Istituti d’élite e università di massa: le incertezze francesi

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N. 6 37 DELLA SCUOLA DELLA SCUOLA L’università: da bene comune a consumo privato? di Roberto Biorcio G li effetti della globalizzazio- ne neoliberista, della crisi economica e delle politiche di austerità adottate da molti stati europei hanno riportato l’at- tenzione sull’università e sulle politiche da adottare per l’istru- zione superiore. Un dibattito che assume una rilevanza strategica perché tocca tre questioni cru- ciali: come le società progettano il loro futuro; il destino delle giovani generazioni, sempre più esposte al pericolo della pre- carietà e della disoccupazione; la crescita delle disuguaglianze sociali che si sviluppa con con- tinuità da oltre trent’anni e che ha subito una forte accelerazione negli ultimi cinque. Questi temi e in particolare l’università, la ri- cerca scientifica e i giovani sono ben presenti nella retorica dei governi, del ceto politico e dei media: ma le soluzioni adottate sono spesso insufficienti o a vol- te anche dannose per i fini che si dichiarano. Gli articoli presenta- ti su questo numero dell’“Indice della scuola” mostrano la grande varietà e i diversi effetti delle po- litiche adottate per l’istruzione superiore nei paesi europei, con un’attenzione anche alla realtà dell’istruzione superiore negli Stati Uniti In Europa si è avviato un pro- cesso di riforma dei sistemi dell’i- struzione superiore, rendendo più simili i processi formativi, come dichiara solennemente la Dichiarazione di Bologna sigla- ta formalmente il 18 e 19 giugno 1999 dai 29 ministri dell’istruzio- ne europei. L’obiettivo di euro- peizzare il sistema di istruzione superiore è perseguito tenendo conto degli standard internazio- nali, e con un’attenzione quasi ossessiva alle classifiche mondiali delle università, ripetutamente prodotte da diverse organizzazio- ni e istituzioni. La classificazione delle università europee diffusa recentemente dall’Unione Euro- pee ha sollevato molte perples- sità: solo 577 degli 879 campus interpellati hanno risposto. Sono stati analizzati in modo accurato dagli esperti solo i programmi e le attività di 70 università. Una percentuale molto ridotta di stu- denti ha partecipato all’indagine esprimendo le proprie valutazio- ni. La moltiplicazione delle va- lutazioni comparative ha in ogni caso fatto assumere un rilievo crescente soprattutto a concetti come “eccellenza”, “efficienza” e “merito”, anche se la loro tradu- zione in effettive riforme è stata spesso realizzata con criteri di- scutibili, come dimostrano di ar- ticoli sui casi nazionali pubblicati nelle prossime pagine. Il sistema universitario ameri- cano viene spesso assunto come modello per il futuro anche per il vecchio continente. Ma l’anali- si proposta dall’articolo di Bruno Cartosio ne svela tutti i limiti e gli elementi problematici. La qualità delle migliori università america- ne è fuori discussione (19 si col- locano fra le prime 50 al mondo, oppure 30 oppure 35 secondo i diversi istituti che hanno stilato le classifiche). Queste università accolgono però solo una quota infinitesimale di studenti, dispo- sti a pagare fra i 40 e i 50.000 dollari annui. La quasi totalità dei 21 milioni di studenti ame- ricani frequentano istituti molto diversi, che spesso, per qualità di insegnamento, strutture e servizi tendono a livelli molto più bassi. Anche per questi studenti le tas- se e le spese sono spesso molto elevate, e la famiglie o i singoli studenti sono costretti ad indebi- tarsi per molti anni: lo stesso pre- sidente Obama ha dichiarato di avere terminato di pagare il suo debito solo dopo la sua elezione. Anche l’Inghilterra segue un per- corso simile, ed ha di fatto acce- lerando la privatizzazione delle università. Cameron ha program- mato una riduzione delle spese per l’istruzione superiore del 40 per cento entro il 2014, e ha aumentato le tasse fino a 11.000 euro per ogni anno accademico. E non a caso, le iscrizioni degli studenti sono già diminuite del 9 per cento in un anno. Il capo del governo del Regno Unito ha di- chiarato esplicitamente che non ha più senso considerare la fre- quenza dell’università un diritto. All’altro capo dell’Europa, an- che la Grecia ha avviato da alcuni anni, sotto la supervisione della troika, un processo dello stesso tipo: con la diminuzione del 40 per cento del bilancio per l’istru- zione superiore, l’eliminazione di molti dipartimenti, la riduzione del personale, e lo sviluppo di una governance degli istituti uni- versitari secondo una logica ne- oliberista e tecnocratica. Anche in Francia è emerso il problema dell’eccellenza, come uno dei principi cardine della gestione delle università e della ricerca. In realtà le politiche seguite prima da Sarkozy e poi da Hollande hanno messo in evidenza soprat- tutto la divisione del lavoro tra le Grandes écoles che assicurano la formazione delle élite nazio- nali da una parte, e le universi- tà di massa dall’altra. Una legge approvata nel 2007, instaurava l’autonomia e l’eccellenza come standard comuni, senza peraltro fornirne i mezzi finanziari e ma- teriali necessari alle università di massa. Le difficoltà e le restri- zioni del bilancio pubblico ten- de ad amplificare le disparità a favore delle Grandes écoles e dei poli universitari più importanti, rischiando di aumenteranno le diseguaglianze sociali e geografi- che. Meno problematica appare la situazione delle università te- desche, che vantano una solida tradizione. La tendenza alla stra- tificazione del sistema secondo il criterio dell’ eccellenza rischia però di accentuare le tensioni e le polemiche fra una dozzina di università poste al vertice dalle diverse classifiche e il resto del sistema dell’istruzione superiore. E l’università italiana? I gover- ni di centrodestra e di centrosi- nistra (e dei tecnici) che si sono alternati negli ultimi dieci anni hanno prodotto un gran numero di provvedimenti per l’università, con un’accelerazione negli ultimi 7-8 anni. L’autonomia (statutaria, finanziaria e didattica) acquisita dalle università è stata spesso uti- lizzata per favorire scopi partico- lari e interessi locali, richiedendo talvolta una maggiore centraliz- zazione del sistema. Al di là della discussione dei singoli provvedi- menti, che hanno spesso cercato di imitare (maldestramente) le forme organizzative e i criteri di funzionamento delle università americane ed europee, si è realiz- zato nella sostanza un rovescia- mento delle trasformazioni che si erano avviate negli anni settanta e ottanta: un aumento massiccio del numero degli studenti uni- versitari, una netta riduzione del precariato, con un ampliamen- to degli insegnanti stabilizzati. Con un evidente miglioramento della qualità dell’insegnamento impartito dalle nostre universi- tà. Negli ultimi anni gli studen- ti diminuiscono (meno 11 per cento nell’ultimo anno), e sono fortemente cresciuti gli insegna- ti precari a contratto, a tempo determinato, approfittando del pensionamento di gran parte del corpo docente assunto negli anni settanta e ottanta. Il malconten- to degli studenti e di molti ri- cercatori e precari che lavorano nell’università si era soprattutto espresso nella lunga serie di ma- nifestazioni e iniziative spettaco- lari per impedire l’approvazione della riforma Gelmini. Alla fine anche il Pd di Bersani aveva vo- tato contro la legge, che era però stata approvata dalla maggioran- za di centrodestra nel 2010. Ma i successivi governi, anche a guida di esponenti del Pd, si sono ben guardati dal rimettere in discus- sione gli aspetti più negativi della riforma Gelmini e i suoi decreti di attuazione. Le misure assun- te dai vari ministri sono spesso contraddittorie, e prive di un disegno organico. La retorica impiegata da Gelmini e da altri ministri è stata quella di promuo- vere riforme per ridurre il potere dei baroni e dare più spazio ai giovani docenti. Il potere dei ba- roni non si è affatto ridotto e ha saputo sempre sfruttare nel mi- gliore dei modi le diverse trasfor- mazioni organizzative: si veda il recente numero dell’“Espresso” dedicato a questo problema: “I baroni regnano sull’università. Raccomandazioni, scambi di fa- vori, meriti negati, titoli ignora- ti. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricor- si”. Per i giovani ricercatori che non emigrano resta solo un lungo percorso di incarichi precari, che solo per pochi potrà avere un esi- to positivo. La condizioni economiche e gli orientamenti politici prevalen- ti in Italia hanno messo in atto un processo di trasformazione dell’università che combina in vari modi: a) una riduzione del- la spesa pubblica per l’istruzione superiore, b) misure favorevoli alla privatizzazione dell’universi- tà; c) un trasformazione della go- vernance dell’università pubbli- che in modo da renderle sempre più simili a quelle private. n [email protected] R. Biorcio insegna sociologia dei fenomeni politici all’Università di Milano Bicocca

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N. 6 37del la scuola

de l la scuola

L’università: da bene comune a consumo privato?di Roberto Biorcio

Gli effetti della globalizzazio-ne neoliberista, della crisi

economica e delle politiche di austerità adottate da molti stati europei hanno riportato l’at-tenzione sull’università e sulle politiche da adottare per l’istru-zione superiore. Un dibattito che assume una rilevanza strategica perché tocca tre questioni cru-ciali: come le società progettano il loro futuro; il destino delle giovani generazioni, sempre più esposte al pericolo della pre-carietà e della disoccupazione; la crescita delle disuguaglianze sociali che si sviluppa con con-tinuità da oltre trent’anni e che ha subito una forte accelerazione negli ultimi cinque. Questi temi e in particolare l’università, la ri-cerca scientifica e i giovani sono ben presenti nella retorica dei governi, del ceto politico e dei media: ma le soluzioni adottate sono spesso insufficienti o a vol-te anche dannose per i fini che si dichiarano. Gli articoli presenta-ti su questo numero dell’“Indice della scuola” mostrano la grande varietà e i diversi effetti delle po-litiche adottate per l’istruzione superiore nei paesi europei, con un’attenzione anche alla realtà dell’istruzione superiore negli Stati Uniti

In Europa si è avviato un pro-cesso di riforma dei sistemi dell’i-struzione superiore, rendendo più simili i processi formativi, come dichiara solennemente la Dichiarazione di Bologna sigla-ta formalmente il 18 e 19 giugno 1999 dai 29 ministri dell’istruzio-ne europei. L’obiettivo di euro-peizzare il sistema di istruzione superiore è perseguito tenendo conto degli standard internazio-nali, e con un’attenzione quasi ossessiva alle classifiche mondiali delle università, ripetutamente prodotte da diverse organizzazio-ni e istituzioni. La classificazione delle università europee diffusa recentemente dall’Unione Euro-pee ha sollevato molte perples-sità: solo 577 degli 879 campus interpellati hanno risposto. Sono stati analizzati in modo accurato dagli esperti solo i programmi e le attività di 70 università. Una percentuale molto ridotta di stu-denti ha partecipato all’indagine esprimendo le proprie valutazio-ni. La moltiplicazione delle va-lutazioni comparative ha in ogni caso fatto assumere un rilievo crescente soprattutto a concetti come “eccellenza”, “efficienza” e “merito”, anche se la loro tradu-zione in effettive riforme è stata spesso realizzata con criteri di-scutibili, come dimostrano di ar-ticoli sui casi nazionali pubblicati nelle prossime pagine.

Il sistema universitario ameri-

cano viene spesso assunto come modello per il futuro anche per il vecchio continente. Ma l’anali-si proposta dall’articolo di Bruno Cartosio ne svela tutti i limiti e gli elementi problematici. La qualità delle migliori università america-ne è fuori discussione (19 si col-locano fra le prime 50 al mondo, oppure 30 oppure 35 secondo i diversi istituti che hanno stilato le classifiche). Queste università accolgono però solo una quota infinitesimale di studenti, dispo-sti a pagare fra i 40 e i 50.000 dollari annui. La quasi totalità dei 21 milioni di studenti ame-ricani frequentano istituti molto diversi, che spesso, per qualità di

insegnamento, strutture e servizi tendono a livelli molto più bassi. Anche per questi studenti le tas-se e le spese sono spesso molto elevate, e la famiglie o i singoli studenti sono costretti ad indebi-tarsi per molti anni: lo stesso pre-sidente Obama ha dichiarato di avere terminato di pagare il suo debito solo dopo la sua elezione. Anche l’Inghilterra segue un per-corso simile, ed ha di fatto acce-lerando la privatizzazione delle università. Cameron ha program-mato una riduzione delle spese per l’istruzione superiore del 40 per cento entro il 2014, e ha aumentato le tasse fino a 11.000 euro per ogni anno accademico.

E non a caso, le iscrizioni degli studenti sono già diminuite del 9 per cento in un anno. Il capo del governo del Regno Unito ha di-chiarato esplicitamente che non ha più senso considerare la fre-quenza dell’università un diritto.

All’altro capo dell’Europa, an-che la Grecia ha avviato da alcuni anni, sotto la supervisione della troika, un processo dello stesso tipo: con la diminuzione del 40 per cento del bilancio per l’istru-zione superiore, l’eliminazione di molti dipartimenti, la riduzione del personale, e lo sviluppo di una governance degli istituti uni-versitari secondo una logica ne-oliberista e tecnocratica. Anche

in Francia è emerso il problema dell’eccellenza, come uno dei principi cardine della gestione delle università e della ricerca. In realtà le politiche seguite prima da Sarkozy e poi da Hollande hanno messo in evidenza soprat-tutto la divisione del lavoro tra le Grandes écoles che assicurano la formazione delle élite nazio-nali da una parte, e le universi-tà di massa dall’altra. Una legge approvata nel 2007, instaurava l’autonomia e l’eccellenza come standard comuni, senza peraltro fornirne i mezzi finanziari e ma-teriali necessari alle università di massa. Le difficoltà e le restri-zioni del bilancio pubblico ten-

de ad amplificare le disparità a favore delle Grandes écoles e dei poli universitari più importanti, rischiando di aumenteranno le diseguaglianze sociali e geografi-che. Meno problematica appare la situazione delle università te-desche, che vantano una solida tradizione. La tendenza alla stra-tificazione del sistema secondo il criterio dell’ eccellenza rischia però di accentuare le tensioni e le polemiche fra una dozzina di università poste al vertice dalle diverse classifiche e il resto del sistema dell’istruzione superiore.

E l’università italiana? I gover-ni di centrodestra e di centrosi-nistra (e dei tecnici) che si sono

alternati negli ultimi dieci anni hanno prodotto un gran numero di provvedimenti per l’università, con un’accelerazione negli ultimi 7-8 anni. L’autonomia (statutaria, finanziaria e didattica) acquisita dalle università è stata spesso uti-lizzata per favorire scopi partico-lari e interessi locali, richiedendo talvolta una maggiore centraliz-zazione del sistema. Al di là della discussione dei singoli provvedi-menti, che hanno spesso cercato di imitare (maldestramente) le forme organizzative e i criteri di funzionamento delle università americane ed europee, si è realiz-zato nella sostanza un rovescia-mento delle trasformazioni che si

erano avviate negli anni settanta e ottanta: un aumento massiccio del numero degli studenti uni-versitari, una netta riduzione del precariato, con un ampliamen-to degli insegnanti stabilizzati. Con un evidente miglioramento della qualità dell’insegnamento impartito dalle nostre universi-tà. Negli ultimi anni gli studen-ti diminuiscono (meno 11 per cento nell’ultimo anno), e sono fortemente cresciuti gli insegna-ti precari a contratto, a tempo determinato, approfittando del pensionamento di gran parte del corpo docente assunto negli anni settanta e ottanta. Il malconten-to degli studenti e di molti ri-cercatori e precari che lavorano nell’università si era soprattutto espresso nella lunga serie di ma-nifestazioni e iniziative spettaco-lari per impedire l’approvazione della riforma Gelmini. Alla fine anche il Pd di Bersani aveva vo-tato contro la legge, che era però stata approvata dalla maggioran-za di centrodestra nel 2010. Ma i successivi governi, anche a guida di esponenti del Pd, si sono ben guardati dal rimettere in discus-sione gli aspetti più negativi della riforma Gelmini e i suoi decreti di attuazione. Le misure assun-te dai vari ministri sono spesso contraddittorie, e prive di un disegno organico. La retorica impiegata da Gelmini e da altri ministri è stata quella di promuo-vere riforme per ridurre il potere dei baroni e dare più spazio ai giovani docenti. Il potere dei ba-roni non si è affatto ridotto e ha saputo sempre sfruttare nel mi-gliore dei modi le diverse trasfor-mazioni organizzative: si veda il recente numero dell’“Espresso” dedicato a questo problema: “I baroni regnano sull’università. Raccomandazioni, scambi di fa-vori, meriti negati, titoli ignora-ti. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricor-si”. Per i giovani ricercatori che non emigrano resta solo un lungo percorso di incarichi precari, che solo per pochi potrà avere un esi-to positivo.

La condizioni economiche e gli orientamenti politici prevalen-ti in Italia hanno messo in atto un processo di trasformazione dell’università che combina in vari modi: a) una riduzione del-la spesa pubblica per l’istruzione superiore, b) misure favorevoli alla privatizzazione dell’universi-tà; c) un trasformazione della go-vernance dell’università pubbli-che in modo da renderle sempre più simili a quelle private. n

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R. Biorcio insegna sociologia dei fenomeni politiciall’Università di Milano Bicocca

N. 6 38del la scuola

Le soluzioni tedeschedi Alessandro Cavalli

Dai tempi di Wilhelm von Humboldt l’università te-

desca viene, a torto o a ragione, indicata come un modello. In ef-fetti, l’impostazione che alla fine del Settecento von Humboldt diede alla riforma dell’università di Berlino (destinata poi a pren-dere il suo nome), centrata sulla stretta connessione tra ricerca e insegnamento, resta ancor oggi una sorta di caposaldo in ogni ri-flessione sulle politiche dell’istru-zione superiore. Come vedremo, anche alcuni degli sviluppi più recenti dell’azione riformatrice si rifanno in Germania, almeno ide-almente, al modello humboldtia-no, questo riguarda però ormai soltanto una frazione ristretta del sistema tedesco di istruzione su-periore. Vediamone alcuni tratti caratteristici e alcune tendenze evolutive.

Rispetto al modello centra-lizzato di stampo napoleonico (largamente imitato anche in Ita-lia, almeno fino alla riforma del-l’“autonomia”), l’università tede-sca ha tradizionalmente goduto di una consistente autonomia dal potere politico, anche quando, come nel Reich guglielmino, i professori erano di nomina mini-steriale. Autonomia ma non iso-lamento. Fin dall’epoca medie-vale le università tedesche hanno fatto rete, scambiandosi con una notevole frequenza docenti e stu-denti, anche quando la frammen-tazione politica sembrava poter rappresentare un ostacolo alla mobilità. Un sistema decentra-to ma unitario che ha anticipato l’unificazione politica bismar-ckiana. Questo tratto è rimasto ancora oggi. Innanzitutto, le uni-versità non dipendono economi-camente, se non in parte, come vedremo, dal livello federale, ma dai singoli stati (Länder). Non c’è un ministero federale che gover-na il sistema. Ogni ateneo ha, ad esempio, la facoltà di attribuire l’Habilitation all’insegnamento e questa è riconosciuta dalle altre università, ognuna delle quali ha i suoi requisiti e le sue procedure per le chiamate dei docenti, che avvengono quindi con decisio-ni delle facoltà a livello locale. I maxi-concorsi e le abilitazioni nazionali sarebbero impensabili in Germania. Fino a una decina di anni fa l’ammontare delle re-tribuzioni dei docenti erano fis-sate dalla conferenza dei ministri dell’istruzione dei Länder, oggi i docenti possono contrattare una parte della loro retribuzione a li-vello delle singole università, che quindi hanno recuperato autono-mia anche in questo campo. L’au-tonomia fa si che le istituzioni di istruzione superiore, nonostante

la notevole mobilità di docenti e studenti, siano tendenzialmen-te radicate nel territorio, legame che si esprime anche con la pre-senza di membri esterni nomina-ti dal ministro del Land nell’or-gano che gestisce la strategia dell’ateneo (Universitätsrat). Il radicamento locale è ovviamente particolarmente cruciale per le istituzioni fortemente orientate alle professioni (Fachhochschu-len) e assai meno per le grandi università di maggior prestigio che operano su scala europea e mondiale e sulle quali mi soffer-merò in seguito.

Le università non sono infatti le uniche istituzioni di istruzione superiore come in Italia, dove mancano scuole professionale a livello di istruzione terziaria. Accanto alle università ci sono le Technische Hochschulen, un po’ come i nostri politecnici, ma anche le Fachhochschulen e le Berufsakademien. Queste due ultime istituzioni offrono una formazione professionale a livel-lo terziario e reclutano i propri allievi sia dai canali della scuola secondaria sia dalla formazione professionale duale, svolta in parte a scuola e in parte sui luo-ghi di lavoro (aziende, ma anche servizi pubblici). Il modello dua-le si riproduce anche a livello ter-ziario con stretti legami tra la for-mazione in aula e la formazione on the job. Il sistema duale è una prerogativa di Germania, Au-stria, Olanda e Svizzera. Un 60 per cento circa della popolazione passa attraverso questo sistema, ma in fasi diverse della propria vita: alcuni dopo il primo ciclo della scuola secondaria (cioè, dopo i sedici anni), altri dopo va-rie esperienze sia formative che lavorative, altri ancora dopo aver conseguito la maturità al ginna-sio. Nel complesso, secondo i dati 2013 dell’ufficio statistico tedesco, sono attive in Germania più di 400 istituzioni di istruzio-ne terziaria: 108 università, 245 tra Fachhochschulen e Berufsaka-demien, nonché 75 tra Pädago-gische Hochschulen (Istituti per la formazione degli insegnanti), scuole superiori di teologia e ac-cademie artistiche. Gli studenti iscritti sono quest’anno circa 2.600.000, di cui il 64 per cento nelle università e il restante 36 per cento nel settore della forma-zione professionale terziaria.

Il sistema è differenziato al suo interno non solo in senso orizzontale, ma anche verticale. Una volta superata la fase postu-nificazione di reinserimento nel sistema delle università della ex Ddr, è stata abbandonata l’idea che nell’epoca dell’istruzione

superiore di massa tutte le isti-tuzioni potessero adeguarsi al modello humboldtiano della re-search university. Nei ranking in-ternazionali, assai discutibili ma di sicuro impatto sull’opinione pubblica e sui decisori politici, le migliori università tedesche si collocavano nella fascia medio alta, ma nessuna al vertice. Nel 2005 è stato lanciato un grande programma decennale, al quale sono stati destinati nel comples-so 1,9 miliardi di euro, chiamato Exellenziniziative. Queste ingen-ti risorse non sono state distri-buite a pioggia. La loro assegna-zione è avvenuta in modo molto competitivo. La Dfg (Deutsche Forschung Gemeinschaft, l’ente che finanzia la ricerca a livello federale) ha organizzato un con-corso, molte università e anche diverse Fachhochschulen hanno presentato progetti (600 in tut-to), questi sono stati valutati da commissioni di esperti (con la partecipazione anche di molti stranieri) e alla fine ne sono stati scelti 85 di cui 39 per l’istituzione di scuole di dottorato di alta for-mazione, 37 per programmi mul-ti e interdisciplinari di ricerca su tematiche di frontiera, con la partecipazione anche di istituti di ricerca non universitari, e 9 per progetti legati a strategie globali di sviluppo che coinvolgano un intero ateneo. Questa politica ha avuto l’effetto di stratificare dra-sticamente il sistema. Al vertice ci sono una decina di università eccellenti in tutti i settori o qua-si, seguono un paio di dozzine di università (comprese alcune Fachhochschulen) che raggiun-gono l’eccellenza in almeno un settore di ricerca, per il resto si tratta di istituzioni (peraltro tal-volta anche di buon livello) dove però la ricerca è assente oppure di routine. Per salvare il modello humboldtiano si è dovuto limi-tarlo a poche istituzioni. Come è facilmente immaginabile, questa “politica” ha incontrato molte resistenze, soprattutto da parte della maggioranza delle istitu-zioni che si sono sentite declas-sate, ha suscitato varie proteste anche “territoriali” (le università al top sono quasi tutte localiz-zate nei vecchi Länder dell’area centro-meridionale e renana), ha scatenato vivaci controver-sie sui metodi di valutazione. È ancora presto per vedere quali effetti a lunga scadenza misure così incisive hanno prodotto sul sistema di istruzione superiore e della ricerca. È molto difficile che esperienze di questa porta-ta siano trasferibili e innestabili in sistemi che hanno un’altra struttura e un’altra storia. Non è detto che dobbiamo per forza imitare la Germania. Non ci si può però sottrarre dall’affronta-re i problemi che sono sostan-zialmente molto simili. Come si gestisce l’autonomia, mantenen-do un sistema differenziato, ma integrato? Come si garantisce una formazione professionale di alto livello per soddisfare i bi-sogni di un’economia moderna? Come s’infrange il principio che la università debbano essere tutte uguali tra loro? n

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A. Cavalli ha insegnato sociologia all’Università di Pavia

Athena non aveva questo pianodi Maria Nikolakaki

Le riforme dell’istruzione su-periore nei paesi europei

sono molto diverse ma i pretesti per migliorare la qualità, la com-petitività e l “attrattività” degli istituti, possono essere rischiosi se sono usati per attaccare l’uni-versità come bene pubblico ridu-cendo i finanziamenti nazionali, promuovendo la privatizzazione e costringendo le generazioni fu-ture di studenti a un crescente in-debitamento. Le riforme si basa-no spesso su una serie di principi trasferiti dal campo dell’econo-mia e del mercato (dominati del paradigma neoliberista) a quello della gestione del sistema dell’i-struzione superiore.

La crisi economica in Grecia è diventata un’opportunità per il sistema politico: per fronteg-giare il debito pubblico secondo le indicazioni della troika, molte misure neoliberiste impensabili pochi anni fa sono state realiz-zate senza alcuna difficoltà. I di-versi governi che si sono alternati negli ultimi anni hanno agito a tre livelli: in primo luogo quello di una riforma strutturale del-le università, in secondo luogo, con una modernizzazione della loro governance secondo una lo-gica neoliberista e tecnocratica; in terzo luogo, con la riduzione del 40 per cento dei bilanci dell’i-struzione superiore.

In Grecia tutte le università sono pubbliche: la costituzione vieta la privatizzazione dell’i-struzione superiore. I governi negli ultimi anni hanno cercato di cambiare la costituzione per permettere la creazione di uni-versità private e di trasformare la configurazione delle univer-sità pubbliche consentendo il finanziamento da parte di azien-

de private. Questi progetti sono falliti per le massicce proteste di studenti e del personale dell’uni-versità nella primavera del 2006 e nell’inverno del 2007. Sono stati respinti in particolare i tentativi di abolire l’articolo 16 della co-stituzione greca che dichiara la natura pubblica e gratuita dell’e-ducazione superiore.

La configurazione e il funzio-namento delle università è stato però cambiato secondo le diretti-ve della Troika. Secondo la legge 4009, votata nel 2011 da 250 dei 300 deputati, le università saran-no dirette da consigli di ammi-nistrazione che coinvolgeranno nella governance degli istituti una componente significativa di esponenti del mondo degli af-fari. Il mondo accademico (do-centi, personale amministrativo e studenti) ha resistito per mesi, lanciando una petizione interna-zionale, sottoscritta da oltre 900 intellettuali provenienti da 46 pa-esi. Per aggirare la costituzione e l’autonomia delle università, la legge richiede al personale uni-versitario presente nel consiglio amministrativo la scelta degli uomini d’affari che compongono di fatto un comitato amministra-tivo esterno. Le forti resistenze dei docenti, degli studenti e dei sindacati sono state superate con una legge (la legge 4075/2012) che ha reso obbligatorio il voto elettronico, rendendo possibile la sorveglianza dei comporta-menti dei membri dei consigli di amministrazione.

Dopo l’applicazione della leg-ge e la costituzione dei nuovi consigli di amministrazione, la fase successiva è stato il cosidetto “piano Athena” (giugno 2013) che ha imposto la chiusura o la

N. 6 39del la scuola

Istituti d’élite e università di massa: le incertezze francesi

di Annabelle Allouch

L’europeizzazione del sistema d’insegnamento superio-

re francese, unito all’influenza progressiva degli standard in-ternazionali e al peso crescente delle politiche di valutazione e delle classifiche internazionali, ha contribuito a far emergere la problematica dell’eccellenza, che si impone in Francia come uno dei principi cardine della gestio-ne delle università e della ricerca.

Questo processo ha dato luogo a una riorganizzazione importan-te del settore, che mira a conser-vare la posizione della Francia tra le grandi nazioni innovatrici in termine di ricerca e di forma-zione. Abbiamo così assistito alla rapida attuazione di una politica di razionalizzazione della ge-stione degli istituti segnata dal loro rapido raggruppamento in poli di insegnamento superiore e di ricerca (Pres ossia Pôles de Recherche et d’Enseignement Supérieur). Si trattava di per-mettere la creazione di istituti capaci di raggiungere una mas-sa critica e quindi suscettibili di rispondere alla concorrenza in-ternazionale senza sacrificare le esigenze sociali ed economiche del paese, in un contesto di “eco-nomia della conoscenza”. La po-litica dell’eccellenza contribuisce a fare distinzioni tra gli istituti e tra i diplomi, ovvero a creare delle gerarchie collegate alla de-finizione della qualità dell’offerta educativa da parte delle autorità pubbliche. Essa si basa quindi su delle leve ispirate dai processi di mercato che valorizzano la con-correnza e l’autonomia istituzio-nale come garanzia della qualità dei diplomi forniti.

In realtà, è possibile compren-dere le politiche dell’istruzio-ne superiore francese lanciate da Nicolas Sarkozy e poi da François Hollande soltanto se si sottolinea la dualità struttu-rale dell’istruzione superiore e l’affezione dei francesi al rico-noscimento del merito come principio (paradossalmente non egalitario) di giustizia sociale. Questa dualità evidenzia in effet-ti una divisione del lavoro tra le Grandes écoles che assicurano la formazione delle élite nazionali da una parte, e le università di massa dall’altra, che legittimano gli obiettivi di democratizzazione dell’istruzione e della mobilità sociale promessi dal patto re-pubblicano. Poco interconnessi tra loro, questi due poli intrat-tengono relazioni molto diverse con le autorità statali. Da una parte, le Grandes écoles rivendi-cano un’autonomia statutaria e curriculare fondata da tempo sul prestigio della loro formazione e sul loro reclutamento selettivo. Dall’altra, le università sono sot-to la stretta supervisione del mi-nistero dell’Istruzione superiore e della ricerca, che ne assicura sia la certificazione dei diplomi che la gestione del personale. La re-cente legge sulla libertà e sulla re-sponsabilità delle università (leg-ge chiamata “LRU”), approvata nel 2007, mette fine a questa di-visione tradizionale, instaurando

l’autonomia e l’eccellenza come standard comuni, senza peraltro fornirne i mezzi finanziari e ma-teriali. Concretamente, si tratta (come nel sistema commerciale attuato in Inghilterra dal 2010) di garantire il finanziamento de-gli istituti valorizzando logiche di concorrenza e quindi l’incertezza sul budget effettivamente asse-gnato a ciascuno. Recentemente, diversi studi di sociologi francesi affrontano i paradossi di questa nozione di eccellenza, la sua de-

finizione, la sua pertinenza e le condizioni della sua continuità, in un contesto di incertezza e scarsità di risorse.

L’opera di Muriel Darmon mette in discussione la natura stessa dell’eccellenza nelle isti-tuzioni d’élite, a partire da uno studio etnografico sulle classi preparatorie alle Grandes éco-les commerciali e di ingegneria francesi. L’opera risponde im-plicitamente alle domande ricor-renti sull’efficacia economica e sociale del sistema educativo in un contesto di “economia del-la conoscenza”: come, cioè con quali mezzi, queste istituzioni assicurano il successo sociale e scolastico dei loro studenti? Nell’affrontare la questione della natura della socializzazione isti-tuzionale in vigore in questo tipo di formazione, l’autore fornisce degli elementi empirici che con-solidano un’ipotesi già formulata da Pierre Bourdieu negli anni settanta: ciò che costituisce l’ec-cellenza del sistema francese di formazione dell’élite, è l’insieme dei mezzi pedagogici, materiali e simbolici di cui si dotano al fine di vincolare il tempo degli indi-vidui. Valorizzando un ritmo di lavoro intenso, si consentirebbe

ai futuri dirigenti della nazione di sviluppare delle disposizioni al controllo del tempo sin dai primi anni di istruzione superiore. L’e-sportazione meccanica di questo tipo di dispositivi appare comun-que largamente ipotetica, dato che un tale dispositivo dipende ovviamente dalla piccola dimen-sione degli istituti e dall’origine sociale degli studenti, per lo più provenienti dalle classi medio alte.

Christine Musselin, sociologa presso SciencesPo a Parigi, met-te in luce a sua volta gli effetti istituzionali delle recenti rifor-me europee sulle relazioni tra le università e lo stato, mettendo in rilievo in particolare il processo di valutazione della qualità dei

diplomi, ma anche della ricerca, ormai effettuato da agenzie di valutazione più o meno indipen-denti. Ispirandosi fortemente agli scritti sulla sociologia economi-ca, sottolinea così i paradossi di una riforma dell’istruzione supe-riore (peraltro iscritta in un pro-cesso di attuazione molto incerto e incompatibile con le modalità tradizionali di gestione del setto-re) che, in mancanza di criteri di valutazione e di controllo stabili, non possono che portare, secon-do lei, a un accrescimento delle disparità tra istituti, e anche alla scomparsa pura e semplice dei dipartimenti ritenuti non com-petitivi. Gli avvenimenti recenti confermano questi timori, come evidenziato dai recenti dibattiti sulla possibile chiusura dell’Uni-versità Versailles-Saint-Quentin en Yvelines, considerata finora come la migliore allieva della LRU. Dato che la razionalizza-zione del budget e curricolare è volta a garantire la compatibilità dell’insegnamento superiore con i bisogni economici, non può che essere fondata su un sistema di valutazione stabile, trasparente e fondato su un equilibrio tra cre-scita economica e bisogni sociali

della popolazione.In un paese in cui la posizio-

ne sociale appare fortemente correlata al livello e alla natura dei diplomi ottenuti, la politica dell’eccellenza, anziché armo-nizzare l’offerta pedagogica degli istituti, tende ad amplificare le disparità a favore delle Grandes écoles e dei poli universitari più importanti. Occorre allora in-terrogarsi sugli effetti di queste politiche sugli studenti meno do-tati: in un contesto che valorizza la gerarchizzazione degli istituti, questi ultimi si vedono costret-ti a prendere in considerazione l’aumento delle tasse d’iscrizione come palliativo ai finanziamenti più incerti dello stato. Mentre recenti inchieste sottolineano la

persistenza della fede dei cittadi-ni nella natura meritocratica del suo sistema educativo, la politica di eccellenza dell’istruzione su-periore, dandosi l’illusione della valorizzazione del merito di ogni istituto, rischia semplicemente di ottenere la diffidenza degli stu-denti rispetto agli istituti che, an-ziché assicurare il loro avvenire, aumenteranno le diseguaglianze sociali e geografiche. n

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A. Cavalli ha insegnato sociologia all’Università di Pavia

fusione di molti dipartimenti universitari, ridimensionando fortemente l’offerta di istruzione superiore in Grecia. Molti stu-denti hanno resistito contro le chiusure dei loro dipartimenti, ricorrendo anche allo sciopero della fame. La grave conseguenza del “piano Athena” è la forte ri-duzione degli studenti universita-ri, soprattutto tra coloro che pro-vengono dalla classe operaia. Il più recente tentativo di demolire l’istruzione superiore greca è sta-to attuato nell’ottobre del 2013, con la manovra per sbarazzarsi di 1.349 membri del personale amministrativo e tecnico (biblio-tecari , amministratori, tecnici, custodi, responsabili informatici, dipendenti servizi finanziari ). Senza alcuna spiegazione, que-ste soppressioni o trasferimenti si sono verificati in alcune delle migliori università greche, collo-cate tra le 200 migliori università del mondo (Salonicco, Atene , il Politecnico di Metsovion). Sulla governance dell’istruzione supe-riore c’è chiaramente l’influenza della tecnocrazia economica, che realizza una gestione basata sul-la promozione del “modello di impresa economica” per i pro-cessi di valutazione e controllo. Nonostante le continue critiche e proteste, le riforme attuate pro-ducono la progressiva demolizio-ne del carattere accademico delle università e il loro declino come bene pubblico, sostituito da una modernizzazione neoliberista che mira esclusivamente all’effi-cienza economica.

La resistenza a queste trasfor-mazioni dell’università greca ha sollevato nella comunità accade-mica molte questioni: la respon-sabilità dello stato non può esse-re limitata al funzionamento dei meccanismi di valutazione delle prestazioni; lo stato non può es-sere solo un agente di vigilanza, ma deve essere garante della con-tinuità della funzione dell’uni-versità come bene pubblico.

La governance dell’istruzione superiore dipenderà sempre di più dalla valutazione di tecnocra-ti e manager che si basano sulle prestazioni e sulla realizzazione di obiettivi specifici, subordinan-do i finanziamenti ai risultati. Si può così realizzare nella società un cambiamento radicale del ruolo dell’istruzione superiore, che era finora orientata a costru-ire una persona istruita in grado di offrire, con il pieno sviluppo delle sue potenzialità, il suo con-tributo allo spazio pubblico, so-ciale ed economico. n

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A. Cavalli ha insegnato sociologia all’Università di Pavia

I libri

Immiseration capitalism and Education: Austerity, Resis-tance and Revolt, a cura di Dave Hill, pp. 341, € 29,57, Ieps, London 2013

Unaccomplished Utopia: Neo-conservative Dismantling of Public Higher Education in the European Union, a cura di João Menelau Paraskeva, pp. 174, € 23,76, Sense Publish-ers, Rotterdam-Boston-Taipei 2010

I libri

Darmon Muriel, Classes préparatoires. La fabrique d’une jeunesse dominante, pp.280, € 24, La Découverte, Paris 2013

Reforming Higher Education. Public policy design and imple-mentation, a cura di Christine Musselin e Pedro Texeira, pp. 280, € 103,99, Springer, Lon-don 2013

N. 6 40del la scuola

Regno Unito: la copetizione globale del talentodi Koen Geven

Le promesse dell’istruzione su-periore nel Regno Unito sono

strettamente legate alle tendenze politiche generali del paese (cfr. Ted Tapper, The Governance of British Higher Education. The Struggle for Policy Control, Dor-drecht, 2007). Pertanto, quando cambia il sistema politico, anche il sistema dell’alta formazione vi si conforma. Per qualsiasi esame dell’istruzione superiore del pa-ese, è quindi importante tenere a mente tre considerazioni di ordine generale. Tanto per cominciare, l’istruzione superiore nel Regno Unito è passata da uno unico a quattro sistemi (si potrebbe anche dire da due a quattro, in quanto la Scozia applicava alcuni ordina-menti differenti prima del proces-so di devoluzione; i più importanti sviluppi qui descritti sono comun-que entrati tutti in vigore dopo la devoluzione). A partire dal 1999, Inghilterra, Galles, Scozia e Ir-landa del Nord hanno acquistato molta voce in capitolo rispetto agli indirizzi da adottare e questi

poteri si riflettono ora in priorità politiche differenziate, quanto mai evidenti riguardo al sistema di fi-nanziamento che illustrerò come primo punto.

In secondo luogo, mentre il re-sto dell’Europa si è maggiormen-te integrato, la Gran Bretagna è diventata più euroscettica. Gli sviluppi dell’istruzione superiore britannica rispecchiano quindi delle priorità nazionali, piuttosto che quelle europee. Il “processo di Bologna” ha avuto uno scarso impatto sul paese, dal momento che il sistema di istruzione supe-riore era già basato sui “tre cicli” con un’ampia varietà di titoli di studio prima e dopo la laurea.In terzo luogo, il Regno Unito si è fortemente impegnato nella competizione globale per il talen-to. Ciò è estremamente evidente nell’internazionalizzazione della popolazione studentesca che illu-strerò come terzo punto di que-sta analisi. E questo mostra forse come le università britanniche, pur avendo certamente una logica loro propria, si considerino parte del più vasto mondo.

Devoluzione e privatizzazioneCome non esitano a darne prova

i tifosi più accesi, il Regno Unito è composto da quattro paesi, non da uno solo. Dal 1999, l’Inghilterra, il Galles, la Scozia e l’Irlanda del Nord non solo competono separa-tamente per la Coppa del Mondo,

ma hanno anche un Parlamento e un’amministrazione decentrata. Nell’ambito specifico della pre-sente discussione, questo processo politico teso al decentramento, o alla “devoluzione”, ha anche portato a quattro sistemi separati di istruzione superiore (cfr. Da-vid Raffe e Linda Croxford, One System or Four? Cross-Border Ap-plications and Entries to Full-Time Undergraduate Courses in the UK Since Devolution, in “ Higher Education Quarterly” , 67, n. 2, 2012). Per quanto in proposito nei quattro paesi vi siano dibattiti ana-loghi, essi hanno imboccato strade diverse nelle politiche adottate.

La principale differenza tra i quattro sistemi riguarda il finan-ziamento delle università. Mentre l’Inghilterra ha di fatto privatizza-to le spese per l’istruzione supe-riore, gli altri sistemi rimangono largamente finanziati da fondi pubblici. Ciò è soprattutto eviden-te rispetto alla “tassa d’iscrizione” duramente contestata per i livelli pre-laurea, che è stata aumentata

in Inghilterra ma non negli altri paesi (v. tabella 1). Contempo-raneamente, le università inglesi hanno anche perso oltre il 95 per cento delle sovvenzioni per l’in-segnamento creando di fatto un “mercato” dell’istruzione supe-riore (cfr. Haaron Chowdry, Lor-raine Dearden, Alissa Goodman e Wenchao Jin, The Distributio-nal Impact of the 2012–13 Higher Education Funding Reforms in En-gland, in “Fiscal Studies”, 33, n. 2, 2012). Gli studenti che iniziano gli studi in Inghilterra nell’anno accademico 2012-13 pagano fino a 9.000 sterline (€ 11.000), anche se il costo medio è leggermente inferiore. Intanto, in Scozia i gio-vani studiano gratis, e in Galles e nell’Irlanda del Nord pagano le stesse cifre di prima, corrette in base all’inflazione.

Un punto importante di que-sto sistema è che gli studenti non devono anticipare tutte le tasse, ma possono ottenere un prestito dal governo per coprire l’aumen-to dei costi (cfr. Claire Crawford e Wenchao Jin, Payback Time? Student debt and loan repayments: what will the 2012 reforms mean for graduates?, Institute for Fis-cal Studies, 2014, per un buon quadro complessivo). Inoltre, c’è un sistema di sovvenzioni con pre-stiti e borse (per studenti di fami-glie a basso reddito) per pagare le spese di mantenimento. Quasi il 90 per cento degli studenti ricor-

rono a un prestito sia per la tassa d’iscrizione sia per mantenersi du-rante gli studi, da cui consegue in questo periodo un forte incremen-to degli indebitamenti.

Gli effetti di questo nuovo re-gime sono complessi e ancora da analizzare. Finora, il più evidente è stato un leggero calo delle iscri-zioni nel primo anno in cui sono state introdotte le tasse (v. sotto). Non è ancora chiaro quali esiti questa nuova politica possa pro-durre in termini di ineguaglianza sociale rispetto ai tassi di iscrizione e di laurea. È anche una questione aperta se i paesi possano reggere i loro differenti sistemi nel lungo periodo, in particolare alla luce del referendum scozzese sull’indi-pendenza. Senza badare ai risulta-ti, i leader politici di ciascun paese hanno indubbiamente tracciato delle linee sulla sabbia ponendosi dal punto di vista di chi doveva sborsare soldi per l’università.

Espansione e differenziazioneIl numero degli studenti è stato

in crescita negli ultimi anni, nono-stante una certa stagnazione dopo l’aumento delle tasse di cui abbia-mo detto (v. tabella 3). Il processo di espansione andava di pari passo con una differenziazione dell’of-ferta da parte delle università, che si sono messe alla ricerca di nuovi mercati di nicchia per offrire nuo-vi tipi di qualificazioni a potenziali studenti. Questo valeva soprattut-to per i corsi brevi di primo livel-lo che hanno visto inizialmente un grande incremento di iscritti, sebbene siano poi diventati meno attraenti. Le università hanno atti-vato anche molti corsi per adulti, specialmente attraverso l’Open University che offre insegnamenti a distanza e on-line.

In tutto il Regno Unito le uni-versità contano attualmente ogni anno circa un milione di nuovi studenti iscritti. La tabella mostra un chiaro calo a tutti i livelli, ec-cetto quelli di ricerca post-laurea (perlopiù corsi di dottorato), in seguito alle nuove tasse. Tenden-ze analoghe si registrano nelle iscrizioni per le diverse regioni, pur essendo risultate leggermente inferiori quelle ai corsi di base in Inghilerra nel 2012-13 (cifre qui non riportate).

Competizione globale e graduato-rie universitarie

Una terza significativa linea di sviluppo è quella dell’internazio-nalizzazione delle università bri-tanniche. La tabella 3 presenta la percentuale di studenti interna-zionali ai vari gradi di diploma per l’anno accademico 2012-13. Essa mostra come gli studenti britan-nici siano ancora in maggioranza ai livelli pre-laurea, ma quasi pari ai non-britannici nei corsi post-laurea. Il gruppo più numeroso proviene dall’Asia e dall’Australia (12 per cento del totale), con un peso particolarmente accentuato nei Master di perfezionamento (24 per cento). Gli europei am-montano anch’essi a una quota consistente della popolazione stu-dentesca (7 per cento del totale), e sono la più grossa componente straniera nei corsi di dottorato (15 per cento).

La presenza di studenti inter-nazionali nelle università britan-niche si può spiegare in base a molteplici fattori. Innanzitutto, è un indicatore delle campagne di marketing all’estero. Le università hanno dipartimenti di marketing, sono agenzie accademiche di viag-gi intorno al mondo per reclutare nuovi studenti. In secondo luogo, esse traggono forti vantaggi dall’a-scesa dell’inglese a “lingua fran-ca” in gran voga. Ma forse il più importante sviluppo nella stessa istruzione superiore britannica è il rilievo assunto dalle graduatorie universitarie. Come in altri paesi, tutti i principali giornali pubblica-no valutazioni delle università, e le università sono molto interessate alle loro relative posizioni in que-ste graduatorie. Le università bri-

tanniche compiono grandi sforzi per arrivare in cima alle classifiche internazionali e si sono fortemen-te impegnate nella creazione di graduatorie globali (ad esempio, quelle del Times Higher Education o del QS World Service). In effetti, la popolarità di queste graduatorie negli altri paesi può indicare come si tratti di uno sviluppo destinato ad accompagnarci negli anni a ve-nire.

Malgrado la sua “britannicità”, l’istruzione superiore del Regno Unito segue probabilmente ten-denze analoghe a quelle degli al-tri paesi europei. Privatizzazione, espansione e competizione glo-bale sono all’ordine del giorno in quasi tutti i sistemi di istruzione superiore in Europa. L’estensione delle riforme e la trasformazione delle università in aziende glo-bali sono comunque viste come un caso estremo dalla maggior parte degli osservatori europei. In effetti, la velocità con cui sono state privatizzate le università bri-tanniche e la differenziazione tra i quattro paesi continuano a sor-prendere persino gli interni al si-stema accademico britannico. Dal momento che la politica britanni-ca è come sempre imprevedibile, non è chiaro cosa porterà il futuro. Ma sono tempi certamente stimo-lanti per impegnarsi in ulteriori ricerche sull’istruzione superiore britannica. n

(trad. dall’inglese di Santina Mobiglia)

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K. Geven è ricercatore pressol’European University Institute di Firenze

Tabella 1

Anno accademico Studenti in base a residenza 2011-12 2012-13

Tassa media studenti inglesi £ 3.375 £ 8.470

Tassa media studenti gallesi £ 3.375 £ 3.470

Tassa media studenti nordirlandesi £ 3.375 £ 3.470

Tassa media studenti scozzesi £ 0 £ 0

tabella 1: Tasse d’iscrizione nei quattro paesi del Regno Unito. I prezzi sono stabiliti in base alla residenza. Calcoli effettuati sulla base dei dati tratti dall’Office for Fair Access (www.offa.org.uk) e dal sito universitytu-itionfees.co.uk

Tabella 2

Anno accademico 2004-05 2007-08 2010-11 2012-13

Dipoma di Primo grado 445.515 464.150 509.000 477.935

Altri gradi pre-laurea 287.590 308.065 243.900 154.450

Post-laurea (perfezionamenti) 272.870 295.260 364.855 317.800

Post-laurea (ricerca) 30.030 31.320 39.495 39.555

TOTALE 1.036.005 1.098.795 1.157.255 989.740

tabella 2: Iscrizioni al primo anno per tipo di diploma e anno accademico in tutti i paesi del Regno Unito. Dati ricavati dalla Higher Education Statistics Agency (arrotondati per eccesso o per difetto a 5).

Tabella 3

Tipo di diploma Primo grado Altri gradi Post-laurea (perfezionamenti)

Post-laurea (ricerca) TOTALE

Provenienza degli sTudenTi

Britannici 86% 87% 56% 56% 75%

Africa e Medio Oriente 2% 1% 7% 10% 4%

Asia e Australia 6% 6% 24% 13% 12%

Europa 6% 4% 10% 15% 7%

Nordamerica 1% 2% 3% 5% 2%

Sudamerica 0% 0% 1% 1% 0%

tabella 3: Iscrizioni al primo anno in base a residenza e tipi di diploma in tutti i paesi del Regno Unito nell’anno acca-demico 2012-13. Dati tratti dalla Higher Education Statistics Agency.

N. 6 41del la scuola

Modelli e prospettive in Italiadi Roberto Moscati

Appare sempre più evidente come la determinazione dei

compiti e delle finalità dell’u-niversità significhi la somma alle funzioni tradizionali (inse-gnamento e ricerca scientifica “pura”) delle nuove funzioni le-gate ai rapporti con il territorio, il trasferimento delle conoscenze e la loro utilizzazione al mondo delle imprese, la formazione ri-volta a categorie diverse di citta-dini.

I modelli europei sono molte-plici e rispondono alla problema-tica sia differenziando sia omoge-neizzando i sistemi d’istruzione superiore. Nel caso italiano si è conservato strenuamente il mito del sistema universitario omoge-neo e le differenze tra gli atenei sono state attribuite alla sola reputazione. Le diversificazioni funzionali non sono considerate opportune anche per la resisten-za alle logiche della competizio-ne tra atenei, mentre il prestigio legato al titolo di studio fa pre-mio su eventuali riconoscimenti di differenze qualitative che si suppone penalizzerebbero sul piano sociale sia gli studenti sia i docenti degli atenei riconosciuti come meno prestigiosi. Da qui anche la resistenza alle gradua-torie/ranking degli atenei, sia nazionali sia internazionali. Ma l’insieme dei processi di muta-mento che riguardano i sistemi d’istruzione superiore richiedo-no, come punto nodale, il ripen-samento delle forme di gestione sia dei sistemi sia delle istituzioni formative.

Il tema della governance si con-ferma centrale in relazione alla sfida a combinare risposte a do-mande di prestazioni tradizionali e nuove, ma anche all’interno del-le nuove dimensioni del rapporto stato/università, e soprattutto in relazione alle funzioni attribuite all’università nel contesto sociale di riferimento. Innanzitutto, c’è da chiedersi quale governance per quale università. Nel caso ita-liano il tema non può essere di-sgiunto da quello relativo al tipo di autonomia e di esercizio della stessa che le università saranno in grado di realizzare. I modelli che circolano ormai da alcuni anni e che sono ripresi dall’attuale pro-getto governativo (legge 240/10) mirano ad attribuire un maggior potere al rettore e a legarlo al consiglio di amministrazione la cui composizione comprende elementi laici, esterni al mon-do accademico e rappresentanti delle istanze pubbliche e private direttamente interessate alle pre-stazioni dell’università. L’ispira-zione di questo modello deriva dal sistema inglese che oggi in-contra un gran favore, soprattut-to mediatico, perché ritenuto il più adatto alle logiche di merca-to, rappresentate principalmente dalla competizione tra atenei.

Ispirarsi ad altri sistemi è una prassi già sperimentata nel no-stro paese, tuttavia è norma im-prescindibile nell’analisi compa-rativa la considerazione globale del sistema paese che chiarisce le correlazioni tra componenti in funzione delle caratteristiche specifiche dei sotto-sistemi. Nel

caso inglese, l’autonomia del-le università e la competizione tra loro, sia indirettamente per l’acquisizione di punteggi nelle valutazioni pubbliche sia diret-tamente per l’ottenimento di commesse e spezzoni di mercato privato/pubblico, sono incen-tivate da tempo e si traducono in politiche di ateneo. Tali poli-tiche sono il frutto di articolate mediazioni interne tra interessi disciplinari diversi che vedono il processo decisionale strutturato in verifiche a livello di base e in-termedio (facoltà e dipartimenti) e in decisioni finali a livello di vertice (rappresentato dal retto-re/vice-chancellor e dal suo staff). Il consiglio di amministrazione (Board) è sì formato in maggio-

ranza da membri non-accademici provenienti dall’economia locale o nazionale, ma i suoi poteri sono limitati alla verifica della correttezza del bilancio: i mem-bri esterni, oltre ad essere tramiti con il mondo economico, sono in prevalenza esperti di finanza e forniscono competenze legate al budget. Ne consegue che non entrano nelle decisioni relative all’organizzazione delle attività accademiche, che restano riser-vate al senato e al rettore con il suo staff. D’altro canto, va ricor-data la tradizione di relazioni con il mondo esterno che caratterizza le università del mondo anglo-sassone dove il tema dell’auto-nomia delle attività di ricerca e didattiche è stato dibattuto a lungo da un mondo accademico comunque geloso della propria indipendenza come della libertà di pensiero e di ricerca.

Tali caratteristiche non si im-provvisano ma sono state il frut-to di faticosi processi di adegua-mento anche in Gran Bretagna, mentre incontrano forti resisten-ze in diversi paesi dell’Europa continentale. Le ragioni di que-ste resistenze hanno a che vedere con il ruolo dello stato che stori-camente creava o convalidava la creazione delle università. Da qui la diversa concezione delle fina-lità delle istituzioni universitarie,

del loro grado di autonomia e del rapporto con il mondo esterno della governance degli atenei tra sistemi anglosassoni e sistemi dell’Europa continentale.

Dopo gli altalenanti periodi di controllo centralistico e autono-mia attraversati dal sistema uni-versitario italiano la legge 240/10 ha introdotto sensibili mutamen-ti al quadro tracciato dalle rifor-me del ministro Ruberti, ispiran-dosi al modello anglosassone di tipo manageriale e riconoscendo formalmente l’esistenza degli sta-keholder. Tra le altre innovazioni si segnala la possibilità di attribu-ire gradi diversi di autonomia a seconda dei comportamenti delle singole università, si inseriscono nel consiglio di amministrazione

rappresentanti del mondo non-accademico e si rafforza (come ricordato) il ruolo del rettore che peraltro resta carica elettiva e finisce per mantenere il ruolo prevalente di mediatore degli interessi delle componenti acca-demiche e di collegamento tra senato e Cda. Il senato perde formalmente poteri decisionali in favore di quelli consultivi, men-tre il direttore amministrativo (ora direttore generale) diviene nei fatti responsabile dell’intera gestione dell’ateneo. Numerose sono infine le competenze del consiglio di amministrazione con riferimento in particolare all’or-ganizzazione dell’offerta didatti-ca, la programmazione triennale dell’ateneo e le decisioni relative al personale.

È stato segnalato da più parti come il modello di governance disegnato dalla legge Gelmini risulti un ibrido solo in parte riconducibile all’esempio anglo-sassone. In particolare, sembra venga a mancare nel caso italia-no un sistema di controlli interni presente invece sia nel caso ame-ricano che in quello inglese. Nel primo “il CdA ha potere di con-trollo e non di gestione che viene invece affidata ai middle manager (nominati dal CdA ma di estra-zione accademica)”, mentre nel sistema britannico è di rilievo il

ruolo dei dipartimenti che fun-gono come rappresentanti della gestione accademica secondo il modello della governance condi-visa (shared), dove il potere degli accademici è bilanciato dal pote-re di controllo esercitato da sog-getti esterni (i membri laici del Cda). Questo sistema di check and balances si applica attraverso una divisione di ruoli nel quale il rettore rappresenta l’esecuti-vo, nel senato sono rappresen-tati i docenti e nel Cda gli altri stakeholder. Dunque il Cda non entra nel merito delle questioni strettamente accademiche se non per verificarne la correttezza e per contro funge da mediatore con il mondo esterno per i diver-si rapporti col territorio e le re-lazioni finanziarie. Per contro, la legge Gelmini sembra attribuire largo potere agli amministratori, cioè al Cda (che fra l’altro non è tenuto a considerare vincolanti i pareri del senato) mentre manca

un organo in grado di farsi garan-te degli interessi della società (il board of trustees). Il Cda del resto nella sua parziale apertura verso l’esterno non rappresenta tutti gli stakeholder, e il sistema di check and balances appare limitato dal potere del rettore di influire sulla nomina dei membri esterni dello stesso Cda : ne deriva la difficol-tà nel definire complessivamente ruoli e poteri dei diversi organi componenti la governance dell’a-teneo e in conseguenza la reale attribuzione di responsabilità nel processo decisionale.

Una serie di caratteristiche proprie alle storiche differen-ze che sin dall’origine hanno separato i sistemi d’istruzione superiore anglosassoni da quelli dell’Europa continentale (larga-mente influenzati dal centralismo napoleonico e dal modello hum-boldtiano dell’autoreferenzialità) rendono peraltro non applicabile al nostro sistema la governance anglosassone, specialmente se proposta secondo le modalità neoliberiste del New Public Ma-nagement. È per questo motivo che la proposta contenuta nel-la legge 240/10 rappresenta un ibrido con contraddizioni e com-promessi che rendono difficile la gestione interna dei processi decisionali e complessi i rapporti con il mondo esterno.

Intanto è opportuno ricordare che “il governo dell’università deve essere esercitato tenendo presente la funzione pubblica volta non solo ai fruitori diretti dell’attività di formazione e ricer-ca, vale a dire studenti, docenti e ricercatori, ma anche ad una va-sta platea di soggetti, quali co-munità locale, imprese, ecc.” ci ricordano Megalì Fia e Lorenzo Sacconi in Autonomia e respon-sabilità sociale dell’università (Giuffrè 2013). Da questa pro-spettiva deriva la considerazione per il ruolo attivo dell’università nello sviluppo socio-economico della collettività e dunque l’im-patto nella produzione di beni e servizi sull’insieme di quegli individui che hanno interessi a vario titolo per le attività dell’u-niversità.

Nel proporre un modello di governance dell’università alter-nativo a quello anglosassone e a quello contenuto nella legge 240/10, Fia e Sacconi distin-guono due tipi di stakeholder: Docenti, ricercatori, studenti di dottorato apparterrebbero alla categoria di narrow stakeholder dato il loro ruolo centrale nello svolgimento delle funzioni essen-ziali dell’istituzione, e altrettanto si può dire del personale tecnico e amministrativo e degli studenti in generale. Per contro, finanzia-tori, fornitori di servizi e imprese costituirebbero i wide stakehol-der. Dall’enfasi sui portatori di interessi deriva il modello di go-vernance multi-stakeholder che si contrappone al modello manage-riale basato sul controllo esterno (modello “principale-agente”). L’alternativa è rappresentata dal-la considerazione che “l’univer-sità è un’istituzione fondamen-talmente autonoma, vincolata da doveri fiduciari verso i suoi stakeholder. Doveri che derivano dal principio del contratto socia-le equo tra tutti gli stakeholder e la cui governance rende effettivi tali doveri fiduciari, ed i corre-lati obblighi di accountability”. Simile governance prevede che ricercatori, docenti, studenti e personale tecnico-amministrati-vo siano depositari legittimi del potere decisionale, mentre fami-glie, comunità scientifica esterna, finanziatori, mondo del lavoro e delle imprese, comunità locale abbiano funzioni di verifica. Una tale architettura di governance si ispira chiaramente al principio della distribuzione dei poteri e dei controlli (checks and balan-ces) tra i diversi organi che costi-tuiscono il governo dell’ateneo e si basa sull’idea di contratto so-ciale fondativo dell’università. n

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R. Moscati insegna sociologia dei processi culturali all’Università di Milano Bicocca

I libri

Governare le università. Il centro del sistema, a cura di Chiara Bologna e Giovanna Endrici, pp. 264, € 20, Il Mu-lino, Bologna 2011

Il costo dell’ignoranza. L’uni-versità italiana e la sfida Eu-ropa 2020, a cura di Gilberto Capano e Marco Meloni, pp. 319, € 25, Il Mulino, Bologna 2013

N. 6 42del la scuola

Laureati con ipoteca negli Stati Unitidi Bruno Cartosio

Si può scegliere la classifica che si vuole (le più comunemente

usate sono tre) ma “quelle” uni-versità statunitensi sono sempre lì: Harvard, il Massachusetts In-stitute of Technology e il Califor-nia Institute of Technology, Stan-ford, Yale, Princeton, Columbia, Johns Hopkins, University of Ca-lifornia-Berkeley e alcune altre si scambiano di posizione a secon-da degli anni e dei dipartimenti cui si presta maggiore attenzione, ma stanno sempre tra le prime quindici. In ogni caso, secondo il QS World University Ranking, diciannove università statuniten-si stanno nelle prime cinquanta del mondo; per il Times Ranking

sono trenta su cinquanta; per l’Academic Ranking di Shanghai sono trentacinque su cinquanta. Tutte le classifiche sono rintrac-ciabili in Internet.

Quale che sia poi l’analisi nel dettaglio, il dato più rilevante è il più elementare: l’eccellenza abita negli Stati Uniti. Delle “research universities” che la incarnano e dei problemi connessi con il suo mantenimento scrive Jona-than Cole. Ma quell’eccellenza non implica che l’educazione di livello universitario negli Stati Uniti sia eccellente nel suo com-plesso. L’evoluzione del sistema e le riduzioni dei finanziamenti hanno messo in crisi in partico-

lare l’università pubblica, come scrive Christopher Newfield. Tutte le tes-sere dell’intero mosaico universitario nazionale vengono classificate an-nualmente, e impietosa-mente, da “U.S. News and World Report” e riportate nel sito della rivista.

I college e le universi-tà che hanno titolo per entrare nelle classifiche citate erano 2774 nel 2010, secondo il Digest of Education Statistics. Ma, per esempio, Stan-ford ha poco meno di sedicimila studenti, Har-vard poco più di ven-timila, il Mit meno di dodicimila e così via. La Columbia University di New York ne ha 26.500, e sul suo sito viene spe-cificato che quei 26.500 “sono 25.554 in più della media di tutti i college e le università” degli Stati Uniti. Questo vuol dire che la popolazione stu-dentesca che frequenta il numero ristrettissimo di università di vertice è una frazione quasi infini-tesimale dell’intera popo-lazione universitaria, che nel 2011 era di ventuno milioni. La quasi totalità degli studenti che si di-stribuisce in tutte le altre frequenta istituzioni i cui livelli di qualità (di docenza, di strut-ture, di servizi e di dimensioni) variano enormemente e, in gene-rale, puntano verso il basso.

Il sistema è complesso e assai diversificato. Nell’estate 2007, la rivista di studi nordamericani “Ácoma” dedicò un intero fa-scicolo all’analisi sia degli aspet-ti strutturali, sia dei caratteri culturali-politici del sistema e dei suoi problemi. Di esso qui si possono tracciare soltanto alcune linee essenziali. Esistono, come è noto, università pubbliche (672; i cui finanziamenti, in forte calo, provengono in gran parte dai singoli stati) e private (2102; i cui finanziamenti pubblici sono una

parte minore dei loro bilanci; tra queste, 1539 sono istituzioni “non profit” e 563 “for profit”). In generale queste istituzioni of-frono corsi undergraduate, che portano al diploma di primo li-vello (Bachelor degree); graduate fino al Master e post-graduate fino al Ph. D. Esistono poi altri circa 2000 Junior o Community o Technical colleges che offrono corsi biennali di varia natura e di livello variabile.

Nelle università di élite private le tasse di iscrizione sono molto alte, e quando includono anche l’alloggio superano i 40-50.000 dollari annui. Sono via via meno alte nelle pubbliche, a seconda del loro livello di eccellenza, del-le più o meno generose politiche

statali e della provenienza degli studenti: per i resi-denti nello stato la tuition è in genere molto più bas-sa che per gli out-of-state students. Dappertutto, secondo regole e dispo-nibilità diverse, vengono offerte borse di studio, fa-cilitazioni di varia natura e residenze studentesche nel campus o nelle sue vici-nanze. Nelle università più prestigiose l’ammissione è soggetta a prove e valuta-zioni in cui contano sia le capacità, sia il curriculum con cui l’aspirante si pre-senta.

Dati i costi per molti insopportabili delle spese universitarie anche in mol-ti istituti pubblici, lo sta-to federale ha istituito da anni un fondo federale che elargisce prestiti agli stu-denti. Le sue dimensioni arrivano, complessivamen-te, a un trilione di dollari e, per il singolo studente, a un debito quasi sempre superiore ai 30.000 dollari. La ricaduta negativa di tale “aiuto”, a cui accedono sette su dieci graduate stu-dents, è il prolungamento negli anni (spesso nei de-cenni successivi alla fine degli studi) del processo della restituzione: Barack Obama ha dichiarato la

sua sensibilità per tale problema, avendo finito di ripagare il suo debito solo poco tempo prima di diventare presidente. In questi ultimi anni di crisi economica e di difficile accesso al mondo del lavoro le mancate restituzioni hanno avuto un’impennata; nel 2013, come scrive John Echinger di “Bloomberg”, sono arriva-te all’11 per cento. Ed è contro questa ipoteca sul proprio futuro che ha preso corpo, parallela-mente, un diffuso e combattivo movimento di studenti. n

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B. Cartosio insegna storia dell’America del nord All’Università di Bergamo

Libri, articoli e siti

Richard Arum e Josipa Roksa, Academically Adrift: Limited Lear-ning on College Campuses, University of Chicago Press, 2011.

William G. Bowen, Matthew M. Chingos e Michael S. McPher-son, Crossing the Finish Line: Completing College at America’s Pu-blic Universities , Princeton University Press, 2011.

Jonathan R Cole, The Great American University: Its Rise to Pre-eminence, Its Indispensable National Role, Why It Must Be Pro-tected, Public Affairs, 2010.

Il sistema universitario negli Stati Uniti, numero speciale di “Áco-ma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”, XIV, 34, 2007.

David Montgomery, The Cold War and the University, New Press, 1997.

Christopher Newfield, Unmaking the Public University: The Forty-Year Assault on the MiddleClass, Harvard University Press, 2011.

Naomi Schaefer Riley, The Faculty Lounges: And Other Reasons Why You Won’t Get The CollegeEducation You Paid For, Ivan R. Dee, 2011.

http://www.bloomberg.com/news/2013-05-23/overdue-student-loans-reach-record-as-u-s-graduates-seek-jobs.htlm.

http:///www.theguardian.com/money/us-money-blog/2013/dec/06/student-loan-debt-minimum-poverty-wage-jobs.

http://projectonstudentdebt.org.

L’“Indice della scuola”, per poter essere più agile e tempestivo nelle recensioni dei li-bri, ma al tempo stesso mantenersi adeguato a trattare argomenti complessi, sta cambiando la frequenza delle sue presenze sull’“Indice dei libri del mese”.

Per cogliere il primo obiettivo la trimestra-lità è un ostacolo, meglio la presenza di una pagina dedicata alla scuola su tutti i numeri dell’“Indice”; per il secondo, invece, la di-spersione di un numero su diversi argomenti non aiuta ad approfondire i temi: è oppor-tuno tre volte all’anno, in marzo, giugno e novembre, dedicarci a numeri monografici, come abbiamo già fatto nel marzo scorso trat-tando dei libri di testo e in questo numero dedicato all’università, comparando modelli europei e tendenze in atto.

Speriamo che i nostri lettori apprezzino e condividano questa scelta, ma siamo aperti, come sempre, a ogni critica e suggerimento.

Vincenzo Viola

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