Il diavolo nel folclore di Toro. Onomastica e toponomastica, proverbi, modi di dire, mascherate e...

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Giovanni Mascia Il diavolo nel folclore di Toro Onomastica e toponomastica, proverbi, modi di dire, mascherate e leggende popolari sul diavolo Campobasso, gennaio 2015

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Giovanni Mascia

Il diavolo nel folclore di Toro

Onomastica e toponomastica, proverbi,

modi di dire, mascherate e leggende popolari sul diavolo

Campobasso, gennaio 2015

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Indice:

p. 3 I – I nomi del diavolo

p. 6 II – Il diavolo nella toponomastica cittadina

p. 9 III – Il diavolo nei proverbi e nei modi di dire

p. 11 IV – Il libro del comando

p. 12 1. La mummia

p. 20 2. La casa della Paura

p. 26 3. La seduta spiritica sotto il Barbacane

p. 28 4. La cinquina del diavolo

p. 32 V – Il diavolo beffato, rappresentazioni e leggende

p. 32 1. La maschera del diavolo

p. 35 2. L’osceno calamaio di San Giovanni in Galdo

p. 39 3. Fernando all’inferno.

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I – I nomi del diavolo

La figura del diavolo è figura fondamentale della vita tradizionale del Molise. Basti pensare alla pantomima carnevalesca di Tufara, e ai misteri del Corpus Domini campobassano, due dei quali, quelli di Sant’Antonio abate e di San Michele Arcangelo, vedono le turbe demoniache schiamazzare contro la tunzella, la donzella, l’emblema della seduzione lussuriosa, e contro la popolazione tutta, alla quale carpire l’obolo grazie alle oscene linguacce e ai compiaciuti e ripugnanti morsi alle code scuoiate di vacca1.

Come era lecito aspettarsi il diavolo è presente anche nella vita tradizionale di Toro, dove è indicato con diversi nomi: Diavolo, Demonio, Lucifero, Lucibello, Tentazione (in ques’ultimo caso rigorosamente al maschile, per esempio, in tono più o meno scherzoso: – Quissu cjtele è nu Tantazióne!, Questo bambino è un Demonio!). Attenzione però a U diaveljlle. Non è il piccolo diavolo, ma il peperoncino. E non c’è nome migliore per evocarne la potenza bruciante esaltata dal rosso fuoco della buccia. Chi ha avuto la sorte di leggerlo, assicura che tutta una teoria di nomi demoniaci sarebbero annotati nel cosiddetto Libro del comando, il libro che si vorrebbe strutturato come i comuni messali, con Satana al posto di Dio e la schiera dei demoni al posto dei santi delle litanie. Il Libro del comando è stato ricercato da generazioni di toresi, convinti che grazie alle sue virtù fosse possibile costringere il demonio a soddisfare i propri desideri e a far fronte alle proprie esigenze, proprio come il proprietario della lampada magica costrinse il genio delle novelle arabe. Episodi realmente accaduti, che oggi hanno il sapore di favola, ruotano attorno al Libro del comando. Resta assai popolare la vicenda di un terzetto di paesani che procuratosi il misterioso volume si riunirono nottetempo per evocare Satana… Ma ci soffermeremo su di loro e sul libro in appresso, a parte.

Certo è che di norma il diavolo non lo si invoca. Anzi, si evita persino di nominarlo, per paura che al sentirsi evocato, il diavolo non decida di materializzarsi, come nel caso di quella donna, la futura madre di Fernando, che era andata nel bosco a raccogliere la legna. Ma anche di questa vicenda racconteremo più avanti. Per non correre il rischio di vederselo comparire davanti, il popolano fa ricorso a perifrasi tipo Quillu brutte fatte, Quélla bbrutta bestie, Quel brutto fatto, Quella brutta bestia, o più significativamente:

Quille che sta sótte a Ssanta Mechèle, Colui che sta sotto (i piedi di) San Michele: il demonio, dalla pelle color carbone secondo l’iconografia tradizionale. Una variante recita: Njre cumm’a quille che sta sótte a Santa Mechèle, Nero come il demonio, e ciò principalmente in senso figurato ma anche in senso letterale, quando si fa riferimento a persona scura di pelle2.

A proposito di San Michele, si racconta un aneddoto legato al tempo, durato fino alla metà del Novecento, in cui era usanza torese festeggiare il santo con sparo, banda e processione. Al ritorno della statua in chiesa, la prassi voleva che i devoti sfilassero a baciargli il piede. Sennonché un bandista forestiero, tra lo sconcerto generale, non si limitò al bacio canonico dell’Arcangelo, ma

1 Sui Misteri di Campobasso la bibliografia è diffusa e nota. In pieno Ottocento, tra i primi a pubblicare sull’argomento, due nostri concittadini: Camillo De Luca, Ricordanze patrie, Napoli 1856 (con le litografie dei Misteri di Pasquale Mattei), e Luigi Alberto Trotta, Reliquie dei Misteri in Molise, «Il Muratori», vol. III, 1894, fasc. 430. 2 Giovanni Mascia, Un pangialjngue. Spunti liturgici e religiosi nel dialetto di Toro, in «Utriculus», n. 18 aprile/giugno 1996.

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volle baciare anche le corna del diavolo, spiegando con un sorrisetto furbo. – È bene tenerseli buoni tutti e due. Non si può mai sapere3.

Ignoto scultore attivo nel XVIII secolo, San Michele Arcangelo,

legno intagliato e policromato, Toro, Chiesa SS. Salvatore (Foto S. Nazzario)

Avrà pure scandalizzato i benpensanti, il bandista, ma non gli si può dare tutti torti. Sono innumerevoli, infatti, i modi che ha il brutto ceffo di nuocere. Tra l’altro, i diavoli, con le streghe, i vecchi spauracchi e gli animali magici, sono considerati i signori del tempo (atmosferico), la cui dimora è nell’aria, secondo la tradizione popolare innestata su culture precristiane e sull’iconografia corrente che assegna loro le ali, sia pur di pipistrello. Solo a poco a poco la dottrina

3 Aneddoto che, dettaglio più dettaglio meno, si racconta in molti paesi. Per Ripalimosani, cfr. Michele Minadeo,

Lessico del dialetto di Ripalimosani (in provincia di Campobasso). Con appendice di poesie e prose popolari, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università, Torino 1955, Ristampa Edizioni Enne, Campobasso 1996.

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cristiana è riuscita a scalfire, senza rimuovere del tutto, tali radicate opinioni e a trasformare in sottili tentatori dimoranti nelle perdute profondità dell’inferno i diavoli, che nella concezione pagana e paleocristiana si ostinavano a presidiare l’atmosfera come regno intermedio tra la terra degli uomini e il cielo di Dio e dei suoi eletti. Nessuna meraviglia quindi se, specie nelle culture contadine come quella di Toro, è durata fino ai giorni nostri la credenza del potere dei diavoli su fulmini, venti, burrasche, grandinate e fenomeni rovinosi atmosferici in genere o, addirittura, l’identificazione del diavolo nei citati fenomeni, da combattere, quindi, e possibilmente debellare con il suono delle campane, l’accensione di candele benedette, il segno della croce, la recita di preghiere o giaculatorie popolari... Credenza che spingeva le nostre nonne a trasalire e a segnarsi ripetutamente persino quando quei fenomeni si manifestavano in forme tutt’altro che terrificanti, come, per esempio, “u jrle”, il mulinello di vento, polvere e foglie. Ma per la trattazione sistematica ed estesa dell’argomento, rimandiamo il lettore curioso al volume sulle valenze liturgiche, lessicali e folcloristiche di un’antica funzione religiosa della Settimana Santa, a Toro chiamata ‘A scurdate, L’oscurità (liturgicamente, Le tenebre). Secondo l’interpretazione ufficiale della Chiesa, con il buio e il caratteristico frastuono finale erano rievocati le tenebre e il terremoto che accompagnarono il trapasso di Cristo sulla croce. Secondo altri, invece, lo strepito si rendeva necessario proprio per allontanare dal tempio e dall’adunanza i demoni e gli spiriti maligni, imbaldanziti per la morte del figlio di Dio. Del resto, il diavolo non è detto principe delle tenebre?4

4 Giovanni Mascia, Le tenebre nel Molise, Liturgia, lessico e folclore di un antico rituale di Pasqua, Palladino editore, Campobasso 2001. Cfr., in particolare il capitolo Il perché dello strepito, pp. 63-84

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II – Il diavolo nella toponomastica cittadina

A Toro, non solo San Michele, ma i santi, in genere, sono molto venerati e la Chiesa altrettanto rispettata. La toponomastica cittadina ha strade e piazze principali intitolate: ‘A vje du cumminte (ribattezzata ma senza favore popolare in Viale San Francesco), U chiane Sa’ Mmercúrie, ‘A Lenzeiate, ‘Nnanze a cchiesie (ribattezzata anch’essa, ma solo burocraticamente verrebbe di dire, Piazza Luigi Alberto Trotta), I coste Sa’ Rrocche… (Via del Convento, Piazza San Mercurio, Via dell’Annunziata, Piazza della Chiesa, Coste San Rocco...)5.

La toponomastica dell’agro presenta invece: U colle Sa’ Mmercúrie, U colle San Pitre, ‘A cróce Pezzjlle, ‘A cróce Campeuasce, ‘A chiane di priuete… (Colle San Mercurio, Colle San Pietro, Croce Pozzillo, Croce di Campobasso, Piana dei Preti…). È chiamato, infine, U colle de Ddje, Colle di Dio, la collinetta che domina l’abitato. Fu ribattezzato “Colle del Diavolo”, da un manipolo di soldati addetti a una contraerea, ivi dislocata durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa del freddo pungente che i poveretti vi soffrirono, alloggiati come erano in improvvisate baracche di legno6.

Il ponte sul Tappino, ai piedi dell’abitato di Toro (Foto G. Mascia)

5 G. Mascia, Un Pangialjngue, op. cit. 6 Ivi.

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Una leggenda assai popolare, diffusa ovunque in Italia, assegna il nome di Ponte del Diavolo a manufatti di difficile realizzazione tecnica: il popolino sbalordito ipotizzava che per costruire questo o quel ponte, si fosse chiesto aiuto al diavolo. Il brutto ceffo avrebbe preteso in cambio l’anima della prima creatura che fosse passata sul ponte7. Accettato il patto, in una sola notte il diavolo completa l’opera, ma la mattina seguente i cittadini fanno passare sul ponte un gatto (o un cane o addirittura un maiale, a secondo delle versioni). Il diavolo così beffato (nei racconti popolari, così come nella Maschera del diavolo torese – si veda più avanti –, il diavolo è sempre beffato), deve accontentarsi dell’anima della bestiola.

Nonostante una bella ed ampia campata centrale, non alla portata di tutte le mezzecucchiare8 dell’epoca, il nomignolo di Ponte del Diavolo è stato risparmiato al nostro bel ponte sul Tappino, che spesso e volentieri è definito ponte romanico, benché a dire il vero l’arco centrale non è riuscito perfettamente tondo, come pretendeva il progetto originale, conservato presso l’Archivio di Stato di Campobasso. L’opera fu progettata e realizzata nei primi anni dell’Ottocento dal muratore tuttofare, Francesco Fagnani da Pescopennataro, trapiantato a Oratino (lo stesso artigiano che negli stessi anni aveva progettato e iniziato a ricostruire il rustico della nostra chiesa parrocchiale del Santissimo Salvatore, abbattuta dal terremoto del 1805, completandolo solo nel 1828, circa un quarto di secolo dopo).

Francesco Fagnani, Ponte sul Tappino, 12 marzo 1813, Archivio di Stato Campobasso. In seguito le piene resero necessaria l’apertura di un secondo arco laterale, grosso modo simmetrico

Il ponte, che da allora agevolò non poco i contadini toresi che quotidianamente si portavano a lavorare i terreni dell’agro posti al di là del fiume, mise in collegamento il tratturo Castel di Sangro – Lucera, che in territorio di Toro costeggia il fiume, con la cosiddetta “Via del Diavolo”. Con questo nome la toponomastica popolare torese (sull’esempio di quella jelsese), designava la Carrera de Jéveze, ossia la Carriera di lelsi detta pure Carriera di San Martino, un antico tracciato romano, che si snoda lungo il confine tra Toro e Jelsi. La denominazione era motivata dal tipico reticolato romano, oramai del tutto scomparso, che caratterizzava il manto stradale in pietra. Solo

7 Un patto analogo è fissato tra il diavolo e la povera donna protagonista di Fernando all’inferno, il racconto della

tradizione torese che però presenta uno sviluppo diverso. Lo pubblichiamo più avanti. 8 Così il popolo si fa beffe di sedicenti muratori, tutt’altro che abili e capaci.

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un essere diabolico – argomentava il popolino – aveva potuto realizzare quell’opera così imponente9.

Un esempio di lastricato romano in Molise: a Boiano, lungo Corso Amatuzio

9 Cfr. Gianfranco De Benedictis, Di due iscrizioni romane e della “via del diavolo” di Jelsi, in Giorgio Palmieri e Antonio Santoriello (a cura di), Jelsi. Storia e tradizioni di una comunità, Jelsi 2005, pp. 23-36.

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III – Il diavolo nei proverbi e nei modi di dire

Mettendo da parte locuzioni attinte pari pari dall’italiano (A casa del diavolo, Se il diavolo t’accarezza vuole l’anima, Si parla del diavolo e spuntano le corna, e così via), trascriviamo un piccolo florilegio di proverbi e modi dire più specificatamente locali, ricavato dal volume dedicato al dialetto di Toro10, dove per motivi di spazio non è stato possibile commentarli, cosa, invece, possibile in questa sede.

È deiavele! È diavolo!

Apprezzamento riferito a bambini o anche adulti, per sottolinearne non la malvagità (nel qual caso si farebbe ricorso all’articolo indeterminativo È un diavolo!), ma le idee, le particolarità e/o i comportamenti brillanti e inaspettati.

‘A case a cinte porte, u deiavele z’a porte. La casa a cento porte, il diavolo se la porta.

I moduli abitativi tradizionali prevedevano case singole allineate lungo le vie del paese. Ad ogni porta corrispondeva una sola abitazione, essendo rare se non mancanti del tutto le case in condominio (ovvero le case a cento porte), temute dai paesani per le continue liti tra condomini cui avrebbero dato origine. Di qui il proverbio che le dice preda del diavolo.

Ca fémmene n’ce pò manche u deiavele. Con la donna non la spunta nemmeno il diavolo

Non si dice anche in italiano che la donna ne sa una in più del diavolo?

Crisce sante! (... Ca deiavele già ce si’!). Cresci santo! (… Ché diavolo già lo sei!).

A bimbi e ragazzi che starnutiscono si augura di crescere santi. Cresci santo! è quindi l’equivalente del classico Salute! Se, poi, chi ha starnutito lo merita, e si ha voglia di scherzare, si aggiunge la chiosa della seconda parte, che introduce una nota di divertimento in un bella formula di augurio.

Fa’ u panecutte ch’i deiavele. Fare il pancotto con il diavolo.

Il pancotto, ovvero la minestra di pane, è il cibo con il quale sono state allevate generazioni e generazioni di toresi. È la pietanza cucinata, con tutto l’affetto di cui erano capaci le nostre madri e le nostre nonne. È per eccellenza il cibo dell’amore materno. Cucinare il pancotto insieme al diavolo è, o dovrebbe essere, una contraddizione in termini. Ad ogni buon conto, l’espressione è utilizzata per evidenziare la buona sorte che arride a chi – non ci può essere altra spiegazione – è in gran dimestichezza con il diavolo, al punto di immaginarli insieme a preparare il pancotto.

S’i rúsce fússere sencère, i deiavele starrjene ‘n paravjse. Se i rossi (di pelo) fossero sinceri, i diavoli starebbero in paradiso.

Sono svariati i proverbi che condannano indole e/o malefatte dei rossi malepjnte. In questo caso, è stigmatizzata l’avversione per la sincerità che li caratterizzerebbe. Rossi e sincerità, quindi, inconciliabili. Come il diavolo e il paradiso o, per buttarla in un altro proverbio:

10 Giovanni Mascia, ‘A tavele de Ture (La tavola di Toro). Reperti dialettali di una comunità molisana, Edizioni Lampo, Campobasso 1994, cfr. il capitolo Proverbi, pp. 131-157.

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U deiavele e l’acqua sante. Il diavolo e l’acquasanta.

Inimicizia proverbiale (l’acqua santa lo mette in fuga), come tra cane e gatto, o suocera e nuora.

Sante na chiazze e deiavele na case. Santo in piazza e diavolo a casa.

Detto del timido e arrendevole che, tra le mura domestiche e nel contesto familiare, fa inopinatamente sfoggio di un modo di fare tutt’altro che edificante.

Ze z’è mjsse u demonie. Ci si è messo il demonio.

Si dice così quando ci si danna inutilmente in un’impresa tutt’altro che difficile. Per esempio, quando non si riesce a ritrovare un oggetto che un attimo prima si è tenuto in mano. Proprio come se il demonio si divertisse a tenercelo nascosto. Non è il caso allora di intestardirsi nella ricerca, per non cadere nella trappola che il diavolo ha preparato per noi: quella di farci arrabbiare e, possibilmente, bestemmiare. Non ne vale la pena. Tanto più che un altro noto adagio popolare recita, e a ragione, che ‘A case annascónne, ma n’arrobbe! (La casa nasconde, ma non ruba).

Z’u (z’a) purtene i deiavele (i demunie, i tantaziúne) Se lo (la) portano via i diavoli (i demoni, i tentatori).

Si dice di uomo o donna in preda a ira o eccitazione fuori dal comune, come se in viaggio con i diavoli per l’inferno.

Ignoto scultore attivo nel XVIII secolo, San Michele Arcangelo (Dettaglio del diavolo soggiogato),

legno intagliato e policromato, Toro, Chiesa del SS. Salvatore (Foto S. Nazzario)

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IV – Il libro del comando

Come si diceva, il Libro del comando, ovvero quella sorta di messale demoniaco, con Satana insediato al posto di Dio e la schiera dei demoni al posto dei santi delle litanie, è stato l’oggetto del desiderio di generazioni di toresi, convinti che con esso potessero incatenare il demonio e farne un potente servitore, una sorte di genio della lampada magica delle novelle arabe.

A Toro si raccontano un paio di episodi che hanno a che vedere con questo libro misterioso, episodi – si badi bene – realmente accaduti, anche se nel primo di essi, che abbiamo intitolato La mummia, il libro del comando gioca un ruolo importante ma non fondamentale. In questo caso, in considerazione del risvolto drammatico della vicenda, in cui hanno avuto parte attiva parroci, sacerdoti e frati francescani, abbiamo preferito ricorrere a un ingenuo camuffamento dei nomi al fine di tutelare il riserbo dei discendenti che potrebbero ancora abitare in quella casa.

Va detto che la casa teatro di questo primo racconto, da noi ribattezzata casa della Paura, non è quella ubicata nei pressi della Rua della Scimmia che comunemente è ricordata come tale dalla popolazione torese. Forse sarebbe stato opportuno differenziarla in qualche modo da quest’altra, ma saremmo incorsi in una forzatura, perché in paese, per dire che questo o quell’edificio (ma può essere un qualsiasi luogo appartato, dove di solito si verificarono fatti di sangue), è infestato dagli spiriti, si dice che Ci arresce la Paura! Cioè, Vi appare [chi o qualcosa che incute] la Paura! E se è così non c’è nessun dubbio che tutte e due le case di cui parliamo sono case della Paura.

Alle vicende della casa della Paura, vera e propria, abbiamo dedicato e intitolato il secondo racconto. Tuttavia la pessima fama della casa, dovuta a rumori, percosse e fatti inspiegabili, che secondo le testimonianze dei paesani erano comunque da attribuire ad esseri diabolici, non ha nessun punto di contatto con il libro del comando. Semmai con una “bacchetta di comando”, che compare in una versione recente.

Il libro, invece, torna a farla da protagonista assoluto nel terzo racconto, intitolato La seduta spiritica sotto il Barbacane. La vicenda risale alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Michele Iacobacci, il proprietario del mulino in funzione fino a qualche anno fa in Via Pozzillo, e fratello di uno dei tre protagonisti, l’ha raccontata più volte, in circostanze diverse. Sempre presentandola come fatto storico. Non frutto di fantasia, ma storia vera. E Michele Iacobacci era persona seria e degna di fede. Nella versione che presentiamo, a trascrivere le sue parole ci ha pensato Giovanni Rossodivita, il quale successivamente se l’è sentite confermare da un altro noto personaggio di Toro, il macellaio Emiliano Simonelli, anche lui come Michele, venuto a mancare qualche anno addietro.

Del resto, l’episodio era stato sommariamente evocato da Frank Salvatore in un romanzo del 2003. Prima ancora, nel 1987, il poeta Nicola Iacobacci lo aveva rielaborato in un altro romanzo, fissandolo in una complessa intelaiatura, che in buona sostanza è la stessa del racconto dello zio Michele Iacobacci, trascritto da Giovanni Rossodivita. Come è lecito aspettarsi, nella rielaborazione di Iacobacci, che chiude la serie dei nostri quattro racconti, sono introdotti elementi e dettagli, che non intaccano la linearità della vicenda. Tra l’altro, vi è specificata la sorte riservata al diabolico libro nero utilizzato per la seduta spiritica, che è la stessa riservata all’altro libro nero, quello rinvenuto nella casa della mummia, a dimostrazione di come la tradizione popolare, sia orale che scritta, si ritrovi a frequentare luoghi comuni ben conosciuti.

Ma basta con le chiacchiere, e diamo spazio ai quattro racconti “diabolici”.

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1 – La mummia11

Fu ritrovata nella casa della Paura. Paura con la lettera maiuscola, perché la Paura di cui parlo non è la fifa, la tremarella o come la chiamiamo noi, la cacaccia, per le conseguenze non volute che sporcano le brache di chi ne soffre, ma il fantasma, l’ombra, l’apparizione, insomma la Paura che incute paura, se non terrore vero e proprio. Perché a Toro, per dire che questa o quella casa è abitata dai fantasmi, si dice che Ci arresce la Paura!

Trovò tutto quello che si trova in tutte le soffitte. Polvere e ragnatele. E schifezze di zoccole e di uccelli. E vecchi arnesi...

Sì, lo so che molti non ci credono. E so pure le loro accuse alla ignoranza e alla superstizione dei tempi passati, e al buio di quando non c’era ancora la luce elettrica e ogni rumore poteva trasformarsi in qualcosa di misterioso. So pure le loro risate, quando scoprono che molte volte la realtà era molto più banale di come si temeva.

Per esempio, so bene che di una di queste case discorre Nicoletta Pietravalle in Cara Italia, tuo Molise (1983), quando scrive che “un’eccitazione culturale” l’aveva “spinta in Rua della Scimmia a visitare la casa dei fantasmi con la sua storia confusa e tenebrosa”. E so bene, anzi benissimo, che la Pietravalle si sofferma proprio su “un lato umoristico, testimoniato da un torese che abita sotto la casa dei fantasmi”, Il quale, dopo aver confessato “concitatamente in dialetto stretto” “Io ho paura della paura”, ha offerto la

11 Cfr. Giovanni Mascia, La casa della Paura, in «ToroWeb» (www.toro.molise.it), sito on line, 3 gennaio 2012: http://www.toro.molise.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1438. Si finge che a parlare in prima persona sia la nostra informatrice, una signora molto anziana di Toro, che a sua volta sentì raccontare i fatti, durante la veglia funebre della nonna, mammarella Rachela, proprio dalla viva voce della proprietaria che si era insediata da pochi anni nella casa della Paura.

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divertente spiegazione che non ha niente a che vedere con i temuti fantasmi, raccontando “di una notte in cui, dopo ore di sordo rintocco sopra la testa, decise di mandare in ispezione la moglie: erano le lumache, messe a spurgare in un caldaio chiuso e pieno di granone, che strisciavano fino all’orlo e… ricadevano giù”. Sì, è vero: molto spesso le cose sono andate proprio così. Non sempre però. E proprio in quella casa, altro che ciammaruche… L’andassero a raccontare al povero Santuccio, la storia delle lumache! Lo sa lui che cosa ha passato12. E lo sanno loro, quello che hanno passato i proprietari della casa della storia che sto per raccontarvi. Lasciamo perdere perciò i lati ridicoli della casa della viarella della Scimmia e andiamo dicendo.

E l’arciprete gli parlò chiaro:

- Caro compare, qualcosa ci deve essere. Ogni anno dico una messa per quell’anima.

12 Santuccio (del quale omettiamo il cognome per ovvi motivi), è il contadino che abitava con la famiglia nella casa di Via di Sopra a ridosso di Rua della Scimmia, la casa della Paura, sulle cui vicende è imperniato il prossimo racconto.

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Che “ci arriscisse” la Paura, dunque, si cominciò a dire anche di un’altra casa di Toro. Precisamente in quella un tempo abitata da don Pippo il notaio e dalla moglie, e dopo di loro dall’arciprete don Annibale Tacchini, meglio conosciuto e ricordato dagli anziani di Toro come l’accepreute da Ripe, perché originario non ricordo più se di Ripalimosani o Ripabottoni. Qualcosa di vero doveva esserci perché, una volta che don Pippo era espatriato per sfuggire al confino decretatogli da Mussolini, donna Checchina non se l’era più sentita di continuare a vivere da sola in quel palazzone, l’aveva affittato all’arciprete, e se n’era andata ad abitare davanti alla chiesa in casa della figlioccia Maria.

Qualcosa doveva esserci, perché dopo che don Annibale aveva manifestato il proposito di tornarsene a passare la vecchiaia nel paese d’origine, donna Checchina non ci aveva pensato due volte e quella casa l’aveva messa in vendita. Tanto più che di don Pippo non arrivava più nessuna notizia, né che lo dicesse vivo né che lo dicesse morto, nonostante che il fascismo fosse caduto, e la seconda guerra mondiale finita da tempo.

La casa era grossa, ben fatta. Il prezzo non impossibile. Cosicché zi Natale u trappitaro ci aveva fatto più di un pensiero. Di soldi ne aveva fatti a palate con il trappeto, anzi un pozzo pieno, a stare a sentire i compaesani. Gli anni erano quelli che erano e si sentivano sulle spalle. La moglie lo aveva appena lasciato vedovo. Ora o mai più. Una casa da galantuomini per il figlio, la nuora e i nipoti che sarebbero arrivati: era questo il regalo che intendeva fare a loro ma prima di tutti a se stesso dopo una vita di lavoro, passata a combattere con i cafoni.

Una sera si decise e andò a picchiare alla porta dell’arciprete. – Cumpà, voi mi dovete parlare chiaro! E don Annibale gli parlò chiaro: – Caro compare, qualcosa ci deve essere. Ogni anno dico una messa per quell’anima del purgatorio. Qualcosa o non qualcosa, Zi Natale alla fine si decise e comprò la casa di don Pippo il notaio. Vi andò ad abitare e della Paura non se ne parlò più.

Se ne tornò a parlare cinque o sei anni dopo, la notte in cui guardammo mammarella Rachele. Quella notte insieme a noi, c’erano Giovanni Carbone e la moglie, c’era zi Natuccia, c’era tutto il vicinato. Nonostante mammarella avesse passato placidamente il suo secolo di vita, a me che sera dopo sera mi ero ritirata nella sua casetta di via del Trappeto a dividere con lei il letto e a sentirle raccontare del Borbone e di Garibaldi, del brigante Caruso e di Filomena Ciccaglione che lo aveva tradito, dispiaceva assai vederla morta, distesa sulla tavola della cucina, ma i parenti meno stretti e i vicini di casa non erano granché addolorati e perciò tranquilli si preparavano a passare la nottata discorrendo del più e del meno.

Non ricordo chi fu a portare il discorso sulle vecchie chiacchiere della Paura che ci arrisciva in casa del notaio, da anni ormai diventata casa del trappitaro e a chiedere quanto ci fosse stato di vero in esse. Forse furono Giovanni Carbone e la moglie che, arricchitisi con il comprare e vendere ciucci e muli per le fiere, un po’ di gelosia avrebbero potuto provarla per gli eredi dell’ormai defunto Zi Natale, loro che di eredi purtroppo non ne avevano avuti e almeno una casa da signori se la sarebbero potuto e

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dovuto comprare. Fatto sta che la comare Pinuccia non se lo fece chiedere due volte e disse che sì, le chiacchiere non erano chiacchiere.

La notte in cui “guardammo” mammarella Rachele.

Ricordavamo tutti che Zi Natale aveva vissuto nella nuova casa gli ultimi mesi della sua vita e li aveva vissuti senza più quella lucidità di mente e quella gagliardia di corpo che aveva contraddistinto la sua esistenza. Passava le sue giornate seduto sulla sedia, dietro i vetri della loggia a spiare il cielo e i muri delle case dirimpetto. Il figlio se ne scendeva giù nel trappeto, la nuora con la creatura piccola e la pancia grossa per la seconda in arrivo doveva assentarsi spesso e volentieri. Così il vecchio si lagnava, quando la vedeva tornare.

– Ta’, non vi sentite bene? – Rumori a non finire! Passi di gente che sale e scende le scale, porte che si aprono e chiudono, finestre che sbattono… – Ma no, ta’… Voi magari vi siete impressionato. Sarà stato il vento. Lo sentite oggi il vento che tira, lo sentite?

Aveva ragione il suocero. La comare Pinuccia si dava animo. Come si dava animo il marito, ma i rumori li sentivano anche loro, di giorno e di notte. E continuarono a sentirli anche dopo che la donna, un giorno, aveva deciso di arrampicarsi ancoppe u spjnghe, in soffitta, per vedere che cosa vi fosse. Possibile, si era detta, è più di un anno che stiamo in questa casa e non devo sapere che cosa ci sta?

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Là sopra trovò tutto quello che si trova in tutte le soffitte di questo mondo. Polvere e ragnatele. E schifezze lasciate da zoccole e uccelli. E vecchi arnesi, cianfrusaglie, bottiglie e bottiglioni, tavole e tavelloni, ferri vecchi, scatole, valigie sfondate… E anche un libro. Un libro che attirò la sua attenzione perché aveva la copertina nera e il bordo colorato di rosso. Proprio come quello delle Massime eterne di Sant’Alfonso de’ Liguori che aveva sul comodino e, come quello, lucido, e senza un granello di polvere. Strano, si disse. Che ci fa un libro nuovo in mezzo a questa sporcizia? Sembra che qualcuno ce l’abbia messo apposta, proprio adesso.

Un libro attirò la sua attenzione perché aveva la copertina nera

e il bordo colorato di rosso.

Già, che ci faceva? Provò a sfogliarlo, gli girò la testa e per poco non venne meno. – Per quest’anima santa di mammarella Rachele! – la comare Pinuccia lo giurò ai presenti. – In quel libro si chiamavano i diavoli per nome. C’erano le litanie, ma anziché la Madonna, si recitavano per il demonio. Ah, ma lei non stette a pensarci su. Nonostante il pancione, ridiscese a precipizio per la scala a pioli. Andò in cucina. Nella ciminiera s’era fatta una bella brace. Vi gettò il libro nero dal bordo rosso e… all’improvviso, una fiammata enorme venne fuori dalle pagine

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che si accartocciavano e sembrò voler bruciare e ridurre in cenere la canna del camino. Vi ululò un mulinello di vento impetuoso, i vetri della finestre tremarono, la stanza si riempì di fumo... la comare Pinuccia, si fece la croce una, due, tre volte, poi più nulla.

– Pina, che è stato? – urlò tata Natale dal suo letto. – Niente, ta’. Sono andata per mettere il ciocco nella ciminiera e mi è scivolato. – Basta che non ti sei fatta male? – No, signerì statevi spensierato!

I rumori continuarono. Qualche giorno dopo, li sentì anche don Giuseppantonio, il cognato sacerdote, che dopo tanti mesi finalmente era venuto a trovare il padre ammalato nella casa nuova e aveva passato la notte nella stanza attigua alla cucina.

– Possibile che voi non avete sentito niente?, chiese al fratello e alla comare Pinuccia. E riferì loro che c’era stato un ininterrotto concerto in cucina: mestoli, schiumarole e cacciacarne, la batteria completa in azione senza che avesse trovato la forza di alzarsi per venire a dare un occhiata per vedere cosa succedesse nella stanza, e per le scale, dove per tutta la notte era continuato il saliscendi. Il fratello e la cognata sapevano che diceva la verità, e ne comprendevano benissimo lo sconcerto davanti alla cucina che appariva pulita e ordinata così come l’avevano lasciata la sera avanti mentre le scale erano lì, davanti a loro, spazzate e tirate a lucido come sempre.

– Io non sono capace – confessò il povero don Giuseppantonio. – Ma in convento c’è padre Pascasio che per queste cose è un’arma proibita. Andatelo a chiamare. Lui sa come interrogare queste anime del purgatorio. Si farà dire di che cosa hanno bisogno.

Padre Pascasio impugnò il crocifisso come un pugnale.

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Due o tre giorni dopo, il frate francescano si fece raccontare dei rumori e del libro buttato nel fuoco. – E tu hai avuto questo coraggio?, chiese il monaco alla comare Pinuccia. Non hai pensato al rischio di finire in una sola vampata insieme alle pagine che hai bruciato? Poi tirò fuori il breviario dal saio. Lo aprì. Si segnò. Recitò una preghiera in latino. Impugnò il crocifisso e lo tenne come il coltello a punta con cui si scanna il maiale. A cose fatte, assaggiò una goccia di rosolio. Si accomiatò, e se ne risalì al convento. I rumori, invece, rimasero lì e non se ne andarono da nessuna parte. Finché una mattina la comare Pinuccia non decise di tornare a dare uno sguardo alle cianfrusaglie dello spingo, con la scusa di darvi almeno una ramazzata. E vide quella scatola di scarpe tutta ricoperta di polvere, che era convinta di non aver visto nel suo primo sopralluogo. Ci passò sopra la scopa, con un brivido vinse il ribrezzo e la aprì. – Ve lo giuro sulla buonanima di mammarella Rachele! – Che cosa c’era nella scatola, comare Pinuccia? Per un momento Pina u trappitaro sembrava aver perso quella serena padronanza della sua voce che le permetteva di raccontare come si trattasse di cose accadute ad altri tanto tempo prima. Ma fu solo un attimo e, giurando di nuovo sulla buonanima della povera mammarella, appagò la curiosità dei presenti. Nella scatola c’era il corpicino mummificato di una creaturina. – Ehi! Sì, non avrebbe saputo dire se fosse stato di un maschio o una femmina, ma una creaturina di pochi giorni, forse un aborto, comunque uno spettacolo raccapricciante, davanti al quale non si è mai spiegata come avesse fatta a non vomitare, lei che (con rispetto parlando) in quei giorni non faceva altro. Sia come sia... e vai a capire cosa fosse successo in passato in quella casa di signori. – E che faceste comare Pinuccia? Fece quello che probabilmente avrebbe fatto ognuno dei presenti. Certo non avrebbe gettato il corpicino tra le fiamme. A parte la paura di tornare a rivivere la terribile esperienza del libro nero, c’era da scongiurare il terribile puzzo rivelatore che si sarebbe sprigionato dal fumo del camino per ammorbare l’intero paese. E a gettarlo nell’immondizia non gli bastava l’anima. – E allora? Allora, si mise la scatola sotto lo scialle, e recitando una intera posta di rosario si avviò per il camposanto. Scelse un angolo adeguato e con la paletta del camino scavò una piccola fossa dove adagiò e ricoprì di terra la creaturina mummificata. – E poi comare Pinuccia? – E poi me ne ritornai a casa, recitando requiemmaterna a non finire. Una cosa è certa. Da quel giorno, i rumori sono spariti da casa mia. Con mio marito siamo tornati a vivere tranquilli, a lavorare e a crescere come meglio possiamo i nostri figli. – Ah, meno male va, fu il commento di Giovanni Carbone. Come si dice? Male non fare, paura non avere.

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Si mise la scatola sotto lo scialle e si avviò per il camposanto.

Brrr… sentii freddo. Mi alzai per andare ad attizzare il fuoco. Vi aggiunsi un pezzo di legna. Tornai a sedermi accanto a mammarella Rachele. Le rimirai le scarpe, le calze, la gonna, la camicetta, il fazzolettone nero, che da quel giorno avrei indossato anch’io, almeno per un anno. Lungo le braccia le correva una fettuccina marrone che terminava nell’abatino di terziaria tenuto tra le dita intrecciate. Piccolina era sempre stata. Ma adesso da morta sembrava proprio una bamboletta. Com’era bella mammarella Rachele. Pensai che anche per lei sarebbe bastata una scatola. Non proprio una scatola per scarpe, ma non molto più grande.

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2. La casa della Paura

Come già più volte puntualizzato, non è quella dove fu ritrovata la mummia di cui abbiamo sentito raccontare, ma un’altra, la casa della Paura, ricordata universalmente a Toro. Ed è a quest’altra che ha fatto riferimento Nicoletta Pietravalle nei termini riduttivi e ironici, sopra riportati. Ad essere precisi, la casa non era ubicata nella sottostante Viarella da Scjgne, con la quale peraltro confinava con le sue mura perimetrali, ma in Via di Sopra. Attenzione all’imperfetto: era ubicata, confinava, non perché la casa non esista più, ma perché da un decennio circa è stata trasformata insieme alla casa adiacente nel cosiddetto Museo Comunale di Toro.

Toro, Via di Sopra, Museo Comunale.

Da notare, tra il cancello d’ingresso del Museo, e l’arco di accesso a Rua della Scimmia, la finestrella ottenuta dalla porta murata che immetteva nella casa della Paura. (Foto E. Mascia 2015)

Museo fantomatico, verrebbe proprio di dire e mai come questa volta l’aggettivo sembra appropriato. Nonostante il restauro operato a beneficio della nuova destinazione d’uso, qualcosa

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di diabolico deve essere rimasto imprigionato tra le mura della costruzione se si considera che il Museo Comunale non è mai diventato tale, nonostante la lapide affissa all’ingresso. I suoi locali, infatti, non accolgono alcunché. Né opere d’arte, né reperti etnografici, né materiale documentario. A parte circostanze eccezionali e temporanee, da contare sulle dita di una sola mano, come la mostra dedicata alle origini toresi di Toquinho, allestita in occasione della visita e del concerto del cantautore brasiliano a Toro nell’estate 2008, sono rimasti sempre vuoti.

Toro, Via Di Sopra, Museo Comunale,

Come segnalato dalla targa toponomastica posta sull’arco di accesso della stradina, Rua della Scimmia si apre a fianco e sotto la Casa della Paura, ora Museo (Foto E. Mascia 2015)

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A causa dell’intonaco, per giunta di colore giallo, con il quale sono state ricoperte in Via di Sopra e in Rua della Scimmia le mura in pietra rozzamente squadrate e annerite dagli anni, gran parte del fascino tenebroso della costruzione è venuto meno. Resta per fortuna qualche vecchia foto a documentare l’alone di mistero che riverberava dai luoghi.

Rua della Scimmia a Toro, Metà Anni Settanta del Novecento (Foto Leonardo Tartaglia - Lefra)

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Anche a non voler credere alla presenza della Paura (e con buona pace della Pietravalle che ha dileggiato amabilmente i toresi come creduloni), qualcosa di strano doveva avvenire in quella casa, dove a cavallo tra le due guerre abitò Santuccio con la sua famiglia. E dove sera dopo sera, si riuniva non solo il vicinato ma i curiosi di tutto il paese, tra i quali anche i carabinieri della locale stazione. Per non parlare del maresciallo, che una o due volte beneficiò anch’egli dell’ospitalità dei padroni di casa, espressa nel posto riservato accanto al fuoco e nel tradizionale bicchiere di vino. Vero è che rumori inspiegabili provenienti dai piani superiori, e dal soffitto in particolare, continuarono a sentirsi. A niente valsero i sopralluoghi dei più baldi paesani, costretti tutti alla fuga precipitosa e rumorosa da un fenomeno inquietante, rimasto inspiegabile. Non appena lasciava l’ultimo piolo della scala, e poggiava il piede oltre la cateratta della soffitta, il coraggioso di turno veniva aggredito da una entità misteriosa che tirandolo per la giacca, lo costringeva a divincolarsi a fatica e scappare. Passato qualche tempo, per Santuccio fu giocoforza prendere una decisione radicale e traslocare da quell’abitazione inquietante, rimasta dopo di lui disabitata. E fin qui le testimonianze degli anziani, alcuni dei quali13 hanno vissuto di persona quelle serate in via di Sopra, sono concordi.

Divergono, invece, a proposito di una circostanza che, essa sì, ha del favoloso, sulla veridicità della quale non conviene mettere la mano sul fuoco. Proprio a questo aspetto fantastico, Annamaria Rossodivita, ha intitolato la sua versione dei fatti accaduti nella casa della Paura a Toro, presentandola senz’altro come una favola nella sua tesi di laurea in Scienza della formazione primaria: Il diavolo in alcune tradizioni popolari molisane, (Università del Molise, Campobasso, dicembre 2012). Così come non conviene mettere la mano sul fuoco a proposito di un’altra diceria, che si diffuse all’epoca dei fatti in paese, secondo la quale a Santuccio i ièva arresciúte u peccate! Gli era riuscito il peccato. Traducendo l’espressione dialettale in termini più comprensibili, si diceva che i fantasmi che infestavano la casa di Santuccio, non fossero altro che la pena da scontare per un peccato da lui commesso durante il servizio militare, che alcuni si spingevano finanche a precisare nel furto sacrilego di un calice in una chiesa, sostenendo di averne sentito raccontare dallo stesso Santuccio. Il quale aveva provato a rivenderlo. Invano, vista la dubbia provenienza dell’oggetto sacro. Inutile era stato anche il tentativo di schiacciarlo sotto il peso di un macigno, per renderlo irriconoscibile. Si risolse perciò a sbarazzarsene, mentre con altri soldati era in viaggio sul cassone di un camion che si inerpicava su per una strada di montagna. E anche allora fu un’esperienza impressionante. Mentre precipitavano lungo le pareti di un dirupo roccioso, dai resti informi del calice scaturì un nugolo di sprazzi e scintille per divampare in una nuvola di fuoco. Bene, anche a voler accettare per veri sia il racconto del furto sacrilego, sia i dettagli fantastici a corredo, rimane infondato il collegamento del furto con gli eventi vissuti anni dopo nella casa in via di Sopra. Era la casa, infatti, ad essere infestata dalla Paura, che molestava incidentalmente l’inquilino e la sua famiglia. E infestata la casa è rimasta - secondo il comune sentire - anche dopo il trasloco di Santuccio, mentre costui e la sua famiglia, nella nuova abitazione hanno potuto recuperare la serenità perduta. Se di peccato commesso si trattava, perché la “pena” ha continuato a scontarla la casa, nemmeno di proprietà del peccatore, e non chi si era autoaccusato di sacrilegio?

Con questo dubbio diamo la parola ad Annamaria Rossodivita, riservandoci la facoltà di intervenire in nota con qualche sporadica osservazione, che si dovesse rendere necessaria in considerazione del registro favolistico da lei utilizzato per raccontare una vicenda che nelle sue linee essenziali è realmente accaduta.

13 Per esempio Nicola Quercio (1925), Antonio Grosso (1927-2009), Antonio Di Gironimo (1930).

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Il diavolo e il comignolo14

La seconda guerra mondiale stava purtroppo per cominciare e Santuccio, abile contadino torese che inspiegabilmente aveva accresciuto di molto le sue ricchezze, decise di abbandonare la sua catapecchia di campagna, per acquistare una nuova e più accogliente abitazione nel pieno centro storico del suo paese15. Lì avrebbe fatto in modo che i suoi numerosi figli e la moglie avessero finalmente conosciuto tutti gli agi e le comodità che fino ad allora non avevano neppure osato immaginare. Nelle nuova casa infatti, i bambini riscoprirono il gusto di ridere e di giocare allegramente e la moglie, sempre tenera e fedele, finalmente riuscì a trovare delle buone vicine di casa con le quali poter intavolare piacevoli conversazioni. Sembrava proprio che tutto stesse andando per il meglio, la vita trascorreva tranquillamente: durante il giorno, Santuccio ed i figli suoi che già erano in età da poterlo aiutare, si recavano in campagna e lavoravano duramente, poi, giunta la sera, essi si ritiravano nella loro nuova accoglientissima casa ed attorno al focolare si mettevano ad ascoltare le avvincenti storie che i nuovi amici di famiglia raccontavano prima che i bambini andassero a letto. Eppure, questa idilliaca tranquillità venne presto interrotta.

Una notte, infatti, mentre erano già tutti sotto le coperte, iniziarono a sentirsi orrendi rumori in soffitta: mobili che si ribaltavano, urla disumane e strepiti. Ebbero tutti davvero molta paura, perfino i vicini di casa sentirono tutte quelle cose ma, nessuno ebbe il coraggio di salire in quella soffitta. Il giorno seguente tutto il paese non parlava d’altro tuttavia, proprio nessuno ne volle sapere di andare a dare un’occhiata.

Infine, l’eco di questo accadimento giunse alle orecchie di Rocco, l’uomo più coraggioso che vi fosse in quella zona. Per non smentire la sua fama di uomo dotato di indiscusso coraggio e di forza sovraumana, Rocco si diresse a casa di Santuccio e salì le scale che conducevano in soffitta. Non l’avesse mai fatto! Rocco si sentì afferrato per le braccia e venne così strapazzato da una parte all’altra: prima contro il pavimento, poi contro il soffitto, poi contro la mobilia. Non appena riuscì a tornare in possesso del proprio corpo, sebbene gli fossero rimaste più ossa rotte che sane, si precipitò in tutta fretta verso l’uscita ed in quella casa giurò a sé stesso ed agli altri che non ci sarebbe più tornato.

Così venne chiamato l’arciprete Pulcino16, uomo di fede del paese. Costui si recò più volte con le sue ampolle d’acqua benedetta presso i luoghi maledetti, però non riuscì

14 Annamaria Rossodivita, Il diavolo in alcune tradizioni popolari molisane, tesi di laurea in Scienza della formazione primaria, Università del Molise, Campobasso, dicembre 2012. 15 In verità, la famiglia di Santuccio non abitava in campagna, ed è assai improbabile che ve ne fossero altre prima della Seconda Guerra Mondiale, dal momento che i toresi erano piuttosto ortolani e vignaioli anziché contadini. E comunque non avevano mai risieduto in campagna, avendo preferito raggiungere i terreni al mattino, fossero anche le più lontane masserie, per rientrare invariabilmente in paese a sera, anche a costo di ore di cammino a dorso di asino o a piedi. Solo negli ultimi decenni del secolo scorso, ponendo fine all’usanza secolare, i toresi hanno cominciato a oltrepassare il perimetro dell’abitato per andare a risiedere anche in case e ville di campagne, sull’esempio storico del medico don Guido Trotta, sindaco di Toro a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, medico che risiedeva nella villa di contrada Marchisi, e sull’esempio più recente dei coloni riccesi e cercesi, che nel secondo dopo guerra hanno via via occupato i terreni dell’agro di Toro, venduti o affittati loro dai nativi emigrati all’estero, andando ad abitare proprio in quelle masserie che i contadini toresi avevano sempre utilizzato come ricoveri occasionali. 16 Don Domenico Polcini parroco di Toro, per circa un trentennio, dal 1917 al 1948, nativo di Colle Sannita (BN), e per questo chiamato allora e ricordato oggi come “L’acceprèute du Colle”.

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ad ottenere alcunché di buono e l’ultima volta che ci provò, venne addirittura strapazzato alla stessa maniera in cui venne strapazzato Rocco.

A Santuccio, non restò altro da fare che provare di persona a porre rimedio a quella strana situazione. Così, fattosi coraggio, si recò in soffitta e lì accadde il putiferio! Le anime dannate si arrabbiarono moltissimo e si levò una raffica di vento così forte che Santuccio fu costretto a ritornarsene immediatamente da dove era venuto ed il comignolo della sua abitazione venne spostato tutto intero sul tetto di un’altra casa17.

A Santuccio ed alla sua famiglia, non restò altra soluzione che quelle di ritornarsene a vivere in campagna18. Da allora, in quella casa del centro storico non si sentirono più né rumori strani, né più vi accadde qualcosa di strano19. Infatti, fino ad ora, al lettore non ho raccontato che Santuccio, in passato, era in possesso della “Bacchetta del potere” con la quale poteva dirigere le azioni malefiche dei diavoli. Una volta, però, non riuscendo più a gestire le facoltà della Bacchetta, i dannati gli si rivoltarono contro ed iniziarono a prendersi gioco di lui come ho appena raccontato20.

17 Come si diceva, per avvalorare questa circostanza incredibile non tutti sono disposti a mettere la mano sul fuoco. Tanto più che nessuno sa indicare la casa che avrebbe beneficiato del dono inaspettato di un altro comignolo. 18 Alla luce di quanto specificato nella nota n. 15, Santuccio e i familiari non tornarono a vivere in campagna, dove non avevano mai abitato, ma restarono in paese, limitandosi a traslocare in un’altra casa. 19 A dire il vero, prima di essere trasformata in Museo Comunale, tranne brevi parentesi, la casa è rimasta sostanzialmente disabitata, a causa della cattiva fama che si era guadagnata. 20 Anche per la “Bacchetta del potere”, che è un’altra fantasiosa ipotesi atta a giustificare l’improvvisa agiatezza del contadino (in realtà, tutt’altro che ricco), e soprattutto gli eventi diabolici di cui costui fu spettatore e vittima, vale la stessa osservazione avanzata per il peccato giovanile: se era stato l’uomo a non saperla gestire, perché le conseguenze nefaste erano ricadute sulla casa?

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3. La seduta spiritica sotto il Barbacane21

La seduta spiritica, dagli esiti imprevedibili, aveva turbato profondamente i protagonisti e fatto epoca a Toro, intorno alla fine degli anni venti del secolo scorso. Come detto, a raccontarla di recente in maniera assai stringata è stato Giovanni Rossodivita (classe 1942, torese residente a Roma), meglio conosciuto in paese come Giuuanne de Emme o Giuuanne u cumenjste.

Processione Sotto il Barbacane, (Anni Quaranta/Cinquanta del Novecento)

A destra, sotto le arcate del Barbacane, i locali teatro della famosa seduta spiritica del 1928

A proposito di superstizioni e di religioni, - è Giovanni che parla - mi sovviene il racconto che mi fece Michele Iacobacci (u mulinaro) un giorno, mentre stavamo in piazza appoggiati al solito portone della signora Giovanna [maestra, vedova Laurelli n.d.r.].

Dopo avermi raccontato il suo avventuroso ritorno dalla Grecia, all’ indomani dell’8 settembre del ‘43, – “...molte volte mangiavamo, per fame, patate crude e ogni tipo di erbe...” –, Michele iniziò a raccontarmi di una seduta spiritica organizzata, in modo

21 Cfr. Giovanni Rossodivita, Seduta spiritica sotto il Barbacane, in «ToroWeb» (http://www.toro.molise.it/), sito on line, 20 dicembre 2011: http://www.toro.molise.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1429.

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approssimativo, da tre paesani, nel 1928. Il padre di Peppe Laurelli (Francesco), il padre di Don Camillo (zi Umberto), e il fratello di Michele (Giovanni), decisero un giorno di provare a fare questa seduta, seguendo le istruzioni scritte su un piccolo manuale, che zi Umberto aveva riportato con sé dagli Stati Uniti. Così, di notte, si riunirono in uno dei locali ricavati sotto il Barbacane e iniziarono, tutti trepidanti e incuriositi, la seduta a lume di candela. Ad un certo punto, incominciarono a sentire strani rumori, che si trasformarono presto in un vero e proprio “zuffunno”, si videro pietre e “cuzze de matune22“ volare da ogni parte. I nostri “apprendisti stregoni”, terrorizzati, se la dettero a gambe levate! All’indomani mattina, continua il racconto di Michele, la sorella passa per “Miz’u chiane23“ e vede pietre e” cuzze de matune” dovunque. Logicamente, i tre rimasero molto turbati da quella avventura, e il fratello di Michele, in particolar modo, non si dava pace, e, così, un giorno si mise in sella alla moto insieme a Michele che allora aveva solo 8 o 9 anni e andò da Padre Pio per farsi perdonare! “... Lo so che tu non credi a queste cose, ma io credo a mio fratello e mia sorella!”, concluse Michele. Io rimasi molto colpito da questo racconto, e dal fatto che non ne avessi mai sentito parlare dagli anziani di Toro, e così, nei giorni successivi, chiesi a qualcuno di loro la conferma di quell’ episodio, e, in particolare, ricordo che zio Emiliano (il macellaio) me lo confermò, ma mostrò quasi un certo timore a parlarne!

*** Fin qui Giovanni Rossodivita. Per quanto lui affermi di non averne mai sentito parlare, la seduta spiritica era ben nota a Toro. In un romanzo in parte autobiografico, ne fa cenno anche Frank Salvatore, che non parla del libro del comando, ma di una formula magica per chiamare il diavolo. Del resto Frank sembra essere meno interessato a fornire informazioni sulla seduta, che sulle motivazioni che avevano spinto il giovane protagonista, Iuccio, a tentarla.

Quel ragazzo con i diavoli era in familiarità. Una notte d’inverno, con alcuni amici suoi, aveva chiamato gli spiriti. Qualche cosa non era andata per il verso giusto, e una ventata improvvisa aveva fatto ballare tutte le tegole della casa: Ma la mattina dopo, come per incanto, tutto era tornato in ordine, come se niente fosse accaduto. Quel giorno e tutta la settimana successiva la gente parlò dell’episodio, Giovanni il più caro amico di Iuccio, ed altri amici gli chiesero la formula di quell’evocazione magica, ma non ci fu verso di ricavarne la minima notizia. Iuccio diceva di voler essere il primo nel mondo ad andare nell’aldilà per poter raccontare dal vivo le esperienze infernali. Le sue parole fecero il giro del paese, si impressero sulla memoria degli abitanti, e fissarono intorno alla figura di quel giovane un alone sulfureo e remoto24.

22 U zuffunno, o meglio U zeffunne (“e” semimute), nel dialetto torese è il vento impetuoso, mentre u cuzze matone è un pezzo più o meno consistente di mattone 23 Mezzo al Piano, ovvero Piazza del Piano, la piazza principale di Toro. 24 Frank Salvatore, Buick Toro CB, Edizioni Eva, Venafro 2003, p. 14.

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4. La cinquina del diavolo

Ma è con Nicola Iacobacci che la seduta spiritica di sotto il Barbacane è elevata a momento fondamentale di un romanzo concepito per gli alunni delle Scuole Medie. Si intitola La tela dei giorni (Liguori, Napoli 1987), sebbene l’autore avrebbe voluto intitolarlo Calata Pozzilli, in omaggio alla tipica stradina di Toro, che lo vide nascere e muovere i primi passi.

Lo scrittore Nicola Iacobacci (Toro 1935)

Trascriviamo qui i passaggi fondamentali della vicenda, non senza rilevare sommariamente che al di là degli aspetti romanzati, ci sono diversi particolari che collimano con la versione raccolta da Giovanni Rossodivita: il luogo della seduta, ubicato Sotto il Barbacane, i protagonisti confermati nel numero di tre, il libro del comando (o il piccolo manuale, come lo chiama lui), la provenienza statunitense dello stesso, la seduta al lume di candela, il vento tempestoso, il turbinio di pietre e mattoni che pone fine drammatica alla seduta mettendo in fuga i tre sconsiderati, l’intervento di una donna sulla scena, il turbamento profondo dei protagonisti… Venendo al racconto, l’episodio narrato da Iacobacci nel quarto capitolo del suo romanzo è inserito in un contesto straordinario e misterioso: il barbiere Amadio aveva imbroccato una cinquina al lotto. I cinque numeri erano lì stampati sul giornale che il carrettiere Pietro gli aveva riportato a sera da Campobasso. Festa grande in paese, ma quando Amadio, qualche giorno dopo, si recò nella ricevitoria del Lotto di Campobasso per riscuotere la vincita favolosa ebbe un’amara sorpresa: i numeri del suo biglietto e quelli del giornale in possesso della ricevitore erano completamente diversi. Due copie dello stesso giornale, e riportavano numeri completamenti diversi... Amadio credé di impazzire. Cadde a terra privo di sensi. Si ammalò. La comunità ne rimase sconvolta. Ma diamo la parola al narratore che ci fa vedere all’opera un terzetto di paesani che tentarono allora di far luce sull’accaduto seguendo una pista originale.

Samuele continuava a ripetere che si trattava di uno scherzo del diavolo e pensò bene di organizzare una seduta spiritica. Dopo vari tentativi era riuscito a convincere Matteo e

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Giovanni a prendervi parte. Avrebbe evocato gli spiriti mediante il rituale, contenuto nel libro nero che teneva nel baule. Quel baule e quel libro erano le ultime cose che aveva riportato dall’America. Il libro glielo aveva regalato Namy nel giorno della sua partenza dal New Jersey, dove aveva lavorato a lungo come operaio di una ditta che costruiva traverse per la ferrovia. Era un grosso volume rilegato con pelle nera, la pelle del diavolo, diceva Samuele. Una specie di tela ruvida che portava impresse nel dorso tre macchie rosse a forma di forca, simbolo del potere del Principe delle Tenebre. Samuele credeva ciecamente all’efficacia delle formule che vi erano contenute. Anche se scritte in inglese, riusciva a decifrarle travisando la pronuncia con la cadenza della parlata paesana...(pp. 44-45).

Da p. 45 a p. 47, si apre una lunga digressione sulle vicende americane di Samuele, che noi tralasciamo: se vuole, il lettore curioso le potrà leggere direttamente nel libro. Prosegue Iacobacci:

Samuele, curioso per natura, non si sarebbe mai rassegnato a lasciare insoluto l’enigma della cinquina. Lo avrebbe risolto quel venerdì a mezzanotte, in una rimessa di mattoni scavata nel bastione, a pochi passi dalla discesa del barbacane. Con Matteo e Giovanni aveva già predisposto ogni cosa per poter entrare in contatto con gli spiriti. All’ora stabilita i tre uomini attraversarono la Piazza del Piano. Aria quieta. Silenzio. Samuele portava una penna e un foglio così come era scritto nel libro ma ignorava che sarebbero serviti per vendere l’anima al diavolo. La porta si aprì cigolando. Entrarono. Seduti sugli sgabelli di ferro intorno a un tavolo ricoperto con uno scialle nero, poggiarono le palme delle mani allargandole in modo da chiuderle in cerchio con i pollici e i mignoli. I candelabri accesi alle loro spalle allungavano le ombre sul soffitto. E le facevano tremare a causa di un soffio d’aria che dalla porta tarlata entrava nel locale e leccava la lingua rossa e nera degli stoppini. Improvvisamente la maniglia cominciò a girare. La barra di ferro della serratura si muoveva negli anelli dei battenti. Un brivido freddo si gelò sulla schiena in attesa di un segno visibile della potenza demoniaca.

Processione di San Mercurio in Via Sotto il Barbacane.

1952 (Archivio G. Mascia)

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Era invece Mannino, l’ubriaco, che vagava nella notte dietro ogni odore, in cerca d’amici. Non gli aprirono. Risalì a tentoni le scale del barbacane25 e andò in direzione della chiesa, borbottando. Il rumore ovattato dei passi echeggiava nella rimessa scavata sotto la strada percorsa da Mannino. Di colpo un masso precipitato da una grande altezza sembrò sprofondare nel locale. Si alzarono di scatto e aprirono la porta. Una folata d’aria spense le candele. Risalirono anch’essi le scale. La strada era deserta. Aria quieta. Silenzio. In quell’istante l’orologio della torre scandiva la mezzanotte. L’ultimo rintocco scatenò un vento che tagliava le guance come la lama di un coltello affilato. Fischiava terribilmente. Il sibilo di migliaia di serpi nei tronchi vuoti degli alberi sradicati. E li avvolgeva come un drappo ghiacciato, trascinandoli via al rumore assordante dei mattoni che rimbalzavano dietro le loro spalle. Brancolando in quel vortice, riuscirono a fatica a riparare nella casa di Samuele.

Giannina [la moglie di Samuele] li guardava incredula. Volti spettrali: parole concitate, vento, mattoni, serpi. Decise di uscire a quell’ora della notte seguita da Samuele, Matteo e Giovanni per stabilire la verità di quell’assurdo racconto. Ripercorsero insieme la strada fino alla rimessa. Aria quieta, silenzio. Il lume serpeggiava tra i mattoni ammucchiati dietro il tavolo. La risata di Giannina sull’ultimo gradino del barbacane squarciò il velo del silenzio. Il vento improvviso cominciò di nuovo a trascinarli con sibili di serpi e mattoni che tuonavano paurosamente nella notte dl diavolo26.

Il giorno dopo il sagrestano che aveva dato in prestito i candelabri della chiesa, riferì a Samuele un fatto incredibile. A mezzanotte in punto aveva sentito il battente della porta picchiare a martello. Si era affacciato. Nessuno. L’aria calma poggiava sulla soglia il volto della luna. Qualche ora dopo la cosa si era ripetuta.

Samuele sentì crescere il terrore che si era impossessato di lui. In un momento di costernazione gettò il libro nero nel fuoco. Saltava tra le fiamme senza bruciare, crepitando come un pugno di sale nella bocca del camino. Poi si stirò sul dorso e le pagine si accartocciarono in una nuvola di fumo che si riversò nella cucina con un acre odore di pelle bruciata. La pelle del diavolo. Per poco Samuele non morì soffocato. Tossendo disperatamente a stento riuscì a raggiungere la porta e cominciò a delirare, colto da brividi di febbre27... (pp. 47-50).

Samuele aveva le allucinazioni, descritte dallo scrittore sulla falsariga della pantomima carnevalesca del diavolo di Tufara: diavoli incatenati con falci che sprizzavano fuoco, in mezzo a loro Satana con una maschera orrenda, rivestito di sette pelli di capra, scortato da tre incappucciati. Ma quando l’uomo vide se stesso portato via dai diavoli e buttato giù dalla rupe come un fantoccio, allora…

In quell’attimo Samuele si riebbe dal deliquio. Aprì gli occhi e a mala pena riuscì a riconoscere l’ombra di Giannina che gli asciugava la fronte. Nei giorni seguenti restò come inebetito. Non

25 Allude alla gradinata in pietra (si veda la foto nella pagina precedente), che costituiva la sede stradale di Via Sotto il Barbacane, nel ripido tratto di collegamento con Piazza del Piano, gradinata che nei primissimi anni Sessanta del secolo scorso fu in malo modo rimossa e cementificata per permettere il transito delle autovetture. 26 Come si vede, qui le due versioni divergono. La sorella dell’informatore, nel racconto di Giovanni, all’indomani mattina vede pietre e mattoni sparsi ovunque nella piazza; nel romanzo di Iacobacci, invece, Giannina in un primo momento trova tutto in ordine nella notte, al punto di deridere il marito e i due compari come visionari, ma subito dopo è presa anche lei nel vortice tempestoso di vento e mattoni. 27 Per poco l’uomo non rimase vittima del gesto inconsulto di gettare il libro del comando nel fuoco. Come abbiamo visto, aveva rischiato di fare la stessa fine, un ventennio dopo, la padrona della casa della Paura, quando aveva buttato nel fuoco il libro nero trovato sulla soffitta, con grave sconcerto di Padre Pascasio, secondo il quale – ipotizziamo, alla luce di una diffusa credenza popolare – il libro diabolico andava esorcizzato, prima di finire tra le fiamme.

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mangiava né dormiva per paura delle allucinazioni, e s’indebolì al punto di credersi invasato dal demonio. E forse lo era. Con quegli occhi spiritati e la bava sulla bocca. E le braccia smaniose che non sopportavano il peso del lenzuolo. Arrivò don Giustino con il secchiello dell’acqua santa. Appena lo vide, Samuele saltò dal letto e cercò di raggiungere la porta per fuggire. Una bestia sorpresa nella tana. Quando il prete gli versò addosso dell’acqua santa, gridò, come fosse stato colpito a morte. Si rannicchiò in un angolo e cadde in un sonno di pietra… (pp. 50-51).

Per fortuna le cose evolvono bene. Samuele guarisce e, insieme a lui, guarisce anche il povero barbiere che abbiamo lasciato ammalato dopo ch’era stramazzato a terra, privo di sensi nella ricevitoria del Lotto a Campobasso. Che cosa era successo? il giornale con la cinquina della vincita misteriosa, la causa di tutto quel putiferio, non era uno scherzo del diavolo come avevano ipotizzato Samuele supportato dai due amici, ma la beffa assai ingegnosa di Pietro, il carrettiere bontempone, che si era avvalso della complicità di un tipografo per manomettere la copia del giornale con la quale ingannare Amadio. Senza immaginare le terribili ma per fortuna non tragiche conseguenze che ne sarebbero derivate. Né la bonaria ironia con la quale Nicola Iacobacci, mezzo secolo dopo, avrebbe simpaticamente stigmatizzato l’ingenuità dei suoi compaesani.

Copertina de La tela dei giorni (Napoli 1987)

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V – Il diavolo beffato, rappresentazioni e leggende

1. La maschera del diavolo28

Carnevale 2012. Il diavolo a Toro, in cerca di operai per la sua vigna (Foto S. Nazzario)

La novellistica popolare si diverte a prendere in giro il diavolo, ingannato di volta in volta da contadini e femminelle assai furbe, come nel buon esempio del Ponte del Diavolo. Rientra nel novero anche un divertimento carnevalesco popolare, nella versione che si rappresenta a Toro. È intitolato La maschera del diavolo, ma nella sua struttura tradizionale non è tipico del nostro paese, è patrimonio del folclore molisano, in particolare, e nazionale in genere29. Originale, invece, è la musica.

28 Cfr. G. Mascia, ‘A tavele de Ture cit., pp. 110-116, nonché Id., La maschera del diavolo, “Utriculus” Numero 1(21), Gennaio-Marzo 1997. 29 Si veda in proposito la breve ma accurata testimonianza di Mauro Gioielli, La porta dell’Inferno, “Utriculus”, Anno 3°, Numero 3(11), Luglio-Settembre 1994, dove, tra l’altro, oltre alla mascherata conosciuta a Isernia (Cfr. Mauro Gioielli, Il Carnevale Isernino, “Utriculus”, Anno 3°, Numero 1(9), Gennaio-Marzo 1994), è fatto riferimento a versioni lucane e valdostane.

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Si finge che in paese arrivi il diavolo, in cerca di operai per la sua vigna. Egli viene accolto da una popolazione esuberante e sfrontata, da gente che non ha affatto paura di lui. Uno alla volta, alcuni abitanti, caratterizzati dal mestiere svolto, gli sfilano davanti. Ecco allora il barbiere, l’imbianchino, la maestra, il calzolaio, il macellaio, il cantiniere, le comari, il medico, confessare i peccati commessi e aspettare la sentenza. Sono tutti degni dell’inferno: tutti tranne uno, il contadino. Una volta tanto, purtroppo soltanto per burla, si rende giustizia al povero e maltrattato contadino che

n’è iúte maie pe cuntate a Ture, ma ha sfamate a povere e segnúre.30

L’apparizione di San Mercurio, patrono di Toro, manda all’aria il piano del diavolo

(Foto S. Nazzario)

30 Non ha mai contato a Toro,/ ma ha sfamato poveri e signori. Cfr. G. Mascia, ‘A tavele de Ture cit., p. 110.

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A questo punto la rappresentazione in uso a Toro si discosta dalle analoghe rappresentazioni che si chiudono con l’assoluzione del solo contadino, mentre tutti gli altri compaesani sono condannati a seguire il diavolo all’inferno. Grazie a un colpo di scena ideato da Giovanni Mascia, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, la rappresentazione torese va oltre la satira dei pessimi costumi locali e, in barba a ogni giustizia diabolica o umana o divina, si concede un classico lieto fine, assicurato dalla devozione popolare. Infatti, dopo aver assolto il contadino e condannato tutti gli altri, il diavolo che assaporava la gioia della ricca retata di peccatori, deve rinunciare al proposito di portarseli dietro per gettarli nelle fiamme eterne, perché essi so’ agguardate, sono protetti, da San Mercurio. È amaro ammettere la sconfitta:

I v’appecciasse a tútte, m’avéte fatte u curie,

ma nen me pozze move, v’agguarde San Mercúrie31.

Ma davanti a San Mercurio, Santo guerriero e Patrono di Toro, il Maligno deve arretrare. È costretto a tornare da solo tra le fiamme degl’inferi, deriso e sbeffeggiato dai toresi che si danno a balli e canti.

Carnevale 2012. Messo in fuga il diavolo, la popolazione di Toro festeggia (Foto S. Nazzario)

31 Io vi brucerei tutti,/ mi avete rotto le scatole,/ ma non mi posso muovere,/ vi protegge San Mercurio. Cfr. G. Mascia, ‘A tavele de Ture cit., p. 16. In verità u curie del secondo verso è il cuoio, la pelle. Quindi, alla lettera il verso, che corrisponde a un’espressione popolare ancora in auge, suona “Mi avete fatto la pelle”, ossia “Mi avete ammazzato”. Ma non è mai usata alla lettera. Nel peggiore dei casi significa “Mi avete ridotto in pessime condizioni”, mentre comunemente vale “Mi avete avvilito, mi avete scocciato”. Proprio in questa ultima accezione, è utilizzata anche dal diavolo.

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2. L’osceno calamaio di San Giovanni in Galdo32

Anche nel vicino abitato di San Giovanni in Galdo, che ha condiviso con la vicinissima Toro sette secoli di vicende feudali e amministrative, quali feudi dell’Abbazia di Santa Sofia di Benevento, il diavolo veniva sbeffeggiato, e in maniera ancora più umiliante, durante un’antica rappresentazione sacra, che presentava dei risvolti davvero molto scurrili.

Si racconta che il diavolo non abbia molta simpatia per il calamaio. E si capisce. Con l’inchiostro si possono smascherare e fissare su carta le sue nefandezze e nello stesso tempo tessere le lodi al Signore. Cose che il diavolo non sopporta.

32 Giovanni Mascia, L’osceno Calamaio di San Giovanni in Galdo, in «ToroWeb» (http://www.toro.molise.it), sito on line, 14 maggio 2010: http://www.toro.molise.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1074.

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Vecchie miniature medievali lo deridono, dipingendolo rannicchiato orribilmente dietro a un cespuglio o dietro a un masso, nell’inutile tentativo di rubare il calamaio che l’aquila portava quotidianamente a San Giovanni, quando l’Evangelista era intento a scrivere l’Apocalisse sull’isola di Patmos.

San Giovanni a Patmos di Hieronymus Bosch

Qui il diavolo è un grosso scarafaggio che ha in animo di rubare il calamaio con un arpione, mentre nella miniatura precedente è un mostro alato che tenta il furto con un retino.

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Più ridicolo e imbarazzante è il bernoccolo che gli procurò Martin Lutero. Superstizioso e spavaldo, il monaco era ossessionato dal diavolo che si arrogava il diritto di suggerire gli argomenti contro il papa e la Chiesa di Roma. Finché un giorno, stufo della martellante ispirazione, non reagì scagliando il calamaio contro il suo cattivo maestro, la cui cattivissima figura è ricordata ai visitatori del castello di Wartburg, in Germania, da una persistente macchia d’inchiostro sul muro.

Di peggio capitava al diavolo a San Giovanni in Galdo. Ed è strano che dell’episodio che si ripeteva anno per anno le fonti paesane orali e scritte non parlino. Ne parla, invece, il nostro concittadino Luigi Alberto Trotta che, scrivendo a fine Ottocento dei Misteri di Campobasso33, accenna ad altre due sacre rappresentazioni molisane: il San Giorgio che ammazza il dragone a Mirabello Sannitico e, per l’appunto, la decollazione del Battista a San Giovanni in Galdo. In quest’ultimo caso, da buon cattolico qual era, il Trotta si limita a sottolineare la meraviglia e il riso del pubblico, davanti a una trovata farsesca che, benché del tutto fuori luogo in una scena sacra recitata durante la solenne festa del Patrono, sconfigge una volta per tutte il diavolo, seppellendolo nel ridicolo.

Francesco Torraca, dantista di fama mondiale.

Per la sua caratteristica non comune, la trovata non è sfuggita alla curiosità di Francesco Torraca, dantista di fama mondiale, il quale nei suoi Studi di storia letteraria napoletana (1884), la inserisce

33 L. A. Trotta, Reliquie dei Misteri in Molise, op. cit.

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tra le “Reliquie del Dramma sacro”. E, dandola per estinta da poco o in via di estinzione già a quei tempi, la descrive in questi termini:

S. Giovanni in Galdo. Il 29 Agosto si poteva godere, non è molto (e forse si può ancora), di una strana scena. Sopra un palco comparivano Erode, Erodiade, San Giovanni Battista e il Diavolo. L’ultimo istigava Erodiade a chiedere la testa del Battista. Erode faceva condannare il precursore da un tribunale, poi firmava la sentenza intingendo la penna nell’a... del Diavolo, tra gli schiamazzi degli spettatori, non sai se più maravigliati o compiaciuti di quell’atto.

In effetti, è davvero singolare la beffa sangiovannara, che si spinge fino a trasformare il diavolo stesso nell’odiato calamaio, per giunta con una metamorfosi che più sconcia non si può immaginare. Ma la si può tranquillamente esplicitare con le parole di Luigi Alberto Trotta: “Erode, nel sottoscrivere la sentenza, intinge la penna in una parte recondita del diavolo, che per tale occasione gli serve da calamaio”.

Scena infernale in un’antica miniatura

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3. Fernando all’inferno34

Il tanto bistrattato diavolo sembra prendersi la rivincita in questa leggenda popolare torese35. In

cambio di un insignificante aiuto che si accinge a prestare a una donna, il Maligno chiede un prezzo

altissimo: un’anima come al solito, anzi addirittura l’anima del figlio che sta per nascere. Questa

volta pare proprio non esserci beffa che tenga. I patti sono patti, la mamma è costretta ad

affidargli il bimbo. Il quale però…. Una giovane donna andò a raccogliere la legna nel bosco. Uno sterpo, un ramo secco: il fascio le riuscì bello grosso, tanto che non fu in grado di issarselo in testa. – E che cosa è, oggi? – esclamò. – Non si vede in giro nemmeno un diavolo! Detto, fatto. Il tentatore spuntò fuori nelle vesti di un passante, che le propose: – Ti aiuto, se mi prometti l’anima che sta per nascere. Stanca e avvilita, la donna, che era incinta davvero, accettò. Passarono alcuni anni. Fernando, il bel maschietto che aveva dato alla luce, cresceva vispo e robusto. Un giorno, la madre gli chiese di andare a svuotare il corbellino dell’immondizia, ma ad attenderlo c’era uno sconosciuto, che gli disse: – Ricorda a tua madre, che è tempo di mandarmi quello che mi spetta! – Non ti curare di lui! – fu la risposta che al bambino diede la mamma, che cercava di sorridere, ma ricordando la promessa strappatale dall’uomo del bosco, ebbe paura. L’incontro del bimbo con lo sconosciuto si ripeté qualche giorno dopo, con la stessa richiesta per la madre, sempre più preoccupata e impaurita. Poi ci furono altre richieste, finché la donna non si vide costretta a mantenere la parola data. Invitò il figlio ad andare a svuotare ancora una volta il corbellino. – E se vedi di nuovo quell’uomo, puoi dirgli di sì, che si prendesse quello che gli spetta! Il bimbo andò verso il suo destino, ma prima passò nella bottega del falegname per riempirsi le tasche di chiodi lunghi e aguzzi e prendere in prestito un martello. – Allora vieni con me! – ordinò l’uomo (cioè il diavolo) al fanciullo, quando questi si presentò con il messaggio materno. – Vieni con me? – rispose Fernando. – Io non vengo da nessuna parte, se non mi ci porti tu a cavalcioni… E salì sulle spalle del diavolo, sulla cui testa, cammin facendo, conficcava un chiodo dopo l’altro. – Ahi, che fai? – si lamentava il diavolo e allungava il passo, impaziente di arrivare all’inferno con la sua giovane preda. – Zitto e cammina! – rispondeva Fernando, intento sempre a martellare. Finalmente giunsero in quel buco profondo, dove una schiera di diavoli provò ad avventarsi sul bimbo, ma dovette battere in ritirata. Brandendo enormi tizzoni ardenti con la facilità di un maestro che dirige l’orchestra con la bacchetta, Fernando li randellò ben bene. Intanto, prendendo

34 Paesanino, Fernando all’inferno, in «Canzoni poesie e aneddoti di Toro» sito on line (www.paesanino.altervista.org), 16 giugno 2006: http://paesanino.altervista.org/fernando-allinferno/. Il racconto è stato ripubblicato in Domenico Meo, Riti e feste del fuoco. Falò e torce cerimoniali in Molise, Cerro al Volturno 2008. 35 Infomatrice Anna Iacobacci, casalinga, nata a Toro nel 1923.

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a calci cumuli di brace e cenere, ne riversò sull’inferno una pioggia rovente, finché i diavoli spauriti non lo supplicarono di andare via e lasciarli in pace. – Vado via? – fu la risposta del fanciullo terribile. – Chi mi ha portato fin qui, mi riporti a casa! Così, il malcapitato traghettatore fu costretto a rifare la strada già fatta, con il fanciullo sulle spalle, che riprese a martoriarlo, a furia di conficcargli altri chiodi aguzzi in testa. Fernando poté riabbracciare la madre in lacrime, stupita delle prodezze raccontate dal figlio, che di lì a qualche anno, indossato il saio francescano, avrebbe sbalordito il mondo intero, non solo l’inferno, con il nome di Sant’Antonio di Padova36.

Sant’Antonio, Chiesa e Convento di S. Maria di Loreto,

Cartolina AIDA 7 novembre 1923. Archivio Luciano Tromba

36 Il grande taumaturgo, infatti, era portoghese e si chiamava Fernando Martins de Bulhões. Indossato il saio francescano, volle ribattezzarsi Antonio in onore di Sant’Antonio abate. Proprio l’abate, il protettore degli animali, salutato dal popolo come “lu nemico de lu demonio” e a costui sempre associato, sarebbe dovuto essere il protagonista della favola. La quale, come la desueta benedizione degli animali e la tradizione assai viva dei fuochi rituali, che da gennaio furono spostate a giugno, è un’altra buona testimonianza di come, a Toro, la presenza francescana abbia inciso profondamente sulla vita tradizionale, dirottando sul santo patavino alcune devozioni di spettanza del santo eremita.