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INFERNO XXIII IL CANTO DEGLI IPOCRITI, BOLOGNA NELL’ALDILÀ, LA VISIONE COME MECCANISMO NARRATIVO Mirko Tavoni 1. Il canto degli ipocriti Alla fine del canto XXII Virgilio e Dante si sono separati dalla decina di diavoli che Malacoda aveva assegnato loro come poco raccomandabile scorta. Due di quei dia- voli, infatti, Alichino e Calcabrina, in seguito a una zuffa in volo erano caduti nella pece bollente della bolgia dei barattieri, e gli altri otto loro compagni si erano fermati per tirarli fuori di lì con i loro uncini. Dunque Virgilio e Dante, da quel punto in poi («E noi lasciammo lor così ’mpacciati», XXII, 151), proseguono soli – con sollievo, ma insieme con una certa inquietudine – nel loro cammino lungo l’argine che separa la quinta bolgia, dei barattieri, dalla sesta, degli ipocriti: cammino che percorrono per andare a trovare, più avanti, il ponte sulla sesta bolgia che a detta di Malacoda è rimasto integro («presso è un altro scoglio che via face», XXI, 111), mentre il precedente (per le ragioni che si vedranno) è crollato («Più oltre andar per questo / iscoglio [“ponte”] non si può, però che giace / tutto spezzato al fondo l’arco sesto», XXI, 106-108). I due poeti camminano, Virgilio davanti e Dante dietro, «come frati minor vanno per via» (XXIII, 3), verso che ci introduce all’atmosfera fratesca del canto degli ipocriti. Le due terzine seguenti (vv. 4-9) sono occupate da una similitudine fra l’episodio comico del barattiere Ciampolo di Navarra che riesce a ingannare appunto i diavoli Alichino e Calcabrina, facendoli finire nella pece, e la favola della rana e del topo di Esopo: similitudine tutt’altro che trasparente nei dettagli, benché Dante la pre- senti come esattissima, su cui mi soffermerò più avanti non tanto perché abbia dato la stura ad almeno una dozzina di interpretazioni letterali diverse, all’insegna della

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INFERNO XXIIIIL CANTO DEGLI IPOCRITI, BOLOGNA NELL’ALDILÀ, LA VISIONE COME MECCANISMO NARRATIVO

Mirko Tavoni

1. Il canto degli ipocriti

Alla fine del canto XXII Virgilio e Dante si sono separati dalla decina di diavoli che Malacoda aveva assegnato loro come poco raccomandabile scorta. Due di quei dia-voli, infatti, Alichino e Calcabrina, in seguito a una zuffa in volo erano caduti nella pece bollente della bolgia dei barattieri, e gli altri otto loro compagni si erano fermati per tirarli fuori di lì con i loro uncini. Dunque Virgilio e Dante, da quel punto in poi («E noi lasciammo lor così ’mpacciati», XXII, 151), proseguono soli – con sollievo, ma insieme con una certa inquietudine – nel loro cammino lungo l’argine che separa la quinta bolgia, dei barattieri, dalla sesta, degli ipocriti: cammino che percorrono per andare a trovare, più avanti, il ponte sulla sesta bolgia che a detta di Malacoda è rimasto integro («presso è un altro scoglio che via face», XXI, 111), mentre il precedente (per le ragioni che si vedranno) è crollato («Più oltre andar per questo / iscoglio [“ponte”] non si può, però che giace / tutto spezzato al fondo l’arco sesto», XXI, 106-108). I due poeti camminano, Virgilio davanti e Dante dietro, «come frati minor vanno per via» (XXIII, 3), verso che ci introduce all’atmosfera fratesca del canto degli ipocriti.

Le due terzine seguenti (vv. 4-9) sono occupate da una similitudine fra l’episodio comico del barattiere Ciampolo di Navarra che riesce a ingannare appunto i diavoli Alichino e Calcabrina, facendoli finire nella pece, e la favola della rana e del topo di Esopo: similitudine tutt’altro che trasparente nei dettagli, benché Dante la pre-senti come esattissima, su cui mi soffermerò più avanti non tanto perché abbia dato la stura ad almeno una dozzina di interpretazioni letterali diverse, all’insegna della

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più puntigliosa e inesauribile enigmistica dantesca, ma perché ritengo che incorpori, semi-nascosta e finora non vista, un’informazione di primaria importanza per com-prendere che cosa sia il viaggio di Dante nell’aldilà.

Fatto sta che quella similitudine, balenata nella mente di Dante personaggio, gli genera una paura sempre più incontenibile, la paura che i diavoli li inseguano e li afferrino (vv. 10-24). Virgilio, “contagiato” (vedremo in che modo) da questo panico cresciuto nella mente di Dante (vv. 25-33), proprio nel momento in cui i diavoli in effetti si materializzano alle loro spalle (vv. 34-36) afferra Dante come una madre afferra il figlioletto e fugge se di notte nella casa scoppia un incendio, e con Dante in braccio si butta giù per l’argine che scende alla sesta bolgia, dove i diavoli della quinta non hanno potere di entrare (vv. 37-57).

Virgilio e Dante si trovano così dentro la bolgia degli ipocriti, i quali sono costret-ti a camminare gravati da pesantissime cappe di piombo rivestite d’oro (vv. 58-72). Il contrappasso si fonda sulla pseudo-etimologia della parola ypocrita «quasi ypercrita ab yper quod est super et crisis quod est aurum, quasi superauratus, quia in superficie et extrinsecus videtur bonus cum interius sit malus» (così nel dizionario di riferi-mento di Dante, le Derivationes magnae di Uguccione da Pisa),1 pseudo-etimologia quasi calcata sul concetto evangelico di “sepolcri imbiancati”. E poiché queste «cappe con cappucci bassi / dinanzi a li occhi» sono «fatte de la taglia / che in Clugnì per li monaci fassi» (vv. 61-63: cioè per i monaci benedettini di Cluny, dall’abbigliamento proverbialmente sontuoso), tutta la scena predispone a una forte connotazione fra-tesca dell’ipocrisia.

Dante chiede a Virgilio se riesce a individuare qualcuno noto in quella schiera di peccatori (vv. 73-75), e a queste parole risponde direttamente un dannato, che si presenta in coppia con un suo sodale (vv. 82-90). I due ipocriti sono i bologne-si Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, «frati godenti», cioè cavalieri della milizia della Beata Vergine Maria, ordine militare-religioso aperto anche ai coniugati, fondato da aristocratici emiliani specificamente per contrastare le guer-re civili e approvato da papa Urbano IV nel 1261. I due, l’uno guelfo (Catalano) l’altro ghibellino (Loderingo), adempiendo in coppia bipartisan alla missione di pacificazione cittadina propria dell’ordine dei frati godenti, avevano dato buona prova di sé a Bologna nel 1265, dove avevano tenuto congiuntamente l’ufficio di podestà promuovendo misure atte a reprimere il conflitto tra le fazioni magnatizie bolognesi. L’anno seguente furono chiamati a fare la stessa cosa a Firenze, dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento (26 febbraio 1266) che segnava la fine degli Svevi e che a Firenze lasciava al potere l’ormai incongruo governo ghibellino del conte Guido Novello, e dove urgeva dunque un riassetto politico possibilmente in chiave di pacificazione. Catalano dunque dichiara a Dante che lui e Loderingo furono «da tua terra [cioè ‘dalla tua città’] insieme presi, / come suole esser tolto un uom solin-go, / per conservar sua pace» (vv. 105-107); cioè che furono chiamati in due, come

1 Uguccione da Pisa, Derivationes, edizione critica princeps a cura di Enzo Cecchini, Guido Arbizzoni … [et al.], Firenze: SISMEL, 2004, C 306.13, p. 292.

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l’anno precedente a Bologna, per ricoprire l’incarico di podestà che normalmente è tenuto da un uomo solo.

Ma Catalano stesso confessa l’esito per nulla pacificato della loro missione con le parole «e fummo tali, / ch’ancor si pare [cioè ‘appare, si vede’] intorno dal Gardingo» (vv. 107-108), ovvero: “e quell’incarico lo assolvemmo in modo tale che i risulta-ti si vedono ancor oggi intorno alla Torre del Guardingo”, antica torre di guardia longobarda nel pieno centro di Firenze, in corrispondenza dell’attuale piazza della Signoria. Ciò che si vedeva in quel luogo ancora nel 1300, trentaquattro anni dopo i fatti, erano le rovine delle case degli Uberti, diroccate in seguito alla cacciata dei ghibellini. Questo infatti fu l’esito, certo non un esito di pace, della missione di Catalano e Loderingo, che di conseguenza gemono sotto il peso delle cappe di piom-bo dorate, perché Minosse o Dante li hanno giudicati colpevoli di ipocrisia: hanno finto di voler pacificare le fazioni, in realtà hanno favorito e determinato la presa di potere da parte dei guelfi, i quali hanno cacciato e perseguitato i ghibellini come questi avevano cacciato e perseguitato i guelfi dopo la vittoria di Montaperti (1260).

Dante prende la parola per rispondere (v. 109), ma la sua attenzione viene im-provvisamente attratta dalla visione («a l’occhio mi corse», v. 110) di «un, crucifisso in terra con tre pali» (v. 111), che alla vista di Dante si contorce e sbuffa (vv. 112-113). Come spiega Catalano (vv. 114-123), si tratta del sommo sacerdote Caifa, il quale persuase i Farisei (nome poi divenuto sinonimo di ipocrita) che conveniva mandare a morte un uomo solo, Gesù, col pretesto di salvare così l’intero popolo ebraico dalla vendetta dei Romani. In quanto ipocrita sommo, Caifa riceve questa peculiare punizione, parodica della crocifissione di Cristo, insieme con il suocero Anna, suo predecessore nell’ufficio di sommo sacerdote, e con gli altri membri del Sinedrio che condividono la colpa epocale di aver mandato a morte il Figlio di Dio.

Virgilio chiede a Catalano se c’è un punto della bolgia dal quale sia possibile risalire il suo argine interno, così da proseguire il viaggio, senza bisogno di chiedere l’aiuto dei temibili diavoli (vv. 127-132), e Catalano gli risponde che potranno farlo, lì vicino, arrampicandosi su per le macerie del ponte che scavalca tutte le bolge e che sulla sesta bolgia è crollato. Queste parole smentiscono l’informazione che aveva dato il demonio Malacoda, e cioè che il più vicino dei ponti che scavalcano le bolge era sì crollato nel tratto che scavalca la sesta bolgia, ma che un altro integro si tro-vava più in là («presso è un altro scoglio che via face», XXI, 111). Invece risulta ora che anche questo è crollato. In effetti tutti i ponti che scavalcano le Malebolge sono crollati in corrispondenza della sesta bolgia per il terremoto che ha scosso l’Inferno nel momento della morte di Cristo (per colpire, questo è il significato, l’ipocrisia che è stata appunto la causa diretta di quella morte). Virgilio resta perplesso, «a testa china» (v. 139), rendendosi conto di essere stato ingannato da Malacoda: «poi disse: “Mal contava la bisogna / colui che i peccator di qua uncina”» (vv. 140-141). Al che Catalano risponde con la battuta ironica «Io udi’ già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ / ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna» (vv. 142-144). Che il diavolo sia bugiardo è proverbiale, oltre che detto nel Vangelo (di Giovanni, 8, 44):

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non c’è bisogno di aver studiato teologia a Bologna per saperlo. Ma la rima Bologna : menzogna, in bocca a questo frate bolognese ipocrita, lancia un messaggio che do-vremo raccogliere. Virgilio s’incammina «a gran passi [...] turbato un poco d’ira nel sembiante» (vv. 145-146) per lo scorno subito, e Dante lo segue, così i due si avviano a uscire dalla bolgia.

Mi soffermerò su due nuclei tematici del canto, di natura molto diversa l’uno dall’altro. Il primo è il tema della Bologna oltremondana e in particolare infernale: cosa

significano per Dante, nel momento in cui compone il XXIII canto, Catalano e Loderingo, e come s’inquadra questo episodio nella rappresentazione di Bologna nell’aldilà? I classici saggi, su questo tema, di Raimondi (1967) e Pasquini (1980)2 possono oggi essere arricchiti grazie a due filoni di ricerca che sono stati perseguiti negli ultimi dieci anni. Uno è rappresentato dagli studi di Umberto Carpi,3 che ha impresso un forte impulso e un forte rinnovamento alla storicizzazione delle distin-te fasi di composizione delle varie opere di Dante in rapporto con le distinte fasi della sua biografia. L’altro è rappresentato dagli studi sul De vulgari eloquentia e il Convivio,4 che hanno focalizzato Bologna come probabile luogo di composizio-ne e fondamentale punto di riferimento di entrambi i trattati. I risultati conseguiti nell’ambito di questi due filoni di ricerca consentono di vedere in modo molto più nitido come cambia nel tempo il rapporto di Dante con Bologna, e di vedere un sen-so storico coerente al di sotto delle contraddizioni che caratterizzano questo rapporto nella sequenza diacronica dei testi.

Il secondo tema, ma primo nell’ordine in cui si presenta nel canto, è, a partire dalla mal spiegata similitudine con la favola esopiana della rana e del topo, il rappor-to fra il teatro degli avvenimenti che si dispiegano nel viaggio infernale, e il “teatro della mente” di Dante personaggio che vive quegli avvenimenti. Che fra questi due ordini di fatti, esteriori e interiori, sussista una relazione – e non intendo una mera relazione di affinità o rispecchiamento stilistici, ininfluente sull’azione, ma proprio una relazione efficiente, che determina ciò che accade – non è mai stato sostenuto e nemmeno, a mia conoscenza, vagamente suggerito da nessun commentatore, da Graziolo dei Bambaglioli a oggi, eppure è secondo me una chiave privilegiata per capire come Dante combini tentativamente l’idea della visione in sogno con il mec-canismo narrativo del viaggio.

2 Ezio Raimondi, I canti bolognesi dell’«Inferno» dantesco, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, Bologna: Commissione per i Testi di Lingua, 1967, pp. 239-248, poi in Id., Metafora e storia: studi su Dante e Petrarca, Torino: Einaudi, 1970, pp. 39-73; Emilio Pasquini, Dante e Bologna, «Strenna storica bolognese», XXX, 1980, pp. 277-295.

3 Umberto Carpi, La nobiltà di Dante, 2 voll., Firenze: Polistampa, 2004; e L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio, Milano: Franco Angeli, 2013.

4 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di Mirko Tavoni, in Opere, edizione diretta da Marco Santagata, I, Milano: Mondadori, 2011; Il Convivio, a cura di Gianfranco Fioravanti, in Opere, II, Milano: Mondadori, 2014.

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2. Bologna nell’aldilà

Ezio Raimondi, in un famoso saggio scritto per le celebrazioni dantesche bolognesi del 1965, mise a fuoco il fatto che «dal testo di Dante si ricavano in fondo due imma-gini di Bologna. Vi è una Bologna di maggiorenti o di uomini di cultura […], quella dell’Inferno; e una Bologna di scrittori e di artisti, ospite del Purgatorio». Queste due immagini di Bologna sono antitetiche. Quella infernale, rappresentata dal giu-rista sodomita Francesco d’Accorso (Inf. XV), dal «gentiluomo» (come lo definisce Raimondi) ruffiano Venedico Caccianemici (Inf. XVIII), e dai nostri frati godenti ipocriti Catalano e Loderingo (Inf. XXIII), è del tutto negativa. Del tutto positiva, al contrario, quella purgatoriale, rappresentata dal miniatore Franco bolognese, a cui rende omaggio il superbo collega Oderisi da Gubbio («più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte», Purg. XI, 79-84), e dal poeta Guido Guinizelli, che Dante innalza come «padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre» (Purg. XXVI, 97-99). Raimondi si chiede «quali siano le convinzioni, dichiarate o segrete, che regolano nella Commedia l’evocazione del milieu bolognese», e ipotizza che la contrapposizio-ne della Bologna infernale e della Bologna purgatoriale «dipenda […] anche da un certo disegno compositivo»; ma quale possa essere questo disegno compositivo, sia «che lo scrittore ne abbia chiara coscienza», sia che esso emerga dalla «logica stessa della sua opera nell’inquietudine, nello scatto degli umori che ne attraversano il com-patto tessuto», resta imprecisato.5

Emilio Pasquini, riprendendo il tema una quindicina di anni dopo, notò giusta-mente come «punto fisso di riferimento sia per Dante, nel bene e nel male, la sua odiosamata Firenze», ma che «la vita dell’Alighieri è anche strettamente legata alla nostra Bologna più che a qualsiasi altra città italiana», e istituì uno speciale colle-gamento fra le due città, in chiave anzitutto politica: «Anzi, nel suo atteggiamento verso di essa [Bologna] sembra rispecchiarsi quello via via assunto nei confronti di Firenze; e non solo per le indubbie analogie fra le vicende storico-politiche dei due centri, sempre più orientati verso certo integralismo guelfo (quindi accoglienti e soavi per Dante giovane, irrespirabili e chiusi all’uomo maturo»:6 una intuizione che le ricerche posteriori, a mio giudizio, consentono di verificare con rilevanti precisazioni.

Sia Raimondi sia Pasquini insistono poi sulle connessioni con il Fiore, che Raimondi adduce come «testo da citare prima di ogni altro […] nei capitoli satirico-libertini di Falsembiante» (p. 54) a proposito proprio dei nostri frati godenti ipocriti. E Pasquini aggiunge che «non sarebbe illegittimo collocarne la composizione [del Fiore] proprio negli anni “goliardici” bolognesi… Con ciò, senza dubbio, tutt’altro sapore assumerebbero i preziosi riscontri tra Fiore e Commedia via via additati dagli esegeti moderni, in particolare per quanto concerne i canti “bolognesi” del poema»

5 Raimondi, I canti bolognesi, cit., pp. 39-40.6 Pasquini, Dante e Bologna, cit., p. 279.

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(pp. 284-285). Oggi credo che l’assunto continiano della paternità dantesca del Fiore sia abbastanza appannato,7 quindi per disporre i riferimenti danteschi a Bologna in una diacronia capace di illuminarli conviene attenersi alle opere certe.

Prime delle quali, il Convivio e il De vulgari eloquentia. La gravitazione delle due opere su Bologna mi sembra sostenuta da indizi fortissimi. Nel caso del Convivio, come argomenta il più recente commentatore, Gianfranco Fioravanti.8

un soggiorno piuttosto lungo nella città mater studiorum per eccellenza, già punto di riferimento per molti intellettuali fiorentini, una città dove circolavano testi ed idee, ricca di biblioteche anche private, senza problemi per il reperimento del materiale scrittorio (altro ostacolo per un esule migrante di cui forse non ci si rende pienamente conto) sembrerebbero davvero le condizioni più adatte per dar ragione della stesura del Convivio, almeno dei primi tre trattati.

Nel caso del De vulgari eloquentia mi permetto di citare, dall’Introduzione alla mia edizione commentata del testo,9 la sintesi dei numerosi indizi che a mio giudizio fanno ritenere estremamente probabile che esso sia stato scritto a Bologna e per Bologna, e cioè:

la dicotomia fra volgari lombardi e romagnoli (I xiv 2-5) costruita per esaltare la cen-tralità di Bologna; il primato estetico di conseguenza assegnato al volgare bolognese (xv 2-6) e lo sguardo ravvicinato sulla sua interna varietà sociolinguistica (ix 4); il gruppo dei poeti bolognesi (xv 6) con l’avamposto faentino (xiv 3), con ciò che dicono i loro nomi, le loro biografie, le loro connotazioni politiche e le loro relazioni; la benevolenza verso gli alleati romagnoli e la stroncatura dei nemici ferraresi, modenesi e reggiani; il grande ruolo accordato a Cino da Pistoia (I x 2, xiii 4, xvii 3; II ii 8, v 4, vi 6), giurista di scuola bolognese e privilegiato corrispondente poetico di Onesto; l’evidente interes-se per il pubblico universitario e per quello delle artes dictandi; l’esibizione di cultura filosofica e di cultura dettatoria; infine il contenuto degli esempi retorici “dettati” da Dante (II vi 4), scritti per indurre simpatia per l’esilio di Dante e degli altri fiorentini bianchi e insieme per eccitare all’indignazione e allo scherno contro i temibilissimi nemici comuni di quegli esuli e del Comune bolognese: il marchese d’Este e Carlo di Valois. La compresenza di tutti questi elementi, ognuno dei quali dà senso solo in funzione di Bologna, o quasi, a me sembra francamente molto significativa.

Nel Convivio non si parla di Bologna: la sua muta presenza semplicemente appare dietro l’impressionante biblioteca aristotelico-scolastica che il trattato esibisce; ma nel coevo De vulgari di Bologna si parla moltissimo, come risulta anche dalla sintesi appena esposta, e si parla benissimo. Che cosa spiega, dunque, il rovesciamento di

7 Soprattutto per la fondata argomentazione sviluppata da Pasquale Stoppelli, Dante e la paternità del «Fiore», Roma: Salerno Ed., 2011, secondo la quale i riscontri tra Fiore e Commedia si spiegano nel senso che l’anonimo Fiore sia posteriore alla Commedia.

8 Fioravanti, Introduzione al Convivio, cit., p. 13. 9 Tavoni, Introduzione al De vulgari eloquentia, cit., pp. 1115-1116.

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giudizio su Bologna intervenuto fra De vulgari e Inferno, in un così ristretto numero di anni, dal 1304-1305 del De vulgari al 1307-1308 dell’Inferno?

Lo spiega, a mio giudizio, il rovesciamento di prospettiva esistenziale e politica intervenuto nella vita di Dante proprio – a mio giudizio – nel corso del 1306, de-terminato da avvenimenti esterni, primo dei quali precisamente il sovvertimento del regime guelfo bianco di Bologna nel gennaio-febbraio 1306, seguito in aprile dall’espugnazione di Pistoia, estremo, soccombente baluardo del guelfismo bianco. Da quel momento, Firenze, Bologna e Pistoia sono tutte in mano a gruppi guelfi neri intransigenti, legati da una ferrea alleanza fra di loro e con Carlo d’Angiò e col Marchese d’Este. Per un guelfo bianco come Dante – che tale è rimasto fino ad al-lora – non c’è più una città in cui vivere. In particolare il nuovo regime di Bologna stringe con l’omologo regime di Firenze, il 5 aprile, un patto «ad conculcationem, depressionem, exterminium atque mortem perpetuam ghibellinorum et alborum».10 La città che gli aveva offerto condizioni e prospettive politiche e culturali ideali per vivere, pensare, studiare e scrivere, condizioni e prospettive che Dante aveva messo intensamente a frutto in un anno e mezzo di straordinaria creatività intellettuale, diventa ora terra bruciata.

È in questo momento, nei primi mesi del 1306 – e non, come si ripete senza fondamento, in coincidenza con la cosiddetta battaglia della Lastra del 20 luglio 130411 – che a mio giudizio scatta in Dante, forzatamente, e direi per disperazione storica e personale, l’idea di tentare di essere perdonato, individualmente, e riammes-so a Firenze dai guelfi al potere. Dev’essere questo il tempo dell’epistola Popule mee, quid feci tibi? che Leonardo Bruni dichiara di aver visto, proprio nella cancelleria del Comune dove doveva essere stata indirizzata.

Il luogo perfetto perché questa forzata conversione da una prospettiva di vita a un’altra del tutto diversa potesse avvenire, non istantaneamente ma nel giro di pochi mesi, è la Lunigiana dei Malaspina, dove Dante agisce come procuratore del mar-chese Franceschino nel famoso instrumentum pacis rogato a Castelnuovo Magra il 6 ottobre 1306, nel quale sono menzionati anche Corradino e Moroello. Non fa la mi-nima difficoltà pensare che Dante, nei primi mesi del 1306, sia riparato da Bologna alla corte di Franceschino, ghibellino di assoluta fedeltà imperiale, dunque ancora in estrema continuità, non in rottura, con l’identità di guelfo bianco da Dante coeren-temente coltivata da Forlì a Verona a Bologna; e che poi, trovandosi sotto l’ombrello protettivo dei Malaspina, fra i quali vigeva una solidarietà feudale trasversale alla divisione tra rami filoghibellini e rami filoguelfi, sia entrato sotto la personale pro-

10 Emilio Orioli, Documenti bolognesi sulla fazione dei Bianchi, Bologna: Tip. Garagnani e Figli, estratto da «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna», III serie, XIV, 1896, pp. 1-15, alle pp. 6-7. E il 6 ottobre 1306 viene emessa l’ordinanza «quod nullus banitus et rebellis aut aliquis alius de Parte Blancorum de Tuscia» osasse «transire, stare seu habitare in civitate seu districtu Bononie»: Giovanni Livi, Dante suoi primi cultori sua gente in Bologna, Bologna: Cappelli, 1918, p. 156. Cfr. Carpi, La nobiltà di Dante, cit., p. 480.

11 Cfr. Mirko Tavoni, La cosiddetta battaglia della Lastra e la biografia politica di Dante, «Nuova rivista di letteratura Italiana», XVII, 2014, 2, in stampa.

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tezione di Moroello; grazie alla quale abbia poi potuto risiedere a Lucca nel 1308, attendendo alla composizione dell’Inferno, e abbia potuto sperare, contando anche sull’intercessione di Corso Donati, in quel perdono fiorentino a cui allude il secondo congedo della canzone Tre donne intorno al cor mi son venute.

Fatto sta che l’Inferno, come abbiamo imparato da Umberto Carpi, è un libro guelfo nella sua impostazione, oltre che fiorentinocentrico – mentre il De vulgari e il Convivio sono libri assolutamente filoimperiali, non-fiorentini e anti-fiorentini, proiettati su un futuro pensato fuori Firenze, fra Romagna e “Lombardia”, entro e per un orizzonte padano idealmente post-municipale.

Abbandonata la composizione dei due trattati, io credo proprio per il venire meno dell’ubi consistam nel quale e per il quale erano stati concepiti, Dante si immerge to-talmente nella composizione del poema sacro, scontando un brusco cambio di iden-tità, da filosofo laico a poeta teologo; di magistero, da Aristotele a Virgilio; di tempo storico, dalla prospettiva politica di un ordine civile da costruire nel medio periodo alla prospettiva profetica di una palingenesi dai tempi assolutamente indeterminati. La dimensione politica contingente, beninteso, resta fortissima nell’Inferno, ma non è finalizzata alla costruzione di un ordine nuovo, di cui Dante non vede intorno a sé nessuna base, ma è piuttosto distruttiva, in più direzioni, fatta salva la propria identità guelfa, che Dante vuole scolpire per antitesi nel X canto, evocando come proprio antagonista nientemeno che Farinata, e in positivo nel XV canto, facendosi dichiarare da Brunetto erede del suo insegnamento.

Per confermare questa identità di fiorentino guelfo Dante recita nell’Inferno di-verse palinodie, sparando a zero contro figure reali o simboliche con le quali si era compromesso, in senso pratico o in senso ideale, nel suo esilio fino a quel momento scivolosamente ghibellino. In senso ideale, contro Guido da Montefeltro, campione del ghibellinismo italiano e nemico di Firenze, che precipita dalla posizione di «no-bilissimo nostro latino Guido montefeltrano», cioè di più nobile in assoluto fra tutti gli italiani, nel IV del Convivio (xxviii 8), alla posizione di consigliere fraudolento al servizio del papa simoniaco Bonifacio VIII in fondo a Malebolge (Inf. XXVII).12 In senso pratico, contro i fratelli Alessandro e Aghinolfo dei conti Guidi di Romena, capitani della Universitas dei fuorusciti Bianchi, che precipitano dal rango di eroi im-periali nell’Epistola II a quello di falsari del fiorino destinati all’idropisia della decima bolgia (Inf. XXX, 76-90).

Ma la fedeltà guelfa che Dante vuole esibire, e la rottura ormai consumata con «la compagnia malvagia e scempia» (come la chiamerà Cacciaguida in Par. XVII 62) dei fuorusciti Bianchi, non lo trattengono certo dal rivendicare la giustezza delle proprie posizioni e l’ingiustizia dell’esilio, dal condannare sprezzantemente i suoi persecutori a cominciare da Bonifacio VIII, e dal rinfacciare a Firenze la decadenza dei valori e conseguentemente le colpe che annida in sé; cosa che Dante fa avendo l’accortez-

12 Mirko Tavoni, Guido da Montefeltro dal Convivio all’Inferno, «Nuova rivista di letteratura ita-liana», XIII, 2010 [ma 2012] (= Studi danteschi per Alfredo Stussi a cinquant’anni dalla sua laurea), pp. 167-198.

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za di mettere in bocca tali diagnosi a esponenti storici del guelfismo fiorentino del Duecento (oltre a Brunetto, anche Iacopo Rusticucci, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi, Inf. XVI), ma anche pronunciandole di persona in veementi allocuzioni, da Inf. XVI, 73-75 a XXVI, 1-12.

I tre episodi bolognesi infernali sono portatori ciascuno di un proprio significato: con le parole di Raimondi, «il tema bolognese, secondo una legge che è poi comune a tutta la struttura sinfonica della Commedia, si intreccia, si subordina ad altri motivi maggiori».13 Ma, visti sullo sfondo biografico riassunto sopra, i tre episodi illuminano aspetti complementari della città e rivelano più chiaramente un giudizio d’insieme su di essa. L’abbassamento di Bologna dalle vette linguistiche e culturali che presidia nel De vulgari alle bassure dell’Inferno risulta anzitutto visibile, e poi comprensibile, solo se abbiamo presente quello sfondo di vicende biografiche.

La condanna per sodomia del giurista Francesco d’Accorso (Inf. XV, 110), rappre-sentante dell’intera categoria dei chierici e litterati tacciati di pederastia («In somma sappi che tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci», ivi 106-108) è in sintonia con l’ostilità verso i professionisti universita-ri della cultura, ostilità insita nel progetto stesso del Convivio ed enunciata nel primo libro (che io tendo a ritenere pensato e scritto a Verona, non a Bologna): «[…] coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura [cioè la cultura scritta in latino] a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice» (I ix 5); confermata nel terzo libro con riferimento specifico a giuristi e medici: «Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, medici e quasi tutti religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignita-de; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero allo studio» (III xi 10); fino a essere ribadita da san Pietro in Paradiso specificamente contro i canonisti: «Per questo l’Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare a’ lor vivagni» (Par. IX, 133-135) – e qui si innesta il motivo anti-temporalista, presente già dell’Epistola ai cardinali italiani: «Iacet Gregorius tuus in telis aranearum; iacet Ambrosius in neglectis clericorum latibulis; iacet Augustinus adiectus, Dyonisius, Damascenus et Beda; et nescio quod Speculum, Innocentium et Ostiensem [i manuali e commentari di diritto canonico del vescovo Guglielmo Durante, di Innocenzo IV e di Enrico di Susa, cardinale Ostiense] declamant. Cur non? Illi Deum querebant, ut finem et optimum; isti census et beneficia consecun-tur» (Ep. XI 7).

Vale la pena soffermarsi su vivagni, perché anche questa parola rinvia sotterra-neamente a Bologna. I commentatori l’hanno fraintesa per più di quattro secoli,14 prendendola per le presunte vesti sontuose (con doppia metonimia, dalla cimasa del tessuto al tessuto stesso e poi dal tessuto alla veste) dei decretalisti, a significare

13 Raimondi, I canti bolognesi, cit., p. 40.14 Le citazioni dai commenti danteschi sono tratte, se non diversamente segnalato, dall’archivio

digitale Dante Dartmouth Project: http://dante.dartmouth.edu/search.php.

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dunque la loro vanità e venalità. Solo alla fine del Settecento il padre Baldassarre Lombardi si è accorto che qui i vivagni sono «i margini di essi libri», ma, secondo lui, in quanto «ricoperti d’ontume dal sovente applicarvi le dita». C’è voluto un altro secolo perché lo Scartazzini rettificasse (rettifica peraltro non accolta da tutti i commenti nemmeno oggi): «Che per vivagni s’abbiano ad intendere i margini di quei volumi, non ci pare cosa dubbia. Ma invece di pensare soltanto all’essere quei margini unti e consumati dal molto usarli, crediamo debbasi pure intendere delle chiose ed annotazioni che riempivano i margini di quei volumi». E meglio di tutti Casini (1892): «Allude senza dubbio all’uso generale nel secolo XIII di chiosare con note marginali il testo delle Decretali, che essendo state ordinate di recente, erano materia soggetta a varie e disparate interpretazioni: onde i dottori di diritto canonico abbondarono in quel secolo specialmente nelle scuole di Bologna, contendendo il primato a quelli di diritto civile».

Dunque anche vivagni ci riconduce idealmente allo studio bolognese, dove del resto già Boncompagno da Signa, nella Rhetorica novissima, «ha anche più di un’al-lusione polemica nei confronti dei glossatori, che, egli dice, “glosas multiplicant, que crescunt sicut locuste Pharaonis, et cadunt super textus velut grandines et horribiles tempestates”», così come «nelle sue pagine pittoresche sulla vita studentesca, in pri-mo luogo bolognese, non manca di elencare, fra i vizi che i “detractores” imputano all’“ordo scolasticus”, il “fermentum sodomiticum” e la “commixtio gomorrea” di tempi in cui “multi student non ut virtutibus meritorum clarescant sed ut valeant sub umbra studii lascivire”».15

È bolognese il primo dannato che Dante incontra in Malebolge, il ruffiano Venedico Caccianemici, che dichiara di aver indotto la sorella Ghisolabella a «far la voglia del Marchese» (Inf. XVIII, 57), cioè che «roffianolla a messer Opizzo marchese da Esti di Ferrara, promettendo a lei che l’arebbe signorìa e grandezza: dopo lo fatto ella si trovò a nulla delle promesse», come spiega Jacopo della Lana; in altre parole, pro-stituì la propria sorella al Marchese Opizzo II d’Este. Atto infamante, non attestato da altre fonti, con il quale Dante colpisce insieme due suoi idoli polemici di prima grandezza: nel Marchese Opizzo II colpisce l’odiata casata estense, caposaldo in Italia settentrionale dello schieramento guelfo intransigente, e in Venedico Caccianemici l’odiata fazione dei geremei, che agli Este erano legati a filo doppio e degli Este rap-presentavano la quinta colonna nel teatro politico bolognese.

Il Marchese Opizzo II, di cui Salimbene riporta che «dictum fuit de eo quod filias et uxores tam nobilium quam ignobilium de Feraria constupraret»,16 Dante lo aveva già incontrato nel settimo cerchio fra i «tiranni / che dier nel sangue e ne l’aver di piglio» (Inf. XII, 103-104), e il centauro Nesso lo aveva informato che «fu spento dal figliastro sù nel mondo» (Inf. XII, 112), cioè in un solo endecasillabo gli aveva detto

15 Raimondi, I canti bolognesi, cit., p. 42.16 Salimbene de Adam, Cronica, nuova edizione critica a cura di Giuseppe Scalia, Bari: Laterza,

1966, I, p. 245.

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che Azzo VIII, suo successore, era figlio illegittimo, frutto di adulterio della madre, e che si era impadronito del marchesato mediante parricidio.

Fissando per l’eternità Venedico Caccianemici nel gesto infamante di «lenonizare propriam sororem» (come parafrasa Guido da Pisa) al Marchese d’Este, Dante tra-sforma il legame politico che univa i Caccianemici agli Estensi in una colpa plasti-ca, rappresentandolo come servile lenocinio. Venedico, in particolare, aveva giocato un ruolo primario nel «coagulare quelle forze dello schieramento guelfo bolognese che si erano distinte per la loro intransigenza faziosa nella pars Marchixana, cosid-detta per il suo ispirarsi alle mire egemoniche dei marchesi di Ferrara nell’Emilia mediorientale»17. È esattamente la stesso tipo di sintesi fantastica che Dante compirà su Guido da Montefeltro, teatralizzando nel «consiglio frodolente» (Inf. XXVII, 116) deversato all’orecchio di Bonifacio VIII gli effettivi servizi politici resi al papa dall’ex capo ghibellino a contorno della sua interessata conversione senile.18 Né il consiglio fraudolento di Guido né il lenocinio di Venedico sono confermati da fonti indipen-denti, e come il primo è quasi certamente una invenzione dantesca19, lo stesso si può sospettare anche del secondo.

Nel De vulgari eloquentia Azzo VIII è, anche qui in coppia con Carlo II d’Angiò, uno dei re e marchesi che incarnano il degrado dell’Italia resa deserta dalla scomparsa degli illustri eroi svevi, Federico II e il suo benegenito figlio Manfredi: «Racha, racha! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi “Venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores”?» (VE I xii 5). E nel secondo libro, per forgiare esempi retorico-sintattici di «supprema con-structio», Dante produce uno dopo l’altro due periodi sarcastici, il primo contro, appunto, il marchese Azzo VIII d’Este: «Laudabilis discretio marchionis Estensis, et sua magnificentia preparata, cunctis illum facit esse dilectum»; il secondo contro Carlo di Valois: «Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia, nequicquam Trinacriam Totila secundus adivit» (II vi 4).

La radice dell’episodio di Venedico Caccianemici si trova qui: nel soggiorno bolo-gnese di Dante negli anni 1304-05. Soggiorno reso possibile dal fatto che il Comune era retto dalla parte avversa agli Este; la parte sempre guelfa, sempre Pars Ecclesie – e anzi davvero appoggiata dal papato, ora, all’opposto che ai tempi di Bonifacio VIII, dato che il successore di questi Benedetto XI, coi suoi emissari cardinali Niccolò da Prato e Napoleone Orsini, aveva ribaltato la linea politica guelfo-ierocratica di Bonifacio, e sulla stessa linea proseguiva Clemente V – ma nemica giurata del blocco incombente costituito dal Marchese d’Este, da Firenze guelfa Nera, dagli Angiò. Per difendersi da questo minacciosissimo blocco i guelfi “Bianchi” di Bologna si alleano con le signorie ghibelline romagnole, dando nel contempo ricetto a un gran numero di fuorusciti fiorentini. Dante, nel comporre il De vulgari eloquentia, espone i nomi

17 Augusto Vasina, s.v. Caccianemici, Venedico, in Dizionario Biografico degli Italiani, 15, 1972, p. 805.18 Tavoni, Guido da Montefeltro, cit., pp. 184-186 e 193-195.19 Ivi, pp. 175-184.

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di Azzo VIII e Carlo II come emblematici della micidiale avaritia che domina gli stati italiani, ed esibendosi in veste di maestro di ars dictandi mette sarcasticamente alla berlina Azzo VIII e Carlo di Valois, legando sé stesso e gli altri “fiori” espulsi da Firenze al popolo bolognese; mostrando che fuorusciti fiorentini e popolo bolognese hanno in comune gli stessi nemici, i quali minacciano insieme la libertà del Comune e la possibilità di sopravvivenza della comunità dei fuorusciti.

Proprio il prevalere, nel gennaio-febbraio 1306, della pars Marchixana, che appe-na preso il potere si dedica a perseguitare i rifugiati Bianchi fiorentini, pone dram-maticamente fine a un periodo della vita di Dante e distrugge la doppia prospettiva culturale che con il Convivio e il De vulgari egli si era dato a edificare.

L’odio e il disprezzo verso Azzo VIII e Carlo II resteranno una costante nella vita e nell’opera di Dante. Di Azzo VIII Dante dirà, in Purg. V 77, che è il mandante del proditorio assassinio di Iacopo del Cassero, eliminato proprio perché si opponeva alle sue mire su Bologna; e in Purg. XX, 80-81 che aveva “comprato” in moglie, dal padre, la giovanissima Beatrice, figlia appunto di Carlo II d’Angiò. Di Carlo II dirà, in Purg. VII, 126, che «Puglia e Proenza già si dole» del suo malgoverno; in Purg. XX, 79-81 concentrerà in una sola terzina due sue azioni vergognose: «L’altro, che già uscì preso di nave [per l’ignominiosa cattura navale da parte degli Aragonesi] / veggio vender sua figlia e patteggiarne  / come fanno i corsar de l’altre schiave [la “vendita” appunto della figlia Beatrice ad Azzo VIII d’Este, di cui sopra]»; in Par. VI, 106-108 lo diffiderà dall’ostacolare l’aquila imperiale («e non l’abbatta esto Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli / ch’a più alto leon trasser lo vello»); in Par. XIX, 127-129 lo deriderà, chiamandolo Ciotto “Zoppo”, per il vano titolo di re di Gerusalemme.

Allo stesso modo resteranno una costante l’odio e il disprezzo verso i capi della pars Marchixana bolognese. Venedico Caccianemici ne è il primo esempio, il secondo sarà il forlivese Fulcieri da Calboli. Fulcieri è anzitutto diretto persecutore di Dante in quanto sanguinario podestà di Firenze, successore di Cante de’ Gabrielli, nel pri-mo e secondo semestre del 1303: è in questa veste fiorentina, di persecutore dei Bianchi e dei loro residui fautori, che lo rappresenta profeticamente Guido del Duca in terzine atroci («Vende la carne loro essendo viva; / poscia li ancide come antica belva» ecc., Purg. XIV, 58-66). Ma Fulcieri è un criminale internazionale al servizio del guelfismo nero, a Firenze come a Bologna, dove era stato capitano del popolo ne-gli anni 1299-1300 e dove tornerà a esserlo dal 1307 al 1309 e ancora nel 1321. Ed è in quest’ultimo ufficio bolognese che Dante lo reincontrerà, in un certo modo, o meglio eviterà di reincontrarlo. È infatti da identificare in lui, con ogni probabilità, il Polifemo che nell’Egloga II di Dante a Giovanni del Virgilio fa di Bologna l’«antrum Ciclopis» (v. 47), dove il vecchio Titiro, cioè Dante, sarebbe disposto ad andare per visitare Mopso, cioè Giovanni del Virgilio, se non temesse Polifemo («[…] Mopsum visurus adirem, / hic grege dimisso, ni te, Polipheme, timerem», vv. 74-75); da cui il commento di un terzo pastore, Alfesibeo: «“Quis Poliphemon” ait “non horreat” Alphesibeus / “assuetum rictus humano sanguine tingui […]?”» (vv. 76-77).

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L’incontro con Venedico Caccianemici si spiega entro queste coordinate. E nel canto XVIII il risentimento di Dante contro Bologna, la sua determinazione a esten-dere all’intera città la taccia di ruffianeria indotta da avarizia, sono espliciti – mentre nel caso del sodomita Francesco d’Accorso la pederastia è sì estesa a un’intera cate-goria, quella dei chierici e litterati (Inf. XV, 106-108), ma resta implicito, anche se facilmente deducibile, che la città di Bologna ne abbia un’alta concentrazione. Qui invece Venedico stesso spende due intere terzine per dichiarare bene il concetto: «E non pur io qui piango bolognese;  / anzi n’ è questo loco tanto pieno, / che tante lingue non son ora apprese / a dicer sipa tra Sàvena e Reno; / e se di ciò vuoi fede o testimonio, / rècati a mente il nostro avaro seno» (Inf. XVIII, 58-63) – dove «rècati a mente», “ricòrdati”, sembra proprio alludere a esperienza diretta vissuta da Dante.

Il terzo episodio, quello di Catalano e Loderingo, è ancor più ricco di significati, in rapporto alla storia di Firenze e alla storia di Bologna, e in entrambi i casi in rapporto alla figura di Dante.

Per prima cosa a me pare certo, anche se i commenti non lo evidenziano, che l’incontro coi due frati gaudenti è nel disegno di Dante il completamento dell’incon-tro con Farinata. Lo segnala anzitutto il fatto che, quando Dante chiede a Virgilio di individuare qualcuno fra quei peccatori (vv. 73-75), Catalano riconosce la sua pronuncia toscana («E un che ’ntese la parola tosca, / di retro a noi gridò…», vv. 76-77), proprio come l’aveva riconosciuta Farinata («La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patrïa natio / a la qual forse fui troppo molesto», Inf. X, 25-27). Di conseguenza i due, Farinata e Catalano, apostrofano Dante con l’identico allocutivo «O tosco che… »: «O tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando one-sto…» (Inf. X, 22-23) nel caso di Farinata; «O tosco ch’al collegio / de l’ipocriti tristi sè venuto…» (qui vv. 91-92) nel caso di frate Catalano. E sia Farinata che Catalano per prima cosa chiedono a Dante di rivelare la propria identità. Farinata: «Com’io al piè de la sua tomba fui, / guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, / mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”» (Inf. X, 40-42). Catalano: «[…] dir chi tu sè non avere in dispregio», v. 93. L’uguale esordio allocutivo, come la dichiarazione di Dante «I’ fui nato e cresciuto / sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa» (vv. 94-95), suggeriscono subito che anche nel secondo incontro stiamo per assistere a un dialogo di pertinenza politica fiorentina.

Questi parallelismi formali, e la tematizzazione della fiorentinità di Dante, in-troducono allo stretto collegamento storico che sussiste fra i due discorsi: il discorso di Farinata centrato su Montaperti (1260), drammatico evento militare che apre il periodo del dominio ghibellino su Firenze; il discorso di Catalano centrato sulla podesteria dei due frati gaudenti (1266), mediocrissima fase politica che riconsegna Firenze al dominio guelfo, rinnovando la logica di fazione da cui la vita comunale non riesce a liberarsi.

Percepire in coppia gli episodi di Farinata e dei due frati gaudenti – come Dante, credo, vuole che li percepiamo – significa che il secondo episodio integra il messaggio

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del primo. Attraverso il “rinfaccio” con Farinata Dante scolpisce la propria personale identità guelfa fiorentina, rafforzata e letteralmente nobilitata dall’identità guelfa dei suoi antenati, certificate dall’aldilà, l’una e l’altra, nientemeno che dal vincitore di Montaperti. Coi due frati gaudenti non c’è dialogo, perché appena Dante inizia a ri-spondere «O frati, i vostri mali…» (v. 109), la battuta gli si smorza sulle labbra per la vista improvvisa di Caifa nudo crocifisso a terra.20 Ma non c’è bisogno di commenti da parte di Dante personaggio. Basta che i due siano lì per l’eternità, con le cappe rance addosso, per la colpa da loro stessi dichiarata, cioè perché, chiamati da Firenze «per conservar sua pace [...] fummo tali  / ch’ancor si pare intorno dal Gardingo» (vv. 107-108). Il giudizio storico sul loro operato lo ha pronunciato Dio dannandoli come ipocriti. Dante personaggio, a Farinata che gli chiedeva conto delle persecu-zioni che i fiorentini riservavano ai suoi («perché quel popolo è sì empio / incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?», Inf. X, 83-84), aveva tenuto il punto e risposto «Lo strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso, / tal orazion fa far nel nostro tempio» (vv. 85-87) – ma già lì Dante autore gli aveva lasciato la parola per due terzine per difendersi: «“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo / sanza cagion con li altri sarei mosso. / Ma fu’ io solo, là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, / colui che la difesi a viso aperto”» (vv. 89-93). Ma ora è il giudizio stesso di Dio a significare che la distruzione delle case degli Uberti è stata una colpa.

Non è poco. Può darsi, anzi è da ritenere probabile, come sostiene Carpi, che la motivazione guelfa dell’Inferno sia andata scemando nel corso della composizione della cantica, via via che si esauriva la speranza di essere perdonato e riammesso a Firenze.21 Fatto sta che l’immagine politica di sé che Dante vi imprime è coeren-te dall’inizio alla fine. È l’immagine di un guelfo non fazioso, che vede le cose di Toscana e d’Italia come le si poteva vedere nel 1307-1308, cioè dopo che Bonifacio VIII era morto già da anni e la sua politica era stata rifiutata dai papi suoi successori, Benedetto XI e Clemente V. Il messaggio coerente che l’Inferno dà è che Dante è guelfo, senza ombre e senza incrinature (come dimostra l’incontro con Farinata); e che è Dante il vero erede del pensiero guelfo, non i Bianchi e i Neri che – alla data della composizione della cantica – sono, gli uni come gli altri, dentro la decadenza

20 Secondo Carpi, L’Inferno dei guelfi, cit., p. 138, la battuta lasciata in sospeso per la vista sconvol-gente di Caifas crocifisso è una «straordinaria mossa narrativa, ma anche – mi pare – un tratto di grande prudenza politica: i ghibellini di Farinata dopo Montaperti e i guelfi dopo Benevento contro Farinata, rispettivamente sormontando, avevano compromesso la pace cittadina: questo il Dante 1307-’08 può ben dirlo; ma continuare quel discorso, insistere inevitabilmente sulle male origini di un regime guelfo ancora ininterrottamente vigente, sarebbe stato dir troppo contro un’azione di presa del potere che aveva pur avuto in Brunetto il massimo mallevadore ideologico e dentro i cui esiti di regime e fra i cui protagonisti lui stesso Dante era pur cresciuto e aveva appena impetrato di poter rientrare».

21 Carpi, L’Inferno dei guelfi, cit., p. 139: «A questa profondità dell’Inferno, dopo Ciacco Farinata Brunetto, non è più ai guelfi di Firenze che Dante si rivolge, le speranze di rientro sono dileguate, il desiderio stesso attenuato […] Distacco da Firenze, e non sarà un caso […] che il canto XXVI, apertosi sull’apostrofe contro Firenze, dopo la sospensione di ogni rapporto col Comune e anzi l’auspicio di una superiore punizione […] continui con l’episodio di Ulisse: l’apertura sul mondo, la ricerca del nuovo, la scommessa intellettuale».

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presente di Firenze («superbia, invidia e avarizia…», Inf. VI, 74) e che gli sono, gli uni come gli altri, nemici (come dimostrano l’incontro con Brunetto e quello con i tre maggiorenti del canto XVI); e insieme che ciò di cui Firenze, come l’Italia, ha bisogno è una vera pace, non l’alternarsi meccanico di una fazione che sopraffà l’altra (come dimostra l’incontro con i frati gaudenti).

L’esperienza dei primi anni dell’esilio, infatti, con la conoscenza diretta degli as-setti politici feudali, comunali, signorili riflessi nella geografia del De vulgari, cioè appenninici, romagnoli, emiliani, lombardi e veneti (di tutta l’area, potremmo dire col linguaggio di Inferno I, compresa «tra Feltro e Feltro»), Dante l’aveva compiuta ed era ormai indelebile dentro di lui; le dinamiche autodistruttive delle fazioni mu-nicipali erano ormai state percepite come non più a lungo tollerabili da Dante al pari che da molti contemporanei; politiche di pacificazione erano state tentate dai papi successori di Bonifacio VIII, prima delle quali quella di Niccolò da Prato verso Firenze e Pistoia, a cui Dante aveva dato il suo pieno e impegnato appoggio; era già ampiamente diffuso il bisogno di pace che di lì a poco sarà catalizzato, infatti con larghissimo consenso iniziale, dalla figura di Enrico VII; l’antimunicipalismo che Dante aveva concepito ed espresso nel De vulgari ormai era dentro di lui, indelebi-le; e così l’idea imperiale, che nel I libro del De vulgari (cap. xii) e nel IV libro del Convivio (capp. iv-v) egli aveva focalizzato e teorizzato in modo inequivocabile: nella stesura dell’Inferno Dante ridusse l’idea imperiale al silenzio, per ragioni tattiche, ma essa era viva dentro di lui. Tutte queste acquisizioni intellettuali sono e restano vive in Dante anche mentre scrive l’Inferno, ed egli le esprime, nelle forme compatibili con l’identità guelfa che vuole mettere in primo piano, identità guelfa che non può mai in nessun caso rischiare di appiattirsi sul guelfismo al potere, a pena di autodistrug-gere tutto il proprio valore.

Il significato dell’episodio di Catalano e Loderingo, quale l’ho sintetizzato so-pra, credo che sia codificato nel testo attraverso precisi segnali formali. E l’occasione di pacificazione che viene a trovarsi nelle mani e nella responsabilità dei due frati gaudenti, e che essi sprecano perché trovano conveniente assecondare ipocritamente la volontà di papa Clemente IV, era un’occasione storica effettiva, secondo la rico-struzione del Davidsohn.22 Egli insiste infatti sull’idea che «il ceto medio dei com-mercianti e artigiani non voleva sottomettersi né al potere del regime ghibellino né a quello del papa che notoriamente appoggiava e proteggeva i Guelfi» (p. 814). Tale volontà popolare si concretizzò nella creazione della Magistratura dei Trentasei, «composta in parti uguali di persone di tendenze guelfe e ghibelline» (p. 836), avente «lo scopo di creare in precedenza un contrappeso all’unilaterale dominio guelfo che la minacciava», e «rivolta alla creazione di un governo popolare che stesse sopra i par-titi» (p. 834); nella scelta di un capitano del popolo autonomo dal papa e a lui inviso (p. 837); nella definizione, da parte dei Trentasei, delle condizioni di pace fra guelfi e ghibellini, nel dicembre 1265 (p. 838); in una politica di matrimoni pacificatori (fra

22 Robert Davidsohn, Storia di Firenze. II. Guelfi e Ghibellini, Parte I. Lotte sveve, Firenze: Sansoni, 1957 (ed. originale 1908), cap. VII «Firenze ghibellina», pp. 814-860.

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i quali quello di Guido Cavalcanti poco più che fanciullo con una figlia di Farinata); dalla composizione bipartisan di tutti gli altri organi di governo (p. 840). Tutte azio-ni via via vanificate da azioni del papa avallate dai due podestà, fino all’abolizione del capitano del popolo (p. 855), alla confisca delle proprietà ghibelline (p. 857), alla demolizioni di case e torri in città (p. 858), quindi alle successive persecuzioni lamentate da Farinata nel colloquio con Dante, nonché nei loro versi dai poeti ghi-bellini Rustico Filippi e Fazio degli Uberti (pp. 859-860).

Che un’occasione storica effettiva si presentasse in quel momento resta vero an-che se si accetta l’interpretazione parzialmente diversa del Salvemini, secondo la quale dopo la battaglia di Benevento si era piuttosto creata in Firenze una sorta di alleanza tra il Popolo e i ghibellini.23 Fatto sta che, tra la forzata partenza di Guido Novello da Firenze l’11 novembre 1266 e la presa del potere guelfa dell’aprile 1267, quando le truppe angioine entrano in città e Carlo d’Angiò viene nominato podestà, si ha un «breve ed effimero ritorno al potere degli esponenti popolari».24 I quali però non riescono a «mantenere quella superiorità sui partiti in lotta che così faticosamente e fortunosamente avevano conquistato» e falliscono l’obiettivo del «ristabilimento della pace popolare in città e della fine delle lotte tra Guelfi e Ghibellini» (p. 87). Con i beni sequestrati agli esiliati si costituisce invece il nuovo organismo, la Parte Guelfa, che «divenne dunque il reale centro di potere della cit-tà, l’elemento che avrebbe condizionato d’ora in poi, per moltissimi anni, tutta la vita pubblica di Firenze: da un regime popolare si passava così, nuovamente, ad un regime di partito» (p. 90).

Si inaugura in questo momento quello che Giuliano Milani chiama «il sistema dell’esclusione», «il nuovo regime fondato sull’esclusione», di cui Firenze passata sot-to il dominio di Parte Guelfa, con Prato e Pistoia, rappresenta uno snodo saliente. Mentre al contrario Bologna – proprio la Bologna della Milizia di Maria Vergine di Loderingo e Catalano, milizia di 1200 “popolari” per frenare le lotte di fazione – fece negli stessi anni un ultimo tentativo per restare fuori da tale sistema.25

Anche su questo sfondo storico, di fatti avvenuti quando Dante era infante, e di cui doveva senz’altro aver avuto memoria orale, mi sembra possibile che l’episodio avesse nella sua mente anche altre risonanze, che però – è bene sottolineare per non con-fondere osservazioni di diversa natura – non risultano codificate nel testo. Mi sembra che Dante potesse vedere questi fatti del 1266-67 come una specie di anticipazione

23 Gaetano Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Saggio introduttivo di Ernesto Sestan, Torino: Einaudi, 1960 (prima ed. 1899), Excursus 1 «Il passaggio del Comune di Firenze a parte Guelfa (1266-67)», pp. 266-317.

24 Massimo Tarassi, Il breve ed effimero periodo popolare, in Sergio Raveggi, Massimo Tarassi, Daniela Medici, Patrizia Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze: La Nuova Italia, 1978, pp. 75-90, a p. 83.

25 Giuliano Milani, L’esclusione dal Comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italia-ne tra XII e XIV secolo, Roma: Istituto storico italiano per il Medio Evo, pp. 169-186 (Firenze, Prato e Pistoia) e 205 (Bologna).

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dei fatti fiorentini del 1300-02, con Clemente IV che gioca un ruolo simile a quello che giocherà Bonifacio VIII e Carlo d’Angiò che gioca un ruolo simile a quello che giocherà Carlo di Valois. Ma con una differenza fondamentale: che in quel caso la prevaricazione del papa trovò il cedevole aiuto dei falsi pacificatori Catalano e Loderingo, che infatti sono all’Inferno come ipocriti, mentre nel 1300 incontrò la soccombente resistenza dei Priori, per cui Dante è con onore in esilio.

Rispetto a Bologna, l’azione di pace positiva esercitata da Catalano e Loderingo nel 1265 aprì un periodo di nove anni in cui lambertazzi e geremei convissero al governo della città, fino alla cacciata dei lambertazzi nel 1274. Questo periodo poteva forse sembrare a Dante un’anticipazione del regime guelfo bianco di pa-cificazione, che resisté al potere a Bologna dal 1299 al 1306, anch’esso rovesciato dalla fazione geremea intransigente, con conseguenze io credo drammatiche sulla vita di Dante.

Queste ultime sono suggestioni estemporanee, ma rientriamo nei fatti codificati nel testo se notiamo la rima Bologna : menzogna ai vv. 142-144. Dante non considera casuale la cittadinanza bolognese dei due frati scelti come campioni di ipocrisia, anzi vuole tacciare la città d’ipocrisia, come nel XVIII canto aveva voluto esplicitamente tacciarla di ruffianeria e avarizia. A rifinire la malevolenza di Dante infernale verso Bologna, l’ironica terzina di Catalano per canzonare l’ingenuità di Virgilio proietta sullo studio bolognese un’ombra di ipocrisia, come l’evocazione di Francesco d’Ac-corso vi proiettava ombre di venalità e pederastia.

I tre riferimenti a personaggi bolognesi nel Purgatorio saranno di segno opposto perché sono fuori dall’orbita della politica, tranne quello nostalgico a Fabbro dei Lambertazzi («Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?», Purg. XIV, 100), capo-stipite della parte avversa a quella detestata dei geremei, e circonfuso della nobiltà d’antan. Gli altri due riferimenti sono a Guido Guinizelli (peraltro anche confinato come lambertazzo nel 1274) e al miniatore nominato «Franco bolognese».

Il magistero poetico volgare del primo è una costante fondamentale lungo tutta la carriera di Dante, sottratto a ogni contingenza, dal «maximus Guido Guinizelli» del De vulgari eloquentia (I xv 6) al «padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre» del Purgatorio (XXVI, 97-99).

Franco bolognese è affiancato a Oderisi da Gubbio in Purg. XI, 79-84. Oderisi, che Dante qualifica come «l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte  / ch’alluminar chiamata è in Parisi», risponde a Dante, vincendo la vana gloria che sta espiando nella prima cornice del Purgatorio, «più ridon le carte  / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte». I due miniatori sono entrambi at-tivi a Bologna, anche Oderisi, ricordato in documenti bolognesi del 1268-71; men-tre Franco, in assenza di documenti, viene dato come «vissuto dalla seconda metà del XIII ai primi lustri del XIV secolo» (così nella voce dell’Enciclopedia dantesca) semplicemente perché si assume, sulla base dei versi di Dante, che fosse più giovane di Oderisi e forse suo allievo.

Oderisi riconosce Dante e lo chiama «Frate», e Dante riconosce lui: «[…] e vi-

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demi e conobbemi e chiamava, / tenendo gli occhi con fatica fisi / a me che tutto chin con loro andava. / “Oh!”, diss’io lui, “non sè tu Oderisi […]» ecc. (vv. 76-79). Quindi queste due terzine sono un preciso documento della presenza e della vita di Dante a Bologna: prima dell’esilio, per forza, per la conoscenza di Oderisi, che nel 1300 era già in Purgatorio; forse dopo l’esilio, o anche dopo l’esilio, per la conoscen-za di Franco bolognese.

Dei due miniatori non esiste nessuna opera autografa, se non una Bibbia firmata Oderisius,26 per cui le congetture e fantasie attributive e storiografiche si sono scate-nate. I versi di Dante, quanto ad acume pittorico e a capacità di tradurlo in parole, sono di eccezionale bellezza, ma a quali specifiche esperienze stilistiche rimandino, all’interno del ricchissimo panorama della miniatura bolognese due-trecentesca, è controverso fra gli storici dell’arte. Probabilmente Oderisi è da collocare all’interno del cosiddetto “secondo stile”, proprio degli ultimi due decenni del secolo, segnato dal «marcato influsso di modelli provenienti dall’Oriente bizantino e slavo»,27 «pur in una interpretazione già connotata in senso gotico» (p. 129). Certamente le parole di Dante «quell’arte  / ch’alluminar chiamata è in Parisi» sono in rapporto con la documentata «presenza di miniatori francesi e parigini a Bologna» (p. 131). Bologna si dimostra quindi «negli ultimi decenni del secolo un centro fondamentale per la miniatura, attraendo artisti dalla Francia e da altre parti d’Europa e mettendone in circolazione l’esperienza e le invenzioni».28 Forse Franco bolognese è invece da mettere in rapporto con le «aperture giottesche» riscontrabili nei primissimi anni del Trecento, quando compare una «conoscenza dei fatti assisiati», «una miniatura corsiva, di gusto tutto occidentale […] quasi in contrapposizione al rinnovato elle-nismo del “Maestro di Gerona”» – cioè del capolavoro del “secondo stile”, la Bibbia appartenuta a Carlo V (Girona, Biblioteca Capitolare, ms. 10), realizzata tra 1285 e 1290 – «caratterizzata da una stesura uniforme dai colori ricchi e squillanti».29 E «l’affermazione che Franco pennelleggia sottintende che Oderisi non pennelleggiava: era quindi più legato alla tradizione disegnativa, in confronto a un Franco che era più libero dal disegno».30

In ogni caso, le due terzine costituiscono certamente un omaggio personale di Dante a un’esperienza artistica specificamente bolognese, essendo la fiorente minia-tura in rapporto con la ricca produzione libraria, e questa in rapporto con l’università

26 Giovanni Fallani, Postilla su Oderisi e Franco, «Studi danteschi», L, 1973, pp. 103-109, tav. 1: Bibbia latina (Cod. ex Chester Beatty), c. 156.

27 Massimo Medica, La città dei libri e dei miniatori, in Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna. Catalogo della mostra, Bologna, Museo Civico Archeologico 15 aprile - 16 luglio 2000, a cura di Massimo Medica con la collaborazione di S. Tumidei, Venezia: Marsilio 2000, pp. 109-140, a p. 127. Cfr. anche Alessandro Conti, La miniatura bolognese. Scuole e botteghe 1270-1340, Bologna: Edizioni ALFA, 1981.

28 Giuliano Milani, Bologna, Spoleto: Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2012, p. 158.

29 Medica, La città dei libri e dei miniatori, cit., p. 136.30 Isa Barsali Belli, s.v. Oderisi da Gubbio, in Enciclopedia Dantesca, Roma: Istituto della Enciclopedia

italiana, vol. IV, p. 123.

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(come dice il titolo stesso del saggio di Medica: La città dei libri e dei miniatori); un’e-sperienza personale vissuta e amata, fatta di miniature, di persone, di un ambiente, sia che risalga solo ai tempi, diciamo, del sonetto alla Garisenda o più probabilmente – se Franco bolognese va contestualizzato entro le «aperture giottesche» di cui sopra – anche ai tempi del Convivio e del De vulgari.

Tornando alla Bologna infernale, c’è un ultimo e fondamentale tratto che la con-trappone alla Bologna del De vulgari: il suo municipalismo linguistico. Esso emer-ge in tutta evidenza, e secondo me intenzionalmente, nell’episodio di Venedico Caccianemici.

«Condussi a far la voglia del marchese» (XVIII, 56) è un modo crudo per dire «la sconcia novella» (v. 57). Ma è soprattutto la chiamata di correo dell’intera città di Bologna, iperbolica (significa: i ruffiani bolognesi in questa bolgia sono più numerosi dei bolognesi viventi oggi), a mettere alla berlina il bolognese municipale: «E non pur io qui piango bolognese; / anzi n’è questo loco tanto pieno, / che tante lingue non son ora apprese / a dicer sipa tra Sàvena e Reno» (vv. 58-61). Sipa, “sia”, forma analogica su sepa “sappia”, deipa “debba”, viva ancor oggi nella forma dialettale sé(p) - pa, è qui assunta da Dante come la particella affermativa bolognese, e dunque usata come blasone di quel volgare.

Occorre aver presente il valore che il De vulgari assegna alla particella affermativa come elemento identificante di una lingua. È la particella affermativa che distingue le lingue dette appunto d’oc, d’oïl e di sì («Totum vero quod in Europa restat ab istis, tertium tenuit ydioma, licet nunc tripharium videatur: nam alii oc, alii oïl, alii sì affir-mando locuntur, ut puta Yspani, Franci et Latini», I viii 5), e questo è vero in senso tanto forte che è solo la particella affermativa jò a fondare la comune origine babe-lica di tutte le lingue dell’Europa settentrionale: «hoc solo fere omnibus in signum eiusdem principii remanente, quod quasi predicti omnes iò affirmando respondent» (I viii 3).

Su questo sfondo, le parole messe in bocca a Venedico Caccianemico assumono il valore di una vera e propria palinodia riguardo al volgare bolognese. I bolognesi, che nel De vulgari Dante aveva accreditato di parlare il miglior volgare cittadino d’Italia («Dicimus ergo quod forte non male opinantur qui Bononienses asserunt pulcriori locutione loquentes», I xv 2), perché contemperano l’eccessiva asprezza del “lombar-do” con l’eccessiva mollezza del romagnolo, e dunque «rationabile videtur esse quod eorum locutio per commixtionem oppositorum ut dictum est ad laudabilem suavi-tatem remaneat temperata: quod procul dubio nostro iudicio sic esse censemus» (I xv 5), qui vengono degradati di colpo, e colpiti proprio nella parola più rivelatrice, più identificante: la parola per dire sì. Il loro sipa li isola e li separa grettamente dal resto dell’Italia, il «bel paese là dove ’l sì suona» (Inf. XXXIII, 80).

E Dante personaggio per primo si era posto su questa lunghezza d’onda, idiomatica e municipalistica, non appena aveva identificato il ruffiano geremeo («Venedico sè tu Caccianemico», v. 50), apostrofandolo con la sarcastica domanda

66 Lectura Dantis Bononiensis

(che conferma la sua dimestichezza perfino toponomastica con Bologna) «Ma che ti mena a sì pungenti salse?» (v. 51), così perfettamente glossata da Benvenuto da Imola:

Ad intelligentiam huius literae, ut videas quot sunt occulta et ignorata in isto libro, volo te scire, quod Salse est quidam locus Bononiae concavus et declivus extra civi-tatem post et prope sanctam Mariam in Monte, in quem solebant abiici corpora de-speratorum, foeneratorum, et aliorum infamatorum. Unde aliquando audivi pueros Bononiae dicentes unum alteri ad improperium: Tuus pater fuit proiectus ad Salsas. Ad propositum ergo autor vult dicere: Quid ducit te ad vallem tam infamem, sicut est vallis Salsarum apud patriam tuam?

3. La visione come meccanismo narrativo

La «favola d’Isopo» a cui sono dedicati i vv. 4-9 Dante l’avrà letta probabilmente in una di queste due raccolte medievali di favole esopiche: o la raccolta in prosa di epo-ca carolingia che va sotto il nome di Romulus, o il Liber Aesopi ovvero Esopo latino, versione in distici elegiaci di 60 favole del Romulus attribuita a Gualtiero Anglico arcivescovo di Palermo, del secolo XII.

Nel IV del Convivio (xxx 4) Dante cita «Esopo poeta», il che fa pensare che il suo Esopo fosse l’Esopo latino, ma ai nostri fini il dilemma è irrilevante, perché la trama della favola della rana e del topo è identica nella prima versione, più scarna, e nella seconda, più effusa e più largamente moralizzata:

Mus cum transire vellet flumen, a rana petiit auxilium. Illa grossum petiit linum, mu-rem sibi ad pedem ligavit, et natare coepit. In medio vero flumine rana se in deorsum mersit, ut miserrimo vitam eriperet. Ille validus dum teneret vires, milvus e contra volans murem cum unguibus rapuit, simul et ranam pendentem sustulit. Sic enim et illis contingit qui de salute alterius adversa cogitant.

Muris iter rumpente lacu, venit obvia murirana loquax, et opem pacta nocere cupit.

Omne genus pestis superat mens dissona verbis,obsontes animos florida lingua polit.

Rana sibi murem verbis confederat; audetnectere fune pedem, rumpere fraude fidem.

Pes coit ergo pedi, sed mens a mente recedit.Ecce natant; trahitur ille, sed illa trahit.

Mergitur, ut murem secum demergat; amiconaufragium faciens, naufragat ipsa fides.

Rana studet mergi, sed mus emergit et obstatnaufragio; vires subtrahit ipse timor.

Milvus adest, miserumque truci rapit ungue duellum;hic iacet, ambo iacent, viscera tracta fluunt.

67Mirko Tavoni

Sic pereant qui se prodesse fatentur et obsunt;discat in auctorem pena redire suum.

Incidit in foveam quam fecerit insidiator;in laqueum fraudator cadit ipse suum.

In proiectorem proiectus dat lapis ictum,quando venenosa prosilit ille manu.

Perché questa favola sarebbe esattamente combaciante, come dice Dante, con la «presente rissa»? Per «presente rissa», poi, sembra di dover intendere la «zuffa» fra Alichino e Calcabrina raccontata in XXII, 133-150, ma molti commentatori han-no tirato in ballo anche Ciampolo, con l’inganno da lui teso ai due demoni (XXII, 109-132); altri anche Barbariccia e altri ancora, per non farsi mancare niente, per-fino Dante e Virgilio.31 Nel saggio di Hollander (1984) si possono vedere riunite 11 diverse proposte avanzate in cinque secoli e mezzo, che credo esauriscano tutti i possibili accoppiamenti fra questi soggetti, più la pece stessa, da una parte, e la rana, il topo e il nibbio dall’altra.

L’impasse era già dichiarata dal Castelvetro nel 1570:

Volto era in su la favola d’Isopo; etc. A me pare, considerando ben fissamente tutta la fa-vola d’Isopo della rana e del topo e tutta la presente rissa del barattiere Navarrese e d’Ali-chino e di Calcabrina dimoni, non vedere cose, che abbiano meno da fare insieme, e che sieno meno simili tra sè di queste. Perciochè, quanto è alla favola della rana e del topo, la rana fu ingannatrice, e fu ingannatrice sperando ingiustamente con la morte altrui di

31 Kenneth McKenzie, Dante’s References to Aesop, «Annual Report of the Dante Society», XVII, 1900, pp. 1-14, a pp. 12-13; Michele Scherillo, recensione a McKenzie, Dante’s References, cit. «Bollettino della Società dantesca italiana», 1901, pp. 282-286; Ildebrando Della Giovanna, Il canto XXIII dell’Inferno, Firenze: Sansoni 1901 (Lectura Dantis in Orsanmichele), a p. 12; Ettore Bonora, Gli ipocriti di Malebolge e altri saggi di letteratura italiana e francese, Milano-Napoli: Ricciardi, 1953, pp. 3-29, a pp. 8-15; Enzo Mandruzzato, L’apologo «della rana e del topo» e Dante (Inf. XXIII, 4-9), «Studi danteschi», XXXIII, 1955-56, pp. 147-165, a pp. 152-160; Neil M. Larkin, Another Look at Dante’s Frog and Mouse, MLN, LXXVII, 1962, pp. 94-99; Giorgio Padoan, Il «Liber Esopi» e due episodi del-l’«Inferno», «Studi danteschi», XLI, 1964, pp. 75-102; poi in Id., Il pio Enea, l’empio Ulisse, Ravenna: Longo, 1977, pp. 151-169, alle pp. 161-169; Neil M. Larkin, Inferno XXIII 4-6 again, MLN, LXXXI, 1966, pp. 85-88; Vittorio Russo, Il canto XXIII dell’«Inferno», in Casa di Dante in Roma, Nuove letture dantesche, Firenze: Le Monnier 1968, pp. 225-256, alle pp. 241-243 (poi in Id., Esperienze e/di letture dantesche, Napoli: Liguori, 1971 pp. 9-50); Sam Guyler, Virgil the Hypocrite - Almost: a Re-Interpretation of Inferno XXIII, «Dante Studies», XC, 1972, pp. 25-42, alle pp. 26-33 e 36; Pompeo Giannantonio, Il canto XXIII dell’Inferno, «Critica letteraria», VII, 1979, pp. 211-234, alle pp. 212-214; Robert Hollander, Virgil and Dante as Mind-Readers (Inferno XXI and XXIII), «Medioevo romanzo», IX, 1984, pp. 85-100, alle pp. 90-95 e n. 15; Regina Psaki, Inferno XXIII, in Lectura Dantis. A forum for Dante research and interpretation, n° 6: Supplement, Spring 1990, Special Issue: Lectura Dantis Virginiana, I. Dante’s Inferno: Inroductory Readings, pp. 297-306, alle pp. 298-299; John A. Scott, Canto XXIII, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, Firenze: Cesati 2000-2002, pp. 321-334, a pp. 322-3; Francesco Tateo, Quella tale ipocrisia. Lettura di Inf. XXIII, «L’Alighieri», XXIX, 2007, pp. 77-91, alle pp. 80-81; Nicolò Mineo, Lettura di «Inferno» XXIII, in L’opera di Dante fra Antichità, Medioevo ed Epoca moderna, a cura di Sergio Cristaldi e Carmelo Tramontana, Catania, CUECM 2009, pp. 11-69, a p. 25.

68 Lectura Dantis Bononiensis

guadagnare: il topo fu ingannato, e pensando di dovere esser più sicuro si lasciò legare; per lo quale legare e la ’ngannatrice e lo ’ngannato furono fatti preda e cibo d’uccello rapace sopravegnente a caso; sì che nè l’una per lo ’nganno ottenne quello, che desidera-va, nè l’altro per essere ingannato patì la morte apparecchiatagli dalla ’ngannatrice, ma amendue a caso s’avennero a morte non pensata. Ora nella presente rissa il Navarrese non è punto simile al topo, anzi è del tutto dissimile; il quale ingannò i demoni per avere minor pena ed ottenne per inganno quello, che desiderava. Ma Alichino, essendo stato ingannato e perciò impedito di fare tutto quello straccio, che gli fosse piaciuto, del barattiere, fu assalito da Calcabrina, volendolo gastigare; sì come colui, che meritasse gastigo, essendosi lasciato scioccamente ingannare; per lo quale assalto ne seguitò un male commune all’assalente ed all’assalito, che caddero amenduni, abbracciati insieme, nella bollente pece, della quale sono tratti fuori da altri dimoni per liberargli da pena e non per fargli penar più o per guadagno niuno. Ora mostri Dante in che consista questa sua parità del MO e d’ISSA in quella favola ed in questa rissa, se può.

E gli interpreti successivi non sono usciti da questa impasse.32 L’interpretazione che ancor oggi va per la maggiore, da Sapegno in poi, è che Calcabrina finge di voler aiutare Alichino, come la rana finge di voler aiutare il topo, ma in realtà vuole il suo danno, e che la pece bollente fa la parte del nibbio della favola. Infine, la morale comune alla zuffa e alla favola sarebbe che il frodatore cade nel laccio che lui stesso ha preparato. Ma non è vero che Calcabrina finge di voler aiutare Alichino, non c’è nessuna frode, e assimilare uno stagno bollente a un uccello predatore non ha senso.

A me pare che la cosa primaria da capire qui non sia chi è il topo, chi è la rana e chi è il nibbio, ma a cosa serve, nella logica del testo, questo riferimento alla favola di Esopo. E con ciò non intendo l’atmosfera, o lo stile, o altri connotati vaghi, del testo: intendo il meccanismo narrativo. Dopo la prima terzina, infatti, che è di pura sospensione narrativa, in attesa che qualcosa accada, la narrazione si mette in moto, e molto bruscamente anche, a partire dal pensiero di Dante, introdotto da «Io pensava così: … » ed espresso ai vv. 13-18. Queste due terzine dicono che Dante personaggio, che pensa fra sé e sé mentre cammina silenzioso dietro Virgilio, concepisce la paura che i diavoli, irati per la beffa subita, li attacchino. E proprio questo è ciò che accade, non appena questo pensiero è stato formulato.

La domanda è: a cosa serve – ripeto, nella logica narrativa del testo – questa anti-cipazione nel pensiero di ciò che sta per accadere? Anzi, questa doppia anticipazione nel pensiero: nel pensiero di Dante, prima, e poi nel pensiero di Virgilio, il quale ha letto nella mente il pensiero di Dante e di conseguenza mette in opera la contro-mossa – prendere in braccio Dante e buttarsi giù con lui per il pendio della bolgia – giusto in tempo, nel momento stesso in cui i diavoli si materializzano alle loro spalle.

La domanda sulla favola d’Esopo (in cosa consiste la somiglianza con la rissa dei diavoli) sta dentro quest’altra domanda, cioè: a cosa serve, al fine di produrre il

32 Anche gli ultimi interventi citati alla nota precedente, e i commenti di Inglese (2007) e di Bellomo (2013), ad locum, dicono che la similitudine non è evidente.

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pensiero di Dante che risulta essere (chissà perché) un’anticipazione necessaria dell’a-zione che deve accadere, il riferimento alla favola di Esopo? Dante, infatti, questo lo dice chiaramente: che il pensiero della favola di Esopo, una volta concepito, genera dentro di lui un secondo pensiero, cioè la paura che i diavoli li attacchino. Dunque c’è tutta una trafila di pensieri che anticipa – continuo a usare questo verbo neutro, puramente descrittivo – l’azione che deve accadere: prima i pensieri che si formano nella mente di Dante, e poi i pensieri di Virgilio, che legge nella mente di Dante i pensieri di questi e di conseguenza matura il «consiglio» (v. 30) sul da farsi (vv. 31-33), appena in tempo per metterlo in atto (vv. 34-36).

Tutto questo meccanismo narrativo è molto strano. Che i diavoli potrebbero at-taccarli è nelle cose: tanto Dante quanto Virgilio avrebbero potuto concepire questo rischio sulla semplice base del senso comune33. Che bisogno aveva Dante narrato-re di far precedere questa azione drammatica da una così articolata concatenazione di eventi mentali, che avvengono nella mente di Dante e si travasano in quella di Virgilio? Che cosa ci vuol dire Dante con queste dieci (dieci!) terzine (vv. 4-33), uno spazio testuale enorme?

I commenti non si pongono neanche questa domanda. Al massimo qualche in-terprete, come Sanguineti, osserva che c’è «primamente un dramma mentale, un giuoco di rapporti sottili tutti disciolti nel teatro dell’intelletto», che poi «sarà riflesso nei dati reali, oggettivi, proiettato in figure concrete», ma si ferma a questa constata-zione, anzi la espande in giri di parole («Che è poesia di proporzioni mentali – «con la mente fissa» – in cui la incorporea realtà dei dati elementari si cala nella ferma certezza delle operazioni conoscitive» ecc.)34 che in inglese si chiamerebbero verbiage.

Comunque, la prima cosa è capire che la domanda su cosa significhi esattamente il riferimento alla favola di Esopo (vv. 4-9) è interna alla più ampia domanda su cosa significhi l’intero teatro mentale qui dispiegato (vv. 4-18 e 28-33).

La seconda cosa è focalizzare che i pensieri di Dante sono due, esattamente due. Il primo, espresso ai vv. 4-9, è che esiste un’affinità fra la «presente rissa» e la «favola d’Isopo»:

Vòlt’era in su la favola d’Isopolo mio pensier per la presente rissa, dov’el parlò de la rana e del topo;

33 Proprio da questa constatazione parte Mark Musa, Virgil Reads the Pilgrim’s Mind, «Dante Studies», XCV, 1977, pp. 149-152, alle pp. 150-151, ma per dedurne che la “vanteria” (sic) di Virgilio di leggere nel pensiero di Dante dovrebbe far sorridere il lettore (sic): «In Canto XXIII, before descen-ding into the bolgia of the Hypocrites, the Pilgrim confesses his fear that the devils will be upon them at any moment. Virgil answers by boasting of his ability to read the Pilgrim’s thoughts (the simile of the mirror), and admits that he, too, had had the same idea. But since he had, how easy it was for Virgil to imagine that the Pilgrim might think of the same possibility he had imagined! This is surely a case where simple common sense could enable either one of the two people in danger to imagine his companion’s thoughts. Virgil’s elaborate praise of his own clairvoyance must make the reader smile». Cfr. n. 35.

34 Edoardo Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze: Olschki 1961, pp. 151-171, alle pp. 153-154.

70 Lectura Dantis Bononiensis

ché più non si pareggia “mo” e “issa”che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppiaprincipio e fine con la mente fissa.

(Inf. XXIII, 4-9)

Da questo primo pensiero ne sgorga un secondo, che si tramuta subito in paura, o meglio che raddoppia, intensifica, «la prima paura», cioè la paura che Dante aveva già provato in precedenza:

E come l’un pensier de l’altro scoppia,così nacque di quello un altro poi,che la prima paura mi fé doppia.

(Inf. XXIII, 10-12)

Qual è questa «prima paura»? È quella che Dante aveva già manifestato a Virgilio, quando Malacoda aveva assegnato loro come scorta la poco raccomandabile decina di diavoli, con queste parole:

«Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?»,diss’io, «deh, sanza scorta andianci soli,se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

Se tu sè sì accorto come suoli,non vedi tu ch’e’ digrignan li denti,e con le ciglia ne minaccian duoli?».

(Inf. XXI, 127-132)

Questo secondo pensiero, espresso ai vv. 13-18, è che i diavoli possono attaccarli:

Io pensava così: “Questi per noisono scherniti con danno e con beffasì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

Se l’ira sovra ‘l mal voler s’aggueffa,ei ne verranno dietro più crudeliche ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa”.

(Inf. XXIII, 13-18)

Due terzine per dire il primo pensiero, una per dire che da questo primo ne nasce un secondo, due terzine per dire questo secondo pensiero.

Ciò premesso, cosa significano le seguenti parole di Virgilio?

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,con simile atto e con simile faccia,sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

(Inf. XXIII, 28-30)

71Mirko Tavoni

Tutti i commenti, da Graziolo dei Bambaglioli a oggi, interpretano che i pensieri di Dante sono entrati nella mente di Virgilio (grazie alla sua nota capacità di leggere nella mente di Dante, qui richiamata nella terzina precedente: «S’i’ fossi di piombato vetro…») e si sono mescolati ai suoi propri, e gli uni e gli altri, quelli di Dante e i suoi propri, erano dello stesso tenore, erano simili, quindi Virgilio ha tratto dagli uni e dagli altri, cioè dai pensieri di Dante e dai suoi propri, la sua decisione di scappare a rotta di collo. In parole povere, anche Virgilio aveva pensato che i diavoli potevano attaccarli, ora per di più vede che anche Dante ha pensato la stessa cosa, e quindi se sono in due a pensarlo a maggior ragione sarà il caso di scappare.

Questa interpretazione ha tre difetti. Il primo è che rende la lettura della mente di Dante inutile e banale. Se le parole di Dante significassero questo, avrebbe ragione Mark Musa (vedi nn. 33 e 35) ad affermare che la «clairvoyance» di Virgilio fa un po’ ridere: affermazione, secondo me, molto ingenua.

Il secondo difetto è che il testo dice «Pur mo venieno i tuo’ pensier – plurale – tra ’ miei», ma poi l’unico pensiero di cui Virgilio tiene conto è la paura che i diavoli li attacchino, e questo, come abbiamo visto sopra, è il secondo pensiero di Dante. Che fine ha fatto il primo pensiero, quello che verteva sulla favola d’Esopo?

Il terzo difetto è grammaticale. Il pronome e aggettivo indefinito intrambi non può significare ‘gli uni e gli altri’. Può significare solo ‘l’uno e l’altro’. Le due entità a cui si riferisce intrambi devono essere singolari, non possono essere plurali. Quindi qui intrambi non può significare “i tuoi pensieri e i miei”.

Per dimostrarlo passiamo in rassegna, nel data base DanteSearch (http://www.perunaenciclopediadantescadigitale.eu:8080/dantesearch/), tutte le occorrenze nelle opere volgari di Dante dei lemmi entrambi (forme intrambi, -e, -o: 3 occorrenze), am-bedue (forme ambedue, -i, ambindue, amendue: 28 occorrenze), ambo (forme ambo, -e: 24 occorrenze): su 55 occorrenze, neanche una che rimandi a entità plurali.

Per sicurezza, verifichiamo come stanno le cose su tutti i testi dell’italiano antico. Il corpus del TLIO (http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/) presenta per amb? (-e, -i, -o, -u) 180 oc-correnze; per intramb* (-b, -be, -bi, -bo, -bu, -bedó, -bedue, -bedui, -beduy, -bidù, -bidui) 120 occorrenze; per ambed* (-doe, -doi, -du’, -due, -dui, -duni, -duo, -duoi, -duy) 270 occorrenze; per ambid* (-due, -dui, -duy) 66 occorrenze; per ambindue 9 occorrenze; per amendu* (-dua, -due, -dui, -dune, -duni) 786 occorrenze. In tutto, sono più di 1400 occorrenze, fra le quali non ne ho trovata neanche una che rimandi a entità plurali.

Quindi la terzina di Virgilio vuol dire un’altra cosa. Secondo me, vuol dire: i tuoi due pensieri, il primo sulla rana e il topo e il secondo che ti è “scoppiato” dal primo, cioè il terrore che i diavoli ci attacchino, sono trasmigrati nella mia mente, e io ho visto che avevano un aspetto simile («con simile faccia») e rappresentavano un’azione simile («con simile atto»); quindi i tuoi due pensieri, insieme, mi hanno indotto alla stessa risoluzione, quella di fuggire immediatamente.

Questo, anzitutto, pone una fondamentale e quanto mai opportuna distinzione dei ruoli fra il pensiero di Dante e il pensiero di Virgilio. Una distinzione che dà an-che senso alla singolare facoltà di cui Dante autore ha voluto dotare la sua guida. Ci

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sarà una ragione per cui lo ha fatto – una ragione che, per inciso, non trovo spiegata nella bibliografia a me nota35. Ma intanto, nel presente episodio, questa chiamiamola telepatia almeno non è così inutile e banale come nell’interpretazione corrente della terzina, dove tutta la solenne similitudine col «piombato vetro» va a parare nel fatto che Virgilio legge nella mente di Dante una cosa che aveva già pensato anche lui. Così, invece, si chiarisce bene che la fonte – anche se non sappiamo ancora bene di che cosa – è il pensiero di Dante, solo il pensiero di Dante, e che di essa Virgilio si fa interprete. Ci torneremo sopra.

Ma a questo punto si impongono tre domande: 1. dopo avere così contestualizzato l’affinità fra la «presente rissa» e la favola della

rana e del topo, affinità che costituisce il primo pensiero di Dante, siamo in migliori condizioni per dire in che cosa tale affinità consista?

2. in che senso il secondo pensiero di Dante, cioè l’improvviso terrore di essere attaccati dai diavoli, «scoppia» dal primo, cioè dalla favola della rana e del topo quale è balenata nella sua mente?

3. in che senso Virgilio trae la sua decisione di darsi immediatamente alla fuga da intrambi i pensieri di Dante, cioè non solo da quello ovvio a questo riguardo, il secondo, ma anche dal primo? Cosa c’è nella favola della rana e del topo che induce Virgilio alla decisione di fuggire a rotta di collo?

Le risposte, fra loro strettamente collegate, a queste tre domande, secondo me sono le seguenti.

Prima domanda. L’affinità consiste nel fatto che Alichino e Calcabrina si artigliano a vicenda («Irato Calcabrina… / … volse gli artigli al suo compagno, / e fu con lui sopra ’l fosso ghermito. / Ma l’altro fu bene sparvier grifagno / ad artigliar ben lui… », XXII 133-140), come la rana e il topo si legano insieme: questo è il «principio» del-la «presente rissa». La «fine» della rissa è che i due diavoli, lottando l’uno con l’altro senza che nessuno dei due riesca a prevalere, finiscono, artigliati insieme, nella pece (il «bogliente stagno» di Dante è più vicino al «lacus» dell’Esopo latino che al «flu-men» del Romulus) e non riescono più a venirne fuori («… e amendue / cadder nel mezzo del bogliente stagno. / … / ma però di levarsi era neente, / sì avieno inviscate l’ali sue», XXII 140-144), come la rana e il topo legati insieme, lottando e tirando in direzioni opposte, la rana verso il fondo, il topo verso la superficie, senza che nessuno dei due riesca a prevalere, restano intrappolati nell’acqua. Tutto qua. È un’affinità

35 Un modo semplice per risolvere il problema, naturalmente, è di negare che esista, come fa Musa, Virgil Reads the Pilgrim’s Mind, cit. Egli sostiene che Virgilio, in tutti i casi in cui “legge nella mente di Dante”, «is demonstrating no more than simple, normal intelligence» (p. 151), e che dove lui stesso dichiara inequivocabilmente il contrario, cioè che sta proprio leggendo i pensieri nella mente di Dante, che li sta rispecchiando nella propria, come fa nel nostro canto XXIII, «Virgil’s elaborate praise of his own clairvoyance must make the reader smile» (sic, pp. 150-151). Se così non fosse, infatti, «this would represent a case of superhuman acuity» (p. 150). In effetti, si tratta solo di un vivo e di un morto vissuto tredici secoli prima che scendono insieme in fondo all’Inferno, cosa c’è di sovrumano? Cfr. n. 33. Un tentativo impavido di spiegare Dante col «simple common sense».

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puramente visiva, plastica, tra il principio e la fine della rissa e questi due fotogrammi della favola; ed è vero che, visivamente, questi due più due fotogrammi, se “ben ac-coppiati”, sono tanto simili quanto lo sono le parole mo e issa. Non c’è più di questo.

Lo aveva visto bene, subito, Graziolo dei Bambaglioli: «… mus autem timens intrare aquam, rana vero volens intrare aquam terramque relinquere, se ipsos ex op-posito utrinque trahebant et unus alium vincere conabatur. Sic dicit auctor quod illi duo demones, de quibus tractatur in fine capituli precedentis, se ipsos ad invicem impugnabant». E sulla sua scia l’Ottimo: «il topo neente meno temendo d’entrare nell’acqua tirava verso la terra, e la rana volendovi entrare si partia dalla terra, e tirava il topo verso l’acqua; così l’uno tirava l’altro. Così dice l’Autore, che faceano quelli due demoni».

Mentre Iacopo della Lana, subito dopo Graziolo, dà inizio alle interpretazioni moralizzate, che guardano alle intenzioni degli attanti: «Or dice l’autore esemplifi-cando che, sicome la intenzione e poi l’affetto della rana e del topo era tutta a dan-neggiare l’uno l’altro, tutto simile era l’affezione de’ predetti due demonii quando volò l’uno dietro all’altro per la partita del Navarese». Con un bel passo avanti, nella stessa direzione, di Pietro Alighieri: «… si quis bene cum mente fixa, idest subtili, respiciat principium, idest licteralem sensum, et finem, idest moralem et allegoricum sensum, in dictis utriusque premissis sensibus». Allontanandosi sempre più lungo questa strada, dal Trecento a oggi, le spiegazioni si appesantiscono sempre di più e vanno di male in peggio, perché in realtà non c’è nessuna moralità comune tra la rissa e la favola, e non c’è nessuna corrispondenza completa, in tutti i dettagli (Dante non dice che ci sia), tra la rissa e la favola.

È essenziale cogliere il carattere visivo di ciò che avviene nel teatro della mente di Dante. Il pensare di Dante è un pensare per immagini. Dante dice pensiero, ma potrebbe dire immaginazione, quando dice pensiero nel senso di “attività del pensare” («Vòlt’era in su la favola d’Isopo  / lo mio pensier… »); e potrebbe dire immagine, quando dice pensiero nel senso di “cosa pensata” («E come l’un pensier de l’altro scop-pia, / così nacque di quello un altro poi… »). Lo rivelano, in modo addirittura insisti-to, le parole sia di Dante, «… io li ’magino sì, che già li sento» (v. 24), sia di Virgilio: «l’imagine di fuor tua non trarrei / più tosto a me, che quella dentro ’mpetro. / Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei…» (vv. 26-28), dove l’imagine di dentro è la stes-sa cosa dei «tuo’ pensier», e poi «noi fuggirem l’imaginata caccia» (v. 33).

Seconda domanda. Ciò che fa «scoppiare» dal primo pensiero il secondo è l’immagi-ne del nibbio che in picchiata si abbatte sulla rana e sul topo e li ghermisce. Una volta che il pensiero di Dante, per associazione di idee, per l’affinità visiva sopra descritta, si è spostato dalla rissa alla favola, nella sua mente balena l’immagine finale della favola, l’immagine del nibbio che si abbatte sulla rana e sul topo, e questa immagine si trasforma immediatamente nell’immagine dei diavoli che possono sopraggiungere in volo alle loro spalle, di lui e di Virgilio, e ghermirli. Da qui il panico. Che i diavoli siano come uccelli rapaci è detto a iosa nel canto precedente (XXII, 96, 114-115,

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130-141). Poi Dante, nelle due terzine successive (vv. 13-18), razionalizza questo pensiero, cioè questa immagine, che gli è balenata nella mente raddoppiandogli la prima paura (v. 12), e analizza i motivi, a quel punto perfettamente ragionevoli, per cui i diavoli saranno probabilmente furiosi con loro e avranno voglia di accanirsi su di loro, ma all’origine c’è la pura immagine, prodotta dalla sua immaginazione, che gli «scoppia» nella mente e gli provoca immediatamente il panico.

Terza domanda. Virgilio, non appena legge i pensieri nella mente di Dante (il che accade nel momento stesso in cui Dante li pensa), decide all’istante che devono fuggire. Perché? Naturalmente c’è una risposta sensata, ma appunto banale, a que-sta domanda: lo decide perché condivide le ragioni di timore pensate da Dante ed espresse ai vv. 13-18. Ma, come abbiamo già visto, se a pensare le stesse cose poteva arrivarci anche lui stesso, che importanza ha che Dante pensi o non pensi queste cose?36 Dovrebbe essere ininfluente. E invece sembra proprio che non lo sia, anzi al contrario la reazione di Virgilio fa pensare che sia assolutamente decisivo il fatto che questi pensieri si siano formati nella mente di Dante. Cioè il fatto che Dante abbia concepito l’immagine dei diavoli che sopraggiungono. Forse che le ultime, dramma-tiche parole di Dante – «Noi li avem già dietro; / io li ’magino sì, che già li sento» (vv. 23-24) – significano una cosa molto più forte di come siamo abituati a interpretare?

Ebbene, io penso proprio questo: che Dante voglia dire che i diavoli sono già alle loro spalle perché lui li immagina alle loro spalle. Che è poi il significato lette-rale, l’unico significato letterale possibile, di questa consecutiva. Per questo chiede aiuto urgente («tostamente»!, v. 22) a Virgilio: perché, dall’intensità con cui li sta immaginando, Dante sa che sono già alle loro spalle: “già li sente”, cioè avverte che la sensazione interiore è così forte che sta per trasformarsi in sensazione esteriore: i diavoli stanno per materializzarsi.

Ciò che Dante personaggio immagina diventa realtà, in tempo reale, o immedia-tamente dopo che lo ha immaginato? È l’immaginazione di Dante personaggio che produce l’azione? Il testo vuole veramente dirci questo? Sembra un assunto decisa-mente forte, e lo è, ma se non è così non sappiamo che senso dare a tutta la prima parte del canto. Da Jacopo della Lana e Benvenuto in poi è venuto in uso di citare, a commento di questa terzina, la massima riferita ad Avicenna «imaginatio facit ca-sum», ma cosa intendono dire i commentatori che la citano? Intendono dire che que-sta massima descrive il meccanismo narrativo qui in atto? Non sembra che intendano spingersi a tanto, ma allora la massima, riferita a questa terzina, cosa vorrebbe dire?

Non è questo l’unico passo nel poema in cui sembra che sia in vigore questo parti-colarissimo meccanismo narrativo, mentre ovviamente nella generalità del testo esso non è in vigore – oppure non ci accorgiamo che sia in vigore, perché nessuna aporia rispetto al meccanismo narrativo normale ci costringe a vederlo.

Un altro passo in cui, secondo me, viene alla luce che ciò che sta per accadere sta per accadere perché Dante personaggio, in tempo reale, lo sta pensando, è l’attesa,

36 Proprio questa interpretazione banalizzante viene sostenuta da Mark Musa, cfr. nn. 33 e 35.

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sul bordo della cascata del Flegetonte, che qualcosa di prodigioso venga su dall’alto burrato in conseguenza dell’enigmatico lancio della corda. Non posso dilungarmi su questo episodio, che ho analizzato altrove.37 La battuta-chiave di Virgilio è, in quel caso: «Tosto verrà di sovra / ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna: / tosto con-vien ch’al tuo viso si scovra» (Inf. XVI, 121-123). Non ripeto qui le ragioni per cui a mio giudizio «ciò […] che il tuo pensier sogna» non può significare banalmente “la cosa che vagamente ti immagini, ti aspetti”. Dunque in quel caso l’attività psichica di Dante, che sta per produrre l’emergere di Gerione, è un pensare in sogno. E anche in quel caso Virgilio legge nel pensiero di Dante; anche in quel caso l’attività mentale di Dante personaggio è la sorgente, il motore dell’azione drammatica; e anche in quel caso Virgilio ha una funzione essenziale, che dà senso alla sua facoltà diciamo telepatica: la funzione di facilitare, o incanalare positivamente, l’azione drammatica che sgorga dalla mente di Dante, o impedire che essa diventi distruttiva.

È chiaro che episodi come questi orientano a interpretare il viaggio nell’aldilà come interno a una visio in somniis. Una interpretazione che ha molte difficoltà, a cominciare dalla strutturazione perfettamente razionale e realistica del viaggio oltre-mondano e dalla sua stessa durata e articolatissima capienza di contenuto, assoluta-mente abnormi rispetto alla dimensione comunemente associata e associabile a una visione in sogno; oppure compatibili con una visione in sogno prolungatissima sì, ma puramente fittizia, e senza nessuna implicazione teologica, come è per esempio il Roman de la Rose. E anche altre difficoltà, come il fatto – che peraltro può essere visto come una straordinaria condensazione poetica – che la visione in sogno di Dante au-tore qui precipiterebbe come visione in atto di Dante personaggio all’interno dell’a-zione sognata, una mise en abyme folgorante.

Ma è un dato obiettivo che Dante autore, alla fine del Paradiso, ha chiuso col verso «ma perché ’l tempo fugge che t’assonna…» (Par. XXXII, 139) l’amplissimo arco che aveva aperto con «tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via ab-bandonai» (Inf. I, 11-12), con ciò sigillando l’intero poema come poema che riferisce una visione in sogno. Si aggiunga che è teologicamente molto ostico assumere che le continue e serissime e giurate dichiarazioni di avere davvero visto l’aldilà siano dette per finta, e si dovrà constatare che anche l’interpretazione che ci sembra normale, cioè l’interpretazione del viaggio nell’aldilà come pura e semplice fictio, non incontra minori difficoltà; anzi secondo me ne incontra di insormontabili.

Rimandando ad altra sede una trattazione d’insieme di questo tema vasto e vera-mente multidimensionale, chiudo questa lettura segnalando due sole concordanze, ma molto stringenti e secondo me molto illuminanti, fra due espressioni che occor-rono nel nostro canto e due espressioni che occorrono rispettivamente nel XVII e nel IX canto del Purgatorio, in due contesti espressamente onirico-visionari.

La prima è la nostra terzina:

37 Mirko Tavoni, Dante “imagining” his journey through the afterlife, in Dante and the Christian Imagination, Proceedings of the International Conference, St Michael’s College at the University of Toronto, March 11, 2012, Toronto: University of Toronto Press, in stampa.

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E come l’un pensier de l’altro scoppia,così nacque di quello un altro poi,che la prima paura mi fé doppia.

(Inf. XXIII, 10-12)

Da confrontare con:

E come questa imagine rompeosé per sé stessa, a guisa d’una bullacui manca l’acqua sotto qual si feo,

surse in mia visïone una fanciullapiangendo forte, e dicea: «O regina,perché per ira hai voluto esser nulla?

(Purg. XVII, 31-36)

Come si vede, pensiero equivale a immagine, e il processo mentale per cui un pensiero-immagine sgorga dall’altro è rappresentato metaforicamente in modi estremamente simili, con due verbi-chiave sinonimi (scoppiare-rompere) e in due contenitori sintat-tici molto simili (proposizioni comparative inizianti con «E come…»). Nel secondo caso, si tratta delle visioni di ira punita che rampollano l’una dall’altra nella mente di Dante personaggio che cammina in trance lungo la quarta cornice.

La seconda concordanza va dalla nostra «imaginata caccia» (Virgilio che dice «noi fuggirem l’imaginata caccia», v. 33) a «lo ’ncendio imaginato» di Purg. IX, 32:

Ivi parea che ella [l’aquila] e io ardesse;e sì lo ’ncendio imaginato cosse,che convenne che ’l sonno si rompesse.

Qui «lo ’ncendio imaginato» è l’incendio sognato da Dante personaggio nel suo primo sogno purgatoriale, quello dell’aquila d’oro che, calando dal cielo come un fulmine, lo afferra e lo porta in alto fino alla sfera del fuoco.

L’«imaginata caccia» e «lo ’ncendio imaginato» sono sicuramente fatti della stessa stoffa. Sono entrambi prodotti della facoltà di produzione interiore di immagini non stimolate dai sensi, cioè il meccanismo della visione interiore, che Dante descrive così, scientificamente, in occasione appunto delle visioni di ira punita che gli vengo-no proiettate nella mente mentre cammina dormendo lungo la quarta cornice:

O imaginativa che ne rubetalvolta sì di fuor, ch’ om non s’accorgeperché dintorno suonin mille tube,

chi move te, se ’l senso non ti porge?Moveti lume che nel ciel s’informa,per sé o per voler che giù lo scorge.

(Purg. XVII, 13-18)

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È noto che «l’imaginatio diviene la tipica facoltà delle rappresentazioni interiori, vere o fallaci; essa, sotto lo stimolo delle intelligenze celesti o della disposizione dell’orga-nismo corporeo, produce sogni e visioni che, se veraci, si caratterizzano come divina-zioni e profezie»38. Suggerisco di prendere in considerazione senza pregiudizi e senza riluttanza l’ipotesi che questa facoltà mentale, che Dante stesso descrive scientifica-mente, nei termini della scienza del suo tempo, all’interno del poema stesso, stia al cuore del meccanismo narrativo che produce il nostro inclassificabile poema sacro.

La quasi totalità del poema in quanto testo narrativo si lascia interpretare senza nessuna difficoltà secondo i parametri di una narrazione realistica, come narrazione di un viaggio: in modo, usiamo questa metafora, perfettamente euclideo. Ma alcuni passaggi del testo resistono a essere interpretati secondo questi parametri. Alcune cose che accadono, alcuni scambi di battute fra Dante personaggio e Virgilio, per il modo in cui Dante narratore ce li presenta, non si spiegano all’interno di questi para-metri. Questi passi possono restare come difficoltà marginali, inerti, oppure possono stimolarci ad arricchire i nostri parametri di comprensione, a cercare un nuovo e coe-rente insieme di parametri, più potente dell’attuale, all’interno del quale si spieghino anche le cose che altrimenti non si spiegano.

38 Così l’Enciclopedia dantesca, s.v. imaginazione, vol. III, p. 369.