Imprensa e partido: contribuições de Gramsci para a análise do papel político do jornalismo
Il \"ritorno a Marx\" nei \"Quaderni del carcere\" di Antonio Gramsci
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[Articolo pubblicato in «Problemi. Periodico quadrimestrale di cultura», 1999, n. 111, pp. 106-129]
[106]Il ‘ritorno a Marx’ nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (1930)
di Fabio Frosini
per Valentino Gerratana
Premessa
Quella che segue è una ricostruzione dell’approccio di Gramsci alla ‘filosofia’ nei Quaderni
del carcere, vale a dire del modo in cui, nel corso del 1930, viene da lui aperto uno spazio
specificamente dedicato alla riflessione filosofica. Come mostrerò, questa riflessione si presenta da
subito esplicitamente come un ‘ritorno a Marx’, cioè come un progetto di rifondazione del
materialismo storico. Fin dall’inizio l’esercizio di lettura che Gramsci compie su Marx è dunque
inserito in una prospettiva filosofica o, detto altrimenti, il materialismo storico, come Gramsci
intende rifondarlo, si propone da subito come una filosofia, cioè come una concezione del mondo
complessiva, e non come una scienza o metodologia della scienza. Ciò che da questa indagine
risulta è tuttavia non solamente la stretta implicazione tra marxismo e filosofia, ma anche il fatto
che, già nell’atto di avviare gli “Appunti di filosofia”, Gramsci ha in mente quella concezione del
materialismo storico che solo piú tardi (nel 1932) denominerà sistematicamente “filosofia della
praxis”. Questa denominazione non va perciò assunta a indice di una qualche discontinuità
sussistente tra il pensiero di Gramsci, come si viene sviluppando nel corso del 1932, e il suo
precedente marxismo, semplicemente perché l’idea-base della filosofia della praxis (che è, non va
di[107]menticato, profondamente originale nel quadro storico del marxismo) sussiste già nel 1930,
ma viene intesa da Gramsci appunto come un ‘ritorno a Marx’. Si tratterà perciò di vedere cosa
implichi, in concreto, questo ritorno, sia rispetto alla tradizione marxista, sia rispetto alla tradizione
filosofica.1
1. L’autosufficienza filosofica del marxismo
I
L’idea con la quale Gramsci avvia lo spazio riservato alla ricerca filosofica (gli “Appunti di
filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie”, nel Q 4: d’ora in avanti AF I) è, se si vuole, molto
semplice: tornare a Marx, a un testo per quanto possibile esatto e criticamente controllato, per
riprendere da lí, al di qua dei vari ‘marxismi’, il filo del suo discorso filosofico (cf 4,1 = Q 419-21).
Ma la semplicità è solo apparente. Questo vale, intanto, dal punto di vista personale. In
Gramsci, infatti, questa esigenza è quasi assente fino almeno al 1918, quando il giovane giornalista
socialista accreditava ancora una lettura metodologicamente assai spigliata e fortemente selettiva di
1 Userò le seguenti sigle, seguite dal numero di pagina corrispondente (in tondo): Q = Quaderni del carcere, ed.
critica a cura di V. Gerratana, Torino: Einaudi 19772; NT = Note al testo, in Q 2443-3034 (vol. 4); DQ = Descrizione
dei quaderni, in Q 2367-2442; LC = Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Torino: Einaudi 1965; CPC
= La costruzione del Partito comunista. 1924-1926, a cura di E. Fubini, Torino: Einaudi 1971. Inoltre: Q 8 = (esempio)
quaderno 8; 5,147 = (esempio) quaderno 5, paragrafo 147; testo A, testo B, testo C = rispettivamente: testo di prima
stesura, di stesura unica e di seconda stesura dei Quaderni (testi B possono essere sia testi scritti in quaderni miscellanei
e non copiati in quaderni speciali, sia testi scritti direttamente in quaderni speciali).
2
Marx, palesemente mediata dal neoidealismo.2 Certo, anche allora era assai viva in lui la percezione
dell’imprescindibilità, per la lotta politica del proletariato, di una preparazione teorica, di una
‘cultura’,3 ma questa non era in alcun modo riconducibile alle misure di una qualche ‘ortodossia’
marxista, come, d’altronde, entro quelle misure non poteva nemmeno esser costretto il discorso
propriamente teorico sviluppato da Gramsci in quegli anni. È vero che con il passare del tempo si
nota una sempre maggiore attenzione a Marx, ma ciò è l’esito coerente di un’intima dinamica di
pensiero e non l’adattamento ‘politico’ a una qualche ortodossia.4
Il discorso è solo in parte diverso per il periodo posteriore alla fondazione del PCd’I (1921) e
al soggiorno moscovita (1922-23).5 In questa fase Gramsci si presenta per la prima volta ai propri
compagni come un leader capace di prendere in mano la guida del partito proprio mentre questo
conosce una forte crisi politica e organizzativa.6 Nelle lettere che scrive da Vienna ai compagni di
partito in Italia nel 1923-24 emerge con forza la preoccupazione che il lavoro di riorganizzazione
sia costantemente affiancato da uno di tipo teorico e culturale.7 Ora questa preoccupazione si
concreta però, a differenza che nel passato, in un’impostazione (alme[108]no a parole) tutta interna
alla teoria marxista, anzi ‘marxista-leninista’. Certo manca qualsiasi concessione esteriore a punti di
vista, sia filosofici che politici, non collegabili (anche come arricchimento) alla precedente
esperienza torinese dell’“Ordine Nuovo”, che anzi proprio ora comincia a essere percepita da
Gramsci come fondativa di tutto il proprio operare teorico e pratico; ma è innegabile, rispetto al
passato, una maggiore attenzione al discrimine ideologico che corre tra pensiero ‘marxista’ e
pensiero ‘borghese’, e dunque una piú aspra politicizzazione della concezione del dibattito teorico.8
L’‘ortodossia’ di Gramsci è tuttavia piú apparente che reale. Morti, scesi a patti o emarginati
(o in via di emarginazione) i grandi teorici marxisti occidentali (si pensi solamente alla Luxemburg,
a Lukács e Korsch), proprio in quegli anni si andava delineando nel movimento comunista
internazionale una condizione di progressiva chiusura degli spazi di dibattito teorico (o meglio: una
sempre piú radicale funzionalizzazione del dibattito teorico a quello politico, del quale diventava un
semplice paravento), accompagnata e indotta da una verticalizzazione dei rapporti di potere in Urss
e nell’Internazionale comunista. La graduale codificazione, dopo la morte di Lenin, del ‘marxismo-
leninismo’ era appunto funzionale a questa strategia politica, a cui doveva donare la legittimazione
2 Sull’idealismo del giovane Gramsci non esistono monografie valide. Si possono comunque consultare
utilmente le parti relative in N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Torino: Einaudi 1975, L. Paggi, Antonio Gramsci e il
moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, Roma: Editori Riuniti 1970 e F. Lo Piparo, Lingua intellettuali
egemonia in Gramsci, Roma-Bari: Laterza 1979. Un saggio comunque importante è quello di E. Garin, “La formazione
di Gramsci e Croce”, in AA. VV., Prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, Quaderni di “Critica marxista”, 1967,
n. 3, pp. 119-33 (poi in id., Intellettuali italiani del XX secolo, Roma: Editori Riuniti 1974). 3 Si pensi alla mai interrotta attività formativa di Gramsci, ai gruppi di discussione che contribuì a organizzare o
di cui propugnò la formazione, anche in piena guerra mondiale, come il “club di vita morale” e la “associazione di
coltura” o come, più tardi, la scuola di partito. 4 Su questi temi mi permetto di rinviare all’“Introduzione” a A. Gramsci, Filosofia e politica. Antologia dei
“Quaderni del carcere”, a cura di F. Consiglio e F. Frosini, Firenze: La Nuova Italia 1997, parte II: “Una filosofia per
la politica”. 5 Sul quale si vedano L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, Roma: Editori Riuniti 1984 e G. Somai,
Gramsci a Vienna. Ricerche e documenti. 1922-1924, Urbino: Argalìa 1979. 6 Cf P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I. Da Bordiga a Gramsci, Torino: Einaudi 1967, capp.
XIX-XX. 7 Il carteggio, pubblicato da P. Togliatti (La formazione del gruppo dirigente del PCI nel 1923-1924, Roma:
Editori Riuniti 1962) e integrato da Somai (Gramsci a Vienna cit.), è ora rifluito nell’edizione delle Lettere 1908-1926,
a cura di A. A. Santucci, Torino: Einaudi 1992. 8 Cf la sua “Introduzione” al primo corso della scuola interna di partito (aprile 1925) (CPC 55): “Per lottare
contro la confusione che si è andata [...] creando” a causa del fatto che il ‘marxismo’ è stato in Italia utilizzato dai
“teorici della borghesia” in funzione antidemocratica, “è necessario che il partito intensifichi e renda sistematica la sua
attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo-
leninismo almeno nei suoi termini piú generali”.
3
derivante dal rapporto, cosí istituito, con il fondatore dello Stato sovietico.9 In questo quadro la
posizione di Gramsci è fin dall’inizio originale, in quanto egli non accetta la progressiva
strumentalizzazione della teoria alle esigenze politiche del momento, come non accetta la
progressiva fissazione in forme burocratiche dell’influenza goduta dal gruppo dirigente russo in
seno all’Internazionale. E questa impostazione lo porta inevitabilmente a collidere, nel 1926, con i
dirigenti sovietici. In ottobre (dunque poche settimane prima dell’arresto), a nome dell’Ufficio
politico del PCd’I indirizza al comitato centrale del Partito bolscevico una (ben nota e molto citata)
lettera, nella quale interviene senza mezzi termini nei problemi interni di quest’ultimo:
“Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l’elemento organizzatore e propulsore
delle lotte rivoluzionarie in tutti i paesi: la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la
storia del genere umano che la uguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo l’opera
vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista
dell’URSS aveva conquistato per l’impulso di Lenin”.10
[109]Le lotte intestine nel Partito bolscevico tra la maggioranza, guidata da Stalin e Bucharin,
e la minoranza di Trockij, Kamenev e Zinov’ev gli sembrano mettere in questione quella funzione
di leadership internazionale che secondo lui deriva unicamente dalla dimostrazione effettiva,
pratica della capacità di proseguire sulla via della costruzione del socialismo, e non invece da
posizioni di potere sancite burocraticamente o da rendite storiche.11 Un indice di quella capacità sta
proprio nella vita interna del partito del proletariato, che deve essere (qui Gramsci riprende una sua
idea giovanile) sí unitario, ma di un’unità e di una disciplina che “non possono essere meccaniche e
coatte; devono essere leali e di convinzione”.12
II
Stesso l’indirizzo sul terreno teorico. Una prima lista di testi che Gramsci ha in mente al
principio del 1924, progettando una scuola di partito e un corso per corrispondenza, comprende, tra
gli altri, scritti di Lenin, Korsch e Bucharin (la Teoria del materialismo storico), oltre a nuove
edizioni, filologicamente rigorose, di alcuni scritti (noti e meno noti) di Marx ed Engels.13 Anche su
9 Cf V. Gerratana, “Stalin, Lenin e il marxismo-leninismo”, in AA. VV., Storia del marxismo, dir. da E. J.
Hobsbawm, vol. III.1, Torino: Einaudi 1980; G. Labica, Il marxismo-leninismo (tra ieri e domani), trad. it. di A.
Catone, Roma: Edizioni Associate 1992 e, in riferimento a Gramsci, L. Paggi, Le strategie del potere cit., pp. 75-80. 10
Lettera al Comitato centrale del Pcus (CPC 128). Sulle circostanze che accompagnarono la trasmissione della
lettera e sul carteggio che ne derivò cf G. Vacca, “Gramsci 1926-1937: la linea d’ombra nei rapporti con il Comintern e
con il partito”, in id., Togliatti sconosciuto, Roma: l’Unità 1994, pp. 13-59, qui 23-30. Un’interpretazione della vicenda
in C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato (1975), trad. it. di C. Mancina e G. Saponaro, Roma: Editori Riuniti 1976,
pp. 310-18; e in Paggi, Le strategie del potere cit., cap. VIII: L’ultima battaglia di Gramsci (pp. 348 ss.). 11
Togliatti, in quel momento a Mosca, aveva replicato a Gramsci criticando i giudizi espressi nella lettera.
Gramsci gli risponde assai duramente il 26 ottobre, scrivendo tra l’altro: “Tutto il tuo ragionamento è viziato di
‘burocratismo’: oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è piú il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi
che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva,
ideologicamente e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il
socialismo. L’autorità del partito è legata a questa persuasione, che non può essere inculcata nelle grandi masse con
metodi di pedagogia scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria, cioè solo dal fatto politico che il Partito russo nel
suo complesso è persuaso e lotta unitariamente” (CPC 136 s.). 12
Lettera al Comitato centrale del Pcus (CPC 130). A Togliatti, che gli obietta che una qualsiasi critica
all’operato della maggioranza “non può che risolversi a totale beneficio della opposizione” (CPC 132), Gramsci replica
che tale eventualità “deve preoccuparci fino ad un certo punto; infatti è nostro scopo contribuire al mantenimento e alla
creazione di un piano unitario nel quale le diverse tendenze e le diverse personalità possano riavvicinarsi e fondersi
anche ideologicamente” (lettera a Togliatti cit. [CPC 135]). 13
Lettera del 14/1/1924 al comitato esecutivo del PCd’I, in A. Gramsci, Lettere 1908-1926 cit., pp. 189-91. Tra i
testi segnalati ci sono Marx e la sua dottrina di Lenin, L’essenza del marxismo di Karl Korsch, la Teoria del
materialismo storico di Bucharin, il Manifesto del partito comunista con le note di Davíd Rjazanov, un’antologia di
testi di Marx ed Engels sul materialismo storico, inoltre l’Antidühring e L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla
scienza di Engels e gli scritti storici piú importanti di Marx, come “Il 18 brumaio, la guerra civile in Francia ecc.” Di
4
questo terreno si può notare il tentativo di inserire il proprio discorso entro il dibattito
internazionale, mantenendo però sempre uno spazio di manovra che consenta di articolare una
propria posizione originale. Non si può pensare che Gramsci abbia utilizzato, traducendola e
sunteggiandola nella prima dispensa della scuola di partito, la Teoria del materialismo storico di
Bucharin (proprio il volume che demolirà impietosamente nei Quaderni), per puro opportunismo.14
Eppure è innegabile che la distanza teorica che lo separa dal russo, anche nel 1924-25, è abissale ed
è già, sostanzialmente, quella che verrà esplicitata puntigliosamente in carcere. In effetti l’unico
punto di contiguità di Gramsci e Bucharin è un certo settarismo nella concezione della ‘cultura’ che
l’italiano manifesta in questo momento:
“Né uno ‘studio oggettivo’, né una ‘cultura disinteressata’, possono aver luogo nelle nostre file; nulla
quindi che assomigli a ciò che viene considerato oggetto normale di insegnamento secondo la concezione
umanistica, borghese della scuola. Siamo una organizzazione di lotta [...]. Studio e cultura non sono per
noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a
tradurli in atto”.15
Questa idea della totale estraneità di ‘cultura proletaria’ e ‘cultura borghese’ può essere
accostata all’idea buchariniana di una ‘scienza proletaria’ contrapposta alla ‘scienza borghese’,16
idea che avrà peraltro molta fortuna nel marxismo della Terza Interna[110]zionale nel corso degli
anni Venti. Anzi, la stessa concezione del marxismo con cui viene avviata nei Quaderni la
riflessione filosofica, come “teoria” che “è rivoluzionaria in quanto è [...] elemento di separazione
completa in due campi, in quanto è vertice inaccessibile agli avversari”, e la connessa esigenza di
tagliare “completamente [...] i legami col vecchio mondo” (4,14 = Q 435), sono delle evidenti
derive (almeno parziali) della posizione del 1924-25.
Resta però il fatto che il ‘ritorno a Marx’ propugnato nel Q 4 è un elemento di almeno
indiretto contrasto rispetto all’ortodossia. Cosí quando (poche righe sopra il passo ora citato)
Gramsci afferma che
“il concetto di ‘ortodossia’ deve essere rinnovato e riportato alle sue origini autentiche. L’ortodossia non
deve essere ricercata in questo o quello dei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a correnti
estranee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi
fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per
vivificare una totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una integrale, totale civiltà”,
cos’altro sta facendo, se non demolire alla base la doppia idea sulla quale in quegli anni
veniva edificato il ‘marxismo-leninismo’, vale a dire, da un lato, il nesso forte istituito tra Marx e
Lenin (“questo o quello dei discepoli di Marx”), dall’altro l’idea che la filosofia del marxismo fosse
il materialismo (“quella o questa tendenza legata a correnti estranee al marxismo”)?
La versione materialistico-dialettica del marxismo (a cui faceva capo Plechanov e quindi
Lenin,17 e dalla quale verrà tratto il marxismo ‘ufficiale’ sovietico) non è dunque altro, per Gramsci,
che una forma di anestetizzazione dell’inaudita novità del discorso filosofico di Marx (“Marx inizia
questi ultimi occorre far “rivedere e correggere le traduzioni esistenti che sono orribili”. Si noti che nel 1923
l’Internazionale aveva condannato Marxismo e filosofia di Korsch. 14
La dispensa è ora riprodotta, insieme all’unica altra uscita, la seconda, in A. Gramsci, Il rivoluzionario
qualificato, a cura di C. Morgia, Roma: Delotti Editore 1988. Cf anche Introduzione al primo corso ecc. (CPC 56):
“Nella prima parte, che ricalcherà o addirittura darà la traduzione del libro del compagno Bukharin sulla teoria del
materialismo storico, i compagni troveranno una trattazione completa” sulla “teoria del materialismo storico”. Della
Teoria Gramsci riprende (con omissioni e integrazioni) l’Introduzione e il cap. II. Cf Paggi, “La teoria generale del
marxismo in Gramsci”, in id., Le strategie del potere cit., pp. 427-98 e Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato cit., pp.
241 s. 15
“La scuola di partito”, in L’Ordine Nuovo, aprile 1925 (CPC 49 s.). 16
Cf N. I. Bucharin, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, 1921, trad. it. di
A. Binazzi, Firenze: La Nuova Italia 1977, pp. 7-11. 17
Si noti che Gramsci non poteva conoscere i Quaderni filosofici di Lenin, allora inediti, in cui questi, passando
attraverso la lettura di Hegel, va molto oltre il materialismo di Plechanov. Il Lenin ‘filosofo’ che Gramsci (come del
resto chiunque in quel periodo) ha presente è perciò quello di Materialismo ed empiriocriticismo.
5
intellettualmente un’epoca storica che durerà probabilmente dei secoli”) (7,33 = Q 882),
esattamente come lo sono, in forma opposta e complementare, le varie ‘revisioni del marxismo’ che
a cavallo tra i due secoli sostennero la necessità di integrare la dottrina di Marx con elementi
filosofici tratti dal pensiero non marxista (sopratutto, ma non solo, sul terreno dell’etica). Il
marxismo materialistico e quello neokantiano sono dunque entrambi delle forme di ‘revisionismo’.
Di piú: Gramsci afferma addirittura (3,31 = Q 309)18 che è stata la “tendenza” che “ricade nel
materialismo volgare” ad aver “creato la sua opposta, di collegare il marxismo col kantismo”.
Inoltre “la ragione storica” della genesi del marxismo materialistico-volgare sarebbe “da ricercare
nel fatto che il marxismo ha dovuto allearsi con tendenze estranee per combattere i residui del
mondo precapitalistico nelle masse po[111]polari, specialmente nel terreno religioso”. In altre
parole, è stata la necessità politica di diffusione della dottrina che ha favorito il materialismo
volgare, piú vicino di altre correnti di pensiero maggiormente elaborate alla mentalità popolare,
fondamentalmente religiosa: a Dio si è cosí sostituita la Materia, cioè un Principio anch’esso
estraneo e preesistente all’uomo.19
È evidente, infine, che individuando l’‘ortodossia’ del marxismo non in una posizione teorica
definita, ma nell’affermazione formale della sua autonomia e indipendenza sul terreno filosofico,
Gramsci non ‘svuota’ questo concetto di qualsiasi determinazione teorica definita; e nemmeno
rifiuta qualsiasi idea di sua integrazione e aggiornamento sulla base dell’esperienza storica. Molto
semplicemente, quello che egli vuole far rilevare è una duplice esigenza: che, in primo luogo, si
torni a leggere Marx al di qua dei marxismi, tentando di individuare la rivoluzione da lui operata sul
terreno filosofico (rivoluzione misconosciuta e occultata dai suoi “discepoli”); e, in secondo luogo,
che si estragga da lí, e non da concetti avventizi, tutto ciò che, di volta in volta, l’esperienza storica
richiede in termini di teoria. Ma, di nuovo, ‘estrarre’ non va qui inteso come un dedurre
conseguenze da principî (come se Marx avesse già detto tutto, anche sulla storia posteriore), ma
come un processo creativo che, fondandosi sulla propria autonomia teorica, sappia anche
confrontarsi con le correnti di pensiero contemporanee ed eventualmente assorbire (criticandoli)
alcuni loro aspetti o momenti.
2. La filosofia della praxis
I
Dov’è allora il nocciolo autentico della ‘nuova’ filosofia di Marx? Gramsci lo dice subito,
nelle battute iniziali di AF I: Marx produce, rispetto sia a Hegel (idealismo) che a Feuerbach
(materialismo), “una nuova costruzione filosofica: già nelle tesi su Feuerbach appare nettamente
questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia” (4,3 = Q 424). Sono note le vicende
editoriali di questo breve testo: redatto nella primavera del 1845, fu da Marx lasciato inedito e
pubblicato per la prima volta dopo la sua morte da Engels nel 1888, in appendice al suo Ludwig
Feuerbach und der Ausgang der deutschen klassischen Philosophie,20 in un’edizione
18
La stessa affermazione è anche, a proposito del rapporto di Lukács con Bucharin, in 4,43 = Q 469. 19
“‘Politicamente’, il materialismo è vicino al popolo, alle credenze e ai pregiudizi e anche alle superstizioni
popolari” (4,3 = Q 424). Basta gettare uno sguardo a un testo di Lenin come Marxismo e revisionismo (1908), per
rendersi conto della distanza dalle posizioni di Gramsci: Lenin considera il “materialismo dialettico” come marxismo
autentico, e riconduce il revisionismo all’espressione teorica degli elementi piccolo-borghesi proletarizzati e confluiti
nelle fila del movimento operaio (in V. I. Lenin, Opere scelte, Roma: Editori Riuniti 19763, pp. 445 e 450).
20 Va notato che Engels, presentando le Tesi, adopera gli stessi termini ripresi poi da Gramsci: “Es sind Notizen
für spätere Ausarbeitung, rasch hingeschrieben, absolut nicht für den Druck bestimmt, aber unschätzbar als das erste
Dokument, worin der geniale Keim der neuen Weltanschauung niedergelegt ist” (in Marx-Engels, Werke, Bd. 21,
Berlin: Dietz 1962, p. 264). Nella traduzione di Ettore Ciccotti, che Gramsci possedeva, ma non aveva probabilmente
con sé a Turi (Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, in Marx-Engels-Lassalle,
Opere, a cura di E. Ciccotti, vol. IV, seconda ristampa riveduta, Milano: Soc. ed. “Avanti!” 1922, sez. 9), sono
6
sostanzialmente corretta, ma che presentava tuttavia delle lievi varianti rispetto al manoscritto
originale (come più avanti si vedrà). In edizione critica le Tesi uscirono poi, a cura di David
Rjazanov, nel 1925, insieme all’Ideologia tedesca.21
[112]Le Tesi furono tradotte in italiano per la prima volta nel 1899 da Giovanni Gentile (sulla
base, ovviamente, del testo edito da Engels) e poste al centro di una fortunata e molto discussa
interpretazione della “filosofia di Marx”22 che Gramsci sicuramente conosceva.23 Eppure, lungo
tutto l’arco degli scritti precedenti i Quaderni non compare, nonostante la grande insistenza
sull’‘agire’ e sull’‘atto’, un solo riferimento a questo testo. Una riflessione sulle Tesi si trova solo
nei Quaderni, ma qui è davvero approfondita: Gramsci non solo le traduce in italiano (usando
l’edizione di Engels), ma le pone anche, come si è iniziato a vedere, al centro della propria
personale ricostruzione del materialismo storico, insieme a pochi altri testi di Marx: la Miseria della
filosofia, la Prefazione a Per la critica dell’economia politica – altro testo che traduce in italiano –
alcuni passi della Sacra famiglia, del Capitale (in particolare il Libro I) e della Introduzione alla
Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico.24
II
Negli 11 brevi aforismi redatti a Bruxelles nel 1845 il giovane filosofo e agitatore renano
prende decisamente le distanze da Ludwig Feuerbach, definendo una propria personale
impostazione filosofica basata sul concetto di “praxis”, intesa come “attività sensibile umana”.25 In
questa espressione Marx sintetizza (Tesi 1) l’attività, fino ad allora pensata nei termini
dell’idealismo come spirito (dunque non sensibile), e la sensibilità, fino ad allora pensata nei
termini del materialismo come mera passività, intuizione (dunque non attiva). Un’attività sensibile
umana è dunque sí un’attività (Tätigkeit), ma un’attività sensibile, pratica, non teoretico-
speculativa; e al contempo è una forma della sensibilità, ma di una sensibilità intesa in modo attivo,
non intuitivo e passivo. Insomma se l’idealismo aveva sviluppato un concetto di attività di tipo
speculativo, il materialismo (feuerbachiano) si era contrapposto sí alla speculazione, ma perdendo
di vista l’attività e restando di conseguenza rinchiuso in una concezione meramente passiva del
conoscere. Nell’uno e nell’altro caso la realtà, l’oggetto viene comunque concepito
speculativamente: dall’idealismo, perché esso è pensato sí come risultato di una produzione, ma
questa produzione avviene nel pensiero; dal materialismo, perché l’esigenza, da esso formulata, di
“oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero” (Tesi 1 [Q 2355]) mette capo a
comprese anche le Tesi. Non è inutile ricordare che il Ludwig Feuerbach è, insieme all’Antidühring, il testo engelsiano
più frequentato da Gramsci nei Quaderni. 21
In Marx-Engels-Archiv, I (1925), pp. 227-30. 22
G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa: Spoerri 1899. Sulle fortune di questa lettura cf E. Garin, Cronache di
filosofia italiana 1900/1943. Quindici anni dopo 1945/1960, Bari: Laterza 1966, pp. 211-21; N. De Domenico,
“Gentiles Praxis-Philosophie und ihr Einfluß auf die Marx-Rezeption in Italien”, in AA. VV., Arbeit und Reflexion, a
cura di P. Furth, Köln: Pahl-Rügenstein 1980; B. de Giovanni, “Sulle vie di Marx filosofo in Italia. Spunti provvisori”,
in il Centauro, 1983, n. 9, pp. 3-25. 23
Nella biblioteca di Attilio Carena si trova un’edizione del volume datata marzo 1920. Carena era un amico di
Gramsci e a lui legato nel “club di vita morale” (la biblioteca di Carena è documentata da G. Bergami, Il giovane
Gramsci e il marxismo (1911-1918), Milano: Feltrinelli 1977, pp. 177-93, qui 182). 24
Sebbene fosse in linea di principio possibile, Gramsci non ebbe mai l’edizione critica delle Tesi (né, quindi,
conobbe L’ideologia tedesca). Il testo tedesco che utilizza per la traduzione è infatti contenuto in un volumetto a cura di
Ernst Drahn uscito nel 1919, ed è quindi quello engelsiano: cf K. Marx, Lohnarbeit und Kapital. Zur Judenfrage und
andere Schriften aus der Frühzeit, a cura di E. Drahn, Leipzig: Reclam s.d. [ma 1919], pp. 43-46. Nelle citazioni darò la
traduzione di Gramsci (Q 7, cc. 2r-3r = Q 2355-57). Rispetto a quella oggi in uso (F. Engels-K. Marx, Opere complete,
trad. it. di F. Codino, vol. V, Roma: Editori Riuniti 1972, pp. 625-27), essa non differisce se non per qualche dettaglio,
tranne che in un caso, come si vedrà più avanti. Il testo engelsiano è ora edito in Marx-Engels, Werke, Bd. 3, Berlin:
Dietz 1962, pp. 533-35. 25
Q 2355 (trad. Gramsci). Nell’esposizione che segue terrò presente l’importante studio di G. Labica, Karl Marx
– Les “Thèses sur Feuerbach”, Paris: Puf 1987. Sul pensiero filosofico di Marx fino al 1848 cf G. Labica, Le statut
marxiste de la philosophie, Bruxelles-Paris: éd. Complèxe-Puf 1976.
7
un’idea di “intuizione sensibile” (Tesi 5 [Q 2356]) che rinuncia all’attività e pertanto si limita di
porre dinanzi a sé un oggetto statico e immodificabile.
[113]All’uno e all’altro Marx oppone la sua idea della pratica (Praxis), vale a dire una
concezione dell’oggetto come oggetto di un’attività sensibile, il lavoro, e pertanto, da una parte,
realmente posto-innanzi all’uomo (Gegenstand) (e non Objekt speculativamente posto),26 dall’altra,
conosciuto (nel concreto della sua pratica trasformazione) come dinamico e modificabile.27 In altri
termini, nel concetto di praxis (che egli infatti nella stessa Tesi definisce “attività oggettiva,
effettiva”, “gegenständliche Tätigkeit” [Q 2355]) Marx pensa in modo nuovo la pratica, cioè tutta la
rete di attività di varia natura che, afferma, costituiscono “essenzialmente” la “vita sociale” (Tesi 8
[Q 2357]).
Feuerbach, che aveva nettamente distinto la praxis dal “modo di procedere teoretico” (da lui
giudicato il solo “schiettamente umano”), nella Essenza del cristianesimo l’aveva di conseguenza
“concepita e stabilita solo nella sua raffigurazione sordidamente giudaica [schmutzig-jüdisch]” (Tesi
1 [Q 2355]), che, nei termini feuerbachiani, equivale a dire nella sua forma meramente egoistica e
particolaristica. Per il filosofo di Landshut, infatti, la “concezione pratica” (in cui rientra in modo
paradigmatico la religione) si accosta alle “cose” essenzialmente (ed egoisticamente) in funzione di
una qualche utilità e le considera pertanto non per se stesse, quali realmente sono, ma
esclusivamente per ciò in cui mi sono utili. Pertanto essa è “una concezione impura [schmutzig]”.28
Marx rovescia questa concezione, affermando che è proprio ponendosi nell’ottica pratica che si
conoscono realmente le cose, gli oggetti, per quello che sono, cioè come momenti di una vita
sociale fondata sulla loro trasformazione. Il fatto che l’oggetto sia ‘per me’ non significa altro se
non che appartiene alla “vita sociale”, è inserito nella rete di rapporti pratici che la costituiscono.
La concezione della società come rete di rapporti pratici definisce in modo nuovo e originale
il nesso uomo-società. Questo non può in alcun modo venire concepito come un rapporto a senso
unico, quale che sia tale senso (l’individuo costituisce la società ovvero la società costituisce
l’individuo), proprio perché il concetto di ‘rapporto pratico’ porta dentro di sé, costitutivamente,
l’idea della reciprocità e anzi coessenzialità di attività e passività.29 Infatti l’individuo agisce
praticamente, è attivo, solo inserendosi in rapporti determinati, che egli trova come già dati, e che
quindi, allo stesso tempo, lo costituiscono come individuo sociale. Viceversa, questi rapporti
vengono costantemente rinnovati e nuovamente costituiti dall’attività individuale, e anzi non sono
altro che le forme nelle quali gli individui attivamente trasformano le condizioni materiali della
propria esistenza sociale (cioè lavorano). Questa coincidenza del trasformare e dell’esser trasformati
(trasformare in quanto si viene tra[114]sformati e viceversa) è la concezione dialettica della
socialità che Marx afferma nelle Tesi, e che si trova espressa sinteticamente anche nella Ideologia
tedesca, anch’essa scritta, insieme a Engels, nel 1845:
“Questa concezione [materialistica] della storia [...] non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega la
formazione di idee partendo dalla prassi materiale [...] Essa mostra [...] che ad ogni generazione è stata
tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può
senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue
proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le
circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Questa somma di
26
È questo il senso del termine tedesco usato da Marx: “Gegenstand” (come oggetto realmente di fronte a me)
esplicitamente contrapposto allo “Objekt” come oggetto dell’intuizione: “Il difetto principale di ogni materialismo fino
ad oggi – compreso quello di Feuerbach – è che l’oggetto [Gegenstand], la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo
sotto la forma dell’obietto [Objekt] o dell’intuizione” (Tesi 1, Opere complete cit., p. 626; Q 2355; Werke cit., p. 533; si
noti che Gramsci non differenzia, nella traduzione, Gegenstand da Objekt, rendendo entrambi con “oggetto”, ma
l’interpretazione complessiva del testo indica che ha compreso il senso della distinzione). 27
Sulla questione del ‘pensiero’ alla luce del concetto di praxis cf infra, al punto III, e il cap. 3.III, dove viene
citata e commentata la Tesi 2. 28
L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums (1841), in Sämtliche Werke, a cura di W. Bolin e F. Jodl, Stuttgart-
Bad Cannstatt: Frommann Verlag 1960, Bd. 6, p. 237. Cf Labica, Les Thèses cit., p. 33. 29
Cf C. Luporini, “Introduzione” a id., Dialettica e materialismo, Roma: Editori Riuniti 1974, pp. XI s. e, dello
stesso autore, “Marx: problemi filosofici e epistemologici” (1968), ivi, pp. 382-85.
8
forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova
come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come ‘sostanza’ ed
‘essenza dell’uomo’”.30
È evidente qui che la nuova concezione della società e del rapporto uomo-società è anche, allo
stesso tempo, una ridefinizione della ‘socialità’ o ‘umanità’ dell’uomo. Nella Tesi 6 si legge che
“l’essenza umana non è una astrazione immanente nel singolo individuo. Nella sua realtà è
l’insieme dei rapporti sociali [das Ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse]”.31 In altre parole,
quello che si è tradizionalmente inteso con l’espressione ‘essenza umana’ non è, per Marx, un
attributo dell’individuo (che in qualche modo lo lega alla sua ‘natura’), ma, al contrario, “è ciò che
esiste tra gli individui, per le loro molteplici interazioni”.32 Ne consegue anche che l’essenza umana
non è qualcosa di ‘essenziale’, di fisso e immutabile, ma qualcosa di dato di volta in volta, e
precisamente è la correlazione originaria sussistente tra individuo e società (cioè tra gli individui).
Il risultato delle Tesi sta nella reinterpretazione della ‘realtà’ e della ‘oggettività’ come un
insieme di rapporti attivi che a ogni istante costituiscono gli uomini come ‘animali sociali’ in
quanto vengono da essi costituiti. Una volta accettato questo punto di vista, la tradizionale
distinzione tra ‘uomini’ e ‘circostanze’ (Marx parla [Tesi 3] di Umstände),33 tra condizione e
condizionato viene a perdere di importanza. Ciò che è in questione non è d’altronde l’esistenza di
tali distinzioni e rapporti (esistenza di un’evidenza non bisognosa di dimostrazione), ma la loro
natura. Questa nuova concezione della società permette di rifiutare l’idea secondo la quale la
distinzione di attività e passività può essere considerata fondante e determinante sul piano
ontologico, sia in un senso che nell’altro, cioè sia in quanto si faccia dell’uomo un ente passivo di
fronte alle “circostanze” (materialismo), sia in quanto si faccia di queste un mero prodotto della
spontaneità dello spi[115]rito (idealismo). Nella Tesi 3, sotto forma di una critica a determinati
aspetti paradossali derivanti dalla “dottrina materialistica che gli uomini sono il prodotto
dell’ambiente [Umstände] e dell’educazione”, per cui, a voler modificare (riformare) la società, ci
troveremmo costretti a scinderla “in due parti, una delle quali è sopra posta alla società” (Q 2356)
stessa, ha luogo un regolamento di conti filosofico. Il paradosso di una parte della società sottratta al
gioco di condizionamenti, e quindi alla storia, può essere risolto solo pensando la trasformazione
della società come “auto-trasformazione”,34 cioè come “la coincidenza del mutarsi dell’ambiente
[Umstände] e dell’attività umana”.35 Questa coincidenza di condizione e condizionato, di attivo e
passivo è il processo dialettico reale, che può essere “concepito e compreso razionalmente solo
come prassi rivoluzionaria”.36
30
F. Engels-K. Marx, Die deutsche Ideologie, in Marx-Engels, Werke, Bd. 3 cit., pp. 37 s. (L’ideologia tedesca,
trad. it. di F. Codino, Roma: Editori Riuniti 19672, pp. 29 s.).
31 Marx-Engels, Werke cit., p. 534. In realtà Gramsci traduce “Wesen” con “realtà”, ma dà “essenza” come
variante interlineare. 32
E. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, Roma: manifestolibri 1994, p. 36. 33
Marx-Engels, Werke cit., pp. 533 s. Come si vedrà, Gramsci traduce questo termine con “ambiente” (forse
influenzato dalla traduzione di Ciccotti?: Marx-Engels-Lassalle, Opere, vol IV cit., p. 41). Ciccotti riprende a sua volta
Gentile (La filosofia della prassi, in id., La filosofia di Marx. Studi critici, 1899, quinta edizione riveduta e accresciuta a
cura di V. A. Bellezza, Firenze: Sansoni 1974, pp. 69 s.). 34
Quest’ultimo termine è nel manoscritto ma non compare nell’edizione Engels. Cf l’edizione critica in Marx-
Engels, Werke, Bd. 3 cit., p. 6; e la traduzione in Opere complete, vol. V cit., p. 4. 35
Qui la traduzione gramsciana contiene un fraintendimento del testo tedesco, dato che “das Zusammenfallen”,
“il coincidere”, viene reso con “il convergere”. 36
Opere complete cit., p. 626 (trad. leggermente rimaneggiata). Gramsci traduce “umwälzende Praxis”
(letteralmente: prassi rovesciante, sovversiva) con “rovesciamento della praxis” (Q 2356). L’espressione “umwälzende
Praxis” fu introdotta da Engels al posto della forse troppo esplicita “revolutionäre Praxis” contenuta nel manoscritto di
Marx (cf Werke cit., pp. 534 e 6). L’origine della traduzione gramsciana, del tutto errata, sta nella prima versione
italiana delle Tesi, ad opera di Giovanni Gentile, che la rese con “prassi rovesciata” (cf G. Gentile, La filosofia della
prassi cit., pp. 68-71). La stessa interpretazione è presente anche nella traduzione di Rodolfo Mondolfo (Feuerbach e
Marx, 1909, ora in id., Umanismo di Marx, a cura di N. Bobbio, Torino: Einaudi 1968, pp. 10 s.), che la rende con
“praxis che si rovescia”. L’errore di Gentile (e di Mondolfo, che a lui esplicitamente si riallaccia) aveva delle ragioni
teoriche ben precise, riassumibili nella riconferma del dualismo e dell’impossibilità di superarlo a partire dalla “praxis”
9
L’esito della riqualificazione della realtà in termini di praxis è la comprensione della praxis
come trasformazione della realtà, e dunque l’affermazione della necessità che la filosofia si faccia
teoria di questa praxis, cioè teoria rivoluzionaria (Tesi 11: “I filosofi hanno solo interpretato il
mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo” [Q 2357]).
III
L’unico filosofo marxista che abbia compreso la centralità del concetto di praxis è, secondo
Gramsci, Antonio Labriola, in quanto è stato anche il solo a sostenere “che la filosofia del
marxismo è contenuta nel marxismo stesso”, tentando cosí “di dare una base scientifica al
materialismo storico”.37
È stato autorevolmente scritto che “nello sviluppo della personalità di Gramsci, nel periodo
giovanile, come nell’esperienza dell’Ordine Nuovo e nel primo periodo di formazione del partito
comunista, non pare di poter ravvisare una influenza rilevante dell’insegnamento di Labriola”,38 ed
è vero: i riferimenti al filosofo di Cassino sono sporadici. Ma sono anche (si noti) tutti positivi e
tutti rivolti nella stessa direzione che è, in fondo, anche quella dei Quaderni: l’individuazione in
Labriola dell’unico vero rappresentante del marxismo teorico in Italia.39 Nei Quaderni questo
giudizio viene radicalizzato, e in Labriola Gramsci individua l’unico vero rappresentante del
marxismo teorico tout court. Come non pensare che siamo qui di fronte a una significativa
coincidenza? Non è forse questa radicalizzazione contestuale alla crucialità assegnata alle Tesi su
Feuerbach, cioè alla categoria di ‘praxis’ e quindi all’interpretazione del marxismo come ‘filosofia
della praxis’? Non era stato, d’altronde, proprio Labriola a definire, nel [116] 1897, come “filosofia
come “attività sensibile”; un’impostazione che è esattamente l’opposto di quella, radicalmente relazionale, propugnata
qui da Marx e, come si vedrà sempre meglio, anche da Gramsci. (Sulla ‘barocca’ e ‘impensabile’ metafora della ‘praxis
che si rovescia’ cf C. Luporini, “Il marxismo e la cultura italiana del Novecento”, in AA. VV., Storia d’Italia, dir. da R.
Romano, vol. V.2, Torino: Einaudi 1973, pp. 1583-1611, qui 1605 s.) Ritengo pertanto che questa traduzione sia una
deriva linguistico-concettuale, inserita però in un nesso sistematico del tutto nuovo. Non sorprende infatti che, quando
compare nei Quaderni in contesti argomentativi concreti, l’espressione “rovesciamento della praxis” sia, in definitiva,
un sinonimo di ‘rivoluzione’, finendo così per coincidere con il senso del testo originale di Marx; cf 11,14 = Q 1403,
10,II,28 = Q 1266, 10,II,33 = Q 1279, 10,II,41.XII = Q 1319. 37
Cf anche: “Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri con la sua affermazione che il marxismo stesso è una
filosofia indipendente e originale. In questa direzione occorre lavorare, continuando e sviluppando la posizione del
Labriola” (Q 422). “Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema
filosofico deve essere fatta predominare” (Q 309). Sul pensiero di Labriola cf il classico studio di L. Dal Pane, Antonio
Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino: Einaudi 1975 (nuova edizione del volume pubblicato nel 1934
col titolo Antonio Labriola. La vita e il pensiero). Cf inoltre: G. Procacci, “Antonio Labriola e la revisione del
marxismo attraverso l’epistolario con Bernstein e Kautsky (1895-1904)”, in Annali dell’Istituto Giangiacomo
Feltrinelli, III (1960), pp. 264-84; E. Garin, “Introduzione” (col titolo “Antonio Labriola e i Saggi sul materialismo
storico”) a Labriola, La concezione materialistica della storia, Bari: Laterza 1965; V. Gerratana, “Introduzione” a
Labriola, Scritti politici (1886-1904), Bari: Laterza 1970 (dello stesso Gerratana cf anche “Antonio Labriola e la
politica”, in Studi storici, XXVI (1985), n. 3, pp. 565-80); G. Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia,
Urbino: Argalía 19762.
38 V. Gerratana, “Sulla ‘fortuna’ di Labriola”, in id., Ricerche di storia del marxismo, Roma: Editori Riuniti
1972, pp. 145-69, qui 157 (ma cf tutto il cap. 2: “Labriola e Gramsci”, pp. 155-63). Questo parere è accentuato da
Luporini, “Il marxismo e la cultura italiana del Novecento” cit., pp. 1587 ss., che parla di vera e propria “discontinuità”. 39
Ecco i piú importanti: gennaio 1918: le simpatie positivistiche “hanno fatto ristagnare la produzione
intellettuale del socialismo italiano, che pure con gli scritti di Antonio Labriola aveva avuto un inizio cosí fulgido e
pieno di promesse” (A. Gramsci, La città futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino: Einaudi 1982, pp. 614 s.);
dicembre 1923: progettando la terza serie della rivista L’Ordine Nuovo, Gramsci esprime il desiderio di realizzare “un
numero unico dedicato ad Antonio Labriola e alla fortuna del marxismo in Italia” (lett. a M. Scoccimarro, in Lettere
1908-1926 cit., p. 138); aprile 1925: “L’attività teorica, cioè la lotta sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel
movimento operaio italiano. In Italia il marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato piú dagli intellettuali
borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo a uso della politica borghese, che dai rivoluzionari” (Introduzione al primo corso
della scuola interna di partito [CPC 54]).
10
della praxis” quello che gli pareva essere “il midollo del materialismo storico”?40 Di piú: pur non
riferendosi alle Tesi, Labriola aveva individuato (come farà poi Gramsci) la specificità di Marx
come filosofo nel superamento contemporaneamente di “materialismo naturalistico” e “idealismo”:
“Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello [...]
Il materialismo storico, ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale,
come mette termine a ogni forma d’idealismo [...], cosí è la fine anche del materialismo naturalistico”.41
Ma le affinità tra Gramsci e Labriola non si fermano qui. Secondo quest’ultimo la filosofia
della praxis è “la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia”,42 intendendo con ciò che lo
stesso statuto dei ‘concetti’ doveva essere ridefinito: non piú “cose ed entità fisse” ma “funzioni”,43
piú precisamente “funzioni sociali” generate nelle “correlazioni di consociazione pratica, che
corrono da individuo a individuo”,44 cioè nei rapporti sociali (i quali, viceversa, costituiscono
l’individuo come individuo sociale).45
Non è difficile ritrovare in questi passaggi le fonti della lettura gramsciana di Marx (cioè del
Marx ‘filosofo della praxis’), in particolare su due punti, a ben vedere strettamente correlati. In
primo luogo, la riqualificazione del concetto idealistico moderno di “immanenza”. In 4,11 si legge:
“Marx dà al termine ‘immanenza’ un significato proprio, egli cioè non è un ‘panteista’ nel senso
metafisico tradizionale, ma è un ‘marxista’ o un ‘materialista storico’” (Q 433). In un altro testo,
contenuto nel Q 10 e quindi a questo posteriore di circa due anni, Gramsci torna a parlare di
Labriola, non casualmente a proposito del concetto di una “filosofia della praxis” e in connessione
al nuovo terreno teorico aperto dalle Tesi su Feuerbach: “Lo stesso Croce, in una nota del volume
Materialismo storico ed economia marxistica, riconosce [...] esplicitamente come giustificata
l’esigenza di costruire una filosofia della praxis posta da Antonio Labriola” (10,II,31 = Q 1270). E
prosegue notando che l’interpretazione secondo la quale le Tesi sono non già il rifiuto della filosofia
per la politica pratica (come le intende Croce), ma un’energica “rivendicazione di unità tra teoria e
pratica”, equivale alla “affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza
assoluta, di una ‘terrestrità assoluta’” (Q 1271). Il nuovo significato conferito da Marx al concetto di
“immanenza” si collega dunque, per Gramsci (esattamente come per Labriola), all’idea della
terrestrità del pensiero.
Il secondo punto è l’interpretazione del concetto di ‘praxis’. Il primo testo (in ordine
temporale) in cui questa viene intrapresa è 4,37. Qui [117] Gramsci, discutendo un saggio apparso
nella Civiltà cattolica in cui idealismo e materialismo vengono contrapposti come “monismi”
entrambi contrari alla religione, osserva che il materialismo storico non è
“né il monismo materialista né quello idealista, né ‘Materia’ né ‘Spirito’ evidentemente, ma
‘materialismo storico’, cioè attività dell’uomo (storia)46
in concreto, cioè applicata a una certa ‘materia’
organizzata (forze materiali di produzione), alla ‘natura’ trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto
(praxis), ma non dell’‘atto puro’, ma proprio dell’atto ‘impuro’, cioè reale nel senso profano della parola”
(Q 455).
40
A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897), in id., Saggi sul materialismo storico, a cura di V.
Gerratana e A. Guerra, Roma: Editori Riuniti 1964, p. 207. 41
Ivi, pp. 207 s. 42
Ivi, p. 207. 43
Ivi, p. 213. 44
Ivi, p. 207. 45
Cf ibidem: “I mezzi della convivenza sociale, che sono, da un lato, gl’istrumenti, e dall’altro i prodotti della
collaborazione variamente specificata, costituiscono, al di là di ciò che offre a noi la natura propriamente detta, la
materia e gl’incentivi della nostra formazione interiore. Di qui nascono gli abiti secondarii, derivati e complessi, pei
quali, di là dai termini della nostra corporea configurazione, sentiamo il nostro proprio io come la parte di un noi, il che
vuol dire, in concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una istituzione, di uno stato, di una chiesa, di una patria,
di una tradizione storica, e così via”. 46
Variante interlineare: “spirito”, che viene ripresa anche nella seconda stesura: “attività umana (storia-spirito)”
(11,64 = Q 1492).
11
L’impurità dell’atto è evidentemente da collegare a quella di immanenza vista sopra. Tornerò
piú avanti su questo nesso (cf 3.III); ora, in riferimento a 4,37, va evidenziato il fatto che, definendo
il concetto di praxis, Gramsci lo demarca non solo rispetto agli opposti monismi metafisici, ma
anche rispetto alla filosofia dell’atto puro, cioè all’attualismo gentiliano. Rispetto ai primi, in
quanto nell’agire il materialismo storico individua l’unità concreta di soggetto e oggetto, e quindi
un luogo teorico a partire dal quale lo stesso problema del dualismo di coscienza e mondo perde di
significato. Rispetto al secondo, in quanto quel luogo teorico non è la concretezza come interiorità
nel senso gentiliano, ma proprio la salvaguardia di quell’esteriorità (contingenza, evenemenzialità)
presente nell’agire “reale nel senso profano della parola”, cioè nel senso piú immediato e comune.
La questione di una ‘filosofia della praxis’ può dunque essere riformulata come la questione della
possibilità stessa di quella salvaguardia.
È, in definitiva, la stessa domanda formulata da Gentile nella Filosofia di Marx, alla quale
egli aveva dato però una risposta negativa, in quanto dall’alternativa tra materialismo naturalistico e
idealismo storicistico non era, secondo lui, possibile uscire. E questo perché, in definitiva, per
Gentile ‘materialismo’ non è (come per il Marx delle Tesi) l’esigenza – schiettamente post-
hegeliana – di rivendicare la finitezza del pensiero (e quindi la ricerca dell’immanenza), ma la
metafisica della materia, trascendente e dualistica per definizione, per di più presentata in tutta la
sua crudezza.47 Cosicché il concetto di “praxis” viene giudicato inconciliabile con quello di materia,
e l’intera idea di un “materialismo storico” liquidata come contraddizione in termini.48
Puntando sulla novità semantica del concetto di “immanenza” in Marx rispetto alla metafisica
moderna, Gramsci imbocca la via ermeneutica esattamente opposta a quella di Gentile. Per Gramsci
la questione da svolgere non è solo (e non propriamente) quella del rapporto [118] tra idealismo e
materialismo, ma quella del modo in cui, di fronte a queste due opposte posizioni di pensiero, Marx
cambia terreno, producendo una discontinuità rispetto a entrambe (e anche alla loro combinazione
più o meno riuscita). L’espressione “filosofia della praxis” indica questo scarto, consistente nella
storicizzazione del pensiero, cioè nella concezione di esso come dotato di senso solo in riferimento
a uno specifico contesto pratico. In Gentile, al contrario, la medesima espressione indica il tentativo,
inevitabilmente aporetico, di pensare come possano conciliarsi il pensiero speculativo
tradizionamente inteso e l’altrettanto tradizionale materia-natura. Cosí, se per Gentile “materialismo
storico” significa ‘dinamizzazione della materia’ (cioè introduzione ab extra dell’attività nella
morta materia), il significato che Gramsci assegna a questa locuzione è non tanto contrario, quanto
piuttosto dislocato su di un altro terreno, indicando essa la concezione secondo la quale l’accadere
(quindi l’agire), nella sua specificità irriducibile, non rinvia ad altro che a se stesso per essere
compreso.
È chiaro che questa idea di immanenza ha un qualche legame con Machiavelli, ed è infatti lo
stesso Gramsci a darcene una conferma in un testo (5,127) a questi dedicato e, verosimilmente,
posteriore solo di alcune settimane a 4,37.49 In esso si legge che il Segretario fiorentino
“nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che pertanto si
presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale che si
potrebbe anch’essa chiamare ‘filosofia della praxis’ o ‘neo-umanesimo’ in quanto non riconosce elementi
trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per
le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà” (Q 657).
In un certo senso è proprio l’idea-base di Machiavelli, l’irriducibile antitesi virtù-fortuna, con
l’apertura radicale all’imprevisto che essa comporta, ciò che maggiormente attira Gramsci. Proprio
perché aleatoria (e indeducibile da altro), questa struttura implica infatti l’esclusione non solo della
trascendenza, ma anche (come viene notato) della stessa immanenza metafisicamente intesa,
47
Cf Gentile, La filosofia della prassi cit., pp. 90 e 156-65. 48
Ivi, pp. 163-65. 49
Cf G. Francioni, L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei “Quaderni dal carcere”, Napoli:
Bibliopolis 1984, 57 s.; cf inoltre DQ 2384 e 2386.
12
lasciando visibile esclusivamente l’azione nella sua effettività, che pertanto deve diventare
pensabile a partire da se stessa e da nient’altro.
Il concetto di praxis abbozzato nel corso del 1930 si verrà precisando e articolando nel 1931-
32, dando luogo all’idea dell’identità dialettica di politica e filosofia: se la filosofia, cioè il pensiero
nella sua forma eminente, è anch’essa una forma di pratica, una ideologia, allora essa è anche una
politica, una pratica rivolta a un oggetto specifico, le ‘coscienze’ da [119] conformare di volta in
volta alle esigenze di una classe sociale determinata. La filosofia è, in termini crociani, una
“religione” o, in termini gramsciani, una forma di “egemonia”. È questo, credo, il senso del passo
seguente:
“Riduzione a ‘politica’ di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico-politica; la filosofia
della praxis concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di ‘egemonia’ politica”
(10,II,6.IV = Q 1245).
Va sottolineato che questa idea di ‘riduzione’ di filosofia e politica comporta anche delle
acquisizioni nuove rispetto al 1930. La traduzione della filosofia speculativa in politica-ideologia
non è finalizzata alla sua liquidazione. L’intento di Gramsci è precisamente l’opposto e consiste nel
decifrare la ‘speculazione’ non come un allontanamento dalla realtà (come se solo il pragmatismo
volgarmente inteso fosse un pensiero ‘realistico’!) ma come una forma ‘a suo modo’ di politica,
dotata di una sua peculiare efficacia (l’esempio che egli ha costantemente di fronte è la “religione
della libertà” di Benedetto Croce come filosofia-ideologia grande-borghese, cemento coesivo della
classe colta italiana e anzi europea).50
3. Le ideologie e il concetto di oggettività
I
Rispetto alle tradizionali posizioni filosofiche del materialismo e dell’idealismo e alla loro
riflessione all’interno della storia del marxismo, Gramsci propugna un’impostazione di tipo
radicalmente relazionale e funzionale secondo la quale gli individui sono un intreccio di ‘rapporti
sociali’ economici, politici, culturali e financo, come si è visto, “di conoscenza”, rapporti che
costituiscono gli individui in quanto vengono da essi costituiti (cioè costantemente riprodotti). In
quest’ottica funzionale e correlativa viene riformulata una questione tradizionale della filosofia:
quella della verità o della oggettività. Se infatti non vi è un fondamento (sia esso la Materia o
l’Idea) che funzioni da garanzia suprema, quale sarà il criterio della verità e come andrà inteso
questo concetto? Intanto, un punto fermo è che il concetto di verità deve essere riformulato a
partire dalla praxis, cioè dalla situazione in cui concretamente l’uomo sperimenta il carattere
correlativo della realtà, in quanto, rapportandosi a delle condizioni date per trasformarle, ne viene al
contempo trasformato.
50
L’elaborazione della teoria dell’egemonia è il modo in cui Gramsci si libera di certe asprezze di cui sopra ho
segnalato la presenza nel punto d’avvio dei Quaderni. Per averne un’idea si mettano a confronto questi due testi,
rispettivamente della primavera 1930 (DQ 2373) e del 1933 (DQ 2417): “Ciò che è ‘politica’ per la classe produttiva
diventa ‘razionalità’ per la classe intellettuale. Ciò che è strano è che dei marxisti ritengano superiore la ‘razionalità’
alla ‘politica’, la astrazione ideologica alla concretezza economica. Su questa base di rapporti storici è da spiegare
l’idealismo filosofico moderno” (1,151 = Q 134); “Il filosofo ‘individuale’ di tipo italiano o tedesco, è legato alla
‘pratica’ mediatamente [...], il pragmatismo vi si vuole legare subito e in realtà appare così che il filosofo tipo italiano o
tedesco è più ‘pratico’ del pragmatista che giudica dalla realtà immediata, spesso volgare, mentre l’altro ha un fine più
alto, pone il bersaglio più alto e quindi tende ad elevare il livello culturale esistente (quando tende, si capisce). Hegel
può essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioni liberali dell’Ottocento. I pragmatisti, tutt’al più, hanno
contribuito a creare il movimento del Rotary club” (17,22 = Q 1925 s.).
13
Questa riformulazione ha luogo in AF I, in particolare in un gruppo di note51 che, direttamente
o indirettamente, [120] ruotano attorno a quel celebre testo della maturità di Marx – la Prefazione
(1859) a Per la critica dell’economia politica – che nel marxismo della Seconda Internazionale era
diventato il piú fermo sostegno di un’interpretazione deterministica ed economicistica del
materialismo storico. Ora la particolarità di Gramsci sta nel fatto che egli lo pone, accanto alle Tesi,
a fondamento della propria interpretazione del marxismo, leggendolo in una direzione esattamente
opposta a quella dominante.52
La tesi principale della Prefazione è la seguente:
“Nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano a far parte di rapporti determinati, necessari,
indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di
sviluppo delle loro forze materiali di produzione. L’insieme di questi rapporti di produzione forma la
struttura economica della società, la base reale, sulla quale si innalza una superstruttura giuridica e
politica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali di coscienza” (Q 2358).
Per Marx i rapporti sociali fondamentali sono quelli economici di produzione ed è la dinamica
di questa sfera della vita sociale (la dialettica “rapporti di produzione”/”forze materiali di
produzione”) che definisce l’ambito dell’oggettività, vale a dire l’istanza determinante
dell’evoluzione sociale. La distinzione base-sovrastruttura (Basis-Überbau) serve appunto a
marcare questa peculiarità funzionale, vale a dire il rapporto di determinante a determinato, non a
distinguere una pretesa sfera materiale-oggettiva da una ideale-soggettiva, cioè l’‘essere’ dalla
‘coscienza’ (o, peggio, la realtà solida dall’illusione volatile).53
Pertanto è stata un’interpretazione riduzionistica quella secondo la quale “si potrebbe parlare
di realtà materiale ‘in fondo’ soltanto per le cose economiche, mentre tutte le altre manifestazioni
sociali – Stato, diritto, forme di coscienza di vario grado – possiederebbero sempre meno ‘realtà’ e,
infine, svanirebbero in pura ‘ideologia’”.54 Esattamente questa forma di riduzionismo
economicistico combatte Gramsci, criticando la riduzione dello “‘sviluppo delle forze economiche’
in generale” all’evoluzione dello “strumento tecnico”: sbaglia chi (come nella fattispecie Luigi
Einaudi) “crede che per il marxismo ‘strumento tecnico’ o ‘forze economiche’ significhi parlare
delle cose materiali e non dei rapporti sociali, cioè umani, che sono incorporati nelle cose materiali
e la cui espressione giuridica è il principio di proprietà”.55 Gramsci si batte cioè contro un
intendimento volgare del concetto di ‘materialità’ delle forze produttive, come appare ad esempio in
Bucharin, ma anche nell’economista non marxista Achille Loria: è questa “una deviazione infantile
della filosofia della [121] praxis, determinata dalla convinzione barocca che quanto piú si ricorra a
51
4,12, 4,15, 4,20, 4,37, 4,38, 4,45 (= Q 433 s., 436 s., 441, 454 s., 455-65, 471 s.). 52
Cf, oltre ai testi già citati, 7,20 = Q 869, 10,II,59.II = Q 1354 ecc. Come già ricordato, la Prefazione è tra i testi
di Marx tradotti da Gramsci (in parte: cf Q 7, cc. 3r-4r = Q 2358-60). Anche in questo caso citerò da questa traduzione.
Nell’antologia cit., curata da Drahn, il “Vorwort” è alle pp. 43-46 (cf Marx-Engels, Werke, Bd. 13, Berlin: Dietz 1964,
pp. 7-11). Una traduzione recente è: K. Marx, “Prefazione” a Per la critica dell’economia politica, 1859, a cura di E.
Cantimori Mezzomonti, Roma: Editori Riuniti 19843, pp. 4-6 (per la parte tradotta da Gramsci). 53
La definizione “forze materiali di produzione” (“materiellen Produktivkräfte”: cf Werke, Bd. 13 cit., p. 8)
abbraccia, “oltre la natura [che comprende anche la forza-lavoro umana], la tecnica, la scienza, innanzi tutto anche
l’organizzazione sociale stessa e le forze sociali sin dall’inizio cosí create, mediante la cooperazione e la divisione
industriale del lavoro” (K. Korsch, Karl Marx (1936), trad. it. di A. Illuminati, Roma-Bari: Laterza 19776, pp. 213 s.).
Si tratta insomma della complessiva energia socialmente organizzata (parte di origine naturale, parte di origine sociale,
ma comunque sempre in quanto socialmente organizzata) sfruttabile ai fini della riproduzione della vita materiale. Qui
sta il senso della ‘materialità’ delle forze produttive. Cf il seguente passo della “Prefazione”: “Il modo di produzione
della vita materiale condiziona generalmente il processo della vita sociale, politica e spirituale” (Q 2358). 54
Korsch, op. cit., p. 237. 55
7,13 = Q 864. Cf anche 4,38 = Q 462, dove tra gli “aspetti parziali dell’economismo storico” si annovera “la
dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto ai cangiamenti degli strumenti tecnici, mentre Marx parla
sempre di ‘forze materiali di produzione’ in generale e in queste forze include anche la forza fisica degli uomini”. Una
distinzione netta tra “economismo storico” e “materialismo storico” che dà il giusto rilievo alla posizione di Gramsci
nell’elaborazione del marxismo è operata da D. Losurdo, “Economisme historique ou matérialisme historique? Pour une
relecture de Marx et d’Engels”, in Archives de Philosophie, LVII (1994), pp. 141-55.
14
oggetti ‘materiali’ tanto piú si è ortodossi”(11,29 = Q 1442).56 Nel materialismo storico in realtà “la
materia non è [...] considerata come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la
produzione, come rapporto umano” (4,25 = Q 443).
II
Ma il riduzionismo ha due lati, complementari: all’impoverimento della coppia rapporti di
produzione/forze produttive materiali nella concezione dello ‘strumento tecnico’ corrisponde, di
rimando, la riduzione delle forme di coscienza, delle ‘ideologie’, a pura chiacchiera, ad ‘apparenze’
e ‘illusioni’. Questo secondo aspetto del nesso base-sovrastruttura viene sviluppato da Gramsci
secondo due direttrici. La prima di esse corrisponde alla necessità di combattere il determinismo
economistico annidatosi nel seno del materialismo storico, secondo il quale, da un lato, l’ideologia
sarebbe mero mascheramento di ben piú concreti e ‘sordidi’ interessi ‘materiali’ (cioè economici e
addirittura monetari); e, dall’altro, lo sviluppo storico complessivo altro non sarebbe che un riflesso
diretto e meccanico di quello economico. La seconda direttrice è invece la risposta alle critiche
trancianti rivolte al marxismo da Benedetto Croce a partire dalla fine della guerra. Questi, che nel
1896 aveva affermato, contro il volgare determinismo di un Loria, che
“né il Marx si è mai proposto questa indagine intorno alla causa ultima della vita economica. La sua
filosofia non era cosí a buon mercato. Non aveva ‘civettato’ invano con la dialettica dello Hegel, per
andar poi a cercare le ‘cause ultime’”,57
invece nel 1928 sostiene che il materialismo storico considera “sostanziale la vita economica
e apparenza, illusione o ‘soprastruttura’, come [esso] la chiamava, la vita morale”;58 e nel 1930,
infine, che esso è una dottrina,
“peggio che metafisica, addirittura teologica, dividendo l’unico processo del reale in struttura e
soprastruttura, noumeno e fenomeno, e ponendo sulla base come noumeno un Dio ascoso, l’Economia,
che tira tutti i fili e che è la sola realtà nelle apparenze della morale, della religione, della filosofia,
dell’arte e via dicendo”.59
Insomma con gli anni Croce, sempre piú reciso nel “raccomandare di liberarsi dai residuali
[...] preconcetti” del materialismo storico,60 finirebbe, secondo Gramsci, per attaccare proprio quella
“deviazione infantile della filosofia della praxis” contro la quale si batte anch’egli, assumendola
tuttavia come la versione autentica del [122] pensiero di Marx. Quindi battendosi contro
l’economismo in tutte le sue forme Gramsci contrasta indirettamente anche le intenzioni crociane di
‘superamento’ del marxismo. Su questo punto egli è molto chiaro e in un testo del Q 4, proprio
polemizzando con Croce, schizza a grandi linee la propria teoria anti-economistica delle ideologie:
“Per Marx le ‘ideologie’ sono tutt’altro che illusioni e apparenza, sono una realtà oggettiva ed operante,
ma non sono la molla della storia, ecco tutto. Non sono le ideologie che creano la realtà sociale, ma è la
realtà sociale, nella sua struttura produttiva, che crea le ideologie. Come Marx potrebbe aver pensato che
le superstrutture sono apparenza ed illusione? Anche le sue dottrine sono una superstruttura. Marx
afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro compiti nel terreno ideologico, delle
superstrutture, il che non è piccola affermazione di ‘realtà’: la sua teoria vuole appunto anch’essa ‘far
prendere coscienza’ dei propri compiti, della propria forza, del proprio divenire a un determinato gruppo
sociale. Ma egli distrugge le ‘ideologie’ dei gruppi sociali avversi, che appunto sono strumenti pratici di
56
Questa osservazione è riferita a Bucharin. Cf anche, contro lo stesso, 4,12 = Q 433: “Si confonde struttura con
‘struttura materiale’ in genere e ‘strumento tecnico’ con ogni strumento materiale ecc.”. 57
B. Croce, Le teorie storiche del prof. Loria (1896), in id., Materialismo storico ed economia marxistica
(1900), Roma-Bari: Laterza 1968, pp. 39 s. Cf 4,19 = Q 440 s., dove Gramsci riporta per esteso questo passaggio. Cf
inoltre 4,26 = Q 445: “il problema delle cause ultime è [...] vanificato dalla dialettica”. 58
Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, in id., Etica e politica (1931), Roma-Bari: Laterza
1981, p. 225. Questo passo viene richiamato da Gramsci in 4,15 = Q 436 s. 59
“Il Congresso di Oxford”, in La Nuova Italia, I (1930), n. 10, p. 432. Questo passaggio viene richiamato in 7,1
= Q 851. 60
Croce, Storia economico-politica cit., p. 226.
15
dominio politico sulla restante società: egli dimostra come esse siano prive di senso, perché in
contraddizione con la realtà effettuale” (4,15 = Q 436 s.).
Affermazioni come queste non sono in Gramsci del tutto inedite, ma un sia pur rapido
confronto con i loro precedenti può servire a dare un’idea della loro novità. In un articolo di molto
precedente (maggio 1918), si legge:
“Marx irride le ideologie, ma è ideologo in quanto uomo politico attuale, in quanto rivoluzionario. La
verità è che le ideologie sono risibili quando sono pura chiacchiera, quando sono rivolte a creare
confusioni, ad illudere e asservire energie sociali, potenzialmente antagonistiche, ad un fine che è
estraneo a queste energie. Marx irride i democratici spappolati, che non conoscono la forza, credono la
parola sia carne, credono che alle forze organizzate basti opporre la parola, che ai fucili e ai cannoni basti
opporre il petardo del vaniloquio. Ma come rivoluzionario, cioè uomo attuale di azione, non può
prescindere dalle ideologie e dagli schemi pratici, che sono entità storiche potenziali, in formazione; solo
che le salda con la forza dell’organizzazione, del partito politico, della associazione economica”.61
È evidente l’unità di impostazione dei due testi. Ma è anche evidente che nel secondo (1918) è
presente un’inflessione, che chiamerei vitalistica, assente nel primo (1930). Secondo l’articolo del
’18 l’ideologia assume valore esclusivamente in riferimento alla funzione che svolge rispetto alle
“energie sociali” dalle quali viene fatta propria: questa le può potenziare o deprimere, aiutarle a
sviluppare la propria intrinseca ‘vita’, o ingannarle, impastoiandole in una finalità a esse
propriamente estranea. Non c’è bisogno di sottolineare la matrice soreliana e crociana di queste
affermazioni. In realtà i due tipi astratti di ideologia (positiva e negativa) sono ricalcati su due
ideologie storiche ben precise (da Gramsci peraltro [123] chiaramente nominate): quella della lotta
di classe e quella democratica; realistica, storicistica e dialettica la prima, utopistica, astratta e
meccanica la seconda. Parlando di asservimento delle “energie sociali, potenzialmente
antagonistiche, ad un fine che è estraneo a queste energie”, Gramsci pensa appunto all’ideologia
democratica che tenta di affogare i reali (o meglio: potenziali) ‘antagonismi’ (il conflitto delle
classi) nell’astrazione vaga e unitaria della ‘Giustizia’ e della ‘Umanità’.
Nel luglio 1916 Gramsci aveva già reso pubblico il suo debito nei confronti di Croce,
riconoscendogli il merito di aver rimesso in auge la concezione dialettica, secondo la quale nella
storia solo la “forza” ha ragione, aggiungendo poi che questa forza è “intelligente quando è
spontaneamente messa al servizio di un partito che vuole affermarsi, bruta e prezzolata quando
difende coi questurini una posizione acquisita”.62 Si tratta, in definitiva della medesima distinzione
all’opera per il concetto di ideologia, anche qui basata sull’opposizione tra l’espansione e la
compressione della ‘vita’ di una classe particolare (il proletariato) e letta alla luce dell’opposizione
tra una metaforica biologica e una meccanica.63
Come si vede, l’impostazione ‘vitalistica’ serve a Gramsci a pensare quella che potremmo
definire la ‘missione storica’ del proletariato, il suo ruolo ‘progressivo’ nella storia dell’umanità.
Ma essa non mette capo a una vera e propria teoria dell’ideologia (né della forza), l’astrazione
arrestandosi nel momento in cui quel ruolo sembra garantito dall’opposizione della forza-energia
vitale-spontanea alla forza-violenza artificiosa e meccanica del mondo borghese. Invece è proprio
questa teorizzazione che viene intrapresa nei Quaderni, dove si tenta di giungere a una teoria
generale dell’ideologia, a una teoria, cioè, che sia applicabile sia alla borghesia che al proletariato,
superando cosí la semplice contrapposizione materiale utilizzata in precedenza.64
61
A. Gramsci, Il nostro Marx. 1918-1919, a cura di S. Caprioglio, Torino: Einaudi 1984, p. 17. 62
A. Gramsci, Cronache torinesi. 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Torino: Einaudi 1980, pp. 443 s. 63
Sulle metafore biologiche nel giovane Gramsci cf M. Ciliberto, “Gramsci e il linguaggio della vita”, in Critica
marxista, XXVII (1989), n. 3, pp. 679-99 e G. Piazza, “Metafore biologiche ed evoluzionistiche nel pensiero di
Gramsci”, in AA. VV., Antonio Gramsci e il “progresso intellettuale di massa”, a c. di G. Baratta e A. Catone, Milano:
Unicopli 1995, pp. 133-40. 64
Questo punto è stato messo in luce in modo definitivo da V. Gerratana, “Stato, partito, strumenti e istituzioni
dell’egemonia nei ‘Quaderni del carcere’ di Antonio Gramsci”, in AA. VV., Egemonia, Stato e partito in Gramsci,
Roma: Editori Riuniti 1977, pp. 37-54.
16
III
È ovvio che, affinché una tale teoria sia possibile, occorre anzitutto formulare la domanda
circa la natura dell’ideologia. A ben vedere, però, la risposta a questa domanda è già presente nel
testo citato sopra, dove si dice: “Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza
dei loro compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture”. Anche questa affermazione è un
riferimento alla Prefazione del 1859, in particolare a un passo in cui Marx afferma che, nell’esame
dei “sovvertimenti” sociali,
“bisogna sempre far distinzione tra il sovvertimento materiale nelle condizioni della produzione
economica, che deve essere constatato fedelmente col metodo delle scienze naturali e le forme giuridiche,
politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una [124] parola: le forme ideologiche, nel cui terreno gli
uomini diventano consapevoli di questo conflitto e lo risolvono” (Q 2359).
Qui Marx istituisce una netta distinzione tra l’indagine scientifica (la “critica dell’economia
politica”) e le forme ideologiche di percezione dei conflitti sociali: mentre la prima li coglie
direttamente, nella loro verità (i rapporti di produzione), le seconde, invece, solo attraverso sistemi
di idee che ad un tempo ne rivelano e ne occultano la reale natura, permettendo sí di “diventare
consapevoli” di quei conflitti e di “risolverli”, ma solo a condizione di ‘vestirli’ in forme religiose,
politiche, morali ecc.65 Secondo Marx, insomma, la critica dell’economia politica è uno strumento
scientifico che rende possibile penetrare al di là del velo ideologico che avvolge la realtà,
permettendo di distinguere tra il Wesen (cioè i rapporti reali) e le sue specifiche
Erscheinungsformen.66
Gramsci fa registrare su questo punto uno scarto netto dalla ‘lettera’ del testo marxiano,
scarto che egli peraltro, in un altro testo del Q 4, onestamente dichiara:
“Per la questione della ‘obbiettività’ della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di
partenza deve essere l’affermazione di Marx [...] che ‘gli uomini diventano consapevoli (di questo
conflitto) nel terreno ideologico’ delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma
questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di
produzione – come materialmente dice il testo marxista – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni
conoscenza? Questo è il problema, che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del
valore delle superstrutture ideologiche” (4,37 = 454 s.).
La radicalizzazione qui prospettata mette addirittura in discussione la distinzione, postulata da
Marx, tra scienza e ideologia.67 E infatti è proprio a questo che Gramsci mira se, come si è visto, piú
volte sostiene che lo stesso materialismo storico è una ‘ideologia’ o ‘superstruttura’. Sembra cosí
65
Il testo marxiano ha “ausfechten” (Werke, Bd. 13 cit., p. 9), che la Cantimori-Mezzomonti traduce con
“combattere” (Per la critica dell’economia politica cit., p. 5). Rendendolo con “risolvere” Gramsci accentua invece il
‘portare a termine’ presente nell’”aus” e questo, a sua volta, sottolinea ancor di più l’efficacia del terreno ideologico. 66
Cf K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro primo (1873), trad. it. di D. Cantimori, Roma:
Editori Riuniti 19748, p. 592: “Le forme fenomeniche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti
del pensiero, il rapporto sostanziale deve essere scoperto dalla scienza. L’economia politica classica tocca in via
approssimativa il vero stato delle cose, senza per altro formularlo in modo consapevole. Essa non può farlo finché è
chiusa nella sua pelle borghese”. Cf anche Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro terzo (1894), trad. it. di M.
L. Boggeri, Roma: Editori Riuniti 19748, p. 930: “L’economia volgare non fa altro, in realtà, che interpretare,
sistematizzare e difendere le idee di coloro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa
produzione. Non ci dobbiamo quindi meravigliare che l’economia volgare si senta particolarmente asuo agio proprio in
questa forma fenomenica estraniata dai rapporti economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto
contraddittori – e ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente
coincidessero – e che questi rapporti le appaiano tanto piú evidenti di per sé quanto piú le rimane nascosto il loro nesso
interno, ma corrispondono alla concezione volgare”. Cf anche ivi, p. 210. 67
Dicendo questo non intendo ovviamente contrapporre crudamente Gramsci a Marx. Le posizioni di
quest’ultimo circa il nesso scienza/ideologia e circa la questione dell’oggettività sono molto piú complesse e sfumate di
quanto l’accostamento della Prefazione al Capitale lasci trasparire, e anzi la stessa ricerca di Gramsci può essere
tranquillamente assunta come uno degli effetti legittimi del pensiero di Marx. Non è un caso, credo, che esattamente il
problema qui accennato venga oggi considerato centrale nello sviluppo dell’eredità marxista da E. Balibar, La filosofia
di Marx, cit., in particolare il cap. V.
17
che l’intera cultura, ridotta a ideologia, diventi il terreno dell’arbitrio sottratto a qualsiasi possibilità
di verifica. In realtà Gramsci sta dicendo qualcosa di ben diverso, e cioè che l’ideologia è l’unico
luogo nel quale può essere articolato il discorso sulla verità e l’oggettività; che non c’è verità se non
all’interno di quelle ‘forme di consapevolezza’, sempre determinate (e praticamente, cioè
politicamente, condizionate), grazie alle quali gli uomini agiscono e trasformano la realtà; e questo
perché non c’è ‘realtà’ (alla quale la verità possa essere commisurata) se non nel processo pratico
della sua trasformazione sociale.
Per capire meglio questo punto è necessario notare che se Gramsci radicalizza la Prefazione
del 1859 è perché la sta leggendo alla luce [125] delle Tesi su Feuerbach, in particolare della
concezione della “verità” formulata nella Tesi 2:
“La quistione se al pensiero umano appartenga una verità obbiettiva, non è una quistione teorica, ma
pratica. È nella attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere
terreno del suo pensiero. La discussione sulla realtà o non-realtà di un pensiero, che si isoli dalla Praxis, è
una quistione puramente scolastica” (Q 2356 s.).
Si noti, tra l’altro, che “il carattere terreno” traduce il tedesco “Diesseitigkeit”,68 che
letteralmente significa “immanenza”.69 Probabilmente c’è, nella scelta della locuzione (che ritorna
più volte nei Quaderni: cf supra, cap. 2.III, il riferimento alla “terrestrità assoluta”), un’enfasi sul
carattere finito ed evenemenziale del pensiero, interpretato secondo il nesso verità-efficacia;70 che è,
tra l’altro, anche una garanzia contro le possibili aberrazioni a cui può andare incontro l’idea della
coestensività di verità e politica (aberrazioni di cui il marxismo-leninismo, con la sua filosofia
‘hegeliana’ della storia, mostrava proprio in quegli anni la faccia più inquietante).71 La concezione
‘pratica’ della verità produce i suoi effetti solo se è radicale, solo se questa ‘praticità’ viene sottratta
a qualsiasi istanza “sopra posta” alla praxis, cioè se, in altre parole, spinge la sua validità fino a
coinvolgere anche chi se ne fa banditore.
Gramsci sa che una concezione del genere è ‘dialettica’ e perciò difficile a comprendersi da
parte del senso comune:
“Filosofia e ideologia. Come filosofia il materialismo storico afferma teoricamente che ogni ‘verità’
creduta eterna e assoluta ha origini pratiche e ha rappresentato o rappresenta un valore provvisorio. Ma il
difficile è far comprendere ‘praticamente’ questa interpretazione per ciò che riguarda il materialismo
storico stesso” (4,40 = Q 465; cors. miei).
L’applicazione del materialismo storico allo stesso materialismo storico72 giunge a dichiarare
storico, cioè finito, insomma ideologico questo stesso pensiero, ciò che urta contro la necessità, tutta
ideologica, di rinsaldare l’entusiasmo ‘pratico’ di chi, sulla base di questa ideologia, deve agire per
trasformare il mondo, oltre che contro l’unilateralità, altrettanto ideologica, di chi teorizza in modo
puramente metafisico dettando legge alla storia (come accadrà con il marxismo-leninismo di cui
Gramsci aveva già colto le avvisaglie).73
Da questa strettoia non si esce distinguendo due verità, una per gli intellettuali (la filosofia) e
una per i ‘semplici’ militanti (la fede), ciò che equivarrebbe a fondare la propria azione politica
proprio su quella [126] scissione culturale che da questa azione dovrebbe essere soppressa
praticamente (cioè politicamente). La via d’uscita alla quale Gramsci invece pensa è riassunta
nell’idea della ‘terrestrità del pensiero’, cioè nell’idea che, non esistendo una ‘verità’ sottratta alle
68
Werke cit., p. 533. 69
Cf Opere complete cit., p. 625. Anche Ciccotti (Opere cit., p. 41) traduce con “carattere terreno”, mentre
Gentile (La filosofia della prassi cit., p. 68) stravolge il termine speculativamente in “positività”. 70
Sottolinea in generale questa tendenza E. Balibar, “Gramsci, Marx et le rapport social”, in AA. VV.,
Modernité de Gramsci?, a cura di A. Tosel, Paris: Les Belles Lettres 1992, pp. 259-69, qui 265 ss. 71
Cf Labica, Il marxismo leninismo cit., p. 122. 72
Una giusta valorizzazione di questo momento ‘autoriflessivo’ del marxismo critico di Gramsci è in D.
Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al “comunismo critico”, Roma: Gamberetti 1997, pp. 215 s. 73
La contrapposizione teoria/pratica va dunque intesa sia nel senso di ‘in astratto’ vs ‘in concreto’, sia in quello
di ‘nelle affermazioni verbali’ vs ‘nella concreta pratica (teorica)’.
18
forme nelle quali essa, di volta in volta, appare, è dentro quelle forme che gli intellettuali devono
situarsi e lavorare. Ciò che tuttavia non va inteso nel senso, meramente negativo e limitativo, di una
restrizione delle pretese del pensiero da quest’ultimo subita, per cosí dire, dall’esterno (né in quello,
che sarebbe ancora peggiore, di un calarsi nelle forme ideologiche con lo sguardo etnografico e
condiscendente di chi deve predicare in partibus infidelium). L’originalità dell’ipotesi prospettata da
Gramsci sta nel pensare questa limitazione in termini positivi, come premessa indispensabile del
divenire efficace, cioè reale, cioè vero, del pensiero stesso. In altri termini, solo la filosofia che
comprende se stessa come finita e condizionata, cioè come ideologia, sarà capace di attingere
quell’unica forma di verità che non sia mero inganno e autoinganno: la verità che si produce
collettivamente, praticamente nella politica.74 Per essere vera una filosofia (ogni filosofia) deve
dunque confrontarsi anzitutto con il fatto di essere un’ideologia, dunque non vera. È quanto viene
indicato in un testo di pochissimo posteriore a 4,40:
“Il materialismo storico [...] è la filosofia liberata da ogni elemento unilaterale e fanatico, è la coscienza
piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, individualmente inteso, o inteso come intero gruppo
sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione, e
eleva questo elemento a principio politico e d’azione” (4,45 = Q 471).
Per il materialismo storico la comprensione teorica delle contraddizioni e l’essere elemento
‘in gioco’ all’interno delle stesse contraddizioni coincidono in un unico atto teorico-pratico che, per
ciò stesso, non può non essere collettivo. In altre parole l’elevarsi, sulle orme di Hegel, a un punto
di vista superiore a quello di ogni filosofia precedente (cioè la capacità di cogliere la contraddizione
come tale, quindi la dialettica), coincide con il calarsi dentro la realtà politica della contraddizione
stessa e nel riconoscersi, proprio in quanto teoria, come suo elemento (qui è lo scarto anche rispetto
a Hegel). Il riconoscimento della propria parzialità, al limite della propria unilateralità, non è un
ostacolo sulla via della verità ma, al contrario, ne costituisce la premessa. Solo partendo da tale
parzialità sarà infatti possibile intervenire sui rapporti sociali dentro i quali realmente ci si trova (in
quanto classe sociale) per modificarli. Ma, allo stesso tempo, la coscienza della propria parzialità è
anche la coscienza del carattere ideologico del proprio punto di partenza. Ideologia [127] e
consapevolezza sono dunque due momenti inestricabilmente fusi di una stessa concezione del
mondo-pratica collettiva, che si definisce proprio per il fatto di tenerli costantemente insieme, senza
sacrificare o anteporre l’uno all’altro: né la consapevolezza all’ideologia (cioè lo scollamento degli
intellettuali dalla prassi collettiva), né l’ideologia alla consapevolezza (cioè la costruzione di una
nuova metafisica che dia garanzie certe di vittoria, al di fuori dei momenti concreti della lotta
politica). L’essere e il sapersi ‘di parte’ coincidono insomma con il congedo da “ogni elemento
unilaterale e fanatico” solo in quanto venga mantenuta in piedi questa difficile dialettica.75
Questo è il punto in cui si apre, propriamente, il tema dell’egemonia nel suo senso piú
generale, cioè come la questione delle forme concrete in cui avviene che, politicamente, le ideologie
(e quindi le filosofie) si diffondono, acquistando forza e condizionando il comportamento collettivo.
Questo tema occuperà Gramsci nel corso del 1931-32, cioè della seconda e della terza serie di
“Appunti di filosofia”, culminando nel 1932 nella formulazione del nesso filosofia-senso comune
come asse centrale di questo processo e, quindi, della stessa filosofia della praxis. Il nesso filosofia-
senso comune è pertanto il modo originale nel quale la filosofia della praxis riformula il problema
della verità a partire dal ritorno a Marx, cioè anzitutto a partire dalle Tesi su Feuerbach e dalla
Prefazione del 1859.
74
Cf E. Balibar, Politique et vérité, in id., La crainte des masses, Paris: Galilée 1997, pp. 251-79. 75
Si noti che già al momento della seconda stesura di questo testo (1932) Gramsci mostra di nutrire seri dubbi
sulla concordanza delle proprie idee con quello che accadeva di fatto nel movimento comunista: in tal modo va a mio
avviso interpretata la seguente variante instaurativa: “è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi) da ogni elemento
ideologico” ecc. (11,62 = Q 1487; cors. mio). Questo passo va messo in relazione con gli appunti sul dibattito filosofico
nell’URSS nel 1930-1931 contenuti nei quaderni 8 e 11; cf in particolare Q 1042, 1387 s. Su questi luoghi cf V.
Gerratana, “Impaginazione e analisi dei ‘Quaderni’”, in Belfagor, XLVIII (1993), n. 3, pp. 345-52, partic. 349-51.