Libertà e Sicurezza nell'era del terrorismo internazionale

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1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SIENA Facoltà di Lettere e Filosofia Storia E Filosofia. LIBERTA’ E SICUREZZA NELL’ERA DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE. di Antonella Grieco

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SIENA Facoltà di Lettere e Filosofia

Storia E Filosofia.

LIBERTA’ E SICUREZZA

NELL’ERA DEL TERRORISMO INTERNAZIONALE.

di Antonella Grieco

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Indice

Introduzione

Capitolo 1: Terrorismo e Democrazia

1.1 Terrorismo internazionale

1.2 La guerra al terrorismo

1.3 Lo stato di emergenza

Capitolo 2: Lo “Stato di Emergenza” negli Usa

1.1 Il caso dei prigionieri nella base di Guantanamo.

Conclusi

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1.TERRORISMO E DEMOCRAZIA

1.1 Il terrorismo internazionale

La parola “terrorismo” è probabilmente la più consumata nel linguaggio politico degli

ultimi decenni. Per meglio comprendere quale accezione il termine ha acquisito nel

linguaggio comune è necessario formulare una definizione.

La definizione giuridica di terrorismo internazionale è oggetto di un ampio dibattito e

di profonde divergenze tra gli Stati all’interno dell’Assemblea generale delle Nazioni

Unite, riguardo quali atti e quali caratteristiche integrino la fattispecie di terrorismo1. A

tale scopo l’Assemblea generale nel 1996, ha istituito una Commissione, per risolvere

le divergenze che riguardano, in particolar modo, il disaccordo circa la distinzione fra

atti terroristici e attacchi perpetrati nell’ambito di lotte per l’autodeterminazione dei

popoli. La creazione del Comitato Giuridico non è riuscita ad approvare un esauriente

disegno di convenzione contro tutte le forme di terrorismo, lasciando, così, in sospeso

il dibattito 2 . Le divergenze sulla questione riguardano se inserire o meno nella

definizione - oltre al terrorismo di individui - anche il terrorismo di Stato e gli atti

compiuti dai combattenti per la libertà (movimenti di liberazione nazionale). Si tratta di

problemi che si potrebbero risolvere a livello giuridico, ma che diventano spesso

insolubili a causa dei problemi politici che li sottendono.

Sebbene tali impedimenti, è ampiamente accettato negli ambienti accademici che il

terrorismo consista in atti internazionali di violenza contro civili, al fine di diffondere la

paura tra la popolazione per scopi politici, ideologici e religiosi. La definizione

accademica è stata implicitamente riconosciuta dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite, nella risoluzione n. 1624 che condanna <<tutti gli atti di terrorismo

indipendentemente dalla loro motivazione>>. La risoluzione invita gli Stati a proibire

per legge l’istigazione al terrorismo, a non dare rifugio ai terroristi e a continuare il

dialogo tra civilizzazioni, religioni e culture e a prendere le misure necessarie per far

fronte al terrorismo motivato dall’estremismo e dall’intolleranza, nel rispetto dei diritti

dell’uomo, dei rifugiati e nel diritto internazionale umanitario3.

1 Il dibattito, prevalentemente nell’ambito dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si concentrò all’inizio essenzialmente su quali atti dovessero essere considerati terroristici e più precisamente se tale nozione comprendesse solo il terrorismo di individui “sponsorizzati” da Stati o anche il terrorismo di Stato. Sin da allora si delineò una spaccatura nella comunità internazionale tra gli Stati Occidentali, i quali volevano circoscrivere il dibattito al terrorismo “sponsorizzato” da Stati, e gli Stati Afro-asiatici, in particolare quelli arabi, che miravano ad estendere il dibattito anche e soprattutto al terrorismo di Stato, in quanto forma di aggressione compiuta dallo Stato medesimo attraverso propri organi. Un ulteriore motivo di sconto emerse circa la volontà, manifestata dal gruppo degli Stati afro-asiatici, di non confondere gli atti terroristici con le azioni dei popoli che legittimamente, sulla base del diritto internazionale lottassero per la propria autodeterminazione. 2 Le convenzioni contro il terrorismo internazionale finora concluse sono convenzioni settoriali, in quanto disciplinano aspetti particolari del fenomeno, ma si astengono dal dare una definizione e dal spiegare le cause del terrorismo. 3 Risoluzione del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 1624 del 14 settembre 2005.

4

1.2 La guerra al terrorismo

<<A soli tre giorni da questi eventi, gli americani non hanno ancora la distanza della

storia. Ma la nostra responsabilità di fronte alla storia è già chiara: rispondere a questi

attacchi e liberare il mondo dal male. Una guerra è stata iniziata contro di noi con

inganno, falsità e assassinio. La nostra azione è pacifica, ma feroce quando è spinta

dalla collera. Questa guerra è stata iniziata nei tempi e nei modi voluti da alti. Essa

finirà nel modo e nell’ora che noi sceglieremo>>4.

Con questo discorso, dal pulpito della cattedrale di San Pietro e Paolo di Washington,

il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush, il 14 settembre 2001, annuncia la

“guerra al terrorismo”. In un clima di paura e insicurezza internazionale, la nuova

“guerra al terrorismo” è considerata l’unica soluzione - insieme alla proclamazione

dello “stato di emergenza”- adatta a combattere il terrorismo internazionale.

Dichiarata in seguito agli attentati terroristici che colpirono il World Trade Center di

New York e il Pentagono, l’11 settembre 2001, la guerra torna ad essere lo strumento

più idoneo per ricostituire “l’ordine” internazionale. Figlia della nuova idea “della pace

attraverso la guerra”, la guerra al terrorismo diventa una forma di difesa preventiva che

gli Stati Uniti, prima, e le Forze di Coalizione, poi, mettono in pratica per debellare il

fenomeno terroristico.

A partire dagli anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda, il mondo ha conosciuto

un nuovo periodo di “pace”, in cui la minaccia di uno scontro nucleare generalizzato,

come quello tra Usa e Urss, era scomparso assieme all’implosione dell’Unione

Sovietica. Con la fine delle ostilità tra le due superpotenze, si è innescato un processo

di democratizzazione, che insieme al fenomeno della globalizzazione, ha cambiato

l’assetto internazionale fino ad allora costituito. Il nuovo fenomeno interessò

maggiormente le zone del Terzo mondo, che durante la Guerra Fredda erano state il

teatro di scontro tra Stati Uniti e Urss. La formazione di nuovi governi democratici -

che configurarono un nuovo ordine internazionale - fu accompagnata dalla

introduzione e dall’ approvazione di nuove Costituzioni basate sulla Dichiarazione

universale dei diritti umani del 1948. La crescente costituzionalizzazione dei diritti

umani e l’idea di un nuovo mondo globalizzato e democratico, introdussero nuovi

principi culturali, politici, economici e sociali. Uno di questi principi fu l’uso

strumentale e politico che dei diritti umani si è fatto per giustificare gli interventi

militari durante e dopo gli anni Novanta. Espressioni come “intervento umanitario”,

“esportazione della democrazia”, “missione di pace” entrano a far parte del linguaggio

politico-militare e si inseriscono nella discussione giuridica sulla liceità della guerra. Se

fino alla prima guerra mondiale i conflitti venivano condotti in nome della Realpolitik

ricoperta dalla retorica patriottico-nazionale, e la seconda guerra mondiale e la guerra

fredda erano state giustificate come guerre di difesa da “minacce” concrete, o come

scontri di sistemi politico-culturali contrapposti, nell’epoca della globalizzazione dei

4 E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione civile americana nell’era dell’impero e del terrore. Laterza, 2008, pag.114

5

diritti e della democrazia questo genere di spiegazioni non poteva più essere usato.

Ecco dunque la novità: la guerra come “ripristino della giustizia”, la “guerra

umanitaria” condotta in nome della difesa dei diritti. Dunque, molto più che in passato

le guerre devono essere presentate come “giuste”, fondate su precise e documentate

esigenze di diritto o di difesa, possibilmente frutto di una scelta non di singoli Stati, ma

dalla comunità internazionale.

La “War on terror” si inserisce in queste nuove locuzioni, tanto da diventarne

l’espressione più realistica. Includendosi nella categoria delle “nuove guerre” e delle

“guerre spettacolo”, la guerra al terrorismo rappresenta una conseguenza del processo

di globalizzazione. Si tratta di un conflitto asimmetrico, condotto da forze militari

dotate di tecnologie avanzate contro Paesi, popolazioni, gruppi armati, enormemente

inferiori sul piano delle tecnologie belliche. Il concetto di guerra è venuto così ad

espandersi drammaticamente, tanto da non aver più confini.

Analizzando le parole con cui il Presidente Bush formula la dichiarazione di guerra al

terrorismo, cioè definendo l’attentato un “atto di guerra”, si comprende bene come in

quel momento sia stata compiuta una scelta precisa. Teoricamente infatti, una guerra in

senso proprio può aver luogo solo tra due Stati nazione. In questo caso si era trattato

invece di un attacco terroristico, dietro al quale non c’era uno Stato nazione, bensì Al

Qaeda, organizzazione terroristica dai misteriosi contorni, la cui leadership veniva

attribuita ad Osama Bin Laden. L’amministrazione statunitense ha scelto però di

classificare l’evento come “act of war”. E di conseguenza di riunire le successive azioni

militari conto i presunti responsabili sotto l’etichetta della “guerra al terrorismo”, o

dell’ancor più ampia e immateriale “guerra globale al terrore”.

Basandosi sulla presunta novità della situazione, l’amministrazione statunitense di

George W. Bush ha cercato di accreditare la propria politica come risposta adeguata a

una minaccia presentata come nuova: da qui la guerra infinità, permanente e preventiva

contro il terrorismo internazionale.

E’ lecito difendersi dal terrorismo con una guerra?

A questa domanda hanno risposto numerosi studiosi che, unanimemente, hanno

dichiarando che l’espressione “guerra al terrorismo” è assolutamente impropria, in

quanto il soggetto in questione non è uno Stato o un organizzazione militare ben

definita, bensì si tratta di una rete internazionale che non ha una sede prestabilita ma

che è sparsa in tutto il mondo. Dichiarare guerra ad un organizzazione come Al Qaeda

equivale a dichiarare “guerra alla droga” o “guerra alla mafia”. Trattandosi di un

fenomeno, il terrorismo non è un soggetto pubblico contro il quale sia materialmente

possibile condurre una guerra, tant’è che le due imprese belliche sinora scatenate dal

governo statunitense sotto l’emblema di “guerra al terrorismo” sono state condotte

contro Stati e regimi politici come l’Afghanistan dei talebani e l’Irak di Saddam

Hussein, entrambi accusati di corresponsabilità con le organizzazioni del terrore. Gli

studiosi spiegano che il terrorismo non può essere sconfitto nello stesso senso in cui si

può abbattere uno Stato o un regime; né dalla sconfitta di un certo Stato o regime

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consegue di per se la sconfitta del terrorismo: in caso di sconfitta di uno Stato,

l’organizzazione terroristica presente in quel territorio può migrare altrove. Inoltre,

con le devastazioni e i massacri indiscriminati provocati dalle guerre di “difesa

preventiva” si creano le condizioni più favorevoli alle organizzazioni terroristiche,

ramificate ormai in ogni parte del globo, facendo così guadagnare sempre nuovi

proseliti alla propria causa.

Se si prende in esame il percorso delle operazioni belliche avutesi in Iraq, risulta

piuttosto evidente che la formula della “difesa preventiva” non è affatto efficace, tant’è

che il terrorismo non ne risulta estirpato, bensì alimentato. Ciò certifica come la guerra

sia uno strumento inadeguato per combattere tale fenomeno. La difesa preventiva

risponde, quindi, a quella moltitudine di espressioni a cui si è fatto ricorso e si continua

a far ricorso dopo il 1989, cioè alla giustificazione di una guerra per scopi umanitari,

per tutelare i diritti, a cui però si aggiunge una nuova locuzione quella di tutelare la

sicurezza nazionale e internazionale. La guerra in quanto tale risulta, quindi, un mezzo

inadeguato per difendere i diritti umani e per sanzionare la loro violazione ma, al

contrario, è piuttosto un mezzo efficace, anzi il mezzo più potente, per la violazione di

massa dei diritti umani. Dal punto di vista giuridico, la guerra al terrorismo non è in

alcun modo completa, in quanto il diritto internazionale riconosce solo due tipi di

conflitto armato: conflitti armati tra Stati, e conflitti armati non internazionali, che

implicano una violenza prolungata tra le forze armate di uno Stato e i gruppi armati

organizzati. In entrambe i casi abbiamo un conflitto tra entità definite (Stati, gruppi

armati organizzati); non una lotta conto un fenomeno come il terrorismo. Vale la pena

soffermarsi sulla logica che risiede dietro tale distinzione. Dal momento che in guerra è

legittimo uccidere i combattenti, è essenziale sapere chi siano i combattenti, per

distinguerli dai civili che godono dell’immunità da attacchi. Nel caso di conflitti armati

tra Stati la risposta è chiara: i membri delle forze armate appartenenti allo Stato sono

combattenti, tutti gli altri sono invece civili. Nei conflitti armati non internazionali la

posizione è complicata, dal momento che non viene riconosciuto nessuno status di

combattente. Ciononostante, i membri delle forze armate dello Sato coinvolte e i

membri dei gruppi armati organizzati che prendono parte alle ostilità sono definiti

combattenti (solo essi possono essere oggetto di attacchi). I principali strumenti

internazionali che si occupano dei conflitti armati non internazionali fanno riferimento

solo a conflitti che hanno luogo all’interno del territorio di uno Stato 5 , e non

comprendono azioni belliche condotte da uno Stato contro un gruppo armato

transnazionale presente in un’alta nazione. Dal punto di vista giuridico, anche laddove

vi fosse un conflitto tra gli Stati Uniti ed Al Qaeda, non ci potrebbe comunque essere

una guerra al terrorismo, perché si tratterebbe di conflitto armato non internazionale.

Dunque, spiegano i giuristi, questo termine improprio dovrebbe essere evitato.

Si è di fronte ad una guerra in cui manca un nemico preciso, mancano obbiettivi

definibili in termini territoriali o di diritto internazionale, manca una scala temporale

(Bush sostenne che la guerra al terrorismo sarebbe durata per molti decenni). Si è

5 Si veda l’artico 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e il II protocollo addizionale delle Convenzioni.

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aperta la strada a una tipologia di conflitto armato proteiforme: una guerra che per

definizione non contempla scontri decisivi, ma solo un continuo stato di belligeranza.

La guerra al terrore si inserisce in uno schema politico-culturale che da diversi anni era

andato affermandosi nei circoli politici e intellettuali conservatori americani: quello

dello “scontro di civiltà”. Basato sull’opera del politologo Samuel Huntington, lo

sconto prevedeva che dopo la caduta dell’Unione Sovietica il confronto-scontro per il

destino del mondo non sarebbe stato tra due strutture politico-economiche diverse,

come Usa e Urss, ma tra fattori culturali e valoriali contrapposti: quello tra Occidente

giudaico-cristiano e quello dell’Oriente musulmano; quest’ultimo visto come aggressivo

e incline all’estremismo. Il terrorismo internazionale che Bush diceva di voler

schiacciare era in buona sostanza il terrorismo islamico, infatti, il Presidente

statunitense parlò di una guerra combattuta per sconfiggere gli “evil doers” (operatori

del male). Per comprendere la retorica religiosa di Bush e la sua efficacia nell’attrarre

consensi alla sua politica, occorre guardare indietro, alla tradizione americana.

Infatti, come ha mostrato lo storico Robert Fuller, ripercorrendo quella che lui

definisce <<una ossessione americana>>, la demonizzazione del nemico come

incarnazione del male non era una novità nella storia americana ma era accaduto più

volte nel suo passato, specialmente quando l’America era impegnata in una guerra

contro un nemico esterno o si sentiva minacciata da un nemico interno. La

demonizzazione degli indiani, da parte dei coloni puritani, fu la giustificazione per

iniziare il loro genocidio. Durante la guerra di indipendenza il male fu rappresentato

dall’Inghilterra. Poi, nei primi anni della repubblica, il male fu identificato con le

fazioni che minavano l’unità della nazione e con le cupidigie espansionistiche della

vecchia e bellicosa Europa del dispotismo e della teocrazia papale. Successivamente,

l’insidia del male proveniente dal vecchio mondo fu vista negli immigrati cattolici ed

ebrei. La potenza malefica riassunse l’aspetto del nemico esterno durante le due guerre

mondiali. La missione dell’America nella Grande Guerra, disse il presidente

democratico Wilson, era di attuare i disegni della provvidenza e combattere per

liberare il mondo dal male e renderlo sicuro per la democrazia. Vent’anni dopo,

l’America combatteva in nome di Dio una nuova crociata contro le potenze del male

<<per salvare la nostra repubblica, la nostra religione, la nostra civiltà e liberare una

umanità sofferente>> come disse il Presidente democratico Franklin D. Roosevelt. Poi

nei lunghi anni della Guerra Fredda il male fu incarnato nell’Unione Sovietica e dal

comunismo: per cinquant’anni l’America, guidata da presidenti repubblicani o

democratici, si sentì mobilitata in una crociata per difendere il mondo libero , la civiltà

occidentale e la religione contro il totalitarismo materialista e senza Dio, che dalla

Russia cercava di conquistare e soggiogare il mondo. La demonizzazione dell’Unione

Sovietica culminò con la definizione <<Impero del Male>>, che diede Reagan in un

discorso alla National Association of Evangelicals. Con la scomparsa dell’ <<Impero

del Male>>, gli Usa si trovarono per qualche tempo senza un visibile nemico esterno.

Ci fu chi annunciò che l’America aveva vinto definitivamente la lotta contro il male nel

mondo, perché il mondo aveva compreso che non vi era alta via alla salvezza che

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seguire il modello americano, fondato sulla libertà e l’uguaglianza degli individui, sulla

democrazia, sul capitalismo e il libero mercato. Tuttavia, anche dopo la scomparsa

dell’<<Impero del Male>>, gli Stati Uniti continuarono a sentirsi impegnati a difendere

la libertà nel mondo a beneficio di tutta l’umanità, in nome della missione che Dio le

aveva affidato col patto stabilito dai padri fondatori. Infatti, alla fine del Ventunesimo

secolo, il male ostile alla “democrazia di Dio” aveva trasmigrato dalla Russia in Medio

Oriente, assumendo le sembianze di Saddam Hussein, contro il quale fu Bush padre a

condurre una guerra in nome di Dio, per liberare il Kuwait musulmano, aggredito e

sottomesso dal tiranno iracheno. Poi, dall’11 settembre 2001, il male si incarnò nei

terroristi islamici e in Osama Bin Laden: e fu nuovamente guerra dell’America in

nome di Dio per la difesa della libertà e della sicurezza internazionale.

<<Questa sarà una colossale lotta del bene contro il male, ma il bene trionferà>>

Così disse Bush alla stampa il 12 settembre, dopo una riunione con il Consiglio per la

sicurezza nazionale.6

Dunque, il Presidente Bush si muoveva nella scia di un’altra tradizione mitica

propriamente americana, il mito del <<destino manifesto>>, la credenza nel ruolo

missionario dell’America come modello di redenzione per l’umanità 7. L’intervento

militare americano, secondo questa versione, è quindi un dovere morale, conseguente

alla condizione di nazione scelta da Dio per difendere e diffondere la libertà nel

mondo. È, pertanto, interessante notare come per ogni epoca storica che cominci vi è

per gli Stati Uniti un nuovo nemico da sconfiggere.

1.3 Lo Stato di Emergenza.

Misure preventive per contrastare il terrorismo internazionale sono state adottate da

molti Paesi, al fine di proteggere la democrazia e la sicurezza delle nazioni da nuovi

possibili atti terroristici. Se da una parte la comunità internazionale ha scelto di

contrastare il terrorismo tramite una guerra preventiva, dall’altra i singoli Stati hanno

adottato misure di sicurezza per prevenire e contrastare nuovi attacchi terroristici.

Le risposte dei Governi al fenomeno del terrorismo internazionale hanno avuto

enormi ripercussioni non solo sull’equilibrio tra sicurezza e libertà, ma anche sul

sistema dei poteri e sulla forma di governo delle democrazie occidentali. In una

situazione di eccezionalità, i Paesi minacciati dal pericolo terroristico, hanno

predisposto misure legislative che mutano il quadro costituzionale, sia per quanto

riguarda la tutela dei diritti e delle libertà individuali, sia per quanto riguarda

l’organizzazione dei poteri. Infatti, con la proclamazione dello “Stato di emergenza” i

6 G.W.Bush, Remarks Following a Meeting with the National Security Team, 12 settembre 2001. 7 F. Merk, Manifest Destiny and Mission in American History, Vintage Books, New York 1966.

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governi hanno emanato delle leggi straordinarie implicando, così, due conseguenze:

limitazioni di alcune libertà dei cittadini per motivi di sicurezza; aumento del potere

esecutivo dello Stato per proteggere la democrazia. Affinché uno Stato possa assumere

misure di emergenza deve sussistere una effettiva necessità. Quest’ultima si rinviene

unicamente, secondo il diritto internazionale, quando vi sia una minaccia alla vita della

nazione, e quando il relativo organo di governo abbia proclamato ufficialmente

l’emergenza. In materia di diritto internazionale, la tutela della democrazia dal

terrorismo è stata oggetto di una molteplicità d’interventi. L’Organizzazione delle

Nazioni Unite sì è fatta promotrice di dodici convenzioni internazionali in materia di

terrorismo8, dalle quali sono derivati precisi obblighi di penalizzazione di taluni modelli

di aggressione alla sicurezza della collettività internazionale, determinando criteri di

massima per affermare la giurisdizione interna e le linee di collaborazione

internazionale. Altrettanta attenzione è stata riservata al problema del terrorismo

internazionale dalla Comunità europea. Il principale documento da quest’ultima

formulato è stata la Convenzione europea per la repressione del terrorismo, conclusa a

Strasburgo il 23 gennaio 1977. Negli anni successivi, in particolar modo dopo l’11

settembre, merita attenzione la Council of Europe Convention on the Prevention of

terrorism, firmata a Varsavia il 16 maggio 2005. Si tratta di un documento composto da

30 articoli, in cui viene sottolineata la necessità di adottare adeguati strumenti repressivi

per i delitti di istigazione pubblica al terrorismo, al reclutamento per il terrorismo e

all’addestramento al terrorismo. Appare estremamente significativo come tali

organismi si siano sempre preoccupati di affermare in linea di principio la

considerazione che i principali valori per i quali la lotta doveva intraprendersi erano

quelli della “democrazia e dello stato di diritto” per primi aggrediti dai crimini

terroristi.

Le difficoltà di ordine legislativo e costituzionale che lo “Stato di emergenza” incontra

nella lotta al terrorismo, sono connesse alla possibilità di sospendere o limitare alcuni

dei diritti fondamentali. È interessante notare come, dopo gli attentati di New York, si

è creata un’atmosfera di paura nella quale la maggior parte dei cittadini sono stati

disposti a sopportare misure severe in materia di limitazione dei diritti fondamentali.

La diffusione dello “stato di paura” induce i cittadini a sacrificare alcuni diritti

fondamentali in nome di una sicurezza collettiva, riconoscendo e affidando allo Stato

dei poteri straordinari. La pubblica sicurezza diventa, dunque, diritto fondamentale e

prioritario e si pone come base per la tendenza a comprimere le garanzie individuali.

Si assiste, così, a un fenomeno nuovo che prende piede negli ordinamenti democratici,

si tratta della “normalizzazione dell’emergenza” che, in quanto tale, dovrebbe essere

affrontata con strumenti eccezionali e limitati nel tempo. Questo atteggiamento, invece,

si appropria di quelle leggi speciali, destinate a regolamentare una situazione

straordinaria, e, addirittura, le sostituisce alle leggi ordinarie del sistema giuridico

vigente. Accade così che la legislazione di emergenza contro il terrorismo non si

8 Berberini, Terrorismo e movimento di liberazione: la Convenzione globale contro il terrorismo, in A.De Gutty, Oltre la relazione, Pisa, Edizioni ETS, 2003, pag 97.

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affianca al sistema normativo ordinario, ma si ripercuote sul diritto interno integrandosi

nell’ordinamento in modo permanente e minacciando di fatto le garanzie fondamentali

della democrazia. Emanato per contrastare e prevenire la minaccia senza tempo del

terrorismo, lo “Stato di emergenza” rischia di diventare uno stato permanente, in cui le

leggi straordinarie che prevedono la sospensione di alcuni diritti al fine di tutelare la

sicurezza nazionale, rischiano di rimanere sospesi per un tempo indefinito. Per

concludere, con la teoria dello studioso Erhard Denninger, possiamo dire che nelle

democrazie contemporanee la triade rivoluzionaria francese della “Libertà-

Uguaglianza-Fraternità”, viene sostituita con una nuova triade, quella della “Diversità-

Solidarietà-Sicurezza”9.

9 E. Denninger,”, “Diritti dell’uomo e Legge fondamentale”, 1998, Giappichelli.

11

2. LO STATO D’EMERGENZA NEGLI STATI UNITI D’AMERICA DOPO L’11 SETTEMBRE.

Un caso emblematico da esaminare, per l’analisi del regime giuridico internazionale

degli stati di emergenza, è quello degli Stati Uniti d’America, il paese direttamente

colpito dagli eventi dell’undici settembre, che hanno avuto ripercussioni significative in

primis sull’ordine costituzionale interno di tale Stato. La proclamazione dello stato di

emergenza ha implicato, infatti, l’instaurazione di un regime giuridico speciale,

eccezionale, che ha comportato restrizioni significative alla tutela dei diritti umani.

Sul piano del diritto interno, il governo statunitense ha provveduto all’instaurazione di

un vero e proprio regime speciale di emergenza. È opportuno, quindi, analizzare la

questione prendendo come punto di partenza il diritto interno. Nel ordinamento

statunitense, sono previste diverse fattispecie di stati di emergenza. In particolare vi è

una differenza fra lo stato di guerra e le altre emergenze. La disciplina di queste ultime,

inoltre si differenzia a seconda che la causa sia interna o esterna allo Stato.

Tanto premesso sul fondamento e la legittimità dello stato di emergenza sotto il profilo

pubblicistico interno, occorre vagliare le misure restrittive dei diritti individuali adottate.

Si è trattato di misure incisive sulla garanzia della libertà personale. In seguito alla

proclamazione dello stato di guerra, il 14 settembre 2001, è stata emanata la

Declaration of National Emergency by Reason of Certain Terrorism Act, che affida al

potere esecutivo, vale a dire al Presidente degli Stati Uniti, la gestione dello stato di

emergenza. Tale provvedimento, che comporta l’approvazione di misure straordinarie

per la sicurezza, prevede la possibilità di agire nell’ordinario apparato di garanzie

giurisdizionali, violando, così, il principio della separazione dei poteri e affidando al

potere esecutivo le attività sia riservate al potere legislativo, sia al potere giudiziario,

violando, quindi, il cardine su cui si basa la democrazia. Destinatari dell’ordinanza

sono i non- cittadini statunitensi, cioè gli stranieri o gli emigrati che non sono in

possesso di passaporto statunitense. Infatti, dopo solo tre giorni dagli attentati il

Presidente G. W. Bush emana il Patriot Act, che prevede la possibilità del potere

esecutivo di arrestare un sospettato terrorista, negando ad esso le garanzie ordinarie dei

procedimenti giudiziari; e il Presidential Military Order, sulla detenzione, il trattamento

e il reclutamento di sospetti terroristi. Il Patriot Act , tramite la clausola

dell’Immigration and Nationality Act, prevede che gli stranieri sospettati di terrorismo

possono essere incarcerati solo sulla base del fatto che l’Attorney General ritenga

sussistere ragionevoli dubbi su un coinvolgimento degli stessi in attività che mettono in

pericolo la sicurezza nazionale degli Usa. Di conseguenza, tutti gli individui identificati

come <<suspected terrorist>> sono potenzialmente soggetti a detenzione a tempo

indeterminato. Il Patriot Act conferisce alle autorità dell’immigrazione e alla polizia di

frontiera la facoltà di arrestare e trattenere immigrati per un <<reasonable period of

time>>. Il President’s Militay Order autorizza a detenere individui sospettati di

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terrorismo. Molte delle garanzie giudiziarie ordinarie non trovavano applicazione nei

procedimenti dinanzi alle commissioni speciali. L’Order suddetto è stato emanato dal

Presidente nella sua veste di Comandante delle forze armate e sulla base dei poteri

eccezionali derivanti dalla proclamazione dello stato di guerra. Si tratta di un

provvedimento tipicamente emergenziale proveniente dall’esecutivo, in base al quale è

stata consentita la detenzione a tempo indeterminato di cittadini stranieri, accusati di

terrorismo internazionale, con l’attribuzione all’esecutivo della facoltà di decidere al

riguardo, indipendentemente dalle eventuali pronunce dei tribunali.

I sospettati vengono definiti “enemy aliens”, ovvero combattenti nemici, ritenuti

appartenenti ad Al Qaeda o collegati ad essa. La qualifica di enemy aliens era stata già

utilizzata nel 1942, in una decisione nella quale la Corte Suprema, chiamata a

sindacare sulla legittimità di un processo speciale di fronte a “Commissioni militari” a

carico di alcuni sabotatori tedeschi, si dichiarò incompetente a giudicare sui prigionieri

di guerra, i quali però non potevano essere riconosciuti tali e venne pertanto coniata

l’inedita definizione di enemy combatants. Questa etichetta venne adottata per otto

sabotatori nazisti, che vennero catturati a New York, processati da una commissione

militare istituita dal Presidente Roosevelt e condannati a morte. La stessa definizione è

stata poi adottata durante la Seconda guerra mondiale, nei confronti di cittadini

giapponesi residenti negli Stati Uniti , i quali erano stati privati della libertà personale

per tutta la durata del conflitto, in ragione della loro supposta infedeltà alla

Costituzione americana.

In virtù del President’s Military Order gli stranieri ritenuti enemy aliens sono

esplicitamente individuati come destinatari di misure straordinarie e quindi sottratti

all’applicazione degli strumenti di tutela giurisdizionale garantiti ai cittadini statunitensi.

L’ordinanza militare del Presidente dispone, inoltre, che i “nemici combattenti”

ricevano un <<human and non-discriminatori treatment>>, e che nel caso in cui

venissero sottoposti a procedimento, siano giudicati da speciali tribunali militari per

violazioni del diritto di guerra e altre leggi applicabili. I processi vengono affidati a

speciali Commissioni militari, organi appositamente creati, situati al di fuori degli

ordinari percorsi di giustizia, sia civile che militare, presso le quali non vengono

applicati i principi di legge utilizzati nei processi penali realizzati nelle corti distrettuali

degli Usa. Ciò determina l’effettiva realizzazione di un processo giudiziario parallelo a

quello istituzionale, che perciò rifugge dalle regole e agli strumenti di garanzia e

controllo predisposti nell’ambito dell’ordinamento. In sostanza affidando i processi

dei detenuti a Commissioni speciali, il governo degli Stati Uniti ha escluso la

competenza dei tribunali del Paese a giudicare la legalità delle azioni da esso intraprese

nei confronti dei soggetti ritenuti collegati ad organizzazioni terroristiche, per quanto

tali sanzioni possano aver comportato la violazione dei principi fondamentali sanciti

nella Costituzione e nelle norme di diritto internazionale. L’esecutivo statunitense,

ovvero il suo Presidente, assume l’autorità di determinare unilateralmente lo status

degli individui arrestati , senza che a tal fine sia stato interpellato un tribunale. Questo

comporta che nonostante i prigionieri siano stati accusati di aver violato norme di

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diritto internazionale, non necessariamente ad essi verranno applicate le disposizioni

previste sia dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, le quali sostiene il governo,

riguardano solo i prigionieri di guerra; sia dalla Convenzione internazionale sui diritti

civili e politici10, che sancisce il diritto imprescindibile per qualsiasi soggetto di essere

sottoposto a procedimento di fronte a tribunali <<regulary costitued>> , escludendo,

quindi, la legittimazioni di Corti predisposte e disciplinate da regolamenti speciali.

1.1 Il caso dei prigionieri nella base di Guantanamo

Dal gennaio 2002 sono detenuti, nella base militare americana di Guantanamo,

sospetti terroristi che le autorità degli Stati Uniti ritengono particolarmente pericolosi.

Si tratta, in maggioranza, di combattenti talebani e membri dell’organizzazione

denominata Al Qaeda catturati nella campagna afgana 2001-2002.

Dopo l’11 settembre 2001, il Congresso degli Stati Uniti, facendo riferimento al War

Power Resolution del 1973, ha adottato una risoluzione nota come Autorization for

Use Military Force (18 settembre 2001). Il 13 novembre 2001 il Presidente George W.

Bush ha emesso il Trial of Certain Non-Civizens in the Against Terrorism, dichiarando

che l’11 settembre “has created a state of armed conflict”.

L’attacco alle Torri Gemelle viene considerato esplicitamente un attacco armato e che

questo “requie the use of the United States Armed Force”. Il provvedimento prevede

che i combattenti catturati durante la guerra al terrorismo devono essere detenuti e,

“when tired, to be tried for violations of the laws of the war and other applicable laws

by military tribunals”, con esclusione della competenza dei giudici ordinari delle corti

distrettuali. La responsabilità della detenzione e dell’organizzazione delle “military

Commission” viene affidata al Segretario della Difesa, e i luoghi di detenzione

possono essere sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti 11. Secondo il governo

americano, si tratta di enemy combatants, da mantenere in una condizione di

sostanziale privazione di garanzie, e senza precise accuse formalizzate a loro carico.

Inoltre, il governo di Washington ritiene che la guerra al terrorismo non sia terminata

con la fine della campagna militare in Afghanistan, e che essa anzi prosegua in una

forma globale, non più limitata alla sfera territoriale dello Stato contro il quale era stato

deciso usare la forza per il suo sostegno agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Di

conseguenza, gli Stati Uniti hanno scelto la strada del diniego dello status di Prisoneres

of War. “Enemy combatants” è secondo gli Stati Uniti “an individual who was part of

or supporting the Taliban or Al Qaeda forces, or associated forces that are engaged in

hostilities against the United States or its coalitions partners. This includes any person

10 Gli Stati Uniti hanno ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici in data 8 giugno 1992, ed è entrato in vigore negli Usa in data 8 settembre 1992. Vedi Office of the National High for Human Rights, Status of Ratification of the Principal. 11 Gli atti e i documenti citati si trovano sul sito www.whitehouse.gov

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who committed a belligerent act or has directly supported hostilities in aid of enemy

armed forces”.

Sotto un certo profilo una contraddizione appare evidente: gli Stati Uniti hanno

sempre sostenuto che si trattava di una “Guerra al terrorismo”, e che gli attacchi dell’11

settembre erano attacchi di guerra. Se, quindi, di guerra si tratta appare difficile

accettare che a tale guerra non si applichino le norme del “diritto di guerra”, comprese

quelle relative alla condizione di “prigioniero di guerra”. L’interpretazione del governo

americano è quella che le Convenzioni di Ginevra obbligano i belligeranti ad affidare

ad un tribunale competente per stabilire lo status delle persone detenute solo quando

la loro condizione giuridica sia dubbia. Dal momento che l’amministrazione è certa

che i detenuti in questione non presentino i requisiti per il riconoscimento della

qualifica di prigioniero di guerra, non vi sarebbe necessità di un esame specifico.

Tuttavia il Comitato internazionale della Croce Rossa, Amnesty International, Human

Rights Watch e altre organizzazioni, nonché autorevoli voci in dottrina, hanno espresso

perplessità su questa ricostruzione, rilanciando argomentazioni in favore della

sottoposizione della questione ad un tribunale competente. L’ex Presidente del

Comitato internazionale della Croce Rossa Cornelio Sommaruga ha scritto che

<<queste persone si trovano in uno spazio non regolato da alcun diritto il che

rappresenta una violazione estremamente grave del diritto internazionale umanitario,

perché queste persone sono state catturate durante un conflitto militare

internazionale”. Posto sotto forte pressione da parte delle organizzazioni umanitarie, il

governo ha ritenuto di dover offrire risposte rassicuranti. Con una decisione del 7

febbraio 2002, il Presidente ha riconosciuto applicabile la III Convenzione di Ginevra

almeno ai detenuti talebani. Si tratta dell’applicazione di un testo normativo che,

tuttavia, il governo non ritiene a pieno titolo pertinente, in quanto non si tratterebbe di

“prigionieri di guerra”, bensì di “illegal combatants”. Il Presidente “has decided” che la

Convenzione si applica solo ai Talebani e non anche ai terroristi di Al Qaeda, dal

momento che l’Afghanistan è parte contraente della Convenzione. Tuttavia, a norma

dell’art. 4 della Convenzione, i talebani non hanno “diritto” allo status di prigioniero di

guerra , in quanto non soddisfacevano il requisito di distinguersi dalla popolazione

civile dell’Afghanistan, né quello di condurre le operazioni nel rispetto delle leggi e

consuetudini di guerra, e hanno invece consapevolmente “adopted and provided

support” agli illegali obbiettivi terroristici di Al Qaeda. Il gruppo terroristico non è

parte delle Convenzioni di Ginevra, e i suoi membri non hanno diritto al

riconoscimento dello status di prigioniero di guerra. La conclusione è che il Presidente

ha deciso che i detenuti non saranno giuridicamente prigionieri di guerra, ma sarà loro

assicurata “every courtesy and every value” che l’America garantisce nel trattamento

delle persone, “which means that they will be teated well”.

In realtà, quindi, i soggetti detenuti a Guantanamo appartengono almeno a due grandi

categorie, che presentano connotati differenti.

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Le decisioni adottate dal Presidente Bush e dal governo sono state oggetto di

discussioni della Corte suprema degli Stati Uniti, in quanto non possono estendersi

fino ad oltrepassare i limiti posti dalla costituzione a tutela dei diritti fondamentali.

Lo stato di guerra non può essere considerato un “assegno in bianco” (“blank check”)

dato al Presidente degli Stati Uniti quando siano in gioco i diritti costituzionali del

cittadino.12 L’importante pronuncia della Corte ha avuto il grande merito pratico di

obbligare il governo a prendere atto che i prigionieri di Guantanamo non possono

essere mantenuti in una persistente condizione provvisoria, in una sorta di “limbo”

giuridico caratterizzato da una ingiustificata sospensione delle garanzie fondamentali.

Una notevole lacuna resta, comunque, anche dopo questa importante giurisprudenza

suprema. L’art. 4 della III Convezione di Ginevra stabilisce, infatti, che prima facie

debba essere riconosciuto lo status di prigioniero di guerra o, almeno, la protezione

connessa con questo status, fino a quando la corretta condizione giuridica non sia stata

accertata da un tribunale, secondo le previsioni dell’art. 5. Una nuova pronuncia della

Corte suprema degli Stati Uniti ha riproposto la questione del trattamento dei soggetti

detenuti dal governo americano. Il 29 giugno 2006 la Corte ha reso nota la sentenza

nel caso Hamden (il presunto autista di Osama bin Laden) v. Rumsfeld13, che stabilisce

che il governo non ha il potere di istituire Commissioni militari speciali e che queste

sono illegali per la loro contrarietà sia allo Uniform Code of Military Justice, sia alle

Convenzioni di Ginevra. Secondo il diritto di guerra (che comprende entrambi questi

strumenti normativi), ai detenuti deve essere garantita una protezione maggiore di

quella che possono offrire le commissioni militari speciali. L’art. 3 comune alle quattro

Convenzioni del 12 agosto 1949 è applicabile, ed esso fa riferimento all’obbligo di

offrire una protezione “minima”, che comprende il diritto ad essere giudicati da una

corte “regolarmente” costituita. Le Commissioni in questione non sono da considerare

corti regolarmente costituite. Di conseguenza, dal momento che la Commissione

militare speciale non rispetta le condizioni poste dallo Uniform Code of Military

Justice o dalle Convenzioni di Ginevra , viola il diritto di guerra e perciò non può

essere lo strumento per processare Hamdan.

Dunque, la sfida mortale del terrorismo e la legittima preoccupazione dei governi che

ne sono vittima di adottare strumenti efficaci di contrasto non può mettere in secondo

piano l’obbligo di rispettare le norme internazionali poste a protezione dei diritti

fondamentali della persona umana. La base di Guantanamo, pur con tutte le correzioni

di rotta che il governo degli Stati Uniti ha apportato nella strategia di lotta al terrorismo

sotto la pressione della giurisdizione suprema e di varie componenti della comunità

internazionale, resta un problema aperto.

12 Sciso, Guerra al terrorismo globale e garanzie non comprimibili dei diritti umani fondamentali: opinione della Corte suprema degli Stati Uniti, in Rivista di diritto internazionale, 2004, pag. 756. 13 Il testo è reperibile all’indirizzo www.supremecourts.gov/opinions/05pdf/05-184.pdf.

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Conclusioni

Nonostante la grande attenzione dedicata dalle delegazioni nazionali al terrorismo

internazionale - come spiegato nella parte iniziale dell’elaborato - è mancato un

accordo sulla Convenzione globale contro il terrorismo a causa soprattutto – ma non

solo – delle divisioni registratesi sulla definizione di terrorismo internazionale. A tal

proposito è risultata interessante, a mio parere, la tesi formulata dallo studioso Pino

Arlacchi sull’influenza politica del terrorismo e il problema relativo alla sua

definizione. Egli definisce il terrorismo come una precisa e “collaudata” strategia

politica, <<un metodo che prevede l’uso disinibito della violenza per diffondere il

panico tra gli avversari e il largo pubblico>>. Uno degli errori più frequenti, spiega lo

studioso, è quello di identificarlo con un’ideologia, una parte politica, o considerarlo

addirittura espressione di una cultura o di una “civiltà”.

<<Il terrorismo non è un fenomeno ideologico. È una condotta adoperata da stati, gruppi o singoli

individui per abbreviare i tempi della politica. La sovversione terroristica si prefigge di far crollare i

governi, stimolare insurrezioni e guerre, iniziare rivoluzioni e controrivoluzioni, spaventare gli elettori,

manipolare altri governi e paesi, conquistare l’indipendenza, schiacciare la guerriglia nazionalista. Può

essere di destra e di sinistra, nazionalista e internazionalista, religiosa e laica, di lotta e di governo.

All’inizio del terzo millennio il terrorismo continua a mantenere un legame con i grandi fatti della

politica, e talvolta gioca un ruolo nelle partite a scacchi per l’egemonia mondiale.

Arlacchi, spiega che la vera lacuna non è quella più frequentemente citata, e cioè la

difficoltà ad etichettare un comportamento che per alcuni è terrorismo per altri è lotta

di liberazione. Oppure il fatto che si sta parlando di un metodo di lotta politica più che

di un entità storica delimitata. La vera lacuna nell’affrontare il problema del terrorismo

a livello internazionale è quella che non viene nominata nelle discussioni politico-

diplomatiche perché troppo imbarazzante: cioè il problema del terrorismo degli Stati,

che è poi la forma di violenza più letale. Infatti, i Paesi membri delle Nazioni Unite

sono pronti a trovare un etichetta con la quale sanzionare le azioni violente dei gruppi

“privati”, ma non hanno mai tentato di discutere dei propri comportamenti che

sconfinano nel terrorismo. Quasi tutti i Paesi sono disponibili ad accettare una

definizione del terrorismo imperniata sull’uccisione di civili innocenti tramite l’uso di

violenza da parte di organi non statali allo scopo di terrorizzare la gente e obbligare una

controparte a compiere certi atti. Ma questa definizione lascia fuori dal dibattito il

terrore di Stato; <<non ci protegge da nuovi Hitler, Stalin, Pol Pot>>. Una

Convenzione internazionale contro il terrorismo che includesse gli atti degli Stati

avrebbe l’effetto di aggiungere un’ulteriore accusa- oltre a quella di crimine contro

l’umanità- contro i responsabili di un bombardamento atomico, e conto gli autori di

ogni atto che comporti stragi indifferenziate di civili.

Questa discussione si inserisce perfettamente nel dibattito sulle guerre post-moderne e

nella loro relazione con i diritti umani, vale a dire l’uso dei diritti umani come

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strumento neocoloniale dell’Occidente per rafforzare e ampliare il proprio dominio sul

mondo, e l’uso politico che si è fatto dei diritti per giustificare i conflitti armati.

Esistono e sono in vigore 21 convenzioni contro il terrorismo, alcune delle quali molto

efficaci. Ma esse contemplano solo misure di protezione dei trasporti e criminalizzano

specifiche azioni in specifiche circostanze di singoli gruppi, senza toccare sfere più

ampie di giurisdizione. La legislazione penale contro il terrorismo, come spiega

Arlacchi, è in larga parte domestica, cioè emanata e fatta rispettare dai singoli stati,

attraverso la normativa che protegge la sicurezza pubblica interna.

Per concludere l’analisi ho ritenuto necessario formulare una classificazione dei

pericoli che si sono innescati in questa nuova situazione internazionale:

- pericolo terroristico: ovvero la minaccia nei confronti di vite umane e alla

sicurezza pubblica di una nazione;

- pericolo istituzionale: cioè la proclamazione dello “stato di emergenza” che si

sostituisce allo “stato di diritto”, apportando delle restrizioni in tema di diritti

individuali;

- pericolo sociale: il modo in cui la società reagisce al terrorismo, cercando nello

Stato la tutela a costo anche di restrizioni legislative.

La decisione di formulare queste tre forme di pericolo scaturite dalla minaccia

terroristica internazionale, deriva dal fatto che, ognuno di queste condizioni

presuppone dei limiti alle libertà e ai diritti individuali in nome di una sicurezza

comune.

Il paradosso di questo nuovo periodo storico è che: i diritti umani sono generalmente

riconosciuti dalle Costituzioni nazionali, tanto che si è instaurata la cultura dei diritti

umani; però, ora questi diritti devono essere sottoposti a limitazioni per proteggere la

democrazia. Il dovere di rispettare e assicurare i diritti proclamato dal diritto

internazionale, è stato trasformato dalle legislazioni nazionali nel dovere di rispettare e

assicurare la sicurezza. Siamo,quindi, davanti allo scontro Sicurezza vs Diritti.

Se negli anni Novanta del Novecento la democrazia costituzionalizzava i diritti umani,

nel Duemila la democrazia si difende dai diritti limitandoli. Dunque, la novità e

l’imprevedibilità delle azioni terroristiche modificano improvvisamente il contesto

internazionale, e interrompono la riflessione sui diritti. Considerato che la minaccia

terroristica è una minaccia senza fine, lo stato di guerra e lo stato di emergenza

proclamato da molti governi tenta a diventare uno stato permanente, e soprattutto, i

diritti che in nome dell’emergenza vengono sospesi, potrebbero rimanere sospesi per

un periodo di tempo indefinito. I passi avanti che si sono fatti negli anni Novanta con

la globalizzazione della cultura dei diritti e la globalizzazione della democrazia,

rischiano ora di essere vittime della democrazia stessa. Inoltre, risulta paradossale che

nell’era della globalizzazione totale ovvero tecnologica, economica e culturale, i veri

protagonisti cioè gli uomini, i “cittadini del mondo”, sono i diretti interessati delle

restrizioni in materia di diritti. Nell’epoca della globalizzazione per motivi di sicurezza

nazionale si afferma il “problema” dei migranti e dei loro diritti. Se si pensa alle

molteplici restrizioni che il governo statunitense, e non solo, ha applicato agli stranieri,

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cioè agli abitanti americani sprovvisti di cittadinanza, si capisce bene come lo straniero,

l’immigrato, il clandestino, come lo si vuole chiamare, è colui che potrebbe attentare e

minare l’incolumità di coloro i quali sono in possesso di cittadinanza. Dunque, per

l’ennesima volta nella storia, anche nell’era della globalizzazione dei diritti si vengono a

formare delle caste, in cui il diverso deve sottostare a delle regole speciali, in nome di

una sicurezza comune (ai cittadini). Quindi le limitazioni dei diritti, proprio come la

guerra, possono provocare dei risentimenti di odio nei confronti di chi viola tali diritti.

Gli individui soggetti a restrizioni, si sentono emarginati e aumenta in loro un forte

risentimento antistatale, tanto da poterli indurre ad appoggiare o addirittura ampliare la

minaccia terroristica. E questa situazione apre un altro dibattito complesso che non

affronterò in questo scritto.

In conclusione, l’indagine ha dimostrato come gli Stati, paradossalmente, si siano

mostrati maggiormente concentrati sugli effetti piuttosto che sulle cause del fenomeno

terroristico, intraprendendo così iniziative inappropriate per contrastarlo. Pertanto è

necessario trovare un equilibrio tra sicurezza della collettività e la tutela dei diritti

dell’individuo, perché proprio come sottolineava Koffi Annan, ex segretario generale

delle Nazioni Unite, <<sostenere i diritti umani non contrasta con la lotta contro il

terrorismo: al contrario, la visione etica dei diritti umani è una delle armi più potenti

contro di esso>>.

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Bibliografia

Arlacchi P. , L’inganno e la paura. Il mito del caos globale. Il Saggiatore, Milano, 2009

Bergamini O., Specchi di Guerra, Giornalismo e conflitti armati da Napoleone ad oggi. Editori Laterza, 2009

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