenza la sua scelta. In un contesto del genere il nostro modello

non è in grado di rivelare questa restrizione della libertà di scelta di x persino nel caso in cui

fossimo in grado di avere una perfetta informazione sulle sue preferenze e sull’assenza di restrizioni

che non sono restrizioni della libertà.

14

Un secondo problema è legato al fatto che l’esistenza di una porta chiusa per x può essere

legata a circostanze che ragionevolmente possono essere descritte come “casuali”. Dunque

sostenere, prima che x sia effettivamente entrato nella stanza A, che era (o non era) libero di farlo

può apparire futile. Vediamo di chiarirlo complicando leggermente il nostro esempio. Supponiamo

che x possa scegliere se entrare in una delle solite due stanze A e B e che l’apertura della porta della

stanza B sia regolata (per limitare il numero di accessi) da un dispositivo che consente, in modo

casuale, l’accesso solo a una certa percentuale di persone fra quelle che hanno i requisiti per entrare.

Ebbene, prima che x provi ad entrare nella stanza B, è “libero” di entrarvi oppure no? La risposta è

che non siamo in grado di dirlo – possiamo parlare della libertà di x solo nell’istante in cui tenta di

entrare per cui la domanda è, in un certo senso, futile. Questo è un caso che si presenta in molte

situazioni reali, in cui una “porta”, per un dato agente, non è certamente (o sempre) aperta oppure

certamente (o sempre) chiusa, ma può esserlo con una determinata probabilità; ossia in tutte quelle

situazioni in cui le restrizioni alla libertà non penalizzano, infallibilmente, tutti i tentativi di

esercitare certe opzioni, ma agiscono solo in una certa percentuale di casi (ci sembra che anche i più

forti fra i tipi di vincoli considerati in letteratura, per esempio i vincoli legali sostenuti da sanzioni,

siano in realtà, restrizioni di questo tipo). In situazioni del genere, non è affatto futile, però,

chiedersi quale sia la probabilità che la porta di una determinata stanza sia chiusa per un dato

agente e se la libertà di accesso (in termini di probabilità) sia ugualmente distribuita fra gli agenti

che soddisfano i requisiti per entrare. Se le restrizioni non agiscono in modo casuale fra la

“popolazione” che possiede questi requisiti, allora la libertà di accesso non è ugualmente distribuita.

Un terzo problema, è legato alla forma logica delle asserzioni sulla libertà. Nello schema di

MacCallum, “x è libero da vincoli (di tipo) y di scegliere l’opzione z”, qual è la reale estensione

della variabile y? Ci sembra si possa ragionevolmente sostenere che, nelle intenzioni di chi usa la

relazione di MacCallum, la variabile y sia di ordine diverso dalle altre due. Mentre il dominio della

x è costituito da singoli agenti e il dominio della z da singole opzioni, il dominio della y non è

costituito da singoli ostacoli (per esempio: y = Amelia la fattucchiera mi ha impedito di esercitare

l’opzione z trasformandomi momentaneamente in una statua di sale) ma, come abbiamo suggerito,

da tipi di ostacoli (per esempio: y = qualche fattucchiera mi ha impedito di esercitare l’opzione z

mediante qualche sortilegio)48. Per questa ragione sarebbe meglio distinguere tipograficamente la

variabile y dalle altre due, per esempio usando la Y maiuscola, per sottolineare il fatto che si tratta di

una diversa sorta (nel gergo dei logici) di variabile. Se il tipo Y di ostacoli in considerazione è

costituito, come nella maggior parte dei casi davvero interessanti, da un insieme infinito o

difficilmente determinabile (non sappiamo chi e quante sono le fattucchiere e quanti e quali sono i

tipi di sortilegio), l’asserzione di MacCallum assume la forma di un’asserzione universale: “per tutti

15

gli ostacoli w di tipo Y, x è libero da w di esercitare z” della stessa forma logica di “Tutti i corvi

sono neri” o “Tutti i corpi obbediscono alla legge di gravitazione di Newton”. Ma non è

logicamente possibile verificare asserzioni universali di questo genere. E in ogni caso, anche se i

vincoli di in certo tipo fossero finiti e chiaramente determinati, se il nostro scopo ultimo è quello di

controllare l’attuazione di principi generali di distribuzione della libertà, siamo certamente

interessati a controllare se un agente x è libero da qualunque tipo di vincolo di esercitare l’opzione

z. L’asserzione “l’agente x è libero di esercitare l’opzione z” va intesa come “per ogni tipo di

vincolo Y, x è libero da vincoli di tipo Y di esercitare z”. Così, le asserzioni sulla libertà sono

asserzioni teoriche universali e non possono essere verificate, ma solo falsificate, con l’aiuto di

condizioni iniziali e ipotesi ausiliarie.

Alcune delle difficoltà che abbiamo esposto costituivano la principale motivazione

del cosiddetto “concetto statistico di libertà” proposto mezzo secolo fa da Gabor e Gabor49:

Tutte le azioni di individui che possiamo associare con l’aggettivo “libero” possono essere considerate come scelte fra un certo numero di alternative. Prima che l’azione abbia luogo, un osservatore esterno può enumerare le possibilità a partire dalla sua conoscenza necessariamente imperfetta delle restrizioni, e può assegnare ad esse probabilità sulla base della sua conoscenza ancora più imperfetta della psicologia individuale. Di fatto, solo uno di questi possibili atti si realizzerà e la latitudine a priori che l’osservatore ha concesso all’individuo per la sua scelta appare solo come una misura della sua ignoranza. Per questo l’approccio oggettivo è inutile quando è applicato a singoli individui, mentre un approccio “soggettivo”, basato su una sua stima personale di desideri, fantasie e frustrazioni può ben difficilmente condurre a una misura numerica concordata, almeno se si considera lo stato attuale della psicologia sperimentale50.

In modo alquanto ottimistico i Gabor non esitano a concludere che “[il loro] approccio

statistico, che tiene conto degli atti post facto, e che considera gli individui solo come

membri di un’ampia popolazione, supera questi ostacoli in un sol colpo”51. Il loro assunto

metodologico secondo cui qualunque ipotesi sulle preferenze deve essere bandita in quanto

incurabilmente “soggettiva”, li conduce a proporre un modello filosoficamente ingenuo che è

stato occasionalmente criticato52, ma in larga misura ignorato dalla letteratura

sull’argomento.

In questo articolo tentiamo di rivitalizzare l’approccio statistico, prendendo sul serio

le sue motivazioni (e suggerendone altre), ma incorporandolo in quello che riteniamo un

modello più sofisticato, che tiene conto di alcune delle questioni principali concernenti il

controllo e la revisione delle ipotesi scientifiche che sono ampiamente e dettagliatamente

discusse nella letteratura epistemologica contemporanea.

16

4 . Un modello predittivo

Come si è detto, le asserzioni sulla libertà riguardano la presenza o assenza di ostacoli nei

confronti di certi agenti riguardo all’esercizio di certe opzioni. Va osservato tuttavia che

solitamente l’azione di questi ostacoli non si manifesta nei confronti di singoli agenti in

quanto tali, ma è di fatto connessa a qualche loro caratteristica o insieme di caratteristiche.

Se Mario Rossi si trova di fronte a una porta chiusa, di solito questo non accade perché è

Mario Rossi, ma perché è, diciamo, alto, nero, veste in giacca e cravatta o ha un IQ basso (o

alto), ecc. Anche i vincoli di tipo legale, uno dei tipi di vincoli più discussi nella letteratura

sulla libertà, non vengono esercitati su singoli individui, ma su categorie di individui

identificate da certe caratteristiche (normalmente le leggi non sono ad personam).

Supponiamo, per riprendere l’esempio del paragrafo 1, che nella stanza B, in base alle nostre

osservazioni, ci siano solo, o prevalentemente, persone con una certa caratteristica, diciamo

con gli occhi azzurri, che non rientra fra i requisiti dichiarati per l’accesso alla stanza. Ci

sono due possibilità: o le persone che non hanno gli occhi azzurri hanno una spiccata

preferenza per la stanza A, oppure l’accesso alla stanza B è in qualche modo ristretto per

loro. D’altra parte, se facciamo l’ipotesi che l’avere o meno gli occhi azzurri sia irrilevante

rispetto alla distribuzione delle preferenze all’interno della popolazione in possesso dei

necessari requisiti per accedere alle stanze, possiamo legittimamente inferire che la porta

della stanza B è chiusa per tutte o buona parte delle persone senza gli occhi azzurri, ovvero

che la libertà di accesso alla stanza B non è ugualmente distribuita fra i membri della

popolazione considerata. Dunque, possiamo confutare ipotesi sull’uguale distribuzione di una

libertà specifica all’interno di una determinata popolazione di agenti individuando

caratteristiche (o insiemi di caratteristiche) che sono (ipoteticamente) indipendenti dalla

distribuzione delle preferenze all’interno della popolazione data, ma statisticamente correlate

al comportamento osservabile degli agenti.

Una delle tesi principali di questo articolo è che concentrarsi sulle

caratteristiche individuali, invece che sui singoli individui, è una mossa teoricamente ed

empiricamente fruttuosa. L’insieme delle opzioni che sono “realmente” aperte a un agente

dipende di solito da una pluralità di caratteristiche: fattori naturali, condizioni sociali, scelte e

azioni passate, ecc. Quali fra le caratteristiche che possono essere correlate all’esistenza di

restrizioni su una data opzione sono “rilevanti” rispetto alle asserzioni sulla liberta?53 Dove

può essere tracciata la linea di demarcazione?

17

Si tratta di una questione cruciale che è stata discussa ampiamente e in modo

approfondito nella letteratura sulla libertà54. Non è nostra intenzione in questa sede

addentrarci in questa discussione. Suggeriamo solo che molti degli approcci rivali possono

essere descritti facendo ricorso a un concetto condizionale di libertà (o “libertà subordinata”)

che può essere meglio esplicitato quando ci si concentra sulle caratteristiche individuali

invece che sui singoli individui. Proponiamo dunque di sostituire la relazione di MacCallum

con la seguente: “gli agenti che condividono le caratteristiche X sono (ugualmente) liberi di

esercitare l’opzione z”, dove il termine “ugualmente” intende rendere conto dei contesti in

cui l’applicazione di eventuali restrizioni alla libertà degli agenti di tipo X (rispetto

all’opzione z) avviene non in modo deterministico, ma in modo probabilistico (come nel

secondo esempio del paragrafo 1). L’asserzione “gli agenti di tipo X sono (ugualmente) liberi

di esercitare l’opzione z” va intesa come la quantificazione universale della relazione “gli

agenti di tipo X sono liberi da vincoli di tipo Y di esercitare z” rispetto alla variabile Y.

L’esclusione, in base a una data concezione della libertà, di certi tipi di vincoli dal dominio

della quantificazione può nella maggior parte dei casi essere rispecchiata dall’estensione

dell’insieme di caratteristiche X rispetto alle quali le asserzioni sulla libertà sono subordinate:

la questione se, per esempio, l’eventuale mancanza di risorse economiche (attribuibile

all’“azione impersonale delle leggi economiche”) debba o non debba essere considerata una

restrizione della libertà, ovvero la famosa questione se un barbone sia libero o meno di

cenare al Ritz, si riflette nella decisione di inserire o meno il livello di reddito fra le

caratteristiche rispetto alle quali subordinare le asserzioni sulla libertà specifica di esercitare

una certa opzione.

E’ venuto ora il momento di illustrare il nostro modello predittivo. Sia X una classe di

caratteristiche. Supponiamo di voler controllare empiricamente l’ipotesi “gli individui con le

caratteristiche X sono ugualmente liberi di esercitare z”. Con un leggero abuso di notazione,

indichiamo con z l’evento che un agente arbitrario eserciti l’opzione z, con X l’evento che

questo agente possegga tutte le caratteristiche in X, e con P l’evento che l’agente possegga

anche la caratteristica P. Indichiamo inoltre con U, l’evento (non osservabile) secondo cui la

libertà dell’agente rispetto all’esercizio dell’opzione z non è ristretta in alcun modo (ossia

non ci sono restrizioni che possono essere identificate come restrizioni della sua libertà).

Indichiamo infine con Pr(U | X) la probabilità che un individuo arbitrario con le

caratteristiche X sia libero di esercitare l’opzione z. (Si tratta della probabilità che l’agente sia

libero di esercitare l’opzione z valutata subordinatamente alla condizione che l’agente faccia

parte della popolazione identificata dalle caratteristiche X.)

18

L’ipotesi secondo cui la libertà di esercitare l’opzione z è ugualmente distribuita fra i

membri della popolazione X implica che, per qualsiasi proprietà P che non fa parte di X,

valga la seguente asserzione:

(1) Pr(U | X, P) = Pr(U | X)

ovvero la probabilità che un individuo arbitrario x della popolazione X sia libero di esercitare

z non è in alcun modo influenzata dal fatto che x possegga o meno la caratteristica P (la

virgola va intesa come congiunzione). La probabilità che un individuo che ha denaro

sufficiente per cenare al Ritz (X) sia davvero libero di farlo (U) non dipende in alcun modo

da altre proprietà di questo individuo, per esempio dal fatto che questi sia nato o meno nel

mese di novembre (P).

Introduciamo ora l’ipotesi ausiliare secondo cui il possesso o meno della

caratteristica P è irrilevante rispetto alla distribuzione delle “scelte libere” riguardo a z

all’interno della “popolazione” descritta da X. La nostra ipotesi ausiliare si traduce nella

seguente:

(2) Pr(z | U, X, P) = Pr(z | U, X)

dove, proseguendo nell’abuso di notazione, z indica l’evento che l’agente eserciti

effettivamente l’opzione z. La (2) asserisce che l’informazione secondo cui un agente x,

libero (U) di esercitare l’opzione z e in possesso di un dato insieme di caratteristiche (X),

possegga o meno anche l’ulteriore caratteristica P non influenza in alcun modo la nostra

predizione sulla probabilità che x eserciti effettivamente l’opzione z55. In altre parole,

l’ipotesi asserisce che la proprietà P non influenza in alcun modo la distribuzione delle scelte

libere all’interno della “popolazione” X. Si noti che questa ipotesi è molto più debole di

ipotesi del tipo “gli agenti con le caratteristiche X tenderanno a scegliere l’opzione z”. La (1)

non dice nulla di specifico sulle preferenze dei membri della popolazione X, ma asserisce

solo che la distribuzione delle loro scelte libere è indipendente dalla caratteristica P. Per

proseguire nell’esempio precedente, se un individuo possiede denaro sufficiente per cenare al

Ritz ed è libero di farlo, ci aspettiamo che il fatto di essere nato nel mese di novembre non

influenzi in modo significativo la probabilità che la sua scelta si orienti in tal senso (anche se

non abbiamo alcun motivo per ritenere che tutti quelli che hanno denaro sufficiente per farlo

debbano avere una spiccata predilezione per il Ritz piuttosto che per una pizza).

19

Naturalmente anche questa è un ipotesi per la quale si possono immaginare controlli

indipendenti.

Da (1) e (2), sotto alcune condizioni molto deboli, segue che:

(3) Pr(z | X, P) = Pr(z | X),

ovvero la probabilità che un individuo arbitrario x della popolazione X eserciti di fatto

l’opzione z non dipende in alcun modo dal fatto che x possegga o meno la caratteristica P

(nel nostro esempio, la probabilità che un individuo, che ha denaro sufficiente per farlo, ceni

effettivamente al Ritz è indipendente dal fatto che tale individuo sia nato o meno nel mese di

novembre).

Ma la (3) è un’asserzione relativa al comportamento osservabile degli agenti della

popolazione X e può essere controllata statisticamente56. In tal modo l’ipotesi (1) sulla

distribuzione della libertà specifica di esercitare z all’interno della popolazione X acquista un

contenuto empirico.

5 . Aspetti dinamici del modello: il processo di revisione

Che fare se la (3) viene respinta, cioè se si nota una correlazione significativa fra il

comportamento effettivo dei membri della popolazione X e la proprietà P? Dato che la (3)

segue dalla congiunzione delle due ipotesi (1) e (2), la sua falsità implica la falsità di almeno

una di queste due ipotesi. Ci troviamo dunque di fronte al problema di decidere quale di essa

debba essere respinta e sottoposta a revisione. La (1), che è un’ipotesi sulla distribuzione

della libertà specifica considerata all’interno della popolazione X, oppure la (2), che è

un’ipotesi di indipendenza della distribuzione delle preferenze all’interno di quella stessa

popolazione rispetto alla caratteristica P?. Questo non è altro che un esempio del ben noto

problema di Duhem-Quine57. Dato che in genere non è possibile estrarre conseguenze

controllabili empiricamente da ipotesi isolate ma solo da sistemi di ipotesi che comprendono

ipotesi ausiliarie e condizioni iniziali, la confutazione di una predizione empirica indica che

un elemento di questo sistema va sostituito, ma la logica da sola non è in grado di dirci quale.

Questo è un problema metodologico che può essere affrontato solo all’interno di ben

determinate strategie euristiche (o “programmi di ricerca” per dirla con Imre Lakatos) che ci

danno indicazioni su quali ipotesi rimpiazzare e su come rimpiazzarle. Supponiamo che il

20

“nucleo” del nostro programma di ricerca (che definisce le ipotesi che ci impegniamo a

“salvare” il più a lungo possibile dalla confutazione) ci vieti di sostituire l’ipotesi principale

(1) sulla distribuzione della libertà e ci suggerisca quindi di rivedere l’ipotesi (2) sulla

distribuzione delle preferenze, rimpiazzandola con una nuova versione che sia compatibile

con la negazione della (3). Innanzitutto dobbiamo impegnarci a capire in che modo la (2) può

risultare falsa.

Un aspetto ben noto di asserzioni come la (1) e la (2) è il loro carattere

intrinsecamente non monotono. L’aggiunta di una caratteristica addizionale alle condizioni X

rispetto alle quali sono subordinate le probabilità può sempre invertire il valore di verità di

queste asserzioni. Per esempio, può ben darsi che la caratteristica P rispetto alla quale la (2)

asserisce l’indipendenza delle preferenze all’interno della popolazione X sia, di fatto,

correlata in modo significativo ad un’altra caratteristica Q rispetto alla quale possiamo invece

aspettarci una dipendenza o perché influenza le preferenze degli agenti oppure perché

costituisce un vincolo “irrilevante” rispetto alla nostra concezione della libertà, e dunque non

ricade nel raggio d’azione della variabile U58. (Questo fenomeno è connesso al cosiddetto

“paradosso di Simpson” per il quale si veda l’appendice). Riprendendo sempre il nostro

esempio, può darsi che vi sia, di fatto, una correlazione significativa fra le persone nate nel

mese di novembre e un’altra caratteristica Q finora trascurata, come l’essere allergici a certi

alimenti di cui è ricca la cucina offerta dal Ritz, che influenza fortemente la scelta degli

agenti. La scoperta di una caratteristica del genere ci condurrebbe a respingere la (2) e a

rimpiazzarla con una nuova versione della forma:

Pr(z | U,X, non-Q, P) = P(z | U,X,non-Q).

Si considera dunque la sottopopolazione di X costituita dagli agenti che non hanno la proprietà Q

(non sono allergici) e si asserisce l’indipendenza della scelta di z rispetto alla proprietà P con

riferimento agli agenti liberi di questa sottopopolazione. Si ottiene così la nuova predizione:

Pr(z | X, non-Q, P) = Pr(z | X, non-Q).

che asserisce l’indipendenza da P del comportamento osservabile rispetto all’opzione z da parte dei

membri della sottopopolazione di X costituita dagli agenti che non hanno la proprietà Q. Se la

nuova predizione resiste ai controlli il processo di revisione ha ristabilito la coerenza con i dati

21

osservativi. Se viene di nuovo confutata, possiamo cercare di scoprire qualche altra “variabile

nascosta” e modificare di nuovo la nostra ipotesi ausiliare ... e così via.

Queste considerazioni mostrano che la confutazione di una predizione empirica non può mai

essere attribuita in modo conclusivo all’ipotesi principale (1) sulla distribuzione della libertà. In

presenza di un’evidenza empirica contraria possiamo sempre salvare la (1) dalla confutazione

ipotizzando una nuova caratteristica Q che influenzi la distribuzione delle scelte effettive degli

agenti influenzando la distribuzione delle loro preferenze, e mostrare che questa nuova variabile è

correlata a P. Non c’è una conclusione “naturale” di questo processo di revisione. Una confutazione

conclusiva della (1) sarebbe possibile solo se assumessimo di aver considerato tutte le possibili

variabili “rilevanti” rispetto alle scelte degli agenti. Assunzioni di questo tipo sono apparse in

diverse forme nella letteratura statistica59, ma esse non costituiscono in alcun senso un “termine

naturale” del processo di revisione e la loro accettazione è una questione di decisioni convenzionali.

In realtà, il processo di revisione di un modello predittivo è sempre il risultato di decisioni

metodologiche e dipende dal “valore euristico” di queste decisioni, un tema che è stato al centro di

un lungo e acceso dibattito epistemologico. Alcune di queste decisioni possono essere considerate

come stratagemmi ad hoc, revisioni regressive che non conducono a nessuna nuova predizione e

perciò riducono il contenuto empirico dell’ipotesi di libertà. Altre possono apparire come

“slittamenti progressivi” che conducono alla scoperta di fatti nuovi contribuendo così alla crescita

della conoscenza.

6 . Osservazioni conclusive

Nella prima parte di questo lavoro, dopo aver illustrato le due principali concezioni di libertà

discusse nella letteratura filosofica e la concezione triadica di McCallum, abbiamo analizzato come

il problema della misurazione della libertà è stato affrontato nella letteratura economica. La seconda

parte di questo lavoro illustra invece la nostra proposta per un sistema coerente di valutazione della

libertà individuale e collettiva. In particolare abbiamo mostrato come ipotesi sulla distribuzione di

libertà specifiche all’interno di determinate popolazioni di agenti possono essere incorporate in

modelli dotati di potere predittivo, ossia modelli che hanno un contenuto empirico e possono

dunque essere controllati. Abbiamo suggerito che la presenza di restrizioni (non direttamente

osservabili) all’accesso di un individuo a una data opzione può essere scoperta guardando alla

dipendenza statistica fra il comportamento osservato e certe caratteristiche osservate degli agenti.

Come abbiamo sottolineato nell’introduzione, data la complessità delle interazioni fra gli individui,

non possiamo ragionevolmente attenderci che la presenza di restrizioni alle scelte individuali sia

22

facilmente osservabile e certe opzioni che sono disponibili solo formalmente potrebbero essere di

fatto negate ad alcuni individui mediante meccanismi di esclusione nascosti o troppo complessi per

essere facilmente rilevati60. Mentre è estremamente difficile, se non impossibile, ottenere dati

quantitativi sulle restrizioni che agiscono sulle scelte individuali, dati eccellenti possono essere

ottenuti sulle dipendenze fra le caratteristiche osservabili degli agenti. Il modello che abbiamo

proposto mostra come, mediante opportune ipotesi ausiliarie, questi dati possono essere usati per

confutare ipotesi sulla uguale distribuzione di libertà specifiche, cioè per rivelare la presenza di

vincoli “indesiderabili” alla libertà di esercitare determinate opzioni.

Abbiamo anche cercato di illustrare gli aspetti dinamici del nostro modello. Nel controllo

delle ipotesi sulla libertà, come in quello di qualunque ipotesi scientifica, le confutazioni non sono

mai conclusive, ma quello che apprendiamo nei nostri tentativi ed errori può essere di considerevole

aiuto per rivedere e migliorare le nostre spiegazioni e predizioni. Se ci concentriamo sulle

applicazioni sociali e politiche, troviamo che diversi “programmi politici” possono essere

caratterizzati dalle decisioni metodologiche relative alle caratteristiche che dovrebbero essere

considerate “rilevanti” o “irrilevanti”in quanto condizioni per il libero accesso a una data opzione.

Specificando l’insieme delle caratteristiche che dovrebbero essere irrilevanti, una teoria della libertà

può costituire la base di politiche pubbliche volte a ridurre la presenza di restrizioni associate a

queste caratteristiche.

Da questo punto di vista, l’analisi che abbiamo condotto in questo articolo può essere

collegata in modo interessante, oltre che agli studi sulla giustizia distributiva, a quelli sulla

discriminazione e sull’uguaglianza di opportunità61. In questa area l’intervento pubblico può seguire

due diversi principi: il primo, detto “principio di non-discriminazione”, asserisce che le

caratteristiche “irrilevanti” non dovrebbero contare come criteri accettabili per l’accesso a opzioni e

posizioni che si presentano in una data società. Il secondo principio afferma che la società dovrebbe

“livellare il campo di gioco”, in modo che tutti gli individui con le caratteristiche “rilevanti”

debbano alla fine avere lo stesso accesso alle opzioni. Per esempio, se l’appartenenza a una certa

etnia viene giudicata, in quanto caratteristica, irrilevante per quanto riguarda l’accesso a un certo

tipo di occupazione e, ciò nonostante, si osserva empiricamente che di fatto costituisce una

caratteristica rilevante, allora un intervento pubblico può essere giustificato. Il principio di non-

discriminazione in questo caso asserisce che l’appartenenza a una data etnia non dovrebbe contare

né a favore né contro l’“eleggibilità” per quel tipo di occupazione. Secondo il principio del

“livellamento”, invece, l’intervento pubblico dovrebbe assumere la forma di un’azione affermativa:

per esempio spendendo più risorse per l’istruzione dei bambini afro-americani in modo da

compensare gli svantaggi che incontreranno successivamente nella competizione per il lavoro. Si

23

noti che il principio del “livellamento” solleva importanti questioni di natura empirica. Infatti, per

giustificare politiche di azione affermativa su basi etniche non è sufficiente asserire che l’essere, per

esempio, afro-americani deve essere irrilevante rispetto all’accesso alle opzioni occupazionali; è

necessario dimostrare anche che essere afro-americani è una caratteristica fortemente correlata

all’accesso a determinate posizioni. Infatti, queste politiche possono essere criticate direttamente

sulla base di considerazioni puramente empiriche: si può obiettare, per esempio, che l’appartenenza

a una determinata classe sociale è più rilevante dell’etnia rispetto all’esistenza di restrizioni

sull’accesso a certi tipi di occupazione62.

Tuttavia, sebbene la metodologia statistica possa essere utile per suggerire la presenza di

restrizioni “indesiderabili”, l’effettiva identificazione delle restrizioni che sono rilevanti al discorso

sulla libertà, e il ruolo delle politiche pubbliche volte a rimuovere o ridurre tali restrizioni, sono

questioni che vanno ben oltre l’orizzonte di questo articolo.

Appendice: il paradosso di Simpson

Supponiamo che siamo interessati alla correlazione fra il comportamento di voto all’interno di una

certa popolazione e la razza dei votanti. L’opzione z che ci interessa è “andare a votare” (V). Le

caratteristiche che ci interessano sono l’essere “bianchi” (B) o “neri” (N). Supponiamo che la

popolazione delle persone che hanno diritto a votare in quella circoscrizione sia costituita da 300

persone e che il comportamento osservato degli aventi diritto sia descritto dalla tabella seguente:

V Non-V

B 120 90

N 40 50

Da questa tabella emerge che la distribuzione di V non è indipendente dalla razza: in particolare le

chances di votare sono maggiori per i bianchi che per i neri. Ebbene, avanziamo ora l’ipotesi che il

comportamento di voto sia influenzato oltre che dalla razza anche dall’area di residenza, e

introduciamo dunque due nuove caratteristiche: “abitare in città” e “abitare in un villaggio”.

Raccolti i nuovi dati otteniamo le seguenti tabelle:

24

L’ispezione di queste tabelle mostra che, subordinatamente all’area di residenza, il comportamento

di voto è effettivamente indipendente dalla razza. A questo scopo basta guardare alla distribuzione

di V fra bianchi e neri. Nei villaggi la distribuzione dei votanti e dei non-votanti è identica nei

bianchi e nei neri e in città la frequenza dei votanti è doppia di quella dei non-votanti sia fra i

bianchi sia fra i neri. D’altra parte, se mescoliamo le due tabelle, come abbiamo fatto prima,

ricaviamo l’impressione che i bianchi abbiano una maggiore inclinazione al voto dei neri, ma

questo dipende semplicemente dalla sproporzione fra i neri che vivano nei villaggi e quelli che

vivono in città. Questo è un esempio del cosiddetto “paradosso di Simpson”63 che, nella sua forma

più semplice, può essere descritto dicendo che uno stesso insieme di dati può esibire al tempo stesso

una dipendenza marginale positiva (negativa), ma una dipendenza condizionale non-positiva (non-

negativa) fra due variabili.

1 I paragrafi 3 e ss. sono basati su M. D’Agostino, V. Dardanoni e V. Peragine, Libertà: un approccio statistico, «Filosofia e questioni pubbliche», numero unico 2003, pp. 131-148. 2 I. Berlin, «Two Concepts of Liberty», in Four Essays on Liberty, Oxford University Press, 1969, trad. it. Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano 2000, p. 11. 3 Oltre al fondamentale saggio di Berlin, citato nella nota procedente e che ha avviato il dibattito, si vedano anche i contributi raccolti in I. Carter e M. Ricciardi (a cura di), L’idea di libertà, cit. 4 I. Berlin, op.cit., trad. it. p. 12. 5 Ibidem, pp. 12-13. 6 Ibidem, p. 24. 7 Ibid. p. 25. 8 Ibid., p. 7. 9 I. Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford, p.167. 10 Ibid., p. xlvi. 11 A.K. Sen, La Libertà individuale come impegno sociale, Laterza, 1999, p. 8. 12 Ibid., p. 10. 13 Ibid., pp. 11-12. 14 G.C. MacCallum Jr., Negative and Positive Freedom, «Philosophical Review», 76, 1967, pp. 312-334, trad. it. «Libertà negativa e positiva», in I. Carter e M. Ricciardi, a cura di, L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 19-42. 15 Cfr. D. Miller, Constraints to freedom, «Ethics», XCIV, pp. 66-86. Trad. it. in I. Carter e M. Ricciardi M. (a cura di) L’idea di libertà, cit. 16 H. Steiner, Individual Liberty, «Proceedings of the Aristotelian Society», LXXV, pp. 33-50. Trad. it in I. Carter e M. Ricciardi, op. cit.. 17 I. Berlin, «Due concetti di libertà»,cit., n. 6. 18 Ibid., pp. 16-17. 19 A. Sen, op. cit., p. 17. 20 Per un’approfondita discussione del valore indipendente della libertà, si veda I. Carter, La misurazione della libertà: una prospettiva normativa, «Quaderni di scienza politica», 3, 1994, pp. 489-511. 21 .A. Sen, op. cit., p. 18. 22 Ibid.

Villaggio

V Non-V

B 20 20

N 40 40

Città

V Non-V

B 100 50

N 20 10

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23 J. Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), trad. it., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p.66. 24 Cfr., per esempio P. Van Parjis, Real Freedom for All, Oxford University Press, Oxford 1995. 25 Si veda D.C. North, Institutions, Institutional Change, and Economic Performance, Cambridge University Press, Cambridge 1990. 26 Si vedano, fra gli altri, R. Levine e D. Renelt, A Sensitivity Analysis of Cross-Country Growth Regressions, «American Economic Review», 82, 1992, pp. 942-63; X. Sala-i-Martin, I Just Ran Two Million Regressions, «American Economic Review», 87, 1997, pp. 178-83; W. Wu e O.A. Davis, The two freedoms, Economic growth and Development: an Empirical Study, working paper, Carnegie Mellon University. 27 Cfr., per esempio, A. Ali, Economic Freedom, Democracy and Growth, «Journal of Private Enterprise», 13, 1997, pp. 1-20; A. Ali e M. Crain, Institutional Distortions, Economic Freedom, and Growth, «Cato Journal», 21, 2002, pp. 415-426. 28 R.D. Gastil, Freedom in the World-1985, Freedom House, New York. 29 La classifica di circa 120 paesi del mondo in base all’ l'Economic Freedom Index è periodicamente riportata sull’Economic Freedom of the World, rapporto pubblicato a cura dell’ Economic Freedom Network, una rete di più di 50 istituti di ricerca di tutto il mondo di cui il Centro Einaudi è partner per l'Italia dal 1997. Dal 2001 il Centro Einaudi pubblica uno specifico rapporto sull’ Indice della libertà economica dell’Unione Europea. In questi rapporti, il grado di libertà economica è misurato sulla base di parametri riferiti alle seguenti aree: (I) il peso dello Stato, (II) la struttura di base dell'economia, (III) la legalità, (IV) la struttura della tassazione, (V) la politica monetaria e la stabilità dei prezzi, (VI) il mercato del credito. 30 Si veda J. Gwartney, R. Lawson e W. Block, Economic Freedom in the World, The Fraser Institute, Vancouver 1997. 31 Si vedano, per esempio, A. Sen, The Impossibility of a Paretian Liberal, «Journal of Political Economy» 78, 1970, pp. 152-157; A. Sen, Equality of what? In McMurrin (ed.) «The Tanner Lectures on Human Values»., Vol 1, University of Utah Press, Salt Lake City; A. Sen, Freedom of Choice: Concept and Content, «European Economic Review», 32, 1988, pp. 269- 294 ; A. Sen, Markets and Freedom: Achievements and Limitations of the Market Mechanism in Promoting Individual Freedoms, «Oxford Economic Papers», 45, 1993, pp. 519-541. 32 A. Sen, The Impossibility of a Paretian Liberal, cit. 33 Per una valutazione critica di questa impostazione metodologica si veda I. Carter, Choice, Freedom, and Freedom of Choice, «Social Choice and Welfare», 22, 2004, pp. 61-82. 34 Per una rassegna di questa letteratura si veda Peragine V. (1999). 35 P. K. Pattanaik e Y. Xu, On Ranking Opportunity Sets in Terms of Freedom of Choice, «Recherches Economiques de Louvain», 56, 1990, pp. 383-390. 36 P.K. Pattanaik e Y. Xu, On Diversity and Freedom of Choice, «Mathematical Social Sciences», 40(2), 2000, pp. 123-130. 37 W. Bossert, P.K. Pattanaik e Y. Xu, On the Measurement of Diversity, mimeo, 2001; V. Peragine e A. Romero-Medina, On freedom, Preference and Diversity, mimeo, 2002; M. Van Hess, Freedom of choice and diversity of options: some difficulties, «Social Choice and Welfare», 22, 2004, pp. 253-266. 38 A. Sen, Welfare, Freedom and Social Choice: a Reply, «Recherche Economic de Louvain», 56, 1990, pp. 451-485; A. Sen, Welfare, Preferences and Freedom, «Journal of Econometrics», 50, 1993, pp. 15-29; A. Sen, Markets and Freedom, cit.. 39 Tuttavia, questo incorporamento delle preferenze nelle misure di libertà è stato a sua volta criticato: si veda M. Van Hees, Legal Reductionism and Freedom, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, 2000. 40 P. Jones e R. Sugden, Evaluating Choice, «International Review of Law and Economics», 2, 1982, pp. 47-65. 41 P.K. Pattanaik e Y. Xu, On Preference and Freedom , «Theory and Decision», 44, 1998, pp. 173-198. 42 Il criterio basato sulle “preferenze ragionevoli” è stato criticato, fra gli altri, da S. Bavetta e V. Peragine, Measuring AutonomyFfreedom, in corso di pubblicazione in «Social Choice and Welfare». 43 Si veda la nota 1. 44 Si veda, per esempio, I. Berlin, «Two Concepts of Liberty», cit., n. 10. 45 I. Carter, La misurazione della libertà, cit., pp. 489-511. 46 Per una eccellente introduzione si veda D. Gillies e G. Giorello, La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Bari 1995. 47 Abbiamo assunto che il solo possibile vincolo sia costituito dal fatto che la porta è chiusa, per cui il secondo termine della relazione triadica di MacCallum può essere sottinteso. 48 Per poter dire, con soddisfazione di tutti, che non ero libero di esercitare la mia opzione è necessario identificare sia il tipo di sortilegio, sia la fattucchiera responsabile, perché persino il fatto (osservabile, almeno in linea di principio) che io mi sia momentaneamente trasformato in una statua di sale, per qualche “negativista estremo”, potrebbe sempre essere attribuito ad eventi naturali o “all’azione di forze economiche impersonali”. Più “negativa” è la concezione della libertà, minore è il contenuto empirico (l’insieme dei falsificatori potenziali) delle ipotesi sulla libertà. 49 D. Gabor e A. Gabor, An Essay on the Mathematical Theory of Freedom, «Journal of the Royal Statistical Society», serie A, 179, parte I. Ristampato in «Journal of Social Economics», 6, 1979, pp. 330-390.

26

50 Ivi, p. 332. 51 Ibidem. 52 Per esempio in I. Carter, The Measurement of Freedom, tesi di Ph.D., European University Institute, Firenze 1993. 53 O, in altre parole, sotto quali condizioni certi tipi di restrizione sono davvero rilevanti per le asserzioni sulla libertà? Per valutare questo aspetto dobbiamo avere informazioni sulle caratteristiche degli agenti. 54 Si vedano, fra gli altri, I. Berlin, op..cit.; N. Bobbio, «Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri», in Politica e cultura, Einaudi, Torino 1956; I. Carter, A Measure of Freedom, Oxford University Press, Oxford 2000; P. Pettit, A Theory of Freedom, Polity, London 2001. Si vedano anche i saggi di D. Miller, F. Oppenheim, I. Steiner . C. Taylor, inseriti nell’antologia di I. Carter e M. Ricciardi (a cura di), L’idea di libertà, cit., oltre all’eccellente discussione nell’Introduzione dei curatori. 55 In realtà l’ipotesi (2) è un’ipotesi molto forte. L’insieme delle “condizioni” X rispetto alle quali si può essere disposti a formularla può, in molti casi, comprendere caratteristiche non osservabili. L’eliminazione delle caratteristiche non osservabili è una questione complessa che non può essere affrontata in questa sede. Si veda però la nota 16 sotto. Si vedano anche A.P. Dawid, Conditional Independence in Statistical Theory, «Journal of the Royal Statistical Society», serie B, 41, 1979, pp. 1-31, e R. Stone, The Assumptions on which Causal Inferences Rest, «Journal of the Royal Statistical Society», 55, 1993, pp. 455-466. In ogni caso, anche se la (2) è un’ipotesi forte, dobbiamo comunque formulare una qualche ipotesi del genere se vogliamo dare un contenuto empirico alle nostre asserzioni sulla libertà. Si osservi che, in questo caso, la situazione non è molto diversa da quella che si presenta in discipline come la fisica, dove la presenza di variabili non osservabili che possono influenzare il sistema fisico osservato, e dunque causare una discrepanza fra predizioni e osservazioni, non può mai essere esclusa a priori. Tuttavia, per poter formulare ipotesi empiricamente controllabili, è necessario limitare il numero di variabili considerate. Questa mossa corrisponde all’assunzione implicita di una specie di “clausola di chiusura” molto simile all’assunzione di “Covariate Sufficiency” in R. Stone, op.cit. La necessità di ricorrere a clausole di chiusura del genere che, per la loro forma di proposizioni esistenziali non possono essere falsificate, è il motivo principale per cui i sistemi di ipotesi scientifiche non solo non sono verificabili, ma non sono, in generale, neppure confutabili in modo conclusivo. Su questo tema si veda I. Lakatos, «The Methdology of Scientific Research Programmes», in Philosophical Papers, vol. 1, Cambridge University Press, 1978; trad. it. in I. Lakatos, Scritti Filosofici, a cura di M. D’Agostino, vol. 1, il Saggiatore, Milano 1985, soprattutto pp. 33-41. 56 Per le tecniche statistiche coinvolte in questi controlli, si veda per esempio F. Bartolucci, A. Forcina e V. Dardanoni, Positive Quadrant Dependence and Marginal Modelling in Two-Way Tables with Ordered Margins, «Journal of the American Statistical Association», 96, pp. 1497-1505. 57 Su questo problema si veda l’ampia discussione in D. Gillies e G. Giorello, La filosofia della scienza nel XX secolo, cit., cap. 5. 58 Un’ulteriore complicazione è data dal fatto che la caratteristica Q o una qualsiasi altra caratteristica rispetto alla quale si condiziona (una delle caratteristiche in X) potrebbe essere non osservabile. In effetti, il modello da noi illustrato qui è, da questo punto di vista, una grossolana semplificazione. Per poter ottenere predizioni empiricamente controllabili è necessario eliminare a una a una tutte le variabili non osservabili, proprio come nel nostro modello semplicistico viene eliminata la U, mediante ulteriori ipotesi ausiliari di forma analoga alla (1). In effetti la nostra U rappresenta, in realtà, un insieme di vincoli, quelli che in base a una data concezione della libertà sono considerati “rilevanti”. Più negativa è la nostra concezione della libertà, tanto maggiore e il numero di (tipi di) vincoli, alcuni dei quali potrebbero essere non osservabili, che consideriamo “irrilevanti” e che possono essere correlati alla caratteristica P. Dunque, per poter asserire un’ipotesi come la (2), tali vincoli dovrebbero essere presenti nelle condizioni (X). Per arrivare a conclusioni empiricamente controllabili i vincoli non osservabili devono essere tutti eliminati e il sistema di ipotesi ausiliari inevitabilmente si complica. La conclusione è che quanto più negativa è la nostra concezione della libertà, tanto più difficile è formulare un sistema di ipotesi che conduca a conclusioni empiricamente controllabili. 59 Si consideri, per esempio, l’assunzione di “Covariate Sufficiency” in R. Stone, The Assumptions on which Causal Inferences Rest, cit. 60 Questo può anche essere il caso di alcuni vincoli legali. Certe implicazioni di sistemi normativi complessi che si sono possono essere davvero difficili da riconoscere in pratica persino per gli stessi legislatori. 61 Si vedano: J.E. Roemer, A Pragmatic Theory of Responsibility for the Egalitarian Planner, «Philosophy and Public Affairs», 1993; M. Fleurbaey, Equal Opportunity or Equal Social Outcome?, «Economics and Philosophy», 11, 1995, p. 25-55; V. Peragine, Opportunity Egalitarianism and Income Inequality, «Mathematical Social Sciences», Vol 44, 2002, pp.45-64. 62 Secondo Roemer, op. cit., questo genere di argomenti empirici può servire a giustificare l’attuale reazione bianca contro la “US affirmative action” 63 Si veda, per esempio, M. L. Samuels, Simpson’s Paradox and Related Phenomena, «Journal of the American Statistical Association», 88. 1993, pp. 81-88.