‘Gender’, visione e sensi: nuova luce sul tabernacolo del Beato Chiarito (c. 1340, J. Paul Getty...

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Barbara Baert “Gender”, visione e sensi nuova luce sul tabernacolo del Beato Chiarito (c. 1340, J. Paul Getty Museum) Barbara Baert Università Cattolica di Lovanio, Belgio [email protected] Il tabernacolo del Beato Chiarito, ora conservato presso il Museo ‘J. Paul Getty’ di Malibù (Los Angeles) ed attribuito a Pacino di Bonaguida (ca. 1302–1340) è unico nel suo genere, tanto in relazione alla sua iconografia quanto in relazione all’utilizzo di diverse tecniche pittoriche. L’opera presenta una concezione di visione che si attiva nel rapporto tra l’opera d’arte e lo spettatore. Tale rapporto è singolarmente performativo e ricettivo nei confronti dell’esperienza mistico-visionaria attraverso la combinazione di tre livelli di significato: anzitutto la mediazione di tecniche visive, tanto iconografiche che comunicative; in secondo luogo il ruolo assunto dall’Eucaristia; e, infine ma non meno importante, l’approccio integrato nei confronti della sensibilità, con la sinestesia tra vista e gusto. Parole chiave: Beato Chiarito, Pacino di Bonaguida, visione, tabernacolo, eucaristia, arte mistica, spiritualità femminile, sensi, incarnazione, Trecento Italiano Dicesti il vero, e benché tardi intesi. Ma pur, nel mio cordoglio, Con riflesso di duol, voglio e non voglio. Voglio tempo per risolvere La bellezza in: La bellezza ravveduta nel trionfo e del disinganno Oratorio in due parti, Roma, 1707 Georg Friedrich Haendel, Libretto Benedetto Pamphili Questo articolo prende le mosse dal trittico (e, insieme, dal tabernacolo) del Beato Chiarito, ora conservato presso il Museo “J. Paul Getty” di Malibù (Los Angeles) ed attribuito a Pacino di Bonaguida (ca. 1302–1340, fig. 1). 1 Tale opera è unica nel suo genere, tanto in relazione alla sua iconografia quanto in relazione all’utilizzo di diverse tecniche pittoriche. Il soggetto del tabernacolo e la sua efficacia, ottenuta dalla combinazione di diversi mezzi di comunicazione visiva, contribuiscono ad una migliore comprensione del significato della ‘visione’ e del ‘veggente’ nell’Italia del Trecento, nell’ambito della spiritualità mistica dei laici. Il caso presenta una concezione di visione che si attiva nel rapporto tra l’opera d’arte e lo spettatore. Tale rapporto è singolarmente performativo e ricettivo nei confronti dell’esperienza mistico-visionaria attraverso la combinazione di tre livelli di significato: anzitutto la mediazione di tecniche visive, tanto iconografiche che comunicative; in secondo luogo il ruolo assunto dall’Eu- caristia; e, infine ma non meno importante, l’approccio integrato nei confronti della sensibilità, con la sinestesia tra vista e gusto. “Per visibilia invisibilia demonstramus” Il pannello centrale del trittico mostra la figura di Cristo, circondato dai dodici apostoli in ginocchio. Le fi- gure non sono dipinte, ma sbalzate e incise in rilievo sullo sfondo d’oro, secondo la tecnica cosiddetta del rilievo UDK: 75.04:247.2(450)“13“

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Barbara Baert

“Gender”, visione e sensi nuova luce sul tabernacolo del Beato Chiarito (c. 1340, J. Paul Getty Museum)

Barbara BaertUniversità Cattolica di Lovanio, Belgio

[email protected]

Il tabernacolo del Beato Chiarito, ora conservato presso il Museo ‘J. Paul Getty’ di Malibù (Los Angeles) ed attribuito a Pacino di Bonaguida (ca. 1302–1340) è unico nel suo genere, tanto in relazione alla sua iconografia quanto in relazione all’utilizzo di diverse tecniche pittoriche. L’opera presenta una concezione di visione che si attiva nel rapporto tra l’opera d’arte e lo spettatore. Tale rapporto è singolarmente performativo e ricettivo nei confronti dell’esperienza mistico-visionaria attraverso la combinazione di tre livelli di significato: anzitutto la mediazione di tecniche visive, tanto iconografiche che comunicative; in secondo luogo il ruolo assunto dall’Eucaristia; e, infine ma non meno importante, l’approccio integrato nei confronti della sensibilità, con la sinestesia tra vista e gusto.

Parole chiave: Beato Chiarito, Pacino di Bonaguida, visione, tabernacolo, eucaristia, arte mistica, spiritualità femminile, sensi, incarnazione, Trecento Italiano

Dicesti il vero, e benché tardi intesi. Ma pur, nel mio cordoglio,

Con riflesso di duol, voglio e non voglio. Voglio tempo per risolvere

La bellezza in: La bellezza ravveduta nel trionfo e del disingannoOratorio in due parti, Roma, 1707

Georg Friedrich Haendel, Libretto Benedetto Pamphili

Questo articolo prende le mosse dal trittico (e, insieme, dal tabernacolo) del Beato Chiarito, ora conservato presso il Museo “J. Paul Getty” di Malibù (Los Angeles) ed attribuito a Pacino di Bonaguida (ca. 1302–1340, fig. 1).1 Tale opera è unica nel suo genere, tanto in relazione alla sua iconografia quanto in relazione all’utilizzo di diverse tecniche pittoriche. Il soggetto del tabernacolo e la sua efficacia, ottenuta dalla combinazione di diversi mezzi di comunicazione visiva, contribuiscono ad una migliore comprensione del significato della ‘visione’ e del ‘veggente’ nell’Italia del Trecento, nell’ambito della spiritualità mistica dei laici. Il caso presenta una concezione di visione che si attiva nel rapporto tra l’opera d’arte e lo spettatore. Tale rapporto è singolarmente performativo e ricettivo nei confronti dell’esperienza mistico-visionaria attraverso la combinazione di tre livelli di significato: anzitutto la mediazione di tecniche visive, tanto iconografiche che comunicative; in secondo luogo il ruolo assunto dall’Eu-caristia; e, infine ma non meno importante, l’approccio integrato nei confronti della sensibilità, con la sinestesia tra vista e gusto.

“Per visibilia invisibilia demonstramus”

Il pannello centrale del trittico mostra la figura di Cristo, circondato dai dodici apostoli in ginocchio. Le fi-gure non sono dipinte, ma sbalzate e incise in rilievo sullo sfondo d’oro, secondo la tecnica cosiddetta del rilievo

UDK: 75.04:247.2(450)“13“

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a gesso (fig. 2). Il pannello di sinistra, in posizione aperta, mostra nella parte superiore Caterina d’Alessandria e il matrimonio mistico2 mentre, al di sotto, sono rappresentate alcune scene della Passione di Cristo. Il pannello di destra mostra, nella parte superiore, una particolare interpretazione della Trinità. Nella predella d’altare, infine, le scene si riferiscono all’Eucaristia. In queste scene, una figura maschile in abito grigio viene ripetuta tre volte: si tratta del Beato Chiarito del Voglia. Nella Vita del Beato, riprodotta dai Padri Bollandisti, i suoi vestiti vengono infatti descritti “coloris cinerii tendentis... ad nigredinem”.3

Chiarito nasce intorno al 1300 da una nobile famiglia fiorentina;4 nel 1342 egli si fa monaco, pur mantenendo lo stato laicale; egli sarebbe infatti rimasto sposato fino alla morte, sopravvenuta nell’anno 1347. Nel Cinquecento egli verrà elevato all’onore degli altari. Il tabernacolo eponimo era destinato alle religiose agostiniane di Santa Maria “Regina Coeli”, in via San Gallo a Firenze.5 Chiarito fondò questo monastero e ne finanziò la costruzione nel 1342. Al seguito di una visione di San Zenobio (1328), Chiarito e sua moglie Costanza Dolcibeni avevano pronunciato il voto di castità e si erano dedicati, rimanendo sposati, alla cura delle religiose. La già citata Vita testimonia del rapporto privilegiato tra Chiarito e le suore contemplative di Santa Maria, dove egli era solito servire Messa.6

Richard Offner, nel 1956, attribuì il tabernacolo di Chiarito a Pacino di Bonaguida (ca. 1302-1340).7 Siccome la morte dell’artista fiorentino sembra risalire al 1340, Klaus Krüger ha datato il tabernacolo a quello stesso anno come terminus ante quem.8 Sennonché una data del genere mal si accorda con la fondazione del monastero di Santa Maria “Regina Coeli”. Ora, proprio la fondazione nel 1342 sarebbe una ragione plausibile per la committenza del tabernacolo. Considerata la massiccia presenza di Chiarito nell’iconografia del tabernacolo, sono propensa a situare il trittico tra gli anni 1342 e 1347 e quindi, se Pacino in realtà era già morto nel 1340, a situarlo nella bot-tega dell’artista;9 esso potrebbe essere magari opera di un epigono di Pacino, risalente al periodo in cui Chiarito era in intensi legami con le monache agostiniane di via San Gallo. Non abbiamo dei documenti sulle circostanze precise della committenza e della finitura. Nella Vita si ricorda il funerale di Chiarito, ai piedi di un grande taberna-colo - supra maius altare ad pedem tabernaculi - dedicato alla devozione del Crocifisso e collocato dietro il ciborio del Santissimo Sacramento, custodito gelosamente dalle Religiose. La fonte agiografica suggerisce una speciale devozione eucaristica ed uno stretto legame spirituale tra il SS. Sacramento, le Agostiniane e il laico Chiarito.10

Il tabernacolo Chiarito è interessante dal punto di vista formale per l’impiego di tecniche miste. La tecnica pittorica vi è combinata con foglia d’oro lavorata: la tecnica a gesso, lo sfondo lustrato, le figure a bassorilievo o ‘Pressbrokat’. Il prezioso trattamento dell’oro doveva imitare la tecnica orafa dell’epoca. La combinazione di tem-pera ed oro si riferisce inoltre alla duplice funzione del trittico: come pala d’altare o retabulum, da un lato, e come tabernaculum, dall’altro. Attraverso l’integrazione di materiali e di tecniche diversi, l’artista riesce a differenziare anche distinti livelli narrativi ed iconografici.11 Le parti verniciate, sui lati e in basso sulla predella, rimandano rispettivamente alla storia biblica e a quella corrente. Lo spazio centrale, in oro, è autenticamente meta-storico; esso sfugge allo spazio e al tempo attuali ed indica il mondo trascendente.

L’intreccio tra l’iconografia storica (dipinta) e quella meta-storica (in oro) spezza in due, a sua volta, l’espe-rienza visiva dello spettatore. Il pannello centrale con il bassorilievo in oro indica la parte interna, il luogo santissi-mo del tabernacolo. Questo metallo prezioso è ciò che, nel mondo materiale, per il suo splendore maggiormente si approssima al trascendente. Gregorio Magno, nei suoi Dialoghi, considera il momento della transustanziazione come l’attimo in cui il naturale e visibile si coniuga con l’invisibile (il Divino).12 Identico a tale mistero è quello dell’unione del mondo terreno con il mondo celeste. La ripartizione tra il visibile e l’invisibile è anche alla base della definizione di immagine cristiana: per visibilia invisibilia demonstramus, dice Agostino di Ippona.13 Il Padre della Chiesa intende qui i diversi piani della percezione visiva e della comprensione intellettuale. Vi è dapprima la lettura di parole senza che uno capisca; questo piano è quello puramente corporale. Vi è poi un vedere spirituale, laddove le parole possono venire interpretate attraverso una mediazione intellettuale. Quest’ultimo è il livello di un vedere che subito accade nella mente;14 e le immagini possono raggiungere un tale tipo di ‘vista’ una volta che siano date la forma e la materia. L’oro contiene in guisa eccellente la capacità di elevare lo sguardo dal visibile all’invisibile.15 L’oro racchiude la portata contemplativa e l’integrazione dell’immagine artistica materiale nella

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1. Pacino di Bonaguida, 1340 (?), Tabernacolo di Chiarito, The Getty Museum, Los Angeles

2. Tabernacolo di Chiarito, particolare di tecnica a gesso, The Getty Museum, Los Angeles

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visione di Dio nell’anima. Codesta visione interna quale “impronta dell’anima” viene espressa quasi letteralmente grazie alla tecnica del Pressbrokat.

Il Beato Chiarito e l’Eucaristia

Il trittico del B. Chiarito è un tabernacolo. Il termine tabernaculum, nel Medioevo, rimanda ad una gamma piuttosto ampia di oggetti che giocano un ruolo nella celebrazione eucaristica, tra cui la nicchia nella parete ovvero l’armadietto sospeso per la conservazione dell’ostia consacrata; in questa più specifica accezione il termine è tutt’og-gi in uso.16 Nell’Italia del Trecento l’ostia, il più delle volte, veniva custodita in una pisside tenuta sull’altare. Una pala d’altare vi si trovava eventualmente dietro: retro altare. Il trittico di Pacino di Bonaguida serviva dunque come pala eucaristica, tramite la quale l’ostensio eucaristica veniva sostenuta in modo da permettere al fedele che la osservava di partecipare anche in maniera performativa al rito eucaristico. L’adorazione ed ostensione dell’ostia erano state rese obbligatorie dal Concilio Lateranense IV nel 1215: esse richiedevano che il sacerdote, con le spalle rivolte all’as-semblea, sollevasse in alto l’ostia consacrata. L’ostensione costituiva il momento culminante nell’azione drammatica dell’Eucaristia.17 La devozione per il corpo di Cristo, a partire da inizio Duecento, assume perciò un connotato visivo.

Nel 1317 venne inserito nel calendario liturgico l’ufficio del Corpus Domini, di cui era obbligo fare memo-ria in giugno, il giovedì dopo la Festa della SS. Trinità. Durante il Trecento, la devozione eucaristica si estese ad altre festività e veniva richiesta e celebrata. Si giunse al punto che, nel Quattrocento, si dovette porre un freno al successo di tale devozione.18 In precedenza, tuttavia, si era già riconosciuto che era preferibile conservare l’ostia sub clave (1311, Papa Clemente V), dal momento che i fedeli desideravano con troppo fervore “vedere” il corpo di Cristo.19 Soprattutto nelle comunità religiose femminili, la devozione del SS. Sacramento crebbe sino a sbocciare in autentiche esperienze mistiche che confinavano con veri e proprî eccessi. Ad esempio, vi fu una donna di nome Giuliana Corné Lion († 1258), priora dell’abbazia di Mont-Cornillon a Liegi, la quale diede stimolo ed incoraggia-mento, nella prima metà del Duecento, al culto per l’ostia consacrata.20 Le suore cui l’ostia era stata somministrata cadevano in deliquio.21 Nelle cronache di Schönensteinbach si spiega come Margreth Slaffigin (sec. XIV), nutrisse desiderio irrefrenabile di vedere, toccare, gustare l’ostia.22 Quando il sacerdone mise via l’ostia nell’ostensorio, ella lo seguì senza abbandonarlo; Margreth pregò e digiunò per l’intera giornata, finché le fosse finalmente concesso di bere l’acqua con la quale il prete si era lavato le dita che avevano toccato il SS. Sacramento. Altre suore, durante l’elevazione e l’ostensione, avevano creduto di vedere il Bambino Gesù in persona, o sostevenavo di vedere l’ostia meravigliosa anche a porte chiuse:23 la cosiddetta “comunione oculare” ovvero il gustare con gli occhi che è una sinestesia speciale nella sfera sensoriale, sviluppata dalla mistica femminile del Trecento.24

Con le sue dimensioni di 102-113 cm, il tabernacolo di Chiarito si discosta dalla norma.25 Esso è troppo grande per una funzione pubblica e troppo piccolo per un ufficio privato. Questo formato di mezzo si deve pro-babilmente alla sua intima ed esclusiva destinazione, vale a dire la comunità di religiose. Esso è stato prodotto per l’uso claustrale e il rito monastico, sicché possiamo ben immaginare che il trittico in determinati giorni e orari fos-se aperto. Il pannello centrale d’oro del tabernacolo, dunque, dà forma al decor dell’ostensione; in questo senso, il pannello centrale opera una mediazione tra lo spettatore e il mistero della transustanziazione. La mediazione consiste nella spiegazione iconografica del miracolo invisibile, il quale diviene “visibile” nell’esperienza interiore. Il ruolo mediatore del tabernacolo, di conseguenza, si articola altresì nella relazione tra il mondo interiore ed il mondo esteriore, tra l’esperienza intima e la devozione comunitaria, così come tra il vedere e il gustare.

L’iconografia del pannello centrale è notevole. Nel suo articolo su Pacino di Bonaguida del 1956, Richard Offner definisce tale peculiarità iconografica “an esoteric treatment of a doctrinal matter so it requires familiarity with the iconography beyond the common, with theological problems”.26 Dal centro del corpo di Cristo si dipar-tono dodici cannucce che raggiungono la bocca degli Apostoli: esse sembrano altrettanti cordoni ombelicali. Ad un’ulteriore e più attenta osservazione, inoltre, possiamo notare un tredicesimo “cordone ombelicale”, che scende

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verticalmente sul pannello centrale fino a raggiungere, in basso, la scena raffigurata sulla predella, laddove esso si congiunge nell’ostia che Chiarito sta per ricevere dalle mani dell’officiante. In questo modo, la funzione mediatrice tra la realtà del sacramento e il suo significato glorioso risulta rappresentata letteralmente. L’ostia è, secondo il dog-ma, il corpo di Cristo: ciò viene esplicitato grazie alla connessione di due mondi pittorici: la messa in scena storica e l’epifania atemporale. Ad entrambi il lati di questa scena sono visualizzati dei miracoli che rimandano alla biografia di Chiarito. A sinistra Chiarito vede come dall’ostia spuntino steli di grano;27 a destra, invece, dei raggi dorati proma-nano dall’ostia e raggiungono la bocca di Chiariro, postosi in ginocchio e raccolto in preghiera.28

L’anta di destra si riferisce poi ad una visione del B. Chiarito. Vediamo, nella parte inferiore, ch’egli ascolta la predica tenuta da un frate domenicano; egli sta a lato del pulpito in attegiamento riservato. La scena è a sua volta ambigua poiché mette insieme un ambientazione d’epoca con un avvenimento allegorico nella parte superiore. Dal costato del Cristo, nella raffigurazione allegorica della SS. Trinità, sgorga infatti il sangue che piove sul pubbli-co in ascolto del sermone del frate. Si tratta, verosimilmente, di una rappresentazione del contenuto del sermone. I Domenicani predicavano la fede nella Trinità e il sacrificio salvico di Cristo come importanti exempla. Ma questo non è tutto: la suddetta ambiguità tra il piano allegorico ed il mondo reale è attivata attraverso lo sguardo dello stesso B. Chiarito (e, per estensione, anche dallo sguardo delle religiose agostiniane). Il fatto che l’immagine di Chiarito, cui noi partecipiamo, sia di sua natura visionaria, è testimoniato dai i raggi dorati che, come dardi, esco-no dai suoi occhi. La platea che assiste alla predica del frate non può vedere codesti raggi, che rimangono nasco-sti dal pulpito: la mano dell’artista fa’ sì che il Beato riveli solo a noi, discretamente, la propria dote di veggente, ossia l’effetto della sua fede nella Trinità.

La visione della emorragia trinitaria non è menzionato nella Vita, ma calza perfettamente con lo spirito mistico dell’epoca in cui il B. Chiarino visse e operò. Angela da Foligno († 1309), da religiosa, aveva avuto una visione simile.29 Chiara da Montefalco († 1308), in onore della Trinità, teneva sempre sul suo corpo tre pietre.30 E il frate francescano Giovanni della Verna († 1322) descrive una visione della Trinità come trono del Verbo, proprio come raffigurato nel tabernacolo di Chiarito.31 Nel 1334 è stata ufficialmente introdotta la Festa della Trinità. La festa, in precedenza, era fusa assieme a quella del Corpus Christi, come si è detto. Sicché, tipico per la prima metà del Trecento, è il fatto che la Trinità fosse effettivamente una componente dell’Eucaristia, sul piano devozionale, spirituale e dogmatico.32 L’influente signore Elzear de Sabran (1285–1323), sposo casto di Provenza, diffondeva attivamente l’idea della comunione come “partecipazione diretta al mistero della Santa Trinità”.33 Chi consuma l’ostia ottiene l’accesso alla Trinità, in base alle concezioni diffuse tra laici consacrati e Mendicanti.34 Tale accesso trinitario è considerato un excessus amoris, sennonché tale excessus non a tutti è dato. Si richiede la meditazione individuale ed uno stile di vita “spirituale”. Per il popolo dei fedeli e le persone inesperte, tuttavia, il mistero della Trinità può essere colto ascoltando le prediche. Nella prima metà del Trecento, perciò, si incrementa un ben de-terminato clima sociale e spirituale, all’interno del quale anche un laico può guadagnare un ruolo esemplare nella cura monialium e godere di un’autorità religiosa come fosse una voce dal pulpito.

Il tabernacolo di Chiarito si connette a codesto ambiente. Il Beato si trova rappresentato all’interno del tabernacolo come un testimone e un divulgatore del’insegnamento trasmesso dai sermoni di piazza, ma anche come un veggente che ha esperienza degli effetti e delle meraviglie del SS. Sacramento. In breve, il B. Chiarito è presentato come un uomo privilegiato, che grazie alle sue scelte spirituali si immerge più in profondità di altri nei misteri della Trinità e del Corpo di Cristo; in questo modo egli diventa il modello per il suo ambiente, vale a dire per le Agostiniane per le quali la pala d’altare era destinata.35

La Comunione apostolica

Nella scena centrale del tabernacolo, i dodici Apostoli vengono “nutriti” da Cristo. Essi sono uniti tramite le famose parole: “Questo è il mio sangue, questo è il mio corpo.” Gli Apostoli sono rappresentati in ginocchio: in

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genuflectione.36 La scena si collega all’iconografia della comunione apostolica. Tale iconografia si è sviluppata in Oriente nei primi tempi del Cristianesimo.37 A differenza della tradizionale ultima cena, nella comunione apostoli-ca è Cristo colui che attivamente porge l’offerta del pane e del vino. Tale evento si svolge spesso sotto un ciborio liturgico. Gli apostoli sono separati in due gruppi e si mettono in fila verso il centro, presso Gesù, per ricevere la comunione. La comunione apostolica non è che l’attualizzazione liturgica del significato dell’Ultima Cena. Si è trattato di un soggetto popolare raffigurato sulle patene, come la patena d’argento Stûma (fig. 3).38 Su codesta patena Cristo è duplicato. Sulla sinistra, egli porge il calice ad uno degli apostoli; sulla destra, un altro apostolo bacia la mano di Cristo come farebbe con quella di un prete. Raffigurazioni simili comparivano sulle icone, su dipinti murali e su tessuti, come il ricamo dal monastero di Chilandaro sul Monte Athos. In Occidente la Comu-nione degli Apostoli emerge come iconografia alternativa all’Ultima Cena a partire dal Trecento. Come esempio precoce (e forse primo) vi è una tavola tratta da un polittico fiorentino, ora conservata in Vaticano (fig. 4);39 l’imma-gine manifesta ancora robuste memorie dell’Ultima Cena. Cristo sta di fronte alla tavola; gli apostoli confluiscono lungo ciascun lato per ricevere l’ostia consacrata. L’ambientazione ricorda una cappella contemporanea. Ci si può domandare se questa iconografia si sia sviluppata in Italia in maniera autonoma, stimolata, per esempio, da un incremento delle preoccupazioni di ordine spirituale nei confronti del sacramento; oppure se lo sviluppo sia avvenuto sotto influenza orientale, dato l’afflusso cospicuo di arte bizantina in Italia. Nel secondo caso, tuttavia, occorre rilevare che non si tratta comunque di una influenza diretta sulla composizione. L’ambientazione classica dell’Ultima Cena rimane adombrata nella variante occidentale della Comunione apostolica.

Tenendo tutto ciò ben a mente, il pannello centrale di Pacino di Bonaguida costituisce, per diversi motivi, un’eccezione. Per quanto gli Apostoli, come negli esempi orientali, si dividano in due gruppi ai lati del Cristo (inginocchinadosi progressivamente verso il basso del rilievo), non è questione di scambio effetivo dell’ostia e/o del calice per mezzo delle Sue mani. Cristo è egli stesso, intrinsecamente, cibo per gli Apostoli: Egli è l’altare e la “mensa”. Le figure appaiono sospese nel trascendente, lo spazio d’oro, laddove il pannello dorato sembra essere il portatore del sacramento. L’oro, in un certo senso, rinvia alla Comunione apostolica della tradizione orientale, rappresentata sulle patene dorate.40

Gli Apostoli hanno ricevuto la comunione direttamente nella loro bocca attraverso le cannucce che si di-partono del centro del corpo (l’ombelico?) di Cristo. Tali tubicini presentano delle affinità con un oggetto liturgico: le fistulae (fig. 5). Le “fistole” venivano costruite in argento od oro e permettevano ai celebranti di succhiare il vino dal calice.41 Codesto uso liturgico venne più tardi limitato alla Corte papale, ma prima del Concilio di Costanza (29 maggio 1415) esso era comune e diffuso ovunque. Il pannello centrale può quindi fare riferimento ad una pratica del genere, in uso nel monastero di Santa Maria “Regina Coeli” in Firenze. Gli apostoli hanno ricevuto da Cristo il mandato di Cristo di diffondere la buona novella e di edificare la chiesa per farne una instituzione.42 Le fistulae esprimono in modo plastico questo mandato per la fondazione della Chiesa. E il nostro tabernacolo non è forse, in ultima analisi, un tabernacolo di fondazione? Il Beato Chiarito non vi riceve forse, come un “tredicesimo apostolo”, il sangue di Cristo che gocciola verso il basso della predella?

Non ci sono modelli iconografici noti del pannello centrale. Di conseguenza, mi preme esplorare ulterior-mente la sua iconografia sulla base delle relative composizioni figurative. Questo metodo permette di determina-re reminiscenze e riflessi di precise convenzioni iconografiche così come il loro significato. La grammatica visiva di questa scena è in primo luogo legata a quella della Pentecoste, astrazion fatta per la presenza di Cristo. È noto che la sapienza ricevuta in dono viene paragonata al cibo offerto dallo Spirito Santo.43 Inoltre, nel calendario liturgico, la festa della Pentecoste precede quella della Trinità, che a sua volta precede, di pochi giorni, quella del Corpus Domini. Il tabernacolo rimanda quindi ad eventi consecutivi tra la Passione e il tempo di Pasqua, episodi richiamati anche nel pannello laterale sinistro.

In secondo luogo, vi sono analogie con l’iconografia della seconda venuta di Cristo sulla Terra alla fine dei tempi: la parousia. Questo Adventus secundus annuncia il Giudizio Universale.44 Anche in quel caso gli Apostoli sono radunati attorno a Cristo per essere partecipi del Suo corpo, vestito di tunica e con il rotolo di pergamena,

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3. Comunione degli Apostoli, patena di stûma, argento, 565-578 d.C., Museo Archeologico, Costantinopoli

5. Esempi di fistole (J. Perrin, a cura di, 1999, p. 150)

4 Comunione degli apostoli, particolare di polittico, anonimo, primi anni sec. XIV, Musei Vaticani

6. Mosaico absidale raffigurante la Parousia, sec. V, Basilica di Santa Pudenziana, Roma

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nel momento della sua seconda manifestazione. Un esempio è costituto dall’abside di Santa Pudenziana, a Roma, risalente al sec. V (fig. 6). Siamo così in grado, a poco a poco, di interpretare il pannello come un riflesso dell’evento eucaristico non nel contesto evangelico e letterario, ma nel contesto metaforico e trascendente di una Chiesa apostolica con una forte carica escatologica; una dimensione che grazie ai credenti diviene “autentica” nel corso del rito, in funzione del quale la nostra pala d’altare era intesa.45 Non è dunque senza valore che i molteplici si-gnificati del pannello centrale siano tutti fondati su raffigurazioni patristiche e sull’iconografia paleocristiana. In breve, la stratificazione del nostro enigma iconografico sembra portarci indietro ai tempi della Chiesa primitiva.

Nella prima metà del Trecento ha luogo in Italia una importante riforma indentificabile con la riscoperta dei valori della Chiesa apostolica o, ancora, della ecclesia primitiva.46 I seguaci di questo risveglio religioso cercano di vivere secondo il costume della Chiesa apostolica.47 Le idee di riforma condussero a gruppi settarî di Apostolici, detti anche minimi, pseudo-apostolici, o pauperes Christi.48 Questi gruppi radicali disconoscevano qualsiasi struttura eccle-siale, gerarchia o istituzione di potere; essi si rifiutavano di partecipare alla messa. I membri di tale setta non si nutri-vano di carne e si opponevano al matrimonio. Anche quando i loro leaders, il toscano Gherardo Segarelli e fra’ Dolci-no, morirono sul rogo rispettivamente nel 1300 e nel 1307, il movimento, per almeno mezzo secolo, non si spense.

Durante la prima metà del Trecento sorse così una contro-tendenza, guidata dal Beato Placido da Foligno, morto nel 1398. Questi fratres apostolorum, moderati e rispettosi delle gerarchie ecclesiastiche, rispettavano an-che la prassi liturgica, sebbene condividessero delle credenze radicali in materia di povertà e la predicazione itinerante di città in città, il tutto nel segno di una rinascita dei valori apostolici. La festa di Pentecoste era par-ticolarmente cara a codesti “Fratelli apostolici”, proprio perché essa rispecchiava il primo dovere degli Apostoli: la diffusione dell’annuncio. Si constata così come le idee di questo movimento non fossero molto distanti dalla forma di vita dei fratres minores, degli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani, così come dei laici consacrati, come Chiarito. Alla fine, tutti questi gruppi si ricollegavano ad una più vasta ideologia di quel tempo, talora con alcuni acuti, talaltra in maniera più morbida. Il fatto che la scena dorata del Cristo nel tabernacolo sia così poco consueta, può avere a che fare con il riaccendersi estemporaneo dei suddetti ideali apostolici in un contesto spe-cifico e ralativamente “privato” come quello delle religiose contemplative nel loro rapporto con il B. Chiarito. Del resto, l’idea di alimentare una base “mistica” più ampia venne avvertita nella Firenze del tempo.

Cristo il nutritore

Gli apostoli, per mezzo delle cannucce (fistulae), consumano il sangue di Cristo. Quel sangue scorre loro in bocca, non dal calice, ma dall’ombelico di Cristo. Cristo stesso è la coppa del sacrificio; egli si svuota come una fonte di nutrimento.49 Cerco di afferrare ora il contesto spirituale da cui questa idea è potuta affiorare alla coscienza. Grazie ai lavori pioneristici di Caroline Walker Bynum nel campo degli studi medievali abbiamo ormai familiarità con l’idea di “Gesù come madre”.50 La femminilizzazione e maternizzazione di Cristo fu un processo caratterizzato da tre fattori.

In primo luogo, il prevalere durante il Medioevo della convinzione secondo cui solo il genere femmini-le conosce cosa sia l’amore incondizionato: l’amore di madre. Bernardo di Chiaravalle (1091-1153) si esprime a questo proposito con il sintagma mater magister.51 Rispetto al “maestro”, la “madre” non è capace d’altro se non d’amore. Di conseguenza, l’abate è anche la “madre” del monastero. L’amore disinteressato come dono spirituale di sé viene pertanto incorporato nella femminilità in quanto genere. Tale fascinazione risale perlomeno al sec. XII. Guerrico, abate di Igny († 1157 ca) descrive la relazione d’amore con Cristo in termini di maternità.52 La maternità era il modello per pensare l’amore assoluto, ma la maternità era altresì il modello per pensare l’integrazione, il “rapimento interiore” dell’amore da racchiudere nell’anima. La definizione della maternità come amore assoluto si lega con le facoltà della biologia femminile.

In secondo luogo, viveva la convinzione che solo i fluidi corporei femminili contenessero le sostanze nutri-tive, come per esempio il latte materno, il quale veniva tra l’altro considerato alla stregua di una “sostanza sangui-

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gna”.53 Testi spirituali tra il sec. XII ed il sec. XV evocano Cristo come “nutritore”.54 Ma il corpo del Cristo nutritore è consustanziale con la sostanza nutritiva. Cristo è il cibo.

In terzo luogo, vi era la convinzione che la “materialità”, in contrasto con la spiritualità, fosse di natura fem-minile, sicché la natura umana di Cristo, in contrasto con la sua natura divina, dovesse essere parimenti di natura femminile. Ildegarda di Bingen (1098-1179) aveva sostenuto che la carne di Cristo è “donna”, dal momento che Egli si è fatto uomo per mezzo di Maria.55 “In verità la carne, immacolata e intatta come una vergine sposa ap-partiene alla stirpe di Maria.”56 Per Ildegarda la natura divina di Cristo è maschile, mentre la Sua natura umana è femminile. Eva, creata dalla carne (la costola di Adamo), è la figura della Incarnazione stessa così come della felix culpa. Per Matilde di Magdeburgo (1207-1282) Maria è la natura umana presistente, così come il Logos è la natura divina presistente di Cristo.57 Nella letteratura devozionale, la “carne femminile” viene espressa tramite la nozione di tunica humanitatis. Secondo Margherita d’Oingt (1240-1310) e Caterina da Siena (1347-1380), Cristo riceve la “tunica” dalla sua natura umana. Egli si veste come se si avvolgesse nel mantello della femminilità, del genere femminile.58 La tunica humanitatis, di conseguenza, è anche una immagine della stessa dell’Incarnazione, del Verbo fatto carne: Verbum caro factum est (Gv 1, 14). Il Cristo della nostra Tavola indossa anch’egli la tunica, e soprattutto nella forma di uno stampo in oro. La combinazione del simbolismo mantello con questa tecnica rappresentativa rafforza in grande misura l’idea dell’incarnazione intesa come la dinamica del sigillo. Matilde di Hackeborn (1241-1299) vide come Cristo pose le mani su quelle di lei e produsse un’impronta simile al sigillo sulla cera.59 La pelle di lei e quella del Signore si legarono perfettamente come concavo e convesso.

La maternizzazione di Cristo prevede anche la relazione attiva Figlio e Maria. Giuliana di Norwich (1342-1416) afferma che Cristo è “madre”: il terreno della creazione, la nostra carne. Maria è madre anch’ella, ma in realtà ella non è che l’ombra della vera madre, che è Cristo. Il Figlio dell’Uomo ci conduce a Lui, come la madrea stessa si cela nel feto ch’ella reca in sé. Cristo è lui e lei: nella sua natura umana egli è uno in noi, come il feto che si sviluppa nel grembo materno.60 Come “contenitore” del corpo di Cristo, il tabernacolo viene percepito come femminile. L’a-stuccio o capsa dentro cui viene custodito il SS. Sacramento suggerisce perciò l’utero materno. Guglielmo Duran-di, nel suo Rationale divinorum officiorum (ca. 1285-1291), afferma letteralmente che la capsa dell’ostia consacrata non è che il corpo di Maria.61 Ciò spiega probabilmente anche la popolarità della Annunciazione sulle due ali dei tabernacoli, il tema per eccellenza del mistero dell’Incarnazione e della discesa corporale di Dio, attraverso la Ver-gine, e il suo farsi figlio.62 Al contrario, anche Maria si mascolinizza. Nel suo Saluto alla Vergine, Francesco d’Assisi si rivolge a Maria con i seguenti appellativi: “tabernacolo di Cristo” e “vestimento di Cristo”.63

All’interno della spiritualità di “Cristo Madre”, nel corso del Trecento, avviene una significativa svolta nella devozione eucaristica. Il simbolismo della maternità di Cristo muta in direzione del simbolismo eucaristico: “Nur-sing tends to become nursing with blood, not milk”64. Questo passaggio poteva avvenire prendendo le mosse da un altro principio intrinsecamente femminile: le doglie. Portare nuova vita implica sofferenza, come spiega Mar-gherita d’Oingt.65 Gertrude di Helfta (1256-1302) e Giuliana di Norwich sperimentano la loro spiritualità e i loro sentimenti per Cristo per mezzo della plastica rappresentazione del flusso sanguigno.66 Tale singolare e nuova forma di imitatio Christi , all’interno della spiritualità femminile, fece spazio alla raffigurazione del Cristo che allatta col sangue. Cristo nutre attraverso la ferita aperta nel Suo costato. Si tratta di una ferita che nutre per davvero, un’alternativa fisica al seno di Maria. “Il latte e il sangue sono intercambiabili, così come intercambiabili sono il petto di Cristo e la ferita nel Suo costato.”67 L’esempio più celebre di testo e immagine è offerto da Caterina da Sie-na, la quale si immagina di venire allattata dalla ferita costale di Cristo.68 Caroline Walker Bynum sostiene che: “Se il pane - il ‘corpo di carne e ossa’ con i suoi ben chiari e stabiliti confini - simboleggiava il ristoro dello spirito e, al-meno in certa misura, la Chiesa, il sangue costituiva invece un simbolo ben più complesso e ambivalente.”69 Come confermano le lettere di Caterina da Siena, il sangue - flusso della vita nelle vene di Cristo, guarigione, lavacro, cibo - è come il latte materno. In altri casi, tuttavia, il sangue è tabù, sudicio. Gertrude di Helfta considera il sangue alla stregua dei liquidi corporali più ripugnati, sebbene il Sacrificio eucaristico redima anche ciò che è così vile.70

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In questo modo la fascinazione per gli umori e liquidi corporei, nel Trecento, sopravvanza le precedenti me-tafore aucaristiche “secche” della tradizione monastica, come quella del pane angelico.71 L’Eucaristia diviene una imitatio Christi espressa nei termini della fame e della sete. Alcuni ricercatori vi riconoscono volentieri l’influenza di fattori socio-economici.72 Nelle realtà urbane europee in tumultousa crescita non mancavano certo preoccu-pazioni di vario tipo riguardanti l’approvvigionamento del cibo. Da un lato, il cibo nelle nuove città come Firenze non era più connesso semplicemente ai ritmi stagionali dell’agricoltura. La crescente alienazione dal ciclo rurale di produzione, saldatosi con una domanda e consumo crescenti di prodotti alimentari, ebbe un impatto duplice e ambivalente. Da una parte prese piede l’uso individuale, anche economicamente lucrativo, del digiuno, in forme che contrastavano gli stessi cicli naturali della produzione.73 D’altra parte, la città continuava a dipendere dalla campagna per le risorse alimentari. Ciò imponeva un equilibrio precario tra la produzione e i consumi, oggetto di negoziazione mercantile piuttosto che di raccolto naturale e misurato secondo una natura che fosse ancora a portata di mano. Questa scollatura tra la campagna e le necessità cittadine faceva sì che il mangiare (o il non mangiare) venissero a costituire un aspetto di vulnerabilità per la borghesia cittadina e anche, paradossalmente, un elemento di fissazione. Tale fissazione poteva essere incanalata nella devozione eucaristica ed originare nuovi accenti nella spiritualità cittadina della prima metà del Trecento.

“Gender”, visione e sensi

Il tabernacolo di Chiarito ci mostra un amalgama iconografico inconsueto che riguarda la passione di Cristo, la Trinità, la Comunione apostolica e la manifestazione del corpo di Cristo. Si tratta di un amalgama che, non molto tem-po più tardi, raggiungerà la sua esperienza culminante nello spirito di una mistica ispirata: Caterina da Siena, la quale nacque nello stesso anno in cui l’anima del B. Chiarito migrò al Padre. Fu quello un anno cupo nella storia dell’umanità: nel 1347 la Morte Nera falcidiò molti. Il tabernacolo si situa esattamente su quella drammatica cerniera del Trecento.

In conclusione di queste mie pagine mi piacerebbe riassumere il significato di questa particolare opera d’arte - così come il suo ruolo nel dibattito iconografico su “gender”, visione e sensi. Intendo farlo da cinque angolazioni distinte: (1) “The visual and the visionary”,74 (2) interazione interna ed esterna (immagine interiore ed immagine esteriore), (3) i livelli di stratificazione sociale, (4) il corpo come medio spirituale della sensibilità e la sinestesia, e finalmente (5) la concezione della “incarnazione” nella spiritualità del Trecento.

(1) Nella più recente indagine sull’opera artistica e/o religiosa, vale a dire l’imponente catalogo della mostra Krone und Schleier del 2005,75 l’idea di “topos e funzione” ha rappresentato un motivo portante. Esso concerne le nozioni di “sensibilità di gender” e di “prova della presenza del gender” nell’arte, legate alla religiosità femminile, le quali si intensificano con la crescita, all’interno del monastero, del rapporto tra il luogo e l’immagine. In concreto: quanto più si precisa il luogo per cui viene destinato il medium visivo (avendo come estremi della scala, da un lato, lo spazio pubblico della casa di preghiera e, dall’altro, il segreto della cella individuale), tanto più le caratteristiche femminili si fanno evidenti. Come esempio, penso ai disegni intimi del Volto Santo (vera icon) fatti per l’uso priva-to all’interno della cella (fig. 7).76 Il tabernacolo del B. Chiarito appartiene invece alla zona intermedia: esso non è destinato a tutta la società indistintamente, ma neppure è destinato all’uso individuale. Esso è per la “comunità privata” delle stesse Religiose agostiniane. Il “formato intermedio” avvalora una destinazione del genere. Il taber-nacolo serve la visione raccolta di un gruppo di donne che si concepiscono come entità singola, suffragata da una iconografia specifica e specializzata. Per altro verso, le tecniche miste cui si è fatto riferimento in precedenza accompagnano l’anagogia dell’esperienza visiva. Il vedere spirituale non è unicamente una faccenda di donne tuttavia, come Jeffrey Hamburger ha mostrato nel suo The Visual and the Visionary, essa mette in evidenza una devozione tipicamente femminile. Matilde di Magdeburgo descrive il proprio rapporto al mezzo visivo con le se-guenti parole: “Urto sull’immagine sovrapposta all’immagine”.77 Il pannello centrale d’oro mette in risalto queste caratteristiche metafisiche e si propone come un’esperienza visionaria condivisa.

Baert, Gender visione e sensi

(2) Il tabernacolo media tra mondi diversi. Tra il mondo esterno dello spettatore e il mondo interiore del tabernacolo. Il quale mondo interiore è, a sua volta, diviso tra il racconto della Passione, il racconto delle visioni del Beato Chiarito, e il simbolismo di Cristo nutritore. Il B. Chiarito personifica l’attività mediatrice del tabernacolo. In qualità di mediatore, egli sta sulla soglia tra il mondo esterno e quello interno: la predella inferiore è, lette-ralmente, un drempelverlager, un “riduttore della distanza di soglia” tra la realtà quotidiana del rito eucaristico e l’atemporalità pittorica della visione dell’Eucaristia. Visioni che, altra volta, costituivano i momenti facenti parte della realtà performativa del monastero di via San Gallo. Il tabernacolo registra quei momenti e li eleva al livello di una “visionalità” che sorregge come una spina dorsale il rito senza tempo. Tra l’occhio della comunità di contem-plative e il loro tabernacolo vi sta un uomo, il cui ruolo non è perciò affatto neutrale, tale ruolo è quello di ponte tra la vista e la visione. Questa prospettiva mette in luce, inoltre, l’interazione tra i sessi all’interno dell’esperienza mistica trecentesca.

(3) Non era certo raro per un committente vedersi inserito nella narrazione di una pala d’altare. Sennonché, il B. Chiarito è più di un committente che ha voluto farsi ritrarre per la propria salvezza. Egli è il fondatore e il “pa-trono” per le Agostiniane di Santa Maria “Regina Coeli” a Firenze. La sua trasformazione in personaggio visivo nel quadro della narrazione biblica e del rito, trasfigura la sua persona facendone il veicolo, il modello, il portavoce di un’esperienza spirituale. Gli uomini circondavano le religiose con la cura monialium78 ed interpretano i sentimenti di quest’ultime spesso, letteralmente, attraverso parole da loro dettate perché siano messe per iscritto.79 È noto che il mondo maschile, il mondo dall’altra parte, rimane visibile esclusivamente attraverso il ministrare (comu-nione) e ordinare (la proclamazione dell’annuncio e la dottrina).80 La consacrazione dell’ostia e la predicazione, la consumazione del corpo e dell’intelletto appartengono agli uomini. Ciò viene riaffermato nello stesso taberna-colo: lo mostra il dominio maschile e lo sottolinea la struttura maschile della stessa Chiesa - gli Apostoli. Ma nel tabernacolo ci sono delle sfumature.

(4) Il dominio femminile non è definito soltanto dal forte linguaggio della visione: emotivo e visivo; esso è definito altresì dalla sinestesia vedere/gustare. La comunione è un doppio toccare: il tactus dell’ostia con la lin-

7. Vera icon su pergamena, sec. XV, proveniente da Rostock, Museo statale, Schwerin

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gua (= gusto)81 ed il contatto oculare.82 A Chiarito del Voglia, in quanto fratello “laico”, difettano le performances strettamente maschili (ad es. il consacrare), egli precipita quindi nel mondo delle donne e delle loro forme di espressione. Detto altrimenti, egli appartiene ad entrambi i mondi. La polarizzazione dei sessi, nel caso di un laico, risulta indebolita e, di conseguenza, anche dal punto di vista del suo “gender” Chiarito è un mediatore. Sono con-vinta che siano possibili ulteriori ricerche su queste finestre di mascolinità nel mondo femminile: più precisamen-te, sul fenomeno dei fratelli laici come sostituti di indistinzione sessuale ovvero sui fratelli laici e gli uomini che sono compatibili con le qualità delle mulieres religiosae del Trecento. Visti gli ideali apostolici del tabernacolo di Chiarito, si può esaminare la portata di tali ideali: in che misura la chiesa apostolica fu una chiesa esclusivamente di maschi?83 Permane in tali ambienti, pur attraverso il pensiero gerarchico, una zona grigia, che ospita con favore la dimensione femminile, come la fissazione sul digiuno e l’importanza dell’excessus amoris.

(5) Tanto Miri Rubin quanto Caroline Bynum hanno sollevato la questione dell’influenza delle donne sul-la concezione della “incarnazione”, nella spiritualità del Trecento. Ciò sarebbe derivato da due stimoli distinti: la maternizzazione dell’Incarnazione, da un lato, e l’oggettivazione del cibo eucaristico, dall’altro. Le spiegazioni storiografiche che valorizzano il contributo femminile alla spiritualità trecentesca sono spiegazioni accettate; tali modelli spingono ad assimilare i modelli cristologici maschili sulla base delle funzioni biologiche (ad esempio: l’accesso al mistero dell’incarnazione attraverso il simbolismo “matriciale”)84 e sulla base della “supercompensa-zione da privazione” (ad esempio: l’impossibilità di toccare e distribuire l’ostia consacrata). La tematizzazione chia-ra e corporale dell’Eucaristia all’interno della Trinità ovvero il Cristo della tunica humanitatis con tanto di fistula per il nutrimento riconducono il nostro tabernacolo al suddetto campo di influenze. È importante notare, ad ogni buon conto, che lì non si dà affatto una “visione esclusivamente femminile”. Il tabernacolo, assai probabilmente, venne commissionato da un uomo, vale a dire da Chiarito, che fornì anche la consulenza iconografica; quanto testé detto, tuttavia, non rende meno connotato in chiave di “gender” femminile il tabernacolo del B. Chiarito.

* Tradotto dall’ Olandese in Italiano a cura di Andrea Robiglio.1 La tecnica pittorica del tabernacolo è esaminata dal “The Getty Conservation Institute” di Los Angeles in vista della mo-

stra “Early Florentine Painting and Illumination”, tenutasi presso il Museo Getty; cf. Y. SZAFRAN-C. NAMOWICZ-C. SCH-MIDT PATTERSON-C. SCIACCA-K. TRENTELMAN-N. TURNER, Painting on Parchment and Panel. An Exploration of Pacino di Bonaguida’s Technique, in: Studying Old Master Paintings. Technology and Practice, a cura di M. SPRING et al., Londra, 2011, pp. 8-14 (con riconoscenza a Christine Sciacca). Per ulteriore bibliografia: cf. R. OFFNER, A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting, section III, vol. 6, New York, 1956, pp. 141-148; J. WHITE, Art and Architecture in Italy 1250 to 1400, Harmondsworth-New Haven, 1987, p. 402; R. OFFNER, A Discerning Eye. Essays on Early Italian Painting, a cura di A. LADIS, University Park PA, 1998, pp. 89-111; D. RIGAUX, À la table du Seigneur. L’Eucharistie chez les Primitifs italiens. 1250-1497, Parigi, 1989, pp. 182-183 (qui la nostra pala d’altare veniva ancora localizzata a New York, presso la Collezione Georges Wildenstein); K. KRüGER, Medium and Imagination. Aesthetic Aspects of Trecento Panel Painting, in: Italian Panel Painting of the Duecento and Trecento, a cura di V.M. SCHMIDT, Washington-Londra, 2002 (Center for Advanced Study in the Visual arts. Symposium papers XXXVIII), pp. 57-81, segnatamente pp. 73-81, tavole 29-34. Su Pacino di Bonaguida, si veda: G. LAZZI, Ancora sulla bottega di Pacino, in: Antichità viva, 33, 1994, pp. 5-8; Questo articolo rielabora e aggiorna quanto scritto in: The Beato Chiarito Tabernacle, in: Annali dell’ Università di Ferrara, 4, 2007, pp. 27-50; e Nourished By Inwardness, in: Speaking to the Eye, a cura di V. FRAETERS-T. DE HEMPTINNE, Turnhout, 2012 (in corso di stampa); Un contributo di Christoper R. Lakey è apparso in concomitanza e indipendentemente dal presente saggio. L’autore pone maggiormente l’accento sulla tradizione eucaristica e, in questo senso, la sua indagine risulta complementare alla mia, la quale si rivolge piuttosto ad una interpretazione della visione in chiave di ‘gender’; C.R. LAKEY, The Curious Case of the “Chiarito Tabernacle”: A New Interpretation, in: Getty Research Journal, 4, 2012, pp. 13-30; A.S. HOCH, New notices from the

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Florentine Baroque on the Trecento Chiarito tabernacle, in: Mitteilungen der Kunsthistorisches Institut in Florenz, 54, 2010-2012, pp. 365-370; Florence at the Dawn of the Renaissance. Painting and Illumination 1300-1350, a cura di C. SCIACCA, Los Angeles, J. Paul Getty Museum, 2012, pp. 377-379, cat. 56.

2 I lati posteriori dei pannelli laterali (posizione chiusa) erano probabilmente dipinti, ma sono andati perduti.3 Cf. A.M. RACONESI, De beato Chiarito: vita et miracula, in: Acta sanctorum, vol. 6, Parigi, 1866, pp. 160-164, p. 161. 4 Cf. S. DE PAOLI, Chiarito di Firenze, beato, in: Bibliotheca Sanctorum, vol. 3, Roma, 1961-1970, col. 1229-1230.5 Cf. R. OFFNER, op. cit., 1956, p. 141.6 “Atque in vili veste dedit se totum servitio monasterii et ecclesiae eius, ministrans Missis et aliud quidcumque humilis

caritatis obsequium ad illius commodum praestans. Adeo gratum habuit Deus illum dimittentis sui animi religiosum famulatum, ut id etiam voluerit visibiliter demonstrare” (Acta sanctorum, cit., p. 161).

7 Cf. R. OFFNER, op. cit., 1956, p. 141.8 Cf. K. KRüGER, op. cit., p. 73; D. RIGAUX, op. cit., p. 183, propone di datare il tabernacolo intorno al 1350, pur mante-

nendo l’attribuzione a Pacino di Bonaguida.9 L’analisi dei pigmenti non contraddirebbe l’ipotesi di un lavoro della bottega o di collaboratori di Pacino; si veda A.

WALLERT, Pigments and Organic Colorants. Two Case Studies, in: Early Italian Paintings. Techniques and Analysis. Sym-posium, Maastricht, 9-10 October 1996, a cura di T. BAKKENIST-R. HOPPENBROUWERS-H. DUBOIS, Maastricht, 1997, pp. 73-78, in particolare a p. 91.

10 Ovviamente non è più possibile ritenere senza incertezza che il tabernacolo, cui si fa constante riferimento in queste pagine, sia senz’altro di Pacino di Bonaguida: Acta sanctorum, p. 161: “Complectentis antiquum ac devotum Cruci-fixum, existentem in dicta ecclesia post ciborium sanctissimi Sacramenti, intra capsam duplici clave firmatam, sub custodia ipsarummet Monacharum”.

11 Cf. K. KRüGER, op. cit., pp. 73-76.12 Patrologia Latina, vol. 77, col. 425-428. Gregorio Magno è conosciuto soprattutto per la sua definizione dell’immagine

come l’illustrazione di “cose che sono accadute”: la historia. Sulla base di questo spunto si sviluppava un’ intera con-cezione del mondo, come se l’arte medievale restringesse il ruolo dell’immagine a quello di lingua degli analfabeti. Seppure codesta accezione del mezzo visivo sia diventata dominante a partire da Gregorio, sono state anche impor-tanti sfumature dell’immagine apprezzata per la sua capacità di “vedere spirituale”. Una panoramica eccellente di tutte queste sfumature e dibattiti, dal Medioevo fino al Concilio di Trento, si trovano in: L.G. DUGANN, Was Art Really the ‘Book of the Illiterate’?, in: Word and Image, 5, 1989, pp. 227-251.

13 De civitate Dei, CCSL 448, p. 856.14 La letteratura su questo fondamentale adagio agostiniano, sulle sue implicazioni estetico–semantiche e sulla funzio-

ne dell’immagine nel Cristianesimo come la facoltà della “invisibilità visibile” è abbondante. Qui mi limito a trasceglie-re alcune voci: E. BENZ, Christliche Mystik und christliche Kunst, in: Deutsche Vierteljahresschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 12, 1934, pp. 22-48; H. DE LUBAC, Exégèse médièvale, voll. I-II, Parigi, 1959; T. STERNBERG, Vertrau-ter und leichter ist der Blick auf das Bild, in: Kein Bildnis machen. Kunst und Theologie im Gespräch, a cura di C. DOHMEN-T. STERNBERG, Würzburg, 1987, pp. 25-57; H.L. KESSLER, Real Absence. Early Medieval Art and the Metamorphosis of Vision, in: Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Spoleto, 1998, pp. 1157-1211, segnatamen-te le pp. 1174-1186; Idem, Spiritual seeing. Picturing God’s Invisibility in Medieval Art, Philadelphia, 2000.

15 Cf. L. HEIDMANN SHELTON, Gold in Altarpieces of the Early Italian Renaissance. A Theological and Art Historical Analysis of its Meaning and of the Reasons for its Disappearance, New Haven, Yale University: Tesi di dottorato inedita, 1987, pp. 23-37; B. BAERT, Between technique and symbolism. Gold in the pre-Eyckian Panel-Painting. A Comparative History, in: Pre-Eyckian Panel Painting in the Low Countries, 2 vol., a cura di C. STROO, Brussels, 2009, pp. 7-22.

16 Cf. O. NUSSBAUM, Die Aufbewahrung der Eucharistie, Bonn, 1979, pp. 425-427; H. DüNNINGER, Zur Frage der Hostien-sepulchren und Reliquienrekondierungen in Bildwerken, in: Jahrbuch für Volkskunde, 9, 1986, pp. 72-84.

17 G.J.C. SNOEK, De eucharistie- en reliekenverering in de Middeleeuwen. De middeleeuwse eucharistieverering in onderlinge samenhang, Amsterdam, 1989; M. RUBIN, ‘Corpus Christi’. The Eucharist in Late Medieval Culture, Cambridge, 1991, p. 320 (sull’aspetto visivo del rito eucaristico). In relazione a ciò, vedasi anche: J.F. HAMBURGER, The Visual and the Visio-nary. Art and Female Spirituality in late Medieval Germany, New York, 1998, p. 92; M. BROUARD, Eucharistia. Encyclopédie de l’eucharistie, Parigi, 2002, p. 204.

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18 Dal sec. XV sono attestate numerose prese di distanza da parte del clero nei confronti di processioni eucaristiche troppo “popolari”. Soprattutto nelle comunità rurali, in un solo giorno (e perciò indipendentemente dalle celebrazioni stabilite nel giorno del Corpus Domini), si tenevano processioni spesso accompagnate da sospirante attesa di miracoli e dall’impiego di linguaggio magico. Si veda C. CASPERS, De eucharistische vroomheid en het feest van Sacramentsdag in de Nederlanden tijdens de late Middeleeuwen, Lovanio, 1992.

19 Cf. J. BRAUN, Das christliche Altargerät in seinem Sein und in seiner Entwicklung, München, 1932, pp. 348-411; 'Thesau-rus’. Religious Objects of the Catholic Faith, J. PERRIN (a cura di), Los Angeles, 1999, p. 150.

20 Cf. Vita venerabilis Julianae de Cornelion et sermones (1280 ca.) Parigi: Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 945.21 L’esperienza della Duecentesca Beatrice di Nazareth fu registrata da un contemporaneo nei termini seguenti: “Come

intenso vi era il gaudio spirituale in questa unione che lei aveva ricevuto, assaporato, provato; esso non poteva tro-vare espressione in parole, ma si esprimeva nel cedimento della sue forze fisiche”; cf. P. VANDEBROECK, Hooglied. De religieuze vrouwen in de Zuidelijke Nederlanden vanaf de 13de eeuw, Bruxelles, 1994, p. 81.

22 Tratto da J.F. HAMBURGER, op. cit., p. 92.23 Esempi del genere raccolti in J.F. HAMBURGER, op. cit., p. 93.24 Cf. C. CASPERS, The Western Church during the Middle Ages. ‘Augenkommunion’ or popular mysticism, in: Bread of Hea-

ven. Customs and Practices Surrounding Holy Communion. Essays in the History of Liturgy and Culture, a cura di C. CASPERS-G. LUKKEN-G. ROUWHORST, Kampen, 1995, pp. 83-97.

25 Cf. R. OFFNER, op. cit., 1956, p. 141.26 Ibid., p. 142.27 “Dedit sacram Hostiam cum pluribus spicis, supra calicem vino exundantem” (Acta sanctorum, p. 161).28 “Visus est ei splendidus radius, progrediens ab Hostia sacrosanta, et pectus suum percutiens” (Acta sanctorum, p. 161).29 Cf. R. OFFNER, op. cit., 1956, p. 142.30 Cf. D. RIGAUX, op. cit., p. 184; R. RUSCONI, Il movimento religioso femminile in Umbria nei secoli XIII-XV, Città del Castello,

1984, pp. 205-216.31 D. RIGAUX, op. cit., p. 184. Codesta rappresentazione del trono di Dio come variazione sul tema del corpo tricefalo

ovvero dei tre angeli che incontrano Abramo risale al sec. XII; si pensi, ad esempio, all’altare da viaggio di Hildesheim (1132; Victoria and Albert Museum, Londra). Nel sec. XIII tale schema divenne popolare negli psalteri per il Salmo CIX. Nell’arte monumentale italiana tale tipologia compare sino al ca. 1300; W. BRAUNFELS, Die Heilige Dreifältigkeit, Dus-seldorf, 1954, passim. Sul tabernacolo di Chiarito appare quindi come un concetto allora recente e innovativo.

32 Cf. D. RIGAUX, op. cit., p. 182. Nel 380 un anonimo autore siriaco compila le Constitutiones apostolicae; ivi la comunione vi è concepita insieme alla nozione di Trinità ; A. HAMMAN, L’eucharistie dans l’antiquité chrétienne, Parigi, 1964, pas-sim. Un grande sostenitore del nesso teologico tra l’Eucaristia e la Trinità era stato Guglielmo di Saint-Thierry († 1148).

33 Su Elzéar, si veda A. VAUCHEZ, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge, d’après les procès de canonisa-tion et les documents hagiographiques, Roma, 1981, p. 419; ABBÉ (sic) BOZE, Histoire de S. Elzéar et de Ste Delphine, suivie de leur éloge, Lione, 1862; Lives of the Saints and Blessed of the Three Orders of St. Francis, Taunton Mass., 1886.

34 Chi riceve l’ostia consacrata riceve al contempo la Trinità : così è stato dichiarato nel De septem itineribus aeternitatis di Raoul di Biberach († 1350); D. RIGAUX, op. cit., p. 184.

35 Le Religiose agostiniane condividevano un particolare modello pedagogico secondo il quale l’anima interiore e quel-la esteriore devono assorellarsi grazie al “nobile amore”. L’ascesi va di pari passo con l’educazione intellettuale che fa della suora una persona migliore. Questo punto di vista contrasta con l’ascetismo delle monache cistercensi, nel cui caso l’ascesi pura dell’anima veniva enfatizzata in modo esclusivo; si vedano: C. MUESSIG, Learning and Mentoring in the Twelfth Century. Hildegard of Bingen and Herrad of Landsberg, in: Medieval Monastic Education, a cura di G. FERZO-CO-C. MUESSIG, Londra, 2000, pp. 87-104; F. GRIFFITHS, Brides and dominae. Abelard’s Cura monialium at the Augu-stinian monastery of Marbach, in: Viator, 34, 2003, pp. 57-88, sviluppa un caso di controversia di Guta, un Agostiniano e un consigliere di Marbach, nel quale la dignità delle donne si fonda sui sermoni di Pietro Abelardo (1078-1142) ed offre un modello di comportamento per le religiose contemplative.

36 K. HALLINGER, Kultgebärde und Eucharistie, in: Archiv für Liturgiewisschenschaft, 19, 1978, pp. 29-41, soprattutto le pp. 33-40.

37 Cf. D. RIGAUX, op. cit., pp. 59-74; M. VLOBERG, L’eucharistie dans l’art Parigi, 1946, passim; G. SCHILLER, Ikonographie der christlichen Kunst, 2. Die Passion Jesu Christi, Güttersloh, 1968, pp. 35-49.

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38 Constantinopoli: Museo Archeologico, 565-578; cf. G. SCHILLER, op. cit., p. 38.39 Cf. G. SCHILLER, op. cit., p. 49.40 Cf. D. RIGAUX, op. cit., p. 184, dove viene illustrato il nesso con le patene.41 Cf. J. BRAUN, op. cit., pp. 247-65.42 Cf. A. LEGNER, ‘Apostel (Apostelamt)’, in: Lexikon für Theologie und Kirche, I, Freiburg, 1956, coll. 734-740.43 Cf. J.J.M. TIMMERS, Christelijke symboliek en iconografie, Houten, 1987, pp. 58-59.44 Cf. J. POESCHKE, ‘Parusie’, in: Lexikon der christlichen Ikonographie, III, Roma –Vienna, 1974, coll. 384-386.45 Cf. E. KELLER, Eucharistie und Parousie. Liturgie- und theologiegeschichtliche Untersuchungen zur eschatologischen Di-

mension der Eucharistie anhand ausgewählter Zeugnisse aus frühchristlicher und patristischer Zeit, Freiburg, 1989, passim.46 Cf. G. OLSEN The Idea of the Ecclesia Primitiva in the Writings of the Twelfth Century Canonists, in: Traditio, 25, 1969, pp.

61-86; M. DITSCHE, Die Ecclesia primitiva im Kirchenbild des hohen und späten Mittelalters, Dissertazione inedita, s.l., 1958.

47 A questo riguardo, l’opera e la biografia del medico e teologo Marsilio da Padova (ca. 1270-1342) offrono parecchi spunti; M DAMIATA, Funzione e concetto della povertà evangelica in Marsilio da Padova, in: Medioevo, 5-6, 1979/1980, pp. 411 ss.; L.S. HANDELMAN, ‘Ecclesia primitiva’: Alvarus Pelagius and Marsilius of Padua, in: Medioevo, 5-6, 1979/1080, pp. 431 ss.; da ultimo, si veda G. BRIGUGLIA, Marsilio da Padova, Roma, 2013 (‘I Pensatori’).

48 Cf. G. BARONE, ‘Apostoliker’, in: Religion in Geschichte und Gegenwart. Handwörterbuch und Religionswissenschaft, a cura di K. GALLING et al., I, Tubinga, 1998, coll. 636-654; R. ORIOLI, ’Venit perfidus heresiarca’. Il movimento apostolico-dolciniano dal 1260 al 1307, Roma, 1988.

49 Vi è un ampio corpus di testi ed immagini in cui Cristo viene metaforizzato come “fonte di vita” (fons vitae), ma anche come una “fonte di grazia” (fons pietatis). Nel secondo caso si tratta della fonte del sangue che purifica e guarisce. Il fons pietatis si trova menzionato da Gregorio Magno. Questi paragona Cristo con la sorgente di grazia, alla quale dob-biamo recarci noi peccatori per lavare i nostri peccati. Con ogni probabilità, Gregorio trasse l’idea dalla liturgia, poiché nel Sacramentarium Gelasianum risalente al sec. VII ed illustrante il rito romano, il Signore viene onorato come il fons pietatis che deve riscattare i nostri peccati. Nell’iconografia si incontra tale motivo nella forma del Cristo sofferente che sta nel bacino di sangue dove i fedeli fanno il bagno. Anche in questo caso Cristo “si svuota” a vantaggio dei credenti e, in taluni casi, i fedeli bagnanti bevono anche il sangue di Cristo come “medicina”, ma ciò riguarda sempre il san-giuinamento dalla ferita nel costato. Un inno tardo medievale, dedicato alla ferita costale di Gesù, canta: “O fonte del Paradiso, dalle cui quattro estremità sgorgano fiumi di acqua dolce. Essa annichila completamente i terribili demoni e li terrorizza. Dolce ferita nel costato, un nettare simile non è mai fluito dalle altre sorgenti, Ave, gioisci, va’ sicura, medi-cina per il popolo contro il mortale veleno”. Il fons pietatis è una variante del sacrificio eucaristico del sangue, ancorché la sua forma sia di un tipo diverso da quello che si osserva nel pannello centrale del tabernacolo di Chiarito. Mi limito, in questa sede, a rimandare ad un mio contributo in cui ho discusso le fonti letterarie e iconografiche rilevanti (e dove il lettore troverà indicazioni bibliografiche ulteriori): B. BAERT, The Washing Wound. Late-Medieval Ideas Concerning Christ as ‘Fons Pietatis’, in: Mitteilungen für Anthropologie und Religionsgeschichte, 16, 2004, pp. 177-215.

50 Cf. C.W. BYNUM, Jesus as Mother. Studies in the Spirituality of the High Middle Ages, Berkeley-London, 1982.51 Ibid., p. 117, che rimanda all’epistola CCCXXVII di Bernardo (in: Patrologia Latina, vol. 182, col. 527).52 Cf. bid., pp. 120-122.53 Cf. K. SCHREINER, ‘Deine Brüste sind süßer als Wein‘. Ikonographie, religiöse Bedeutung und soziale Funktion eines Mari-

ensymbols, in: Pictura quasi fictura. Die Rolle des Bildes in der Erforschung von Alltag und Sachkultur des Mittelalters und der frühen Neuzeit, Vienna, 1996, pp. 87-127; C. WALKER BYNUM, op. cit., p. 133.

54 Il contributo fondamentale rimane quello di C. WALKER BYNUM, Holy Feast and Holy Fast. The Religious Significance of Food to Medieval Women, Berkeley-London, 1987, passim e pp. 200 ss.

55 Cf. Ibid., p. 264.56 Cf. Ibid., p. 265; ILDEGARDA DI BINGEN, Liber divinorum operum, I, cap. 4, § 100 (in: Patrologia Latina, vol. 197, col. 885).57 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 265.58 Cf. Ibid., p. 265; Les oeuvres de Marguerite d’Oingt, a cura di A. DURAFFOUR-P. GARDETTE-P. DURDILLY, Parigi, 1965, pp.

88-89; Le lettere di S. Caterina da Siena, ridotte a miglior lezione, e in ordine nuovo disposte, a cura di P. MISCIATTELLI, vol. 1, Siena, 1913: lettera 30, p. 137.

IKON, 6-2013

59 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 261; Idem, op. cit., 1982, p. 210; Revelationes Gertrudianae ac Mechtildianae, 2, Sanctae Mechtildid Virginis o.s.b. Liber specialis gratiae, a cura dei monaci di Solesmes, Parigi, 1877, I, cap. 1, p. 7.

60 Si veda anche: N.B. WARREN, Pregnancy and Productivity. The Imagery of Female Monasticism within and beyond the Cloister Walls, in: The Journal of Medieval and Early Modern Studies, 28, 1998, 3, pp. 531-552: soprattutto a proposito della allegorie della paternità in S. Brigida di Svezia (1303-1373).

61 C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 265.62 In un certo senso, la Madonna in trono sull’anta di sinistra in alto costituisce una sineddoche della pala di Chiarito. Il

trono stesso, su cui Maria siede, richiama armonicamente l’intero trittico.63 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 268.64 Cf. Idem, op. cit., 1982, p. 151.65 Cf. Les oeuvres de Marguérite d’Oignt, op. cit., pp. 77-79.66 Letteratura recente sul fascino esercitato dal sangue nella letteratura mistica femminile, si rintraccia in B. BILDHAUER,

Medieval Blood, Cardiff, 2005, pp. 133-167. Per quanto riguarda Giuliana di Norwich, si veda in particolare la recente edizione a cura di J. JENKINS: The Writings of Julian of Norwich, Turnhout, 2006, passim.

67 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1982, p. 133.68 Si veda la nota 58, C.W. BYNUM, Formen weiblicher Frömmigkeit im Späteren Mittelalter, in: Krone und Schleier. Kunst

aus mittelalterlichen Frauenklöstern, a cura di J. HAMBURGER et al., Bonn-Essen, 2005, pp. 119-129.69 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 64. Per quell che segue, si leggano le pp. 64-66.70 Un’ambivalenza del genere è interiorizzata in molte culture umane. Il sangue impuro viene associato con la donna

mestruata e impura. Su ciò si consulti: F. VOSSELMANS, La menstruation. Légendes, coutumes et superstitions, Parigi, 1936, passim; T. BUCKLEY-A. GOTTLIEB, Blood magic. The Anthropology of Menstruation, Berkeley CA, 1988; C. DE MI-RAMON, La fin d’un tabou? L’interdiction de communier pour la femme menstruée au Moyen Âge? Le cas du XIII siècle, in: Le sang au Moyen Age, Cahiers de CRISIMA, 4, 1999; H. LUTTERBACH, Sexualität im Mittelalter. Eine Kulturstudie anhand von Bußbüchern des 6. bis 12. Jahrhunderts, Colonia-Vienna, 1999, pp. 84-89. In un caso, il corpo di Cristo viene para-gonato alla placenta in quanto tale: si è, dunque, in un contesto ereticale. La donna catara Aude, vede all’improvviso l’ostia riempirsi di vene, come nella placenta materna, e piena di disgusto rifiuta di comunicarsi (C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 266). Ancorché codesta visione riguardi un’ostia abietta, essa può gettare luce sull’immaginario nascosto e su associazioni spesso selvagge e “censurate” riguardanti l’ostensione dell’eucaristia. Vale la pena ricordare che, nella recente letteratura psicoanalitica accademica, si fa largo un’attenzione inedita e crescente nei confronti delle implica-zioni legate ad un archetipo profondamente radicato, in particolare al ruolo della madre visto, dopo la nascita del feto, come un prolungamento della placenta. L’identificazione della madre durante l’allattamento con la funzione di un suo organo interno attivo durante la gravidanza, vale a dire la placenta, viene visto dalla psicoanalisi femminista come un’inquietante e addirittura traumatica “oggettivazione” del ruolo della madre subito poco dopo la nascita del bambi-no. Questa metafora della madre come placenta, mantiene vivo il motivo della generazione materna “per mezzo del cordone ombelicale” (vista come non invasiva); cf. J. RAPHAEL-LEFF, The Moon Hung on a Navelstring from the Dark: The Metaphor of Mother As Placenta and Its Effect on Parenting Concepts, in: Pre- and Peri-Natal Psychology Journal, 6, 1991, 1, pp. 33-53. Io stessa mi sono occupata della questione in: B. BAERT, Navel. On the Origin of Things, Gand, 2009, passim.

71 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1987, p. 66; E. LONGPRÉ, ‘Eucharistie et experience mystique’, in: Dictionnaire de Spritualité, vol. 4, t. 2, Parigi, 1932-1995, col. 1596.

72 Cf. C.W. BYNUM, op. cit., 1987, pp. 68-69; M.R. MILES, The Virgin’s one Bare Breast. Nudity, Gender, and Religious Meaning in Tuscan Early Renaissance Culture, in: The Expanding discourse. Feminism and art History, a cura di N. BROUDE-M.D. GARRARD, Boulder, 1992, pp. 26-37; C. LAMBERT, La nourriture comme signe et distinction religieuse et sociale, de Tho-mas d’Aquin à Erasme, in: Heresis - Revue d’hérésiologie médiévale, 26-27, 1996, pp. 99-113.

73 Caterina da Siena per intere settimana si era abituata a rifiutare ogni cibo tranne l’ostia; vedasi: P. VANDENBROECK, op. cit., p. 77-80: “L’ossessione con il cibo e il digiuno è sicuramente legato alla ricerca di un corpo etereo e perfetto”. Cristo è per l’appunto questo corpo perfetto. L’identificazione con il corpo di Cristo si esprime con le stimmate, perlopiù nei maschi (ad es. Francesco d’Assisi); un’eccezione femminile è quella costituita da Getrude di Hefta; M. RUBIN, op. cit., pp. 318-319.

Baert, Gender visione e sensi

74 Alludo qui, evidentemente, al titolo del primo lavoro, ormai classico, dedicato a ‘gender’ e medium visivo, pubblicato da Jeffrey Hamburger nel 1998.

75 Krone und Schleier. Kunst aus mittelalterlichen Frauenklöstern, a cura di J. HAMBURGER et al., Bonn-Essen, 2005, passim; cf. supra, n. 69.

76 Cf. K. HEGNER, H. Heiliges Antlitz, in: Krone und Schleier. Kunst aus mittelalterlichen Frauenklöstern, a cura di J. HAM-BURGER et al., Bonn-Essen, 2005, catalogo nr. 347, p. 438. L’interesse affascinato del mondo femminile per la vera icon è ben noto; in relazione a questo aspetto si veda: B. BAERT, The Gendered Visage. Facets of the ’vera icon’, in: Annual of the Antwerp Museum, 2000, pp. 11-43.

77 Cf. P. MICHEL, ‚Durch die Bilde über die Bilde‘. Zur Bildgestaltung bei Mechtild von Magdeburg, in: Abendländische Mystik im Mittelalter, Symposium Kloster Engelburg, 1984, a cura di K. RUH, Stoccarda, 1986, passim.

78 Cf. l’Introduzione di J. HAMBURGER; The Visual and the Visionary, che fornisce una visione chiara e ancora utile delle implicazioni della cura monialium. L’autore assicura che abbiamo fonti e spunti sulle donne, ancorché proprio la cura monialium abbia filtrato l‘originale residuo testuale e visivo femminile.

79 Ben documentato e studiato è il caso del rapporto personale tra Jean de Vitry e la beghina Maria d’Oignies (1215). Si veda, su cio, l’ottimo studio di: M. LAUWERS, ‘Noli me tangere’. Marie Madeleine, Marie d’Oignies et les pénitentes du XIIIe siècle, in : Mélanges de l’Ecole française de Rome - Moyen Âge, 104, 1992, 1, pp. 209-268.

80 Nuovamente ratificato da Gregorio IX nel 1234; Jean de Vitry scrive: “Mystice autem per hoc intelligi dedit quod mu-lieres maioribus ecclesiae ministeriis manum apponere non debent. Non enim licet praedicare vel sacramenta mini-strare” (M. LAUWERS, op. cit., p. 243, n. 182).

81 Cf. K. DEMASURE, ‘Noli me tangere’: A Contribution to the Reading of John 20:17 based on a Number of Philosophical Reflections on Touch, in: Louvain Studies, 32, 2007, pp. 304-329, segnatamente p. 313.

82 La comunione di Beatrice di Nazareth è stata così descritta da un contemporaneo: “Quanto intenso fosse il gaudio spirituale ch’ella trovava in questa unione, non lo si può esprimere a parole, ma solo nel cedimento della sua forza fisica”; P. VANDENBROECK, op. cit., p. 81; D. RIGAUX, op. cit., p. 162; Cf. Supra, n. 21.

83 Tralascio qui la tesi formulata dalla teologia di genere contemporanea, la quale riabilita Maria Maddalena nel ruolo di autentica fondatrice della Chiesa; cf. I. RAMING, Ausschluß der Frau vom priesterlichen Amt: Gottgewollte Tradition oder Diskriminierung?, Colonia, 1973.

84 Un approccio psicoanalitico era già nel tono del lavoro di Vandenbroeck pubblicato nel 1994 (P. VANDENBROECK, op. cit.; Cf. supra, n. 22), ma la psicoanalisi “matriciale” è diventata predominante nel più recente Azetta. Berbervrouwen en hun kunst, catalogo d’esposizione, Gand-Amsterdam, 2000. Qui Vandenbroeck esamina gli archetipi linguistici della “matrix femminile” che precede la cultura figurativa (maschile).

IKON, 6-2013

Barbara Baert

Gender, Visions and the Senses: New Contributions to the Tabernacle of Beato Chiarito in J. Paul Getty Museum

The present article contributes to the study of the relationship between the vision as a visual medium in painting and feminine spirituality in 14th-century Italy. My starting point is the Beato Chiarito tabernacle in The Getty Museum of Los Angeles, which is nowadays ascribed to Pacino di Bonaguida (1302 - ca. 1340). The tabernacle shows a gender explicit iconography, clearly demarcated in both context and function. Those gender implications have not yet really been explicitly dealt with in the literature, especially regarding the medieval concept of “vision”, “visionary” and “visual”. Additionally, the tabernacle’s iconography is rather unique, so I propose a number of solutions to disentangle this mystery. For that purpose the text discerns five iconological perspectives: (1) the visual and the visionary, (2) inward and outward interaction (image and outer-image), (3) mirrors of social positions, (4) the body as spiritual medium and synaesthesia and (5) finally the mean-ing of the incarnation for 14th century (female) spirituality.

Rod, vizije i osjetila: novi doprinos o tabernaklu Beata Chiarita u muzeju J. Paul Getty

Ovaj je članak doprinos istraživanju veze između vizija kao vizualnog medija u slikarstvu i ženske duhovnosti u Italiji u 14. stoljeću. Početna točka ovoga rada jest tabernakul Beata Chiarita, koji se nalazi u muzeju Getty u Los Angelesu, a koji se pripisuje Pacinu da Bonaguidi. Tabernakul prikazuje eksplicitnu rodnu ikonografiju, očito podijeljenu po kontekstu i po funk-ciji. Tim rodnim implikacijama još nije posvećena pozornost u literaturi, posebice sagledavajući srednjovjekovni koncept „vi-zije“, „vizionarskog“ i „vizualnog“. K tome, originalna je sama ikonografija tabernakla, pa stoga predlažem nekoliko mogućih interpretacija kako bih razriješila misterij. U tekstu se navodi i razlikuje pet ikonoloških perspektiva: 1. vizualno i vizionarsko, 2. unutrašnja i vanjska interakcija (slika i vanjska slika), 3. zrcala socijalnih stanja, 4. tijelo kao duhovni medij i sinestezija te 5. značenje inkarnacije u (ženskoj) duhovnosti 14. stoljeća.

Prijevod s engleskoga: Nana Spadoni

Primljeno/Received: 25.01.2013.Izvorni znanstveni rad