Le rime di Giulio Cesare Caracciolo in un nuovo manoscritto d'autore
Governare il caso. Il documentario d'autore italiano nell'epoca del deserto del reale
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Transcript of Governare il caso. Il documentario d'autore italiano nell'epoca del deserto del reale
FACOLTÀ DI FILOSOFIA, LETTERE, SCIENZE UMANISTICHE E STUDI ORIENTALI
Dipartimento di Storia dell'Arte e Spettacolo Tesi di Laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo
GOVERNARE IL CASO IL DOCUMENTARIO D'AUTORE ITALIANO NELL'EPOCA DEL DESERTO DEL REALE
Relatore Prof.ssa Antonella Ottai Correlatore Candidato Prof. Giacomo Daniele Fragapane Carlo Lo Giudice
2
Indice
0.1. Premessa
0.2. La scelta dell’Italia
0.3. Struttura della tesi
CAPITOLO I -‐ Il deserto del reale
1.1. Uno sguardo al mondo d'oggi
1.1.1. Il ruolo della tecnologia
1.1.2. Gli effetti del web 2.0
1.1.3. Le nuove sfide del cinema
1.2. La dualità dell'immagine cinematografica,
lo spettatore e il documentario
1.3. Un modo altro di fare cinema
CAPITOLO II -‐ Fare cinema addosso
2.1. I film
2.1.1. Below sea level: la forza della relazione
2.1.2. La bocca del lupo: la libertà della forma
2.1.3. Chiusura: un mondo di im-‐segni
2.1.4. A scuola: governare il caso
2.1.5. Il castello: il tempo necessario
3
CAPITOLO III -‐ Per un mondo migliore
2.1. Noi, le immagini e la "realtà"
2.2. L'occasione perduta
2.3. Fame di vero?
Bibliografia
Sitografia
Schede dei film
Illustrazioni
4
0.1. Premessa
In un'epoca in cui le tecnologie della visione continuano a proporci
un mondo sempre più assimilabile al suo simulacro riproducibile e le
immagini a base realistica invadono senza soluzione di continuità la
nostra sfera privata diventando a noi sempre più consustanziali, nel
cinema si assiste a un fenomeno che ha degli elementi d'indiscussa
novità. Insieme a film come "L'alba del giorno dopo" o "Il signore degli
anelli", che, come afferma Pietro Montani
…negano dichiaratamente ogni originaria e connaturata componente
"testimoniale" del cinema di finzione1
si assiste alla proliferazione di autori di cinema del reale che nei loro
film riaffermano con forza e successo di pubblico proprio questa
componente. Mentre cioè, il cinema di finzione chiude sempre di più le
porte del racconto a elementi tratti dalla "realtà" contingente, un
"altro" cinema, di base documentaria, si rinnova, cercando altre vie.
È un fenomeno che rientra nello storico dibattito
realtà/simulazione (antinomia oggi preferita a quella realtà/finzione)
che ha sempre accompagnato la storia del cinema. Questa volta però, la
questione sembra avere una radicalità mai vista prima. L'immagine
cinematografica integralmente digitale, rischia infatti di neutralizzare in
modo completo l'ontologica dualità del cinema che da sempre è ciò che
crea il legame tra lo spettatore e la visione e, come vedremo,
condiziona di conseguenza il suo rapporto con la "realtà".
1 M. MONTINARI, A proposito di realtà e finzione: il cinema al bivio, in "Close-‐up.it", 16 maggio 2005
5
La questione coinvolge direttamente il lavoro di alcuni autori che
pongono in essere una metodologia cinematografica del tutto
trasversale.
Anche nel cinema italiano, sul quale abbiamo ristretto il nostro
campo di ricerca, sempre più sembra imporsi questo "altro" cinema,
difficilmente catalogabile, che del "reale contingente" fa il suo punto di
partenza; del caso e della relazione i suoi più potenti alleati.
Affidarsi al caso, per chi intende il cinema in questo modo,
significa mettersi in una posizione di apertura, di ascolto pongeano2 e
heiddeggeriano3 del "reale". Una condizione estetica-‐estatica che si
concretizza operativamente in una sorta di "fiducia nella relazione",
sempre e comunque. Fiducia che anche lo spettatore accorto cerca
furiosamente e che ritrova nello stile dell’autore e nei film, quasi a
sostituzione della fiducia che non può più avere per le immagini che
hanno perso quasi del tutto la loro referenzialità.
Degli effetti della perdita di referenzialità delle immagini, i registi
di cui parliamo, sono perfettamente coscienti e si oppongono ad essi
lavorando sui corpi e con il corpo. Addosso alla vita. È da questa
necessità di riappropriarsi del "reale" attraverso la frequentazione fisica
ed estetica dello stesso, che nascono i film di cui parleremo.
2 Quello che ci riguarda dell'approccio pongeano è l'attitudine a considerarle in partenza ogni "cosa" del tutto sconosciuta e la capacità di mettersi dal suo punto di vista, "contro" la superbia dell'uomo che si crede esterno e superiore alle altre creature e alle altre "cose" dell'universo. Ciò indipendentemente dal fatto che questa attitudine derivi dalla ricerca della "cosa in sé" o da quella del "linguaggio in sé", tensione che il lavoro di Ponge indubbiamente manifesta. F. PONGE, Il partito preso delle cose [Le Parti pris des choses, 1942], Einaudi, Torino 1979 3 Ci viene in mente il concetto di "angoscia" heiddegheriano, che il filosofo considera fondamentale per condurre un'esistenza autentica. Secondo Heiddeger, infatti, solo riuscendo a convivere con l'angoscia (che è la rivelazione del nulla che sta a fondamento dell'esistenza), è possibile non aver paura della morte e riuscire ad essere veramente liberi.
6
Per ragioni di oggettività storica, abbiamo ritenuto sufficiente
restringere la nostra ricerca alla produzione degli ultimi dieci anni. Dal
2001 al 2011. È infatti in questo decennio, che i percorsi autoriali, nati a
metà degli anni '90, hanno dato i loro frutti e i film hanno cominciato a
ottenere risultati di critica e di pubblico non soltanto in contesti di
nicchia4.
Da questa premessa appare chiaro che ci muoviamo all’interno di
un argomento molto specifico, in parte scivoloso, che racchiude
pochissimi film, e sul quale esiste una bibliografia esigua, frammentaria,
costituita principalmente da articoli di critica e da brevi saggi su riviste
di cinema contemporaneo, che rendono sicuramente merito al valore
d’innovazione che questo genere di autori porta, ma che non
costituiscono un corpus teorico omogeneo e approfondito
sull’argomento. In tal senso la tesi si prefigge un obiettivo di
osservazione sperimentale.
Tutto questo ha comportato la necessità, da parte nostra, per
quanto riguarda la bibliografia, di destreggiarci tra fonti provenienti da
svariate discipline: storia dei media, teorie dell’immagine, teoria e
tecnica del cinema, filosofia, fisica, estetica, sociologia del mondo
contemporaneo, cinema documentario, alla ricerca di un filo rosso che
potesse legare questo tipo di film e questi autori alla nostra
speculazione sull’oggi.
4 Prova dell'avvenuto riconoscimento di questo tipo di cinema è, ad esempio, l’interesse mostrato da un premio "istituzionale" come il David di Donatello, che dal 2004, ha aggiunto la sezione documentari di lungometraggio tra le categorie, aggiungendosi ai festival di settore più "underground" che finora sono stati gli unici ad aver salvaguardato la produzione indipendente e ad aver dato spazio alla sperimentazione, quindi anche a quella del cinema del reale.
7
Anche la rete distributiva dei film è pressoché inesistente (a parte
lodevoli tentativi)5, nel migliore dei casi home video o brevi manu dai
registi, in ogni caso neonata.6
Da queste difficoltà d'inquadramento deriva l’uso disinvolto che
nello scritto faremo sia di definizioni ossimoriche ardite, sia delle
diverse denominazioni che da sempre hanno contraddistinto il cinema
documentario.
Siamo stati obbligati, ci teniamo a sottolineare, da un tipo di
cinema che è ancora in via di definizione e che forse non sarà mai
possibile inquadrare del tutto. Proprio in questo sta la sua forza e la sua
bellezza. Il motivo per cui vale la pena parlarne.
Ultimo ma non l’ultimo motivo di scelta dell’argomento è la
particolare condizione di chi scrive, che opera professionalmente nel
settore come regista da molto tempo. Attività che di certo ha
influenzato la compilazione della tesi che fa tesoro sia degli studi teorici,
prima da autodidatta e poi universitari, sia delle riflessioni personali
nate durante vent’anni di esperienza sul campo. Le due cose si sono
nutrite a vicenda. Senza dubbio.
5 Pensiamo al circuito Documè, alle case di distribuzione Docvideo, Vitagraph e Rarovideo e alla più giovane collana Feltrinelli Real cinema. 6 Ci teniamo a segnalare che quasi tutti i film consultati durante le ricerche sono conservati presso la Cineteca di Bologna e l’archivio dell’Associazione Doc/it, uniche istituzioni italiane che tutelano sistematicamente i film documentari di ultima generazione.
8
0.2. La scelta dell’Italia
La scelta di focalizzarci sull'Italia non è casuale. Il cinema italiano è
infatti il padre indiscusso del "realismo cinematografico" nella storia del
cinema mondiale7. Malgrado ciò, tolti gli ultimi anni e le pochissime
eccezioni, il paese sembra essere rimasto fuori da una seria riflessione
sul tema. Come mai? Colpa, si potrebbe pensare, della tele-‐realtà che
più che in altri paesi ha assorbito ogni nostro interesse e molte delle
nostre capacità critiche; colpa degli autori di cinema del reale, i
cosiddetti documentaristi, i quali (tranne le dovute eccezioni) hanno
speso il grosso delle loro energie per farsi accettare da un sistema
televisivo che li ghettizza in partenza e ne uccide ogni riflessione
sensata sul mezzo e sul linguaggio (come se toccasse solo a loro); colpa,
molto più realisticamente, della distribuzione8, immobilizzata da ragioni
di tipo politico e di conseguenza culturale, che per essere indagate a
fondo richiederebbero una tesi storico-‐politica a se, che esula dai nostri
intenti. Siamo coscienti che parlare in termini localistici possa risultare
anacronistico in una discussione sul cinema contemporaneo che mostra
invece una chiara tendenza alla messa in discussione delle
cinematografie nazionali, proponendosi come un'altra agorà9.
Pur tuttavia riteniamo che in un momento di cambiamento come
quello che stiamo vivendo a livello globale, sia utile una profonda
7 Ci riferiamo al "Neorealismo", corrente cinematografica che nasce da un'esigenza di documentazione della tragica realtà post-‐bellica, inglobando di fatto la produzione documentaria classica italiana che fino agli anni '70 non si è mai davvero evoluta, ma diventando nel contempo un'indiscutibile punto di riferimento per il cinema mondiale. 8 Basti pensare alla differenza con la Francia, la Germania, l’Olanda, i paesi nordici, la Polonia, solo per citarne alcuni, dove da sempre esistono programmi prime time e interi canali televisivisi dedicati al cinema del reale, o dove, come ad esempio in Francia, nei finanziamenti statali, non si fa distinzione tra finzione e documentario. La rinascita del documentario è quindi per l’Italia, più che per altri paesi, una novità positiva. 9 M. FADDA, Il cinema contemporaneo. Caratteri e fenomenologia, Archetipolibri, Bologna 2009, p. 43
9
riflessione sulla natura di ciò che ci circonda e sul nostro modo di
rapportarci ed essa, partendo dal luogo a noi più prossimo che
oltretutto, nei confronti del "reale", mostra un atteggiamento a dir
poco inquietante.
Riteniamo che ciò possa avvenire attraverso l’unico mezzo che da
sempre possiede uno spazio ontologico di riflessione sul rapporto
realtà/simulazione che è il cinema, nella fattispecie, quello del reale di
cui parleremo.
Ecco perché abbiamo scelto questo particolare tipo di cinema, che
si affaccia in questo particolare momento, in questo particolarissimo
paese.
La nostra impressione è che come sulle macerie "reali" è nato il
neorealismo, così, da altre "macerie", quelle generate dal virtuale, in
Italia (e non solo), stia rinascendo "qualcos'altro", di cui il cinema di cui
ci occuperemo, visto il favore mostrato dal pubblico nei suoi confronti e
la seppur iniziale diffusione dei film in circuiti prima inimmaginabili10,
sembra un chiaro segnale.
Ci sembra in tal senso adeguato paragonare questo fenomeno con
quello che in campo letterario Spinazzola chiama il New Italian
Realism11. È infatti anche grazie all'eco generata dall'approccio new
realista del cinema di cui ci occupiamo, che in Italia, dopo
cinquant'anni, si ricomincia a parlare in maniera seria di realismo in vari
ambiti e in modo interdisciplinare.
10 L. PICCININI, La fiction è finita. Viva i docu-‐film!, in "D" supplemento settimanale del quotidiano "La Repubblica", Anno 16°, n. 769 novembre 2011, pp. 68-‐76 11 V. SPINAZZOLA (a cura di), Il New Italian Realism, Tirature '10, Il Saggiatore, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori Editore, Milano 2010
10
0.3. Struttura della tesi
La tesi è composta di tre parti che costituiscono altrettanti
capitoli.
Nel primo capitolo, dopo aver dato uno sguardo al mondo in cui
viviamo, a quella cioè che è la condizione contemporanea, metteremo
in risalto come il cinema, linguaggio principe del XX secolo, sembra aver
oggi smarrito la propria identità e sia in cerca di una ridefinizione.
Condizione che comporta la ricerca di nuove forme rappresentazionali,
di nuove modalità operative e produttive e di una presa di posizione
che potremmo definire etica da parte degli autori (e degli spettatori) nei
confronti del "reale". Pena la perdita di senso del cinema stesso.
Nel secondo capitolo, individueremo una serie di autori che,
preso atto della condizione di fragilità identitaria dell'immagine e del
cinema in cui si trovano oggi a operare, propongono, con il loro metodo
di lavoro, un modo "altro" di fare cinema del reale. Attraverso l’analisi
di cinque film e lo spoglio di alcune interviste rilasciate dagli autori,
proveremo a dimostrare come, in questo tipo di cinema, sia in atto una
delle maggiori riflessioni sull’approccio contemporaneo al "reale".
Nel terzo capitolo, infine, evidenzieremo come l'approccio al
cinema di questi autori, rappresenti una possibile bussola per orientarsi
nel deserto del reale in cui sempre più appare che il mondo stia
tentando di entrare.
11
CAPITOLO I -‐ Il deserto del reale
1.1. Uno sguardo al mondo d'oggi
Il mondo sta vivendo un cambiamento epocale, radicalissimo.
Tutto traballa come in preda a una scossa tellurica del massimo grado,
che per gli ottimisti ha appena concluso la sua fase parossistica e per
altri rappresenta invece soltanto l’inizio di un ulteriore sconvolgimento
del quale non è possibile prevedere l’esito. Per altri ancora, in preda al
pensiero magico, sempre pronto a spuntar fuori con una certa
veemenza nei momenti di cambiamento, il segnale di una fine
annunciata. Le singole discipline sia scientifiche, sia umanistiche, fanno
il massimo sforzo per comprendere da cosa questo terremoto dipenda,
ma forniscono spesso risposte parziali e contrastanti, che seppur
fondamentali per affrontare il cambiamento che questo momento
impone, lasciano comunque un alone di dubbio, d'incompletezza.
Una delle caratteristiche principali di questa svolta epocale sta,
infatti, proprio nella difficoltà a trovare un lessico adatto a nominarla.
Basti pensare al termine post-‐moderno, periodo per molti concluso, con
il quale convenzionalmente si indicano gli ultimi trenta-‐quarant’anni
che abbiamo vissuto. Un termine sul quale sono stati scritti fiumi di
parole ma che continua a mantenere il suo carattere transitorio,
contraddittorio, ambiguo. Per spiegarci meglio sul termine e
comprendere il periodo il cui esso è coniato, bisogna fare un passo
indietro.
A un certo punto della storia del Novecento, la cultura
occidentale ha scoperto che i vecchi capisaldi della modernità non
funzionavano più. Concetti come razionalità, efficienza, funzionalità,
12
cavalli di battaglia dell’economia fordista 12 , non riuscivano più a
rappresentare il mondo e tantomeno erano utili a comprenderlo. Gli
studiosi collocano questo punto di crisi in epoche diverse e lo collegano
a differenti catastrofi: la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, le
trasformazioni degli anni ‘50, i conflitti degli anni ‘70, le innovazioni
tecnologiche. C’è anche chi lo colloca in un giorno e un orario preciso13.
In tutti i casi si tratta di punti si svolta dai quali non si torna indietro;
cesure storiche determinanti, che mettono gli uomini in una condizione
di smarrimento radicale nella quale tutto va ridefinito.
È in questo scenario che nasce il concetto di post-‐modernità, un
termine che porta dentro di se, già in partenza, una sensazione di
posterità, di deserto del passato, di civiltà rasa al suolo.
Il post-‐moderno nasce insomma a partire da una negazione, o da una
sparizione14.
Con un'interpretazione meno radicale dei fatti, la fine del
modernismo e l'ingresso nel post-‐modernismo, come sempre avviene
nella storia, è stato un passaggio progressivo che è derivato da tanti
12 L’epoca fordista, così chiamata in omaggio al modello di organizzazione del lavoro adottata negli Stati Uniti da Henry Ford nelle sue fabbriche di automobili, si reggeva sulla produzione di massa di beni di consumo durevoli all’interno di mercati in cui vi era una sostanziale coincidenza fra produzione e consumo. L’organizzazione modulare e ripetitiva del lavoro si basava sull’individuazione di componenti da produrre separatamente e da assemblare solo al termine del processo produttivo, e sullo smembramento performativo della prestazione del lavoratore in una miriade di operazioni molto semplici da ripetersi all’infinito secondo i tempi e i ritmi sanciti dalla catena di montaggio. Tutto ciò garantendo una programmazione razionale della produzione e una pianificazione complessivamente esatta dei margini di profitto. 13 "...Charles Jencks indica le 15.32 del 15 luglio 1972 il momento simbolico della fine del modernismo e del passaggio al post-‐moderno: precisamente il momento in cui il complesso Pruitt-‐Igoe di Saint Louis (una versione ben riuscita della 'macchina per abitare' di Le Corbusier) viene fatto saltare per aria perché ritenuto invivibile per le persone che vi abitano". In G. CANOVA, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (2000), Bompiani, Torino 2009, pp. 7-‐8 14 Ibidem
13
fattori concomitanti tra i quali Gianni Canova cita ad esempio la
riscoperta del pragmatismo filosofico di Richard Rorty o i nuovi
paradigmi di filosofia della scienza di Kuhn e Feyeraben e che si
manifesta negli ambiti culturali più disparati: nella crisi delle strutture
narrative tradizionali, nella frammentazione della coscienza studiata da
Jean-‐François Lyotard, nei decollages di Rotella e via dicendo. Tutti
fenomeni che hanno in comune la radicale trasformazione del vecchio,
delle forme consolidate nella tradizione, attraverso un’evidente
iconoclastia.
Per capire l’incisività della svolta post-‐modernista, c’è bisogno di
individuare gli elementi che contraddistinguono il periodo. Lasciamo il
compito a Gianni Canova che, riassumendo i numerosi interventi fatti
da Fredric Jameson sulla questione15, stila un elenco dei concetti sui
quali, secondo il critico, il post-‐modernismo fonda il proprio paradigma
culturale. Essi sono:
1. Ibridismo. Per ibridismo Jameson intende il crollo di tutte le
distinzioni gerarchiche tipiche del moderno, vale a dire cultura popolare
opposta a cultura di massa, tradizione a innovazione, conservazione a
sperimentazione, etc. Nel post-‐modernismo vince invece una sorta di
“populismo estetico” che mischia tutto senza troppa riflessione. Quello
che prevale è il gusto per il kitsch, la cultura da Reader’s digest, i film di
serie B, le telenovelas. Vincono insomma i concetti di pastiche e di
remake.
15 ivi, pp. 9-‐13
14
2. Frammentarietà. Quando parla di frammentarietà Jameson
punta l’attenzione sul fatto che a un mondo frammentato corrisponde
inevitabilmente un soggetto altrettanto frammentato, indebolito,
problematico, privo delle certezze che caratterizzavano la modernità,
vale a dire i concetti di stato, famiglia, partito politico, etc. Questa
situazione che potremmo definire instabile, nasce dall’adattamento
della psiche degli individui sottoposta a continui aggiustamenti,
cambiamenti, parcellizzazione dei punti di vista.
3. Superficialità. Con superficialità Jameson sottolinea una
mancanza di profondità sia sul piano visivo (nel caso delle immagini)
che su quello interpretativo. Una sorta di frivolezza gratuita. Il post-‐
moderno sostituisce tutti i modelli di profondità consolidati nella
modernità (ermeneutico, freudiano, dialettico, esistenzialista) con
l’intertestualità. Il passaggio cioè da un testo all'altro come
caratteristica paradigmatica.
4. Euforia. Nel post-‐moderno l’individuo risponde alla
frammentazione e alla dispersione che lo circonda con una forma di
euforia caratterizzata da continui alti e bassi emotivi. Un modo per
sfuggire alla piattezza e alla mancanza di profondità che caratterizza il
suo tempo. Un atteggiamento di tipo schizofrenico che non ha alcuna
funzione conoscitiva ma di solo sfogo psichico.
5. Omogeneizzazione dello spazio. Se il moderno si fondava su
categorie spaziali precise, spesso contrapposte, come, ad esempio,
quella di città/campagna, in cui l’elemento percepito era la diversità di
15
questi spazi (con i punti intermedi di villaggio e cittadina); oggi lo spazio
è percepito come un continuum di luoghi identici e standardizzati,
all’interno dei quali la percezione dello spazio, provoca un evidente
disorientamento esistenziale e cognitivo. Gli effetti di questo
disorientamento sono evidenti nel cinema16.
6. Presentificazione del tempo. Il post-‐moderno è sinonimo di
sincronicità. Le categorie di memoria, durata e temporalità, sospinte
dalla velocità, declinano in favore di un eterno presente. In tal senso si
può dire che il post-‐moderno "cancella" la Storia, cancellando con essa
il concetto di passato ma anche di futuro. Questo conduce all’utilizzo
disinvolto e deresponsabilizzato delle forme del passato e l’invenzione
su base esclusivamente ludica e aleatoria di forme nuove. Questo, a
livello estetico, significa per esempio la fine della figura e del concetto
di autore individuale, che sempre più si riduce a un brand fondamentale
per la commercializzazione del film. L’autore diventa una specie di
garanzia del packaging del film, una categoria merceologica come le
altre. 17
Per comprendere la nascita della diversa percezione del mondo
introdotta dal post-‐modernismo, essa va letta all’interno del
16 Lo notiamo ad esempio in Fadda per il quale "la debolezza del soggettivo, in qualunque modo lo si intenda, si mostra chiaramente nello sfaldarsi delle forme di enunciazione, verificabile in un’inconsistenza ascrivibile tanto ai personaggi messi in gioco, quanto all’istanza narrante che fa procedere i racconti cinematografici […] portati a mettere in scena patologie dell’io contemporaneo […] crisi identitaria misurabile anche nei meccanismi narrativi […] nella proliferazione di personaggi “referenziali” e stereotipati che si riferiscono sempre più a un universo di natura strettamente cinematografica". M. FADDA, Il cinema contemporaneo. Caratteri e fenomenologia, Archetipolibri, Bologna 2009, p. 35 17 Pensiamo ad esempio al regista statunitense Quentin Tarantino associato al genere pulp.
16
cambiamento epocale avvenuto nello stesso periodo a livello della
produzione industriale.
Con la rivoluzione tecnologica, che ha avuto il suo exploit negli
anni ‘80-‐‘90, nel mondo occidentale, si è prodotta una vera e propria
compressione temporale. I trasporti sempre più veloci e le
comunicazioni via satellite, hanno reso tutto più semplice e soprattutto
più mondializzato. La parola d’ordine dell’industria e del commercio è
diventata globalizzazione. Con il Toyotismo 18 , inizia inoltre quel
processo che gli economisti chiamano di accumulazione flessibile. Vale
a dire che alla grande fabbrica con lavoratori fissi che basavano la loro
esistenza e i loro progetti di vita sulla sicurezza del lavoro, viene
sostituito un esercito di lavoratori atipici e precari, la cui identità non è
più quella del lavoratore ma dell’esperto brandizzato19.
Ciò è dovuto al fatto che con il vecchio sistema fordista, il
mercato si è ormai saturato. Le merci prodotte sono più di quelle che
servono. Il mercato non riesce più ad assorbirle. Ciò che comanda non è
più la produzione ma le preferenze del cliente. Diventa cioè
assolutamente necessaria, pena la fine del capitalismo, una sempre
maggiore mobilità. In parole povere, invece di produrre merci, il
capitale si è trovato all’improvviso a dover produrre consumatori.
18 Per Toyotismo s’intende un modello di produzione introdotto per l’appunto dalla fabbrica giapponese di automobili Toyota, nel quale si sviluppano nuove modalità di razionalizzazione del processo produttivo basate sull’abolizione della catena di montaggio, sulla differenziazione dei prodotti invece che sulla loro standardizzazione, sull’integrazione del lavoratore nell’identità dell’impresa e sulla tecnica del just in time, cioè sul fatto che le parti da assemblare devono arrivare solo nel momento in cui servono, per evitare lo stoccaggio in magazzino delle merci e dei semilavorati, eliminando così i relativi costi. 19 Vale a dire altamente professionalizzato, fedele e totalmente oltre che moralmente identificato con il brand della fabbrica.
17
Ma come si è riusciti a trasformare le merci smaterializzate che
devono continuare ad essere vendute in eἴδωλα (eidõla)20, in sogni cioè
che siano realtà e realtà che siano sogni? Secondo Mario Pezzella,
proprio sostituendo l'antico problema metafisico di distinguere il sogno
dalla realtà, con la produzione fantasmagorica delle merci stesse,
proponendole fino alla nausea, cancellando ogni distinzione tra
soggetto che osserva e oggetto osservato, trasformando cioè il modo di
produzione in modo di percezione. Per raggiungere questo scopo unico,
è però necessario cancellare ogni alterità, ogni conflittualità, ogni
progetto di trascendimento dell'esistenza. Compito che viene lasciato
principalmente alla televisione, che non a caso diventa partner
fondamentale del commercio.
È da qui che nasce la consumer culture, nella quale, secondo
Zygmunt Bauman, i soggetti sono impegnati funzionalmente e
moralmente più come consumatori che come produttori21. Il principio
del consumo come fine ultimo, neutralizza la tradizionale opposizione
tra il principio di piacere e quello di "realtà", che consiste oggi, secondo
Bauman, nell’esclusiva caccia del piacere.
20 "Gli oggetti continuamente inviano nello spazio a essi circostante le immagini di sè medesimi. Queste immagini, dette eidõla, entrano, attraverso la pupilla, nell’occhio, così rivelandosi. L’aria è ricolma di immagini immateriali volanti in tutte le direzioni. Gli oggetti emettono senza posa immagini di sè stessi, come i serpenti che perdono la pelle nel crescere. Una specie di perenne sfogliamento sembra essere la caratteristica ultima dei corpi. E l’aria è percorsa da questi fantasmi, sottili involucri trasparentissimi". (Democrito). In M. PEZZELLA, Fatti da nulla. Considerazioni sul digitale e il reale, in AA.VV., Rivista di estetica. Ontologia del cinema, n. 46, a cura di D. Spinosa, Rosenberg&Sellier, Torino 2011, p. 138 21 Z. BAUMAN, Sociological Responses to Postmodernty, in AA.VV., Moderno e postmoderno. Crisi di identità di una cultura e ruolo della sociologia, a cura di C. Mongardini e M.L. Maniscalco, Bulzoni, Roma 1989, pp. 127-‐152
18
1.1.1. Il ruolo della tecnologia
In questo modello produttivo post-‐fordista, la tecnologia, che ne
è stata la spinta generatrice, acquista una duplice caratteristica: quella
di essere sempre più pervasiva e sempre più invisibile. Più vicina cioè
alla vita privata del consumatore e sempre meno disponibile a mostrare
il lavoro che c’è dietro ai prodotti con essa realizzati. I must della
produzione industriale diventano la diffusione massiva e la semplicità
d’utilizzo dei beni tecnologici. Lo scollamento tra uomo che produce e
uomo che utilizza quello che produce, si fa così sempre più netto e di
conseguenza, la percezione del mondo sempre più astratta.
L'immaterialità delle merci diventa pian piano la componente
fondamentale per la loro stessa vendibilità, vale a dire la condizione di
sopravvivenza del nostro sistema produttivo, che riversa poi i suoi
effetti sull'economia spicciola, cioè sulla nostra "realtà privata". L'essere
umano vive, come afferma Mario Pezzella,
una condizione ontologica paradossale e invertiva: ciò che percepiamo come
reale è sempre più l'effetto fascinatorio della potenza di un fantasma, mentre le
qualità corporee ci appaiono come ombre in atto di svanire22.
L'indiscusso predominio della televisione, radica questa
percezione fino a rendere "reale" solo ciò che è autenticato e diffuso da
essa come fantasma.
In questo contesto anche il cinema, come tutte le industrie, deve
andare alla ricerca dei suoi consumatori. Come le altre industrie, per di
più ontologicamente tecnologica, non propone più, come faceva un
tempo, un luogo di aggregazione rituale (la sala) e delle storie costruite
22 M. PEZZELLA, Fatti da nulla..., cit., p. 143
19
per un’identificazione emotiva dello spettatore, ma uno spazio virtuale
che sia più adatto possibile all’acquisizione di identità di cui si parlava
prima.
Per raggiungere lo spettatore, il cinema si trova ad affrontare una
serie di questioni derivanti dalle stesse innovazioni tecnologiche. In
primo luogo il problema dei contenuti. In un contesto di fruizione come
quello di oggi infatti, in cui il luogo predisposto non è più soltanto la sala
ma la tv, l’home video, la pay-‐tv, internet, ecc., la produzione ha dovuto
rispondere alla frammentazione della distribuzione preoccupandosi
sempre meno dei contenuti e sempre più della produzione di film che
colpiscano i sensi, che scuotano psichicamente, per incrementare al
massimo quella sensazione di eccitazione legata al consumo immediato
che lo spettatore richiede.
Anche la tendenza all’invisibilità della tecnologia è un aspetto
della produzione industriale che il cinema tiene fortemente in
considerazione. Fino a pochi anni fa, infatti, il cinema ostentava il suo
aspetto tecnologico in maniera visibile, probabilmente perché ancora
non esisteva di meglio, ma di certo la tendenza non era quella a
nascondere gli effetti; anzi essi erano motivo di dimostrazione di grosse
capacità produttive. Oggi, invece, l’effetto speciale tende a scomparire,
il trucco a essere invisibile ad avvicinarsi più possibile al vero. Il fine
ultimo degli effetti non è più quello di meravigliare, ma di rafforzare
l’effetto di "realtà" e addirittura, in alcuni film come "Avatar", di
proporne una.
Lasciando da parte l’immenso discorso sulle possibilità aperte
dalla tecnologia e sul suo futuro all’interno del cinema, quello che a noi
interessa in questa sede, è capire gli effetti che questa virtualizzazione
20
dell’immagine ha avuto sul modo in cui noi guardiamo il mondo, cioè
sul nostro rapporto con la cosiddetta "realtà" e capire poi il ruolo che il
cinema può avere in questo.
Quello che oggi succede è che con il virtuale un’immagine può
essere costruita da zero all’interno di un computer, utilizzando solo dei
codici numerici; può cioè prescindere totalmente dalla realtà concreta
preesistente. Essa ha perso cioè quella che Roland Barthes considerava
la prerogativa principale dell’immagine fotografica: il fatto di essere
garanzia che la cosa è stata là 23 . L’immagine fotografica (e di
conseguenza quella cinematografica), sin dalle origini, ha infatti sempre
rimandato a un "reale" e non fittizio punto di vista sul mondo, che è
quello che ha definito, fino a oggi, il rapporto tra oggetto e soggetto
(seppur meccanico) del cinema.
Certo è innegabile che con le tecnologie virtuali si ha un aumento
delle possibilità di vedere cose mai viste, il che è sicuramente
stimolante per la fantasia, ma contemporaneamente è anche vero che
con un utilizzo irresponsabile di esso, si può produrre una effettiva
perdita del legame tra l’immagine e il suo referente esterno.
È chiaro che non ci stiamo riferendo alla sentenza nietzschiana
tanto cara al post-‐modernismo di un mondo diventato favola24, non
crediamo cioè che si tratti di un cambiamento che riguarda l'ontologia
delle immagini che continuano comunque a rimandare
psicologicamente a qualcosa che percepiamo ancora (per poco?) come
un referente, ma di una precisa scelta produttiva di chi le realizza e
della predisposizione (indotta) di chi le fruisce. 23 R. BARTHES, La camera chiara [La chambre claire, 1961], Einaudi, Torino 1980, p. 78 24 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello [Götzen-‐Dämmerung, 1889], Adelphi, Milano 1983
21
L'uso che si fa oggi della tecnologie visuali a soli fini di lucro o
ludici, tende infatti, coerentemente alla generale smaterializzazione in
atto, a ricreare
un mondo che, sempre più ampiamente e capillarmente assimilabile al suo
simulacro riproducibile [...] non riuscirebbe più a farsi sentire nella sua differenza e ci
renderebbe indifferenti nei confronti della referenzialità dell'immagine, che tuttavia
-‐ è importante sottolineare (ndr.) -‐ non viene in alcun modo sospesa25.
Ciò che ne fa le spese, come dicevamo, più che l'ontologia delle
immagini, è il principio di veridicità di cui esse sono portatrici. Principio
sul quale, fino ad oggi, era basato il senso stesso delle immagini, che
rimandavano a un altro-‐da-‐sé meno discutibile.
A questo punto di vista si può obiettare facendo notare che le
immagini sintetiche non invadono tutto il cinema, anzi, sono ristrette
solo a taluni film, molto specifici. Ciò non toglie però che l’introduzione
del virtuale ha prodotto nel linguaggio del cinema un indiscusso
cambiamento paradigmatico generato proprio dall’apparizione di
queste immagini sintetiche che hanno messo in allarme il nostro modo
di sentire cinematografico che, percependo il rischio del superamento
dello statuto ontologico storicamente consolidato delle immagini,
reagisce oscillando tra l’eccitazione per il nuovo e il disorientamento
per la perdita del vecchio.
Questo nuovo statuto dell’immagine generato dalla virtualità,
segna a nostro modo di vedere l’apice di quell’era del visibile che ha
attraversato tutta la cultura occidentale: dalla vittoria della chiesa
sull’iconoclastia, alla strutturazione della prospettiva rinascimentale,
25 P. MONTANI, L'immaginazione intermediale, Laterza, Bari-‐Roma, 2010, p. 22
22
alla scoperta della fotografia, del cinema, della televisione e poi del
computer. Quest'ultimo però, come detto, non riproduce soltanto
immagini "reali", ma può produrre illusione allo stato puro. Un’illusione
che non ha più nessun nesso produttivo con il "reale contingente" ma
che, se vuole, al "reale" può assomigliare come mai prima. La tecnica
digitale, specie quella tridimensionale, non fa che portare dunque a
compimento quella confusione tra realtà e fantasmagoria, tra vero e
falso di cui si parlava prima. La "società dello spettacolo"26 risponde
definitivamente allo stesso meccanismo illusorio della società delle
merci. Le profezie di Guy Debord oggi non sono più tali, sono solide
realtà.
È in questo scenario contraddittorio, d’iperproduzione
globalizzata e di smaterializzazione avvenuta, resa possibile e
testimoniata dal passaggio dal fotografico al digitale, che il cinema si
muove; incerto, disorientato. Le opinioni sul suo futuro sono come
sempre quelle tra entusiasti e apocalittici, cioè tra chi vede il digitale
come l’alba di una nuova epoca e chi invece prevede la morte del
cinema. Realtà dei fatti è invece che l’immagine digitale non ha ancora
trovato una sua specificità, sia perché anche le immagini fotografiche (e
poi quelle video analogiche) potevano in qualche misura essere
manipolate, quindi non sono così radicalmente differenti, sia perché la
rivoluzione digitale non ha ancora definitivamente alterato la
percezione di base dell’immagine che continua ad essere percepita
come qualcosa che sta al di là dello schermo, in barba al cinema 3D che
si sforza di farla venire fuori. Rimane fermo il fatto che la situazione è in
continuo evolversi e nessuno, può prevedere a cosa essa ci porterà. 26 G. DEBORD, La società dello spettacolo [La Société du spectacle, 1967], Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2008
23
1.1.2. Gli effetti del web 2.0
È su questa incertezza che s'innesta un'altra novità generata dal
digitale e diffusa da internet alla quale bisogna accennare. È un discorso
che appartiene al mondo generico della comunicazione che nulla
c'entrerebbe con l'arte del cinema se non fosse che oggi l'artistico e il
mediatico tendono irrimediabilmente a confondersi e che con questo
bisogna fare i conti.
Si tratta dei canali come YouTube e dei cosiddetti social
network 27 . È impossibile non notare come, tramite questi canali,
veniamo letteralmente invasi in un unico spazio (quello generico della
comunicazione) e in tutte le direzioni da un continuo flusso d’immagini
particolari con le quali ci tocca fare i conti. La stragrande maggioranza
delle immagini che oggi viaggiano sulla rete, non sono infatti immagini
pubblicitarie o sintetiche, verso le quali, con un minimo di occhio
allenato, si può forse riuscire a mantenere il distacco critico necessario,
ma sono immagini che in tutto e per tutto assomigliano alla nostra vita,
anzi sono la nostra vita; imperfette come il nostro mondo.
Quelle che vediamo sui social network, non sono, infatti, solo
immagini che hanno l’obiettivo di vendere qualcosa di materiale o di
farci "eccitare" dopo aver pagato il biglietto, ma sono immagini che
sempre più ci riguardano direttamente a vari livelli e che ci arrivano
attraverso il mezzo più artificiale che c’è, lo stesso che produce le
immagini simulacro.
Sono immagini dei nostri corpi, a volte deformati, truccati,
sostituiti da avatar simulacri; immagini dei nostri desideri, dei nostri
sogni, che viaggiano all’interno di uno spazio unico, quello virtuale della
27 Facebook, Twitter
24
comunicazione, ormai considerato da tutti come uno spazio vero,
concreto. A seguito di ciò, la percezione che abbiamo di noi stessi,
quando ad esempio non riusciamo a essere per un paio di giorni su
Facebook, è quella del: che mi sono perso? Per poi, quasi sempre,
concludere con la sensazione, spesso postata28, di: sono stato fuori dal
mondo!
Quest’ansia, che potremmo definire di momentanea perdita
d’identità, di smaterializzazione di noi stessi, può essere letta per un
verso come il logico estendersi, nel quotidiano di ognuno di noi, di quel
meccanismo di smaterializzazione della merce di cui abbiamo parlato
prima, che proiettiamo sul nostro corpo, ma per un altro verso può
essere considerata anche come la naturale reazione a tutto ciò. Una
reazione in difesa del "reale" a rischio.
Dato di fatto è che ad essa rispondiamo continuando a inondare il
mondo di altre immagini di noi e di cose che ci piacciono, in un unico
spazio pubblico/privato, senza fare più troppa distinzione sulla "materia
prima" a cui fare riferimento per la costruzione della nostra idea del
mondo (di cui le immagini, non dimentichiamo, sono ormai parte
integrante).
Le immagini di noi (create a difesa di noi stessi) si mischiano così
a quelle sintetiche create dalla logica di mercato, entrando a pieno
titolo nella società dell'immagine insieme a quelle di un certo tipo di
cinema, alla televisione, alle arti visive, mettendo sempre più sullo
stesso piano arte e comunicazione.
28 Un post è un messaggio testuale, con funzione di opinione o commento, inviato in uno spazio comune su Internet per essere pubblicato. Tali spazi possono essere newsgroup, forum (o board), blog, guestbook, shoutbox e qualunque altro tipo di strumento telematico (con esclusione delle chat e dei sistemi di messaggistica istantanea) che consenta a un utente generico di internet di lasciare un proprio messaggio pubblico.
25
Tutto ciò, oltre a far arricchire chi ha messo in moto il
meccanismo, contribuisce indubbiamente ad affievolire ancora di più
quella distanza necessaria tra noi e l'immagine di noi e a far sparire quel
senso di alterità nei confronti di un'idea di "realtà" che quattrocento
anni di pensiero razionalista aveva creato.
Fino a ieri, infatti, era comunemente sottointeso, anche se non
dichiarato, che la "realtà" aveva una sua indipendenza, una sua ragion
d’essere al di fuori di noi. La condizione contemporanea invece,
confondendoci con l’iperproduzione globalizzata e con la valanga
d’immagini che per di più ci ricordano quelle che alla nostra personale
"realtà" assomigliano in tutto e per tutto, ci ha reso, noi e le immagini,
la stessa identica cosa o almeno questo è il pericolo che inconsciamente
percepiamo di correre.
Superata dunque l’epoca classica che metteva al centro l’oggetto
rappresentato, superata definitivamente l’epoca moderna che metteva
al centro il soggetto, superata anche la parentesi post-‐modernista che
faceva della citazione e del pastiche la sua prerogativa estetica; siamo
entrati adesso in quella che Fadda definisce l’era dell’anything can
happen29. Una condizione di confusa apertura che mette il cinema di
fronte a nuove sfide e obbliga chi si occupa d’immagini, a prendere,
oggi come non mai, una posizione chiara nei confronti di queste ultime,
quindi, alla fin fine, di noi stessi.
29 M. FADDA, Il cinema contemporaneo..., cit., p. 17
26
1.1.3. Le nuove sfide del cinema
Dopo le considerazioni fatte nel precedente paragrafo, è facile
dedurre il tipo di sfide che il cinema in generale, per poter sopravvivere,
si trova oggi ad affrontare. Esse nascono fondamentalmente da tre
novità introdotte dall'innovazione tecnologica che ci sembra utile
ricapitolare:
1. La possibilità di fare immagini che non abbiano come referente il
"reale".
2. L'emergere di nuovi modi di consumo rivolti non più a un
pubblico ma a un'audience sparpagliata, uguale a quella degli altri
media (televisione, radio, web).
3. La definizione di un nuovo paesaggio mediale che è multimediale
e interattivo.
Oltre ad aver messo a rischio l'attendibilità dell'immagine, il
digitale ha infatti anche favorito la nascita di nuovi spazi di diffusione di
massa che mettono in discussione il carattere collettivo del cinema: il
suo essere luogo di aggregazione. Oggi la comunicazione non è più
quella uno-‐molti del cinema e della televisione ma quella molti-‐molti del
web, che trova nei social network la massima espressione. È chiaro
quindi che sul campo della strategia comunicativa il cinema ha già perso
la partita, a meno che non ritrovi quel "ruolo di guida all'esercizio
scopico" che gli è sempre appartenuto; quella forza ricompositiva, sia
sul piano percettivo sia su quello sociale, che è stata la caratteristica di
27
quello che Francesco Casetti chiama il cinema 1. Un cinema che, per
tutto il Novecento, mentre restituiva la "realtà", lentamente contribuiva
a eroderne le fondamenta 30 , contraendo così, nei confronti della
"realtà" medesima, un debito che oggi, noi riteniamo, abbia iniziato a
saldare.
Per riacquistare un ruolo centrale, il cinema si trova quindi oggi di
fronte a un bivio, anzi a un trivio. Scegliere cioè se accomodarsi nelle
forme ripetitive e consumate già conosciute e rassicuranti; lavorare sul
mondo fatto d'immagini per cercare nuove istituzioni di senso 31 ;
oppure, visto che le immagini non sono più in grado di proporre
l'autentico e altri media comunicano più di lui, abbandonare il campo.
Escludendo la prima scelta, quella cioè di adagiarsi sulle forme già
conosciute e rassicuranti (cosa che fa già il cinema mainstream) e
escludendo anche l'ultima, che non prevede alcun approfondimento,
l'unica via che al cinema resta da seguire, è quella di lavorare sulla cosa
che i new media non riescono ancora a fare bene: raccontare storie32.
Ma come farlo?
30 "Se c'è qualcosa che lungo i sentieri del Novecento il cinema 1 ha fatto [...] è stato in definitiva rivisitare l'universo nel quale siamo immersi, tanto nelle sue realizzazioni quanto nelle sue possibilità, e insieme trasformarlo in spettacolo, lo spettacolo appunto del mondo. Per un verso, esso ci ha restituito la realtà, grazie a un'immagine fotografica che si poneva come sua traccia; per un'altro verso, ha sistematicamente sovrapposto alla realtà una rappresentazione, certo concretissima nella sua evidenza, ma soltanto una rappresentazione. Ora non è difficile cogliere in questo gesto [...] l'eco di una doppia esigenza che ha indubbiamente marcato tutto il Novecento: da un lato il bisogno di preservare il senso del reale minacciato, dall'avanzare di nuovi modi di vita, dagli orrori della storia, dalla perdita della memoria sociale, dalle difficoltà di ricomporre i piani dell'esistenza; dall'altro lato, pur preservando il senso del reale, il gusto di partecipare sottilmente al suo declino". F. CASETTI, Quel che resta del giorno, in M. FADDA Il cinema contemporaneo..., cit., p. 58 31 A. MEDICI, Appare ovunque un (dis)ordine meraviglioso, in AA.VV., Il film documentario nell'era digitale, a cura di A. Giannarelli, "Annali dell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico", n. 9, Ediesse, 2007, p. 55 32 Non a caso, sotto questo aspetto, i new media fanno riferimento proprio al linguaggio cinematografico.
28
Secondo Casetti, de-‐figurando e non ricomponendo il mondo. Non
proponendo cioè
...un modello di realtà credibile e compiuto [...] ma minando la stabilità di
ipotesi di realtà che l'esperienza quotidiana, influenzata dai modelli di
rappresentazione forniti da altri media, dà troppo spesso per scontate33.
Si tratta, come afferma Pezzella
di attivare attraverso l'estetica anche cinematografica un'altra coscienza
dell'essere "contemporanei" che non coincida con l'ossessione per il presente e
l'attualità34.
Bisogna, in parole povere, avere il coraggio di mettere in campo un
pensiero inattuale che non abbia remore a valorizzare le peculiarità di
sempre dell'immagine cinematografica, quelli che spesso sono
considerati i suoi limiti, che sono quelli di:
• Dipendere da un referente (essere quindi portatrice di alterità);
• Essere di massa;
• Dover fare i conti con l'automatismo della macchina;
• Essere un'immagine che rappresenta il tempo e la sua
fuggevolezza;
33 F. CASETTI, L'occhio del novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005 34 M.PEZZELLA, Estetica del cinema (1996), Il Mulino, Bologna 2010, p. 53
29
Solo agendo in questo modo, secondo Jean Michel Frodon35, con
il quale concordiamo appieno, si può ridefinire il ruolo del cinema. Solo
facendo leva sui suoi punti di forza esso può sopravvivere. Il cinema,
insomma, deve riuscire a distinguersi dalle altre forme mediali
ritrovando il ruolo "morale della rappresentazione" che gli è sempre
stato caro, il suo essere punto di vista sul mondo, instauratore di forme
di alterità; proprio quelle forme di alterità che sembrano venir meno
nel nostro tempo.
Noi crediamo fermamente, che una parte del cosiddetto cinema
del reale, abbia già da tempo intrapreso questa strada.
Prima di occuparci di esso è però necessario un breve
approfondimento sulla natura duale dell'immagine cinematografica e
sul meccanismo che da sempre regola il rapporto tra essa e lo
spettatore al fine di comprendere come mai riteniamo che il cinema del
reale sia il primo ad essere chiamato in causa.
35 J. M. FRODON, Horizon Cinèma, coll. 21ème siècle, èditions des Cahiers du Cinèma, 2006
30
1.2. La dualità dell'immagine cinematografica, lo spettatore e il
documentario
Il cinema è nato mostruoso36: la testa di Méliès sul corpo di
Lumière. Questa efficacissima metafora, la dice lunga sull'ambiguità che
l'immagine cinematografica si porta dietro sin dalle sue origini. Com'è
noto, il mezzo cinematografico affonda le sue radici in uno strano mix
tra l'ambizione industriale e il teatro da fiera; un desiderio scientifico
unito ad una voglia di magia che non ha mai abbandonato lo spettatore.
Le prime proiezioni, che avevano natura documentaria, per gli
occhi vergini degli spettatori di allora, non erano altro che apparizioni di
simulacri artificiali più forti della realtà sensibile che generavano uno
stupore e nel contempo un terrore mai provati prima. Ma da dove
provenivano e soprattutto che effetto avevano questo stupore e questo
terrore così prorompenti?
Secondo Jean Louis Comolli37, venivano dal meccanismo di una
macchina che riusciva a superare la realtà sensibile, producendo un
sogno che si sostituiva di fatto alla "realtà" collettiva, non solo a quella
individuale. È questa dimensione collettiva il punto. Ogni spettatore,
infatti, non viveva da solo queste impressioni ma riconosceva e
suggellava il mix di stupore e terrore nello sguardo dell'altro. Con
l'invenzione del cinematografo insomma, per la prima volta nella storia
dell'umanità, il pubblico, formato da tante individualità, davanti a una
rappresentazione che riusciva a penetrare il reale, si ritrovava a vivere
un profondissimo sentimento contrastante che, finita la proiezione, 36 Pubblicato nel catalogo del festival "Cinema du réel" del 1995, vedi in J.-‐L. COMOLLI, Vedere e potere. Il cinema il documentario e l'innocenza perduta [Voir et pouvoir. L'innocence perdue: cinéma, télévision, fiction, documentaire, 2004], Donzelli editore, Roma 2006, p. 19 37 J.-‐L. COMOLLI, Vedere e potere. Il cinema il documentario e l'innocenza perduta [Voir et pouvoir. L'innocence perdue: cinéma, télévision, fiction, documentaire, 2004], Donzelli editore, Roma 2006
31
veniva riconosciuto da ciascuno come appartenente a tutti, il che lo
ufficializzava, rendendolo in un certo senso "indiscutibile".
È proprio la condivisione di questo sentimento la grande novità,
ciò che ha reso "soprannaturale" il meccanismo, facendo acquisire
all'immagine cinematografica il grado di "realtà" accettata e al tempo
stesso la potenza immaginaria capaci di scuotere le fondamenta della
società che rappresentava.
Una volta compreso il meccanismo della proiezione però, lo
stupore per il simulacro finì e lo spettatore si ritrovò in un batter
d'occhio a dover rinunciare a quel nuovo fantasma convalidato dalla
condivisione collettiva.
Pur tuttavia, l'origine contorta dello spettatore non è svanita. In
ricordo di quel sentimento fondativo, egli, ancora oggi, continua a
cercare nell'immagine cinematografica la stessa dualità delle origini, la
sua natura reale e fantastica insieme. Natura imperfetta, riscontrata
dallo spettatore di allora nello sfarfallio dell'otturatore, nelle frequenti
interruzioni dovute alla combustione della pellicola, nella non
coincidenza del bianco e nero con i colori della realtà e dallo spettatore
di oggi invece, nelle immagini dove tutto è troppo bello per essere vero
e troppo vero per non essere falso.
È insomma, oggi come ieri, l'imperfezione dell'immagine stessa
ad essere garanzia della sua veridicità in quanto conferma della sua
doppia natura. Come un bambino insoddisfatto, lo spettatore, continua
a volere da essa una cosa e il suo contrario. Realismo e irrealismo, vero
e falso. Vuole vedere il reale trasformarsi in illusione e l'illusione
assomigliare al reale. Vuole credere, poi non credere più, poi credere di
nuovo. Non a caso, ciò che fa funzionare la macchina cinematografica, è
32
l'alternarsi di antinomie: luce/buio, vero/falso, vicino/lontano,
pieno/vuoto, campo/fuoricampo.
È dunque questo immodificato meccanismo di continui rimandi
che continua a vincere malgrado tutto. È questo continuo essere dentro
e fuori lo schermo che inchioda ancora oggi lo spettatore alla poltrona.
È proprio questo meccanismo antico quanto il cinema, ciò che il
virtuale oggi mette in serio pericolo, rendendo possibile -‐ con la
creazione di immagini analogon del reale -‐ un salto di paradigma nel
rapporto tra realtà e rappresentazione, che rischia di cancellare nello
spettatore il gioco dialettico di credere e non credere di cui abbiamo
parlato. Lo farebbe perché, come afferma Comolli, ciò che fa
partecipare lo spettatore al film è il
...credere e non credere al mondo filmato, ma nel contempo, di fronte ad esso,
desiderare che sia il mondo a garantire il film e non il contrario38.
Con le immagini di sintesi invece, come osserva Antonio Medici,
il segno audiovisivo potrebbe affrancarsi dalla riproduzione delle cose e del
mondo, e le immagini a loro volta diventare cose del mondo39.
È chiaro che in un contesto del genere, il documentario è il primo
ad essere chiamato in causa. Infatti, malgrado oggi il dibattito sul
binomio realtà/finzione si sia evoluto al punto che nessun cineasta
come nessun teorico si sognerebbe mai di affermare che il cinema
registra direttamente la vita, è insito nella stessa ragion d'essere del
38 J. L. COMOLLI, Vedere e potere..., cit., p. 73 39 A. MEDICI, Appare ovunque un (dis)ordine..., cit., p. 53
33
documentario, il fatto di produrre una prova del mondo reale. Come ci
fa notare Medici40, la questione centrale quindi è:
in che rapporto sta oggi il referente fattuale con il discorso filmico? Ovvero,
poiché il mondo è pieno d'immagini del mondo, non sono queste a loro volta
referenti oggettuali di nuove immagini? E cosa diventa il visibile in questa
condizione?
È chiaro che un'eventualità del genere produrrebbe un gioco di
specchi infinito in cui ogni cordone ombelicale con la realtà andrebbe
definitivamente perduto e con esso anche il rapporto corpo/macchina
che contraddistingue in particolar modo il documentario che da sempre
usa, conditio sine qua non, la scena reale come
...istanza di sperimentazione e di attestazione della presenza corporea [...] e
materiale delle macchine, cioè del loro funzionamento congiunto...41.
Istanza che anche secondo Andrè Bazin42 è ciò che fa funzionare la
rappresentazione e che l'immagine virtuale -‐ essendo il risultato di una
stringa di numeri generata dentro un computer -‐ romperebbe.
Non è dunque inopportuno chiedersi dove in tal caso sarebbe
possibile reperire immagini non consumate, che abbiano ancora senso,
nelle quali sia possibile ancora ritrovare noi stessi e soprattutto
l'autentico a cui non siamo ancora del tutto disabituati.
40 ivi, p. 54 41 J.-‐L. COMOLLI, Vedere e potere..., cit., p.73 42 Per Bazin la traccia cinematografica è ciò che persiste e tiene ancora, dopo la scomparsa degli esseri viventi che l'hanno realizzata, ma è al tempo stesso ciò che suggella questa scomparsa e nella sua stessa sopravvivenza la rende irreversibile. Cfr. A. BAZIN, Che cos'è il cinema? [Qu'est-‐ce que le cinéma, 1958], Garzanti, Milano 1994
34
Nei documentari di cui ci occuperemo, quella che viene definita
regia, acquista sempre più un ruolo di difesa di questa autenticità e
della durata necessaria affinché essa possa esprimersi.
Ecco perché riteniamo che essi possano contribuire alla creazione
di una sana interpretazione del "reale" e dunque alla riscrittura del
mondo attraverso il cinema.
35
1.3. Un modo altro di fare cinema
Nel cinema Italiano di oggi trovano sempre più spazio, talvolta
anche all’interno della programmazione "ufficiale", degli autori di
cinema del reale che, in totale disaccordo con il modo di concepire il
cinema da parte della produzione industriale italiana, hanno preferito
darsi da fare in piena autonomia.
Si tratta di registi che, partendo da un'indisponibilità alle
estenuanti attese e all'inutile "martirologio cinematografico"43, hanno
deciso che l’unico modo per fare davvero il cinema è quello di farlo, da
soli, usando al meglio tutto ciò che hanno imparato sui libri e sul
campo, indipendentemente dai fondi a loro disposizione e dalla logica
dei commissioner editors44. Ciò si traduce in un cinema fatto in solitaria
che non ha nulla da invidiare ne contenutisticamente, né formalmente
al cinema di troupe.
È importante chiarire che non si tratta di dilettantismo, né di una
qualche forma di volontariato, ma di una scelta di campo precisa, che
ha permesso e influenzato la nascita e lo sviluppo di rigorosissimi stili di
regia.
Un cinema che, come spirito, si potrebbe avvicinare a quello
amatoriale, se il termine amatoriale viene inteso nell'accezione francese
di amateur45 ma che nulla ha di approssimativo. Un'attività dove cioè
quello che conta non sono i soldi e il successo personale cercato come
43 Il cinema è da sempre un’immensa macchina creatrice di sogni e di denaro, ma anche di frustrati e disillusi ai quali non viene mai data l'opportunità di esprimersi per ragioni che esulano dalle loro reali capacità. 44 I commissioner editors sono i responsabili delle reti televisive che decidono i film da acquisire sulla base della linea editoriale imposta dalla rete. 45 F. FERRARO, Breviario di estetica audiovisiva amatoriale, DeriveApprodi, Roma 2006
36
fine ultimo, ma quello che si ha da dire e la passione per ciò che si ha
davanti.
Si tratta di documentari d'autore di difficile collocazione, perché,
come gli autori stessi affermano -‐ nel termine documentario c'è una
ristrettezza di fondo 46 -‐ che non è di natura linguistica ma socio-‐
culturale. Il documentario, infatti, in Italia, è sempre stato considerato
una modalità cinematografica di serie B. Una specie di fratello povero
della finzione, un ripiego per chi non sa fare il "vero" cinema
(sottointendendo quello di finzione). Una difficoltà che deriva da quella
più profonda che il sistema di potere italiano ha nei confronti della
sperimentazione tout-‐court. Un'idea sbagliata insomma, che non rende
onore alla completezza espressiva del cinema degli autori a cui
pensiamo, che vanno, in tal senso, collocati in un limbo espressivo che
cercheremo di individuare non per similitudine con gli altri tipi di
documentario ma per differenza.
Si tratta, infatti, di autori non riconducibili alla grande famiglia dei
documentaristi d’assalto del cinema politico-‐militante (dal quale
tuttavia traggono la snellezza operativa) perché non tentano di
addomesticare la vertigine del "reale" in rassicuranti denunce-‐verità
nascoste47
così come non si possono ricondurre all’utopia del documentario
osservativo48, anche se dell’osservazione fanno la loro arma più forte, il
46Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 nov. 2011 47 M. BERTOZZI, Cinegrafie documentarie, in "Fata Morgana" 11, Pellegrini Editore, DAMS Università della Calabria, Cosenza, anno IV, n° 11, maggio 2010, p. 107
37
loro punto di partenza. Autori lontanissimi soprattutto da ogni cinema
effettistico e contrari alle imposizioni televisive, non per principio, ma
per un profondo disinteresse nei confronti dell’attuale estetica che la
tele-‐realtà imprime indelebilmente alla forma documentaria. Non
hanno neanche scopi polemici da cinema d'avanguardia, seppur,
qualcuno di loro, da esso eredita la libertà delle forme e del pensiero.
Mostrano invece dei precisi debiti che potremmo definire
trasversali, nei confronti di autori e di scuole sia di finzione, sia di
documentario che attraversano tutta la storia del cinema.
Per ovvie ragioni di spazio, non possiamo qui affrontarli nel
dettaglio (faremo dei riferimenti durante l'analisi dei film), ma ci
teniamo intanto a elencare i principali aspetti (in ordine cronologico e
transnazionale) che legano i nostri autori ai loro predecessori. Essi sono:
il "senso di oltre" delle immagini tratte spontaneamente dal reale,
tipico delle sinfonie metropolitane degli anni '20; la centralità narrativa
del rapporto con il protagonista tipica del documentario delle origini di
Robert Flaherty; la "scrittura" in montaggio teorizzata da Dziga Vertov;
la passione per gli ultimi e la capacità di raccontarli esplosi nel secondo
dopoguerra con il Neorealismo italiano; il concetto di pedinamento
zavattiniano; l'apertura al mondo sensibile del documentario di Joris
Ivens; la capacità di lettura dei diversi "strati" dell'immagine ereditata
da Michelangelo Antonioni; l'immediatezza della camera stylo teorizzata
da Alexandre Astruc; la capacità di scomparire e di catturare la realtà
tipica del cinema diretto di Robert Wiseman e del cinema antropologico
di Jean Rouch; l'assenza della sceneggiatura e l'improvvisazione del
48 Per documentario osservativo Bill Nichols intende quei film che usano un metodo testimoniale-‐oggettivo, vale a dire che prevedono la registrazione degli eventi da un punto di vista che tenta di restare il più estraneo possibile alla realtà ripresa.
38
cinema di John Cassavetes; la capacità di unire forma e contenuto nelle
immagini realistiche, utilizzando pochi mezzi, tipica del grandissimo
Vittorio De Seta; la filosofia degli "appunti girati" del Pasolini di
"Sopralluogi in Palestina"; la freschezza e la spontaneità del cinema
amatoriale, del quale spesso si servono come materiale d'archivio nei
loro film.
Molti anche i debiti nei confronti di autori a loro contemporanei o
della generazione immediatamente precedente. Pensiamo tra tutti a
Nicholas Philibert, maestro indiscusso dell'ascolto del "banale" e alla
continua riflessione sulla "realtà" esplicitata nella struttura dei film di
cui Abbas Kiarostami è indiscusso esponente-‐mentore.
Un collegamento a se, va fatto anche con il format televisivo del
reality-‐show, che indubbiamente torna in mente ogni qualvolta oggi si
parla di "presa diretta e casuale" della vita. Nel nostro caso
l'accostamento è fattibile per constatare come il documentario a cui ci
riferiamo, ne sia l'esatto opposto filosofico.
Si tratta infatti di autori che focalizzano prevalentemente la loro
attenzione su storie quotidiane, dove per quotidiano non deve
intendersi il banale, la noiosa "normalità" e meno che mai la sua finta
spettacolarizzazione, ma il profondo interesse per l'umano che
nell'intimo si manifesta. Un cinema che mette al centro l'incontro non
lo scontro.
È sul piano del relazionale che si gioca il valore del film, laddove fiducia e
condivisione diventano fondamentali per la buona riuscita del lavoro49.
49 M. BERTOZZI, Cinegrafie documentarie..., cit., p. 106
39
Ecco perché, per lo stesso motivo, in questo cinema la protezione
della propria immagine non è argomento "da avvocati" ma di rapporto
fiduciario. Essa non può essere intesa come una proprietà, ma come un
diritto alla libertà che l'immagine stessa possiede. Come ci ricorda
Comolli, infatti,
Ogni immagine del mio corpo è prelevata da un'istanza terza, della quale
sono nel contempo l'istigatore e il ricevente. E io ricevo, a mia volta, l'immagine che
è stata "presa" dall'altro.
A cui poi aggiunge...
La logica che porta a dire "la mia immagine è mia" innanzi tutto dimentica,
ignora o rimuove, che non c'è immagine senza separazione da se stessi e
costituzione di un punto di vista altro, di un'alterità dello sguardo, di una scena, di
un'istanza esterna che è questa scena e che fa in modo che ci sia immagine poiché
c'è il film50.
Ciò che accomuna questi autori è il fatto che partono sempre dal
dato appurato e incontrovertibile che la "realtà" è solo soggettiva
una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è
dunque inestinguibile, irraggiungibile,51
e soprattutto dal fatto che le immagini sono oggi parte integrante
di essa. È questo che li rende totalmente consapevoli di maneggiare
"immagini di realtà" piuttosto che "attendibili realtà". Ecco perché, 50 J. L. COMOLLI, Vedere e potere..., cit., pp. 80-‐83 51 V. NABOKOV, Intransigenze [Strong Opinions, 1973], Adelphi, Milano 1994, cit., in M. BERTOZZI, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell'altro cinema, Marsilio, Venezia 2008, p. 279
40
all’interno di una scelta etica, si rendono liberi di "trattare"
esteticamente le immagini riprese (e anche quelle d'archivio) anche se
non si sognerebbero mai e poi mai di reinventare la "realtà" dalla quale
provengono. Né in ripresa, né in montaggio.
Il risultato è un cinema che prende dalla pratica della finzione
l’attenzione per le strutture drammaturgiche e la cura delle immagini e
dal documentario l’approccio metodologico, la leggerezza di
realizzazione e la riflessione continua ed etica sulla "realtà".
Grazie ad una solida preparazione teorica e alla lunga esperienza
che spesso li contraddistingue, questi autori, sanno benissimo che il
cinema lavora oltre i confini dello spazio letterario e che le immagini
hanno
una speciale attitudine a risalire fino alle radici profonde del racconto,
mostrando di saper esplorare la regione immaginativa in cui, prima ancora di
trovare le sue forme, la comprensione narrativa delle cose e del tempo che le
connette, si fa cogliere nel suo più originario e problematico dischiudersi.52
Altro elemento comune a questi autori è la distanza che li separa
dall’autore-‐brand post-‐moderno. Si tratta infatti di persone che, prima
di tutto, si limitano a costatare che nel mondo in cui viviamo, per
ridefinire un proprio personale approccio alla "realtà", è indispensabile
lavorare con la viva umanità53, non essere garanzia di un prodotto, e lo
fanno sporcandosi le mani e sudando, distendendosi sul tempo,
facendo del caso il proprio compagno di lavoro, la propria bussola
52 P. MONTANI, L'immaginazione narrativa, Guerini e Associati, Milano 1999, p. 12 53 M. BERTOZZI, Storia del documentario..., cit., p. 256
41
paradigmatica, il proprio limite costruttivo e d’interpretazione del
mondo.
La cosiddetta rivoluzione digitale ha avuto un ruolo determinante
in questa scelta, perché ha fornito loro gli strumenti adeguati, che
dominano perfettamente, senza esaltazioni, senza inutili virtuosismi,
perché sanno benissimo che
tutte le innovazioni tecnologiche [...] risultano essere alla fine solo dei mezzi
accessori che non possono aggiungere molto a quello che è l'essenza del cinema: il
linguaggio del cinema stesso.54
Si tratta insomma di un cinema che Kiarostami, senza alcun
intento discriminatorio, definisce
il terzo cinema, un terzo fronte55. Un cinema che ...non dipende [...] né dai
circuiti di finanziamento né dalle possibilità di distribuzione ma, semplicemente,
dalla buona volontà -‐ dalla disponibilità -‐ di chi o cosa decide di filmare: individui,
istituzioni, gruppi. Il desiderio è al posto di comando.56
Un cinema povero insomma, ma con la "C" maiuscola
capace di volgere l’osservazione del reale in creazione artistica e conoscenza
del mondo.57
54 S. SAVORELLI, "Una fabbrica di fatti" e una valanga di bit. Le forme del documentario, in A. GIANNARELLI (a cura di), Il film documentario..., cit., p. 93 55 A. CICCONI, Riflessioni autorali su tecnologia, casualità e metodologia, in A. GIANNARELLI (a cura di), Il film documentario..., cit., p. 160 56 J. L. COMOLLI, Vedere e potere..., cit., p. 89 57 J. M. FRODON, Horizon Cinèma..., cit. p. 106
42
L’età dei registi è molto varia. Vanno dagli over trenta agli over
quarantacinque (va considerato che in Italia gli under quaranta sono
considerati giovani registi) e provengono da ambiti culturali eterogenei.
Spesso da studi di finzione. Hanno spiccate conoscenze delle discipline
psico-‐socio-‐antropologiche che traspaiono chiaramente nel loro modus
operandi. Spesso hanno anni d’insegnamento di cinema alle spalle o
associano la didattica universitaria alla realizzazione dei film.
La cosa certa è che la strada che seguono non è una soluzione di
comodo, anzi. Il cinema del reale, infatti, tolti i servizi televisivi, i
documentari naturalistici e i biopic storici, è in Italia un genere dalla
difficilissima diffusione ed anche quando si riesce a produrre e
distribuire un gran film, non si sguazza mai nell’oro, anzi. I pochi soldi
disponibili per altro vengono dalla televisione. Figuriamoci quindi cosa
resta per i loro film, che dal tipo di documentari che compra la tv, si
discostano sia contenutisticamente che formalmente.
Il luogo d’elezione delle loro opere è la sala cinematografica. Si
tratta infatti di film che contengono immagini pensate principalmente
per il grande schermo, non per gloria personale, ma per il fatto che
la sala cinematografica è uno dei pochi spazi rimasti dove, malgrado tutto, è
ancora presente un margine reale di sperimentazione sul linguaggio e soprattutto di
predisposizione da parte del pubblico ad accoglierlo58.
Per questi film di base documentaria, quello che sembrava essere
il principale handicap distributivo, il fatto cioè di essere pensati
tendenzialmente per la sala cinematografica (luogo nel quale i
58 L. Mosso, D. Zonta, I documentari salveranno il cinema italiano? in "Brancaleone", n. 1, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, pp. 64-‐85
43
documentari non hanno mai avuto vita facile), si sta rivelando oggi una
caratteristica vincente. È proprio il mondo del cinema di finzione,
infatti, storicamente considerato il fratello maggiore, intelligente e
ricco, che sta lasciando una parte del campo a questi curiosi
documentari.
Per andare oltre e capire come mai quest'attenzione stia venendo
a galla proprio ora e soprattutto per spiegare bene di che tipo di film
stiamo parlando, è stato necessario definire un criterio di scelta basato
oltre che sulle caratteristiche linguistiche dei film stessi, sul modus
operandi che accomuna i loro autori.
Tra le centinaia di registi che affollano la galassia cinema del reale
(che negli ultimi anni si è immensamente espansa), spiccano alcuni
nomi59: Alessandro Rossetto, Gianfranco Rosi, Pietro Marcello, Alina
Marazzi e Ilaria Frajoli, Leonardo Di Costanzo, Stefano Savona, Massimo
D’Anolfi e Martina Parenti, Agostino Ferrente, Alberto Vendemmiati,
Salvo Cuccia, Giovanni Piperno, Corso Salani, Gianfranco Pannone,
Marco Bertozzi, Andrea Segre, Enrica Colusso, Sergio Basso, Paolo
Pisanelli, Stefano Missio, Leonardo Brunetti, Tizza Covi e Rainer
Frimmel, Felice D'Agostino, Arturo Lavorato, Gustav Hofer e Luca
Ragazzi, Michela Occhipinti, il quartetto Marco Battaglia, Gianluca
Donati, Laura Schimento, Andrea Zulini.
Per il nostro studio, focalizzeremo l'attenzione soltanto su alcuni
di loro, scelti sulla base di otto caratteristiche che abbiamo stilato
osservando i film e il modus operandi degli autori e che riteniamo
59 Li abbiamo selezionati dal sito filmitalia.org tra quelli che hanno vinto dai 4 premi in su nei maggiori festival nazionali e internazionali di settore dal 2001 al 2010 e che hanno ottenuto più spazio in alcune delle riviste specializzate cartacee e on-‐line italiane (Close-‐up, Cinema sessanta, Cineclandestino.it).
44
indispensabili per poter parlare fino in fondo di un modo "altro" di fare
cinema. Esse sono:
1. L'assenza di sceneggiature predeterminate;
2. La realizzazione delle riprese in solitaria (o con troupe ridotte all'osso
quando assolutamente necessarie);
3. La centralità della relazione tra regista e protagonista/i;
4. La particolare abilità dell'autore a scomparire più possibile dal mondo
diegetico del film;
5. La predisposizione del regista e di tutti i collaboratori ad accogliere
l'imprevedibile presente nel "reale" e di portarlo dentro la struttura
formale del film, conservandone i tratti di imprevedibilità;
6. La distensione delle riprese sul tempo necessario. Quello cioè
necessario alla narrazione e alla relazione umana, non al mercato. Cosa
che, in alcuni casi, ha generato una tendenza a lavorare sul conosciuto,
sul vicino di casa, per poter stare (anche economicamente) dietro un
film che può durare "x" anni.
7. La tendenza al racconto del collettivo attraverso l’intimo. Cioè la
netta preferenza a raccontare l'individuo come specchio del sociale,
cosa che stride con l'idea che fino a oggi è stata quella del
45
documentario, nel quale la parola impegno, corrispondeva
automaticamente con la parola massa.
8. L’assenza di politica diretta nel contenuto dei film, sostituita da un
fare politico del processo cinematografico. La preferenza cioè di un
cinema individuale, in economia ma di alta qualità, tenendosi fuori da
modelli precostituiti e brandizzati, scegliendo liberamente i protagonisti
e i tempi di lavoro non commerciali. È così che questi autori
indirettamente fanno politica. È da questa silenziosa ma cosciente presa
di posizione nei confronti del loro lavoro, quindi del loro mondo, che
passa il loro impegno.
Seguendo questi parametri, il campo si è ristretto a pochissimi
autori che ci sembrano costituire un sufficientemente omogeneo e
radicale modello di pratica cinematografica. Li abbiamo scelti
verificando in linea diacronica la presenza costante delle suddette
caratteristiche all'interno della loro intera produzione.
Abbiamo invece escluso dal "gruppo" quegli autori che
rientravano nella casistica sporadicamente, magari con un solo film. In
quei casi, non ci è sembrato infatti possibile parlare di una vera e
propria scelta di campo.
Per lo stesso motivo abbiamo escluso anche alcuni autori che
hanno fatto delle "puntate" a questa metodologia documentaria con
risultati eccellenti ma che si sono distinti nel cinema di finzione al quale
sono principalmente riconducibili (ad esempio Vincenzo Marra di
"L'udienza è aperta" e Matteo Garrone di "Terra di mezzo" o di "Oreste
Pipolo fotografo di matrimoni").
46
Gli autori del cosiddetto cinema del reale che invece rientrano
appieno all'interno delle nostre caratteristiche e dei nostri criteri di
scelta sono: Alessandro Rossetto, Gianfranco Rosi, Pietro Marcello,
Leonardo Di Costanzo e la coppia Massimo D'Anolfi-‐Martina Parenti.
È nella radicalità del modo di fare cinema di questi autori, più che
altrove, che cogliamo la tanto decantata urgenza di cui il cinema
italiano ha assolutamente bisogno. Urgenza che questi registi hanno
ascoltato, ritagliandosi uno spazio di sperimentazione normalmente
negato dal "sistema cinema" italiano che, scosso dalla crisi identitaria,
culturale ed economica che sta attraversando il paese, sembra inizi ad
aprire gli occhi, accogliendo timidamente al suo interno l'omogenea
varietà di questo cinema possibile.
47
CAPITOLO II -‐ Fare cinema addosso
2.1. I film
Per la nostra analisi, abbiamo scelto un film per ogni autore.
Quello che, all'interno dell'intera filmografia, abbiamo ritenuto il più
rappresentativo del suo personale modo di fare cinema, rapportato alle
modalità operative comuni con gli altri autori del "gruppo".
Nella stesura delle singole schede dei film, abbiamo incluso anche
pezzi di interviste che abbiamo fatto con alcuni autori, inframmezzate
con quelle già realizzate da altri e con i giudizi critici di chi ha scritto su
di loro.
48
2.1.1. Below sea level: la forza della relazione
In una base militare dismessa e un poligono attivo, a 300 km a
sud-‐est di Los Angeles, 40 metri sotto il livello del mare, vive una
comunità senza polizia, governo, elettricità, acqua...
Con questa scritta, inizia la storia corale, di Ken e Lily, di Carol e
Wayne, di Mike, Cindy e Sterling. Quelli che altrove sarebbero definiti
homeless, ma che, come dice il regista, "non hanno nulla a che vedere
con i barboni". La loro vita in mezzo al deserto scorre in una situazione
estrema e tuttavia riproduce la normalità. Cucinano, leggono, fanno
l’amore, curano il loro aspetto, cercano lavoro, fanno musica, coltivano
sogni. Non hanno rifiutato la società, le convenzioni, la "normalità", ma
ciascuno di loro, per circostanze diverse, si è trovato fuori dalla società
in questo luogo apocalittico che è diventato la sua casa. Una città fatta
49
di camper e roulotte dismesse, dove tutti sono accolti bene, purché,
come racconta Kenny sdraiato sulla sua amaca auto costruita,
non faccia troppe domande. […] Tutti qui hanno una catastrofe alle spalle e
non hanno voglia di raccontarla al primo che passa. […] Non puoi suggerire a
nessuno di cambiare la propria vita.
Ci sono voluti cinque anni e dieci viaggi, oltre, s’intende, una
pregressa e approfondita frequentazione del deserto per fare il film, per
innamorarsi dei personaggi, lentamente, fuori dalle imposizioni dal
mercato cinematografico.
…è per questo che potrei far disperare un produttore: per me un film è
innanzi tutto un’esperienza umana60.
Il tempo necessario, questo è l’elemento centrale di tutto il
cinema di Gianfranco Rosi, che va in cerca di storie nella vita vera, per
riorganizzarle. Storie che sono la metafora di qualcosa che il regista in
un certo senso cerca già, ma che scopre solo strada facendo.
Io non penso mai "adesso voglio fare un film su questo o quello": prima viene
la mia esperienza esistenziale, poi questa mi porta lentamente verso il film, ma l’una
senza l’altra non può esistere61.
La storia, per Rosi, viene fuori vivendo "negli" altri che diventano
parti di lui. Così è iniziato "Below sea level".
60F. ROSSIN, Rendere racconto il quotidiano. Incontro con Gianfranco Rosi, in catalogo "Nododocfest3"
festival internazionale del documentario, 6-‐11 maggio 2009, p. 113 61 Ibidem
50
Ho vissuto in un camper per tre settimane, ho conosciuto varie persone,
finché non ho incontrato Bus Kenny, che sarebbe diventato uno dei personaggi del
mio film. Mi sono innamorato del suo modo di vivere e ho iniziato a frequentare lui e
quelli attorno a lui62.
Rosi non va mai in cerca di conferme, di una verità precostituita
ma alla ricerca di una verità da scoprire: il cuore delle persone che
sceglie dopo anni di lavoro come suoi personaggi. Una verità intima, che
il cinema nel suo farsi aiuta a venir fuori, anzi, rende possibile. Una
verità che non può che uscire dalla relazione vera. Dal lavoro su di essa.
Below sea level ne è un esempio altissimo.
Appena incontro una persona che sento mi potrà dare qualcosa, è come se
vedessi in lei qualcosa che le sfugge: il film per me è rincorrere ossessivamente nel
tempo questo qualcosa che ho intravisto e che voglio ritrovare, farlo riemergere
proprio stando vicino a quella persona e filmandola senza forzature né messe in
scena falsificanti63.
Distante anni luce dal presenzialismo alla Michel Moore che,
come lo stesso Rosi afferma
ha distrutto il linguaggio del documentario, l’ha trasformato in un reality-‐
show pseudo-‐politico,64
62 Ibidem 63 ivi, p. 114 64 Ibidem
51
quello di Rosi è invece un cinema in cui il regista scompare
intraprendo un vero e proprio viaggio con il protagonista attraverso una
storia tutta da scoprire.
Ma tornando al film, una volta presentati i personaggi da vicino,
fisicamente vicino, con il grandangolo, fin dentro le roulotte, il vero
salto d’intimità si manifesta intorno al cinquantesimo minuto del film,
momento in cui ci ritroviamo a letto con Wayne e Carol, sulle coperte,
insieme a loro e vediamo qualcosa che non ci saremmo mai immaginati
da due "barboni" semi alcolizzati: il sesso. Realistico, tenerissimo,
sospirato, con venature di violenza autodiretta.
Mentre Carol bacia Wayne nelle parti intime, lui insulta se stesso.
Continua a dire di non essere una brava persona; di non voler essere
una brava persona. Mischia sacro e profano, con frasi blasfeme dettate
dalla disperazione, dando a Carol della sacerdotessa di Dio e dicendo
poi di voler fare l’amore con lei.
È lo stupore continuo dell’umano che crea la vera drammaturgia
di questo film. Lento, come la vita degli abitanti del deserto, ma mai
52
noioso. Una drammaturgia ricreata da un montaggio essenziale (Jacopo
Quadri), senza sbavature, che riorganizza una vita fatta di piccole cose,
regolari, incerte, ma importanti. Una vita nella quale solo
apparentemente non succede nulla, forse anche grazie al film, al fatto
che una telecamera si è inserita tra le maglie del "reale", che racconta
da dentro ciò che resta delle vite dei personaggi, vissute probabilmente
in modo sbagliato. Chi può dire infatti se la telecamera stessa non sia
percepita dai protagonisti come una possibilità di cambiamento?
Questo non è dato sapere, né è ciò che si nota. La nostra è pura
supposizione perché Rosi è molto cauto su questo. Sta molto attento
alla connaturata violenza della telecamera. Quello che rende onore al
film è proprio il fatto che il regista non prende mai posizione, non
invade, non giudica, non disturba. Controlla il suo inevitabile potere fino
all'inverosimile. Sa benissimo che la m.d.p. 65 può essere aggressiva, se
usata male. Si limita a presentarci le vite dei protagonisti, le loro
idiosincrasie, le loro ossessioni, che diventano poi anche le sue; sempre
colte nel modo giusto, perché a lui già note.
Se in Boatman66 la mia presenza era ancora un po’ attiva, in Below sea level
io scompaio per lasciar essere e vivere, ma non ho certo l’illusione che le cose
avvengano per caso. Io sento che qualcosa può accadere perché è già accaduta e ne
sono stato testimone: il film non è altro che la messa in forma della ripetizione di
questo accadimento67.
65 Acronimo di macchina da presa. 66 Boatman è il primo film di Rosi, del 1993, dopo il quale il regista non ha prodotto altri lavori personali fino al 2008, anno di Below sea level. 67 F. ROSSIN, Rendere racconto il quotidiano..., cit., p. 114
53
La regia del film è fluida, semplice e rigorosa nello stesso tempo.
Si perde nella storia. Senza fronzoli. Debitrice del miglior cinema
americano. Un cinema corale, che ci fa pensare alla lezione di "America
oggi" o di "Nashville" di Robert Altman, non a caso uno dei registi
preferiti da Rosi, così come a John Cassavetes. È la stessa naturalezza
dei movimenti di macchina e il totale coinvolgimento dei protagonisti
visti nei film dell'autore di punta del new american cinema group a
ricordarcelo. Nei film di Cassavetes infatti, come in quelli di Rosi, non ci
si chiede mai se si tratta di una fiction o di un documentario. I
personaggi sono veri ed esistono all’interno di una storia. Il solo
discrimine è nella verità della storia stessa, della struttura, in quello che
l'autore vuole portare e soprattutto nella verità dell’incontro con il
personaggio.
Rosi, del resto, non poteva essere immune all'America, sua patria
cinematografica68 e sua seconda dimora per oltre 20 anni. Da questo
derivano i suoi riferimenti ad autori americani minori, sconosciuti in
Italia, come Ross McElwee, regista di "Sherman's March", un film del
1986 girato in prima persona, dal quale Rosi ammette di aver appreso
che i film nascono sempre dall'esperienza personale e singolare. Non a
caso i suoi riferimenti culturali sono Whitman e Thoreau, i grandi padri
dell'individualismo libertario americano.
La fotografia del film, a luce naturale, è curata dallo stesso regista
in maniera attenta e paziente. Una luce indispensabile per fare cinema.
68 Gianfranco Rosi ha seguito il master di cinema documentario alla New York University.
54
La forma per me nasce sempre e solo dalla luce, è la luce che ti detta la
forma in cui mettere le immagini, è la luce che ti scandisce il tempo – la magic hour
– in cui riuscire a coglierle al meglio69.
Rosi è infatti uno di quegli autori che mette il contenuto in forma
e non sacrifica mai quest'ultima ad esso. Lui sa che per ottenere dei
risultati che siano Cinema, bisogna sapere aspettare la luce giusta anche
a costo di perdersi qualcosa. Riprendere giusto per riprendere non è
mai una cosa utile. Aspettare è l'unica via con la luce così come con i
personaggi. Tanto le cose tornano, se le hai tenute per mano.
...nei miei film a volte spingo i miei “personaggi” a raccontarmi, una seconda
volta, davanti alla macchina da presa, una storia che avevo sentito raccontar loro
mesi o anni prima e che mi sta ossessionando perché dentro ci trovo una verità
straordinaria. Non faccio mai domande alle persone che incontro, mi limito ad
ascoltarle con tutta l’attenzione che ho in cuore, e non voglio nemmeno risposte:
cerco di tirar fuori un pezzo di vita che essi stessi, per i più disparati motivi, hanno
rimosso o nascosto o semplicemente dimenticato70.
Stare dietro alle cose, averne cura. Questo è ciò che conta e
questo è ciò che fa il personaggio di Michel/mike bright con la canzone
che tenta di comporre ininterrottamente e che non a caso dà il titolo al
film.
Mike è un tipo strano. Ha l’ossessione per gli insetti, le mosche in
particolare, che dal primo fotogramma a lui dedicato, detesta e uccide,
al contrario di tutti gli altri insetti, dei quali è un profondo ammiratore.
Lo capiamo della discussione/monologo con Sterling/water guy, nella 69 F. ROSSIN, Rendere racconto il quotidiano..., cit., p. 115
70 ivi, p.114
55
quale Mike dimostra di sapere tutto sugli insetti: l’evidente funzionalità
dell’esoscheletro; l’esatto numero di ali delle mosche e il loro perfetto
meccanismo giroscopico; l’evoluzione genetica del loro sistema
riproduttivo; a conti fatti, la loro superiorità sull’uomo. Tutto con uno
stupore per la vita "altrui", per la meraviglia del mondo, che non ci
aspetteremmo mai da un alcolizzato. Un'attenzione scopica quella di
Michel, che avvicina incredibilmente il suo sguardo a quello specifico
del cinema che ci interessa. Un cinema che guarda pongeanamente le
cose piccole e stupefacenti, come stupefacente è il mondo degli insetti.
Con stupore opposto Mike tratta la morte. Lo scopriamo nella
scena successiva, mentre va con Sterling nel deserto per spargere le
ceneri di Bill, un amico morto. Ceneri che i due disperdono con rispetto
ma senza alcuna ritualità, riportando la morte ad un semplice e ovvio
ritorno alla natura.
Ed è la volta di Cindy. Lo spaccato di storia americana più classica
che entra nel film in punta di piedi. Delicatissimo. Cindy è un travestito,
veterano del Vietnam, sui sessanta, che passa la vita a combattere
"quell’esperienza" curando se stessa e le sue parrucche, alle quali
sfrangia le punte in maniera asimmetrica, perché, come dice lei stessa:
“niente deve essere perfetto”.
Sei matrimoni alle spalle e due figli che non vede più. Un’attività
di parrucchiera messa su in quattro e quattr’otto dentro la roulotte e
identificata, praticamente, solo da un’insegna auto verniciata.
56
In tanti nell'accampamento usufruiscono del servizio di Cindy. Tra
loro Mike, che vuole un taglio di capelli come Phil Mickelson, il famoso
giocatore di golf o Lily/the doctor che deve telefonare per un colloquio
di lavoro e sa che può farcela solo quando si sentirà carina.
Cindy è la persona giusta, che sa ascoltare. È l’homeless più
pulito, più organizzato, che non nega mai un sorriso a nessuno. Sogna di
rifarsi i denti in Messico, dove Sterling le ha detto che può portarla.
Serve solo una patente e che si vesta in modo normale. I sei matrimoni
le hanno insegnato cosa piace agli uomini. Sogna ancora di trovare
quello giusto e quando lo troverà, giura di fronte a Lily, che lo renderà
l’uomo più felice del mondo. Sarà sempre bella per lui, lo vizierà, lo
servirà in tutto e per tutto, così che lui dica: “this is nice!”.
57
Come nelle drammaturgie che si rispettano, il dramma più grosso
è nella metà esatta del film quando Mike, dentro la roulotte illuminata
dalla luce rossa del tramonto, racconta della morte di sua figlia a Carol,
che, inquieta, lo sta a sentire. Un incidente di macchina. Una giovane
vita spezzata all’ultimo anno di liceo. L’inizio del declino di Mike. Ma il
dramma, nella vita vera, non è mai abbastanza. Per alcune persone al
peggio non c’è mai fine. Così è per Carol che, condividendo il dolore con
Mike, confessa che anche lei ha perso un figlio; nel modo più atroce:
ucciso a 22 anni dal compagno di lei, alcolizzato, che prima spara in
faccia a Carol e le conficca una pallottola che è ancora miracolosamente
li e poi colpisce il figlio che tenta di proteggere la madre con il proprio
corpo. Una tragedia greca della realtà, che Rosi ha scoperto in loco e
che apre a noi, definitivamente, le porte del cuore dei personaggi. Una
scena di pianto che in televisione genererebbe orrore morale e qui
invece è atroce e poetica verità.
Con una maestria da veri narratori, Rosi e Quadri, subito dopo,
stemperano la tragedia montando la scena della dolcissima canzone che
"insane" Wayne canta a Carol che ne ha ispirato i contenuti. La donna si
58
commuove di fronte a noi, alleggerendosi il cuore, solo per un istante,
mentre Wayne, incapace di sopportare psichicamente ogni momento di
calore umano, si sfoga dicendo di voler ammazzare Dio.
Dopo il midpoint71 del film, nella seconda parte, iniziano sempre
più a venire fuori le debolezze di tutti i personaggi. Mike ammette di
avere bisogno della seconda figlia, quella rimasta in vita, che non gli
risponde mai al telefono. Wayne chiede a Snow ball, il suo cucciolo di
cane bianco come la neve, di essere o amato o odiato, senza mezzi
termini, mentre lo bacia in bocca.
Piano piano comincia a venir fuori anche la debolezza di Lily e
Kenny, i due personaggi più "intellettuali" del gruppo, che non riescono
a stabilire una relazione sentimentale. Lily inizia a criticare Kenny,
giudicando il suo aspetto e il suo igiene personale.
71 Con midpoint Syd Field indica un anello della catena dell'azione drammatica che, quando lo si definisce dal punto di vista della struttura, connette la prima e la seconda metà del secondo atto, chiarisce il senso di direzione del secondo atto e consente di mettere meglio a fuoco gli aspetti specifici della storia. È un faro, una meta, un punto di riferimento, di arrivo, di guida nella complessità del secondo atto. S. FIELD, La sceneggiatura. Il film sulla carta, Lupetti e Co., Milano 1991, p. 111
59
La sua è solo disperazione e ricerca di un'identità che sta
smarrendo. Lily infatti ha perso tutto: la casa, il lavoro di medico e il
figlio. Gli avvocati divorzisti, insieme alla custodia del bambino, le hanno
portato via la vita.
Così Lily cura il suo corpo continuamente, dall’inizio del film fino
alla fine, come a preservarlo dall’invecchiamento. Non accetta di essere
come gli altri, lercia e puzzolente. Vuole vivere meglio. Vuole andare via
da là, ma non ne ha la forza e cerca aiuto in Kenny che invece sembra
aver raggiunto un equilibrio progettuale sulla sua vita.
Lily è terrorizzata che la sua monovolume, ultimo oggetto da
borghese rimastole, invecchi insieme a lei. Sente che la sua identità si
sta sfaldando. Così resta in attesa che la sua vita cambi, che un giorno
suo figlio, sentendo il bisogno di lei, magari la cercherà. È solo per
questo che vuole restare in vita, che nutre il suo corpo magrissimo,
ormai privo di qualunque sensazione, ma è troppo intelligente per
illudersi che sarà così. Sa di vivere per un futuro che non esiste. Ha
bisogno di aiuto, ma solo un’ammissione di sconfitta e un reale
cambiamento, possono risolvere il suo rapporto con Kenny e con se
stessa.
La sensazione che noi abbiamo a questo punto è netta: è proprio
la realizzazione del film che ha dato a Lily e Kenny, persone vere,
l’occasione di guardarsi dentro per ritrovare una collocazione
identitaria. Una ricerca d'identità che appartiene oggi al cinema stesso,
che lo riguarda da vicino. Ciò denota la modernità dello sguardo di Rosi,
che si manifesta proprio nella sua passione per personaggi come questi,
nel modo in cui la m.d.p. si insinua in un rapporto come quello tra Lily e
Kenny, divenendo un mezzo per incontrarsi. L'esatto contrario dell'uso
60
televisivo delle telecamere, che separano e cercano lo scontro come
fine ultimo. Qui la m.d.p. unisce davvero. In "realtà".
Grazie alle discussioni con Lily, amplificate dal film, Kenny, per la
legge del contrappasso, decide che non passerà un’altra estate nel
deserto. Lo vediamo per l'ultima volta mentre va via da li.
Anche Mike, alla fine del film, raggiunge uno scopo. La canzone
che si è sforzato di comporre è pronta. S’intitola “Below sea level”. Non
resta che cantarla sguaiatamente al "Talent show", una serata che i
nostri personaggi organizzano nel deserto, tra le roulotte. Un modo
come un altro per ingannare il tempo. Ma un altro errore, l’ennesimo
della sua vita, è dietro l’angolo e Rosi, mano alla macchina, non se lo
lascia sfuggire. All’attacco del pezzo Mike stona e i musicisti
s’interrompono. Poi, sui titoli di coda, la canzone riparte. Stonata.
61
2.1.3. La bocca del lupo: la libertà della forma
Pietro Marcello è il più giovane del gruppo. Non proviene da
nessuna scuola di cinema “ufficiale”, da nessun percorso preciso. La sua
non è stata la classica gavetta cinematografica all’italiana. Viene
dall’indipendenza, dall’autoproduzione. Anche da questo deriva la sua
libertà formale, la sua capacità di districarsi all’interno dei diversi
registri narrativi e visivi che porta avanti nel film. Tutti pericolosamente
instabili, ma molto ben amalgamati, soprattutto dal punto di vista
estetico.
Un cinema, quello di Marcello, che non appartiene a nessuna
linea identificabile perché si rende libero. Una libertà che viene dalla
capacità di rischiare e che traspare nella forma stessa del film. Ecco
perché, quando si parla de "La bocca del lupo", si parla di "aurora di un
62
cinema italiano in rinascita"72. Rinascita, ci teniamo a evidenziare, che
in questo caso è sostenuta da una grossa casa di produzione, la "Indigo
film" (quella che ha prodotto "il divo" di Paolo Sorrentino), ma che non
sarebbe mai esistita senza la spinta della fondazione S. Marcellino di
Genova, che si occupa di emarginazione sociale e non di cinema. È così
che funziona la produzione dei film "difficili" in Italia. Ci vuole spesso un
motivo esterno al cinema per farli.
La scelta della "Indigo film" di investire oltre che i soldi, anche le
energie promozionali, è comunque una grande novità, un'altro dei
meriti del digitale e del cinema di cui ci occupiamo. La svolta digitale e
questo tipo di autori, infatti, oltre ad aver prodotto un salto di
linguaggio, stanno anche cambiando il modo di concepire la
produzione, che volente o nolente deve adattarsi. Escludendo i cine-‐
panettoni e le commedie, si può dire che è finito il tempo dei milioni di
euro spesi per un film che si può fare realisticamente con un terzo della
spesa. Il futuro, secondo noi, è dei film fatti con poco da un lato e dei
colossal-‐evento plurimilionari alla "Avatar"73 o alla "Baària"74 dall'altro.
Che ben venga questa distinzione profonda. Che ben vengano questi
differenti momenti collettivi. Ognuno con lo spazio sociale adeguato. Se
tutto ciò significherà poter produrre più film.
Ma andiamo ai contenuti. Il film parte quando Enzo, uno dei due
protagonisti del film, dopo essere sceso al volo dal treno che lo ha
riportato a Genova dopo 14 anni, si dirige verso casa attraversando la
città. I luoghi del suo passato sono stati intaccati in modo profondo 72 F. BOILLE, Intervista Pietro Marcello. Disadattati e marginali fondarono l'Italia, possono rifondare il cinema, "Cineclandestino.it", 23 marzo 2010 73 Avatar di James Cameron, 2010 74 Baària di Giusepppe Tornatore, 2010
63
dallo scorrere del tempo. La Genova della sua infanzia sembra svanita
nel nulla, ce ne rendiamo conto attraverso le immagini di repertorio
della città che Marcello utilizza in modo affatto didascalico e che
saranno uno dei leitmotiv del film. Il senso di queste immagini è
sottolineato dall’equilibratissima voice over di Franco Leo che legge un
testo poetico scritto dallo stesso Marcello:
I luoghi che attraversiamo sono archeologie di una memoria, desideri
sconosciuti, ricordi proibiti di un mondo scomparso […] altri ricordi si poseranno tra
le macerie dimenticate, come naufraghi sulla terra, trasparenti, intoccabili. Un altro
tempo, ha altre vite da vivere.
Questo sapore di dismissione aleggia in tutto il film, che alterna
appunto filmati di repertorio amatoriali, il cosiddetto found footage,
sempre più presente all’interno dei documentari di ultima generazione,
a immagini girate dal regista in prima persona. Il passaggio tra i formati
è sempre fluido, caratterizzato da monocromatismi generati in post-‐
produzione sulle immagini di repertorio, semplicemente accentuando il
tono presente nelle immagini in Super875, al fine di armonizzarlo con
quelle del girato, senza mai essere estetizzante o effettistico.
Si passa così da una dominante blu-‐viola "congenita" della
pellicola amatoriale, a quella delle luci fredde delle immagini video di
oggi.
75 Formato amatoriale di pellicola diffuso fino agli anni 70 e oggi usato solo da alcuni filmmaker sperimentali. In Italia le tratta la Zenith Arti Audiovisive di Torino, www.super8.to.it.
64
Lo stesso succede con l’ambra, altro colore prediletto, delle
pellicole Super8 daylight, leggermente virato e associato a quello
"elettronico" del tramonto ripreso. Immagini come quadri, delle quali
Marcello non può che curare anche la fotografia, stando in macchina.
L’estetica delle immagini e il racconto, in questo film, sono un
tutt’uno, così come dovrebbe sempre essere, invece spesso non è.
Capita infatti di frequente che l'estetica delle immagini, nei
documentari italiani, sia considerata quasi un accessorio; qualcosa da
sacrificare al contenuto.
Causa che è probabilmente da individuare nella seconda metà degli anni
settanta, periodo in cui il telegiornalismo ha tagliato le gambe alla produzione dei
documentari e fenomeni come il terrorismo hanno un po’ "censurato" il lavoro sulla
65
realtà con uno sguardo non ideologico, criminalizzando così nel documentario la
ricerca estetica, che ancor oggi fa fatica a non essere considerata "roba da
borghesi"76.
Nel cinema documentario per come lo intende Marcello invece
non è mai così. Forma e contenuto camminano insieme, nello stesso
istante in cui si cattura un'immagine, perché le due cose sono
inscindibili. Dato ovvio ma non tanto, nella pratica.
È la libera manipolazione delle immagini, accostata al volto più
vero del vero di Enzo e alla naturalezza estrema di Mary, uno dei
principali motivi per cui risulta difficile collocare questo film. Cos’è? Un
documentario, un video d'arte o un film di finzione ci si chiede? Una
storia d'amore o un documentario sociale?
Non ha alcuna importanza, perché Marcello, molto
semplicemente, non si pone il problema. È proprio questa assenza di
scelta di campo ab origine che fa gridare al film come a un genere mai
visto. È la disomogeneità l’elemento fondatore di una nuova
omogeneità. Una frammentazione interna che è quella in cui tutti
viviamo. Una parcellizzazione delle nostre esistenze che difficilmente
riescono ad armonizzarsi. Cosa che Marcello invece riesce benissimo a
fare, sia con le immagini, sia con la scelta dei protagonisti del suo film.
Ecco perché è così bello vedere messe in forma le esistenze di chi la vita
la prende a morsi, di chi l’ha distrutta davvero e fa di tutto per
ricomporla. È un sollievo, una speranza di unità, che ci fa sentire meglio
per poco più di un’ora. Ecco perché la storia de "La bocca del lupo"
76 IGNOTO, Appunti di viaggio. Intervista ad Alessandro Rossetto, in "Padovanet.it", 14 dicembre 2004, s.p.
66
riguarda tutti noi, anche i benpensanti, anche chi giudica quelli come
Enzo e Mary per partito preso: non sanno che hanno bisogno di loro,
così come Enzo ha bisogno di Mary e Mary di Enzo. Un bisogno
essenziale, evidente nella scena in cui Enzo torna a casa e trova un
piatto caldo in tavola. È l’idea più "finzionale" del film, quella che ci è
piaciuta meno, ma che simboleggia l’attenzione perpetua di Mary, la
compagna di una vita, per Enzo.
"La bocca del lupo" è un film che parla di oblio e di amore
incondizionato. Oblio di una Genova che fu, della quale restano ormai
solo tracce negli edifici puntellati e nei volti degli abitanti, e amore
incondizionato che Mary, un travestito che abita tra i caruggi, prova
per Enzo, un ex galeotto appena uscito di prigione.
Mary lo ha aspettato per 14 anni, pazientemente, provando a
calmare i suoi scatti d’ira in cella e lui gliene è grato e la ama con feroce
tenerezza.
Ti amo, bastarda! […] Io ti amo più della mia vita […] Se tu mi fai le corna
quando esco, ti ricordi quando a casa ho spaccato quel pollo? Così spacco a te.
Sono minacce orrende, deprecabili, se non messe a paragone
visivo con la tenerezza dei gesti di Enzo e la serenità di Mary. Parole
violente, filtrate però da una fiducia reciproca che le fa sembrare un
gioco.
Anche attraverso frasi del genere, i due amanti hanno mantenuto
l’intensità del rapporto con uno scambio continuo di lettere e di
audiocassette registrate con la voce di entrambe. Lettere che il regista
usa sapientemente come leitmotiv del film insieme a un testo
essenzialissimo letto fuori campo dalla stessa Mary. Una voce colta e
67
profonda che ci racconta la vita di Enzo mentre lo vediamo camminare
in città per sbrigare le sue cose.
È questo il primo atto di fiducia dei protagonisti nei confronti del
regista e del film. Mettere in mano ad uno sconosciuto dei documenti
così intimi non è da tutti, così come non è da tutti riuscire a farseli
consegnare. Ci sono voluti mesi di lavoro per arrivare a questo, per
guadagnarsi la fiducia, per entrare in contatto. Non si tratta qui di avere
il permesso di frugare in cantina. Si tratta di tirarsi il cuore fuori dal
petto. E la differenza si vede.
Di Mary non sappiamo ancora niente mentre la sentiamo parlare.
Appare nel film dopo venti minuti, in punta di piedi, come una tra le
altre prostitute del vicoletto. La discrezione che contraddistingue il suo
personaggio, è magnificata da un’idea registico-‐fotografica essenziale
ma efficacissima: farla apparire dal buio della stanza, prima in
silhouette riflessa nello specchio e poi sulla soglia, per un istante.
Emozione ottenuta con l’uso dell'ottica giusta (un leggerissimo
teleobiettivo) e un montaggio fluido che la presenta in mezzo a
immagini rouchiane77 dei vicoli, che la "naturalizzano" alla perfezione.
Si tratta d'immagini stracolme di elementi casuali: ci sono i trans
che parlottano tra loro e poi scherzano con un vecchietto che di sua
spontanea volontà si mette in posa per il film; c'è un gruppetto di
extracomunitari che discutono animatamente senza accorgersi della
m.d.p.; c'è un ragazzo che passa afferrando al volo una bottiglia con
fare minaccioso. 77 Jean Rouch è l'esponente di punta del cinema diretto francese a forte connotazione antropologica. Precursore e compagno di strada della Nouvelle Vague, inventore della cine-‐transe. Effettua le sue riprese, telecamera in spalla, partecipando agli eventi filmati e praticando un’antropologia condivisa in cui fiction e il documentario si compenetrano. Inventore di una pratica della ricerca etnografica nuova, egli crea un cinema del reale che è al contempo descrizione, interpretazione e documentazione fondata su principi etica molto forti.
68
È in mezzo a tutto questo che comincia a venir fuori chiaramente
la figura eccessiva ma elegante di Mary, invero timidamente in posa, ma
sincera, che resta a guardare dalla soglia, come da una posizione
privilegiata, che è poi quella della sua origine sociale78. L'abbiamo già
intuita dal suo modo di parlare, colto e pacato, che anche Enzo
apprezza, tanto da scrivere a caratteri cubitali sul suo carretto: “amore
come parli bene”.
In questa sequenza e in tutto il film, siamo vicinissimi a Fabrizio
De Andrè, al quale è impossibile non pensare quando si guarda “La
bocca del lupo”. Quelli che si vedono nel film sono i suoi vicoli, oggi
abitati da altri "viandanti". Nessuno più di lui, che come Mary veniva da
una famiglia della Genova bene, ha saputo raccontare un mondo che
non gli apparteneva per nascita. Gente con altre storie, con altre
opportunità, che però De Andrè capiva benissimo, sentiva
visceralmente.
Di visceralità si parla quando si analizza la regia di Pietro
Marcello, che guardandosi bene dal citare apertamente De Andrè o
78 Mary viene da una famiglia dell’alta borghesia romana. È finita negli anni '60 a Genova, città dove si sono formate le prime comunità transessuali. “Chissà se Mary fosse nata in una famiglia un po’ più emancipata riguardo alla sessualità, forse non finiva risucchiata nei caruggi di Genova, non finiva in quell’ambiente”. F. BOILLE, Intervista Pietro Marcello..., cit., s.p.
69
dall’usare le sue canzoni, ha saputo raccontare l’anima di un luogo ed
ha saputo compatire79 la gente che vi appartiene proprio come lui.
Rispettando le loro vite. Lo fa mescolando i generi cinematografici sui
quali però il metodo documentario primeggia perché è l'unico possibile
per raccontare una storia come questa.
Sono convinto che se Enzo si fosse trovato in una circostanza diversa, con un
regista diversamente strutturato, un po’ più da industria del cinema, sarebbe stato
impossibile farci un film. Enzo è una persona molto particolare, una persona che ha
passato quasi trent’anni in galera. Non ha mai avuto a che fare con persone diverse
da quelle della malavita conosciute in galera oppure fuori. È stata anche una
scoperta dell’altro: lui si è fidato di noi, noi ci siamo fidati di lui. Chiaramente
all’inizio era un po’ più complesso fargli capire cosa fare, cosa non fare. Poi, però,
pian piano si è costruita una modalità di realizzazione del film, e negli ultimi giorni di
ripresa era bravissimo. All’inizio era più complicato, ma già si vedeva che era bravo,
che poteva riuscire molto bene in questa avventura.
Malgado la natura fondamentalmente documentaria, nel film ci
sono anche sequenze che tendono esplicitamente alla videoarte e al
film d'avanguardia, frutto probabilmente degli anni di studi di Marcello
all’Accademia di Belle Arti, poi abbandonata, del tempo speso nei
cineclub o più ancora dei pomeriggi passati nell'atelier vicino casa80. Alla
videoarte ad esempio fa riferimento un'inquadratura che prelude ai
titoli di coda, in cui le onde del mare, rosse come il fuoco e
rallentatissime, ricordano la "fluidità elettronica" di alcuni esperimenti
79 Nel significato di "soffrire insieme" etimologicamente derivante dal latino compăti, costituito da cum latino (con) e dal greco πασχω (soffrire).
80 "ho iniziato a frequentare fin da molto piccolo un atelier di pittura. Era un atelier per pensionati che insegnavano: c’era il maestro Carpine, un vecchio pittore. Così ho cominciato ad avere un approccio con la pittura, frequentando questa scuola". F. BOILLE, Intervista Pietro Marcello..., cit., s.p.
70
di "Studio azzurro" ("Storie per corse", 1985; "Il fuoco, l'acqua e
l'ombra", 1998). II cinema d'avanguardia invece prorompe nella
sequenza del racconto della sparatoria tra Enzo e i carabinieri, che con
un montaggio-‐sovrano Vertoviano 81 , (impossibile non pensare ad
alcune sequenze de "L'uomo con la macchina da presa", 1929), associa
le immagini della città del tutto simili a quelli delle "city symphonies"82
con un rimasuglio di cinema post-‐moderno.
81 La teoria del montaggio di Dziga Vertov, parte dal netto rifiuto dei film di finzione basati su una sceneggiatura scritta e sulla recitazione, ai quali egli contrappone un tipo di documentario fondato sull’osservazione minuziosa del mondo reale attraverso la m.d.p.. Per Vertov il montaggio è l’unico mezzo a disposizione del regista per organizzare il materiale girato e strutturare i film. Esso è cioè un’estensione sintagmatica in grado di incrementare il potere di osservazione del cineocchio (kinoki) e non uno strumento di manipolazione calcolata del pubblico come per Ejzenstejn. 82 City Simphonies o sinfonie delle città, sono definiti una serie di fillm degli anni '20 il cui soggetto principale era la vita all'interno delle città metropolitane, all'epoca di piena espansione. Alcune tra le più note: “Berlin, Symphonie einer Grosstadt” di Walter Ruttmann (1927) “Rien que les heures” del brasiliano Alberto de Alméida Cavalcanti (1926), “Moskwa” (1926) del russo Miçhail Kaufman, "Stramilano" di Corrado D'Errico (1929), “A’ propos de Nice” di Jean Vigò (1929). La caratteristica era la spontaneità delle ripresee il ruolo fondamentale del montaggio e della musica, usata come base strutturale per le immagini.
71
Quest'ultimo riscontrabile anche nella giustapposizione degli
spezzoni di film d’epoca ai nomi dei carabinieri, detti Cocis e l’Indiano,
pronunciati da Enzo durante il racconto della sparatoria avuta con i due
tutori della legge.
Il gusto post-‐modernista della citazione, ritorna ancora, più
avanti, con l'utilizzo di strisce a fumetti, nel momento in cui Mary ci
racconta di Enzo forse nella speranza di mettere in luce il suo amato agli
occhi del regista, sottolineandone le potenzialità.
... [Enzo] ha sprecato la sua vita per delle cavolate […] invece di fare…non
so…dei corsi di recitazione. Avrebbe potuto fare l’attore con il suo aspetto. Sfondare
nel mondo del cinema.
72
Potenzialità delle quali Marcello è perfettamente cosciente e
convinto quando dice:
Credo che nel cinema un volto sia tutto. Ad esempio, un volto come quello di
Enzo racconta una storia anche se resta in silenzio. Una fisionomia così ti fa il film,
ed infatti Enzo è straordinario. I suoi silenzi sono altrettanto straordinari, anche se
legati al fatto che è stato tanti anni in galera dove ha imparato a stare fermo. Non
tutti notano questo aspetto perché non lo sanno. Io, avendo lavorato in carcere, lo
so. A star tanto tempo in una cella, impari a stare fermo, a controllare realmente il
tuo corpo. E lui riesce a controllarlo molto bene83.
Ma veniamo all'aspetto che più ci interessa. Quello che riporta
questo film così ibrido al documentario che gli scalpita dentro. Ci
riferiamo alla lunga intervista (quasi 13 min.) che Marcello e Sara
Fgaier84 scelgono di posizionare nella parte finale del film, tutta intera,
senza stacchi.
È questa la scelta registica e di montaggio (molto discussa tra gli
addetti ai lavori), che più di tutte manifesta la specifica necessità del
linguaggio documentario in un film così anomalo.
Questo lungo piano sequenza, che a una prima visione sembra
quasi spurio, giustapposto, con uno stile diverso dal resto del film, noi lo
leggiamo come una forma di rispetto per i protagonisti e per il cinema
stesso. Segno di una grande conoscenza delle differenze linguistiche
appartenenti ai generi utilizzati, oltre che un'ammissione di
impossibilità di intervento da parte del regista e della montatrice sul
tempo reale della vita. Spezzare l'intervista avrebbe significato infatti
83 F. BOILLE, Intervista Pietro Marcello..., cit., s.p. 84 Sara Fgaier montatrice de "La bocca del lupo".
73
nascondere la vera natura del rapporto tra Enzo e Mary che,
nell'intervista distesa sul tempo necessario, che in questo caso non è
quello cinematografico ma quello dei sentimenti veri, può esprimersi al
massimo.
...è stata una delle ultime cose che abbiamo girato, abbiamo impiegato sei
mesi per raccogliere la loro testimonianza. [...] Enzo e Mary nel frattempo si erano
abituati a guardare in camera. [...] Avevano desiderio di raccontarsi85.
È proprio la posizione dell'intervista nell'economia generale del
tempo narrativo del film che ci colpisce. Essa infatti, creando una sorta
di "parentesi realistica", riconosce all'elemento più classico del
documentario (l'intervista), la forza necessaria ad affrontare il racconto
85 F. BOILLE, Intervista Pietro Marcello..., cit., s.p.
74
della vita e inserisce Marcello, seppur con il suo stile così ibrido, tra i
grandi autori di documentario. La staticità dell'intervista, messa in netto
contrasto con il resto del film, permette di ottenere un effetto di
approfondimento documentario affatto banale. È anche la sua
posizione, alla fine del film, come un appendice, dopo che abbiamo
conosciuto Enzo e Mary, che ci permette di considerarla come un
secondo livello di conoscenza, che va più in profondità. Ed è proprio sul
concetto di "intima profondità" che il linguaggio documentario ritrova
casa nel film. Marcello lo sa e lascia che l'intervista scorra, scomparendo
più possibile. Da eccellente documentarista, fa quel passo indietro che è
richiesto, senza paura di entrare in conflitto con lo stile registico del
resto del film. È così che lo spessore della storia di Enzo e Mary può
venire fuori veramente, solo lasciando al linguaggio documentario più
puro e ai personaggi stessi il compito di raccontarsi da sé.
75
2.1.4. Chiusura: un mondo di im-‐segni86
"Chiusura" è il secondo film di Alessandro Rossetto sul nord-‐est
italiano. Dopo "Bibione bye bye one", del 1999, il regista ritorna nei
luoghi dove è nato e cresciuto: Padova. Zona Guizza. È la vigilia di natale
e dopo 44 anni, il salone di parrucchiera di Flavia, la madre di Rossetto,
chiude. Prima ancora di vedere le immagini, sul titolo e sul nero,
qualche secondo di chiacchiericcio. Rumore di acqua, voci di donne dal
tono familiare. Entriamo così nel mondo del salone da parrucchiera di
Flavia e nell'universo morbido e continuo del cinema di Rossetto.
Chiusura è un film pieno di dolcezza e nostalgia, senza mai,
neanche per un istante, essere melenso. Sin dalle prime immagini si 86 Pasolini fa notare che il cinema, al contrario delle lingue, non possiede l'equivalente delle parole, non possiede cioè termini con un significante astratto e un significato preciso. Esso è privo cioè di un codice predefinito. Prova ne è che non esiste alcun dizionario generale delle immagini. Malgrado ciò il cinema viene compreso senza problemi, anzi con estrema facilità. Ciò avviene perchè il cinema comunica ricorrendo all'evidenza del reale, "copia" cioè la realtà e si manifesta direttamente come un linguaggio, inventandosi volta per volta i propri segni, che Pasolini chiama gli im-‐segni. P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, p. 38
76
capisce che siamo davanti ad un maestro. Un occhio inquieto ma sicuro,
che si muove con scioltezza tra gli im-‐segni confusi tra le cose. Riuscire
ad individuarli, per Pasolini, significa riuscire a leggere il mondo, cosa
che a Rossetto riesce benissimo, frammentando la ripresa in
continuazione, adeguando ad ogni inquadratura la m.d.p. al suo
sguardo che danza e si ferma, sottraendo all'informe flusso della
"realtà" quadri densi di vibrante poesia del quotidiano.
All'interno di questo magma armonico senza apparente soluzione
di continuità, basta un'inquadratura: la mano di Flavia che accompagna
"a vuoto" il movimento del corpo di una cliente che si sta alzando dalla
sedia, per raccontare la meravigliosa "deformazione professionale" di
chi si è preso cura degli altri per una vita intera.
Il salone di Flavia è prima di tutto un luogo d'incontro per le
anziane donne che lo frequentano assiduamente e che sono il leitmotiv
del film. Un salone come mille altri, tipico del nord-‐est. Arredi e posters
immutati dagli anni '70. Clienti fedeli e affezionate, che si fanno toccare
la testa solo da Flavia e che si lasciano riprendere in primissimo piano,
in bigodini, con la tintura nei capelli o mentre Flavia strappa loro i peli
superflui. Potenza della m.d.p. di Rossetto che sta alla giusta distanza,
spesso scendendo in dettagli minimi che diventano segno puro. Piccoli
pastelli organici che ci stupiscono per la loro bellezza.
Tutto nel salone è tempo. Quello trascorso, quello presente.
Tempo nel quale Rossetto s'immerge totalmente per restituircene
l'essenza più pura. Il tempo della vita che passa, raccolto nelle parole
delle clienti che parlano di malattia, di amore e di cose minime e
personali. Tempo storico nei commenti che le stesse fanno sul
presidente Reagan, sulla guerra etnica in Rwanda, sulla febbre aviaria,
77
sforzandosi di sfatare il luogo comune del gossip da parrucchiera
presente in altre scene. Tempo cinematografico della pellicola che
scorre nell'Arriflex 87 16mm, che riesce a essere snella come una
handycam88 . Rossetto in questo film sceglie di girare in pellicola,
malgrado il maggior ingombro della macchina e la necessità di altri
collaboratori. Si tratta di una scelta estetica, fatta con Gian Enrico
Bianchi89, per ottenere una "pasta" dell'immagine che gli è cara, che
corrisponde a un coerente punto di vista estetico sul mondo. Una lente
onirica, funzionale ad uno stile visivo che appartiene a Rossetto sin da
"Fuoco di Napoli" e da "Bibione bye bye one"90. Ma, crediamo noi, si
tratta anche di un rapporto più "fisico" con la m.d.p., con il suo peso, il
suo equilibrio. L'abitudine all'uso che diviene affettività. Relazioni quasi
simbiotiche che si creano con gli strumenti di lavoro quando essi
vengono usati davvero. Relazioni dure da abbandonare, come per Flavia
appare duro separarsi da spazzola e phon. Una delle peculiarità di
Rossetto è infatti la sua fusione con il mezzo che ne determina la
bravura e lo distingue da altri colleghi molto meno attenti all'aspetto
pratico del cinema.
Malgrado l'Arriflex, Rossetto, rimane, come sempre invisibile.
Ecco la prova che la tecnologia è di grande aiuto ai registi ma non
fondamentale per scomparire dalla scena. Ciò che conta è il talento e il
lavoro sull'umano. Il tempo trascorso con il soggetto, la pazienza e
soprattutto la disponibilità di quest'ultimo di lasciarsi riprendere.
87 Nota marca di cineprese. 88 Per Handycam s'intendono le piccole telecamere prosumer utilizzabili con una sola mano. 89 Coodirettore della fotografia. 90 Fuoco di Napoli (1997); Bibione bye bye one (1999). I primi due film di Rossetto.
78
Disponibilità che nasce dal lavoro sulla relazione, che richiede tatto e
capacità psicologiche non comuni.
Certamente in questo film l'autore è aiutato dal fatto che la
protagonista è sua madre e il salone il luogo dove è cresciuto. Tutti li
dentro lo conoscono sin da bambino, cosa che certamente gli ha
permesso di anticipare il reale91, ma non è detto che questo sia solo un
vantaggio. Dietro l'angolo c'è infatti il rischio di troppo coinvolgimento
emotivo, di non avere la giusta lucidità nei confronti di un momento
così particolare della vita di Flavia, il che potrebbe trascinare il regista-‐
figlio e quindi il film, giù per il pendio personalistico. Rossetto se ne
guarda bene. Come lui stesso ammette, il suo sguardo non è coinvolto,
anzi è piuttosto freddo 92 , probabilmente aiutato dagli studi di
antropologia visuale, disciplina che fa del giusto distacco la propria
regola ferrea93. L'obiettivo principale è infatti quello di raccontare la
chiusura di un'attività lavorativa, mettendola in correlazione con un
esterno immediatamente prossimo che il regista, aiutato dalla casualità,
sceglie di rappresentare seguendo una squadra di calcio femminile e un
circo che si sta istallando in zona. Parallelismo interno/esterno sul quale
afferma:
91 "...il film nasce da ricordi molto intimi e da un passato di appartenenza che mi ha permesso di anticipare il reale". L. LAZZARIN, La poetica del quotidiano. Alessandro Rossetto, in "Padovanet.it", 14 dicembre 2004 92 Ibidem 93 A. ARTONI, Documentario e film etnografico, Bulzoni, Roma 1992
79
Il collegamento è azzardato. È un collegamento poetico, intimo, non del tutto
equilibrato [...] All’inizio l’idea della squadra femminile di calcio non mi era chiara e
il circo non era previsto94.
A noi sembra invece che tutto sia armonizzato alla perfezione
proprio perché il film segue una narrazione cinematografica che non
risponde alla regola letteraria del "fuori tema", perché il cinema-‐cinema
come quello di Rossetto, risponde a regole associative di natura
poetico-‐esperienziale, che nulla hanno a che fare con quelle logiche.
Il regista parte dall'unica cliente giovane del salone, una
giocatrice di calcio, per uscire dal negozio e dalle inquadrature
ravvicinate e far prendere così un po' di aria al film. La ragazza lo
introduce all'interno degli spogliatoi, del campo di calcio e nella vita
della squadra in crisi; generando uno spaccato del nord-‐est fuori dagli
schemi. Niente droga, macchinoni e alcool. Niente fabbrichette e figli di
papà. Solo un po' di noia e tanta nebbia, usata nell'immagine con
antonioniana abilità95. Con il maestro di Ferrara, Rossetto condivide a
nostro avviso la capacità di lettura dei diversi strati che compongono
l'immagine. Quegli strati infiniti che Antonioni ha cercato di raggiungere
per tutta la vita pur sospettando la loro ontologica irraggiungibilità96.
94 L. LAZZARIN, La poetica del quotidiano..., cit.
95 Pensiamo a Michelangelo Antonioni in particolare a "Il deserto rosso" (1964). 96 In un'affascinante ipotesi del 1964 (del tutto teorica), ragionando sulla latentificazione, un procedimento tecnico che consente di scoprire nella pellicola impressionata, elementi che il normale sviluppo non rivela, Antonioni sostiene che "soltanto la nostra arretratezza tecnologica non consente di rivelare tutto ciò che c'è sul fotogramma. Secondo il regista ferrarese, infatti, sotto l'immagine rivelata ce ne un'altra più fedele alla realtà e sotto quest'altra un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di quasiasi immagine, di qualsiasi realtà". M. ANTONIONI, Riflessioni 1964, "Prefazione, in", Sei film, Einuadi, Torino 1964
80
Le scene del circo alleggeriscono il film e svelano la capacità del
regista di penetrare mondi appena conosciuti così come quelli
famigliari; con un sapore che ha del "classico" cinematografico. Come
non pensare infatti alla passione di Rossetto per un altro dei grandi
maestri italiani, che con il documentario ha a che fare più di quanto si
possa pensare97: il Fellini di "Roma" (1972), di "Amarcord" (1973) e
appunto de "I clowns" (1970) .
Associazioni, sia quella con Antonioni che quella con Fellini, che
potrebbero sembrare azzardate, visto che proprio loro sono gli autori
che hanno decretato la fine del neorealismo che ha sostituito di fatto il
cinema documentario in Italia per oltre trent'anni98. È invece proprio
con loro che Rossetto ha contratto un debito, con la loro ricerca della 97 Il cinema di Fellini può essere considerato per certi versi come la documentazione di un sogno biografico ad occhi aperti. I suoi film principali hanno infatti un legame con l'esperienza personale e con ricordi di fatti realmente accaduti nell'infanzia dell'autore, pur avendo un tono estremamente onirico che contraddistingue lo stile del regista. 98 Durante il neorealismo veniva lasciato al cinema di finzione il compito di rappresentare la realtà, cosa che ha bloccato per certi versi lo svilluppo del cinema documentario italiano dagli anni '40 fino agli anni '70.
81
"realtà" dentro le cose (siano esse le immagini stesse o i ricordi sognati)
e non quella delle cose immediatamente visibili. Grazie a questi nuovi
sguardi d'autore, il cinema italiano ha ricominciato a mettersi in
discussione e a cercare nuove strade che a noi sembra sfocino proprio
nel cinema documentario di cui parliamo più che nel cinema di finzione
contemporaneo.
Ciò che in "Chiusura" lega i tre elementi della storia è il fatto che
tutti, anche se in maniera diversa, stanno giungendo alla fine di un
percorso. Il circo, nel finale del film, si sposta per riaprire da un'altra
parte; la squadra, che naviga in cattive acque ed è l'ultima del
campionato, vuole salvarsi; il salone invece chiude, per sempre. "Anche
i sentimenti hanno una scadenza" -‐ dice Flavia a una sua cliente -‐ e in
questo film si vede benissimo, senza pietismi. Osserviamo Flavia
separarsi brutalmente dai suoi attrezzi da lavoro. Dalle contrazioni del
suo viso, comprendiamo la difficoltà ad accettare questa chiusura
82
definitiva, anche se prevista e a noi non resta che interrogarci sull'idea
stessa del lavoro, in una regione dove per antonomasia il lavoro è al
centro di tutto, se non fosse che nel film anche questo luogo comune è
sfatato.
Lo stress da produttività non è infatti ciò che percepiamo nella
vita delle clienti del salone, né ciò che muove la passione delle
calciatrici, né tantomeno la nomade vita da circo. Rossetto, come loro,
si prende il tempo necessario al racconto, senza preoccupazioni o ansie
da ritmi televisivi.
Dove si riuniranno le anziane clienti adesso che il salone chiude? -‐
ci chiediamo. Ma il film non risponde neanche a questa domanda. Non
si focalizza sul tema scontato della solitudine contemporanea, ma
semplicemente sul volto delle clienti che continuano a vivere questi
ultimi giorni come hanno sempre fatto, incoraggiando la loro
parrucchiera, accompagnandola come una vecchia amica verso una
nuova stagione.
Continuano a scherzare, a volte con cinica ironia, come nella
scena in cui una cliente legge a voce alta sul giornale di un'ottantenne
violentata in casa da un giovanotto e un'altra, seduta alle sue spalle,
sdrammatizza dicendo: "qui dentro non bisogna mai disperare... c'è
ancora una speranza", provocando generale ilarità.
Per tutto il film, con un attento montaggio in parallelo, Quadri99
associa il "microcosmo del salone" con le immagini dei "microcosmi
esterni": la bella bionda del circo che esegue il numero del lanciatore di
coltelli e le calciatrici che si allenano e affrontano le discussioni nello
spogliatoio; il clown che si prepara e la piccola contorsionista che
99 Jacopo Quadri montatore.
83
esegue il suo numero. Poi torna dentro il salone, il cuore del racconto,
nel quale Flavia è sempre impegnata in qualcosa di più urgente del film,
il che le dona una scioltezza recitativa da involontaria diva neorealista.
Passa da una testa all'altra delle clienti, senza curarsi troppo della
troupe presente nel suo luogo di lavoro. Ha cose più importanti a cui
pensare; specie in questo momento della sua vita. La condizione ideale
per girare un film.
A tal proposito, occorre fare un breve parentesi su una delle
"novità" con la quale i registi del reale di oggi hanno a che fare. Per
effetto della continua presenza dell'occhio delle telecamere nel nostro
mondo e delle immagini nella nostra vita, chiunque, tranne le tribù
sperdute, oggi sa cosa comporta essere ripresi. Un tempo infatti per il
soggetto ripreso, l'immagine finiva là. Era quella che era o comunque
non se ne curava più di tanto. Oggi invece le persone sono coscienti che
l'immagine è facilmente manipolabile e il processo linguistico non si
conclude nel momento in cui esse vengono riprese (cosa che in effetti è
sempre stata ma non assunta). Siamo cioè in una situazione in cui la
m.d.p. non è percepita semplicemente come un ospite che mette
soggezione, ma come un amico di famiglia che può tradirti in qualunque
momento. È più semplice dunque inserire la macchina in un set ma è
più difficile creare una relazione schietta.
Una delle grandi facilitazioni che risolvono in parte il problema è
proprio quella di avere a che fare con personaggi impegnati in qualcosa
di più importante del film che stanno facendo. Qualcosa di
"esistenzialmente" primario. Ciò aiuta enormemente il regista a far
dimenticare la m.d.p. al protagonista, semplifica il lavoro sulla
performance e aumenta la naturalezza del film.
84
Altra condizione fortunata, dalla quale riteniamo spesso
dipendono le scelte dei registi di cui ci occupiamo, è avere a che fare
con personaggi "poco mediatizzati" (per quanto oggi lo si possa essere).
Lavorare infatti con personaggi meno "inquinati" dalle aspettative
televisive o che con esse hanno un rapporto "secondario" perché
impegnati in attività esistenzialmente primarie, crea una dissonanza di
estremo interesse con i cliché dello spettatore, un ritorno cioè al "vero
umano" smantellato principalmente dalla televisione e dalla pubblicità,
che chiede di esserne in qualche modo liberata.
Poco mediatizzati sono i personaggi di Flavia e delle sue clienti,
così come i personaggi di "Below sea level" di Rosi o Enzo e Mary di "La
bocca del lupo". Tutti personaggi che risvegliano una desiderio di
"verità" che lo spettatore di oggi avverte fortemente e che lo spinge alla
ricerca di personaggi e di storie poco filtrate, che gli garantiscano il
ritorno ad una certezza dell'immagine perduta, che passa attraverso la
figura umana.
Compito che i film di cui parliamo indubbiamente assolvono,
lasciando spazio e tempo al corpo umano di muoversi all'interno
dell'inquadratura, di esprimere le proprie imperfezioni, le proprie
idiosincrasie, ritornando ad essere il luogo privilegiato della ricerca
d'identità più che merce da piazzare sul mercato. È attraverso la "messa
in scena documentaria" del corpo con i tempi "giusti", che passa quella
dimensione di apertura all'imponderabile che fa parte della verità delle
cose e che si trasmette nelle immagini dei film.
Ed è proprio l'imponderabile che viene in aiuto al finale del film di
Rossetto. Un incontro fortuito perfettamente in tema. Una vecchia
signora che si è persa, entra nel negozio ormai in disarmo, smarrita
85
come l'anima di Flavia. Cercando di carpire informazioni che la donna
non riesce a dare chiaramente, Flavia prova ad aiutarla e Rossetto è li.
Segue a debita distanza sua madre che scava nella vita della vecchietta,
facendole domande per cercare di capire da dove viene. Alla fine riesce
ad individuare sull'elenco telefonico l'indirizzo di un probabile figlio e
quando la signora va via, Flavia l'accompagna fuori dal negozio, poi
rientra. La m.d.p., con una lenta panoramica, continua lo sguardo
carezzevole di Flavia che segue la macchina che si allontana.
Ritroviamo Flavia all'interno del negozio che ormai è sera. Il
marito e un giovane operaio stanno smontando impietosamente gli
ultimi pezzi di salone. Flavia è seduta sull'unica poltroncina in pelle
rimasta. È impossibile non fare un parallelismo tra il suo smarrimento di
fronte al negozio vuoto e quello dell'anziana che ha appena aiutato.
Adesso però è venuto il momento di chiudere il salone e anche il film.
Non sapremo mai se Flavia, nella scena finale, accende la radio e
abbozza un balletto per tirarsi su o per lasciare di lei l'impressione di
86
una donna che reagisce con allegria. A noi, a giudicare
dall'impercettibile protrarsi verso la macchina, sembra la seconda.
Quello che conta è che il fatto che una cinepresa era li in quel modo, le
ha permesso di scriversi da sola il finale della sua storia. E questo non è
poco, drammaturgicamente parlando.
87
2.1.5. A scuola: governare il caso
La caratteristica centrale di Leonardo Di Costanzo è la coerenza.
In tutti i suoi film, da "Viva l’Italia" (1994), a "Prove di Stato" (1999), a
"Odessa" (2006), a "Orchestra di piazza Vittorio: i diari del ritorno"
(2007), fino al recentissimo "Cadenza d'inganno" (2011)100, Di Costanzo
non media. Segue una linea di ricerca basata sull'assoluta verità delle
riprese, libere da ogni preoccupazione di ordine formale, nel senso di
cura dell'immagine, cosa che conferisce ai suoi film, fuori da un'attenta
lettura, un'aria quasi amatoriale, di basso livello tecnico. Immagini
sfocate, luci poco curate, suono apparentemente rubato, movimenti di
macchina instabili e inquadrature disarmoniche, sono il suo registro
stilistico. Nessun vezzo da regista underground. Solo un vivo interesse
per la vita che scorre senza freno, che deve essere colta al volo oppure
100 Dall'intera filmografia documentaria di Di Costanzo, abbiamo tenuto fuori solo Les mots de l’architect -‐ Lacaton et Vassal (1999) che è stato impossibile visionare.
88
lasciata andare via, senza inquadrarla per forza. Anche a costo di
lasciare il film a metà.
La sua attenzione è come se fosse tutta appassionatamente
concentrata sulla forza dei contenuti che, infatti, alla fine, vincono su
tutto per la loro forza comunicativa. Il suo cinema palpita urgenza
d'esser fatto, in ogni inquadratura, in ogni sequenza, in ogni
personaggio. Questo è ciò che conta e che riguarda da vicino la nostra
ricerca.
Non a caso abbiamo scelto "A scuola", il film più italiano di Di
Costanzo101, che punta l'attenzione su degli insegnanti e su una preside
di prima linea, in un contesto particolarmente movimentato.
Siamo a Napoli. Rione Pazziano. Scuola Media Statale "Nino
Cortese". Per un intero anno, il regista e un'assistente seguono la vita
nelle classi, nei corridoi e nelle sale dei professori. I drammi e le vittorie.
L'ennesimo documentario sulla scuola, verrebbe da pensare102,
ma questo non è un film sui ragazzi difficili che, seppur presenti, spesso
anche con battute e modi di fare esilaranti, non sono i veri protagonisti.
L’attenzione è tutta sugli insegnanti che giorno per giorno
sperimentano strategie e comportamenti da attuare per ridare
"all'istituzione scuola" il senso che ha perduto. Siamo infatti in una delle
tante periferie (anche se nessuna periferia è veramente uguale a
un'altra), nella quale la scuola è l’ultimo baluardo dello Stato; una
trincea dove il lavoro dell'insegnante è quello di far fronte a una
101 Gli altri film hanno produzioni straniere. 102 Altri documentari italiani di valore sulla scuola sono: Fratelli d'Italia di Claudio Giovannesi (2009), Non tacere di Fabio Grimaldi (2007), Scuola media di Marco Santarelli (2010), Sotto il Celio azzuro di Edoardo Winspeare (2009).
89
situazione nella quale gli alunni sentono e respirano ogni giorno la
mancanza della legge con tutto ciò che ne consegue.
Al centro del film non sono dunque gli alunni ma la pazienza degli
insegnanti, le loro debolezze e le loro fatiche. Il tutto coordinato da una
preside di ferro che crede ancora nell’utilità e nella funzione della
scuola pubblica e fa del suo meglio per arginare e combattere la
dispersione scolastica. Insieme agli insegnanti ha deciso di non ricorrere
più alla misura disciplinare della sospensione che, associata alle assenze
continue, si traduce spesso in abbandono di fatto. Scelta che comporta
uno sforzo quotidiano e sfibrante da parte sua e degli insegnanti che va
ben oltre l'insegnamento delle singole materie ed ha l'unico scopo di
tenere i ragazzi dentro la scuola, per salvarli da un esterno che li
fagocita. Una battaglia dalla quale sono gli stessi insegnanti ad uscirne
perennemente sconfitti e delusi.
"A scuola" è insomma un film sul ruolo dell'insegnante e
sull'assenza dello Stato. Un film pieno d’amore per dei ragazzini che non
90
hanno niente e di dolore per quel che rimane della scuola pubblica.
Sentimenti forti anche perché riguardano il regista in prima persona.
Da giovane volevo fare l’insegnante [...] avevo anch’io iniziato la solita trafila
di supplenze, sia a Napoli che in Francia, dove avevo ottenuto la possibilità di
insegnare per qualche tempo. In entrambi i contesti, mi sono reso conto di non aver
gli strumenti adatti per insegnare e che mi sentivo inadeguato ed incapace di gestire
una classe di studenti. Deluso e frastornato, decisi di mollare tutto e di occuparmi di
altro. [...] Con questo documentario ho voluto, da un lato, regolare i miei conti con il
passato, e dall’altro, cercare di comprendere e di testimoniare i motivi per cui,
allora, non ce l’avevo fatta.103
Di Costanzo ci porta davvero dentro la scuola, con movimenti di
macchina sporchi e immediati ma che non sono mai approssimativi o
costretti in inquadrature prive della durata necessaria. Tentennamenti
che parlano.
...io non so filmare, sono un po’ scarso, per cui mi ci devo impegnare molto,
ci devo mettere tutto me stesso per dare in qualche modo un po’ di forma a questa
cosa. Io a volte mi diverto a rivedere le mie esitazioni, a vedere che tremo, a rivedere
il mio pensiero, la mia tensione in quel momento; è questa tensione, queste cose
piccolissime, impercettibili, che però danno molto104.
Per Di Costanzo questo è l'unico modo di filmare per provare ad
abbattere i filtri con la "realtà" ed eliminare più possibile la finzione,
come ben sappiamo cosa impossibile. Ma è la convinzione di continuare
103 REDAZIONE NAPOLETANA (a cura di), A scuola con Leonardo Di Costanzo, "l'Unità", 13 aprile 2005
104 M.C. ALFANO, Il cinema documentario in Italia. Il caso di Leonardo Di Costanzo, Tesi di laurea presso Università Statale di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Scienze Umanistiche per la Comunicazione, A.A. 2003-‐2004, p.116
91
a provarci pur sapendo che spinge il regista, non certo l'ingenuità
linguistica.
...sei tu con il tuo corpo a fare la regia; il tuo corpo, il tuo essere là, il tuo
movimento, il tuo contatto, è lì che si costruisce. [...] Quindi le esitazioni, il fatto che
la telecamera si muova, non sono problemi, è qualcosa di vivo, un pensiero in atto;
lo spettatore sta al posto tuo in quel momento, si identifica con la telecamera105.
Un continuo corpo a corpo con il "reale" dunque, attraverso la
macchina e la disponibilità all'ascolto di ciò che si ha attorno, del
casuale, attendendo che esso sveli qualcosa di vero o che ti dica che è
arrivato il momento di abbassare la telecamera.
Lo notiamo ad esempio in due momenti della sequenza finale,
quella in cui gli alunni, finita la scuola, tornano a guardare le liste dei
risultati appese al muro. Di Costanzo li aspetta in corridoio e in un unico
piano sequenza riesce a cogliere al volo uno dei genitori che, deluso dal
risultato, senza il minimo imbarazzo per la telecamera, stacca i fogli dal
muro e li strappa in faccia alla bidella. Solo essendo lì, Di Costanzo è
riuscito, per caso, a restituirci uno spaccato sociale diretto e vero, senza
filtri, in una sola immagine.
Un secondo momento della stessa sequenza, è quando De
Simone, uno degli alunni più problematici e irriverenti della scuola,
entra nell'edificio per guardare i risultati. Il modo in cui si avvicina al
corridoio fa già presagire il peggio. Di Costanzo sceglie di raccontarci
questo momento in quattro inquadrature non pianificate ma decise sul
momento.
105 Ibidem
92
Lo capiamo in particolar modo dall'ultima. Mentre De Simone,
che ha scoperto di esser stato bocciato, continua a lamentarsi, la
telecamera lo abbandona e scorre l'elenco completo degli altri alunni
appeso al muro di fronte a lui. Noi associamo mentalmente la sua voce
offesa fuori campo, con gli altri nomi scritti. La fine di De Simone infatti,
la faranno altri mille come lui. Un cinema dunque che parla di uno per
parlare di molti, senza mai essere intimista o militante; solo essendoci.
Davanti a queste immagini spontanee, piene di vita vera, noi
spettatori dimentichiamo ogni incertezza e ci ritroviamo a nostro agio
come di fronte a frammenti di memoria restituita al presente. Le
immagini di Di Costanzo ci ricordano infatti la spontaneità dei nostri
filmati di famiglia, pieni di imprevisti, di amore, palpitanti di verità,
naturalmente scorretti, ai quali però viene tolta ogni autoreferenzialità,
facendoli diventare grande cinema. Quel grande cinema, sia di finzione
che documentario, che come ci fa notare Montani,
93
ha sempre avuto la capacità di accogliere l'imprevedibile e di portarlo dentro
la propria struttura formale conservandone i tratti di imprevedibilità106;
cosa che Di Costanzo, come gli altri autori di cui ci occupiamo, fanno
regolarmente, mettendosi nella predisposizione di dare al non-‐
prevedibile l’importanza che merita, attuando una sorta di rispettoso e
continuo corpo a corpo con il caso, sapendo bene che si tratta di un
processo sul quale non si può mai sperare di mettere la parola fine, se
non per scelta autorale. Un processo che solo una produzione libera
può pianificare e budgetare, perché la vita non aspetta, non la si può
fermare. Solo la morte può farlo107.
Ecco perché i nostri registi non possono sentirsi a proprio agio
dentro le strutture produttive rigide e preferiscono la strada
dell’indipendenza e soprattutto della solitudine produttiva, che, si badi
bene, non corrisponde con quella esistenziale, impegnati come sono a
vivere con gli altri, non sugli altri.
Con loro si può ritenere definitivamente eliminata quella parte di
Augusto Genina108 che rimane ancora in eredità psicologica a molti
autori. Con loro finisce il cinema che fa politica spicciola come fine
ultimo. Con loro finisce il cinema dei grossi numeri, ormai solo
simulacro di se stesso.
106 M. MONTINARI, A proposito di realtà..., cit. 107 Per questo concetto ci rifacciamo ad Andrè Bazin che affermava che la morte è anti cinematografica, irriprendibile. Essa può entrare nel cinema solo se ne sta fuori (campo). 108 Nel senso di regista tradizionale. Augusto Genina infatti è uno dei più prolifici registi del cinema muto italiano, passato poi ai film di ricostruzioni esotiche, ai drammi passionali a tinte fosche e alle ricostruzioni di interni borghesi, sempre molto puntigliose, costose e spesso artificiose.
94
2.1.6. Il castello: il tempo necessario
"Il castello" è un film che racconta un anno dentro l’aeroporto
intercontinentale di Malpensa, un luogo in cui la burocrazia e le
procedure di controllo, mettono a dura prova la libertà delle persone,
costrette a odiosi interrogatori, sfibranti perquisizioni, quasi sempre
umilianti. È proprio l’idea di controllo il nucleo centrale del film che si
concretizza in una regia attenta, calibrata, priva di sbavature,
soprattutto formali e in una fotografia volutamente fredda, dominata
dall'azzurro e dal verde e dalle luci diffuse dei neon che caratterizzano
ogni aeroporto, plasmate ad arte.
Quello che colpisce sin dalle primissime immagini è la scelta di un
punto di vista forte, impassibile, con la m.d.p. ferma, piazzata sul
cavalletto, quasi sempre ad altezza d'uomo, che sta li ad aspettare,
senza paura della lentezza, perché solo così si può sperare che la
"realtà" sveli qualcosa di più.
95
Il castello è un film d’osservazione: mettiamo la nostra macchina da presa sul
cavalletto e la puntiamo per cercare di capire le cose che accadono davanti ai nostri
occhi e alle nostre orecchie. Diamo alle immagini, al film una struttura, combinando
pensiero razionale ed emotivo109.
Un tono asettico è quello che si vive a Malpensa, specie dopo
l'undici settembre, l'evento che ha dismesso, in nome della paura
collettiva, ogni diritto alla privacy dei singoli, che negli aeroporti mostra
il suo aspetto più paranoico. Una paura che può avere l'aspetto di una
valigia abbandonata che viene prontamente fatta esplodere o gli occhi
sperduti di un extracomunitario che spera, non si sa come, di poter
viaggiare senza passaporto, né documento per i rifugiati. Paura che può
risuonare nelle domande arroganti di un finanziere e nelle risposte di
chi è trattato, qualunque cosa dica, come colpevole.
109 Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 novembre 2011
96
Il titolo del film è una citazione diretta di Kafka. Un'abitudine
letteraria che caratterizza Massimo D'Anolfi e Martina Parenti anche nei
lavori precedenti ("Promessi sposi" 2007, "Belle speranze", 2009), ma
che non si traduce in nessun parallelismo con una drammaturgia
letteraria; anzi. La tecnica utilizzata nel film è figlia da una parte del
cinema diretto110 e dall'altra di quello scientifico. I due registi hanno
infatti "abitato" per un anno intero dentro Malpensa, divenendo
presenze invisibili nello spazio e nelle vicende dell'aeroporto, senza mai
intervenire provocando delle reazioni, adottando nel contempo uno
sguardo distante, non per assenza di "calore" verso i soggetti, ma per
scelta narrativa.
Abbiamo scelto di seguire il lavoro delle forze dell’ordine, non per sposarne il
punto di vista, ma per consentire al nostro sguardo di rimanere sospeso in equilibrio
tra il forte e il debole, tra il legale e l’illegale, tra chi esercita il potere e chi è
costretto a subirlo111.
Su questo equilibrio è giocato il film, che utilizza in grandissima
parte C.M., F.I., P.A., M.F. 112, scendendo in rarissimi casi fino al P.P.P. o
al DETT.113, inquadrature, queste ultime, dalle quali è molto facile che
l'elemento casuale resti fuori campo.
110 Il cinema diretto è una corrente di cinema documentario nata in Québec e negli Stati Uniti, tra il 1958 ed il 1962. Se nella sua accezione iniziale si caratterizza con un desiderio di captare direttamente il reale e trasmettere la verità, successivamente si imporrà per la sua continua riflessione sul reale e per il suo modo di agirvi con il cinema. 111 Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 novembre 2011 112 Acronimi di: Campo Medio, Figura Intera, Mezza Figura. 113 Acronimi di: Dettaglio e Primissimo Piano.
97
Il loro è un lavoro sulla durata e sull'attesa. Una paziente e
consapevole osservazione della realtà di stampo wisemaniano114. Ciò
che infatti incolla lo spettatore al film non sono tanto i colpi di scena
della storia, ma la curiosità intrinseca delle immagini, proprio come nei
documentari scientifici, che mostrano un dietro le quinte dell'aeroporto
nel quale nessuno di noi, nella nostra esperienza di viaggiatori, è
riuscito mai ad arrivare. Il film diviene così una continua scoperta di
situazioni che per noi hanno un sapore al limite del paradossale, che a
momenti sembrano sfatare la connotazione dell'aeroporto quale "non-‐
luogo" augéiano115.
Lo sguardo del film è rivolto ai luoghi normalmente inaccessibili e invisibili
perché è nel loro rivelarsi e nel loro stabilire un rapporto con ciò che si conosce che il
mosaico si fa completo e che si spiega l'indissolubile legame tra controllore e
controllato, tra programmazione e casualità, tra sicurezza e paure reali o
costruite116.
La narrazione è divisa in quattro capitoli, che corrispondono alle
quattro stagioni dell'anno e ad altrettante situazioni dell'aeroporto.
L'inverno sono gli arrivi. Lunghe code, controlli estenuanti, ispezioni,
domande provocatorie della polizia e della finanza. È il momento in cui
un ragazzo nigeriano viene fermato perché viaggia un po' troppo in
Italia. Il poliziotto legge i suoi sms anche se lui gli chiede gentilmente e
114 Wiseman tra i maggiori documentaristi americani contemporanei è noto per la sua capacità di cogliere la realtà e per la scelta di non romanzare in montaggio. 115 "Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirisi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-‐luogo". In M. Augé, Non luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità [Non-‐lieux, 1992], elèutheria, Milano 1993, p. 73 116 Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 novembre 2011
98
in pieno diritto di non farlo. Ma l'agente cerca in tutti i modi di
innervosirlo. "Stai violando la mia privacy", ribatte il ragazzo. E il
finanziere risponde: "Sì lo so, ma la tua privacy qui è un'altra cosa.
Questo è un controllo di polizia e se io voglio controllare, controllo".
Non sapremo mai se i viaggi di questo ragazzo sono la copertura
di qualche losco traffico, poco importa, perché ai registi in questo caso
non interessa la persona in se, che non potrebbero in ogni caso seguire,
gli interessa il comportamento del finanziere, dalle parole del quale è
chiaro che la regole della procedura creano la "realtà". La "realtà" cioè,
non è ciò che è, ma ciò che l'ossessione per la sicurezza spinge a
desiderare sia.
In questa sequenza si resta in debito di neutralità nei confronti
dei poliziotti. Fin qui, infatti, il loro comportamento sembra del tutto
gratuito e insopportabile, se non fosse che nella sequenza successiva,
un ufficiale di finanza dall'aspetto clooneyano117 , con un nascosto
compiacimento per la presenza delle telecamere, ferma un giovane
paraguaiano, Diego, che dopo un lungo interrogatorio, continua a
negare ogni colpevolezza anche davanti alla radiografia del suo stomaco
pieno di ovuli di cocaina.
È una storia di disperazione della povertà. Di un ragazzo di 25
anni proveniente da una delle nazioni più povere del mondo, con la
madre malata di cancro e il padre disoccupato, che rischia la vita per
duemila dollari. Ma i registi non prendono posizione neanche su questo.
Noi volevamo raccontare la tragedia di chi compie un reato per disperazione,
rischiando la morte per duemila dollari. Allo stesso tempo volevamo dare un volto
anche ai poliziotti che sono costretti ad eccedere per fermare o prevenire un crimine. 117 George Clooney, noto attore sex-‐symbol del cinema americano contemporaneo.
99
Il filo tra cosa è giusto e cosa è sbagliato è molto sottile. Noi abbiamo la nostra
opinione personale al riguardo, ma ci sforziamo di lasciare la libertà allo spettatore
di decidere da che parte stare. Vogliamo provocare con delle domande piuttosto che
dare risposte118.
Una scena colta e seguita alla "giusta distanza", che potrebbe
essere letta come una violazione della privacy di Diego da parte della
telecamera, se non fosse che lo stesso D'Anolfi ci spiega che
in casi come questi, spesso si dimentica che la telecamera, oltre ad essere
testimone è anche garanzia per il fermato di un corretto comportamento da parte
delle forze dell'ordine119.
Il dato di fatto è che non sapremo mai quanto la telecamera
abbia influenzato la zelanteria dell'ufficiale o se qualcuno avrebbe
varcato la soglia della legalità, ma è la chiara coscienza di correre il
118 Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 novembre 2011 119 Ibidem
100
rischio ciò che lega il documentario alla contemporaneità di cui
abbiamo parlato. La presa in carico del potere delle immagini quali
possibili creatrici di "realtà" è infatti uno dei punti cruciali di cui i nostri
registi tengono conto. Sanno di essere, come i loro contemporanei,
immersi nella confusione generalizzata che ha investito la società
odierna, nella quale risulta sempre più difficile distinguere tra vero e
falso. Per far fronte a ciò, essi hanno scelto di prendere una posizione
precisa, etico-‐filosofica, che è fondamentalmente quella del: non
so…vedremo.
In tal senso la scelta della location Malpensa fatta da D'Anolfi e
Parenti non sembra essere casuale. Proprio dentro l'aeroporto, in
quanto simbolo di modernità, di velocità, di mortificazione
dell'individuo, la "realtà" rischia di essere contraffatta.
La posizione di D'Anolfi e Parenti, può essere considerata quindi
quella di osservatori120 di una "realtà" che si crea riprendendola e che
non esiste fin quando non è ripresa. È attraverso questa presenza etico-‐
filosofica, che D'Anolfi e Parenti, così come gli altri autori di cui abbiamo
parlato, confermano senza volerlo la loro forza proprio in virtù della
loro apparente assenza.
L'autore quindi, in barba alla sua così tanto decantata morte,
riappare in questo come negli altri film, nel suo più importante ruolo:
quello di testimone della continua necessità di prendere posizione nel
film e quindi nel mondo. Una condizione che può arrivare anche a scelte
estreme. A tal proposito ci viene in mente Krisztof Kielośwski che smise
di fare documentari proprio quando venne a sapere che a causa di
alcune sue riprese fatte in una stazione ferroviaria, successivamente
120 Dove con il osservatori non intendiamo riferirci al documentario osservativo, vedi nota 48
101
sequestrate dalla polizia, un omicida, immortalato per puro caso, fu
riconosciuto e condannato all'ergastolo.
Torniamo al film. Il secondo capitolo è la primavera. Il momento
della sicurezza nell'ufficio sanitario e sulla pista. In due piani sequenza
in camera-‐car dall'interno dell'auto di quasi due minuti ciascuno (che al
cinema sono un'eternità), due uomini vanno in giro sparando verso il
cielo e attivando un registratore che emette suoni rapaci. Si tratta di un
escamotage per scacciare gli uccelli che mettono a serio rischio gli
aerei. Sono separati da inquadrature fisse sui veterinari dell'ufficio
sanitario che fanno i controlli sugli animali vivi e morti, che invece
coprono una parte ristretta della scala dei piani (F.I., P.A., M.F.). C'è di
tutto: aragoste, tartarughe giganti, cani, pelli di coyote. Un continuo
palpare, scrutare, indagare. Pignolo ma proceduralmente necessario.
Un lavoro di routine che impiega una quantità di persone non
giustificabile in termini economici rispetto al valore dell'import-‐export
della merce, se solo ci si fa caso.
102
La primavera è anche il momento dell'addestramento degli agenti
della sicurezza aeroportuale. "Devono avere paura di voi" ripete
l'istruttore alle reclute militarizzate, introducendoci in un altro livello di
creazione artificiale della paura generata dalla paura stessa. Una spirale
senza fine che di certo non serve solo a difenderci dai terroristi, ma
molto più semplicemente rientra nella diffusa e funzionale paura
dell'altro.
A conferma di ciò basta osservare come il concetto di Vs (versus)
sia divenuta l’anima del nostro sistema sociale, specie quello della
comunicazione: uomini vs donne, noi vs loro, USA vs terroristi,
occidente vs oriente. Con la loro pratica cinematografica e con i loro
film, i nostri autori non si pongono vs ma con, dimostrando una distanza
filosofica e operativa dalla finta dialettica imperante, andando invece
alla ricerca della dialettica insita nelle cose, quella vera.
L'estate è il capitolo in cui scopriamo che, come ogni gigantesco
apparato fondato sulla burocrazia, il castello Malpensa lascia aperta una
103
falla (necessaria?) al suo interno. Nel film essa è rappresentata da
un'anziana signora che si è insediata all’interno dell'aeroporto. Di lei,
nel film, per scelta registica, non viene detto nulla. Sappiamo solo che si
aggira per l'aeroporto, che abita nei bagni, dove cucina, si tinge i capelli,
si guarda allo specchio; insomma vive.
È questo capitolo-‐stagione che ci sembra il più debole del film ma
che più degli altri ci interessa nella nostra analisi. È nella visione di
questa parte del film infatti che succede qualcosa di insolito e specifico:
nello spettatore nasce un vuoto di credibilità sul personaggio, che si
traduce nella convinzione che sia impossibile che una persona venga
lasciata libera di vivere in un aeroporto così blindato. Il che equivale a
pensare: il film qui mente. Ma da dove viene questa sensazione?
Questa caduta di credibilità?
Il fatto che la donna abiti davvero li, in effetti, per la nostra
comune esperienza di aeroporti sembrerebbe impossibile, mentre di
fatto non lo è. La donna abita davvero nei bagni dell'aeroporto. "Ma chi
104
me lo dice?" -‐ si chiede lo spettatore. I registi ovviamente. Chi altro se
no? E questo vale per tutti i documentari nei quali l'unica garanzia che
lo spettatore ha sulla veridicità di ciò che vede è l'onestà del regista
avallata dal suo buon nome, dalla qualità dei lavori precedentemente
realizzati, ma prima di tutto dalla sua perenne disponibilità all'ascolto e
al rispetto delle opinioni altrui.
Eppure qui non basta. Il dubbio avvolge lo stesso lo spettatore.
Perché?
Secondo noi deriva da un problema drammaturgico. Lo
spettatore infatti, pur seguendo la donna per oltre dieci minuti di film,
in tutte le sue attività, non viene a sapere nulla di specifico su di lei, non
per errore, ma per una precisa scelta di regia confermata dalla stessa
Parenti:
Ci piaceva non dire nulla [...] Vogliamo prendere per mano lo spettatore fino
ad un certo punto e poi lasciarlo andare, dandogli la libertà di interpretare le
immagini come vuole121.
Alla quale si unisce D'Anolfi:
La signora abita lì da sei anni, è italiana, si chiama Milietta e vive lì per
scelta. Il suo caso è stato anche riportato sui giornali, ma a noi non interessava
parlare della sua storia, spiegare perché è arrivata lì. A noi interessava restituirle la
dignità immortalandola nelle semplici azioni quotidiane che lei può svolgere solo di
notte, quando tutti i passeggeri se ne sono andati122.
121 Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 novembre 2011 122 Ibidem
105
Per noi invece, la scelta di lasciare andare lo spettatore, di non
raccontare neanche un dettaglio della back-‐story 123 di Milietta, in
questo caso danneggia il film perché mette la donna sullo stesso piano
delle altre attività dell'aeroporto, senza creare così la dialettica
necessaria proprio a diversificarla da esse. Non basta infatti l'intensa
inquadratura finale (che noi interpretiamo come un primo passo verso il
personaggio) per appassionarci a lei.
È proprio nell'inquadratura con cui la lasciamo, quella in cui
guarda verso la pista, che a noi viene il sospetto che nella sua vita ci sia
dell'altro. E in effetti dell'altro c'è. Lo sappiamo fuori dal film, quando gli
autori durante un dibattito a cui abbiamo assistito (non a caso su
richiesta del pubblico) ci raccontano che Milietta ha due figlie che
abitano in un altro paese e che lei vive in aeroporto perché è il posto
simbolicamente più vicino a loro.
123 Per back-‐story, in tecnica narrativa, s'intendono tutti i fatti attinenti alla vita del personaggio prima del momento in cui noi lo conosciamo che non si vedono nel film ma che gravano su di esso.
106
È questo minimo dettaglio che, se inserito nel film, avrebbe
raggiunto sul piano emotivo una maggiore apertura del pubblico nei
confronti del personaggio, aiutando a marcare la differenza tra
individuo e istituzione, sottolineando così, per differenza, proprio l'idea
di controllo sociale che i registi dichiarano apertamente di voler
raggiungere.
Per quanto riguarda "Il Castello" Massimo era a Malpensa e mi ha telefonato
dicendomi che gli era venuta l‘idea di fare un documentario sull‘aeroporto inteso
come luogo fortificato dove attuare nuove procedure di controllo sociale. E così è
stato124.
È proprio attraverso la tolleranza che il controllo sociale conferma
il suo potere.
Questo film rientra dunque nel tipo di film di cui ci stiamo
occupando per quanto riguarda la posizione defilata e non giudicante
del regista, per l'assenza della voce off o del commento in prima
persona, per l'assenza di interviste, per la scelta di dare alle immagini
un respiro temporale che restituisce loro valore; ma non del tutto vi
rientra per quanto riguarda il racconto del collettivo attraverso l'intimo.
Il film infatti a nostro modo di vedere non riesce a compiere fino in
fondo quel superamento del "pedinamento" zavattiniano tipico del
cinema di cui parliamo, che è comunque ampiamente presente negli
altri film della coppia.
Il film conclude con l'autunno; il momento delle partenze.
Stagione non a caso lasciata per ultima. Essa infatti è la più adatta al
124 Dall'intervista su Skype fatta da chi scrive a Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 21 novembre 2011
107
tono malinconico che avvolge tutta la narrazione. La stagione delle
foglie che cadono, come l'occidente impaurito, incarnato nel
personaggio di chiusura, un uomo nigeriano che più mite non potrebbe
essere. Deve andare via, non può più chiedere diritto di asilo perché in
Italia glielo hanno rifiutato e non ci sono per lui altre possibilità in tutta
Europa. Glielo spiega con una certa soddisfazione professionale, ironia
della sorte, un interprete nigeriano come lui. È la conferma che
l'intolleranza non ha confini, che spesso contagia paradossalmente
proprio chi l'ha sofferta, oltre che le leggi dello Stato, che di scusanti ne
hanno molte meno.
108
CAPITOLO III -‐ Per un mondo migliore
Dopo l'analisi dei film, prima di concludere la nostra tesi, non ci
resta che rendere conto di un'affermazione fatta all'inizio dello scritto.
Alla fine del par. 1.2. abbiamo sottolineato come il documentario,
possa contribuire alla creazione di una sana interpretazione del "reale"
e dunque alla riscrittura del mondo attraverso il cinema. Nello stesso
paragrafo abbiamo anche evidenziato come ciò non possa che avvenire
attraverso l'inclusione delle immagini stesse nel racconto e soprattutto
attraverso la messa in discussione del modo di realizzarle, che, nella
pratica cinematografica, si traduce per noi nel fare cinema addosso.
È evidente che in questo processo di "riscrittura del reale"
(depurando il termine da ogni presunzione), oltre che dell'impegno
degli autori, c'è bisogno di una "predisposizione al reale" da parte del
pubblico.
A questo punto le domande che ci poniamo sono: è davvero così
indispensabile che la "riscrittura del reale" passi attraverso
l'accettazione che le immagini siano parte "concreta" del nostro
mondo? Che costituiscano cioè la materia prima che dobbiamo
imparare a conoscere e a usare? E soprattutto, cosa s'intende per
"predisposizione al reale" da parte del pubblico?
109
2.1. Noi, le immagini e la "realtà"
Per rispondere a queste domande ci torna in mente uno scritto di
Slavoj Žižek di qualche anno fa125, nel quale l'autore, partendo dal
concetto di "passione per il reale" analizza, tra le altre, le ragioni del
comportamento dei tele-‐spettatori di fronte ai fatti dell'undici
settembre 2001 (anno che guarda caso corrisponde con l'inizio del
periodo cinematografico da noi preso in esame).
Quello di Žižek può essere considerato un saggio sulla
"paradossalità". Rifacendosi ad Alain Badiou, come colui che ha
identificato come tratto distintivo del XX° secolo la "passion du réel" (la
passione cioè per la "cosa in sé"), in opposizione agli ideali utopistici del
XIX° secolo, l'autore ci dimostra come proprio questa "passione per il
reale", se spinta alle estreme conseguenze, può facilmente trasformare
la "realtà" nel suo esatto contrario, cioè nella "pura apparenza".
A conferma del suo ragionamento Žižek, in linea con il suo stile
ellittico, porta esempi più disparati. Ne citiamo due. Il primo riguarda il
campo della sessualità. Ne è un'icona cinematografica il film "L'impero
dei sensi" di Nagisa Oshima (1976), nel quale, la passione per il reale,
nella relazione d'amore tra i due protagonisti (la voglia concreta del
corpo dell'altro), si trasforma in "amputazione" (quindi in una sorta di
de-‐concretizzazione) quando essa si avvicina troppo all'oggetto
desiderato126.
125 S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale. Cinque saggi sull'11 settembre e date simili, Meltemi, Roma 2002 126 Il film è centrato sul legame tra la giovane cameriera Abe Sada e Kichi, il proprietario della pensione presso cui presta servizio. Un amore totalmente dominato dai sensi. La relazione parte dall’attrazione reciproca, si evolve attraverso l’estasi sensuale per precipitare, nel finale, in un baratro erotico che porta la donna, per troppo desiderio di possesso, ad evirare l'amante.
110
La stessa "passione per il reale", questa volta in campo socio-‐
politico, è quella che avrebbe dovuto spingere la rivoluzione cubana ad
una mobilitazione frenetica in nome della concretezza socialista. Essa
invece si è tramutata nella immobilità sociale più profonda, in attesa del
miracolo del post-‐castrismo. Questi due esempi, tra gli altri che Žižek
cita, gli servono a dimostrare come la passione per il reale, spinta al suo
eccesso, paradossalmente, trapassa nel suo opposto.
Questo trapasso può avvenire anche in un altro modo: nella forma
cioè di una sorta di de-‐realizzazione. Cosa, ad esempio, riscontrabile nel
terrorismo della R.A.F., la nuova sinistra tedesca degli anni '70. Se la
R.A.F. infatti, spinta dalla "passione per il reale", ha ritenuto necessari
interventi estremamente violenti come l'assalto ai supermercati per
"risvegliare" le masse dal loro soporifero atteggiamento consumistico,
l'eccessivo effetto scenografico degli attentati, ci invita a considerare
come la "passione per il reale" possa in ultima analisi ridursi, proprio
per il suo effetto spettacolare, ad uno spettacolo teatrale, cioè a pura
apparenza.
Sulla stessa linea, non meno "spettacolare" appare l'attentato del
2001 alle torri gemelle, evento che non a caso Karl-‐Heinz Stockhausen
ha definito "l'opera d'arte definitiva del XX° secolo". Come non
paragonare, infatti, l'improvviso impatto degli aerei e la gigantesca
nuvola di polvere che si è sollevata, alle scene dei film catastrofici
hollywoodiani? Žižek sostiene che è stato proprio il fatto di aver
assistito all'evento attraverso questo tipo di immagini, ciò che ha
condizionato la nostra comprensione di esso.
La dilagante abitudine e la progressiva assuefazione alla realtà
virtuale, che ci induce a viverla come "realtà reale" senza esserlo, ci ha
111
messo del suo. Essa infatti produce un ulteriore paradossale effetto:
quello di farci gradualmente percepire la "realtà reale" come un'entità
virtuale. Ecco perchè, secondo Žižek, la gran parte del "pubblico"
mondiale, prima ancora di fare mente locale sull'assurdità dell'evento
"vero" (difficilissimo da immaginare nella realtà prima di allora), ha
percepito il crollo delle torri come un evento televisivo, equiparandolo
ad un disaster movie.
Proprio in questo consiste, il processo di "de-‐realizzazione"
dell'orrore di cui abbiamo accennato, che è stato generato
dall'attentato "reale" ma che è stato vissuto dalla gran parte di noi, con
l'aiuto della televisione, come una fantasia. Quello che Žižek ci fa notare
è insomma che non si è trattato, come comunemente si crede, della
realtà che è irrotta nella nostra fantasia risvegliandoci dal torpore di
telespettatori, ma al contrario, della realtà che, giunta al suo paradosso,
proprio per la sua stessa natura eccessiva, ci ha spinto a viverla come
un'immagine che già avevamo nel nostro bagaglio visuale
"ufficializzato", che è quello appunto della televisione e del cinema
mainstream americano. Per questo Žižek definisce l'attentato alle torri
gemelle:
La realizzazione di una fantasia distruttiva originata e costantemente
alimentata da tanta cinematografia e letteratura catastrofista americana127.
L'undici settembre insomma, più che un ritorno alla "realtà" è
stato un evento che noi, attraverso il cinema (e la letteratura), abbiamo
a lungo immaginato con terrore ancor prima che si verificasse ed è stato
proprio il fatto che l'incubo si sia poi verificato davvero, ciò che ci ha 127 S. Žižek, Benvenuti..., cit., IV^ di copertina
112
incollati al televisore, quasi a convincerci che non si trattava altro che
dell'ennesimo film.
A confermare la virtualità dell'evento, si è mossa anche la
macchina mediatica americana che ha mostrato al mondo ben poco del
massacro vero e proprio (non un filo di sangue, né corpi spappolati);
imponendo così una distanza che ha separato quelli che hanno vissuto il
"vero orrore" da tutto il resto del mondo, che ha colto di esso soltanto
lo "spettacolo spettrale".
Quello che nel libro Žižek definisce "il deserto del reale"128, è
dunque la realtà nella quale l'undici settembre sono entrati soltanto gli
abitanti di New York.
Per il resto del mondo, "corrotto" da Hollywood, le torri che
crollavano e l'immensa nuvola di polvere dalla quale spuntavano fuori i
128 Frase presa in prestito dalla scena del film Matrix (A. e L. Wachowski, 1999) in cui Morfeus, il capo della resistenza, accoglie Neo, scollegandolo dal megacomputer che lo illudeva di vivere nel mondo.
113
superstiti, hanno sollecitato soltanto una "compulsione a ripetere" nel
voler vedere e rivedere le scene mozzafiato che così tanto
assomigliavano all'ennesimo disaster movie.
Così, secondo Žižek, la passione per il reale, a causa
dell'insopportabilità dell'orrore del "deserto del reale" (cioè della vera
realtà orribile), cede il posto alla "passione dell'apparente".
Proprio perchè è reale, per via del suo carattere traumatico eccessivo, siamo
incapaci di integralo nella nostra realtà, e siamo quindi obbligati a percepirlo come
un'apparizione, come un incubo129.
In parole povere, possiamo sopportare la "realtà" solo se la
"finzionalizziamo".
129 S. Žižek, Benvenuti..., cit., p. 23
114
2.2. L'occasione perduta
Se da un lato, il saggio di Žižek, costituisce un'evidente prova che le
immagini condizionano la nostra percezione della "realtà",
confermandoci quanto per una "riscrittura del reale" sia importante la
profonda conoscenza di esse; dall'altro ci mette in allarme sul fatto che
la "passione per il reale" scontrandosi così violentemente con la paura
del suo deserto, possa arrivare al punto da esaurire la sua energia e la
sua voglia di vivere la "realtà" nella sua concretezza.
Questo è, come abbiamo visto, ciò è accaduto nei giorni
successivi all'undici settembre. Se in quell'occasione avessimo avuto
coscienza del meccanismo che Žižek ci ha insegnato, con quella terribile
esperienza, calmate le acque, non gli americani (che nel deserto del
reale c'erano già), ma noi telespettatori, avremmo avuto la grande
occasione di iniziare un percorso di risveglio. Cosa che però non è
accaduta proprio perchè le immagini ce lo hanno impedito, anzi, per
meglio dire, il cattivo uso di esse.
La stessa macchina mediatica che aveva proposto le immagini,
infatti, come già detto, si è subito premurata di "astrarre" l'origine del
problema annullando così il possibile risveglio che ne poteva
conseguire. Lo ha fatto con l'ossessiva ripetizione delle immagini in tv,
con il divieto di riproduzione dell'immagine delle torri gemelle nelle
produzioni hollywoodiane, sventolando l'assurda irrintracciabilità di Bin
Laden, con la minaccia televisiva dell'antrace (subdola polverina poi
svanita nel nulla), con i dubbi sulla veridicità dell'attacco, (anch'essi
funzionali al suo annullamento). E alla fine, con l'uccisione del fantasma
di Bin Laden, discreta, guarda caso invisibile. Solo se fosse stata
115
mostrata l'immagine di un'immagine mai "resa vera" prima di allora,
avremmo infatti potuto cominciare a dubitare di essa.
Ancora una volta, i meccanismi di un mondo che ha preso la piega
della "menzogna necessaria" come metodologia comunicativa, hanno
avuto la meglio e noi ci siamo cascati in pieno. Ci sono mancate due
cose: la capacità di leggere oltre le immagini e, a monte, il coraggio di
affrontare il "deserto del reale".
Cosa possiamo fare allora per imparare ad affrontare "il deserto
del reale"?
Ancora una volta è il saggio di Žižek a indicarci la strada. Nella
seconda parte dello scritto, l'autore ci propone infatti un approccio che
noi riteniamo il più adatto per una corretta predisposizione al "reale".
Riferendosi ai traumi storici, Žižek sostiene che la "vera alternativa" non
è quella di ricordarli o dimenticarli e sicuramente non è quella di
dimenticarli, perchè tanto, "quello che non lasciamo esistere continua
ad insistere", cioè a lottare dentro di noi per emergere all'esistenza,
così come "quel che avremmo dovuto fare (e non abbiamo fatto, ndr.) ci
perseguiterà per sempre".
L'unica cosa che possiamo fare per imparare ad affrontare il
"deserto del reale" è dunque quella di essere abbastanza forti per
ricordare "correttamente" i fatti reali e, come dice Jacques Marie Émile
Lacan: imparare ad "attraversare la fantasia"130,
Attraversare la fantasia significa allora identificarsi completamente con essa...
e come afferma Richard Boothby
130 Nel termine fantasia Lacan include tutti quei meccanismi di difesa idiosincratici che strutturano quell'ecceso che resiste alla nostra immersione nella realtà quotidiana.
116
...subire il richiamo della fantasia in modo più profondo che mai [...] essere
condotti in una relazione sempre più intima con quel nucleo reale della fantasia che
supera l'immaginario131.
Di certo il cinema addosso segue questa strada. Nei film che
accettano il caso come guida per entrare nel "reale", si sente infatti
l'eco heideggeriana della opposizione tra vita banale e vita autentica,
tra chi rifugge cioè dalla paura della morte e del "deserto del reale" e
chi invece, accettandola, vive profondamente, con "l'angoscia",
attraversando la cruda realtà e ponendosi nella dimensione dell'ascolto
dell'essere.
131 S. Žižek, Benvenuti..., cit., p. 22
117
2.3. Fame di vero?
Dieci anni dopo l'attentato (che continuiamo ad usare
simbolicamente come deus ex machina per il nostro ragionamento),
non ci resta che sperare che la seppur iniziale diffusione del cinema
addosso in circuiti prima insospettabili 132 e soprattutto il favore
mostrato dal pubblico nei suoi confronti, non sia solo una moda
passeggera ma il sintomo di una "fame di vero" di una parte sempre più
folta di pubblico (oltre che ovviamente degli autori) che inizia a
consolidarsi. Un debole ma significativo segno del nuovo secolo non più
portatore di "passione per il reale" come è stato il XX° secolo, ma
neanche, come si pensa, di assoluta "passione per il virtuale".
È proprio l'interesse del pubblico nei riguardi del cinema addosso,
che ci fa ben sperare che il XXI° possa rivelarsi il secolo di un "nuovo
reale".
In tal senso ci sembra opportuno che la vecchia dicitura cinema del
reale, venga sostituita con quella di cinema "nel" reale. Un cinema che
non ha più paura del deserto in cui viviamo.
132 L. PICCININI, La fiction è finita...cit., pp. 68-‐76
118
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125
Schede dei film133
Below sea level
Anno: 2008
Paese: Italia/USA
Regia: Gianfranco Rosi
Produzione: 21oneproductions
Operatore: Gianfranco Rosi
Montatore: Jacopo Quadri
Suono: Gianfranco Rosi
Distributore: n.d.
Durata: 105'
Formato di proiezione: 35mm, colore
Ufficio Stampa: Studio PUNTOeVIRGOLA
Sinossi
In una terra di nessuno, a 40 metri sotto il livello del mare, in una base militare
dismessa a 250 km a Sud Est di Los Angeles, in un vasto deserto, vive un gruppo di persone
ai confini del mondo, senza elettricità, senza acqua, senza polizia, senza governo. Questa è
la storia di Ken e Lily, di Carol e Wayne, di Mike, Cindy e Sterling. Sembrano degli homeless,
ma non hanno nulla a che vedere con i "barboni". La loro vita scorre in una situazione
estrema e tuttavia riproduce la normalità. Cucinano, leggono, fanno l'amore, curano il loro
aspetto, cercano lavoro, fanno musica, coltivano ancora sogni… Non hanno rifiutato la
società, le convenzioni, la "normalità", ma ciascuno di loro, per circostanze diverse, si è
trovato "fuori". Sono la nuova povertà.
Premi
2009 Salina DOC Fest
Premio del Pubblico "Documentiamoci -‐ Finestra sul Presente"
2009 Bellaria Film Festival
Premio Casa Rossa Migliore Documentario dell'Anno
133 Cinemaitaliano.info
126
2009 Cinéma du Réel
Grand Prix Cinéma du Réel -‐ Prix du Jeane Public
2009 One World International Film Festival
Best Documentary
2009 Per il Cinema Italiano
Premio "Vittorio De Seta" Migliore Documentario
2008 Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia
Biografilm Lancia Award -‐ Documentario
Premio "Orizzonti Doc"
2008 Doc/it Professional Awards
Premio Doc/it
127
La bocca del lupo
Anno: 2010
Paese: Italia
Regia: Pietro Marcello
Produzione: Fondazione S. Marcellino O.N.L.U.S., Indigo film, L’Avventurosa film. In
collaborazione con: Rai cinema, Babe film. Con la partecipazione di: Genova film
commission
Operatore: Pietro Marcello
Montatore: Sara Fgaier
Suono: Emanuele Vernillo, Riccardo Spagnol
Musica: Marco Messina, Massimiliano Sacchi
Reperetori: Sara Fgaier
Distributore: B.I.M. Distribuzione
Durata: 68’
Formato di proiezione: 35mm e Digi Beta, colore
Ufficio Stampa: Ufficio Stampa BIM -‐ Federica De Sanctis / Claudia Tomassini & Associates
Vendite Estere: MK2
Sinossi
Un uomo torna a casa dopo una lunga assenza. Scende al volo da un treno in una
livida città portuale. L’attraversa cercando i luoghi di un tempo, ormai in dismissione, che
affiorano alla memoria nel loro antico splendore. Nella piccola dimora nel ghetto della città
vecchia, l’aspetta da anni una cena fredda e la compagna di una vita. Mary in strada ed
Enzo in carcere si sono aspettati e voluti sin dal tempo del loro incontro dietro le sbarre,
quando ancora si mandavano messaggi muti, registrati su cassette nascoste. Una casetta in
campagna sopra la città e il suo mare, questo è il loro sogno, lontano dal tempo presente,
sospeso in un altro tempo di semplice felicità. Ora e ancora, condividono il loro destino
furtivo con i compagni degli abissi nel dedalo di Croce Bianca, Madre di Dio, Sottoripa…
nomi antichi di un posto non ancora moderno dove il Novecento s’è incagliato come una
nave senza ancora.
128
Premi
2011 Premio Cinema Giovane
Menzione Speciale della Commissione
2010 ViaEmili@DocFest
Premio Doc/it Professional Award
2010 Nato Bene (Omaggio a Carmelo Bene)
Premio "Sud del Sud dei Santi"
2010 Bobbio Film Festival
Premio Migliore Regia
2010 Dokufest
Best International Feature Documentary Award
2010 Ischia Film Festival
Menzione Speciale della Giuria
2010 Premio Doc/it Professional Award
Premio Doc/it Professional Award
2010 Nastri d'Argento
Premio Migliore Documentario
2010 David di Donatello
Premio Migliore Documentario
2010 Buenos Aires Festival Internacional de Cine Independiente
Premio Especial del Jurado
2010 Festival Bolzano Cinema Filmtage
Premio "Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano" Migliore Documentario
129
2010 Cinéma du Réel
Prix International de la Scam
2010 Terra di Cinema Festival de Tremblay-‐en-‐France -‐ Mention Spéciale Documentaire
2010 Berlinale
Caligari-‐Preis
2010 Teddy Awards
Bester Dokumentar/Essayfilm
2010 BIF&ST – Bari International Film&Tv Festival
Premio "Vittorio De Seta" Miglior Documentario
2009 Filmmaker Doc Film Festival
Premio FNAC della Giuria dei Giovani
2009 Torino Film Festival
Premio Migliore Film Torino 27
130
Chiusura
Anno: 2001
Paese: Italia/Germania/Finlandia/UK
Regia: Alessandro Rossetto
Produzione: Fandango; in collaborazione con Tele +, ZDF, YLE TV2, Millenium Production
Produttore: Carlo Cresto Dina, Alessandro Rossetto
Fotografia: Gian Enrico Bianchi
Operatore: Alessandro Rossetto
Montatore: Jacopo Quadri
Suono: Marco Fiumara
Distributore: n.d.
Durata: 75'
Formato: 16mm
Sinossi
Inverno 1999/2000. I sobborghi di Padova, nel Nord-‐Est d'Italia. Flavia, una
parrucchiera, sta chiudendo il negozio dopo 43 anni di attività. Ha 61 anni. Ha lasciato la
scuola quando ne aveva 11. Ha fatto la parrucchiera da sempre.
Si sta lasciando dietro una clientela di anziane donne a cui ha fatto i capelli per anni
secondo un ritmo di appuntamenti regolari. Conosce ogni singolo capello delle loro teste. Le
anziane donne attraversano la strada. Rischiano di essere investite. La strada provinciale è
molto trafficata. Dall'altro lato di strisce pedonali sbiadite si può vedere l'insegna
"Parrucchiera Flavia" in bianco sulla saracinesca rossa. C'è una grossa parete a vetri sul
davanti e le altre parti sono foderate in similpelle. 40 metri quadri con un bagno nel
sottoscala.
Alle sette di sera dell'ultimo giorno, nel negozio è buio. Flavia è sola. Livia, la sua
assistente, è già andata a casa. Una lampada fioca illumina le mani di Flavia mentre mette
a posto piccole e grandi forbici. Le sue mani sono tutte rovinate, coperte di strane
screpolature parallele alle ossa delle dita, annerite dalle tinte. Alla fine Flavia chiude il
negozio che non riaprirà più. Chiusura è un film dei vecchi tempi. Ma anche molto più di
questo. Intorno al negozio di Flavia, riempito dalle chiacchiere quotidiane delle sue vecchie
clienti, vive la periferia di una piccola cittadina italiana. Una squadra di calcio femminile,
una stazione radio privata, un piccolo circo.
131
Premi
2002 Premio Libero Bizzarri -‐ DOC Film Festival
Secondo Premio Migliore Documentario Italiano
2001 Festival dei Popoli
Premio Migliore Documentario Italiano
132
A scuola
Anno: 2003
Paese: Italia/Francia
Regia: Leonardo Di Costanzo
Produzione: Fandango, Les Films D'Ici
Produttori: Carlo Cresto Dina, Richard Copans
Operatore: Leonardo Di Costanzo
Montatore: Aurelie Ricard, Mariangela Barbanente
Suono: Mariangela Barbanente
Distributore: Fandango Distribuzione
Durata: 60'
Formato di proiezione: Digi Beta Pal, colore
Sinossi
Periferia di Napoli. All’interno del rione Pazziano c’è la scuola media “Nino Cortese”.
Per un intero anno scolastico, Leonardo Di Costanzo ha seguito la vita nelle classi, nei
corridoi e nelle sale dei professori. Ma i protagonisti di questo documentario non sono i
ragazzi: “A Scuola” è un film sugli insegnanti e sulla preside che sono costretti a svolgere il
loro lavoro in completa assenza delle istituzioni e con il loro impegno riempiono di senso,
ancora e nonostante tutto, la scuola dell’obbligo.
Premi
2004, Filmmaker Doc Film Festival
Premio Migliore Documentario
2004, DOC Lisboa
Premio della Giuria "Odisseia Channel Award"
2004, Mediterraneo Video Festival
Premio Migliore Documentario
133
2004, Bianco Film Festival
Premio Menzione Speciale
2004, Visions du Réel
Prix Egli Film & Video AG
2004, Cinéma du Réel
Premio des Bibliothèques
134
Il castello
Anno: 2011
Paese: Italia
Regia: Massimo D’Anolfi e Martina Parenti
Produzione: Montmorency Film, Rai Cinema
Operatore: Massimo D’Anolfi
Montatore: Massimo D’Anolfi e Martina Parenti
Suono: Martina Parenti
Musica: Massimo Mariani
Distributore: n.d.
Durata: 90’ -‐ 53'
Formato: DVCpro HD
Ufficio Stampa: Studio Sottocorno
Vendite Estere: GA&A GROUP
Sinossi
Il castello è un film che racconta l’aeroporto di Malpensa, un luogo in cui la
burocrazia, le procedure e il controllo mettono a dura prova la libertà degli individui, degli
animali e delle merci che da lì transitano. L’aeroporto è un luogo strategico in cui si
concentrano tutte le forze dell’ordine esistenti in un paese. Qui si sperimentano le nuove
forme del controllo: un laboratorio permanente sulla sicurezza come nessun altro spazio
pubblico riesce ad essere. Servizi Segreti italiani e stranieri, Polizia di Frontiera, Guardia di
Finanza, Carabinieri, Guardie giurate, cani anti droga anti valuta e anti esplosivo,
telecamere ovunque e la paura sempre alimentata di un pericolo sconosciuto in arrivo.
Osservando il lavoro delle forze dell’ordine componiamo, in quattro movimenti, il ritratto di
una frontiera.
Premi
2011 EBS International Documentary Film Festival
Premio Speciale della Giuria
2011 HotDocs Toronto
Special Jury Prize International Feature
135
Illustrazioni
Below sea level (Gianfranco Rosi, 2008)
Below sea level (Gianfranco Rosi, 2008)
Below sea level (Gianfranco Rosi, 2008)
Below sea level (Gianfranco Rosi, 2008)
Below sea level (Gianfranco Rosi, 2008)
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La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
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La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2010)
Chiusura (Alessandro Rossetto, 2001)
Chiusura (Alessandro Rossetto, 2001)
Chiusura (Alessandro Rossetto, 2001)
Chiusura (Alessandro Rossetto, 2001)
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A scuola (Leonardo Di Costanzo, 2003)
A scuola (Leonardo Di Costanzo, 2003)
A scuola (Leonardo Di Costanzo, 2003)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
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Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
Il Castello (Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, 2011)
© www.luogocomune.net
© www.dailydigitals.com
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Ringraziamenti
Desidero ringraziare:
I miei genitori, sempre presenti e generosi.
I miei fraterni amici Tommaso Casini e Carolina Italiano per la loro disponibilità, il
loro buon umore e i consigli dispensati nei momenti più importanti. Per le letture, le
correzioni e le lamentele che hanno dovuto sopportare in questi anni. Con loro
ringrazio la mia "nipotina" Emma che più volte mi ha prestato il suo letto.
Enzo Vitaliti e Paola Valvo per la loro inossidabile amicizia, la loro pazienza e
l'indispensabile aiuto durante la stesura finale della tesi.
Marco Bertozzi per le lunghe e stimolanti chiacchierate in perfetta sintonia e per i
suoi lucidi e appassionati scritti, riferimenti indispensabili sull'argomento.
Il mio amico Angelo Sturiale, inseparabile compagno di avventure artistiche, per
l'aiuto nella revisione.
Più di tutti desidero ringraziare Geraldina Fuggetta senza la quale, di sicuro, tutto
questo non sarebbe successo.