Indiana Jones e il Cinema di Animazione

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Il caffè dei filosofi n. 21 Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna COMITATO SCIENTIFICO Paolo Bellini (Università dell’Insubria, Varese) Claudio Bonvecchio (Università dell’Insubria, Varese) Pierre Dalla Vigna (Università dell’Insubria, Varese) Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste) Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

Transcript of Indiana Jones e il Cinema di Animazione

Il caffè dei filosofi

n. 21

Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università dell’Insubria, Varese)Claudio Bonvecchio (Università dell’Insubria, Varese)Pierre Dalla Vigna (Università dell’Insubria, Varese)Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste)Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

LA FILOSOFIADI INDIANA JONES

A cura diClaudio Bonvecchio

MIMESISIl caffè dei fi losofi

© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Il Caffè dei filosofi, n. 21 www.mimesisedizioni. it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: [email protected]

INDICE

PREMESSA di Claudio Bonvecchio p. 7

INDIANA JONES: UN UOMO, UN MITO di Claudio Bonvecchio p. 11

INDIANA JONES: LE DIVERSE PROSPETTIVE DELL’AVVENTURA di Paola Bonvecchio Yachaya p. 51

INDIANA JONES E L’EGITTO

di Luca Daris p. 61

INDIANA JONES E IL CINEMA DI ANIMAZIONE di Giorgio E. S. Ghisolfi p. 77

L’ENGLISHNESS LINGUISTICA E CULTURALE DI INDIANA JONES di Kim Grego – Alessandra Vicentini p. 107

L’ARCA DELL’ALLEANZA di Elio Jucci p. 135

L’AVVENTURA ESOTERICA DI INDY, DAL GRAAL AL NAZISMO MAGICO di Errico Passaro p. 149

UN COMPITO PER L’ARCHEOLOGIA.IMMAGINI DEL SACRO IN INDIANA JONES di Roberto Revello p. 163

LA VERITÀ AMA NASCONDERSI.METAFORE DEL DOPPIO IN INDIANA JONES di Fabrizio Sciacca p. 185

LE AVVENTURE DI INDIANA JONES:UNA PERICOLOSA CONTRAFFAZIONE di Adriano Segatori p. 205

INDIANA JONES FRA ARCHEOLOGIA, ARTE E ARCHITETTURA di Andrea Spiriti p. 213

IL MONDO IMMAGINATO DI INDIANA JONES:IL MITO DELL’EROE E DELLA SUA ANIMA di Teresa Tonchia p. 221

GLI AUTORI p. 265

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GIORGIO E. S. GHISOLFI

INDIANA JONES E IL CINEMA DI ANIMAZIONE

1. Indiana Jones e l’animazione che non c’è

Sin dai primi anni ’90 l’aggressivo e iperproduttivo mondo dell’enter-tainment americano ha rovesciato sul mercato cinematografi co internazio-nale una manciata di termini tecnici come sequel, prequel, spin off, insieme ad altri quali merchandising, gadgeting, publishing, ad indicare prodotti derivati da un primo fi lm originale e di grande successo. Tali voci, ormai note agli adolescenti tanto quanto ai professionisti del settore, sono impre-scindibili nell’economia di un budget e fi gurano in qualunque contratto di produzione, costituendo ciascuna un profi tto pari se non superiore agli incassi diretti del fi lm stesso.

La saga di Indiana Jones si è rivelata uno di questi successi. Un fe-nomeno planetario in grado di reggere la sfi da del tempo, tanto è vero che a distanza di quasi vent’anni dal terzo episodio ne è stato prodotto un quarto (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull, 2008)1 e un quinto è atteso nel prossimo futuro2, a dispetto dell’incalzante età di Harrison Ford3. Ideatore, nonché produttore della serie, è l’eclettico ed accorto George Lucas, autore di una delle prime grandi saghe della storia del cinema come Star Wars (1977), uno dei più grandi successi di tutti i tempi. Dal “maiale” stellare è stato tratto di tutto, dai sequel ai prequel, ai

1 Nonostante il mondo cambi, Indiana Jones resta ancorato alla tradizione: per il quarto episodio Spielberg ha voluto girare in pellicola e montare in moviola come per i primi tre fi lm, anziché lavorare con supporti digitali. Tradizione anche negli ingredienti, seppur con una concessione alla passione di Lucas per la fantascienza. Tradizione anche nella mancanza di sangue, cosi poco di moda oggi, eppure – a guardare gli incassi – del tutto ininfl uente: potenza del personaggio, rimasto – ruga più ruga meno – fedele all’originale.

2 Riportato dal sito www.showbizspy.com il 13 Novembre 2010: «It’s on George’s plate, and I’m hoping he’s working hard at it, because I’d look forward to doing it again, if the three of us could get together, George, Steven Spielberg, myself, I’d love to do another».

3 Harrison Ford è nato a Chicago nel 1942.

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remake digitali; dal merchandising (cancelleria, articoli scolastici, giochi e giocattoli), al gadgeting (collectibles, action fi gures, fi gurine, carte da gioco, adesivi) 4 al publishing (novelization, romanzi, fumetti), agli spin-off: la serie TV animata a tecnica tradizionale, quella in animazione con protagonisti C-3PO e R2-D2 (Droids, 1983-85), sino al fi lm interamente in computer animation 3D Star Wars: The Clone Wars (2008) e alla omo-nima serie TV da esso derivata.

L’alchimista Lucas ha sfruttato ogni opportunità per trasmutare in oro qualunque pezzetto del prodotto originale. Non diversamente poteva fare per Indiana Jones: sul mercato è possibile acquistare dai tipici capi di ab-bigliamento come il cappello e la frusta ai modellini dei mezzi guidati da Indy nelle sue avventure, dai fumetti sino alle action fi gures, ai video ga-mes. Dai fi lm è stata tratta anche una intelligente ed accattivante serie TV, The Young Indiana Jones Chronicles (1992-93).

Tuttavia c’è qualcosa che centinaia di migliaia di fan in giro per il mon-do stanno ancora aspettando: una serie TV in animazione.

Indiana Jones animato non esiste, né in tecnica tradizionale, né in tecni-ca digitale. Un simile dato di fatto, in un contesto dominato dall’idea del business come quello hollywoodiano, rappresenta davvero un caso anoma-lo. Come mai un tale successo non è stato messo a frutto sino in fondo? Forse una indagine di mercato ha dato esito negativo?

Probabilmente la chiave dell’enigma risiede nel personaggio. Una analisi comparativa dei prodotti lucasiani evidenzia come mentre

in Star Wars sia presente una collettività di protagonisti, in Indiana Jo-nes il protagonista sia uno ed uno solo: Indiana Jones appunto, il quale si identifi ca, ancor più del detective Deckard di Blade Runner, ancor più del professor Kimble de Il Fuggitivo, ed ancor più del capitano Han Solo di Star Wars, nell’attore Harrison Ford. Valgano le parole di Lucas all’indo-mani del successo del quarto episodio della saga: «Harrison Ford è Indiana Jones. Se non c’è Indy non c’è nemmeno il fi lm»5. I colleghi attori, come lo stesso Spielberg, concordano nel dire che Ford calza i panni di Indy con una naturalezza estrema, a testimoniare un elevatissimo grado di identi-tà col personaggio, un vero e proprio alter ego al quale Ford dimostra di

4 I prodotti collectibles: tutto ciò che è oggetto di collezionismo, ma il termine è più spesso riferito alle statuette in resina – molto dettagliate – che ritraggono uno o più personaggi in posa; come pure alle action fi gures, pupazzi snodati in plastica con abbigliamento in tessuto eredi del Ken (1961) muscolare compagno della fi liforme Barbie (1959).

5 «Harrison Ford is Indiana Jones. And if there’s no Indy, there’s no movie». The Huffi ngton Post, 7 agosto 2008, riportato dal sito www.huffi ngtonpost.com.

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essere molto affezionato. Sembra infatti che proprio da lui sia partita la sollecitazione alla realizzazione del quarto episodio. Spielberg aggiunge che la forza di Indiana Jones si fonda anche sul talento recitativo di Ford6. A riprova del decisivo contributo dell’attore nel costruire il personaggio e del suo successo – la cui portata non poteva essere prevista agli esordi – v’è la decisione di Lucas di cambiare il titolo dei fi lm seguenti, legandoli alla fama del personaggio. Persino il primo: Raiders of the Lost Ark (1981) diventa Indiana Jones and The Raiders of the Lost Ark al momento della uscita in home video. Un nome, un marchio. È nata la franchise7 Indiana Jones, basata sulla forza del personaggio.

Il legame identitario Indiana Jones-Harrison Ford emerge indirettamente anche da quanto dice l’attore su Han Solo: «Non lo trovavo un personaggio particolarmente interessante»8. Viceversa afferma:

[…] Ci sono ruoli che valgono una rivisitazione: ciò accade quando la sto-ria permette una ulteriore comprensione del personaggio, approfondisce il tuo legame con lui e ti porta in un territorio nuovo e inatteso. Alcuni personaggi si staccano nettamente dalla massa, altri non sopravvivono al fi lm.9

È evidente che si tratta di parole facilmente riferibili a Indiana Jones. Da tutto ciò si potrebbe dedurre che – in quanto insostituibile per il ruolo

–, l’attore Ford si trovi in una posizione di forza nei rapporti contrattuali con la Lucasfi lm, produttrice dei lungometraggi. Il coinvolgimento di Ford nella produzione è infatti indirettamente testimoniato dalle interviste rila-sciate da Lucas, che parla della saga come di una franchise, ovvero di una attività imprenditoriale legata ad un marchio, Indiana Jones propriamente, nella quale è ormai lecito supporre che i soggetti legalmente coinvolti sia-

6 Fu Spielberg a convincere Lucas ad impiegare l’interprete di Han Solo anche per il ruolo di Indiana Jones; così come ad impiegare Sean Connery per la fi gura del padre in The Last Crusade, opponendo ai timori di Lucas circa i possibili rifl essi negativi della notorietà di James Bond il fatto che, sotto il profi lo creativo, proprio Bond poteva essere considerato il “padre” del personaggio Indy (vedi nota 16). Intervista dal DVD della quadrilogia, edizione italiana, Lucasfi lm, 2008.

7 Franchise è il termine con cui si designa un insieme di prodotti raggruppati sotto lo stesso marchio, che possono essere realizzati da terzi dietro licenza.

8 «As a character he was not so interesting to me». Citato da www.showbizspy.com, 13 Nov. 2010.

9 «[…]There are characters that it seems to me are worth re-exploring given that the story advances your understanding of the character, deepens your relationship to that character and takes you into an area that’s new and unexpected. Some characters are decidedly one off kind of characters. Some characters don’t outlive the movie». Intervista del 27 maggio 2008 riportata da Daily Stab, www.dailystab.com.

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no tre: Lucas, Spielberg e Ford, appunto. Si vedano le parole di Lucas sul quarto fi lm riportate dal London’s Times Online del 28 luglio 200810:

In effetti si è trattato di una sfi da: sia per la creazione della storia che nel mettere tutti d’accordo sulla stessa. Il lavoro su Indiana Jones si complica quando ci sono altre due persone che dicono “io lo voglio così” e “io lo voglio cosà”, mentre la prima volta che lo feci dissi semplicemente ‘lo faremo così’, e fu molto più facile. Adesso devo accontentare tutti perché sono personaggi noti e di successo e ciò pone delle diffi coltà sul livello pratico.

Ai fi ni della nostra indagine ciò signifi ca che Ford da un certo momento in poi – forse già col secondo fi lm – ha acquisito voce in capitolo sulla gestione del personaggio. A questo punto la possibilità, ventilata da Lucas, di produrre una serie TV animata di Indiana Jones sul modello degli epi-sodi tratti dal fi lm Star Wars: The Clone Wars11, interamente realizzato in computer animation 3D, con l’impiego di un alter ego digitale dell’attore nei panni di Indy, trova Ford piuttosto freddo. Il Los Angeles Times del 03 ottobre 200812, giorno della prima degli episodi citati, riporta le sue parole in proposito:

Non sono contrario ai personaggi in animazione tranne che per Indiana Jo-nes. Non sopporterei di vederlo ridotto a qualcosa di diverso dai fi lm che ab-biamo fatti e dal modo in cui li abbiamo fatti.

Il timore di Ford non è solo di natura artistica: è quello di veder distorta – se non addirittura compromessa – la sua “creatura”; creatura che rappre-senta – dopo quanto detto – una parte di sé. E questo non contrasta ma anzi si addice ad un personaggio, Indiana Jones, che trova la sua forza negli archetipi: al punto di condizionarne l’interprete. Ford vuole per sé il suo personaggio, vuole controllarlo e proteggerlo da ciò che può rappresentare una manipolazione: come il disegno, che sia manuale o digitale.

10 Lucas si riferisce a Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull (2008): «Really, though, it was a challenge getting the story together and getting every-body to agree on it. Indiana Jones only becomes complicated when you have another two people saying “I want it this way’ and ‘I want it that way”, whereas, when I fi rst did Jones, I just said, “We’ll do it this way” — and that was much easier. But now I have to accommodate everybody, because they are all big, suc-cessful guys, too, so it’s a little hard on a practical level».

11 Uscito nelle sale il 15 agosto 2008.12 «I’m not philosophically against doing animation roles but not for Indiana Jones.

I’d hate to see it reduced in any way from the movies that we have done and the way we have done them». Citato da www.moviehole.net.

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Da qui ad ipotizzare il veto di Ford sui prodotti in animazione il passo è breve. Ecco spiegato l’arcano. Lucas deve aver faticato non poco nel mandar giù un boccone indigesto come la rinuncia ad una serie TV di si-curo successo. Il consenso alla realizzazione di fumetti, di videogiochi e della serie TV The Young Indiana Jones Chronicles è probabilmente legato ad opzioni defi nite nel contratto del primo fi lm, quando il successo non era prevedibile e – soprattutto – il potere contrattuale di Ford era ancora limitato. È pur vero che sin dagli inizi tutte le confezioni dei prodotti deri-vati dalla saga riportano il volto del protagonista dei fi lm, ovvero Ford. Se all’interno il personaggio non è somigliante, questo poco importa: non è “vivo”. Viceversa un alter ego “vivente” creato con l’animazione potrebbe divenire un pericoloso rivale di quello cinematografi co e – indirettamente – rifl ettere la sua infl uenza sull’identità dell’attore nella realtà, deturpandola o quantomeno sottraendole una “parte di sé”.

Senza addentrarci nel complesso tema dell’identifi cazione tra attore e per-sonaggio, non si può tacere l’importanza dell’abbigliamento nel metodo reci-tativo. In maniera quasi feticistica ogni attore si impossessa degli indumenti e degli oggetti che connotano l’esistenza di un personaggio di fi nzione. Si tratta del “mascheramento” o “travestimento”, rito col quale è possibile non solo na-scondere la propria identità, ma anche rimpiazzarla con un’altra. Nell’antichità ciò avveniva per il tramite di una maschera raffi gurante una divinità di qualche tipo, i cui poteri venivano trasferiti a chi la indossava. Un rituale largamente praticato presso popoli non soltanto tribali ma anche pagani come i greci e romani, presso i quali la possibilità di “rivestire un ruolo” semplicemente in-dossando una maschera diventa una convenzione del teatro. E, ai giorni nostri, del cinema: senza che sia realmente necessario l’oggetto maschera. Ma il tra-vestimento con un cambio d’abbigliamento sì, quello resta indispensabile.

Dopo quanto esposto, risulta chiara non soltanto l’infl uenza dell’attore Ford sul personaggio Indy, ma anche quella del personaggio Indy su Ford.

Marie-Louise von Franz afferma: «[…] L’eroe è una fi gura archetipica che presenta il modello di un Io che opera in armonia con il Sé. […]Se si ascolta un mito di un eroe, ci si identifi ca in lui […]»13. E precisa: «[…] Il Sé è il fattore centrale regolatore della psiche inconscia». Il fatto di imper-sonare – diverse volte nel corso del tempo – un eroe potrebbe dunque por-tare un attore a identifi carsi con un simile modello. Si tratta di una lusinga non indenne da rischi, come esemplifi cato da un fi lm del 1994, The Mask14,

13 Marie-Louise von Franz, Le fi abe interpretate, Boringhieri, Torino 1984, pp. 57 e 72.14 The Mask di Chuck Russell vede l’esordio di Jim Carrey e l’innovativo impiego

della computer animation 3D per animare la maschera.

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nel quale una maschera prende il sopravvento sulla identità di un uomo e lo piega ai suoi voleri15. Che l’equazione Indiana Jones uguale Harrison Ford possa trasformarsi in una trappola è del resto documentato dalla più famosa equazione James Bond uguale Sean Connery (personaggio che – curiosa coincidenza – è all’origine della saga di Indy16): nel 1983, quando la serie era al culmine del successo Connery lasciò la produzione per il timore di restare intrappolato nel personaggio. Ciò decretò l’affermazione di Conne-ry in vari ruoli nel mondo del cinema, ma il personaggio di Bond ne risentì, come dimostra la serie dei poco convincenti successori.

Tuttavia un legame tra Indiana Jones e il mondo dell’animazione esiste. Sia nei fi lm che nei prodotti derivati quali i video games.

2. Indy e i trucchi del cinema: l’apporto dell’animazione

L’animazione ha sempre lavorato – nell’ombra – al servizio del cine-ma. Gli effetti speciali, i cosiddetti FX, le sono in buona parte debitori: un capitolo della storia del cinema per lungo tempo poco conosciuto al grande pubblico. È solo nell’era digitale, nell’epoca dei DVD, che insieme al fi lm compaiono gli extras, le bonus features, i making of, che portano il pubblico ad interessarsi ai dietro le quinte. Viene allo scoperto un mondo affascinante: un unicum dove arte, artigianato e industria si fondono ine-stricabilmente. Insieme ai molti segreti emerge anche il contributo dell’arte dell’animazione.

In realtà occorre distinguere tra effetti speciali ed effetti visivi: gli spe-cial effects (FX) o effetti speciali tradizionali sono quelli realizzati di-rettamente sul set con artifi ci meccanico/chimici. A titolo di esempio: le esplosioni, le scalfi tture delle pallottole, il sangue che schizza da un corpo, l’uccisione di un animale, il crollo di un ponte, l’infrangersi di una vetrina, la pioggia, il vento, la neve e simili. I visual effects (VFX) o effetti speciali visivi riguardano tutto ciò che – non potendo essere realizzato fi sicamente – viene visualizzato sulla pellicola in un momento posteriore alle riprese, nella fase di post-produzione, grazie all’impiego – sino a pochi anni fa – di tecniche fotografi che e di animazione. Esempi ne sono le scariche elet-triche, i fulmini, i raggi laser, disegnati a mano e ritagliati nel cartoncino

15 Cfr. Claudio Bonvecchio, La maschera e l’uomo, Franco Angeli, Milano 2002.16 Il desiderio che Spielberg confi dò a Lucas – reduce dal successo di Star Wars-

durante una vacanza alle Hawaii nel 1977 era infatti di realizzare un fi lm “in stile James Bond”: ne nacque Indiana Jones.

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nero17, oppure l’abbinamento di riprese diverse tra loro o combinate con l’animazione di disegni o di oggetti mossi fotogramma per fotogramma18 (Mary Poppins che balla coi pinguini; Superman che vola sulla città; Jes-sica Rabbit avvinghiata a Bob Hoskins) grazie alla tecnica del travelling-matte o del rotoscope-matte: mascherature realizzate a mano tramite il rotoscopio19. All’inizio degli anni ’90 le tecniche fotografi che e manuali dei VFX sono state progressivamente sostituite dalla tecnologia digitale, e si sono affermati programmi per l’animazione digitale tridimensionale20 e la pittura tridimensionale21, i cui risultati vengono combinati all’interno di una procedura detta “compositing”. L’ulteriore sviluppo dei cosiddetti “moduli particellari” ha permesso di ricreare in maniera realistica tutti i fenomeni meteorologici come pioggia, neve, nuvole, grandine, lampi, e gli elementi fl uidi o gassosi come acqua, fango, lava, sangue, fumo, fuoco.

Seguire la carriera di Lucas equivale a seguire l’evoluzione degli effetti speciali nel cinema dagli anni ʼ60 ad oggi. Lucas fu tra i pionieri della mo-derna industria degli effetti speciali, grazie ad una società appositamente co-stituita nel 1975, la Industrial Light and Magic (ILM), con sedi a Los Ange-les e a Londra, tutt’ora attiva, e che ha dato vita nel 1983 a quella che è oggi la notissima Pixar, passata nel 1985 a Steve Jobs e nel 2006 alla Disney.

La trilogia di Star Wars, più volte rimaneggiata dalla ILM nel corso di diversi anni a partire dal 1977, consente di instaurare analisi compa-rative. Possiamo contare su un elenco che va dalle opere originali, che si avvalevano di trucchi fotografi ci, a quelle rielaborate con animazioni in 3D ed effetti digitali, sino al recente fi lm realizzato interamente in computer animation 3D Star Wars: The Clone Wars (2008), che impiega solo attori

17 Ad esempio le spade laser in Star Wars.18 In inglese detta “frame by frame” o “stop-motion”. Ne sono esempio le animazio-

ni del mago dei trucchi Ray Harryhausen, per fi lm quali Jason and the argonauts (1963), The Clash of the Titans (1981).

19 Macchina brevettata da Max Fleischer nel 1917 ed utilizzata per il fi lm Gulliver’s Travel (1939) e poi costantemente in tantissime altre opere nella storia del cine-ma: permette di ricalcare con esattezza fotogramma per fotogramma immagini da riprese già effettuate, per successive elaborazioni. Molto usata per gli effetti visivi di Indiana Jones and The Last Crusade.

20 In inglese: 3D computer animation o CGI (Computer Generated Imaging). La sigla 3D non signifi ca stereoscopico ma si riferisce allo spazio virtuale generato dal computer e defi nito dalle tre coordinate x, y, z.

21 Le superfi ci modellate tridimensionalmente per apparire reali vengono “ricoper-te” con fotografi e o illustrazioni (textures): ad esempio il modello del fusto di un albero viene ricoperto da una immagine che ne riproduce la corteccia. Recenti programmi consentono di ottenere effetti qualitativamente migliori dipingendo direttamente gli oggetti all’interno dell’ambiente tridimensionale del computer.

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digitali22, passando per varie serie di videogiochi e tre serie animate: due realizzate tradizionalmente a mano, l’altra al computer.

Anche nella quadrilogia di Indiana Jones si ritrova il fondamentale ap-porto dell’animazione: nel climax di Raiders of the Lost Ark (1981) gli spi-riti e le lingue di fuoco che emanano dall’arca e travolgono i nazisti sono effetti speciali animati a mano.

Indiana Jones and the Temple of Doom (1984) utilizza la stop-motion23 per la famosa scena della discesa del carrello nella miniera. L’animazione “a passo uno” o stop-motion è la tecnica che consente di animare oggetti, per-sone o pupazzi variandone la posa dopo ogni singolo scatto della cinepresa. Costruito un set della miniera in miniatura – per modo di dire: quindici metri –, sul carrello vennero posizionati pupazzi riproducenti i personaggi, mossi fotogramma per fotogramma e ripresi – dati gli spazi ridotti del set –, con una macchina fotografi ca Nikon modifi cata. Dietro a tutto ciò, l’animatore Tom St. Amand e l’operatore Michael McAlister. La stop-motion compare anche nel terzo capitolo della saga, Indiana Jones and The Last Crusade (1989): l’aereo tedesco che si schianta nella galleria è un modellino mosso fotogram-ma per fotogramma su Blue Back24 e “compositato” sul paesaggio con una truka ottica25. Altrettanto per il dirigibile in volo.

22 Si tratta della cosiddetta 3D computer character animation. In effetti anche qui – forse per le solite questioni di diritti d’immagine – i personaggi ricordano ma non riproducono i volti degli attori della saga. Tuttavia The Clone Wars si pone nella scia delle ricerche compiute dai coniugi Thalmann alla fi ne degli anni ʼ80 presso il dipartimento di informatica dell’Università di Ginevra, cui si devono i primi tentati-vi di realizzare cloni digitali di Marylin Monroe e Humphrey Bogart, nel dichiarato tentativo di perpetuare i miti (e lʼeconomia) dello star system hollywoodiano. Si trattava di una tra le tante possibilità che all’epoca la cornucopia digitale lasciava intravvedere, e che tuttavia richiese – soprattutto per la resa realistica dei tessuti, dei capelli e della cute umana – ancora lunghi anni di ricerche e sviluppo. Ma più che la ricerca accademica poté il mercato: pietre miliari del cinema digitale come Jurassic Park (1993), Toy Story (1995), e ancor più la recente trilogia de Il signore degli Anelli (2001-2003) di Peter Jackson con il personaggio del Gollum ed il successivo, convincente King Kong (2005), hanno avvicinato l’obbiettivo dell’attore digitale, centrato infi ne dallo stupefacente Avatar (2009) di James Cameron.

23 Nel caso specifi co si tratta della go-motion™, una evoluzione della stop-motion sviluppata dall’animatore Phil Tippett per The Empire Strikes Back nel 1980.

24 Blue Back o Blue Screen e Green Screen: procedimento fotografi co-digitale che utilizza fondali blu o verdi per isolare il soggetto ripreso e abbinarlo a qualsivoglia scenografi a.

25 Truka o stampatrice ottica: macchina che permette di abbinare su una terza pel-licola due riprese differenti. Tutta la saga di Star Wars si basa sull’utilizzo mas-siccio della truka. Le lavorazioni effettuate in truka sono state oggi sostituite dal compositing digitale.

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L’animazione fornisce un ulteriore strumento, canonizzato da Disney e impiegato – tra gli altri – da Hitchcock: lo storyboard. Si tratta, in parole semplici, del fumetto della sceneggiatura e visualizza, sotto forma di vignet-te, tutte le inquadrature del fi lm: un canovaccio visivo che, nella fase di pre-produzione – prima delle riprese vere e proprie –, consente la verifi ca della intera struttura narrativa e delle soluzioni visive. Spielberg lo ha utilizzato nei primi tre fi lm della saga per poi passare, ne Indiana Jones and the King-dom of the Crystal Skull, alla cosiddetta pre-visualizzazione. Quest’ultima consiste in un fi lmato realizzato al computer – sulla base dello storyboard – in animazione tridimensionale, a bassa risoluzione26, dove gli ambienti sono visualizzati da semplici solidi geometrici ed i personaggi poco più che burat-tini modellati con poligoni. Il fi lmato viene sviluppato per la lunghezza effet-tiva del fi lm, e comprende i movimenti di macchina, le azioni dei personaggi, animati in maniera semplice, ed alcuni effetti speciali. Il regista può così decidere tanto l’opportunità che l’effi cacia di una ripresa visualizzandola in modo virtuale prima di girarla effettivamente sul set con gli attori. Una volta approvata, la pre-visualizzazione diventa lo strumento per trasmettere all’in-tera troupe – ma principalmente al direttore della fotografi a ed agli attori – le intenzioni e le diffi coltà che ciascuna scena comporta.

Nello stesso fi lm è anche presente una complessa animazione in CGI: la scena dell’assalto delle formiche giganti. Qui si sfruttano appieno le poten-zialità del computer di generare automaticamente masse di individui identici, dalle medesime caratteristiche di comportamento, come la funzione di cam-minare, e di sottoporle a variabili casuali individuali, ad esempio relative alla direzione da prendere. L’animazione manuale, la cosiddetta Key Animation, viene impiegata in azioni particolari, come quando le formiche devono for-mare una pila l’una sull’altra per arrampicarsi sulla gamba dell’ agente Irina Spalko (l’attrice Cate Blanchett). La Key Animation è utilizzata anche per l’animazione dell’extraterrestre e dell’astronave aliena nel fi nale del fi lm. La volontà di stupire lo spettatore con ambienti esotici rimane una caratteri-stica imprescindibile dei fi lm di Indiana Jones, e da qui deriva il massiccio impiego di scenografi e 3D realizzate al computer per le ambientazioni nella giungla, in luogo dei matte paintings27 o delle tradizionali miniature.

26 Bassa risoluzione: l’immagine è defi nita da uno scarso numero di pixel, per eco-nomizzare i tempi di calcolo delle animazioni.

27 Matte paintings: scenografi e dipinte su tavola o vetro destinate ad integrare l’ef-fettivo contesto nel quale si muovono gli attori, molto usate in Star Wars come anche nella saga di Indiana Jones. Oggi sono dipinte digitalmente.

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3. I video games: una introduzione

Prima di addentrarci nel rapporto tra Indiana Jones e i video games, è opportuna una premessa di carattere generale. Il primo videogioco prodot-to e distribuito in serie è individuabile in Computer space progettato da Nolan Bushnell nel 1971 per la Nutting Company americana, primo arcade game28. Bushnell fonderà subito dopo la Atari, il cui primo prodotto, Pong, del 1972, versione elettronica in bianco e nero del gioco del ping-pong29, sarà un successo mondiale. Bushnell impiegherà poi due giovani studenti, Steve Wozniak e Steve Jobs – futuri fondatori di Apple – per sviluppare il gioco di abilità Breakout nel 1976.

I games nascono dunque come giochi di abilità, versione elettronica dei giochi da tavolo e da sala quali il ping pong, i fl ippers30, il tiro a segno; e come passatempo, succedanei dell’enigmistica e dei cruciverba. All’atto del-la nascita la grafi ca dei monitors è in bianco e nero: tanto concede la tecnolo-gia. L’immediato successo impone il passaggio al colore: nascono gli sprites, personaggi composti da pochi pixel colorati spostabili lungo i quattro assi, come testimoniato da alcuni famosi prodotti dell’epoca: Space invaders31, lanciato dalla giapponese Taito nel 1978 e Pac-man32 della Namco nel 1980. L’esigenza di diversifi care l’esperienza di gioco porta gli sviluppatori ad at-tingere al mondo dei miti e delle leggende: ne sono buon esempio Donkey Kong della Nintendo nel 1980 che vede Jumpman – un operaio di nome Mario –33 cercare di salvare la fi danzata Pauline dalle grinfi e di un gigantesco gorilla tra le strutture di un grattacielo in costruzione e The Legend of Zel-da34 del 1986, un fantasy che ha per protagonista un ragazzo, Link, che deve salvare la principessa Zelda dal cattivo Ganondorf, e la cui copertina reca il simbolo di una spada. Un tipico gioco da tavolo RPG (role playing game)

28 Gli Arcade games sono i giochi da sala – di solito macchine a gettone o moneta, posti in luoghi come fast food, stazioni di servizio, bar, stazioni, sale giochi – di-versi dalle consoles, concepite per essere abbinate ai televisori casalinghi.

29 Entrambi i prodotti di Bushnell erano stati preceduti dai videogiochi sperimentali Tennis for Two di Willy Higinbotham, 1958, e Spacewar di Steven Russel, 1961.

30 In inglese Pin balls.31 Ispirato al game sviluppato per Atari nel 1976 da Wozniak e Jobs: Breakout.32 Unico video game esposto allo Smithsonian Institute di Washington insieme a

Dragon’s Lair e Pong.33 Personaggio che venderà 40 milioni di copie con un suo proprio game: Super

Mario Bros.34 Alla data dell’Aprile 2010, il game The Legend of Zelda ha venduto oltre 59

milioni di copie.

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come Dungeons and Dragons35 dà origine a decine di video games basati sulle avventure fantasy, a partire da Dungeons & Dragons Computer Fan-tasy Game del 1981. Basato sul gotico medioevale popolato di eroi e draghi è Dragon’s Lair36 del 1986. Fra i mitologici troviamo anche Indiana Jones and the Fate of Atlantis del 1992. Ricordiamo poi Broken Sword: the Shadow of the Templars (1996); Valkyrie Profi le (1999) ispirato al folclore scandinavo; God of War (2005) tratto dai miti greci; Folklore (2007), un action-adventure game ispirato a tradizioni celtiche; Viking: Battle for Asgard (2008) intriso di leggende vichinghe. Come si vede miti, simboli e leggende entrano in gran numero a far parte dell’ universo dei video games.

Il mondo dei fumetti contribuisce con infi niti titoli tra cui Superman (1978), Smurfs (I Puffi ): Rescue in Gargamel’s Castle (1982); Spider-Man (1982); Snoopy (1984); Asterix (1993), Batman (1986), The Incredible Hulk (1994), Marvel Super Heroes (1997). Altrettanto succede coi cartoni animati: dagli anime37 giapponesi come dai cartoons americani si traggono numerosi titoli: Akira (1988), Who Framed Roger Rabbit (1988), Gundam: The Battle Master (1997), Cowboy Bebop (1998), Pokémon Puzzle League (2000), Digimon Rumble Arena (2001), Lupin the 3rd: Treasure of the Sor-cerer King (2002), The Flintstones in Viva Rock Vegas (2002), Astro Boy: Omega Factor (2003), Death Note Kira Game (2007).

Infi ne il cinema38, con titoli come E.T. the Extra-Terrestrial (1982), Rai-ders of the Lost Ark (1982), Adventures of Tron (1982), Rambo e Rocky Balboa (1987), Back to the Future (1989), 007 GoldenEye (1997), Harry Potter and the Philosopher’s Stone (2001), Enter the Matrix (2003), Pira-tes of the Caribbean (2003), The Lord of the Rings: The Battle for Middle-earth (2004), Star Wars: Battlefront (2004), Lego Star Wars: The Video Game (2005), Peter Jackson’s King Kong: The Offi cial Game of the Movie (2005), The Godfather II (2009).

Come si può desumere da questo sintetico elenco, quasi ogni fi lm ha trovato un corrispettivo sul mercato dei games. Insomma un universo che sin d’ora si

35 Dungeons & Dragons (D&D o DnD) è un role-playing game (RPG) progettato da Gary Gygax e Dave Arneson nel 1974.

36 Prodotto dall’americana Cinematronics: l’unico video game ad aver mai utilizzato vere sequenze animate – dirette dall’ex disneyano Don Bluth – anziché la grafi ca di sintesi. In termini estetici un vero outsider nell’epoca degli sprites.

37 Anime: termine giapponese indicante i disegni animati derivato dall’inglese animation.

38 È successo anche l’opposto, fi lm tratti dai games: Super Mario Bros. (1993), Mor-tal Kombat, (1995), Lara Croft: Tomb Raider (2001), Resident Evil: Apocalypse (2004), Final Fantasy: The Spirits Within (2001), Hitman (2007), Street Fighter: The Legend of Chun-Li (2009).

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intuisce sterminato e complesso, il cui debito nei confronti della mitologia e della storia è indubbio. La Storia – il passato – è infatti la grande protagonista dei games cosiddetti strategici, come Caesar (1992) e Civilization (1993). Non manca il presente simulato: nella cosiddetta realtà virtuale di Sim City (1989), The Sims (2000), e nella realtà “parallela” di Second Life (2003)39.

Per completare il quadro è opportuno conoscere anche le tipologie in cui si è venuto diversifi cando il mercato dei video games, con l’avvertenza che non esiste una classifi cazione univoca, per via delle molteplici interconnes-sioni tra generi tematici e modalità di gioco:

– Azione (vi appartengono le modalità punta-e-clicca o point-and-click di giochi come Myst; logici o puzzle solving a schermate singole detti anche graphic-adventures games: richiedono abilità logiche e manuali per superare ostacoli posti su livelli – ambientazioni – progressivi per diffi coltà, quali ad es. Donkey Kong e Indiana Jones and The Last Cru-sade; i cosiddetti sparatutto o fi rst-person-shooter: giocati in soggettiva, con in primo piano l’arma del giocatore, come ad es. Doom);

– Avventura (tecnicamente detti action games, in modalità platform: un percorso lineare ad ostacoli verso la meta, con visualizzazione 2D o 3D, ad es. Super Mario Bros. e Tomb Raider);

– Ruolo o RPG (Role Playing Game: il giocatore si sceglie un alter ego virtuale, detto Avatar, per combattere avversari da solo oppure online alleato ad altri giocatori residenti in varie parti del globo. In tal caso si parla di MOG o MMOG – Massive Multiplayer Online Games; ad es. The Lord of The Ring Online);

– Simulazione (militari o sportivi: corse di auto e moto, aerei, mezzi mili-tari); di combattimento corpo a corpo e arti marziali come i picchiaduro o Beat’m’Up quali Street Fighter, Mortal Combat);

– Strategico-gestionali (creare ed amministrare una famiglia, una città, una società, una civiltà, ad es. Civilization, The Sims, Caesar);

– Rompicapo e d’azzardo (i più semplici: rappresentano la versione digi-tale dei giochi di carte e dei cruciverba, come World Series of Poker).

– Intrattenimento (ne fanno parte ad es. Guitar Hero, che introduce all’uti-lizzo di strumenti musicali, e la piattaforma Nintendo Wii, che tramite una vasta gamma di prodotti sportivi e di intrattenimento permette una interazione dell’intero corpo del giocatore con il computer).

39 Second life della Linden Research non è propriamente un videogioco: è un simu-latore di realtà; permette di scegliere una identità a piacimento e condurre quoti-dianamente una vita virtuale parallela a quella reale.

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A questo punto, dopo la storia, la mitologia e le leggende, i fumetti ed il cinema, è lecito chiedersi se anche le fi abe siano rappresentate nei video-giochi. Una ricerca condotta sul Web mostra come i games basati su fi abe siano rari. Tra i pochissimi, i prodotti – esteticamente interessanti – della American McGee40: Alice, (2007) una versione horror di Alice nel Paese delle Meraviglie; Grimm, (2009) video games a episodi privi di lieto fi ne secondo una libera trasposizione dei racconti dei Grimm, ed il progetto The Path, versione splatter di Cappuccetto Rosso, mostrano chiaramente la direzione che impone il mercato.

Sembra dunque che le fi abe non rappresentino un genere letterario ido-neo alla trasposizione in video game. In effetti, benché al loro proposito il pedagogista Bruno Bettelheim dica che: «[…] miti e fi abe hanno molto in comune»41, a cominciare da un linguaggio simbolico e atemporale, è indubbio che le fi abe, rispetto ai miti, appaiano manchevoli di azione e di epica. Oggi risultano inoltre noiose e “buoniste”, poco aderenti alla realtà perché – secondo alcuni – poco crudeli. Il sito uffi ciale della serie di video games American McGee’s Grimm42 riporta testualmente:

Grimm ne ha abbastanza dei lieto fi ne, di favole senza sangue, cieca obbe-dienza, matrimoni insipidi, ricchezze, gloria e fortuna immeritate. Come ogni “bad boy” vuole di più: più passione, follia, vendetta e sofferenza. Più oscurità e differenza. Che male c’è? […] Dimenticate le sfi ancanti morali, le noiose lezioni di vita, lo starsene al calduccio. Le fi abe di Grimm sono come la vita: maleducate, brutali e brevi. E divertenti.

È un segno dei tempi. Trent’anni fa si cercò di mettere al bando le fi abe proprio per la loro crudeltà “gratuita”. È chiaro che la società produttrice di Grimm adotta una interpretazione letterale delle fi abe, che non ne indaga il signifi cato profondo, simbolico e atemporale: analogo appunto a quello dei miti. Una lettura miope che pretende sia necessario trasformare le fi abe in

40 Games progettati da American McGees, sviluppati dalla società Spicy Horse e distribuiti dalla Turner Broadcasting System.

41 Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli Saggi, Milano 2010, p. 30.42 Il sito uffi ciale http://grimm.spicyhorse.com/home-ms.html riporta: «Grimm is

sick of happy endings, bloodless romances, blind obedience, insipid weddings, unearned wealth, unmerited praise, and undeserved good fortune. He’s had enough! And, like every bad boy who’s had enough... he wants more. More pas-sion, madness, revenge – and misery. More darkness, and more difference. And what’s the harm? […] Forget the sap-sucking morals, the boring life lessons, the comfort from the cold. Grimm’s tales are like real life: nasty, brutish, and short. And funny».

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opere “horror” – seppur mitigate da una componente ironica – perché siano fi nalmente in grado di divertire e – anche – di insegnare qualcosa della vita. Rifl ettendo sui casi di stragi operate da studenti nei colleges americani e canadesi se ne potrebbe concludere che in effetti la vita è anche questo. Ma – fortunatamente – tali casi non sono che eccezioni all’interno della pacifi ca convivenza sociale.

Tuttavia quando leggiamo le parole di Bettelheim sulle fi abe, scritte nel lontano 1975: «[…] nessun bambino può fare a meno di desiderare un re-gno tutto suo»43, non possiamo evitare di pensare ai video games. Non sono in fondo il moderno regno della fantasia? Non incarnano sogni – fi nanche incubi – ad occhi aperti? La componente di magia nei video games è fon-damentale: il genere fantasy, predominante tra i games, è una commistione di storia, fi aba e leggenda nordica. Consente di vivere avventure e battaglie ambientate in una specie di medio evo perenne, atemporale: il c’era una volta delle fi abe.

Osserva Marie Louise von Franz: «“C’era una volta” […] indica che esse (le fi abe) si collocano fuori del tempo e dello spazio: il “nessun luogo” dell’inconscio collettivo».44 Il personaggio (player character) del video game rappresenta la trasposizione del giocatore nella realtà virtuale – un vero “nessun luogo” – e le sue straordinarie capacità diventano l’estensione di quelle della persona reale: un’operazione decisamente magica, fi abesca. Riportiamo integralmente il pensiero già citato di Bettelheim: «Sentendo acutamente le insoddisfazioni che provengono dal fatto di essere domi-nato dagli adulti […] nessun bambino può fare a meno di desiderare un regno tutto suo». Quanto abituale risuona la lamentela di genitori circa i fi gli “persi” per ore nei videogiochi? Non sembra allora rappresentare il videogioco proprio un tentativo di evasione, senz’altro dallo stress dello studio, ma anche e soprattutto dalla dipendenza dai genitori, un tentativo di emanciparsi dal ristretto ambito della famiglia di cui parla Bettelheim? In defi nitiva ci sembra che la fi aba – seppur non utilizzata esplicitamente –, ci metta molto del suo.

Certamente le ragioni del successo dei videogiochi sono molteplici. I giovani, interrogati, rispondono semplicemente che i games sono diverti-mento: offrono esperienze che non possono vivere nella vita reale. Rap-presentano l’offerta di un regno senza tempo dove possono rifugiarsi, al di fuori della realtà. Il che come abbiamo visto è vero. Ciò vale anche per la lettura di un libro: con una differenza rilevante: il videogioco permette

43 Bruno Bettelheim, op. cit., p. 125.44 Marie-Louise von Franz, op. cit., p. 35.

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l’azione, l’interazione. L’immersione totale in un altro mondo45. Il gio-vane può non solo rifugiarsi, ma anche sfogarsi, e alleggerire la carica ormonale che caratterizza la sua età e determina la sua aggressività, altri-menti rivolta al confronto fi sico, alla violenza, più sovente indirizzata allo sport. Nonostante quanto detto appaia come una operazione di isolamento dall’ambiente esterno, in primo luogo dalla famiglia, il game è anche un modo di partecipare ad un contesto globale dove trovare – nell’apparte-nenza ad un gruppo di gamers piuttosto che ad un altro – stimoli o confer-me ad una identità.

Non va dimenticata la più importante delle prerogative: il video game permette di essere protagonisti, cioè eroi. In linea generale, nei games, il giocatore è unico: solo come lo è l’Eroe. L’essere soli di fronte all’impresa è prerogativa dell’Eroe. Bettelheim annota: «L’eroe delle fi abe agisce per un certo tempo nell’isolamento, così come il bambino moderno si sente spesso isolato». E ancora: «[…] l’uccisore di draghi deve sempre essere giovane, come il bambino, e innocente»46. Joseph L. Henderson47 scrive: «La battaglia fra l’Eroe e il drago costituiva l’espressione simbolica di un processo di crescita» e, più avanti: «[…] il mito dell’Eroe costituisce il primo stadio nel processo di differenziazione della psiche».

Questo attribuisce un valore pedagogico ai games? L’eroe dei games procede verso un livello di coscienza più alto? I video games aiutano a di-ventare adulti? Ci basti dire che quanto esposto sin qui dà senso al fatto che i games piacciano a bambini e ragazzi. Senza troppe complicazioni: piac-ciono e basta. La tesi dei ragazzi è che il divertimento virtuale sia esente da morale: non è né buono né cattivo. Ovvero entrambi. Dipende dai punti di vista. Bene e male sono concetti relativi: come nell’Eroe. Si gioca nel ruolo che si vuole, contro se stessi, contro il computer o contro un avversario. Che l’avversario sia buono o malvagio non ha importanza: è semplicemen-te l’avversario. Anche la possibilità di vivere – seppur virtualmente –, un altro ruolo, più corrispondente ai desideri repressi, cedevole alle lusinghe della tentazione, al brivido dello stare fuori dalla legge, senza che questo abbia ripercussioni sul mondo reale, fa parte del fascino dei games. Ricor-diamo le nostre risposte alla domanda: cosa farai da grande? Erano: l’astro-nauta, il pompiere, il pilota. Ma la realtà si rivela meno eroica.

45 Grazie all’interattività il giocatore può raggiungere un grado di immedesimazione profondo (“immersion”) nel personaggio.

46 Bruno Bettelheim, op. cit., pp. 17 e 110.47 Joseph L. Henderson, Miti antichi e uomo moderno, in Carl Gustav Jung, L’uomo

e i suoi simboli, Tea Saggistica, Milano 2010, pp. 109 e 112.

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In tal senso un prodotto come Second Life è unico. Si tratta di un pro-gramma simulatore di realtà. Second Life è il nome di un mondo virtuale esistente nel Web, regolato da leggi simili a quelle reali, con una propria valuta circolante, al quale il giocatore può accedere acquistando un avatar, ovvero una identità, con la quale può condurre una vita quotidiana paral-lela a quella reale. Come tale è riservato ai maggiorenni. Non solo giova-ni studenti universitari dunque, ma anche stimati professionisti, avvocati, medici, banchieri possono dare corpo ai desideri più segreti impersonando fi nalmente l’astronauta o il pilota di formula uno. Ma più spesso i desideri sono altri, regolati da pulsioni istintuali inconfessabili. Un mondo dove – portando una maschera – è possibile fi nalmente smascherarsi. Un mondo dove, come si vede, fa capolino un archetipo importante: quello dell’ Om-bra, che trova un inaspettato spazio per emergere. Sta qui un’altra chiave del successo dei video games? Probabilmente si: nel suo non nascondere – come accade invece alla fi aba –, un mondo morale, per essere invece pura emozione, libera espressione di sé. O meglio: del Sé.

Tuttavia sulla positività o nocività dei games si discute da molto tempo; è fuor di dubbio che, mentre la maggioranza dei games sia “innocua”, ov-vero portatrice di valori condivisi dalla società e veicolati in un contesto di semplice intrattenimento, alcuni risveglino e alimentino attitudini aggres-sive e violente dell’essere umano, e la messa al bando di tali prodotti è re-clamata da diverse organizzazioni genitoriali internazionali. A tutela della salute esistono di norma sulle confezioni precise indicazioni sull’età di uti-lizzo, fornite da appositi enti internazionali quali l’ Entertainment Software Rating Board (ESRB) e il Pan European Game Information (PEGI), che però – per la loro effi cacia – richiedono di essere rigorosamente rispettate da venditori e acquirenti.

Bettelheim afferma: «[…] la psicanalisi e la psicologia infantile rive-larono quanto sia violenta, ansiosa, distruttiva e addirittura sadica l’im-maginazione di un bambino»48. Da qui derivarono le teorie che le fi abe alimenterebbero – proprio come le critiche di oggi ai video games – queste fantasie distruttive. I movimenti genitoriali oppongono alle fi abe criteri educativi basati su una razionalità che controlli le pulsioni dell’istinto. «Ma – prosegue Bettelheim – queste teorie che tendono a reprimere l’ES non funzionano»49. Bettelheim continua dicendo che nel nuovo impegnativo confronto con il mondo esterno «[…] il bambino può desistere da ogni ten-tativo e ritirarsi completamente in se stesso, distaccato dal mondo, a meno

48 Bruno Bettelheim, op. cit., p. 118.49 Ibidem, p. 119.

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che la fantasia non venga in suo soccorso»50. E non abbiamo già detto che è la fantasia il regno proprio dei video games?

Dunque ben venga il gioco che libera le fantasie dell’ES. Fantasie – è chiaro – che sono in primo luogo quelle degli ideatori dei games, come dimostra l’esempio American McGee. Tuttavia, si è chiarito, il game non è il luogo della rifl essione etica, morale, come lo è la fi aba, ma quello della logica e/o dell’azione. C’è un dio nei games? Diversamente da molte fi abe, sembra di no. Il bambino, il ragazzo non si interrogano su questo. Se c’è, questo dio è il giocatore, si vedano per l’appunto giochi come The Sims e Civilization51. Scrive infi ne Bettelheim52: «egli (il bambino) ha bisogno di idee sul modo di dare ordine alla sua casa interiore, per poter creare su tale base l’ordine nella sua vita […] ha bisogno di una educazione morale […]. Il bambino trova questo tipo di signifi cato attraverso le fi abe».

Con questo, ci sembra di poter concludere che prima di giocare ad un game occorra comunque conoscere le fi abe, portatrici di un insegnamento valido ancora oggi. Potranno allora bambini ed adolescenti dire più sicura-mente cosa è bene e cosa è male, sapranno discernere tra fantasia e realtà, i valori virtuali da quelli reali.

4. Indiana Jones: dai fi lm ai video games

Se da un lato la trasposizione di un soggetto cinematografi co in un vide-ogioco deve piegarsi a regole e limiti tecnologici, dall’altro l’intera epopea di Indiana Jones si dimostra perfetta per tale operazione. Gli ingredienti compongono la miglior ricetta dell’intrattenimento: esotismo, mito, avven-tura, azione, passione, sentimento, sagacia, ironia, divertimento (gli stessi protagonisti del fi lm sembrano divertirsi palesemente), con un accento sul fascino della storia e della scoperta.

Come è noto, i video games utilizzano la tecnologia dell’animazione, seppur con modalità differenti da quelle della produzione cinetelevisiva. L’avversione di Harrison Ford per l’animazione non ha impedito che sin dal primo fi lm nel corso dei decenni siano stati prodotti molti games basati sulla saga di Indiana Jones, sia originali che tratti dai fi lm. Come già detto, questa “eccezione” potrebbe essere attribuita ad una concessione relativa al

50 Ibidem, p. 123.51 Games strategico-gestionali che prevedono la creazione di nuclei sociali, dalla fa-

miglia sino ad intere comunità, da gestire in termini organizzativi ed economici.52 Bruno Bettelheim, op. cit., p. 11.

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primo contratto, steso in una epoca in cui sia la grafi ca che l’animazione dei video games erano talmente semplici ed elementari da non costituire peri-colo (nel senso di una potenziale distorsione) per l’immagine di nessuno. Tuttavia, come vedremo, sulla scia del cinema la tecnologia ha sviluppato per i games forme di grafi ca sempre più complesse, verso un iperrealismo che ha fi nito per coinvolgere anche il personaggio di Indiana Jones. Di seguito esaminiamo i principali – tra le decine di varianti realizzate – video games prodotti per la Indiana Jones franchise. I primi, dal 1982, rientrano nella tipologia dei giochi d’abilità punta-e-clicca (point-and-click graphic adventures), che utilizzano il mouse e sono basati sulla abilità logica per attraversare una serie di schermate – livelli – progressive per diffi coltà; viceversa i secondi, dal 1999, realizzati in 3D, appartengono alla tipologia adventure platform, che utilizza la tastiera o il joystick ed è basata su un unico percorso di gioco con ostacoli di diffi coltà crescente.

Mentre – a partire dal 1982 – Peter Langston organizza per George Lucas la Lucasfi lm Game, che diverrà LucasArts53 nel 1989, i primi video games tratti dalla saga vengono prodotti e distribuiti da altre società, come Atari e Mindscape. Il primo fi lm trova una pallida rievocazione – non compare neppure il nemico – nel primo game, per consoles: Raiders of the Lost Ark (Atari, 1982). Segue un arcade game dal soggetto originale: Indiana Jones in the Lost Kingdom (Mindscape, 1984). Nelle versioni per personal com-puter il supporto è il fl oppy disk: tanto basti, alla luce delle conoscenze at-tuali, ad esemplifi care i limiti tecnologici del tempo. La grafi ca infatti – nel primo game in particolare – è davvero elementare. Vengono poi pubblicati Indiana Jones and the Temple of Doom (Atari, 1985) che contiene inserti di dialoghi originali registrati dal fi lm, Indiana Jones in Revenge of the Ancients (Angelsoft/Mindscape, 1987), ambientato nel 1932 nel Messico azteco e Indiana Jones and the Last Crusade, il primo realizzato dalla neo-nata società di Lucas (Lucasfi lm Games, 1989), pubblicato sia come point-and-click (graphic adventure) game che come action game (platform); tutti distribuiti anche in set di fl oppy disk per computer Amiga, Atari, Amstrad ed anche Apple.

The Temple of Doom e The Last Crusade sono fi nalmente prodotti mu-tuati – con un grado di libertà suffi ciente a renderli imprevedibili – dai fi lm. La tipologia di gioco appartiene alla categoria punta-e-clicca, nella quale il giocatore ha il compito di indicare al personaggio sia il luogo in

53 Per Lucasfi lm Game e LucasArts cfr. Peter Langston http:/www.langston.com/LFGames/ ed anche David Fox http://www.next-gen.biz/features/a-short-history-lucasarts.

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cui spostarsi che l’azione da compiere e sia addirittura quale frase pro-nunciare ai suoi interlocutori, quest’ultime opzioni esercitabili tramite lo SCUMM system54, una interfaccia grafi ca rappresentata da un message box o dialogue box in calce alla schermata, la quale, proprio per questo, risulta ridotta in ampiezza e costringe ambientazioni e personaggi a dimensioni da miniatura. La grafi ca è semplice: personaggi e sfondi sono “piatti”, bidi-mensionali. In questa tipologia di gioco la cosiddetta quest (ricerca) riveste un ruolo fondamentale: l’eroe deve individuare nell’ambientazione un og-getto che lo farà progredire nella storia. Più che sull’azione, che arriverà in abbondanza nei games degli anni ʼ90, qui sono logica, astuzia e pazienza le componenti di gioco principali.

Benché le copertine esterne delle confezioni siano tratte dai manifesti dei fi lm con Ford e rendano il prodotto appetibile, nelle schermate di gioco il viso di Indiana Jones non è mai in primo piano, anzi il protagonista è sempre a fi gura intera, riconoscibile solo dalla postura e dall’ abbigliamen-to. Ciò accade perché i limiti tecnologici impongono ancora inquadrature “totali”, ovvero visioni d’insieme, con una risoluzione dell’immagine – e quindi dei suoi elementi: personaggi e ambientazioni – in termini di pixel estremamente bassa, data la scarsa potenza di calcolo dei processori. Anche il suono è digitale, ovvero midi55: sintetizzato dal computer al momento del gioco, in tempo reale56, con una resa in termini musicali dipendente dalla qualità del generatore di suoni inserito nel computer: come per la grafi ca, anch’essa alquanto ridotta.

Tuttavia la riconoscibilità del personaggio non è un problema: al mo-mento della creazione57 nel lontano 1979 Lucas lo ha avvedutamente dota-

54 SCUMM system (Script Creation Utility for Maniac Mansion): linguaggio di pro-grammazione sviluppato alla Lucasfi lm Games per il game Maniac Mansion.

55 Il MIDI (Musical Instrument Digital Interface) è uno standard creato per lo scam-bio di dati digitali fra strumenti musicali elettronici e fra questi e il computer. Mentre in un fi le audio viene registrato integralmente il suono di una sorgente, in un fi le midi sono memorizzati solo i segnali digitali relativi alla esecuzione delle note, che saranno riprodotte da un generatore di suoni (uno strumento o un computer).

56 Il termine “tempo reale” nasce con la tecnologia dei computer e deriva dall’ame-ricano real time, e non ha a che fare con la vita biologica dell’uomo. Signifi ca null’altro che la capacità di un elaboratore (espressa come potenza di calcolo matematico) di fornire una risposta immediata anziché far aspettare, come avve-niva agli albori della tecnologia informatica, negli anni cinquanta e sessanta, ore quando non giorni.

57 Nella scelta dell’abbigliamento di Indy Lucas è ricorso anche alle capacità visive del noto fumettista ed illustratore Jim Steranko.

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to di elementi caratterizzanti, quali il cappello e la frusta58. Del resto, ogni eroe ha un’arma che lo contraddistingue: dalla fi onda di Davide all’arco di Robin Hood, dall’urlo di Tarzan alla pistola di James Bond sino appunto alla frusta di Indiana Jones, una scelta che va riconosciuta come origina-le. Seppur equipaggiato di un revolver Smith&Wesson – che rimanda alla epopea del West e agli sceriffi con la Colt59 –, ed occasionalmente di un machete, la frusta è la sua arma d’elezione, e permette a Indy di essere sì un eroe armato, ma che non appare né sanguinario né violento: come lo era un cavaliere medioevale. L’arma serve alla difesa di sé e degli altri, nel solco dell’etica cavalleresca della protezione dei deboli60.

L’essere armato rappresenta comunque una necessità: il professor Henry Walton Jones61 – nato nella fi nzione nel 1899 – oltre ai panni dell’intel-lettuale archeologo veste anche quelli dell’avventuriero; una condizione che appare del tutto plausibile quando si considera che in pieno ʼ800 tali ruoli si sovrapponevano in un personaggio realmente esistito come Hein-rich Schliemann62. Dall’eclettica personalità di Indy deriva naturalmente la doppia ambientazione presente nei fi lm: la civiltà contrapposta alla natura selvaggia. Un principio rispettato anche nei games: scene preliminari in città, magari in università o in qualche uffi cio governativo, svolgimento nella giungla, nella foresta o nel deserto.

Analogamente ai fi lm anche nei games le armi si trovano occasional-mente: alla bisogna Indy utilizza una sedia, un tappeto, un vaso, con effetti – in termini cinematografi ci – sempre comici. Questo rivela il carattere iro-nico del personaggio, coniato secondo i criteri di Lucas. Sia l’intelligenza che la fi sicità di Indy sono sempre abbinate all’ironia63.

L’ironia – di cui anche la frusta è una componente, grazie alla possibilità di aggredire (più spesso disarmare) l’avversario senza “sporcarsi le mani”, una sorta di derisione della minaccia –, è nei fi lm parte fondante la fi losofi a del personaggio: serve a stemperare la carica di aggressività che altrimenti

58 Spielberg afferma che, a parte Jaws ed E.T., Indy è l’unico personaggio dei suoi fi lm riconoscibile dalla sola silhouette. Intervista dal DVD della quadrilogia, edi-zione italiana, Lucasfi lm, 2008.

59 Sceriffi detti “Colt peacemakers”. Era l’epoca della cosiddetta “legge della Colt”.

60 In Indiana Jones and The temple of Doom la pistola va addirittura perduta all’ini-zio del fi lm.

61 Walton è il secondo nome di battesimo di Lucas: George Walton Lucas.62 Heinrich Schliemann (1822-1890), uomo d’affari ed archeologo, scopritore di

Troia.63 Spielberg riconosce che il merito va anche alla recitazione di Ford. Intervista dal

DVD della quadrilogia, edizione italiana, Lucasfi lm, 2008.

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potrebbe trasmettere. Questo elemento – secondo un preciso calcolo – ha permesso a Lucas di inserire il personaggio di Indiana Jones nel fi lone degli stereotipi di successo hollywoodiani, che proprio nell’ironia trovano il loro punto di forza: da Wayne a Bogart, a Gary Cooper, a James Bond. Senza dimenticare i “burberi” eroi dei western all’italiana, i cosiddetti “spaghet-ti western”: eroi senz’altro più aderenti alla forma archetipale in quanto portatori, diversamente da quelli americani “tutti d’un pezzo”, sia di valori positivi che negativi. L’eroe e il fuorilegge mostrano entrambi, con Sergio Leone, la doppia natura dell’essere umano.

Purtroppo però la frusta non riesce a fare la sua parte in tutti i games della saga: altre armi vengono a volte preferite. Gli inseguimenti sono un altro componente cinematografi co che sparisce nei games. Viceversa sin dai primi prodotti l’animazione del personaggio, seppur limitata64, subisce gli infl ussi della recitazione di Ford: l’inconfondibile stile dell’attore fa già parte del marchio di fabbrica.

Nel 1992 esce un altro soggetto originale LucasArts, non tratto da fi lm: Indiana Jones and the Fate of Atlantis su fl oppy disk e – per la prima vol-ta – su CD-rom, che segna un progresso a livello artistico, tanto da essere considerato tra i migliori mai fatti. Uscito in due versioni, sia come gra-phic adventure che action game, è l’ultimo game della saga ad utilizzare lo SCUMM system. Come in tutti gli episodi del franchise, il richiamo al mito ricorre già nel titolo, ed i cattivi sono ancora i tedeschi del Terzo Reich65. Nella versione graphic adventure, la più riuscita, il suono è migliore che in passato, con in apertura la sigla del fi lm, il che apporta un notevole contri-buto in termini di suggestione. La qualità grafi ca è notevolmente superio-re ai prodotti precedenti. Benché il disegno sia ancora bidimensionale, le ambientazioni risultano essere – grazie al sapiente utilizzo di luci, ombre e quinte teatrali – delle vere e proprie scenografi e. L’animazione dei per-sonaggi, oltre a prevedere un buon numero di movimenti d’archivio66, pro-

64 Animazione limitata è un termine che defi nisce una animazione realizzata con il minor numero di disegni possibile, di solito combinabili fra loro ed immagazzina-ti in un archivio. Molto utilizzata nelle serie TV degli anni ʼ60 (in particolar modo nei prodotti di Hanna e Barbera; in Italia negli spot della rubrica Carosello), è oggi divenuta criterio fondante il funzionamento di noti software di animazione come Flash o Toon Boom, e in modo simile, anche le animazioni nei video games (vedi nota 66).

65 Senza dubbio il nazismo ha reso un servizio alla cinematografi a americana for-nendo un nemico temibile per una infi nità di trame, seguito dall’Unione Sovietica dell’epoca della guerra fredda.

66 Al fi ne di non sovraccaricare il calcolo dei processori, le animazioni dei personag-gi dei video games si basano su un numero defi nito di movimenti, progettati per

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pone il rimpicciolimento/ingrandimento delle fi gure secondo il loro allon-tanamento/avvicinamento e l’inserimento di primi piani o dettagli quando necessari alla storia. Indy parla con la voce dell’attore Douglas Lee, e i dialoghi rispecchiano l’abituale ironia del personaggio. Tutto ciò favorisce una elegante resa tridimensionale ed una effi cacia quasi cinematografi ca.

Indiana Jones’ Greatest Adventures (Factor5/LucasArts-JVC) del 1994 è un action/platform game che riassume in maniera più precisa le trame dei primi tre fi lm. Ciò riduce le opzioni di gioco: il percorso è alquanto predeterminato. Possiede la grafi ca del game precedente ma fi nalmente il message box o l’HUD, l’interfaccia che permetteva di scegliere le opzioni ed addirittura i dialoghi, sono scomparsi lasciando l’intero schermo alla visualizzazione dell’area di gioco. Le indicazioni essenziali appaiono in sovraimpressione sul personaggio, l’ambiente o l’oggetto utilizzati in quel momento dal giocatore. È basato sull’azione piuttosto che la logica: per questo nel 2009 è stato possibile realizzarne una versione per la console Nintendo Wii.

Gli anni ’90 vedono lo sviluppo dell’animazione 3D: al cinema meravi-gliano i dinosauri fotorealistici di Jurassic Park (1993), mentre Toy Story, il primo lungometraggio interamente in CGI67 realizzato dalla Pixar, è il fi lm-evento del 1995. A rimorchio del cinema di animazione 3D appunto, ma con uno scarto cronologico-qualitativo di circa cinque anni, i games operano la trasformazione della grafi ca da bidimensionale a tridimensio-nale. Lo sviluppo di processori sempre più potenti mette a disposizione una visualizzazione non più composta da una successione di schermate “fi sse” bensì dotata di una “camera” (cinepresa) in totale movimento nello spazio di gioco, gestita in fi rst person (soggettiva) oppure in modalità third person, dove il giocatore è un osservatore esterno che sceglie liberamente – momento per momento – il punto di vista. Ciò implica lo spostamento in tempo reale dell’intero set – la scenografi a – con comprensibili complessità tecniche. Questo elemento – la gestione istantanea della grafi ca poligonale 3D68 – utilizza la potenza di calcolo dei processori a discapito della resa

essere combinati fra loro ed immagazzinati in un archivio dal quale vengono di volta in volta “richiamati” dalle scelte del giocatore.

67 La 3D Computer Animation o CGI (Computer Generated Imaging), tecnica per la creazione di immagini digitali tridimensionali non va confusa con la stereoscopia (comunemente detta “3D”), che rappresenta una tecnica di visione dell’immagine (vedi nota 20).

68 La modellazione al computer di personaggi e ambienti tridimensionali avviene tramite la combinazione di poligoni o la deformazione di superfi ci dette nurbs (Non Uniform Rational B-Spline).

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estetica (rendering) dell’immagine, di molto inferiore a quella cinemato-grafi ca contemporanea.

In questo periodo appare un prodotto innovativo, nella scia del successo di Indiana Jones: Tomb Raider69 (Eidos, 1996). È appunto il primo rivolu-zionario third person game. La protagonista è femminile: Lara Croft. Una eroina con la determinazione e la forza di un maschio (maneggia soprattut-to armi), ma l’avvenenza e la sensualità di una giovane donna. Il successo è immediato.

Nata come semplice disegno a matita su un foglio di carta, appare su-gli schermi già come personaggio 3D. Mentre Indiana Jones è ancora una fi gura bidimensionale, Lara ostenta tutti i suoi sensuali volumi. La resa grafi ca è però grossolana e spigolosa, e solo col progredire della tecnologia Lara si potrà trasformare nella eroina dalla curve supersexy che troverà la trasposizione cinematografi ca nelle fattezze di Angelina Jolie. Rispetto a Indiana Jones, Tomb Raider segue il percorso inverso: è il fi lm che viene derivato dal gioco, a testimonianza del successo dei games presso il pub-blico giovanile.

Pur appartenendo al genere “avventura”, Tomb Raider è molto simile ad uno “sparatutto”. Caratteristica, questa, che incontra i gusti del pubblico e che – in deroga alla frusta – viene giocoforza attribuita dagli sviluppatori anche ad Indy nell’impegnativo Indiana Jones and the Infernal Machine (1999), risposta commerciale della LucasArts a Tomb Raider. Ambientato nel secondo dopoguerra il game vede il nostro eroe affrontare i sovietici impegnati nella ricerca di una arma infernale nelle rovine della mitica città di Babilonia. L’attore Doug Lee è ancora la voce di Indy. La modellazio-ne dei personaggi così come l’animazione sono realizzate interamente in 3D al computer. La tipologia di gioco passa dalla graphic adventure dei precedenti prodotti all’action game, ed è più dinamica e coinvolgente che in passato: l’azione – costretta entro angusti limiti sino a quel momento – ritrova prepotentemente il suo ruolo. Si persegue un realismo più aderente ai fi lm originali.

La novità della tecnologia 3D pone più esplicitamente il nodo della ri-conoscibilità fi siognomica di Harrison Ford. Tuttavia, forse frenata dalla contemporanea produzione di tanti prodotti Star Wars e pressata dalla ne-cessità di rispettare un calendario di uscita, l’industria di Lucas opta per un risultato lontano da qualunque somiglianza.

69 Il disegnatore Toby Gard progettò una versione femminile di Indiana Jones men-tre era impiegato presso la società britannica Core Design nel 1994: nacque così Lara Croft.

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Indiana Jones and the Infernal Machine con la sua nuova struttura ac-tion game – peraltro imposta dal trend commerciale – crea una frattura all’interno del pubblico, che si divide nelle due correnti legate l’una al gioco d’intelletto, logico, l’altra al gioco d’azione. L’obbiettivo di Luca-sArts di replicare nei games la feconda commistione tra cultura e avventura presente nei fi lm resta dunque lontano: vuoi in un primo tempo a causa dei limiti tecnologici che penalizzavano l’animazione a favore dell’aspetto intellettuale, vuoi in questo secondo momento perché il superamento di quegli stessi limiti lascia primeggiare l’aspetto fi sico e l’azione.

La possibilità di agire in un ambiente tridimensionale e fotorealistico sia con la camera che coi personaggi diventa una “moda” che nella seconda metà degli anni ʼ90 travolge artisti e produttori sia del cinema d’anima-zione che del cinema dal vero, portando, nell’intravvedere nella “realtà virtuale” la possibilità di svincolare fi nalmente l’immaginazione dai limiti della fi sicità, anche alla realizzazione di molte brutture cinematografi che “sintetiche”. La tecnologia inarrestabile trova infi ne risultati eclatanti nelle incredibili, realistiche fi gure del Gollum (The Lord of The Ring, 2002) e di Kong (King Kong, 2005), entrambi di Peter Jackson, e giunge infi ne all’ iperrealismo, al traguardo di una realtà virtuale indistinguibile dalla realtà concreta con Avatar (2009) di James Cameron. Tutto ciò avviene, è impor-tante ricordarlo, in contemporanea allo sviluppo del World Wide Web70, che dalla metà degli anni ʼ90 diventa l’interfaccia tra utenti ed aziende, una gigantesca cassa di risonanza mediatica, al contempo strumento sia di libera espressione personale71 che di marketing.

Va sottolineato che il fi lm Indiana Jones and the Last Crusade (1989) avrebbe dovuto essere l’ultimo della saga. Pertanto, a tener vivo il mito e a far da ponte verso un eventuale quarto fi lm (che sarà Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull nel 2008) è il settore dei games, che nell’arco di quasi vent’anni sforna all’incirca una quindicina di titoli, sia originali che mutuati dai tre lungometraggi. Le generazioni nate negli anni ‘80, che hanno conosciuto Indy soltanto attraverso la passione dei genitori, possono dieci anni più tardi non solo ritrovare il personaggio, ma – grazie alla tec-nologia –, “impadronirsene” secondo un’ottica che non è più strettamente cinematografi ca, personalizzandone la fruizione in funzione dei tempi e delle mutevoli passioni dell’adolescenza: subendo, in ogni caso, il fascino

70 Il World Wide Web fu reso possibile dalla diffusione dei personal computers e della connessione ad internet in tutto il globo. La tecnologia sviluppata in primo luogo da Tim Berners-Lee venne resa pubblica dal CERN di Ginevra nel 1993.

71 Si veda ad esempio l’organizzazione di fan sites dedicati a fi lm e divi del cinema.

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archetipico della fi gura dell’eroe. Per coinvolgere un pubblico più ampio l’avveduto Lucas non ha comunque mancato di pensare alla TV, sfornando tra il 1992 ed il 1993, con ripetute messe in onda sulle emittenti americane sino al 1999, la già menzionata serie dal vero dal titolo The Young Indiana Jones Chronicles, che propone – in senso storico-didattico – le avventure del giovane Indiana Jones, interpretato, per ovvie ragioni anagrafi che, da attori diversi da Ford72. Anche da questi prodotti Lucas ha sviluppato due platform games: The Young Indiana Jones Chronicles (LucasArts/Jaleco, 1992); e Instruments of Chaos, starring Young Indiana Jones (Sega, 1993), con un tiepido successo. Certo nel mantenimento della franchise non va dimenticato il ruolo giocato dall’enorme mercato composto da merchandi-sing, publishing e gadgeting.

Indiana Jones and the Emperor’s Tomb, (TheCollective/LucasArts, 2003), è un game prequel del fi lm Indiana Jones and the Temple of Doom. Si tratta di un action game 3D, dove i combattimenti fi nalmente rispecchia-no quelli cinematografi ci, grazie ad una grafi ca tridimensionale orientata all’iperrealismo. La giocabilità è del tipo third person con movimenti di camera a 360°. Stavolta si avverte il primo chiaro, seppur timido e scarso, tentativo di ritrarre Ford nel protagonista. Gli effetti speciali sono di buona qualità e già particellari73. Indy parla grazie all’attore David Esch. Un po’ dimenticata dai tempi di Indiana Jones and the Temple of Doom la frusta torna fi nalmente ad essere protagonista.

A ridosso del quarto – e più recente – fi lm della saga escono Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull (Universomo/THQ wireless, 2008), un prodotto semplifi cato per cellulari e smart phones, e Indiana Jo-nes and the staff of Kings (A2M, Amaze, LucasArts, 2009). Quest’ultimo, ambientato nel 1939, vede Indy alla ricerca del bastone di Mosè. Genere: third person action, dalla giocabilità molto elevata. La grafi ca 3D è evoluta, seppur inferiore ad altri games iperrealisti contemporanei. La voce di Indy è di John Armstrong. Lo sforzo per restituire la fi sionomia di Ford nel per-sonaggio offre fi nalmente risultati migliori, seppur ancora lontani da una verosimiglianza. A tal proposito, al di là dei rapporti contrattuali tra Ford e la Lucasfi lm, va tuttavia osservato che – ai fi ni della fruizione – nei prodotti alternativi ai fi lm la necessità della riconoscibilità è relativa: se nella serie TV The Young Indiana Jones Chronicles la protagonista è la Storia, nei

72 Corey Carrier (età Indy 8-10) Sean Patrick Flannery (età Indy 16-21), George Hall (età Indy 93).

73 Effetti particellari: tecnologia digitale per la creazione tridimensionale di elementi liquidi e gassosi composti da nugoli di particelle elementari sottoposte a leggi fi siche simulate.

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video games è l’Avventura. Non è Indiana Jones, tantomeno Ford. Semmai protagonista del game è il giocatore, di cui Indy rappresenta l’alter ego, un avatar che è soprattutto sinonimo di avventura e divertimento.

5. Il caso Lego

Un caso interessante è rappresentato dai video games Lego Indiana Jo-nes: The Original Adventures (2008) e Lego Indiana Jones 2: The Adventu-re Continues (2009). Si tratta di videogiochi Lego ispirati alla saga.

Lego è una industria di giocattoli il cui prodotto più noto è un gioco di costruzioni a mattoncini, conosciuto da almeno tre generazioni: il “lego”74, appunto.

Tutte le generazioni hanno subìto il fascino intramontabile dei giochi di costruzioni75, fascino al quale si collega, in un certo senso, l’hobby del modellismo. La forza di tale seduzione si potrebbe ricercare nell’archetipo dell’Homo Faber, che sottolinea la capacità costruttrice dell’essere umano: la sua abilità di trarre dalla natura ciò che in natura non esiste. Uno dei simboli di tale archetipo è appunto il mattone76, che non per caso l’azienda utilizza come marchio77. A differenza del Meccano – che richiama un ar-chetipo specifi catamente storicizzato: l’ Homo Faber rinascimentale, inge-gneristico e legato alle macchine –, il mattone da costruzione affonda le sue radici in epoche ben più remote e soprattutto evoca una condizione sociale ben diversa. Se il rinascimento incarna il progresso tecnologico (e la con-seguente rivoluzione scientifi ca), il mattone signifi ca casa e per estensione famiglia, società, tradizione. Un simbolo quindi – correlato ad una idea di

74 Nel 1932 Ole Kirk Christansen fondò nel villaggio di Billund in Danimarca una piccola fabbrica di giocattoli in legno, cui diede il nome composto di LEGO – acronimo dei termini danesi “LEg” e “GOdt” (“gioca bene”). Incidentalmente Lego signifi ca in latino “metto insieme, collego”. Lego vende circa 700 milioni di pezzi l’anno e dal 1968 ha aperto un parco giochi tematico: Legoland, attualmente presente in quattro nazioni (Disneyland, per dare un riferimento, aprì nel 1955).

75 Famoso è pure il “Meccano”, gioco di costruzioni in metallo brevettato nel 1901 dall’inglese Frank Hornby, anche fondatore nel 1934 della Dinky Toys, specializ-zata in modellismo automobilistico.

76 Un altro è quello del martello e incudine, che rimanda al dio-forgiatore: Efesto o Vulcano.

77 Nel 1996 Lego ha presentato domanda di registrazione europea del suo tipico mattoncino rosso come marchio. Ne è sorta una disputa legale derivante dall’im-possibilità di registrare come marchio un manufatto tecnico d’uso comune come il mattone.

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solidità – “fondante” l’esistenza, nel suo rappresentare il soddisfacimento di una necessità primaria: un rifugio adeguato per sé ed i propri familiari, il luogo-radice da cui si proviene ed al quale si ritorna.

Ma agli occhi del bambino il gioco di costruzioni appare innanzitut-to come un modello atomistico dell’universo. Il mattoncino è l’elemento unitario dal quale partire per decifrare il mondo: ricostruendolo a propria misura, in miniatura. Un concetto che richiama quello dei puzzles: ricom-porre una realtà, rimettere ordine nel caos. Ciò crea un collegamento con una tipologia di games, i puzzle solving, che prevedono appunto il rinveni-mento di soluzioni obbligate per poter procedere nella storia. Insomma con le costruzioni si affaccia nel bambino una visione galileiana e cartesiana del mondo, fatta di geometrie componibili e scomponibili all’infi nito. Un modello che – col crescere dell’età – può venir sostituito da un più potente simulatore di realtà (una realtà simbolica, e perciò assolutamente vera): il videogioco, appunto. Così come la fi aba appaga la necessità creatrice del bambino così fanno i giochi di costruzioni, con un indiscutibile pregio: la possibilità di sperimentare la realtà. Se l’oggetto si rompe, va rifatto me-glio, più solido: fare e rifare. Un precetto che si ritrova nella dinamica dei games: se sbagli, riprova. Sinché non riesci.

Il target di pubblico uffi ciale cui da sempre si rivolge Lego è quello compreso tra 0 e 16 anni. Tuttavia con Lego Duplo (1969) per bimbi di età fra 3 e 6 anni, Lego Technic (1977) per bambini tra i 7 e i 12, e Min-dstorms (1998), per ragazzi sin oltre i 16 – quest’ultimo con mattoni addi-rittura “computerizzati” –, si cercò di fi delizzare ogni segmento di età con prodotti più specifi ci e tuttavia sempre compatibili tra loro, soddisfacendo in tal modo l’inalterato bisogno di creare presente nelle diverse fasi della crescita. Malgrado queste misure, sul fi nire degli anni ’90, di fronte alla concorrenza del giocattolo tecnologico, il gioco di costruzioni manuale ri-schiò l’estinzione.

Già nel 1980 – forse spinta dal successo della concorrente Playmobil, che dai primi anni ʼ70 proponeva giocattoli componibili per confeziona-re e popolare interi ambienti: fattorie, stazioni, caserme, ospedali, sino ad una città intera – Lego78 aveva creato “sets tematici” (ambienti ispirati alla fantascienza, al medioevo, alla pirateria, all’era dei dinosauri ed altri) in-troducendo oggetti accessori al gioco coi mattoni, in un certo senso sna-turando il signifi cato originale del simbolo e avvicinandolo al concetto di

78 Negli anni ’60 Lego aveva già lanciato i “giocattoli lego” – elicotteri, navi, auto-mobili realizzate coi mattoncini – che, per la loro peculiarità – e complessità realiz-zativa – avevano rapidamente inaugurato una nuova stagione del collezionismo.

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tecnologia. Cosi facendo, comunque, modernizzandolo. Ma per il mercato non bastava. Occorreva perseguire obbiettivi più ambiziosi e legati ad ico-ne di successo79.

Ecco dunque nel 1999 Lucas concedere i diritti per la realizzazione di sets Lego tratti da Star Wars, a cui segue nel 2008 quella dei sets di Indiana Jones.

Il 2008 vede anche l’esordio del primo video game: Lego Indiana Jo-nes: The Original Adventures (Traveller’s Tales/LucasArts), a cui fa se-guito Lego Indiana Jones 2: The Adventure Continues (Traveller’s Tales/LucasArts, 2009). Due prodotti che sottolineano l’acutezza della mar-keting strategy di Lego: rafforzare un vecchio prodotto creandone uno nuovo. A rinverdire il fascino del mattoncino vengono chiamati – a suon di milioni – importanti personaggi del mondo del cinema, tutti in versio-ne giocattolo: da Indiana Jones, appunto, agli eroi di Star Wars, sino a Batman, Harry Potter, sfruttando l’ enorme fetta di mercato già creata da questi nomi80.

Il personaggio di Indy è modellato al computer in 3D: simile a un cubo, tozzo e dall’aspetto “plasticoso”. Anni luce lontano dal fascino atletico di Harrison Ford: rimanda, naturalmente, al giocattolo in plastica effettiva-mente prodotto – nello stile Lego – per il set Indiana Jones del 2008. È indispensabile infatti che i personaggi dei video games siano reperibili in commercio.

Lego Indiana Jones: The Original Adventures appartiene al genere ac-tion game 3D (platform) e riprende in forma antologica le ambientazioni dei primi tre fi lm, ma con avventure piuttosto differenti.

Lego Indiana Jones 2: The Adventure Continues include anche sequenze tratte dal quarto fi lm Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull e consente molteplici modalità di gioco: Build Your Own Adventure Mode permette di confi gurare il videogioco secondo i propri gusti e di condivider-lo con amici o genitori. La modalità Story ricalca la trama dei fi lm, mentre il Free Play consente nuove avventure. Il giocatore può inoltre trasferire il controllo del gioco ad un personaggio secondario e lasciare al computer la gestione di Indy. I protagonisti interagiscono con l’ambiente in molti modi: possono nuotare, arrampicarsi, guidare veicoli, trasportare oggetti, spro-fondare nelle sabbie mobili così come utilizzare armi improvvisate quali

79 Nel 2009 un accordo tra la Lego, Digital Blue e Alcatel crea il “Lego phone”, telefono cellulare con un target infantile. Prevede inoltre una linea di fotocamere digitali, walkie talkie, lettori MP3 e chiavi USB, tutti in apparenza costruiti con i classici mattoni Lego.

80 Esistono infatti anche Lego Bionicle, Lego Batman, Lego Harry Potter ed altri.

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sedie e bottiglie; senza dimenticare la frusta con la quale sono possibili una infi nità di azioni. A fronte di tanto dinamismo, nessun dialogo: i personag-gi sono muti. Indy è immortale, ovvero: può morire, ma risorge81. Sono a disposizione e giocabili oltre sessanta personaggi ed è possibile crearne di nuovi mescolando fra loro – come avviene nella realtà dei giochi Lego – i componenti di quelli esistenti.

L’animazione è agile, semplice, veloce ed a volte distorce il personaggio in maniera “gommosa”. La grafi ca degli ambienti – anch’essi modellati al computer – è di buon livello, ricca, con textures82 dettagliate ed una illumi-nazione che crea ombreggiature realistiche. Siamo nel mondo Lego: (qua-si) ogni cosa sembra costruita con i mattoncini83. La caratteristica del gioco di costruzioni è stata accortamente trasferita nel video game: per superare gli ostacoli Indy deve costruire gli oggetti di cui ha bisogno. Cumuli di lego bricks – mattoncini – sono a disposizione qua e là e Indy se ne serve per re-alizzare ponti, barche, scale, con animazioni davvero divertenti. Insomma il messaggio commerciale implicito suggerisce che nel negozio sottocasa è possibile acquistare i mattoncini veri per continuare a giocare una volta spento il computer.

La riscoperta del gioco manuale promossa dai video games ben si ac-compagna alla dilagante passione per l’animazione veicolata dal Web: ne sono nati brevi ed originali cortometraggi animati realizzati con i mattoni Lego da appassionati di tutto il mondo, visibili in rete. Oltre ai video games Lego ha anche prodotto un cortometraggio animato in 3D intitolato Lego Indiana Jones and the Raiders of the Lost Brick, diretto da Peder Pedersen, che combina in forma ironica i quattro fi lm.

All’archetipo dell’Eroe – tipico della stragrande maggioranza dei ga-mes – Lego aggiunge dunque quello dell’Homo Faber, raddoppiando la ricetta archetipale: non soltanto a benefi cio del giocatore, ma anche delle vendite. Un modo per moltiplicare la forza di persuasione del prodotto, nel contempo riverberando il successo dell’uno sull’altro. Secondo il dipar-timento marketing Lego inoltre, il genitore che gioca col fi glio mantiene l’unità familiare anche durante le fughe nel virtuale della prole. Chissà

81 In generale, le occasioni di morte dell’Eroe – i cosidetti game over – così numero-se nei primi video games, sono state nel corso degli anni rese meno frequenti dalle case produttrici, per rendere meno frustrante il gioco e prolungarne l’esperienza anche ai giocatori meno esperti.

82 Il termine texture defi nisce una immagine applicata ad una superfi cie modellata al computer, per defi nirne l’aspetto: ad es. la corteccia per il tronco di un albero.

83 Un mondo anch’esso “plasticoso”: i mattoncini sono da sempre costruiti in una resina speciale.

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poi che – attraverso il mattoncino digitale – il padre-Peter Pan non ritrovi il fanciullo che è in lui, e, sull’onda di un impulso nostalgico, non voglia andare a recuperare in soffi tta – quando non ad acquistare ex novo- una scatola di prodotti Lego.