"Il costo della modernità urbana afroamericana. "Mammy" (1940) di Dorothy West"

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Tatiana Petrovich Njegosh Il costo della modernità urbana afroamericana. Mammy (1940) di Dorothy West New York, 1926: When the (New) Negro Was in Vogue Enter the New Negro, a Distinctive Type Recently Created by the Coloured Cabaret Belt in New York. «Vanity Fair», 1924 Dorothy West (1907-1998), Helene Johnson (1905-1995) e Zora Neale Hurston (1890-1960) si incontrano a New York nel 1926, dando inizio a una lunga amicizia e a una comunità lette- raria che durano nel tempo. Hurston, ancora oggi la più nota e rappresentativa autrice del Rinascimento di Harlem, viene di solito considerata in splendido isolamento, o in opposizione a talenti della giovane avanguardia urbana come Johnson. Nina Miller ha per esempio sostenuto l’uti- lità di mettere da parte Hurston a favore di poetesse come Johnson o Gwendolyn Brooks per avere un quadro più vero della letteratu- ra femminile e modernista del Rinascimento di Harlem 1 . Il motivo che aveva reso Hurston protagonista di una riscoperta negli anni Ottanta – la creazione di un’arte nera autentica perché derivata dal folclore afroamericano del Sud – è ciò che nei più recenti lavori cri- tici la esclude dal modernismo urbano nero. Quel che invece ha finora reso West poco appetibile come scrittrice afroamericana – la moderata presenza di motivi folclorici – è l’aspetto tematico che le ha regalato una certa attenzione da parte della critica più recente. La riscoperta di West è avvenuta cioè trascurando alcuni dati (la fami- glia benestante in cui nasce a Boston, i personaggi borghesi, lo stile attento), ed enfatizzando la presenza sotterranea di una vena popo- 1 Nina Miller, Making Love Modern. The Intimate Public Worlds of New York’s Literary Women, New York, Oxford University Press, 1999, p. 144.

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Tatiana Petrovich Njegosh

Il costo della modernità urbana afroamericana. Mammy (1940) di Dorothy West

New York, 1926: When the (New) Negro Was in Vogue

Enter the New Negro, a Distinctive Type RecentlyCreated by the Coloured Cabaret Belt in New York.

«Vanity Fair», 1924

Dorothy West (1907-1998), Helene Johnson (1905-1995) eZora Neale Hurston (1890-1960) si incontrano a New York nel1926, dando inizio a una lunga amicizia e a una comunità lette-raria che durano nel tempo.

Hurston, ancora oggi la più nota e rappresentativa autrice delRinascimento di Harlem, viene di solito considerata in splendidoisolamento, o in opposizione a talenti della giovane avanguardiaurbana come Johnson. Nina Miller ha per esempio sostenuto l’uti-lità di mettere da parte Hurston a favore di poetesse come Johnsono Gwendolyn Brooks per avere un quadro più vero della letteratu-ra femminile e modernista del Rinascimento di Harlem1. Il motivoche aveva reso Hurston protagonista di una riscoperta negli anniOttanta – la creazione di un’arte nera autentica perché derivata dalfolclore afroamericano del Sud – è ciò che nei più recenti lavori cri-tici la esclude dal modernismo urbano nero. Quel che invece hafinora reso West poco appetibile come scrittrice afroamericana – lamoderata presenza di motivi folclorici – è l’aspetto tematico che leha regalato una certa attenzione da parte della critica più recente. Lariscoperta di West è avvenuta cioè trascurando alcuni dati (la fami-glia benestante in cui nasce a Boston, i personaggi borghesi, lo stileattento), ed enfatizzando la presenza sotterranea di una vena popo-

1 Nina Miller, Making Love Modern. The Intimate Public Worlds of New York’sLiterary Women, New York, Oxford University Press, 1999, p. 144.

lare e folclorica, ereditata dalla madre, che colloca la scrittrice almargine dell’autentica tradizione letteraria nera statunitense.

L’incontro casuale a New York di West, Johnson e Hurston,tre donne e artiste diversissime tra loro, durante il Rinascimentodi Harlem, rappresenta l’inizio simbolico di un lavoro comune suquello che il critico afroamericano Houston Baker Jr. ha definitoil contributo della modernità nera statunitense: il contatto tra lacultura folclorica del Sud e il contesto urbano del Nord. E se Hur-ston è fondamentale dal punto di vista teorico e ideologico – perl’elaborazione di una cornice interpretativa del folclore tratta daquello stesso materiale “grezzo” – e dal punto di vista pratico(l’uso letterario del Black English), Johnson riveste un interesselimitato dal fatto che ha pubblicato pochissimo, West racconta lestorie di quel contatto, sottolineando quanto rimane fuori, inas-similato dal processo centripeto della modernizzazione. Il residuoche resta a margine, la mammy del racconto omonimo di West,riporta sulla scena della modernità urbana americana la schiavitùe il tabù nazionale su cui il sistema si fondava: il divieto di attra-versare la linea del colore che divide i bianchi dai neri.

L’occasione dell’incontro tra Hurston, West e Johnson è datada uno dei molti appuntamenti pubblici organizzati a New Yorknegli anni Venti, durante il Rinascimento afroamericano, dalleassociazioni per i diritti civili dei neri: la cena ufficiale, organiz-zata dalla rivista «Opportunity», organo della National UrbanLeague di Chicago, per festeggiare un premio letterario. Direttada Charles S. Johnson, che si era formato alla scuola urbanisticae sociologica di Chicago con Robert E. Park e Louis Wirth,«Opportunity» vuole contribuire a realizzare le potenzialità diHarlem. Capitale nazionale e transnazionale della diaspora nera,lo spazio urbano di Harlem è un contenitore ricco di possibilità,una fucina di nuovi tipi rappresentativi, che, come il New Negro,vengono contrapposti agli stereotipi rurali e razzisti del passato:Mammy, Sambo, Uncle Tom, la schiava-domestica e nutrice, ilservo sciocco, lo schiavo fedele. La vitalità e il successo di questistereotipi è forte, la loro diffusione nazionale, grazie al genere tea-trale del minstrel show, enorme.

Un anno prima, nel marzo 1925, la rivista «Survey Graphic»aveva pubblicato un numero interamente dedicato alla razza neracurato da Alain Locke. Locke, docente di filosofia alla Howard Uni-

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versity e primo Rhodes scholar nero, è stato scelto perché il nume-ro del marzo 1925 è dedicato al New Negro, il più recente prodot-to della modernità urbana. Il numero, intitolato Harlem: Mecca ofthe New Negro, vende in due ristampe più di 40.000 copie2. L’in-tento dichiarato del «Survey», un settimanale di studi sociali impe-gnato in una politica interrazziale, è quello di documentare «thesubtle traces of race growth and interaction through the shiftingoutline of social organization and by the flickering light of indivi-dual achievement»3. Il numero speciale del 1925 celebra il progres-so urbano della razza nera attraverso il tipo del New Negro, figurarappresentativa del Rinascimento di Harlem, nonché simbolo delriscatto sociale e politico dei nuovi neri negli Stati Uniti4.

Il titolo dell’articolo introduttivo di Alain Locke – Enter theNew Negro – riprende quello di un articolo con cui la rivista«Vanity Fair», nel dicembre 1924, aveva presentato il NewNegro come il fenomeno più recente e di gran moda generatonella capitale nazionale e internazionale del divertimento: Enterthe New Negro, a Distinctive Type Recently Created by theColoured Cabaret Belt in New York. La ripetizione fa leva sul-l’attrazione esercitata dall’immagine esotizzata del New Negroper poi proporre una versione diversa da quella gradita al gustoprimitivista e razzista dei bianchi. Il prezzo da pagare per rinno-vare l’identità e la cultura afroamericane si traduce però in unaprospettiva modernista che riduce lo spazio della cultura pro-dotta durante la schiavitù, minimizzando l’importanza e i suc-

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2 Martha Jane Nadell, Enter The New Negroes. Images of Race in American Cul-ture, Cambridge (MA), Cambridge University Press, 2004, p. 35. Il numero specialedel «Survey» non è però un’eccezione: negli anni Venti vengono pubblicati libri, nume-ri speciali di riviste e articoli sui neri statunitensi. Cfr. Gilbert Osofsky, Harlem: TheMaking of a Ghetto. Negro New York, 1890-1930, Chicago, Ivan R. Dee, 1996, p.182. Il «Survey Graphic» è in rete, nell’edizione ipermediale a cura della University ofVirginia. URL: <http://etext.lib.virginia.edu/harlem/>, ottobre 2006.

3 Citato in Nadell, Ibid.4 Secondo Henry Louis Gates Jr, il New Negro di Locke è un tipo apolitico. Cfr.

Gates, The Trope of a New Negro and the Reconstruction of the Image of the Black,«Representations», 24, Special Issue: America Reconstructed, 1840-1940, Autumn1988, pp. 129-155, pp. 133-135, e cfr. anche p. 147. Come però ho cercato di dimo-strare altrove, il New Negro, riutilizzato come tipo rappresentativo del Rinascimentoartistico di Harlem, anche in Locke, non è affatto apolitico. Cfr. Tatiana Petrovich Nje-gosh, L’iconografia in movimento del New Negro, in Camilla Cattarulla (a cura di),Identità americane: corpo e nazione, Roma, Cooper, 2006, pp. 66-89.

cessi urbani del blues e di cantanti come Clara Smith, BessieSmith e Mamie Smith5.

Il New Negro, nella prospettiva moderna di Locke, e in quel-la insieme utopica e pratica di Johnson, derivata dalla scuola urba-nistica di Chicago, è un tipo creato dallo spazio urbano, perché,come scrive Johnson in Black Workers and the City, «the citycreates its own types»6. Il potenziale generico, per così dire, dellacittà – le possibilità di Harlem in quanto spazio urbano – è incre-mentato dalla specificità di New York, capitale culturale e finan-ziaria della nazione che a cavallo tra Otto e Novecento sostituiscenel ruolo egemone il New England. La cultura prodotta a NewYork tra il 1890 e la fine degli anni Venti è fortemente influenza-ta dall’interazione tra immigrati (più di tre milioni in tre decenni)dall’Europa e dal bacino del Mediterraneo, dalla migrazione didecine di migliaia di afroamericani dal Sud degli Stati Uniti e dineri dalle Antille e dai Caraibi. Come ha sostenuto Ann Douglasin Terribile Honesty. Mongrel Manhattan in the 1920s, Manhat-tan negli anni Venti è mongrel, e meticcia è la sua cultura7.

Charles Johnson, più praticamente, vede la specificità di NewYork nello sviluppo industriale della città, e il lavoratore nero newyor-chese come un tipo a sé. Anche Locke rappresenta il New Negrocome segno visibile di rinascita della razza, un’icona culturale gene-rata dai “nuovi” neri, forte al punto da contrastare le immagini del-l’Old Negro, le caricature e gli stereotipi razzisti che fino a quelmomento avevano dominato la rappresentazione letteraria e visivadegli afroamericani8. Forte perché icona dei neri generata dai neri, eperché simbolo collaudato di «rigenerazione» e presenza9, il NewNegro così concepito ha però basi fragili, e poggia su un paradosso:

5 Arnold Rampersad, Introduction, in Alain Locke (a cura di), The New Negro. Voi-ces of the Harlem Renaissance, New York, Simon & Schuster, 1997, pp. ix-xxxiii, p. xx.

6 Charles S. Johnson, Black Workers and the City, «Survey Graphic», 6, vol. VI,number 6, March 1925, p. 614.

7 Su questo aspetto, si veda anche Tatiana Petrovich Njegosh, Cultura e razza nelRinascimento di Harlem: identità e creatività come mongrelization, in Marina Cam-boni e Renata Morresi (a cura di), Incontri transnazionali: Modernità, poesia, speri-mentazione, polilinguismo, Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 156-174, p. 158.

8 Nadell, Enter the New Negroes, cit., pp. 10-11.9 Come ha sottolineato Gates, «the image of a “New Negro” has served various

generations of black intellectuals as a sign of plenitude, of regeneration, of a truly recon-structed presence […]», all’opposto, l’immagine del Sambo, simbolo di «assenza». Gates,The Trope of a New Negro, cit., p. 130, per la citazione successiva, p. 131.

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[a] paradox of this sort of self-willed beginning is that its “success”depends fundamentally upon self-negation, a turning away from the “OldNegro” and the labyrinthine memory of black enslavement and toward theregister of a “New Negro”, an irresistible, spontaneously generated blackand sufficient self.

Di fatto, l’immagine del New Negro proposta dal Surveysegnala il rapporto tormentato delle élite e degli artisti neri chepartecipano al Rinascimento di Harlem con il presente e il passa-to della razza, con lo scandalo nazionale della schiavitù e con l’e-redità, ad essa legata, della cultura folclorica del Sud. Lo stessolaboratorio che dovrebbe generare il cambiamento, lo spaziourbano di Harlem, è una mecca, come sottolineato dal titolo delSurvey, e un ghetto. Harlem, la città per eccellenza nella storia,nella cultura e nelle arti afroamericane del ventesimo secolo, è illuogo della modernità urbana nera nella letteratura del Rinasci-mento afroamericano. Washington, Chicago, Philadelphia eDetroit sono state città importanti per la geografia culturale urba-na afroamericana nei primi decenni del Novecento, ma Harlem,negli anni Venti era

a remarkable place. It was the scene of great social upheaval and tran-sformation. According to some critics of the time, it represented the matu-ration of African Americans into their modern, urban incarnation. Home toan incredibly diverse black population that cut across social strata andnationalities, Harlem embraced old and new inhabitants: migrants, immi-grants, and native New Yorkers10.

In molta della letteratura di quegli anni, Harlem è lo spazioutopico urbano in cui guadagnare l’anonimato che salva dallasegregazione e dai linciaggi del Sud rurale, e dove realizzarsi, otte-nendo l’individualità negata a una razza considerata dai bianchiinferiore e imitativa. Soprattutto, Harlem è uno spazio urbano,pubblico e moderno, interamente nero. Uno spazio utopico chespesso si rivela inferno in terra. Nel racconto City of Refuge diRudolph Fisher, pubblicato su «The Atlantic Monthly» nel 1925,King Solomon Gillis, il protagonista, fuggito dal Sud dopo averucciso un uomo bianco, descrive l’uscita dalla metropolitana el’arrivo ad Harlem con una metafora biblica: come «Giona che

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10 Nadell, Enter the New Negroes, cit., p. 1.

esce dal ventre della balena» Gillis scivola in una folla nera e pla-cida che cammina, lenta, lungo strade spaziose e inondate dal sole.La presenza dominante dei neri sembra riflettere la realizzazionedi una promessa utopica: «In Harlem, black was white. You hadrights that could not be denied you; you had privileges, protectedby law. And you had money»11.

Come ha sottolineato Maria Balshaw, la letteratura afroame-ricana degli anni Venti rappresenta Harlem in maniera doppia:spazio urbano che offre possibilità lavorative, di divertimento,mobilità e anonimato – paradiso, insomma – e inferno: la visionedi Gillis, outsider ingenuo originario della Georgia, si rivela quan-to mai parziale; Harlem è, anche, «the city of hell»12. Come scri-ve Eunice Roberta Hunton, giudice e scrittrice, nel numero spe-ciale del Survey, Harlem è un ghetto dalle «invisibile lines andbars»13: il primo spazio urbano segregato degli Stati Uniti14.

Tre donne

What do I care for morning,For a shivering aspen tree,For sunflowers and sumacOpening greedily?

Helene Johnson, What Do I Care For Morning, inCaroling Dusk, 1927

West e Hurston sono presenti alla cena del 1926 perché hannovinto il secondo posto, a pari merito, nel concorso per il migliorracconto, premiato con 100 dollari, mentre Johnson, cugina diWest, ha ottenuto tre menzioni speciali per la poesia.

West e Johnson sono più giovani di quasi venti anni di Hur-ston, che ne dichiara dieci di meno di quanti in realtà ne abbia;

11 Rudolph Fisher, City of Refuge, in City of Refuge: The Collected Stories ofRudolph Fisher, John McCluskey Jr (a cura di), Columbia & London, University ofMissouri Press, 1987, pp. 3-35, p. 3.

12 Maria Balshaw, Looking for Harlem. Urban aesthetics in african american lite-rature, London & Sterling, VA, Pluto Press, 2000, p. 15 e 2.

13 Eunice Roberta Hunton, Breaking Through, «The Survey Graphic», 6, vol. VI,March 1925, p. 684.

14 Cfr. Osofsky, Harlem, cit., soprattutto pp. 77-123.

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ma tutte e tre le scrittrici sono parte attiva della «giovane» gene-razione di artisti e scrittori del Rinascimento afroamericano:Langston Hughes, Dorothy West, Claude McKay, Aaron Douglas,Wallace Thurman. West e Johnson, nate a Boston da famiglia bor-ghese, e Hurston, nata in Alabama e vissuta in Florida, a Eaton-ville – una piccolissima comunità nera autogovernata – non hannonulla in comune, a parte il mestiere e la passione per lo scrivere, ilcapitare nello stesso luogo nell’identico momento (Harlem, la cenafinanziata da «Opportunity»), e la forte consapevolezza dei limi-ti creati dall’essere Young – A Woman – and Colored.

On Being Young – A Woman – and Colored è l’articolo diMarita Bonner, scrittrice, autrice di teatro, diplomata al Radclif-fe College, che nel 1925 vince il premio annuale per il miglior sag-gio messo in palio da «The Crisis», rivista a grande diffusione,più di 100.000 copie, della National Association for the Advan-cement of Colored People, fondata nel 1910 e diretta da W.E.B.Du Bois, leader intellettuale, scrittore e giornalista afroamerica-no. Secondo la retorica che caratterizza la cultura nera degli StatiUniti ben prima del Rinascimento di Harlem, Bonner costruiscel’identità afroamericana tra individualismo e senso della colletti-vità. L’individualità – intesa come diritto a una piena e autonomapersonalità giuridica e capacità creativa individuale – è la parolachiave che, intrecciata e spesso in polemica con quella di razza,attraversa il Rinascimento afroamericano. L’identità delle giovanidonne nere moderne, nel saggio di Bonner, è un vuoto da riempi-re, un punto interrogativo, una promessa stretta ai fianchi dallaviolenza e dalle discriminazioni razziali e sessuali, al di fuori eall’interno dei ghetti urbani statunitensi. Chicago, nel caso di Bon-ner, Harlem per Hurston, West e Johnson. La comunità nera –«your people» – è un limite e un’utopia, un «gruppo» eterogeneoe segregato, una collettività dalle basi fluttuanti, che di fatto nonha nulla in comune se non il colore della pelle:

If you have never lived among your own, you feel prodigal. Some warmuntouched current flows through them – through you – and drags you outinto the deep waters of a new sea of human foibles and mannerisms; of apeculiar psychology and prejudices. And one day you find yourself entan-gled – enmeshed – pinioned in the seaweed of a Black Ghetto.

Not a Ghetto, placid like the Strasse that flows, outwardly unpertur-bed and calm in a stream of religious belief, but a peculiar group. Cut off,

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flung together, shoved aside in a bundle because of color and with no morein common.

Unless color is, after all, the real bond15.

E persino il colore, il dato visibile e biologico che dovrebbeinchiodare la razza nera alla sua diversità (e inferiorità) non è unelemento che unisce gli afroamericani e i neri di Harlem o Chica-go: il nero non è un colore omogeneo ma l’insieme delle sfumatu-re tra il nero e il bianco. Hurston, West e Johnson, in comune,non hanno neanche il colore della pelle: marrone chiaro Johnson,tra il marrone e il giallo Hurston, marrone scuro West. Eppurequalcosa che lega le tre donne, al di là della misteriosa simpatiache dà vita alle amicizie, c’è.

Delle tre autrici, che esordiscono durante il Rinascimentoafroamericano di Harlem, Hurston – autrice di racconti, saggi eteatro, antropologa e giornalista – è la più nota e appariscente.Mentre Johnson, poetessa di qualità già secondo il giudizio di unodei decani del Rinascimento, James Weldon Johnson, pubblicararamente, Hurston e West (autrice quest’ultima di racconti,romanzi e giornalista) continueranno a lavorare e pubblicare, conalterni successi e qualche difficoltà, ben oltre la fine ufficiale delRinascimento. Gran parte della produzione di Hurston, compre-so il suo romanzo più noto, Their Eyes Were Watching God(1937) viene pubblicata tra gli anni Trenta-Cinquanta, e l’ultimoromanzo di West (The Wedding) è uscito nel 1995.

Le carriere letterarie di Hurston e West si estendono oltre lafine del Rinascimento di Harlem, e il movimento è stato di recen-te ridefinito concettualmente e cronologicamente16. In un passa-

15 Marita Bonner, On Being Young – A Woman – and Colored, in The Crisis Rea-der. Stories, Poetry, And Essays from the N.A.C.C.P. Crisis Magazine, Sondra K. Wil-son (a cura di), New York, Random House, 1999, pp. 227-231, pp. 227-228.

16 Da un lato, c’è una generale convergenza sul Rinascimento di Harlem come feno-meno iniziato dopo la Prima guerra mondiale, riconosciuto da Alain Locke e CharlesS. Johnson nel 1924-25, e in declino dopo la crisi del 1929. Dall’altro lato il fenome-no in sé, i suoi limiti cronologici, e la stessa definizione sono elementi che spesso nonvengono dati per scontati. Come ha sottolineato Susan Gubar, i successi culturali otte-nuti durante il periodo «oddly named Harlem Renaissance» non solo eccedono Harlemcome luogo, ma lo stesso fenomeno non dovrebbe essere considerato un rinascimento,«because there simply was no earlier opportunity for comparable creativity». SusanGubar, Racechanges. White Skin, Black Face in American Culture, Oxford & NewYork, Oxford University Press, 1995, p. 95.

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to critico non lontano, però, il Rinascimento è stato letto comemovimento ricco di promesse individuali, un fenomeno destina-to a spegnersi senza lasciare traccia, o come vero e proprio falli-mento perché esempio di un’arte provinciale, locale, limitata per-ché razziale17. In questo quadro critico, Hurston e West sonostate rappresentate come giovani promesse non mantenute in unepisodio effimero.

E invece West ha avuto una carriera lunghissima di rari alti e fre-quenti bassi e una fama tardiva. Scrive, e pubblica, dagli anni Ventiai Novanta, fonda e dirige due riviste letterarie newyorkesi a metàdegli anni Trenta («Challenge» e «New Challenge», con MarianMinus e Richard Wright, suo coetaneo), la seconda dichiaratamen-te antifascista, lavora con esponenti delle vecchie e nuove genera-zioni di scrittori, poeti e artisti neri, con gli ex “giovani” di Har-lem, e con i nuovi esponenti della scuola progressista di Chicago,cercando di stabilire un raccordo, creare continuità, tra il Rinasci-mento afroamericano e il realismo sociale degli anni Trenta-Qua-ranta. Claude McKay, Langston Hughes, Zora Neale Hurston,Alain Locke, Ralph Ellison, Richard Wright e Margaret Walkersono i collaboratori e i contributing editors di «Challenge» e «NewChallenge», che lavorano, a volte scontrandosi duramente, per eser-citare il controllo su critica e produzione, stili e temi della letteraturaafroamericana nel contesto degli anni Trenta, dopo la fine del Rina-scimento di Harlem, e a ridosso delle rivolte razziali del 1935.

Nella lettera diffusa nel dicembre del 1933 per promuovere efar conoscere «Challenge», West sottolinea l’intenzione di darevoce, con un progetto collettivo, alle ultime generazioni di nuovineri, e di avviare un confronto, una sfida, riprendendo le promessenon del tutto mantenute dagli “antichi” New Negroes del Rina-scimento di Harlem:

I, with the generous cooperation of many of my contemporaries, amediting a literary monthly called «Challenge». It is a magazine primarilydesigned for the new Negro voice. Which is explanation of its title. We,who are their literary elders, challenge these unknown writers to clean com-petition in poetry and prose. For I do not think that we, who were laudedNew Negroes of the late nineteen twenties, quite lived up to our promise18.

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17 David Levering Lewis, The Portable Harlem Renaissance, New York, Viking,1994, p. xv.

18 Dorothy West, Letter to the Readers, «Challenge», 1, vol. I, p. 39.

E James Weldon Johnson, protagonista della lunga stagionedel New Negro, attivo già all’inizio del Novecento nel circuitodel musical nero con il fratello Rosamond, scrive un’introduzio-ne al primo numero di «Challenge» per esplicita richiesta diWest, chiarendo che anche se i New Negroes del Rinascimentoafroamericano non hanno realizzato miracoli, il risultato otte-nuto, una mezza dozzina di talenti, è comunque un successo. Iltono di Johnson è piano, asciutto, il suo argomento solido; sanopragmatismo da un lato, nessuna indulgenza nella retorica delfallimento dall’altro:

It is a good thing that Dorothy West is doing in instituting a magazinethrough which the voices of younger Negro writers may be heard. The term“younger Negro writers” connotes a degree of disillusionment and disap-pointment for those who a decade ago hailed with loud huzzas the dawn ofthe Negro literary millennium. We expected much; perhaps too much. Inow judge that we ought to be thankful for the half-dozen younger writerswho did emerge and make a place for themselves. But we ought not to besatisfied; many newer voices should be constantly striving to make them-selves heard19.

«Challenge» dura poco: cinque mesi, «New Challenge»pochissimo, un solo numero (autunno 1937), diventato impor-tante nella storia delle riviste afroamericane per la presenza delmanifesto letterario di Richard Wright, Blueprint for Negro Wri-ting, e per il ruolo svolto come culla di talenti futuri. West conti-nua a lavorare e a pubblicare, e uno dei suoi racconti più famosie usati, nella didattica delle università statunitensi e italiane pergli effetti del tema dirompente stretto in uno stile asciutto e con-trollato, è Mammy, pubblicato su «Opportunity» nel 1940 – men-tre il primo romanzo, The Living is Easy, è del 1948. Dal 1940,per più di venticinque anni, West collabora con il New York DailyNews, per cui scrive due storie al mese. Nel 1945 lascia New Yorke si trasferisce a Martha’s Vineyard. Nel 1995, grazie a una editore amica d’eccezione, Jacqueline Kennedy Onassis, esce il secondoe ultimo romanzo, The Wedding, scritto trent’anni prima, e la rac-colta di racconti, fortemente voluta da Henry Louis Gates Jr., TheRicher the Poorer.

19 James Weldon Johnson, Foreword, in «Challenge», 1, Vol. I, p. 1.

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Houston Baker ha rovesciato la precedente immagine criticadel Rinascimento di Harlem, e ha sostenuto che il Rinascimento èstato un movimento importante, niente affatto effimero, perchéha contribuito a creare una cultura nera moderna e modernistanegli Stati Uniti. Una cultura viva, in rapporto stretto con la cul-tura afroamericana prodotta durante la schiavitù, la Ricostruzio-ne e nei primi importantissimi dieci anni del Novecento, e unponte gettato verso il futuro. Una cultura che risponde all’esigen-za della creazione di legami e di continuità piuttosto che al para-digma sperimentale avanguardista del taglio con il passato. Ilmodernismo nero urbano fa i conti con la schiavitù, concettualiz-za e riutilizza la cultura nera vernacolare, il Black English, lamusica, il jazz, gli spiritual e il blues, la tradizione orale, dandovita a un’arte d’incontro e contatto, tra sperimentazione e folclo-re, Nord urbano e Sud agrario, American English e Black Engli-sh, linguaggi artistici diversi, un’arte impura, la cui parola chiaveè mongrelization, bastardizzazione. Un’arte “bastarda” che scom-pone il nero, il colore della pelle, in un arcobaleno di sfumature eporta alla ribalta il grande tabù nazionale, la miscegenation, lamescolanza razziale, sottolineando la permeabilità e la violenzadella linea del colore dopo la sentenza con cui la Corte Supremasancisce la segregazione.

Nelle parole di Du Bois la linea del colore – «the relation ofthe darker to the lighter races of men in Asia and Africa, in Ame-rica and the islands of the sea» – è il «problema», nazionale einternazionale, «del Ventesimo secolo»20. Negli Stati Uniti, il con-fine tra bianchi e neri, basato sul presupposto della diversità bio-logica e dell’inferiorità razziale degli afroamericani che esclude isecondi dalla piena cittadinanza, descritto da Du Bois comecostrutto culturale relazionale (le razze scure sono tali in relazio-ne a quelle più chiare), viene ridefinito in maniera ufficiale nel1896. Prima di Plessy vs Ferguson, la sentenza con cui la CorteSuprema degli Stati Uniti sancisce la segregazione, le categorierazziali che separano i bianchi dai neri previste dall’ufficio delCensimento sono tre. Oltre a black e white, i tipi, fortementedisturbanti – ma che sottolineano distinzioni più «sottili» all’in-terno del tabù della miscegenation, sono quelli di mulatto, qua-

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20 W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk, New York, Dover, 1994, p. 9.

droon e octoroon21. Dopo il 1896 il discorso della differenza raz-ziale si traduce in una netta divisione tra corpi bianchi e neri22.

Il Rinascimento di Harlem non è stato un’esplosione subita-nea ed effimera di letteratura e arti, ma è stato, nelle parole diBaker, un renaissancism: un passaggio importante nella culturamodernista nera nelle aree urbane moderne e segregate degli StatiUniti (New York, ma anche Chicago, Philadelphia, Washington),avvenuto durante la Grande migrazione afroamericana dal Sudal Nord degli Stati Uniti (1910-1930)23. Il New Negro Movementdegli anni Venti rappresenta un successo e una novità nella cul-tura afroamericana moderna degli Stati Uniti perché elabora lamodernità urbana nera del Nord sulla base della cultura verna-colare e folclorica del Sud, riscrivendo e riutilizzando il folclore inun contesto di massa nazionale e internazionale24. La “giovane”generazione degli artisti del Rinascimento di Harlem – ZoraNeale Hurston, Langston Hughes, Aaron Douglas, Dorothy West,Helene Johnson – spesso in silenziosa continuità, nonostante l’ap-parente opposizione, con i precetti di Du Bois, usa il folclore, lamusica, la danza e il Black English come strumenti privilegiatinella ricerca di un’autenticità nera su base culturale e performa-tiva, non meramente biologica e di sangue. In questo contestoHurston, come scrittrice che usa il Black English e la cultura fol-clorica, come etnografa con Franz Boas ad Harlem, e musicologacon Alan Lomax in Florida, è una figura centrale per il moderni-smo nero.

21 Siobham B. Sommerville, Queering the Color Line: Race and the Invention ofHomosexuality in American Culture, Durham & London, Duke University Press, 2000,p. 168.

22 Ibid., p. 1.23 Houston Baker Jr, Modernism and the Harlem Renaissance, Chicago and Lon-

don, The University of Chicago Press, 1987, pp. 91-92.24 Ibid., p. 83.

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1928: tre amiche e un circolo folclorico

Let me sing my songLet me speak my piece.Let the little soul of me find releaseIn the pounding rainAnd the sucking mud;The prensible earth,The salt of blood;In the hungry moon,The bleathing night;The moulded hill –Dawn’s acolyte;In the level eyes And the clasp of friends […]

Helene Johnson, Let Me Sing My Song, «Opportu-nity», 1935

Il lavoro di Hurston (che non nasce dal nulla, ma trova terre-no fertile grazie a Du Bois, James Weldon Johnson, SterlingBrown), svolto nel duplice ruolo di informatrice e di antropologasul campo, interna ed esterna alla propria cultura, rappresenta unpunto di novità, un passo avanti – con lo sguardo rivolto indietro– nella cultura nera urbana della modernità25 perché, come ha sot-tolineato Alessandro Portelli, la distanza critica fornita dal ruolodi antropologa è ciò che permette di trascendere quello che per gliintellettuali afroamericani è il «limite principale del folklore»:«l’incapacità di uscire da se stesso», la mancanza di una tradu-zione, di un «metalinguaggio con cui rappresentarsi e spiegarsidall’esterno e verso l’esterno»26.

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25 Su Hurston come intellettuale modernista e della modernità, allo stesso tempofigura insider e outsider, vedi Alice Gambrell, Women Intellectuals, Modernism andDifference. Transatlantic Culture, 1919-1945, New York and Cambridge (MA), Cam-bridge University Press, 1997.

26 In un certo senso, come sottolinea ancora Portelli, è il folclore stesso, e non l’an-tropologia, a fornire le metafore della necessità della distanza critica: Hurston guarda alfolclore con gli strumenti della scienza, e alla scienza con le metafore create dalla cultu-ra folclorica, disegnando un circolo virtuoso. Il recupero del folclore, della voce (intra-scrivibile) e dell’oralità, in polemica con le posizioni sostenute da Alain Locke, segnalala produzione materiale e meccanica della materia folclorica, il suo essere prodotto,performance e non mera imitazione. Scrivere il mulo. Zora Neale Hurston, gli intellet-tuali e la cultura popolare, in La linea del colore. Saggi sulla cultra afroamericana, Ales-sandro Portelli (a cura di), Roma, manifestolibri, 1994, pp. 27-40, p. 27, 32, 38.

Gran parte del lavoro svolto da Hurston come antropologaviene finanziato da una mecenate, una patron bianca, CharlotteOsgood Mason, la quale stipula con Hurston un contratto doveviene sancito che tutto il materiale raccolto le verrà spedito esostanzialmente regalato, libero da ogni rivendicazione di pro-prietà, materiale e intellettuale27.

Da New Orleans, dove si trova nel 1928 per il lavoro sulcampo, Hurston spedisce i manoscritti di appunti raccolti in Flo-rida e in Louisiana a New York, al proprio indirizzo, dove risie-dono, in subaffitto, Dorothy West ed Helene Johnson. L’apparta-mento di Hurston, al 43 West Sixty-Sixth Street non si trova inHarlem, ma nella zona rispettabile, e bianca, di Central ParkWest, dove abita, tra gli altri, lo scrittore e fotografo bianco, non-ché amico di Hurston, e patron del Rinascimento, Carl Van Vech-ten. L’edificio dove convivono le tre scrittrici nere è l’unico nonsegregato dell’intera Manhattan.

Attraverso il lavoro di battitura fatto per l’amica, a pagamento,West e Johnson assorbono i “dati” raccolti, e rispediscono segreta-mente i fogli dattiloscritti in Florida28. Il contatto con quel materia-le folclorico “grezzo”, che poi verrà rielaborato in Mules and Men(1935), viene visto dalla critica come l’iniziazione professionale alfolclore del Sud da parte di Dorothy West29. Un’altra ipotesi, oppo-sta ma di uguale segno, legge l’uso del folclore afroamericano delSud, in West, come esito naturale, legge del sangue o eredità biolo-gica, spontanea e non elaborata, che passa alla scrittrice dalla madre,Rachel Pease Benson, nata in Sud Carolina da genitori schiavi.

Dorothy West ha avuto, di recente, un discreto successo di cri-tica e di pubblico (è stata mandata in onda una versione televisi-va di The Wedding, prodotta da Ophrah Winfrey nel 1996 e unprogramma della PBS sulla sua vita, As I Remember it: A Portraitof Dorothy West), i suoi racconti sono stati ripubblicati di recen-

27 Verner D. Mitchell (a cura di), This Waiting for Love. Helene Johnson, Poet ofthe Harlem Renaissance, Amherst, University of Massachusetts Press, 2000, p. 23; ZoraNeale Hurston. A Life in Letters, Carla Kaplan (a cura di), New York, Anchor Books,p. 129.

28 Ibid., p. 129; Ibid., p. 130.29 Verner D. Mitchell e Cynthia Davis (a cura di), Where the Wild Grape Grows:

Selected Writings, 1930-1950, Amherst and Boston, University of Massachusetts Press,2005, p. 23.

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te, ed è presente nelle antologie di letteratura in uso nelle scuole enelle università. La sua posizione, però, resta problematica. In pas-sato ostracizzata da bianchi e neri perché i suoi personaggi bor-ghesi non soddisfacevano né gli uni né gli altri, oggi West è consi-derata un pittoresco relitto di un’epoca scomparsa, o, per l’usosporadico del folclore, è messa ai «margini» della più autenticatradizione afroamericana30. La canonizzazione delle scrittrici neredella modernità sembra stretta tra due alternative, che riportanoalla ribalta l’opposizione tra natura e cultura, nero e bianco, let-teratura folclorica e letteratura d’avanguardia, primitivo e sofisti-cazione. Un’antica opposizione che gli afroamericani hanno scon-tato sulla propria pelle, e che gli artisti del Rinascimento di Har-lem hanno ben presente.

Tornando a West, e per rimanere nell’ambito limitante dellecategorie, ciò che inscrive la scrittrice nella letteratura afroameri-cana non è tanto la presenza del folclore come tema, ma l’usomoderno, modernista e nero della dissimulazione, della maschera,l’indossare lo stereotipo razzista per ricavare uno scarto. Ilsignifying, comunicazione indiretta, in codice, a più livelli, perso-nale e artistica, è una pratica culturale e performance dell’iden-tità, derivato dalle condizioni materiali dei neri negli Stati Uniti,cioè dal razzismo e dalla schiavitù, e in quanto tale elemento sim-bolico specifico della cultura afroamericana.

L’identità di West va inserita nel quadro complesso dei suoimovimenti e delle sue origini, il crescere in una famiglia in cui lamadre, Rachel, nera di eccezionale e famosa bellezza, dalla pellechiarissima, dal Sud si è trasferita al Nord, nel Massachusetts, e lì,nella realtà apparentemente scevra di pregiudizi della Boston anti-schiavista ma di fatto segregata e razzista, ricostruisce il circolofamiliare facendo spostare nella casa di Brookline Avenue, quar-tiere di immigrati irlandesi benestanti, le otto sorelle, di fatto rom-pendo equilibri e matrimoni31. Il padre di West, Isaac ChristopherWest, nato in una piantagione della Virginia nel 1860 e schiavofino all’età di sette anni, secondo la più nobile tradizione nazio-

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30 Lawrence R. Rodgers, Dorothy West’s The Living is Easy and the Ideal ofSouthern Folk Community, «African American Review», 1, vol. XXVI, 1992, pp. 161-172, p. 164.

31 Le notizie sulla vita di West sono tratte da Verner D. Mitchell, Preface, in Mit-chell e Davis (a cura di), Where the Wild Grape Grows, cit., pp. xi-xiv.

nale del from rags to riches, e la retorica sociologica del progres-so urbano della razza nera, diventa un imprenditore di frutta dal-l’ottimo giro di affari.

Nel 2000, nella postfazione alla raccolta delle poesie dellamadre a cura di Verner Mitchell, Abigail McGrath, figlia unica diHelene Johnson e nipote di West, ha ricordato la famiglia dellamadre come un circolo di donne, una «comune», un «kibbutz»femminile, una famiglia allargata in cui Isaac West era l’unicouomo32. Madri, una quantità di bambine, e «the Banana king ofBoston» come Isaac si era definito: lui sempre fuori casa e le novesorelle Benson «pitched in together in a communal way to main-tain a lifestyle which had the facade of the real Boston Braha-mins»33. Cioè, mentre Rachel, a casa, cresceva le bambine, le altrelavoravano anche fuori casa, come «cameriere» e bambinaie, gliunici lavori “onesti” concessi alle donne nere, costrette a lasciarei propri figli a casa per occuparsi dei figli delle donne bianche:«One of my mother’s earliest memories was seeing her motherwalk off in the morning to go to work. Helen would watch heruntil she disappeared into the horizon»34.

West, che attribuisce alla madre la grande lezione della propriavita – non il silenzio ma la dissimulazione attraverso il linguaggio(«speech was given man to hide his thoughts»)35, in maniera ana-loga ad Hurston fa della caratteristica più specifica della culturaafroamericana, il signifying, l’uso appunto della maschera, lo stru-mento privilegiato della rappresentazione della propria identità,personale e artistica. Il signifying è pratica culturale e performan-ce identitaria che West usa complicandola con la propria doppiaanima afroamericana: figlia di genitori del Sud schiavista inurba-ti al Nord, borghese in una grande città del Nord, scrittrice e gior-nalista nella capitale della diaspora nera fino al 1945.

Nel novembre del 1928, dopo essere stata in Florida per lavoraresul campo e raccogliere storie, sermoni, blues e canti di lavoro, gio-

32 Abigail McGrath, Afterword, in Mitchell (a cura di), This Waiting for Love, cit.,p. 124.

33 Ibid.34 Ibid., pp. 124-125. «Helen», nel testo, non è un errore, il nome di Johnson in

famiglia circolava senza la e finale.35 Mitchell, Preface, Where the Wild Grapes Grows, Mitchell e Davis (a cura di),

cit., p. xii.

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chi, rituali di corteggiamento, Hurston è a New Orleans per tra-scrivere formule vudù. Parte e osservatrice esterna della cultura fol-clorica nera del Sud, Hurston non concettualizza quella cultura e lesue componenti come materia autonoma, inanimata, autentica, dapreservare sotto teca o da esibire nei musei e nelle esposizioni uni-versali, ma la concepisce, e la tratta, come prodotto culturale delpresente: «Negro folklore is not a thing of the past. It is still in themaking» scrive nel 193436. Di più, in quanto prodotto afroameri-cano, il folclore è una performance di resistenza che si sprigionadalla frizione con i bianchi, dall’oppressione del razzismo, e dal con-tatto e dallo scambio tra neri. Con un apparente paradosso, Hur-ston sottolinea come l’autenticità del folclore afroamericano consi-sta proprio nel suo carattere performativo, e nell’assenza, o meglionella condivisione di autorialità tra individuo e collettività37. Il fol-clore è un prodotto del presente altamente complesso, difficile dainterpretare, tanto che Hurston, dalla Florida, scrive spesso a FranzBoas, di nascosto, per avere il suo parere e comunicargli il proprio.

Boas, West e Johnson – conosciute a New York, e riconosciu-te dall’etnografa del folclore afroamericano come “sorelle nere” –sono i punti nodali, insieme a Hurston e ai suoi informatori inFlorida e Louisiana, del circolo folclorico e interpretativo virtua-le che si crea tra i piccoli centri della Florida, New Orleans e NewYork. Un cerchio aperto dove la divisione tra “noi” e “loro” vienemeno perché il “campo” delineato da Hurston non è un luogopreciso, delimitato, discreto – l’altrove del Sud – ma uno spazioesteso, dove i ruoli sono intercambiabili, che nasce e vive nellacomunicazione in codice, sotterranea:

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36 Zora Neale Hurston, Characteristics of Negro Expression, in Hurston, Folklo-re, Memoirs, & Other Writings, New York, The Library of America, 1995, pp. 830-845, p. 836.

37 A proposito di un blues intitolato Ever Been Down, «avuto» da un certo JohnnyDarden nel 1933, a Palm Beach, Florida, quando il musicologo Alan Lomax, con cuista lavorando sul campo, le domanda «“Do you know how old […] it is? Or where hehappened to learn it?”», Hurston risponde ponendo l’accento su ripetizione e scarto,teorizzando una creazione per accumulo e incremento, e dividendo la responsabilitàcreativa tra individuo e collettività: «“Well”», «“it’s just one of those things that justgo around all of the jooks and […] grows by incremental repetition. I don’t supposeanybody knows just how old it is and when it started”». Cit. in Robert Hemenway,The Personal Dimension in Their Eyes Were Watching God, in Michael Awkward (acura di), New Essays on Their Eyes Were Watching God, Cambridge (MA), Cambrid-ge University Press, 1990, pp. 29-49, p. 38.

You are a love, Dot [Dorothy], no less, to put my parcel away so care-fully. […] It all turns out to be futile, for I must now take those duplicatesI sent you and go to work from an entirely different angle than at first.Would you send me all the typed sheets, secretly, and by registered mail? I’llbe eternally grateful if you will. Of course you are near my heart andalways will be. I trust you and Helene more than anyone else in the world.You are the fine gold in New York’s show and shine38.

Quel che avvicina le tre donne e le lega per sempre è la crea-zione, nel contesto promettente ma disorientante e rischioso diNew York, di un piccolo circolo comunitario. E il motivo comu-ne alle tre amiche e scrittrici afroamericane è l’uso del signifying alivello auto-rappresentativo, sia nella strategia della presentazionedi sé, sia nel proprio lavoro. Le spedizioni, le trascrizioni, insom-ma i passaggi che si svolgono in segreto tra New Orleans e NewYork sottraggono la cultura afroamericana e le protagoniste diquei passaggi alle pretese di possesso della patron bianca, libe-rando la cultura nera in un circolo amicale a professionale.

La definizione che Hurston dà di West è una riprova che lacomunione amicale è comunione culturale afroamericana, sensodi appartenenza a uno stesso inizio simbolico. Buona conoscitri-ce della cultura vernacolare nera del Sud e soggetto diasporico diquella stessa cultura, West viene riconosciuta da Hurston comeparte attiva della cultura afroamericana e in particolare della suasineddoche, il folclore del Sud, perché in grado di praticare conabilità una strategia di resistenza e dissimulazione, di portare unamaschera placida e sorridente che nasconde la verità inaccessibi-le ai bianchi, di adottare una strategia che nell’introduzione aMules and Men viene definita feather-bed resistance. La feather-bed resistance è resistenza morbida, non il silenzio generico del-l’artista gelosa della propria privacy39, ma la caratteristica prin-cipale e specifica della cultura afroamericana. La feather-bed resi-stance è una strategia che dietro il riso, l’“acquiescenza” e la sem-plicità, cela una realtà ben più complessa, pubblica e privata, ildiritto a sé stessi continuamente negato dal razzismo, dalla schia-vitù e dalla segregazione e i significati della cultura nera, invisibi-li ai bianchi a causa dell’ignoranza e del pregiudizio:

38 Kaplan (a cura di), Zora Neale Hurston, cit., pp. 129-130.39 Come sostiene invece Verner D. Mitchell: cfr. Mitchell, Preface, in Where the

Wild Grapes Grows, Mitchell e Davis (a cura di), cit., pp. xi-xii.

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Folk-lore is not as easy to collect as it sounds. […] And the Negro, in spiteof his open-face laughter, his seeming acquiescence, is particularly evasive.You see we are a polite people and we do not say to our questioner, “Get outof here!” We smile and tell him or her something that satisfies the white per-son because, knowing so little about us, he doesn’t know what he is missing.The Indian resists curiosity by a stony silence. The Negro offers a feather-bedresistance. That is, we let the probe enter, but it never comes out40.

La feather-bed resistance è un esempio di signifying, e ilsignifying è il tratto più importante della cultura afroamericanadell’Ottocento e del Novecento in quanto strategia identitaria edestetica elaborata durante la schiavitù per appropriarsi dello ste-reotipo razzista (la maschera del nero bonario, servile e poco intel-ligente riproposto per tutto l’Otto e gran parte del Novecento dalminstrel show) e farne un simbolo complesso, stratificato, i cuisignificati in codice sono leggibili solo all’interno della comunitàculturale nera.

Corpo e nazione. Jezabel, Virago o Mammy?

Zora was the real deal; like Dorothy, she talked morethan she wrote and she was a fantastic mimic. Althou-gh she was working class and loud, she was ten timessmarter and more prolific than anyone else and themen were very jealous of her.Abigail McGrath, 2005

Hurston, West e Johnson praticano una comune estetica delcolore e della razza, combinando arte, vita e propaganda, rap-presentazione e auto-rappresentazione perché, in quanto donne, eautrici moderniste nere, sono consapevoli della necessità di unastrategia professionale e pubblica che funzioni da maschera alta-mente significante per proteggersi e comunicare. West, in partico-lare, tesse una strategia pubblica di reticenza e disvelamento chemaschera e trasforma continuamente i fatti della propria vita ecarriera. Inoltre, in più di una intervista, con la grazia, l’eleganzae l’educazione che la distingueva, regola i conti con il passato e

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40 Zora Neale Hurston, Folklore, Memoirs & Other Writings. Mules and Men,Tell My Horse, Dust Tracks on a Road, Selected Articles, New York, The Library ofAmerica, 1995, p. 10, corsivo mio.

lascia cadere frasi apparentemente banali, quasi pettegolezzi, cherisuonano invece di significati profondi.

Nel 1945, lasciata per sempre New York, West si trasferisce nellapiccola comunità di Oak Bluffs, a Martha’s Vineyard, dagli inizi delNovecento luogo di residenza estiva della buona borghesia nera delNord, dove collabora con il quotidiano locale, «The Vineyard’sGazette». Scrittrice impegnata nella politica estetica del colore edella razza ma volutamente poco visibile, West non si è mai sposa-ta, non le sono state attribuite relazioni, e non ha avuto figli.

Johnson, moglie e madre, mal sopporta il prezzo da pagare perguadagnare un ruolo sul difficile mercato dell’arte letteraria neranegli anni Venti e presto smette di pubblicare, anche se continuaa scrivere. Scrive ma non pubblica perché anche lei, come la cugi-na Dorothy, pratica una feather-bed resistance estrema che risul-ta nel silenzio sul mercato. Scrive ma non pubblica, perché anchelei, come l’altera cugina Dorothy, mostra una timidezza arrogan-te, la «shy arrogance» tipica dell’élite nera benestante, colta ededucata di Boston, i «bramini neri»41.

Abigail McGrath ha scritto che dopo la morte della madre hascoperto che la stanza di lei era, letteralmente, piena di poesia, imanoscritti stipati ovunque: «there were stacks and stacks of herhandwritten works all over the room, under the bed, in closets,in drawers, behind bureaus». E proprio quando sembrava che illavoro di Johnson fosse destinato ad andare perduto, Cheryl Walle altri critici afroamericani hanno finalmente dato alla poetessal’attenzione critica che lei avrebbe voluto, come l’avrebbe voluta,e a cui aveva rinunciato a priori: l’attenzione all’opera e non allapersona. Curiosamente Helene, sembra voler dire Abigail, peressere persona, donna, e soprattutto madre, non ha voluto, opotuto, essere pubblicata. Johnson non rinuncia a scrivere, e qual-che rara volta si lascia pubblicare: esce allo scoperto, ma rara-mente, con estrema parsimonia: «ogni giorno scriveva qualcosa»ricorda la figlia, ma solo ogni tanto il suo lavoro aveva un riscon-tro pubblico: uno slogan per una pubblicità, la recensione di unfilm, poesie sporadiche.

Rachel, la matriarca che ha cresciuto ed educato Helene men-

41 Mc Grath, Afterword, in Mitchell (a cura di), This Waiting for Love, cit., p. 129.Bramini erano detti i rappresentanti delle élite culturali bianche del New England nel-l’Ottocento. Per le citazioni nei due paragrafi successivi, p. 123 e 125.

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tre sua madre andava a lavorare come cameriera, è stata unadonna incredibile, ricorda Abigail, ma dura, durissima, una vira-go, che ha dato alla figlia e alle nipoti un’educazione solida ma leha private tutte, tranne Helene, del desiderio e della forza di esse-re madri. Helene, come sottolineato dalla figlia Abigail, è statauna delle pochissime scrittrici e artiste del Rinascimento di Harlema diventare madre.

All’opposto di quella di West e Johnson è la strategia dell’im-magine adottata da Hurston. La riscoperta e nuova pubblicazionedelle opere di Hurston è cominciata negli anni Settanta, quandoalcune studiose afroamericane, tra cui la scrittrice e critica AliceWalker, si impegnano a «dare voce alle proprie madri, […] [ripor-tando] alla luce una tradizione femminile nera doppiamente sep-pellita dai modelli bianchi e maschili»42. Può sembrare strano chela scrittrice eletta dalla critica femminista afroamericana negli anniSettanta madre della moderna cultura nera madre biologica nonsia stata, ma indicare Hurston come madre della moderna cultu-ra nera è invece un preciso atto simbolico che risarcisce la donnanera di un atto creativo, vitale, e di un diritto negati.

Attiva a lungo, con fortuna di pubblico e critica decisamentealterna, oggi, come ha dimostrato recentemente Anna Scacchi43,Hurston è l’icona più conosciuta e riconoscibile della letteraturaafroamericana della modernità anche grazie a una ipervisibilità stra-tegica con cui la scrittrice si rappresenta come donna pubblica, libe-ra ed eccentrica, «quasi una blues singer»44. Tra le numerose foto-grafie dedicate alle celebrità afroamericane del primo e secondodopoguerra ritratte dal romanziere, fotografo e promotore cultura-le dell’arte nera Carl Van Vechten, spiccano le pose informali e sofi-sticate, in setting urbano, di Hurston. Nelle fotografie scattate nel1934 dall’amico e mentore bianco, famose anche perché riprodot-

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42 Anna Scacchi, Zora Neale Hurston, in Caterina Ricciardi e Valerio Massimo DeAngelis, (a cura di), Voci dagli Stati Uniti. Prosa & poesia & teatro del secondo Nove-cento, Roma, Centro Stampa d’Ateneo dell’Università degli Studi di Roma “La Sapien-za”, 2004, pp. 3-14, p. 6.

43 Anna Scacchi, “Nera, contro lo sfondo bianco”. Fotografia e identità razzialein Z. N. Hurston, in Bruna Donatelli (a cura di), Atti del Convegno Internazionale diStudi Bianco e nero, nero su bianco. Tra fotografia e scrittura (Università degli Studi diRoma Tre, 5-7 maggio 2003), Napoli, Liguori, pp. 79-94, p. 80.

44 Scacchi, “Nera, contro lo sfondo bianco”, cit., p. 80, per la citazione nel para-grafo successivo, p. 82.

te, negli ultimi venti anni, praticamente ovunque, persino sui fran-cobolli, Hurston sembra catturata dall’obiettivo in maniera estem-poranea. E invece quelle immagini, che la ritraggono in bianco enero, in strada, a Chicago, mentre spalanca la bocca ridendo, vesti-ta alla moda, con abiti e cappello dal taglio geometrico vagamentemaschile, ma impreziositi da dettagli femminili – il bordo di pellic-cia, la piuma – sono un esempio moderno e modernista disignifying. In quelle immagini in bianco e nero la polisemia delsegno, l’ambiguità o meglio il gioco che caratterizza la sperimenta-zione del modernismo letterario e artistico britannico e statuniten-se è anche pratica estetica e politica afroamericana. La strategia diipervisibilità di Hurston, come ha sostenuto Scacchi, è una forma diresistenza: nelle immagini del patron bianco la modella nera diven-ta protagonista, e d’intesa con il fotografo ride, mostrando la “tipi-ca” espressività della razza e un volto in cui il colore della pelle ècangiante. Né bianco né nero, il viso di Hurston è una tavolozza digrigi più o meno intensi a seconda di dove colpisce la luce o domi-na l’ombra, un segno relazionale che diventa un elemento della «suaperformance razziale»45, interpretazione personale di un dettagliofisico apparentemente inalterabile, segno fluido e culturale di una“razza” che gioca in maniera seria con il pregiudizio della propriariconoscibilità in base a dettagli fisici.

Corpo visibile, pubblico, esposto, esibito, studiato e frugatosenza riguardo né pietà, durante la schiavitù e poi, nella secondametà dell’Ottocento, dal razzismo pseudoscientifico, il corpo realee simbolico della donna nera schiava è il negativo su cui secondoToni Morrison (Playing in the Dark, 1992) si fonda per contrastol’identità americana dominante che dunque è bianca, moderna,mobile, e maschile. Dopo la Guerra civile l’immagine della donnanera schiava semivestita e in catene, oggetto o vittima da riscatta-re per mano della donna bianca (nell’iconografia abolizionista),viene sostituita dall’immagine della donna nera come simbolo deiproblemi morali e sociali che, dopo la Grande migrazione deiprimi del Novecento, quando moltissimi uomini e donne neri sispostano dal Sud al Nord, piagano la modernità urbana46.

Il prezzo più alto imposto dalla Depressione viene pagato dalle

45 Ibid., p. 80.46 Cfr. Hazel Carby, Policing the Black Woman’s Body in an Urban Context, in

Carby, Cultures in Babylon. Black Britain and America, London, Verso, 1999.

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donne nere delle classi più basse. Negli anni Trenta migliaia di donnenere si snodano in lunghissime file o in gruppi lungo le strade di NewYork – Manhattan, Brooklyn, il Bronx – in attesa di una giornatadi lavoro come domestiche. E quei capannelli, moderna versione del-l’asta ottocentesca delle schiave, sono almeno duecento nella solaNew York47. Alla fine degli anni Trenta, l’80% delle donne nere halavorato, almeno una volta, come domestica, spesso solo in cambiodi cibo. E anche dopo la Guerra civile, le identità previste per ladonna nera nel nuovo spazio urbano sono quelle prodotte dall’i-conografia schiavista: mammy, Jezebel o virago. Una triade chenon rompe il binarismo razzista e sessista ma sottolinea, ancorauna volta, la dipendenza dal corpo delle donne nere:

Dalla fine dell’Ottocento – quando in seguito alla migrazione di massadegli afroamericani verso i centri urbani del nord numeri consistenti di gio-vani donne nere si sono riversate su un mercato del lavoro che non prevede-va per loro altro ruolo che quello della domestica o della prostituta – all’etàcontemporanea, la rappresentazione della donna nera nell’immaginario bian-co degli Stati Uniti è stata definita dal suo corpo e articolata secondo gli ste-reotipi elaborati dalla cultura schiavista: la mammy, protesi del corpo mater-no bianco con mere funzioni di accudimento, Jezebel, sessualmente vorace einsaziabile, la matriarca, minacciosa antitesi del femminile48.

Indossare la maschera dello stereotipo per cambiarlo è la caratte-ristica più importante e specifica del modernismo nero urbano, ancheperché, se da un lato sembra abdicare a un ruolo attivo, dall’altro,come ha sottolineato Houston Baker, è una mastery of form, unaforma di controllo moderno e modernista degli stereotipi razzisti49.

Dorothy West, la vergine del Rinascimento afroamericano,

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47 Kaplan (a cura di), Zora Neale Hurston, cit. p. 161. 48 Anna Scacchi, Le figlie di Hagar: la rappresentazione del corpo femminile nero

negli Stati Uniti, in Cattarulla (a cura di), Identità americane, cit., pp. 15-41, p. 25.49 La mastery of form inizia, secondo Baker, a partire da una data simbolica, il

1895, quando Booker T. Washington, nel discorso inaugurale pronunciato all’Esposi-zione Internazionale di Atlanta riproduce gli stereotipi razzisti nei confronti dei neri delSud per rassicurare il pubblico bianco. Washington indossa i panni del nero ignorantee servo fedele, e allo stesso tempo comunica in codice con il pubblico nero attraversoquella stessa cultura locale e popolare afroamericana del Sud, che per gli afroamerica-ni risuona di una voce nera, collettiva e individuale, autonoma. Baker, Modernism andthe Harlem Renaissance, cit., pp. 8-9, 15, 32, 25. Il discorso di Washington, conosciu-to come Compromesso di Atlanta, è generalmente interpretato come rassicurazione, aibianchi del Sud, che gli afroamericani intendono semplicemente vivere del propriomodesto lavoro manuale, e non aspirano a una uguaglianza sociale e culturale.

come la definì l’amico scrittore e giornalista Wallace Thurman,non fa della rinuncia e del silenzio la sua strategia, e lo scudo cheadotta non è tanto quello della «timida arroganza» della bosto-niana benestante ed educata, quanto l’uso magistrale delle parolecome codice, che comunicano a diversi livelli, in un moltiplicarsidi significati che è strategia modernista e resistenza nera. InElephant’s Dance, un ricordo di Thurman scritto nel 1945 e pub-blicato nel 1970 su Black World, West rievoca il cattivo caratteree il cinismo violento di Thurman, e il Rinascimento di Harlemcome una scena letteraria in bianco e nero, dove la linea del colo-re si mescola con l’esotismo e con la fame per tutto quanto ènuovo e scuro, e dove gli antichi e odiosi stereotipi schiavisti ven-gono oscenamente replicati nel mercato artistico dominato dalgusto volgare e avido dei bianchi:

He was acquiring cynicism already and biting the hand that was fee-ding him. For to him there were only one or two whites who did not patro-nize. The rest were exploiters, and since they were important people, onemust either wrap a handkerchief around one’s head or steadily insult them.This last, which was Thurman’s way, they found amusing, for the Negrowas a childish creature not to be taken seriously. He, Thurman, was a badboy, and therefore doubly endearing. Where the others were sometimes toodocile, he was full of delightful surprises50.

Quasi con un filo di disprezzo per la strategia maschile e unpo’ rozza di Thurman, West sottolinea come egli non abbia cedu-to allo stereotipo del minstrel e abbia invece reagito con rabbia,finendo per essere un accattivante bad boy, rientrando nella cate-goria moderna della merce rara ed esotica, dell’attrazione razzia-le e sessuale per bianchi ricchi e annoiati. La vergine bostonianadalla pelle scurissima, la lady che attribuisce la propria coscienzae orgoglio di razza ora all’essere cresciuta in un contesto yankeedove la parola nigger è «verboten», ora all’orgoglio razziale dellamadre, indomita e chiarissima donna del Sud, con il tempo, siprende le sue rivincite su quanti l’avevano messa al margine. Lerivincite di West, consumate nel corso delle interviste con cui èstata riscoperta negli anni Ottanta e Novanta hanno come bersa-

50 Mitchell e Davis (a cura di), Where The Wild Grapes Grows, cit., p. 168, corsi-vi miei.

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glio sia i bianchi, sia i neri, che da diversissimi punti di vista ripro-ducevano sul mercato letterario e nel dibattito estetico e critico idettami e i limiti della linea del colore. Bianco o nero.

L’establishment letterario bianco non trovava sufficientemen-te realistici i personaggi neri di West, pretendeva che lei, comequalunque nero onesto, scrivesse della propria razza in manieraautentica, che presentasse i veri neri, veri, cioè, secondo lo ste-reotipo bianco e razzista che, come aveva riassunto Du Bois nel1926 reclamava la libertà «miserably unfair» di continuare a rap-presentare dodici milioni di americani come «ladri, imbecilli, eprostitute»51. The Living is Easy, la rivisitazione dal punto divista della protagonista, Cleo Judson, della migration novel incui i protagonisti di solito sono uomini, doveva originariamenteessere pubblicato a puntate su «The Ladies Home Journal»,quando improvvisamente la direzione della rivista aveva fattomarcia indietro su quanto già concordato per paura delle reazio-ni del pubblico bianco del Sud di fronte agli afroamericani e alleafroamericane così poco convenzionali di West52. Ex schiavi delSud inurbati al Nord, borghesi benestanti ed educati, intellettua-li, disoccupati, imprenditori rampanti, vagabondi, predatori. Ipersonaggi maschili di West non sono però che pallide ombrerispetto alle sue esuberanti donne nere, doppiamente forti perchéportatrici della cultura antischiavista ed europeizzata del Nord edella cultura vernacolare del Sud, scurissime o chiare in manieraimbarazzante, a volte praticamente bianche, bionde e con gliocchi azzurri.

In The Living is Easy, Cleo – una donna nera del Sud trapian-tata a Boston, incontra il misterioso personaggio della duchessadel West End, una delle due zone in cui risiedono i neri benestan-ti, e in una scena altamente melodrammatica, intima alla donna,bionda e pallidissima «“Get out of my race and stay out”»53. Equando la duchessa svela di essere nera, di appartenere alla razza(«“It is my race, too” […] “My mother was colored […]”», Cleo

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51 W.E.B. Du Bois, The Negro in Art. How Shall He Be Portrayed?, «The Crisis»,February 1926, p. 165.

52Adelaide M. Cromwell, Afterword, in Dorothy West, The Living is Easy, NewYork, The Feminist Press, 1982, pp. 349-364, p. 357.

53 West, The Living is Easy, cit., p. 103, pp. 103-104.

commenta: «“It wasn’t your skin and hair that fooled me. Wecome every color under the sun. But the way you carry yourself,I thought you were born on Beacon Hill”»54.

L’estetica del colore e la rappresentazione della razza di Westnon è affatto apolitica, o neutra, come invece è stato sostenutospesso dalla critica, che ha visto in lei una scrittrice color blind.L’estetica del colore di West è, al contrario, fortemente e sottil-mente polemica: in un’intervista del 1984 data a Deborah E.McDowell, ricordando le innumerevoli lettere di rifiuto da partedi direttori di riviste ed editori bianchi nel corso degli anni, Westha dichiarato che le riviste (le riviste, cioè quelle gestite dai bian-chi, e quindi quasi la totalità delle riviste tout court), almeno finoagli anni Sessanta, come regola non pubblicavano racconti i cuiprotagonisti fossero neri: «“[M]agazines didn’t buy the storiesthat were about Black people”», aggiungendo ironicamente che«“[…] the interesting thing is […] [that] I just didn’t always descri-be my characters as Black. That’s all”»55.

Niente affatto color blind, e con un preciso atto di signifyingletterario, West mostra il potere del dio del colore e, allo stessotempo, cerca di sottrarre gli afroamericani alla schiavitù dell’e-videnza ottica, della prova epidermica del sangue nero, di libe-rare la concettualizzazione della categoria di razza dal criteriodella visibilità. Come già ben prima grazie a Du Bois, che all’E-sposizione Internazionale di Parigi del 1900 aveva curato unamostra fotografica intitolata Types of American Negroes, Geor-gia, U.S.A. le infinite sfumature di colore dei personaggi di Weste le sue donne nere dalla pelle bianca significano a più livelli, eassumono significati diversi a seconda del colore della pelle dichi legge o guarda. Come per Du Bois, anche per West le sfuma-ture di colore segnalano le differenze tra i neri borghesi statuni-tensi, e la permeabilità della linea del colore che separa neri ebianchi. Per West, come per Du Bois, la donna nera, di solitoborghese dalla pelle chiara, evoca la figura letteraria convenzio-nale e ottocentesca della “mulatta tragica”, e porta alla luce,

54 Ibid.55 Deborah E. McDowell, Conversations with Dorothy West, in Victor A. Kramer

(a cura di), The Harlem Renaissance Re-examined, New York, AMS Press, 1987, pp.263-282, p. 276.

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come ha sottolineato Michelle Shawn Smith per Du Bois, lamiscegenation negata56.

Le immagini di donne nere con pelle, occhi e capelli chiari,come ha scritto Hazel Carby, esplorano ciò che «was increasinglysocially proscribed» – i contatti sociali e sessuali tra bianchi e neri57

e decostruiscono l’opposizione netta tra bianco e nero,58 statuni-tense e afroamericano59. I personaggi di West, come già i ritrattiborghesi che aprono gli album di Du Bois, costituiscono una sfidaalle convenzioni razziste della rappresentazione dominante e bian-ca degli afroamericani perché ribaltano la funzione della fotogra-fia e giocano sulla invisibilità della parola per proporre documen-ti in cui il corpo viene codificato come «segno» di una «essenzarazziale»60 evocata in tutta la sua ambiguità. All’inizio del secolo,come ha sostenuto Smith, le immagini di donne afroamericanebionde e dalla pelle chiara non segnalano tanto, o esclusivamente,la libertà e la bellezza dell’ibridizzazione, quanto la storia violen-ta della schiavitù e, soprattutto, «an undeniable white desire forthe black body»61. Dalle fotografie di Du Bois e poi dai racconti eromanzi di West emerge il rimosso razziale che accompagna lanazione per tutto il Novecento, a partire dalla Emancipation Pro-clamation di Lincoln, quando la cultura americana

viene invasa da temi e figure che hanno a che fare con la purezza delsangue e la leggibilità del corpo – il passing, la mulatta, la miscegenation –e da figure retoriche giocate sul colore, mentre tutte le classi sociali impaz-ziscono per il minstrel show, in cui bianchi e neri impersonano le figure ste-reotipate inventate dall’ideologia schiavista e usate dagli afroamericanicome maschere attraverso cui sottrarsi alla brutalità e all’oppressione62.

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56 Shawn Michelle Smith, “Looking at One’s Self through the Eyes of Others”:W.E.B. Du Bois’s Photographs for the 1900 Paris Exposition, in «The African Ameri-can Review», 44, vol. XXXIV, Winter 2000, pp. 581-599, p. 586, p. 583 e pp. 588-590.

57Hazel Carby, Reconstructing Womanhood: The Emergence of the Afro-AmericanWoman Novelist, New York, Oxford University Press, p. 89.

58 Smith, “Looking at One’s Self through the Eyes of Others”, cit., p. 592.59 Shawn Michelle Smith, American Archives. Gender, Race, and Class in Visual

Culture, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1999, p. 179.60 Ibid., p. 163.61 Smith, “Looking at One’s Self through the Eyes of Others”, cit., p. 592.62 Scacchi, Le figlie di Hagar, cit., p. 23.

I soggetti birazziali di Du Bois e quelli inventati da West, spec-chio degli afro-americani nati dalle unioni vietate per legge e spes-so punite con il linciaggio, confrontano l’osservatore63 e il lettore,ricambiando lo sguardo dominante con un gesto di quieta sfida econ una devastante normalità middle-class64. Nella narrativa diWest, protagonista, individuale e collettiva che taglia trasversal-mente le classi è la famiglia afroamericana, la realtà domesticanegata dalla schiavitù e poi dalla segregazione e dal razzismo. Lafamiglia non come luogo della normalità, ma come spazio com-plesso, familiare e straniato, dove le diverse sfumature del coloredella pelle costituiscono ricchezza, motivo d’orgoglio e occasionedi divisione e conflitto, non sempre palese:

My mother’s mother had eighteen children, and, later on, because myfather was doing quite well – many of my mother’s sisters and nephews andnieces came to live with us. All of us had different complexions – at oneend there was a blond kid and at the other end there was me […] Mymother was a light woman, and my aunt Minnie looked white. Those werethe two people who brought me up. There were four of us children. Theywere my first cousins. A blond kid, an olive-skinned kid, and me65.

L’arcobaleno di colori che caratterizza le famiglie afroameri-cane di West, nei racconti, in The Living is Easy e The Wedding,è una riproduzione fittizia della comunità famigliare della scrit-trice, la «extended family» rievocata in un’intervista del 1984.Nella citazione sopra, West spicca ed è, allo stesso tempo, un ionero, nerissimo, a margine. E nella sua narrativa, il colore dellapelle nelle sue infinite sfumature serve da catalizzatore per porta-re alla luce i devastanti pregiudizi razziali dei bianchi e la poten-za del pregiudizio che, interiorizzato dai neri, ne orienta la vitasociale e pubblica, gli affetti, l’amore, e il desiderio sessuale.

La linea del colore, in West, non è una frontiera esterna, chesegrega gli spazi pubblici, dividendo i bianchi da chi è di colore,ma una frontiera intima che lacera l’individuo. Interiorizzata, lalinea del colore lavora nel privato, dentro le persone, all’interno di

63 Smith, American Archives, cit., p. 181.64 Come sottolinea Smith, la posa e lo sguardo sono altamente significativi

(signifying): il ricambiare lo sguardo di un bianco, infatti, era per un nero motivo suf-ficiente per essere linciato. Smith, American Archives, cit., p. 181.

65 Mitchell (a cura di), This Waiting for Love, cit. p. 5, corsivi miei.

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quei corpi che la sentenza della Corte Suprema aveva sancito fos-sero bianchi o neri. Sistema binario, la linea del colore costringe ascelte radicali, violente, distruttive: bianco, o nero.

Mammy (1940)

A style comes to you through necessity.

Dorothy West, 1984

Il passing, il motivo classico della letteratura afroamericanaottocentesca, è un tema centrale anche nella letteratura nera delNovecento. The Autobiography of an Ex-Colored Man (1911) diJames Weldon Johnson, dove il protagonista, un nero chiarissi-mo, decide di passare per bianco dopo aver assistito al linciaggiodi un afroamericano, è un classico del genere. Anche nel Rinasci-mento di Harlem, soprattutto nella produzione letteraria delledonne, il passing è spesso presente e in Jessie Fauset è specifica-mente legato alla schiavitù.

Il passing, secondo Werner Sollors, non è affatto un tema lette-rario passé, come aveva invece sostenuto il critico Nathan Huggins,ed è anzi un motivo importante nella letteratura nera statunitensetra il 1850 e il 193066. Alla fine degli anni Cinquanta, più di set-tant’anni dopo l’inizio dell’emancipazione, la diffusione dei temilegati al rimosso negato dalla legge è ancora forte, sia nella culturaafroamericana sia in quella bianca, e in entrambe assume significa-ti altamente ambivalenti. Vent’anni dopo il trionfalistico e razzistaGone with the Wind (1939) dall’omonimo romanzo di MargaretMitchell, in cui una mammy nerissima (Butterfly McQueen) vienegiustapposta in zuccherosa intimità a una candida Rossella O’Ha-ra (Viviane Leigh), trionfa Imitation of Life (1959) di Douglas Sirk.Remake dell’omonimo film girato nel 1934 da John M. Stahl conClaudette Colbert e Louise Beavers nei ruoli principali, a sua voltatratto dal romanzo di Fannie Hurst del 1933, Lo specchio della vita(il titolo italiano) è un grande successo. La storia racconta di unaragazza dalla pelle chiarissima, Sarah Jane, che per passare per bian-

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66 Werner Sollors, Neither Black nor White, Yet Both. Thematic Explorations of Inter-racial Literature, Harvard, (MA), Cambridge University Press, 1997, p. 281, 258 e 283.

ca deve ripudiare la propria madre, una mammy scurissima, vesti-ta di bianco e dal bianco, come ha recentemente sottolineato SaraAntonelli, metaforicamente assorbita, quasi sepolta, nella scenafinale, «sotto una profonda coltre bianca»67.

E se poi il tema del passing quasi sparisce negli anni Sessanta,accantonato durante la ricerca della vera autenticità nera, diun’integrità non compromessa dall’orrore del middle passage edalla schiavitù, che secondo i dettami estetici del Black Artsmovement è nelle “radici” africane, per la generazione successivail passing diventa di nuovo lo strumento specifico con cui la let-teratura contemporanea si riappropria nel presente di un rimos-so afroamericano negato.

Mammy, il racconto di West forse più famoso, è un testo i cuieffetti modernisti di signifying nero in ambiente urbano dannovita a molteplici punti, tematici e strutturali, che si intrecciano inun fitto tessuto di legami e richiami sotterranei dove la continuitàtra il presente e il passato della letteratura e della storia afroame-ricane recisa al livello della trama (la figlia che ripudia la madre,sacrificandola al dio del colore) è ricomposta in una maschera nar-rativa altamente significante. Mammy è inoltre un raccontomoderno nel senso letterale del termine: perché è un racconto delmomento che mette in scena un ritorno alle origini, e ad Harlem.

Come ha sottolineato Gunter Lentz, nella letteratura afroameri-cana dei tardi anni Trenta (Gwendolyn Brooks, Richard Wright, Wil-liam Attaway, Willard Motley, Frank Marshall Davis), Chicago hapreso il posto di New York, ed è il ghetto urbano del presente, ma èad Harlem che la letteratura afroamericana torna dopo la Secondaguerra mondiale68. The Street di Ann Petry (1946), Montage of aDream Deferred (1951) di Langston Hughes, Invisible Man (1952)e il saggio Harlem is Nowhere (1948) di Ralph Ellison sono un esem-pio di come, dopo i disordini razziali del 1943 e la guerra, l’anticoghetto e mecca della cultura afroamericana torni alla ribalta, anco-

67 Sara Antonelli, Il ritratto di Sarah Jane: Strategie della copertura, in Imitation ofLife, «Letterature d’America», 106, a. XXV, pp. 95-122, p. 110. Sirk (vero nome HansDetlef Sierk) lascia la Germania nazista nel 1937, perché perseguitato a causa dellamoglie, ebrea.

68 Gunter H. Lenz, Symbolic Space, Communal Rituals, and the Surreality of theUrban Ghetto: Harlem in Black Literature from the 1920s to the 1960s, «Callaloo»,35, Spring 1988, pp. 309-345, p. 328 e sgg.

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ra una volta, come paradiso e inferno, promessa e spazio segregato.Con una differenza importante. Sono proprio le rappresentanti dellavecchia guardia, scrittrici come Jessie Fauset, Nella Larsen, DorothyWest, Marita Bonner, insieme a donne delle nuove generazioni, comeAnn Petry, a usare Harlem come “luogo delle origini” per sfidare iparadigmi maschili fissati dagli scrittori del realismo proletario, i det-tami di Richard Wright o Claude McKay69.

Wright e West sono agli antipodi. Coetanei, entrambi neri, idue parlano lingue radicalmente differenti; letteralmente, non sicapiscono. In Blueprint for Negro Writing, nel tipico linguaggioroboante e assertivo dei manifesti che fanno piazza pulita del pas-sato, Wright ignora circa cento anni di letteratura afroamericanae un dibattito di almeno quattro decenni. E in nome del cambia-mento radicale propagandato dal realismo sociale e leftist, ocomunista (Wright è iscritto al CPUSA) nero degli anni Quaranta,mette sotto accusa l’intera letteratura afroamericana, imputando-le il tradimento della razza. Bianco o nero: prima di Wright, tuttigli scrittori afroamericani hanno indossato la maschera di UncleTom, vestito i panni del nero sciocco e servile del minstrel show,implorato l’attenzione dell’America bianca e prodotto una lette-ratura formalmente impeccabile ma povera di contenuti, e distan-te, comunque, dalla massa, dal popolo nero:

Generally speaking, Negro writing in the past has confined to humblenovels, poems, and plays, prim and decorous ambassadors who went a-begging to white America. They entered the court of American Public Opi-nion dressed in the knee-pants of servility, curtsying to show that the Negrowas not inferior, that he was human, and that he had a life comparable tothat of other people. For the most part these artistic ambassadors werereceived as though they were French poodles who do clever tricks70.

La soluzione è semplice, basta tornare alle radici, alla culturafolclorica, quella vera, non quella proposta da Hurston, che Wri-ght rifiuta in quanto sottoprodotto della cultura servile del min-strel show, il simbolo dell’umiliazione dei neri di fronte ai bianchi.

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69 Judith Musser, African American Women’s Short Stories in the Harlem Renais-sance: Bridging a Tradition, «Melus», 2, vol. XXIII, Varieties of Ethnic Criticism (Sum-mer, 1998), pp. 27-47, p. 27.

70 Richard Wright, Blueprint for Negro Writing, «New Challenge», Fall 1937, pp.52-65, p. 53.

Indossare la maschera del nero servile, o passare per bianchi, rap-presenta per Wright una forma di tradimento della razza, e nel1937, come già dodici anni prima, il rinnovamento estetico edideologico passa attraverso un taglio netto con il passato com-promesso e impuro. L’arte del Rinascimento afroamericano hasegnato la resa ai valori razzisti dei bianchi e alla loro sete primi-tivista di diversità.

Alla ricerca dell’autentica voce nera attraverso la letteratura,Wright non è in realtà così distante dal progetto portato avantida Hurston – la ricerca di una rigenerazione della cultura neraattraverso le “radici” folcloriche – anzi, gli è così vicino che senteil bisogno di distinguersi, e dopo aver stroncato in una famosarecensione Their Eyes Were Watching God, in Blueprint teorizzaciò che è già all’opera nella poesia dagli inizi degli anni Trenta: lamaschilizzazione della voce folclorica afroamericana71.

La voce folclorica era stata, tradizionalmente, femminile, unfemminile spesso idealizzato, materno, puro, non certo il femmini-le realistico, la voce stentorea, dialettale, ma visceralmente forte ereattiva di Janie, protagonista in Their Eyes Were Watching Goddi Hurston. Su un punto, però, Hurston e Wright sono diversi, enon è un particolare da poco. La cornice che dovrebbe racchiuderela materia grezza, il folclore afroamericano, per Wright deriva dallaletteratura europea, o dalla tradizione statunitense dei modernistiespatriati: tutti autori bianchi. Niente di male, se non fosse però cheegli fa dell’accusa di tradimento della razza e del concetto di “purez-za” razziale la propria forza e la propria bandiera, e vede l’artistacome colui che deve dare voce alla massa pittoresca:

His vision [dell’artista nero] need not be simple or rendered in primer-like terms; for the life of the Negro people is not simple. The presentationof their lives should be simple, yes; but all the complexity, the strangeness,the magic wonder of life that plays like a bright sheen over the most sordidexistence, should be there. To borrow a phrase from the Russians, it shouldhave a complex simplicity72.

Il manifesto di Wright ha finito per simboleggiare un passaggio

71 James Edward Smethurst, The New Red Negro. The Literary Left and AfricanAmerican Poetry, New York, Oxford University Press, 1999, p. 51.

72 Wright, Blueprint for Negro Writing, cit., p. 60.

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decisivo nella letteratura afroamericana, una rottura forte con ilpassato compromesso, l’esordio della vera letteratura urbana nera.La voce di Wright suona nuova e dirompente, però, solo se cre-diamo alla lettera al panorama desolato della cultura afroameri-cana da lui evocato, e ai ruoli da lui individuati per i neri ed este-si agli scrittori: ribelli o vittime, misere comparse di un minstrelshow per un pubblico bianco. West, agli occhi di Wright, rappre-senta in pieno il compromesso esecrato, anche perché donna,un’accusa che egli non formula direttamente ma che è nell’aria, eche viene detta esplicitamente da Thurman. Nel quarto numerodi «Challenge», rispondendo all’accusa di Thurman, secondo cuila rivista mancava di personalità – era cioè troppo femminile –«too pink tea»73, West risponde, molto brevemente, che è impos-sibile separare il “messaggio” dalla forma e che se l’arte è propa-ganda, come aveva scritto Du Bois dieci anni prima, la propa-ganda non è, necessariamente, arte:

Somebody asked us why Challenge was for the most part so pale pink.We said because the few red articles we did receive were not literature […]We care a lot about style. And we think a message is doubly effective wheneffectively written without bombast and bad spelling74.

Non separare il messaggio dalla forma, secondo West, è tantoimportante quanto non dividere il pubblico dal privato, il perso-nale dal politico. In un’intervista del 1984 West ribadisce l’insuf-ficienza delle politiche culturali del partito comunista americano,da cui si dissocia totalmente nonostante la simpatia passata e fa diWright un capro espiatorio dei conti in sospeso con l’establish-ment letterario e critico nero, la scuola di Chicago. Estromessadalla direzione di «New Challenge» perché fautrice di una politi-ca estetica annacquata, appunto pink, rosa, femminile e troppodisposta dunque al compromesso con i bianchi, ostracizzata neglianni Sessanta dai dettami del Black Arts Movement, West, donnae nerissima, rivolge contro Wright l’accusa con cui lui l’aveva mar-chiata cinquant’anni prima. Pubblicamente un afroamericanotutto d’un pezzo, Wright avrebbe invece mostrato la propria debo-lezza e servilismo nei confronti dei bianchi privatamente, traden-

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73 Cromwell, Afterword, cit., p. 355.74 Dorothy West, Letter to the Readers, cit., p. 38.

do la propria razza e ribaltando a proprio vantaggio il diritto alcorpo femminile sancito dalla schiavitù. L’emancipazione dei neriè, per Wright, un gentlemen’s agreement, una questione tra uomi-ni. Proprio perché nero del Sud, Wright si dimostra un servo deibianchi e tradisce la propria razza, rifiutando come compagna divita la donna nera:

I was never crazy about Richard Wright because he was so timid andafraid of white people. I guess it stemmed from his southern background.And, as you know, that fear translated, as it always does in these cases, intohis marrying white75.

L’accusa amara e personale di una donna nera dalla pelle scurariecheggia un motivo tradizionale della letteratura afroamericana,il ripudio della donna scura a favore di una compagna più chiaralungo la strada dell’emancipazione, e il problema politico e perso-nale di tutta la generazione di donne e uomini afroamericani cheavevano visto nel comunismo una possibilità di liberazione per poiimpaludarsi nelle secche della differenza di genere e del colore dellapelle. Il matrimonio o l’amore interrazziale funziona, ma solo asenso unico: l’uomo afroamericano può e anzi deve dare il buonesempio, oltrepassare la linea del colore e combattere in prima per-sona il tabù della mescolanza razziale, lo spettro del linciaggio,mentre la donna nera non può manifestare il proprio desiderio, néper gli uomini neri, né, ovviamente, per quelli bianchi.

Il desiderio sessuale femminile è tabù assoluto, tanto più quel-lo della donna nera, e la riesumazione, negli anni Cinquanta, dellafigura della mammy nella cultura bianca e in quella nera è un fan-tasma che porta alla luce «uno degli aspetti più censurati dellaschiavitù, il desiderio interrazziale» e l’osceno legame tra sesso,potere ed economia nella peculiar institution della schiavitù, con-sumato con lo stupro rituale delle donne nere76. Privata nell’Otto-cento del diritto di essere madre, e costretta a vedere i propri figlivenduti come schiavi, nel Novecento la donna nera è, ancora, unamadre anomala. «Madre manchevole» in quanto donna promiscuae virago castrante, e perciò causa prima di tutti i mali della famigliaafroamericana77, o figura ingombrante: una madre scura di pelle è

75 McDowell, Conversations with Dorothy West, cit., p. 272.76 Scacchi, Le figlie di Hagar, cit., pp. 25-26.77 Ibid., p. 27.

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una presenza imbarazzante per gli afroamericani e le afroamerica-ne chiari di pelle che vogliono, o devono, passare per bianchi.

A partire dagli anni Trenta, come ha scritto James EdwardSmethurst, la voce folclorica nella letteratura afroamericana, e lafigura stessa del folk, del popolo nero, la parte più “autentica”della razza, «is relentlessly gendered as male»78. O meglio, la vocefolclorica viene distinta, «split into a conservative or even reac-tionary voice that is generally represented as female (or effemina-te) and a progressive, militant voice that is male and stereotypi-cally virile». Nel quadro generale di svalutazione della donnanera, l’influenza del PCUSA e, in generale, della sinistra, contri-buisce a elaborare una nuova opposizione nella cultura folclorica,divisa in una avanguardia maschile, di resistenza e protesta, e inuna tradizione femminile di compromesso e deferenza79. E persi-no Hughes, che cerca di mediare unendo militanza e voce femmi-nile, attingendo dal serbatoio folclorico temi e stili per affrontarelo stallo politico e la crisi estetica, facendo della mammy un sim-bolo di novità e riscatto80, propone una mammy con bandana egrembiule, che incita all’azione e alla ribellione i propri dark chil-dren. Nel 1942, intenzionato a riscattare la figura della mammydallo stereotipo della cultura bianca di massa diffuso da Via colvento, Hughes prepara una sezione di poesie intitolata “MammySongs”81, dove un’anziana donna nera, in Black English, rifiutasdegnosamente ogni compromesso con i bianchi. Anche lemammy di Hughes, che non a caso generano figli neri e scuri dipelle, affermano e celebrano una razza integra, nonostante laschiavitù. Una razza, cioè, non ancora violata, attraverso il corpodella schiava, dal padrone bianco.

La mammy del racconto omonimo di West non afferma nécelebra. Non rivendica nulla, parla poco e alla fine tace. Ma le

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78 Smethurst, The New Red Negro, cit., p. 51, come anche la citazione successiva.Prima degli anni Trenta la voce folclorica è mista, sia maschile sia femminile, come inDu Bois, Chesnutt, Lawrence Dunbar e poi Langston Hughes, Helene Johnson, Gwen-dolyn Bennett. Lo spartiacque, sostiene Smethurst, sembra essere più sulla ricerca diun folclore autentico (come fa Sterling Brown) o miscegenated, come fa Hughes, p. 49.

79 Ibid., p. 57.80 Come in The Negro Mother (The Negro Mother and Other Dramatic Recita-

tions, 1931), un volume pubblicato in proprio e venduto durante letture itineranti:Ibid., p. 95.

81 Ibid., p. 145, 153.

quattro parole che pronuncia prima del silenzio bruciano. MrsMason, apparentemente licenziata, ha in realtà lasciato un lavorosicuro come domestica in un bell’appartamento newyorchese e haaffittato una piccola stanza ad Harlem. Questo gesto inspiegabi-le è il motore dell’azione, e la voce della narratrice apre sul per-sonaggio che dovrà sciogliere l’enigma, un tipo urbano, moder-no, una giovane donna nera che per lavoro attraversa gli spazidella New York contemporanea – realtà urbana profondamentetrasformata dagli interventi di Robert Moses, artefice della FieraMondiale del 1939-40 – che invece sconta i costi della regressio-ne. New York, che West, assistente sociale nei programmi del NewDeal di Roosevelt, conosce bene, nel 1940 è una città segregatada una rigidissima e moderna linea del colore. Moderna perchémobile, intrecciata con le variabili dell’età, dell’educazione, dellaprovenienza, della classe, del colore della pelle. Moderna perchéinvisibile, interiorizzata, efficace. Non c’è bisogno di leggi che san-ciscano l’impermeabilità della linea del colore. Anche al nord,quella linea divide gli spazi:

The young Negro welfare investigator, carrying her briefcase, enteredthe ornate foyer of the Central Park West apartment house. She was makinga collateral call. Earlier in the day she had visited an aging colored womanin a rented room in Harlem. Investigation had proved that the woman wasnot quite old enough for Old Age Assistance, and yet no longer youngenough to be classified as employable. Nothing, therefore, stood in the wayof her eligibility for relief. Hers was a clear case of need. This collateral callon her former employer was merely routine82.

La modernità urbana indossa le vesti di una giovane assistentesociale nera che, sicura di sé, varca la soglia di un elegante edificiodi appartamenti nella zona ricca, rispettabile, e bianca, di NewYork. La voce della narratrice ci riferisce il punto di vista del per-sonaggio esemplare, tipico, senza nome, qualificata soltanta dalsuo essere nera, giovane e dal ruolo svolto nel programma di Roo-sevelt. La modernità è una vernice sottile, e varcata la soglia nel-l’atrio, la sicurezza dell’assistente si scioglie. La giovane donna è a

82 Dorothy West, Mammy, in West, The Richer, the Poorer. Stories, Sketches andReminiscences, New York, Anchor, pp. 43-52, p. 43. D’ora in poi il riferimento dellapagina verrà dato nel testo, tra parentesi.

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disagio, intimidita, perché lo spazio che sta attraversando, con-trapposto ad Harlem, e alla stanza in affitto, è uno spazio tutt’al-tro che sicuro e libero. Due mondi, due luoghi diversi, divisi per-sino nei termini: Negro per la ragazza, la parola che esprime lanuova libertà, colored per la donna anziana, confinata nel ghetto,e poi nigger e darky, le parole brucianti del pregiudizio e dell’in-sulto, quando la linea del colore manifesta tutta la sua forza.

Il racconto inizia con una serie di opposizioni binarie, semplici,chiare, che via via vengono complicate, confuse, e infine ribaltatenella rivelazione conclusiva. Varcato l’ingresso, l’assistente socialesi dirige verso l’ascensore, tallonando una donna ben vestita, conun cane al guinzaglio, ed ecco il primo sguardo, gli occhi del por-tiere, che poi scopriamo essere bianco, il quale ne segue i movimentima non la ferma, non le grida, come vorrebbe, di usare l’entrata diservizio, perché diviso tra il dovere immediato di servire l’inquilinobianco e ricco e quello di punire la donna nera che infrange la leggenon scritta della segregazione in una città del Nord:

The investigator walked toward the elevator, close on the heels of awell-dressed woman with a dog. She felt shy. Most of her collaterals wereto housewives in the Bronx or supervisors of maintenance workers in offi-ce buildings. Such calls were never embarassing. A moment ago as she nea-red the doorway, the doorman had regarded her intently. The serviceentrance was plainly to her left, and she was walking past it. He had beenon the point of approaching when a tenant emerged and dispatched himfor a taxi. He had stood for a moment torn between his immediate dutyand his sense of outrage (43).

Il fragile equilibrio, mantenutosi in bilico perché il portiere hadovuto ottemperare ai suoi doveri verso l’inquilino bianco, vacil-la di nuovo nello spazio chiuso dell’ascensore, dove l’assistentesociale entra al seguito della donna con il cane. Prima una sensa-zione di sollievo, il ragazzo che preme i bottoni è nero, poi l’odio,in un rapido susseguirsi di azioni e reazioni, espressioni, sorrisi,stupori e sguardi penetranti. La donna con il cane entra sorriden-do al ragazzo in divisa e quando si gira, di botto, il sorriso lasciale labbra, gli occhi si induriscono. Non ci viene detto il perché maè evidente che l’inquilina, girandosi, vede a pochi centimetri da séil volto nero dell’assistente sociale che le era alle spalle. Odio, dun-que, e l’odio sottolineato, lecito, spiegato dalla narratrice è quel-

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lo dell’assistente sociale verso il ragazzo dell’ascensore che le inti-ma di usare l’entrata di servizio con toni violenti e aggressivi perla presenza della donna bianca: «She stared at him with open hateand despised him for humiliating her before and because of awoman of an alien race» (44). La razza straniera, e a questo puntoè chiaro che la narratrice parla attraverso il personaggio dell’assi-stente sociale nera, di cui condivide il pensiero, è la razza bianca.

Quando finalmente l’assistente sociale entra nell’appartamen-to di Mrs Coleman, l’ex datrice di lavoro di Mrs Mason, per farlealcune domande di routine, la tensione cade. Mrs Coleman è unabella donna di mezz’età, di cui non ci viene detto se sia bianca onera, perché, e anche questo lo ricaviamo in maniera indiretta, seil bianco è la razza «straniera», e lo è dal punto di vista dell’assi-stente sociale, nell’economia superiore e generale del racconto èil nero, come prescrive l’ideologia razzista, a costituire l’eccezione,mentre il colore bianco, la regola, non viene mai specificato. MrsColeman, con il suo «soft drawl» (45) che ne rivela l’origine dalSud, sorridendo invita l’assistente sociale a seguirla e a sedersi. Èla narratrice, ancora una volta, che riferisce il Leit motiv rassicu-rante introdotto subito, nel primo paragrafo (era una situazionetranquilla, di routine) che, come un mantra, l’assistente ripete neltentativo di esorcizzare la paura dell’incidente improvviso, sem-pre in agguato: «It was to be a quick and easy interview» (45).Ma anche nell’atmosfera tranquilla di quel luminoso salotto inCentral Park West in un normalissimo pomeriggio newyorchese,e nonostante la buona accoglienza di Mrs Coleman, il passatoirrompe nel presente attraverso un dettaglio, per le nostre orec-chie, davvero di poco conto. Mrs Coleman chiama la donnaanziana che è stata al suo servizio prima di lasciare l’apparta-mento di Central Park West per Harlem con un «epiteto» appa-rentemente innocuo – «you gave me to understand that Mammyhas applied for relief» (45).Una parola che alle orecchie dell’assi-stente sociale suona «odiosa» e «spiacevole», perché evoca l’inti-mità forzata, la familiarità imposta, l’oscena vicinanza semanticae reale tra madre e schiava, lo stravolgimento di ogni ordine, fami-liare, sociale ed etico causato dalla schiavitù.

Per erigere una barriera di difesa, e restituire alla donna ilrispetto negato, l’assistente la chiama per nome e ribatte «I justleft Mrs Mason when I telephoned you for this appointment». Da

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questo momento in poi, ogni frase, anche la più innocua, risuonadi più significati, tanto più per chi, ovviamente, sa o ha intuito ildénouement finale. E quanto più Mrs Coleman, che a questopunto arrossisce leggermente – she colored a little – (45, corsivomio) spiega all’assistente sociale che quel termine è indice di veroaffetto e sincera familiarità, tanto più quest’ultima insiste nell’u-tilizzare il vocabolario contemporaneo, i termini ufficiali, buro-cratici, per riscattare Mrs Mason, liberarla a livello verbale dal-l’ambigua commistione tra famiglia e lavoro, e dalla terribileequazione stabilita dalla schiavitù e dalla segregazione tra il corpodella schiava, nutrice dei figli del padrone, o addirittura madre diquegli stessi figli nati dallo stupro razziale.

Dopo essersi giustificata di fronte alle domande dell’assistentesociale, turbata dalla rivelazione che Mrs Mason non è stata licen-ziata, ma se ne è andata di sua spontanea volontà, Mrs Colemanreagisce con durezza, e intima con autorità che non c’è nulla dascrivere. La faccenda, cioè, si può risolvere a voce, al di fuori dellalegge. E per portare l’assistente sociale dalla propria parte, e con-vincerla a far tornare Mrs Mason al lavoro, cioè riportareMammy, la schiava fuggiasca alla legittima padrona, non esita amostrarle la figlia, scioccata dalla morte recente di un bambino.Poi un rapido scambio di battute: «Would you take her back, MrsColeman?» «I want her back», cried Mrs Coleman. «She has noone but us. She is just like one of the family» (46). In seguito aquell’episodio – il bambino nato morto – dice Mrs Coleman,Mammy è sparita.

Quando finalmente esce dal palazzo, decisa ormai a recarsi adHarlem oltre l’orario di lavoro, regalando quindi il proprio tempoa Mrs Coleman, l’assistente sociale ha il viso contratto, una lievenausea. Nell’ascensore il ragazzo che prima l’aveva trattata dura-mente le chiede scusa e la prega di comprendere: lei è nera comelui, può capirlo, deve farlo; se egli non avesse indossato la masche-ra di fronte all’inquilina bianca sarebbe stato licenziato.

Lo spazio urbano di Harlem, l’antica Mecca del Rinascimentoafroamericano, chiude il racconto. Le prime impressioni sonopositive, Harlem è davvero una città nella città, e in quello spa-zio benedetto se si è neri si è trattati con rispetto: il portiere del-l’edificio di appartamenti dove Mrs Mason ha preso una stanza inaffitto accoglie l’assistente con un sorriso di deferenza, e la padro-

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na di casa l’accoglie con calore. Al primo sguardo, Mrs Mason èuna mammy, un tipo, anzi uno stereotipo, un vero e proprio relit-to di un altro luogo e di un altro tempo. Vestita di nero, con ungrembiule e una bandana candidi, l’anziana Mrs Mason rappre-senta il passato e la memoria della razza: apparentemente «age-less», è piena di ricordi, «full of remembering» (49). Seduta suuna sedia a dondolo, guarda fuori dalla finestra, incredula, nonleva gli occhi dallo spettacolo incredibile di Harlem, un mare dineri che camminano, liberi, per le strade. Quando capisce che l’as-sistente è venuta per riportarla indietro, in Black English, e soprat-tutto senza dire, mai, nulla direttamente, rivela la verità. Il bam-bino non è nato morto, e non era illegittimo. L’assistente compieun ultimo tentativo per esorcizzare il passato, mentre questo lace-ra la sottile trama del presente, e si prepara a inghiottire la nuovaidentità, il lavoro, la rispettabilità, l’educazione, la fatica quoti-diana per essere libera:

The investigator looked at her watch. It was nearly five. This last spee-ch had been rambling gossip. Here was an old woman clearly disorientedin her Northern transplanting. Her position as mammy made her part ofthe family. Evidently she felt that gave her a matriarchal right to arbitrateits destinies (51).

E arriva, persino, ad accettare la mitologia costruita dai bian-chi attorno al personaggio fittizio della mammy di carta, o di quel-la interpretata in Via col vento: arbitra dei destini della famigliache serve, in quanto parte integrante di quella stessa famiglia. MrsMason, ormai in trappola, si guarda intorno smarrita. Senza asse-gno, sarà costretta a tornare indietro, a meno che l’assistente nonla aiuti, a meno che la giovane donna non la sostenga nella suaversione: «Yu’re my own people, child, Can’ you fix up a storyfor them white folks at the relief, so’s I could get to stay herewhere it’s nice?» (51). E se prima l’assistente sociale aveva cedu-to alle richieste e all’ingannevole pietà suscitata ad arte da MrsColeman, stavolta si rifiuta di aiutare Mrs Mason. E la rinnega,esattamente come la mattina il ragazzo dell’ascensore aveva fattocon lei. Di più, per sancire ufficialmente la condanna etica dimammy, usa il linguaggio burocratico, della legge, con cui primaaveva cercato di restituire alla donna la dignità sottrattale da MrsColeman. Mentire è «collusione» (52).

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La testa di Mrs Mason cade sul petto, come in una resa sim-bolica, ed è l’assistente sociale che, involontariamente, porta allaluce la verità: mentre sta gettando le poche cose di Mrs Mason inuna borsa, vede una vecchia fotografia, incorniciata, in un cas-setto. Rivoltata. La gira, sorride, come se avesse trovato la provache tra le due donne c’è un sincero affetto, che prima o poi le riu-nirà, e domanda «This little girl» […] «it’s Mrs Coleman, isn’t it?»(52). E quando Mrs Mason risponde senza alzare lo sguardo esenza alcuna intonazione o emozione – ripudiando la figlia che neaveva riesumato il ruolo di schiava, facendone una serva in casapropria per poter passare per bianca – «That was my daughter»,la giovane assistente sociale lascia cadere il ritratto come fosse«carbone ardente» (52), cercando con quel gesto di esorcizzare ilpassato e riaffermare il tempo della modernità, del lavoro sala-riato, la propria identità di young investigator. E disperata, pro-nuncia con voce rotta quelle stesse parole che aveva accolto confreddezza quando a dirle era stato il ragazzo dell’ascensore. Cosìfacendo tradisce Mrs Mason, che, come un cacciatore di taglie,sta stanando dal rifugio di Harlem.

La voce della narratrice riporta, fedele al punto di vista, gli ulti-mi pensieri e le parole della giovane assistente sociale, ma chiudesulla figura immobile, richiusa in sé, di Mrs Mason: «She was ayoung investigator, and it was two minutes to five. Her job was togive or withhold relief. That was all. “Mrs Mason”, she said,“please, please understand. This is my job”. The old woman gaveno sign of having heard» (52).

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