Freud lettore di Wittgenstein Per una mente senza profondità

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Freud lettore di Wittgenstein Per una mente senza profondità FELICE CIMATTI I selvaggi hanno giochi (o perlomeno noi li chiamiamo così) per i quali non possiedono nessuna regola scritta, nessun regolamento. Immaginiamo ora l’attività di un ricercatore, che visiti i territori di queste popolazioni e stabilisca i regolamenti dei loro giochi. È del tutto analogo a ciò che fa il filosofo. WITTGENSTEIN, The Big Typescript, XII, § 90, 17 Il filosofo tratta una questione; come una malattia . WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 255 Accettare il fenomeno psicologico senza spiegarlo: questo è il difficile. WITTGENSTEIN, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, § 509 Si potrebbe immaginare una malattia mentale, in cui un tizio può usare e capire un nome soltanto in presenza del suo portatore. WITTGENSTEIN, Zettel, § 714 I mmaginiamo questa situazione controfattuale: immaginiamo che, sulla fine della sua vicenda umana e scientifica, Freud legga quanto più o meno in quegli stessi anni sta scrivendo, sulla psicoanalisi, il filosofo Ludwig Witt- genstein. Wittgenstein non è uno dei tanti critici della psicoanalisi che, da un punto di vista fisicalistico, accusi il nuovo sapere di Freud di non essere scien- RIVISTA DI PSICOANALISI, 2005, LI, 1 131 Questo testo riprende ed amplia il testo della relazione presentata all’incontro «I luoghi dell’interpretazione: psicoanalisi, filosofia, letteratura», tenuto a Napoli il 6 novembre 2004, in occasione del Cinquantenario della Rivi- sta di Psicoanalisi. Ringrazio i partecipanti per le domande che hanno seguito alla relazione, ed in particolare Fran- cesco Napolitano, Alberto Luchetti, Giovanni De Renzis, Riccardo Lombardi, Sarantis Thanopulos, che con le loro osservazioni hanno contribuito, in modo sostanziale, a migliorare questo testo. Una prima versione del lavoro è stata letta e commentata da Francesca Piazza, Livia Scheller, Paolo Virno e Michela Zago, che ringrazio per i com- menti ed i suggerimenti.

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Freud lettore di Wittgenstein Per una mente senza profondità

FELICE CIMATTI

I selvaggi hanno giochi (o perlomeno noi li chiamiamo così) per i quali non possiedono nessuna regola scritta, nessun regolamento.

Immaginiamo ora l’attività di un ricercatore, che visiti i territori di queste popolazioni e stabilisca i regolamenti dei loro giochi. È del tutto analogo a ciò che fa il filosofo.

WITTGENSTEIN, The Big Typescript, XII, § 90, 17

Il filosofo tratta una questione; come una malattia .WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 255

Accettare il fenomeno psicologico senza spiegarlo: questo è il difficile.WITTGENSTEIN, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, § 509

Si potrebbe immaginare una malattia mentale,in cui un tizio può usare e capire un nome soltanto

in presenza del suo portatore.WITTGENSTEIN, Zettel, § 714

Immaginiamo questa situazione controfattuale: immaginiamo che, sulla finedella sua vicenda umana e scientifica, Freud legga quanto più o meno inquegli stessi anni sta scrivendo, sulla psicoanalisi, il filosofo Ludwig Witt-genstein. Wittgenstein non è uno dei tanti critici della psicoanalisi che, da

un punto di vista fisicalistico, accusi il nuovo sapere di Freud di non essere scien-

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Questo testo riprende ed amplia il testo della relazione presentata all’incontro «I luoghi dell’interpretazione:psicoanalisi, filosofia, letteratura», tenuto a Napoli il 6 novembre 2004, in occasione del Cinquantenario della Rivi-sta di Psicoanalisi. Ringrazio i partecipanti per le domande che hanno seguito alla relazione, ed in particolare Fran-cesco Napolitano, Alberto Luchetti, Giovanni De Renzis, Riccardo Lombardi, Sarantis Thanopulos, che con le loroosservazioni hanno contribuito, in modo sostanziale, a migliorare questo testo. Una prima versione del lavoro èstata letta e commentata da Francesca Piazza, Livia Scheller, Paolo Virno e Michela Zago, che ringrazio per i com-menti ed i suggerimenti.

tificamente adeguato. A Wittgenstein non importa che la psicoanalisi non siaverificabile come una scienza naturale, e non gli importa perché ritiene che lescienze naturali siano pratiche umane come tutte le altre pratiche, e che non rap-presentino il modello a cui le altre debbano riferirsi. Per Wittgenstein nel lin-guaggio, cioè nell’insieme dei «giochi linguistici», non si dà un «gioco linguisti-co» più importante degli altri; non c’è un metalinguaggio che possa prescrivere,come aveva tentato (fallendo) di fare con il Tractatus, le regole del corretto usodella proposizione, regole alle quali la psicoanalisi non potrebbe attenersi. Para-dossalmente la critica di Wittgenstein a Freud è di segno contrario a quella che,periodicamente, si muove alla psicoanalisi: non è che sia poco scientifica, perchéai suoi asserti non corrisponderebbe nessuna entità precisamente identificabile(ad esempio nel cervello umano); al contrario, la psicoanalisi, per Wittgenstein,deve smetterla di civettare con le scienze naturali (e qui per «scienze naturali» siintende: 1. scienze che si occupano di entità materiali e, 2. che usano come nozio-ne fondamentale quella di «causa efficiente»), perché il modello esplicativo diqueste scienze è incompatibile con il suo metodo (la relazione di transfert e con-trotransfert fra analista e paziente ed il dialogo che, su questa base, si stabiliscefra loro), il suo oggetto (l’inconscio), il suo obiettivo (la cura della persona, enon, appunto, del suo cervello). È allora una critica affatto peculiare, la critica dichi si sente molto vicino alla psicoanalisi, ma non alle sue tentazioni scientisti-che: «Dobbiamo sapere che cosa significa spiegazione. È un rischio permanentevoler usare questa parola in logica in un senso desunto dalla fisica» (Wittgen-stein, 2000,1 XII, § 89, 16). Wittgenstein rimprovera a Freud non di essere troppopoco scientifico, ma di volerlo essere troppo, di ritenere che possa esistere unsolo tipo di spiegazione, quello appunto delle scienze naturali (cioè scienze dellamateria), e di subordinare la spiegazione psicoanalitica a quella delle scienzenaturali. In realtà l’azione della psicoanalisi, per Wittgenstein, deve basarsi suuna sua specifica nozione di spiegazione, che sia compatibile, come detto, con ilmetodo, l’oggetto e l’obiettivo di questo sapere.

Wittgenstein diceva di sé di considerarsi «un seguace di Freud» (1966, 123;cfr. Assoun, 1988), perché il compito del filosofo, in questo affine a quello dellopsicoanalista, non è di spiegare i «giochi linguistici», nel senso di ricondurli allaloro presunta base sottostante (qui spiegare vuol dire ridurre), quanto di mostrarel’intreccio di relazioni (intreccio grammaticale) che è implicito in quel gioco.

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1 Le citazioni riportate sono tratte da inediti di Wittgenstein degli anni Trenta, pubblicati postumi e verrannoriportatecon la data della prima pubblicazione.

Finché quell’intreccio è soltanto vissuto, finché chi gioca quel «gioco linguisti-co» non sa di giocarlo, ne subisce tutti i vincoli e le costrizioni; la sua unica possi-bilità di liberarsene consiste nel diventarne cosciente, nel vedere, in quella cheWittgenstein chiama «rappresentazione perspicua» (una immagine chiara, evi-dente, dell’intreccio di regole e pratiche che rende possibile l’esistenza stessa delgioco), il «gioco linguistico» come qualcosa di staccato da sé, di esterno a sé:

«Una domanda filosofica è simile a quella circa lo statuto di una determinataassociazione. – E sarebbe un po’ come se i soci stessero insieme senza regole scrittechiaramente, ma ne sentissero la necessità; eh, sì, anche con l’istinto con cui osser-vano/rispettano/ certe regole nelle loro riunioni. Solo che tutto questo è reso più dif-ficile per il fatto che in proposito non hanno formulato nulla chiaramente e non han-no preso provvedimenti per rendere le regole a chiare note […]. Così, consideranodi fatto uno di loro come presidente, ma costui non siede a capotavola e non si fa rico-noscere in nessun modo, rendendo più difficile il dibattito. Perciò arriviamo noi ecreiamo ordine: mettiamo il presidente in un posto facilmente riconoscibile e accantoa lui facciamo sedere il suo segretario a un tavolino apposito e i restanti membri di parigrado in due file ai lati del tavolo» (2000, XII, § 89, 3).

Il filosofo, come lo psicoanalista, ha a che fare con una situazione intricata(«Un problema filosofico riveste sempre la forma: “semplicemente non mi ci rac-capezzo”», 31), che viene vissuta come disagio, come confusione, come qualco-sa che si subisce (come accade al sintomo nevrotico, qualcosa che accade alpaziente, ma di cui questo non sa dare alcuna ragione; propriamente non è che ilpaziente ha quel sintomo, in realtà è quel sintomo). Nell’esempio di Wittgen-stein, immaginiamo che il paziente sia l’associazione nel suo insieme. Qual è ilsuo problema? Che segue alcune regole, ma non si sa quali siano queste regole, ecosì non si sa chi comanda e chi deve ubbidire, chi debba fare cosa e quando, ecome. Per questo, continuando nell’analogia, «la nostra grammatica mancasoprattutto di perspicuità» (10), nel senso che non riusciamo letteralmente avedere quel che facciamo, lo si fa e basta, ciecamente. Ma ogni agire cieco è unagire affine all’istinto, e quindi non è libero. Obiettivo della filosofia, come dellacura psicoanalitica, è farci uscire da questa situazione: «i problemi filosofici […]si possono paragonare ai lucchetti» (6). Quei lucchetti vanno aperti, bisogna tro-vare le chiavi che li possano aprire; e queste chiavi consistono appunto nella«rappresentazione perspicua» (Freud dapprima si riferisce a questa nozione defi-

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nendola interpretazione, in seguito, dopo aver letto Wittgenstein – è la nostra ipo-tesi controfattuale – la chiamerà costruzione; nel paragrafo 4 proveremo a capireperché): «la rappresentazione perspicua rende possibile […] la comprensione,che consiste appunto nel fatto che “vediamo connessioni” […]. È analizzata logi-camente in modo completo la proposizione la cui grammatica è messa in chiarocompletamente» (8, 9). Compito del filosofo non è imporre un modo di giocareanziché un altro, e nemmeno dare una ragione del perché si gioca proprio in quelmodo; il suo compito è nel rendere possibile che ci si accorga che si sta giocandoseguendo quelle (e non altre) regole. Solo a questo punto, eventualmente, diven-terà possibile cambiarle, se si vuole, e giocare in base a regole diverse: «Gliaspetti filosoficamente più importanti delle cose/del linguaggio/ sono occultatidalla loro semplicità e quotidianità (Non ce ne possiamo accorgere, perché liabbiamo sempre (palesi) sotto agli occhi […]. All’uomo i veri fondamenti dellasua ricerca non balzano affatto agli occhi […]. E questo vuol dire che ciò che piùsalta agli occhi (il più vistoso) non gli salta agli occhi» (20, 21).

Tutta questa operazione di chiarificazione, in senso letterale, ossia grammati-cale/linguistico, non ha a che fare con nulla che sia profondo, nascosto, invisibile:è già tutto lì, come le regole implicite ed inconsapevoli della associazione dell’e-sempio riportato più sopra, soltanto che non sappiamo quali regole siano, addirit-tura spesso nemmeno immaginiamo che regole di un qualche tipo ci siano. Sonolì, ma non le vediamo: «Si potrebbe anche chiamare filosofia tutto ciò che è pos-sibile prima di ogni nuova scoperta o invenzione» (23): le regole erano già lì, maimplicite, affatto intrecciate con la loro applicazione, e proprio per questo invisi-bili, perché paradossalmente troppo quotidiane, troppo ovvie, troppo naturali.Non si tratta, qui, di svelare alcun segreto, di scavare in alcun nascosto recesso, diportare alla luce, ma semplicemente di mostrare, a chi lo faceva inconsapevol-mente, quel che già faceva: «Ricordati di come riesca difficile ai bambini credere(o ammettere) che una parola abbia/possa avere/ davvero due significati comple-tamente diversi» (§ 90, 11). Si può amare qualcuno, ma anche – e nello stessotempo – detestarlo; questa era la doppia regola che guidava le nostre azioni, masiccome siamo come i «bambini» non lo ammettiamo, non vogliamo ammetter-lo: la guarigione dal malanno filosofico, ma anche da quello esistenziale, devepassare per l’ammissione di questa irriducibile dualità. In questo senso «il lavorodel filosofo consiste nel riunire ricordi per uno scopo determinato» (§ 89, 2), per-ché in quei ricordi era incistata la malattia, e si tratta di tirarla fuori da quell’in-treccio opaco, e facendo così la malattia diventa evidente, la si vede, e può quindi

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essere affrontata: «L’apprendimento della filosofia è realmente una reminescen-za. Ci ricordiamo di avere usato le parole realmente in questo modo» (19). Sco-priamo, ora, la regola delle nostre azioni, ma la scopriamo non perché prima fos-se nascosta, al contrario, perché prima era troppo in primo piano: «La filosofianon può in nessun modo intaccare l’uso reale/effettivo/ del linguaggio/ […]; indefinitiva può soltanto descriverlo. Dunque non può nemmeno fondarlo. Lasciatutto com’è» (11, 12, 13). Perché lascia tutto com’è? Perché il suo compito non èprescrittivo (come il Wittgenstein del Tractatus ancora credeva), perché il giocolo giochiamo comunque, perché il problema non è non giocare il gioco linguisti-co (se ne giocherà comunque un altro), ma giocarlo sapendo di giocarlo, sapendoin base a quali regole già lo stiamo giocando. Il «gioco linguistico» non ha, allora,bisogno di un fondamento (di una spiegazione profonda), perché sta già in piedida solo; ha bisogno di chiarezza, di esplicitazione. Per questo, infine, «poiché tut-to è manifesto, qui non c’è nulla da spiegare» (15). Ma tutto questo significa forse,in definitiva, che all’alternativa scientista, quella per la quale la psicoanalisi non èuna scienza perché le sue nozioni teoriche non hanno alcuna base reale (sonosegni privi di riferimento, e quindi senza significato), si deve opporre una alterna-tiva ermeneutica (secondo la quale i segni non sono che rimandi ad altri segni)? Lapsicoanalisi è un sapere tutto e soltanto linguistico, retorico, la sua verità è soltantonarrativa (Spence, 1982)? Prima di rispondere a questa domanda si tratta di giusti-ficare perché, anche nella nostra ipotesi controfattuale, Freud avesse bisogno dileggere Wittgenstein. Il problema ora diventa: il modello esplicativo di Freud, omeglio, i suoi modelli (le sue metapsicologie), sono all’altezza delle sue scoperte?Il nostro problema, in particolare, è il seguente: la cura psicoanalitica, la curamediante la parola e la relazione, è effettivamente spiegata dalle diverse metapsi-cologie psicoanalitiche?

FREUD NEUROLOGO: IL (META)MODELLO SPAZIO-TEMPORALE DELLA MENTE

Insistiamo su un punto, un punto essenziale per comprendere la prospettivadi Wittgenstein, il Wittgenstein, ricordiamolo, «discepolo di Freud» (1966, 123):«uno dei più grossi ostacoli per la filosofia è l’attesa di nuove profonde /inaudite/spiegazioni» (2000, XII, § 89, 22). Perché la filosofia/analisi non ha bisogno diqueste spiegazioni? Il punto è nell’obiettivo che queste analisi si propongono,che è quello di fare stare meglio le persone, che stanno meglio perché sono ora

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convinte che quello che prima appariva confuso e contraddittorio rimanda ad ungioco di regole che non si individuava, che non veniva nemmeno percepito comepresente. Si tratta, qui, di mostrare con chiarezza le regole del gioco, di convince-re che la «rappresentazione perspicua» riesce a cogliere l’intreccio delle regole,quella molteplicità di usi di una parola che tanto disturba i «bambini»: «La parti-colare tranquillità che subentra quando ad un caso, che ritenevamo unico nel suogenere, possiamo affiancarne altri simili, subentra nelle nostre ricerche tutte levolte che facciamo vedere che una parola non ha un unico significato (o non ne hasoltanto due) ma è usata in cinque o sei significati differenti» (5). La cura è curase convince, se aumenta la possibilità di giocare (il buon giocatore è quello checonosce le regole del gioco, e le sa usare a suo vantaggio), se rende liberi. Ora, alcontrario, se la spiegazione vuole a tutti i costi essere profonda, se cioè vuoleallontanarsi dal gioco, se mira a qualcosa che con il gioco non ha a che fare (adesempio con le sue cause fisiologiche), allora non convince, e quindi non servecome cura. Se mostro a qualcuno che è triste la zona del cervello che, secondo lepiù aggiornate ricerche neurologiche, non gli funziona (perché, poniamo, è insuf-ficiente la concentrazione di un certo neurotrasmettitore), non l’ho aiutato aduscire dalla tristezza, non l’ho aiutato ad affrontare quella tristezza. Se poi conuna molecola straordinaria gli tagliamo via dal cervello la tristezza, chi abbiamoaiutato, la persona che soffriva, o un cervello? È una differenza importante, que-sta, fra la persona che soffre, e il cervello che manca di una certa molecola. Lapersona chiede senso, il cervello chimica, rinunciare a questa distinzione signifi-ca rinunciare alla possibilità stessa della psicoanalisi. La tristezza non è qualcosache sia lì, o là in una qualche area del cervello, riguarda la mia persona, tutta lamia vita. Poniamo, come caso limite, che una certa persona sia triste senza moti-vo, e poniamo che il suo analista scopra in qualche modo che quella stessa perso-na abbia subito una violenza quando era un bambino: questa scoperta cambierà ilsuo umore? Freud per primo ci risponde in modo negativo:

«Quando è il momento di svelare [all’analizzato] il significato recondito dellesue idee improvvise? […] Non prima che si sia instaurata nel paziente una efficacetraslazione, un vero e proprio rapporto con il medico. […] Questa risposta implicanaturalmente la condanna di un procedimento che intendesse comunicare alpaziente la traduzione dei suoi simboli, appena sia stata individuata […]. All’epocadegli esordi della tecnica analitica attribuivamo in verità grande valore, grazie adun atteggiamento mentale di tipo intellettualistico, alla conoscenza da parte del

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malato di ciò che era stato da lui dimenticato, non distinguendo quasi fra la nostraconoscenza e la sua. Ci ritenevamo particolarmente fortunati se riuscivamo ad ave-re notizie del trauma infantile dimenticato da malato da un’altra fonte, per esempiodai genitori, dalle persone che lo avevano accudito, o dal suo stesso seduttore, comerisultò possibile in singoli casi; e ci affrettavamo a portare al malato la notizia,insieme alle prove della sua esattezza, certi di far giungere in tal modo a rapida con-clusione nevrosi e trattamento. Era per noi una grave delusione allorché veniva amancare il risultato atteso. Come poteva accadere che il malato, il quale ora sapevadel suo episodio traumatico, si comportasse tuttavia come se non ne sapesse più diprima? Dopo aver comunicato e descritto il trauma rimosso, non ne affiorava nem-meno il ricordo» (Freud, 1913-1914, 348-350).

Perché il singolo ricordo rimosso, una volta rievocato dall’esterno dall’anali-sta, non guarisce il paziente? Perché quel singolo fatto, per quanto vero, perquanto possa essere un fatto realmente accaduto al paziente, gli viene presentatoletteralmente come un corpo estraneo, come una cosa: la tua sofferenza era cau-sata da questo ricordo qui, così procede, in modo meccanico ed estrinseco, l’ana-lista. Ma proprio perché è una cosa non riguarda il paziente, che anche se puòriconoscere in quel fatto qualcosa che lo riguardi, lo farà però in un modo affattoesteriore. Immaginiamo che qualcuno venga da noi e ci mostri una vecchia fotoingiallita in cui appare un uomo anziano vestito in modo antiquato: questo era ilnonno di tuo nonno, ci dice, gli vuoi bene, lo riconosci, vedi che ti somiglia?Quella foto, in realtà, non è un ricordo, bensì semplicemente una cosa, ed unacosa – sia o non in qualche modo legata a noi – non ci dice come dobbiamo sentir-la, come dobbiamo viverla. Una cosa, proprio in quanto cosa, non ci parla, non ciemoziona. Freud ci dice che l’analisi non ha come scopo quello di mostrare alpaziente quella foto, anche e soprattutto se è una foto che davvero ci riguarda. Edè significativo che nel seguito del brano aggiunga una considerazione che forse sipuò accostare a quelle che abbiamo letto in Wittgenstein: «il singolare comporta-mento dei malati, che sanno conciliare un sapere cosciente con un non sapere,rimane inspiegabile per la psicologia normale. […] Ora i malati sanno dell’episo-dio rimosso nel loro pensiero cosciente, ma a quest’ultimo manca il collegamen-to con il punto in cui il ricordo è in un certo qual modo contenuto» (ibid., 351;corsivo nostro). Il senso di quanto Freud ci dice è, nei termini di Wittgenstein, chesi cominciano a individuare alcune delle regole del «gioco linguistico» a cui sistava partecipando, ma in modo implicito, inconsapevole, ottuso. Il ricordo del-

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l’episodio rimosso, preso singolarmente, non è però che una regola possibilestaccata dalle altre che regolano, nel loro insieme, il gioco. Poniamo che qualcu-no mi dica, a me che perdo sempre a scacchi, che non è una buona apertura muo-vere per primo il pedone della torre. È vero, ma che farne, di questa spiegazione,di questa regola, se mi manca l’insieme delle regole del gioco, perché dirla a meche neanche so che stavo giocando a scacchi, e proprio per questa ragione perde-vo sempre? Ciò che ha perso il malato, potremmo dire, non è il ricordo di questo oquell’evento, ma la trama di senso, la rete di connessioni che lega quel suppostoepisodio del passato al presente; il malato soffre, direbbe probabilmente Wittgen-stein, perché non ha una «rappresentazione perspicua» dell’insieme delle regoledel gioco a cui sta partecipando, cioè perché non sa trovare un senso per quell’epi-sodio, perché non sa che uso farne:

«La difficoltà consiste soltanto nel capire a che cosa ci serve stipulare unaregola. Dopoché eravamo così fortemente turbati, perché ora ci tranquillizza?Quello che ci tranquillizza è evidentemente il fatto che vediamo un sistema cheesclude (sistematicamente) le costruzioni che ci hanno sempre inquietati e con lequali non riuscivamo a combinare nulla, ma alle quali credevamo di doverci attene-re. La stipulazione di una regola grammaticale non è forse, sotto questo aspetto,come la scoperta di una spiegazione in fisica? […] La stranezza dell’inquietudinefilosofica, e della sua soluzione, a quanto pare è come il tormento dell’asceta che,gemendo nel tenere sollevata una roccia pesante, se ne sta ritto, ma poi arriva unuomo a liberarlo dicendogli: “Lasciala andare”. Mi domando: “Se queste proposi-zioni ti inquietano e con esse non sai combinare nulla, perché non le hai lasciate giàprima, che cosa ti ha impedito di farlo?” Ebbene, secondo me, la colpa era del falsosistema, al quale egli credeva di doversi uniformare » (2000, XII, § 89, 4).

Certo, Freud parla di inconscio, e ne parla in senso «topico», ossia spaziale,ma il suo discorso sembra poter agevolmente essere parafrasato nei termini diWittgenstein, e in questa accezione l’inconscio diventa l’insieme delle regole delgioco in secondo piano, quelle affatto implicite, regole che non sono affattonascoste, sono regole troppo evidenti perché ad esse si possa prestare attenzione.All’asceta, cioè al malato, bastava dire «lasciala andare», ma perché lui potessecomprendere questa frase occorreva rimettere in discussione l’insieme del «siste-ma» al quale «credeva di doversi uniformare», e aveva questa curiosa credenzaperché, propriamente, neanche immaginava che si potessero avere credenze

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diverse, neanche immaginava che esistessero alternative. Ma l’esortazione«lasciala cadere» non era in nessun senso nascosta, non era invisibile; le mancavaun nuovo «sistema» in cui potesse diventare praticabile. Si può, cioè, attribuireun senso nient’affatto «topico» all’inconscio. Ma perché dovremmo accettarequesta parafrasi, cosa non va nell’accezione spaziale dell’apparato psichico?

Prima di porsi questa domanda occorre chiedersi però perché Freud, per tuttala sua carriera scientifica, abbia sempre cercato di tradurre l’insieme delle nozio-ni della psicoanalisi in nozioni connesse a precise regioni dello spazio. Freudnasce, scientificamente, come un neurologo. Il neurologo si occupa di un partico-lare tipo di materia, il tessuto cerebrale, a sua volta composto di entità individuali,i neuroni. Qui parlare di cose è del tutto corretto: ogni neurone si trova nella posi-zione spaziale S nel tempo T. Il modello scientifico di chi si occupi di questo tipodi entità non può non essere che quello delle scienze della materia, basato appun-to su relazioni spaziali e causali fra le entità. Questo è il retroterra teorico diFreud, per tutta la sua carriera psicoanalitica; nel 1938, quasi a conclusione delsuo lavoro scientifico, scrive ancora che «la psiche è estesa» (Freud, 1938, 566).La psiche, in quanto manifestazione del cerebrale, è «estesa», ossia è appuntodescrivibile come qualcosa che occupa una posizione nello spazio e nel tempo.Fino all’ultimo Freud rimane fedele ad un materialismo integrale, che assume ildualismo cartesiano (quello che distingue la res cogitans da quella extensa), masolo per ridurlo nel monismo assoluto di chi ammette un solo tipo di sostanza,quella materiale. Rimane però il fatto che un materialismo come questo è intelli-gibile solo sullo sfondo di quel dualismo; come dire, l’esigenza stessa di precisa-re che tutta l’esperienza deve poter essere ricondotta a ciò che è spazialmentedelimitato, presuppone una dualità ridotta ad unità. Solo per chi accetta, sia pureprovvisoriamente, lo spirito può sorgere l’esigenza di farne a meno. Il punto è chesi può, fin dall’inizio, rifiutare ogni ospitalità per lo spirito, senza per questoabbracciare il monismo fisicalistico. La questione, che riprenderemo più avanti,si ripropone per la distinzione fra verità narrativa e verità storica: non è affattodetto che rinunciare alla prima obblighi ad accettare soltanto l’esistenza dellaseconda. Si possono rifiutare entrambe le alternative.

Il modello del Freud neurologo è quello, celebre per quanto poi accantonato,del Progetto di una psicologia (1895), un progetto che continuerà, comunque, ainfluenzare più o meno sotterraneamente le successive versioni della sua meta-psicologia («le tesi del Progetto ritornano in gran parte dei successivi scritti freu-diani, semplicemente “deneuronizzate”»; Bercherie, 2003, 82). Si tratta di un

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progetto che ha lo scopo «di dare una psicologia che sia una scienza naturale,ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determina-ti di particelle materiali identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili»(Freud, 1895, 201). L’intento riduzionistico di questa teoria è affatto esplicito: èuna teoria neuronale della mente. I neuroni «ricevono [l’eccitamento] attraversoprosecuzioni delle cellule [o dendriti] e [lo] rimettono attraverso il cilindrasse»(ibid., 203); «ogni singolo neurone costituisce così un modello del sistema ner-voso nel suo insieme, con la sua dicotomia strutturale, essendo il cilindrasse l’or-gano di scarica» (ibid., 204). Ma fin dall’inizio Freud si rende conto che occorreaggiungere, a questo quadro esplicativo, un fattore ulteriore, quello psichico, cioèqualitativo, perché quello del Progetto, altrimenti, sarebbe una psicologia senzapsiche: «se sosteniamo che la nostra coscienza fornisce solo delle qualità, mentrela scienza naturale riconosce solo delle quantità, emerge in modo evidente […]una caratteristica dei neuroni w [neuroni percettivi]. Essendosi la scienza posta ilcompito di condurre tutte le qualità delle nostre sensazioni alle quantità esterne,si può presumere, dalla struttura del sistema nervoso, che essa consista di disposi-tivi per trasformare la quantità in qualità, dove sembra ancora una volta trionfarela tendenza originaria a liberarsi della quantità» (ibid., 214). La psicologia nonpuò non occuparsi che di queste qualità, qui è l’esperienza clinica di Freud, quitrova i sintomi che mostrano i suoi pazienti, questo è il campo della cura con leparole, della loro coscienza. Si tratta allora di escogitare uno speciale neurone,ecco il bisogno teorico di qualcosa come il neurone w, in grado (magicamente, ineffetti, così come accade alla ghiandola pineale di trasformare il corpo in spirito eviceversa) di saltare dal quantitativo al qualitativo. È evidente fin dall’inizio, allo-ra, questa doppia – inconciliabile – tendenza del lavoro scientifico di Freud: dauna parte il modello neurologico lo porterà sempre a cercare una riduzione delqualitativo al quantitativo, del mentale al cerebrale, dello psichico al materiale;dall’altro l’esperienza clinica lo allontana da quel modello, verso regioni dellamente che non solo non si spiegano in termini spaziali, ma che sempre più chiara-mente risulta che non possono essere spiegati in quei termini.

Uno dei modi per rendere manifesto il contrasto fra questi due modi diintendere la vita della mente è dato dal problema teorico della fine dell’analisi:se vale il modello neurologico, una fine determinata e determinabile (addiritturaa priori), per l’analisi, è almeno in linea di principio ipotizzabile. In questomodello ad ogni entità psichica deve corrispondere una entità materiale: «unadelle principali caratteristiche del tessuto nervoso è la memoria, cioè, general-

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mente parlando, la facoltà di subire un’alterazione permanente in seguito a unevento […]. Così vi sono neuroni permeabili (cioè che non offrono resistenza eche non trattengono nulla) […] e neuroni impermeabili, i quali sono i veicolidella memoria […]. Io chiamerò il primo sistema neuroni f e y il secondo»(ibid., 205). Un ricordo, allora, coincide con «un’alterazione permanente» chel’esperienza lascia nel «tessuto cerebrale». Dal momento che questo stesso tes-suto è finito, perché è racchiuso all’interno del cervello, a sua volta confinatoall’interno della scatola cranica, allora in linea di principio il numero di «traccemnestiche» sarà anch’esso finito.

In questo modello – che nella nostra ricostruzione è estremamente semplifi-cato, ma che comunque è fedele al suo impianto teorico generale – all’originedelle varie forme di disagio mentale c’è un trauma il cui ricordo è ormai incon-scio. Compito dell’analisi sarà quello di individuare attraverso il linguaggio queltrauma, e quindi portarlo alla coscienza, ossia, letteralmente, tirarlo fuori dalleprofondità della mente/cervello: «in questa prima analisi completa di un’isteriada me intrapresa, arrivai ad un procedimento che in seguito ho eretto a metodo eintrodussi deliberatamente, un procedimento di svuotamento strato per strato,che ci piaceva paragonare alla tecnica del dissotterrare una città sepolta. Mi face-vo anzitutto narrare ciò che era noto alla paziente, badando con attenzione ai pun-ti in cui un nesso rimaneva enigmatico, in cui sembrava mancare un anello nellacatena delle cause, e penetravo poi negli strati più profondi della memoria»(Freud, 1882-95, 293-294).

Il modello spazio-temporale della mente è allora un modello, coerentementecon il suo impianto fisicalistico, in cui lo spazio del mentale è organizzato comeuna specie di contenitore. La cura consiste nel raggiungere i ricordi («traccemnestiche») più profondi (inconsci), e – così come fa l’archeologo – riportarlialla superficie, cioè alla coscienza. Secondo lo schema («Architettura dell’iste-ria») abbozzato da Freud nella Minuta M, acclusa alla lettera inviata a WilhelmFliess il 25 maggio 1897: «alcune scene sono accessibili direttamente, altre soloattraverso le fantasie sovrapposte. Le scene sono ordinate secondo l’aumentodella resistenza: quelle più leggermente rimosse vengono alla luce prima, masolo in modo incompleto a causa della loro associazione con quelle severamenterimosse. Il cammino seguito dal lavoro [di analisi] scende a spirale dapprima allescene o alle loro immediate vicinanze; poi, da un sintomo, più sotto; quindi dinuovo da un sintomo, ancora più in basso» (Freud, 1887-1904, 61). L’analisi è un«cammino», cioè uno spostamento fisico nel campo del rimosso, che più è

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profondo più è lontano (dalla coscienza); ma la lontananza è anche temporale,perché significa che la rimozione ha agito per più tempo.

Nell’Interpretazione dei sogni, però, ed in contrapposizione a questo model-lo, osserva che non tutto, in un sogno, può essere interpretato, e non soltanto permotivi di tempo; siamo qui in presenza di un limite intrinseco dell’analisi: «alladomanda se ogni sogno possa essere interpretato, si deve rispondere di no […].Anche nei sogni meglio interpretati è spesso necessario lasciare un punto all’o-scuro, perché nel corso dell’interpretazione si nota che in quel punto ha inizio ungroviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare […]. Questo è alloral’ombelico del sogno, il punto in cui esso affonda nell’ignoto» (Freud, 1899, 479-481, corsivo mio). Se la mente fosse davvero affine ad una specie di contenitore,come vorrebbe il mai del tutto abbandonato modello neurologico del mentale,una constatazione come questa non si potrebbe pienamente giustificare; ma sic-come quel modello contrasta con quanto Freud stesso scopre nella clinica, conl’importanza decisiva della fantasia e dell’immaginario, rimane nel cuore stessodel progetto freudiano una domanda di fondo: se la mente è descrivibile, almenoin linea di principio, con un apparato categoriale ispirato a quello della neurolo-gia, il sapere psicoanalitico non può che essere un sapere temporaneo, destinatoprima o poi ad essere riassorbito dalla scienza fisicalistica della mente, la neuro-logia appunto: «Per il momento la nostra topica non ha niente da spartire con l’a-natomia» (Freud, 1915, 57), ma appunto, soltanto per il momento, in seguitochissà. Altrimenti occorre pensare ad una epistemologia specifica della psicoana-lisi, ad una teoria del mentale che non lo costringa all’interno di gabbie categoria-li in cui non può sopravvivere. In un progetto del genere una analisi non è perprincipio terminabile.

WITTGENSTEIN ED IL PROBLEMA (?) DELLA «SOLUZIONE GIUSTA»

Abbiamo appena visto che Freud non aveva bisogno di Wittgenstein percomprendere che il modello neurologico era inadatto a dare conto della effettivavita della mente. Eppure Wittgenstein propone un modello del mentale che nonsolo critica la sua riduzione, in linea di principio, alla neurologia, ma che, soprat-tutto, permette di pensare un modello diverso, in cui non trovano più posto nozio-ni spaziali, e quindi distinzioni solo apparentemente alternative come superficia-le e profondo, interno ed esterno, dentro e fuori: non si tratta, infatti, di contrap-porre l’esterno all’interno, o il superficiale al profondo. Queste distinzioni sono

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solo apparentemente alternative, in realtà sono affatto complementari. Wittgen-stein propone un modello basato, questa volta, su una immagine completamentediversa del linguaggio. Per Wittgenstein il linguaggio non è uno strumento perdescrivere oggetti, come sembra credere il Freud del modello neurologico (leparole servirebbero, infatti, come degli uncini per agganciare i ricordi rimossi),non ha un’unica funzione, quella denotativa, non è nemmeno un mezzo per espri-mere una interiorità altrimenti inaccessibile. Il linguaggio è un insieme, dinami-co, variabile, di «giochi linguistici», ed ogni gioco ha sue regole, sue ragioni, suoicriteri di vittoria e di sconfitta. Non c’è un «gioco linguistico» più importantedegli altri, come aveva creduto nel Tractatus, non c’è una autorità che possa pre-scrivere come si debba correttamente usare il linguaggio. Ma questo significa, ecominciamo a capire perché in Wittgenstein Freud potrebbe trovare una teoriamigliore per spiegare (senza alcuna riduzione) le sue scoperte, che non c’è piùnemmeno un solo modello esplicativo, in particolare, quello denotativo-fisicali-stico: «ma quanti tipi di proposizione ci sono? Per esempio: asserzione, domandae ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differentid’impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questamolteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi dilinguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invec-chiano e vengono dimenticati […]. Qui la parola “gioco linguistico” è destinata amettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di una attività, odi una forma di vita» (Wittgenstein, 1953, I, § 23).

Nel modello neurologico della mente ad ogni «traccia mnestica» corrispondeun ricordo, e ad ogni ricordo un segno, come esplicitamente nota Freud nel suolibro sulle afasie: «alla parola corrisponde un intricato processo associativo in cuivengono a immettersi gli elementi […] di provenienza visiva, acustica e cineste-tica […]. La rappresentazione di parola è annodata alla rappresentazione d’og-getto a partire non da tutte le sue componenti ma solo dall’immagine acustica»(1891, 142-143). Un segno, allora, per il Freud neurologo, è in una connessionediretta con un oggetto; di fatto un segno, per questo Freud, ha solo un riferimentoma non un significato («la parola è segno della cosa e in quanto tale è legata allacatena dei pensieri e delle immagini; nessun legame delle parole fra loro, nessunastruttura sintattica appare nell’analisi freudiana»; Bercherie, 2003, 42); più inparticolare, per il Freud neurologo una parola senza riferimento, cioè una parolache non sia strettamente agganciata ad una precisa entità materiale, non significanulla. Sembra evidente che in una teoria semiotica di questo tipo diventa incom-

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prensibile, ad esempio, spiegare la presenza di fantasie a cui nulla di effettiva-mente esistente corrisponde nella realtà. Ma senza fantasia non c’è vita mentale,non c’è desiderio, non c’è psicoanalisi. Freud che legge Wittgenstein, invece,comprende di avere bisogno di una teoria semiotica più sofisticata; per la veritàFreud trova in Wittgenstein le ragioni che gli consentiranno di giustificare la suapratica analitica, che è largamente indipendente dal riferimento dei discorsi in cuiil desiderio dei suoi pazienti prende corpo; anche in questo caso, peraltro, l’espe-rienza clinica di Freud è molto più avanzata della sua teoria. Si veda, ad esempio,come nella lettera a Fliess del 21 settembre 1897 annuncia l’abbandono della suateoria della seduzione infantile (che rientrava perfettamente nello schema mecca-nicistico del modello neurologico): «non credo più ai miei neurotica», una sfidu-cia motivata, soprattutto, dalla crescente «convinzione che non esista un “dato direaltà” nell’inconscio, dimodoché è impossibile distinguere tra verità e finzioneinvestita di affetto» (1887-1904, 297-298). Ma ammettere la piena realtà della«finzione investita di affetto» significa ammettere che la pratica psicoanaliticanon è inquadrabile all’interno di una teoria meccanicistica della mente ed unateoria del linguaggio come insieme di associazioni oggetto ↔ segno. Vedremopiù avanti, peraltro, che questa ammissione nemmeno significa rinunciare adogni pretesa di verità per la psicoanalisi. Ancora una volta, che non sia dia veritàsecondo il modello segno-riferimento non significa affatto che non si dia alcunaverità. Il punto è, come scopre Freud che legge Wittgenstein, che il significato diun segno, il suo «uso» non dipende dall’avere o no un riferimento:

«Mettiamo in discussione, per prima cosa, il punto di questa argomentazione:che la parola non ha significato se ad essa non corrisponde nulla. È importante man-tener fermo che, se con la parola “significato” si designa l’oggetto che “corrisponde”alla parola, allora la parola viene impiegata in modo contrario all’uso linguistico.Ciò vuol dire scambiare il significato di un nome con il portatore di esso. Se il signorN.N. muore si dice che è morto il portatore del nome, non il significato del nome. Esarebbe insensato parlare in questo modo, perché se il nome cessasse di avere unsignificato, non avrebbe senso il dire “Il signor N.N. è morto”» (1953, I, § 40).

Il significato di un segno, allora, non ha nulla a che fare con il suo riferimen-to; ma questo vuol dire che si ammette che la significatività del linguaggio nondipende da una realtà ad esso esterna. Il campo della verità (e della falsità) nonesaurisce il campo di applicazione dei «giochi linguistici». In questo quadro si

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pone la domanda fondamentale che Wittgenstein solleva relativamente alla prati-ca psicoanalitica, ma attenzione, non alla pratica in quanto tale, bensì alla suaspiegazione secondo la teoria che discende dal modello neurologico della mente:«la teoria freudiana del sogno. Freud sostiene che qualsiasi cosa accada in unsogno risulterà connessa con un desiderio che l’analisi può portare alla luce. Maquesto procedimento di associazione libera, e così via, è strano, perché Freud nonchiarisce mai come possiamo sapere dove fermarci, dove sia la soluzione giusta.Talvolta dice che la soluzione giusta, o l’analisi giusta, è quella che soddisfa ilmalato, talaltra, che il medico sa quale sia la soluzione giusta o l’analisi delsogno, mentre il malato non lo sa: il medico può dire che il malato ha torto»(1966, 125). La domanda va al cuore del modello neurologico della mente: comefai a sapere quando l’analisi è «completa», come scrive Freud negli Studi sull’i-steria? Una analisi può essere completa soltanto se è completabile in linea diprincipio. È questo il caso?

La critica di Wittgenstein insiste su un punto essenziale: il lavoro interpreta-tivo, in realtà, non spiega il mentale, nel senso di ridurlo a qualcosa che non èmentale (ad esempio le sue presunte cause rimosse), rende possibile acquisirecoscienza delle regole nascoste dei «giochi» che si stavano giocando. Da questopunto di vista il senso dell’analisi non è decodificare i presunti simboli onirici,ad esempio (Wittgenstein, su questo punto, è drastico: «la sua spiegazione stori-ca di questi simboli è assurda. Potremmo dire che non è necessaria in alcunmodo»; ibid., 127): «non c’è modo […] di mostrare che il risultato generale del-l’analisi non potrebbe essere “inganno”. È qualcosa che la gente è portata adaccettare e che rende loro più agevole seguire certe strade: certi modi di compor-tarsi e di pensare diventano per loro naturali. […] L’intera questione non avreb-be potuto essere trattata diversamente?» (ibid., 129). Il problema era quello diaprire quei «lucchetti», come li definisce Wittgenstein, rendere possibile cam-biare gioco, o giocarlo meglio, ciò che presuppone, appunto, la conoscenza del-le sue regole. L’obiettivo dell’analisi non è, insiste Wittgenstein, sostituire alsintomo una nuova e definitiva spiegazione; non di quella è alla ricerca il malatoma di libertà, cioè della possibilità di partecipare al «gioco linguistico» senzacadere sempre nei soliti errori (in realtà, da un punto di vista logico, nemmeno lisi possono chiamare errori, ché può sbagliarsi solo chi poteva anche non farlo,ma allora sapeva che esistevano alternative; il disagio e la sofferenza mentalenon sono errori, sono accadimenti della vita delle persone che li provano). Sco-po dell’analisi è far vedere al malato che laddove prima scorgeva soltanto un

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senso unico esistono, in realtà, una serie di strade alternative: questa è la «rap-presentazione perspicua».

Lo scopo dell’analisi non è trovare la soluzione del sintomo, semmai le pos-sibili soluzioni che possano liberarci dall’illusione e dall’incantamento dell’im-mobilità. Per questo Wittgenstein insiste nel sostenere che non solo non esiste lainterpretazione del sogno, ma che non può esistere nulla di simile. Una possibi-lità del genere implicherebbe l’esistenza di un «gioco linguistico» fondanterispetto a tutti gli altri, il gioco denotativo-fisicalistico, finalmente in grado disvelare la realtà neurologica della vita mentale. Una volta scartata questa possibi-lità con l’ammissione dell’irriducibile pluralità dei «giochi linguistici», non puònon cadere la pretesa freudiana di sciogliere una volta per tutte le complessità delsogno: «è probabile che ci siano molti diversi tipi di sogni e che non vi sia unasola linea di spiegazione per tutti. Proprio come ci sono molti, diversi tipi di gio-co. O come ci sono molti, diversi tipi di linguaggi. Freud era influenzato dall’ideaottocentesca della dinamica, un’idea che ha influito su tutto il modo di fare psico-logia. Freud voleva trovare una qualche, unica, spiegazione che potesse mostrareche cos’è il sognare. Voleva trovare l’essenza del sognare. E avrebbe respintoqualsiasi suggestione di avere in parte ragione ma non del tutto. Aver torto in par-te, avrebbe significato per lui aver torto del tutto, non aver realmente trovato l’es-senza del tutto» (1966, 133-134).

Ma la critica di Wittgenstein al modello riduzionistico del linguaggio è anco-ra più radicale quando attacca il centro stesso di questo modello: l’idea che il lin-guaggio sia un mezzo per esprimere, cioè letteralmente tirare fuori, i pensieri e isentimenti dal chiuso della mente individuale, privata, affinché possano essereresi noti anche all’esterno. Un enunciato come «sono felice», in questo modello,sarebbe una descrizione – ad uso degli altri – di uno stato interiore di chi parla:schematicamente, secondo questo modello (il linguaggio come strumentoespressivo e denotativo), il parlante dapprima prova un certo stato interno, poi lodescrive in parole, e questa descrizione permette agli ascoltatori di essere infor-mati su di esso. Il punto è che questo modello non sa come rispondere ad unadomanda radicale, una domanda che ci riporta al centro del problema della psi-coanalisi come cura del disagio mentale: come fa, chi dice «sono felice», a saperedi quale stato interiore si tratti? Se c’è qualcosa che la parola «inconscio» signifi-ca, bene, significa proprio che non so quel succede in me, non posso saperlo:«quando dico che cosa so – come faccio a dire ciò che so?» (1980, § 88). La psi-coanalisi nasce da questa fondamentale scoperta, ma allora il modello descritti-

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vo-denotativo del linguaggio che fine fa? Il problema non è rendere noto agli altriquello che uno pensa o sente fra sé e sé, al contrario, il problema è permettere discoprire e definire quel che uno pensa ma non sa di pensare, quel che uno sentema non sa di sentire, quel che uno prova ma non sa di provare. Ma attenzione, ilproblema qui non è quello di portare alla luce quello che era nascosto, come se lostato interno se ne stesse lì, nell’inconscio, già del tutto formato, soltanto in attesadi una parola in grado di portarlo in superficie: il problema è che lo stato interno sicostruisce insieme alla parola che lo nomina. Lo stato interno, in realtà, non pree-siste alla parola che lo esprime, al contrario, lo stato interno è il risultato di unaoperazione linguistica riuscita, ad esempio quella in cui l’analista riesce a trovareun modo di dire quel che il paziente non sapeva nemmeno di sentire: «il filosofosi sforza di trovare la parola liberatrice, quella parola che alla fine ci permette dicogliere ciò che fino allora, inafferrabile, ha sempre oppresso la nostra coscienza.(È come quando abbiamo un pelo sulla lingua: lo sentiamo, ma non possiamoafferrarlo/prenderlo/ e perciò non riusciamo a liberarcene)» (Wittgenstein, 2000,XII, § 87, 7). Per questo quel che è nascosto non interessa, perché scopo dellaterapia della parola non è portare alla superficie quel che altrimenti sarebbe beninterrato nella memoria, bensì quello di dare una forma – che letteralmente signi-fica un corpo linguistico – ad una condizione altrimenti indeterminata, ad undisagio senza portatore (come se un paziente dicesse qualcosa del genere: «dotto-re, mi succede questo, ma non so perché, è come se piovesse, qualcosa che acca-de, a cui non si può in alcun modo porre rimedio»):

«Un evento lascia una traccia nella memoria: a volte ci si immagina che questoconsista nel suo lasciare una traccia, un’impressione, una conseguenza, nel sistemanervoso. Come se si potesse dire: anche i nervi hanno una memoria. Se qualcuno siricorda di un evento, dovrebbe allora inferirlo da questa impressione, da questatraccia. Ma qualunque cosa l’evento si lasci dietro nell’organismo, questo qualcosanon è il ricordo. L’organismo paragonato al rullo di un dittafono: l’impressione, latraccia, è l’alterazione che la voce si lascia dietro sul rullo. Si può dire che il dittafo-no (o il rullo) si ricorda di ciò che è stato detto ogni volta che si riproduce ciò che haregistrato?» (Wittgenstein, 1980, 220).

Il dittafono, come il tessuto del cervello, non ha ricordi, come non è (ancora)un segno un carattere scritto in un libro: per diventare segno, come la traccia perdiventare ricordo, occorre che quella iscrizione materiale venga letta, ossia le

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venga attribuito un senso, e così quella traccia fisica di per sé non è un ricordo. Unricordo è logicamente inseparabile dal suo ricordarlo, cioè, ad esempio, dal fattoche lo si racconta a qualcuno, e naturalmente questo qualcuno può anche esserese stessi. Qui c’è un ricordo, nella traccia del dittafono non c’è nulla di simile. Ilricordo non sta da nessuna parte, allora, letteralmente non c’è – come realtà dellavita umana – se non nel momento in cui vive come rievocazione effettiva: maallora tutto il problema della localizzazione della memoria perde il suo interesse,almeno se il nostro lavoro ha a che fare con la cura della parola, con la cura dellamente che soffre.

Non ci interessa dove sia la traccia mnestica, e nemmeno se sia da qualcheparte, e addirittura se esista, perché è il paziente che soffre, non il suo tessutocerebrale, e per curare il paziente devo aiutarlo a costruire un senso per quello cheè e sente: e costruire un senso significa aiutarlo a trovare un uso per quel ricordo,imparare a considerarla come una possibilità di movimento, come una strada chesi può percorrere. Il ricordo, allora, è una mossa in un gioco, una mossa che igno-ravamo, e che ci impediva di giocare correttamente, che anzi ci faceva spesso per-dere: compito dell’analisi è scoprire e quindi istituire (per il giocatore una mossache non si conosce è una mossa che non c’è, semplicemente) un nuova mossa, equindi aumentare gli spazi di libertà del giocatore, le mosse possibili che può gio-care. Ecco perché, allora, l’interno, il nascosto, il profondo non interessa, nonperché tutto questo non esista, ma perché non ha nulla a che fare con il saper par-tecipare al gioco:

«Insomma, che cosa dovremmo dire di chi ci comunicasse che, per quantoriguarda lui, il comprendere è un avvenimento interno? – Che cosa potremmo repli-cargli se egli dicesse che per lui l’essere capace di giocare a scacchi è un avveni-mento interno? – All’incirca, che quando vogliamo sapere se sa giocare a scacchi, anoi non interessa niente di ciò che avviene in lui. E se a questa obiezione eglirisponde che è proprio ciò che avviene in lui a interessarci, e cioè se sappia o no gio-care a scacchi – allora noi potremmo contraddirlo soltanto ricordandogli i criteriche ci proverebbero la sua capacità» (ibid., 302).

Il problema non è in alcun modo quello che accade dentro il giocatore, ma sesa giocare, e per stabilire se si sa giocare a scacchi esistono dei criteri pubblici, ecioè esterni, non c’è alcun altro modo per stabilirlo. L’interiorità non ha nulla ache fare con la capacità di prendere parte in modo efficace ad un «gioco linguisti-

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co»: «succede qualcosa quando capisco questa parola, quando ho questa e questaintenzione – oppure non succede niente? Il punto non è tanto questo, quanto piut-tosto: perché dovrebbe interessarmi ciò che accade in te (La tua anima può bollireo congelare, diventare rossa o blu: a me cosa importa?)» (ibid., 215).

Torniamo allora al problema da cui abbiamo aperto questo paragrafo, il pro-blema dell’interno, o meglio, se quello dell’interno è veramente un problema,oppure se non si tratta di un falso problema. Se l’interiorità è il punto di arrivo del«gioco linguistico», e non il suo punto di partenza, allora «io sono felice» non èuna descrizione di un preesistente stato interno, al contrario, diventa una mossadel linguaggio, diventa il modo umano (cioè linguistico, appunto) di vivere l’e-sperienza della felicità: «le parole «sono felice» equivalgono ad un comporta-mento di gioia» (ibid., 450). Nel nuovo modello del linguaggio che Wittgensteinci propone non c’è alcuna profondità, pertanto non c’è alcuna interiorità; ma que-sto non significa che, allora, il linguaggio sia solo superficie, sia solo e piattamen-te comportamento. Il linguaggio è linguaggio quando è parlato, quando è intrec-ciato alla vita di chi parla (per questo Wittgenstein parla di «forma di vita»),quando è uso; si tratta allora di una superficialità senza profondità, di una superfi-cie monodimensionale, di un fuori senza dentro, quindi di uno spazio paradossale(per la nostra esperienza quotidiana) che non ha un dentro né un fuori, né unsopra né un sotto, né un superficiale né un profondo (Lo Piparo, 1992):

«Il comunicato è un gioco linguistico composto di determinate parole. Sareb-be fonte di confusione dire: le parole del comunicato, la frase annunciata hanno undeterminato senso, e la comunicazione, l’“atto dell’asserire”, ne aggiunge uno ulte-riore. Come se l’enunciato emesso da un grammofono, appartenesse alla logicapura, come se in questo caso avesse il suo senso puramente logico, come se qui noiavessimo davanti l’oggetto che i logici maneggiano ed esaminano – mentre l’enun-ciato asserito, comunicato, fosse la cosa in funzione. […] Quello che voglio dire èche l’enunciato non ha alcun senso al di fuori del gioco linguistico» (Wittgenstein,1980, 488).

Il modello del linguaggio di Wittgenstein ci permette di superare il limiteintrinseco del modello neurologico di Freud: in questo modello esiste – almenoin linea di principio – la soluzione del disagio mentale del paziente in cura psi-coanalitica, e questa soluzione sarebbe quella in cui, finalmente, si sarebbe indi-viduata la causa materiale di quel disagio, ad esempio la traccia mnestica connes-

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sa al trauma originario. In realtà, come abbiamo visto, questo modello non è maistato veramente quello del Freud clinico, che scopre fin dall’inizio che si tratta diun modello del tutto inadatto a dare conto delle sue scoperte, in particolare allascoperta dell’immaginario come principale fattore della vita mentale. Se è l’im-maginario, il possibile, il desiderio che muove la mente umana, allora un modello– come quello neurologico – che a tutto questo non sa né può assegnare alcunruolo non potrà che essere affatto inadeguato. Ma questo significa, contro i pre-giudizi positivistici del Freud che non dimenticherà mai la sua formazione neuro-logica, che la «soluzione giusta» non esiste, né, soprattutto, potrebbe esistere(sarebbe equivalente all’idea che le parole scritte hanno un senso a prescinderedal fatto che qualcuno le legga o le possa leggere):

«Supponi che ci sia una vignetta in un giornale umoristico di poco dopo l’ulti-ma guerra. Potrebbe contenere una figura, che diresti subito una caricatura di Chur-chill, e un’altra contrassegnata dalla falce ed il martello, nella quale riconoscerestisubito l’intenzione di rappresentare la Russia. Supponiamo che manchi il titolo.Potresti tuttavia essere sicuro, considerando le due figure suddette, che l’interavignetta volesse ovviamente porre in rilievo qualcosa con riferimento alla situazio-ne politica del momento. Il problema è se avresti sempre ragione nel presumere chevi sia un unico scherzo o un’unica cosa che è la cosa posta in rilievo dalla vignetta.Forse, anche tutta la vignetta nel suo insieme non ha “un’interpretazione giusta”.Potresti dire “Vi sono indicazioni – le due figure, per esempio – che suggerisconoche ne ha una”, e io potrei risponderti che forse queste indicazioni sono tutto ciò chec’è. Una volta interpretate queste due figure, non può esserci ragione di dire chedeve esserci un’interpretazione corrispondente all’intera vignetta o di ogni suo det-taglio» (Wittgenstein, 1966, 135).

TIPI DI VERITÀ

Siamo arrivati a queste due conclusioni, allora, conclusioni che – è la nostraipotesi controfattuale – Freud ricava dalla lettura di Wittgenstein (più precisa-mente, la nostra idea è che Freud attraverso Wittgenstein adegui la sua teoriaesplicita del linguaggio e della mente umana alle sue scoperte cliniche, di fattoliberandosi del modello neurologico, del tutto incapace di spiegarle): 1) il lin-guaggio non ha alcuna profondità, ma si manifesta tutto nel suo essere usato, nel-l’essere azione, nell’essere vita («per una grande classe di casi – anche se non per

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tutti i casi – […] la parola “significato” si può definire così: Il significato di unaparola è il suo uso nel linguaggio», 1953, I, § 43); 2) conseguentemente una mos-sa nel «gioco linguistico» non presuppone alcuna interiorità in cerca di espressio-ne (ricordiamolo, «le parole “sono felice” equivalgono a un comportamento digioia»). Il problema logico dell’analisi, ora, si sposta dal livello privato a quellopubblico, dall’interno all’esterno, dal (presunto) piano cerebrale a quello dell’in-terazione sociale mediata da regole:

«Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so checosa significa la parola “dolore”, – non debbo dire la stessa cosa anche degli altri? Ecome posso generalizzare quest’unico caso in maniera così irresponsabile? Oraqualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da sé stesso! – Supponia-mo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo “coleotte-ro”. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere checos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsiche ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addiritturaimmaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che laparola “coleottero” avesse tuttavia un uso per queste persone! – Allora non sarebbequello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa partein nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatolapotrebbe anche essere vuota» (1953, 293).

Questa conclusione è di estrema rilevanza, perché fa piazza pulita in mododefinitivo del modello espressivo-denotativo (quello del Freud neurologo,appunto) del linguaggio: «la scatola potrebbe anche essere vuota», ma questonon impedisce in alcun modo di partecipare al gioco linguistico; il gioco lingui-stico del coleottero non ha bisogno di alcun coleottero materiale per essere gioca-to, così come il gioco linguistico del ricordo non ha bisogno di una «traccia mne-stica» per essere praticato. Ma non era proprio questa la conclusione a cui era giàarrivato Freud quando ammette di dover abbandonare i suoi neurotica dalmomento che matura la «convinzione che non esista un “dato di realtà” nell’in-conscio, dimodoché è impossibile distinguere tra verità e finzione investita diaffetto»? Ma cosa significa, questa importantissima ammissione, sul piano dellateoria della pratica analitica? Il problema che questa ammissione apre è quellodella efficacia dell’analisi. Nel modello neurologico una risposta all’interrogati-vo «perché l’analisi è efficace?» sembra esserci: una analisi è efficace se riesce ad

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individuare il nucleo traumatico (a cui corrisponde una precisa «traccia mnesti-ca») che è all’origine della sofferenza mentale; una volta individuata, quest’ulti-ma può essere rimossa (dapprima con metodi spicci, come l’ipnosi, successiva-mente con la talking cure, ma la logica chirurgica dell’intervento rimane invaria-ta). Ma questa possibilità, come abbiamo visto, è svanita, perché il senso di quellatraccia non risiede in sé, così come il ricordo non equivale alla inscrizione nel tes-suto neuronale: il senso è indeterminato, ciò che vuol dire che non c’è il senso,ma ci sono diverse pratiche di senso, nessuna delle quali può pretendere di rap-presentare l’unica e definitiva risposta alla domanda: qual è il senso di questoricordo? Qual è il senso di questa sofferenza? «Confronta il problema del perchési sogna e del perché scriviamo racconti. Non tutto nel racconto è allegorico. Chesignificato avrebbe cercare di spiegare perché uno ha scritto proprio quel raccon-to e proprio in quel modo? Non c’è una ragione sola per cui si parla» (1966,137). La cura, per Wittgenstein come per Freud, equivale ad aprire porte chiuseche dapprima non venivano nemmeno percepite, la cura è esperienza di libertà:«Per che cosa acquista importanza la nostra indagine? Essa ci fa notare che unatabella può essere usata in più di un modo, che una tabella si può immaginarecome istruzione per l’uso di un’altra tabella, che una freccia può essere concepi-ta anche come un indicatore della direzione dalla punta alla penna, che io possoservirmi di un modello in molteplici modi in quanto modello» (2000, 88, 3).

Ma questo significa che non solo non c’è la «soluzione giusta», ma che –soprattutto – una siffatta soluzione nemmeno può esserci, proprio perché altri-menti la cura non sarebbe che un senso unico che sostituisce un altro senso unico.L’abbandono del modello neurologico, pertanto, implica accettare un modelloaperto e dialogico della mente umana, la cui libertà si scopre proprio nella relazio-ne con l’analista terapeuta del linguaggio, che apre quel che il paziente credevachiuso, e mostra aperture che l’altro non riusciva a scorgere: «un uomo è prigio-niero in una stanza, se la porta non è sbarrata e si apre dall’interno, ma non gli vie-ne in mente di tirare invece di spingere» (1967, 84). Per questo, infine, l’esperien-za analitica non è una esperienza intellettuale, ma affettiva, nel senso che mobilitala persona nella sua interezza: «la filosofia non mi porta a nessuna rinuncia, perchénon mi vieto di dire qualcosa, bensì abbandono una certa combinazione di parolecome priva di senso. Ma in un altro senso la filosofia esige una rinuncia, però unarinuncia del sentimento, non dell’intelletto. Ed è forse questo il motivo che la ren-de così difficile a molti. Può essere difficile non usare un’espressione, com’è diffi-cile trattenere le lacrime o uno sfogo dell’ira» (2000, 86, 1).

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Torniamo a Freud, ora, e alla domanda che ci poniamo in questo paragrafo:quali sono le condizioni perché un’analisi sia efficace? Se non abbiamo più ilsostegno della «traccia mnestica», quale sarà il fondamento della terapia analiti-ca? È Freud stesso a guidarci verso la risposta, che è tuttavia una risposta chespiazza chi sia ancora attaccato alle certezze del modello neurologico: «qualigaranzie abbiamo, mentre lavoriamo alle costruzioni, di non andare fuori strada edi non mettere a repentaglio l’esito del trattamento facendoci interpreti di unacostruzione inesatta? Abbiamo la sensazione che tale interrogativo non ammettacomunque una risposta universalmente valida; tuttavia, ancor prima di discuterequesto punto, vogliamo prestare ascolto a una confortante informazione che cideriva dall’esperienza analitica. Essa ci insegna che se una volta ci siamo sbaglia-ti e abbiamo presentato al paziente come probabile verità storica una costruzioneinesatta, ciò non reca alcun danno» (Freud, 1937, 545). Che significa, in realtà,che «ciò non reca alcun danno»? Lo sappiamo, perché abbiamo incontrato uncaso assolutamente analogo in Wittgenstein, quando ci presenta il gioco delcoleottero, a cui si può partecipare anche se «la scatola potrebbe essere vuota».L’efficacia del gioco non dipende dal fatto che alla sua base ci sia un oggettomateriale, un oggetto determinato, si tratti di un coleottero o di una «traccia mne-stica». L’efficacia dell’analisi è interna alle sue regole, è una efficacia legata altipo di regole che l’analisi stessa istituisce. In questo senso l’analisi è un peculiare«gioco linguistico», come tale caratterizzato da sue regole e da suoi criteri di vali-dità (che fissano quando si sta giocando in modo corretto e quando no, quando sivince e quando si perde, quando si comincia e si smette di giocare; cfr. infra, § 4).

La verità del lavoro analitico non rimanda all’individuazione di un presunto(e talvolta affatto ipotetico) sostrato materiale del trauma, cioè alla «traccia mne-stica» che sarebbe stata originariamente causata dall’esperienza traumatica; laverità dell’analisi rimanda, invece, al fatto di dischiudere al paziente ipotesidiverse, realmente praticabili, rispetto al senso della sua sofferenza. Sofferenzache in questo modo non viene spiegata, non viene cioè ricondotta a qualcos’altro(ad esempio ad un certo fatto avvenuto nel passato, anche se questa possibilitàpuò darsi), ma viene inquadrata all’interno di un insieme più ampio di alternative.La «costruzione», in questo modo, dischiude al paziente degli spazi di manovrache prima non riusciva a cogliere. Per questo, insiste Freud, «non assumiamo un“no” dell’analizzato in tutto il suo valore; ma altrettanto poco valore diamo a unsuo “sì”» (546). Una affermazione del genere sarebbe del tutto ingiustificataall’interno del modello neurologico, perché in quel modello o una affermazione

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corrisponde ad un fatto, e allora è vera, oppure no, e pertanto è falsa. Qui Freud cista dicendo, invece, che non è la sua corrispondenza con una certezza del pazien-te, o con una cosa che rende efficace, o inefficace, la pratica analitica. Si tratta diuna efficacia performativa, istituita dal gioco stesso, come nel caso esemplare diquelle pratiche umane in cui il dire determina il suo effetto, come quando il sacer-dote dice «vi dichiaro marito e moglie» o il giudice «l’imputato è assolto»(Austin, 1962). Qui non c’è più alcuna separazione fra dire e fare, fra linguaggioe azione, fra stato interno ed espressione esterna: «la via che parte dalla costru-zione dell’analista dovrebbe terminare nel ricordo dell’analizzato; non sempreessa giunge tanto innanzi» (Freud, 1937, 549).

C’è di più, in realtà non c’è affatto bisogno di arrivare a questo presunto stra-to materiale interno, così come non è necessario che nella scatola ci sia il coleot-tero per partecipare al gioco descritto da Wittgenstein. «Ci capita abbastanza fre-quentemente di non riuscire a suscitare nel paziente il ricordo del rimosso»(ibid.). Già, e questo, almeno per il modello neurologico della mente, è un vero,insormontabile problema. Perché senza questo ricordo dovrebbe essere esclusaogni possibilità di guarigione, dal momento che in quel modello la guarigione èpossibile solo a patto che dall’inconscio sia eliminata, attraverso la presa dicoscienza mediata dall’interpretazione dell’analista, la presenza traumaticarimossa e proprio per questo patogena. Ma questo in molti casi non succede. Maallora, forse, non è necessario che avvenga perché la terapia sia efficace. Forse èsolo per un abbaglio teorico che si continua a pensare che la guarigione dalla sof-ferenza mentale sia possibile mediante una procedura che, in realtà, è ispirata aduna logica che di mentale non ha nulla, essendo legata alla pratica neurologica,una pratica affine a quella chirurgica. «In vece sua, se l’analisi è stata svolta cor-rettamente, otteniamo in lui un sicuro convincimento circa l’esattezza dellacostruzione» (ibid.): c’è intanto una importante precisazione, «se l’analisi è statasvolta correttamente», ossia se ha rispettato tutte le regole del «gioco linguistico»dell’analisi.

Quali sono queste regole? Che il gioco sia stato giocato in modo pubblico,che fra analista e paziente si sia instaurata una solida relazione di transfert e con-trotransfert, che l’analista non intervenga direttamente sul paziente (questa è lalogica chirurgica, che non considera quel che il paziente sente e pensa, ma che silimita ad operare sul suo corpo), ma che cerchi di dischiudergli spazi di libertà,cioè che gli permetta di vedere vie d’uscita laddove questi credeva d’esserecostretto in una prigione, che il paziente sia stato convinto dal suo analista (di qui

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l’onnipresente rischio della suggestione, un rischio ineliminabile dalla praticaanalitica; Chertok, 1989). E la teoria analitica? E la metapsicologia? L’importan-za di questo aspetto dell’analisi è per un verso ovvia, ma è una importanza che vaanche relativizzata, dal momento che la terapia può essere efficace a partire dateorie metapsicologiche affatto diverse; questo significa, ancora una volta, chenon esiste la teoria metapsicologica ma diverse teorie, e che nessuna può preten-dere di sé di rappresentare l’unica corretta, l’unica vera, l’unica efficace. Allora, aqueste condizioni, «tale convincimento, sotto il profilo terapeutico, svolge lastessa funzione di un ricordo recuperato» (ibid.). Crediamo sia difficile sottova-lutare l’estrema importanza di questa conclusione, che ci sembra rappresentare ildefinitivo commiato, se non nella teoria esplicita almeno in quella implicita,quella clinica, dal modello neurologico della mente. Di fatto Freud ci dice che il«ricordo recuperato» non è necessario per la riuscita dell’analisi, quello che con-ta è che la costruzione dell’analista contribuisca a rendere coerente, in qualchemodo sensata (ma ce ne sarebbero potuti essere diversi, di modi) la sofferenza delmalato; come dire, a permettergli di vederla come una situazione complessa,ramificata, come se lo stato di sofferenza fosse analogo a quello di chi si è perdu-to in una città di una nazione straniera, di cui, per di più, si ignora la lingua.

Compito dell’analista è costruire per il paziente una mappa di quella città, inmodo che questi possa muoversi attraverso di essa, e verosimilmente anche uscir-ne. Qui sembra proprio di rileggere Wittgenstein, come quando, ad esempio, scri-ve: «Il problema filosofico è la consapevolezza del disordine nei nostri concetti, eper toglierlo di mezzo si devono riordinare i concetti» (2000, 89, 30). L’analistanon spiega la sofferenza, la inquadra in un insieme più ampio, ne mostra le rami-ficazioni, le connessioni, i vicoli ciechi come le vie d’uscita, la riordina, appunto.Solo in questo senso la pratica analitica può essere una esperienza di libertà:

«La maggior parte degli uomini, quando vuole avviare una ricerca filosofica,fa come quel tale che cerca quanto mai nervosamente una cosa in un cassetto. Buttafuori dal cassetto alcuni fogli di carta (quello che cerca potrebbe essere lì in mezzo),sfoglia frettolosamente e alla rinfusa sotto gli altri. Ne ricaccia alcuni nel cassetto, limischia con gli altri e via dicendo. Allora gli si può soltanto dire: Ferma! Se fai così,non posso aiutarti a cercare. Intanto devi cominciare a esaminare con la massimacura e metodicamente una cosa per volta; e allora sono anche pronto a cercare conte e ad andare d’accordo con te anche nel metodo» (2000, 92, 6).

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Certo, quella che proponiamo non aspira in alcun modo ad essere una rico-struzione filologicamente accurata del pensiero di Freud. Eppure la descrizionedi Freud della nevrosi è del tutto simile a questa di Wittgenstein: «l’oblio si limitaper lo più ad un annullamento di connessioni, a un disconoscimento di concate-nazioni causali, a un isolamento di ricordi» (Freud, 1914, 355). E tuttavia, pocherighe dopo avere ammesso che il «convincimento, sotto il profilo terapeutico,svolge la stessa funzione di un ricordo recuperato», Freud (1937) sembra tornaredi nuovo al suo modello teorico esplicito, quello ispirato dalle sue esperienzaneurologiche, quello che cerca comunque di attaccare l’efficacia della terapia adun episodio effettivo, ad un ricordo reale, e quindi ad una «traccia mnestica»:

«In alcune analisi sono stato colpito dal fatto che la comunicazione di unacostruzione palesemente azzeccata provocava negli analizzati un fenomeno sor-prendente e a tutta prima inesplicabile. Si presentavano alla loro mente ricordi viva-ci, da loro stessi definiti “più che mai vividi”, ma ciò che ricordavano non era l’e-vento che costituiva il contenuto della costruzione, bensì alcuni particolari che atale contenuto erano connessi: per esempio ricordavano con straordinaria nitidezzai volti delle persone nominate nella costruzione, oppure le stanze in cui qualcosa disimile avrebbe potuto succedere, oppure, procedendo ancora di un passo, le suppel-lettili di quelle stesse stanze di cui ovviamente la costruzione nulla poteva sapere.[…] La “spinta ascensionale” del rimosso, resa attiva dalla comunicazione dellacostruzione, aveva inteso portare alla coscienza quelle importanti tracce mnestiche;ma una resistenza era riuscita, se non proprio ad arrestare questo movimento, alme-no a spostarlo su oggetti adiacenti e di secondaria importanza» (ibid., 550).

Ora, non è affatto evidente perché questi presunti «ricordi» dovrebbero esse-re connessi a «tracce mnestiche», e non essere, più semplicemente, tentativi dicompiacere, da parte dei pazienti, il loro analista. Tenuto conto, poi, che si trattadi dettagli non connessi con il punto centrale della costruzione, è molto forte ildubbio sulla loro veridicità. Ma, ancora una volta, la questione è diversa, dalmomento che l’efficacia della costruzione, come ci dice lo stesso Freud, nondipende dalla presenza o meno di questi ricordi. In effetti questa aggiunta nonsembra avere altro scopo che ribadire, ma senza alcuna necessità interna, unmodello, quello neurologico (con il connesso modello espressivo-denotativo dellinguaggio), di cui si è appena ammessa la inutilità teorica. È questo, infine, ilFreud che Wittgenstein critica, e crediamo a ragione: «Freud pretende sempre di

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essere scientifico, ma in realtà offre una congettura, qualcosa che precede perfinola formazione di una ipotesi. Egli parla di superare una resistenza. Un’“istanza” ètratta in inganno da un’altra “istanza”. […] Si presume che l’analista sia più forte,sia capace di combattere e di superare l’inganno dell’istanza. Non c’è modo,però, di mostrare che il risultato generale dell’analisi non potrebbe essere “ingan-no”. […] Possiamo dire di aver messo a nudo la natura essenziale della mente?[…] L’intera questione non avrebbe potuto essere trattata diversamente?» (1966,129).

Crediamo che l’ultima domanda sia quella decisiva, «l’intera questione nonavrebbe potuto essere trattata diversamente?». Certo che avrebbe potuto esseretrattata in un altro modo, in molti modi diversi: «vi è, certo, la difficoltà di deter-minare quale sia la scena primitiva – se è la scena che il paziente riconosce cometale, o se è quella il cui ricordo realizza la cura. In pratica, i due criteri si confon-dono tra loro» (ibid., 140). La verità dalla terapia analitica, ci dice Wittgensteinche sembra più attento alla effettiva pratica dell’analisi di quanto non sia lo stessoFreud, non è nelle sue spiegazioni, ma nella sua straordinaria capacità di crearespazi di libertà. Al contrario, quando la psicoanalisi rimane prigioniera delloschema neurologico (o nelle sue versioni contemporanee, ad esempio quello rap-presentato dalle scienze cognitive; cfr. Cimatti, 2004), allora è forte il rischio ditrasformarla in un sapere mitologico, in uno pseudosapere, destinato o ad essereassorbito e fagocitato dalle neuroscienze, oppure a sopravvivere come una gene-rica ermeneutica: «Freud fa riferimento a vari miti antichi e pretende che le suericerche abbiano spiegato ora come sia potuto accadere che qualcuno abbia pen-sato o proposto un mito di quella sorta. In realtà Freud […] non ha dato una spie-gazione scientifica dell’antico mito: ha proposto un nuovo mito. Per esempio,l’attrattiva che esercita la suggestione di considerare ogni angoscia come la ripe-tizione dell’angoscia del trauma della nascita è solo l’attrattiva di una mitologia.“È tutto il risultato di qualcosa accaduto molto tempo fa”. Quasi come far riferi-mento a un totem» (1966, 139).

In questo Wittgenstein è veramente il più fedele «discepolo» di Freud, delFreud che abbatte i falsi miti, le ipocrisie, le sicurezze di cartapesta; ma poi si spin-ge più avanti del suo stesso maestro, perché applica questa operazione alla stessapsicoanalisi e alla filosofia, perché neanche questa può pretendere di essere unsuper-sapere, immune da quelle analisi che invece applica a tutti gli altri saperi:«tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli. E ciò significa non crearne dinuovi – magari in “mancanza di un idolo”» (2000, 88, 17).

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PER UNA TEORIA DELLA PAROLA CHE CURA

Il modello neurologico della mente (e la connessa logica chirurgica) sembraavere, comunque, un pregio: è un modello che ha una risposta alla domanda:quando e perché è efficace la cura analitica? Quando attraverso l’interpretazionedell’analista viene raggiunto il nucleo traumatico rimosso (di cui la controparteneurologica è la «traccia mnestica» nel tessuto cerebrale). La cura sarebbe effica-ce, secondo questo schematico modello ed elementare, quando la descrizionedell’analista è vera, nel senso che corrisponde ad un fatto realmente accaduto nelpassato del paziente (di cui la «traccia mnestica» costituirebbe, quindi, la testi-monianza materiale). Questo modello, che presuppone una concezione del lin-guaggio come sistema referenziale (segno ↔ oggetto), entra in crisi in manieradefinitiva quando Freud scopre: 1) che la vita mentale è largamente una vita deldesiderio e dell’immaginario: le «fantasie possiedono una realtà psichica in con-trasto con quella materiale, […] nel mondo delle nevrosi la realtà psichica èquella determinante» (Freud, 1915-17, 524), e 2) quando si rende conto che «laricostruzione esatta» degli «avvenimenti infantili dimenticati ha sempre un gran-de effetto terapeutico, e ciò indipendentemente da un’eventuale loro confermaobiettiva» (Freud, 1926, 383). Entra in crisi quando, in definitiva, Freud si rendeconto che l’analisi può essere efficace anche quando l’interpretazione è, propria-mente, non vera, perché non corrisponde ad alcuna esperienza «obiettiva»; quan-do, cioè, è o potrebbe essere, di fatto, falsa (falsa in quanto resoconto di un prete-so fatto realmente accaduto, ma non per questo meno efficace in quanto «rico-struzione esatta»). Si tratta, allora, di sviluppare una teoria della pratica psicoana-litica che sia in grado di superare questa radicale difficoltà, perché senza una teo-ria adeguata il rischio è davvero quello di una deriva ermeneutica, in cui tutto vabene purché funzioni.

Occorre partire, ancora una volta, da quanto effettivamente accade in unarelazione analitica. Qual è, alla fine, il fatto elementare dell’analisi? «Fra pazien-te e analista non accade nulla se non che parlano fra loro. L’analista non usa stru-menti, non esamina l’ammalato, non gli ordina medicine […]. L’analista riceve ilmalato in una data ora del giorno e lo lascia parlare, lo sta ad ascoltare, poi gli par-la a sua volta ed è l’ammalato che ascolta» (ibid., 355). Questo è il fatto dell’ana-lisi. È una relazione particolare, quella fra analista e paziente, una relazione tuttaumana (perché le relazioni animali non conoscono questa possibilità) che si sta-bilisce con le parole, una relazione che può curare con le parole. Certo, non basta-

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no le parole, ché altrimenti non ci sarebbe differenza con una chiacchierata conun amico, occorre che attraverso quelle parole si stabilisca una relazione partico-lare, il transfert. E occorre, ancora, che le parole dell’analista organizzino quelledel paziente in un quadro teorico coerente. Rimane il fatto fondamentale che lacura analitica è una cura verbale. Ma se si tratta fondamentalmente di parole,allora abbiamo bisogno di un modello del linguaggio completamente diverso daquello referenziale, da quello semplicistico basato sulla nozione di codice comeserie di associazioni segno ↔ oggetto. Freud ci dice che la parola dell’analistacura in quanto parola, non in quanto segno di qualcos’altro, appunto perché nonoccorre che quella parola, per essere efficace, per essere terapeutica, sia collegataad un oggetto, ad una «esperienza obiettiva», ad una «traccia mnestica». È pro-prio la parola che cura:

«[Ma] non c’è null’altro? Parole, parole e ancor sempre parole, come diceAmleto. […] E dice pure [il testo di Freud è un dialogo immaginario]: “Dunque sitratta di una specie di magia. Lei parla e ogni male si dilegua”. Esatto: sarebbemagia se potesse agire più rapidamente. […] [I] trattamenti analitici richiedonomesi e anni: una magia così lenta perde ogni carattere meraviglioso. Del resto nondobbiamo neppure disprezzare la parola. Essa è uno strumento potente, il mezzocon il quale ci comunichiamo i nostri sentimenti, la via attraverso la quale possiamoinfluire sul nostro prossimo. Le parole possono farci un bene indicibile e ferire nelmodo più sanguinoso. […] [L]a parola era […] in origine un sortilegio, un attomagico; ed essa ha tuttora conservato gran parte della sua antica efficienza» (ibid.,355-356).

Si tratta, allora, di sviluppare una teoria di questa parola terapeutica che èuna sorta di «atto magico». La prima mossa è abbandonare una volta per tutte ilmodello referenziale e comunicativo del linguaggio, secondo il quale è un codiceche associa segni ad oggetti. In questo modello c’è, sostanzialmente, un solo tipodi mossa linguistica, l’enunciato dichiarativo, che o corrisponde a come stanno lecose, e allora l’enunciato è vero, oppure no, e quindi è falso. Occorre sviluppareun modello del linguaggio che renda conto della molteplicità dei suoi usi, e quin-di della molteplicità dei criteri di correttezza, e scorrettezza, di quegli usi. Nelmodello del linguaggio che cerchiamo le parole non sono segni (Lo Piparo,2003), gli enunciati sono essi stessi azioni; in questo modello il linguaggio non èun riferire o un descrivere, ma soprattutto un fare. Il caso esemplare di parola che

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è essa stessa un fare è il performativo, come nell’enunciato «Sì [io ti sposo]»:«nel dire queste parole noi stiamo facendo qualcosa – cioè, ci stiamo sposando,piuttosto che raccontando qualcosa, e cioè che ci stiamo sposando» (Austin,1962, 15). In un esempio come questo il dire è letteralmente un fare, lo sposarsicoincide con il dire: «Sì [io ti sposo]» nelle circostanze appropriate. Per questo laparola non è più un segno, perché mentre un segno rimanda a qualcos’altro (l’og-getto a cui corrisponde, ad esempio), qui è la parola stessa che fa qualcosa, è laparola stessa l’azione. Secondo Austin il performativo non è che un caso esem-plare della connessione linguaggio-azione, perché tutto il linguaggio è, in gradi eforme diverse, azione. In ogni atto linguistico, per Austin, sono presenti tre com-ponenti: l’atto locutorio, cioè il fatto di «emettere certi suoni, pronunciare certeparole in una certa costruzione, e pronunciarle con un certo “significato”» (ibid.,71); l’atto illocutorio: «nell’eseguire un atto locutorio eseguiremo anche un attocome: fare una domanda o rispondere a essa; fornire una informazione o assicu-razione o un avvertimento; annunciare un verdetto o un’intenzione; pronunciareuna condanna; assegnare una nomina o fare un appello o una critica; compiereun’identificazione o dare una descrizione; e molti altri» (ibid., 74); l’atto perlo-cutorio: «dire qualcosa produrrà […] certi effetti […] sui sentimenti, i pensieri ole azioni di chi ci sente, o di chi parla» (ibid., 76). In un modello di questo tipo ladistinzione fra vero e falso – l’unica compatibile con la logica chirurgica delmodello referenziale del linguaggio – non è che un caso particolare di una distin-zione molto più generale fra atti linguistici felici, che quindi riescono, ed atti lin-guistici infelici, che per qualche ragione non sono riusciti ad avere gli effetti checi si poteva attendere (consapevolmente o meno) da essi.

Il problema della cura psicoanalitica si pone, allora, a partire da questa distin-zione. Non è la corrispondenza con una presunta «traccia mnestica» a giustificarel’eventuale riuscita della cura, infatti, così come, al contrario, la non corrispon-denza non impedisce alla cura di avere effetti benefici, di essere egualmente unabuona terapia. Non vale, in sostanza, l’equazione cura riuscita = vero (l’interpre-tazione individua un ricordo connesso ad una «traccia mnestica»), cura non riu-scita = falso (l’interpretazione non è riuscita ad individuare un ricordo rimosso, ea fortiori non c’è nessuna corrispondenza con una «traccia mnestica»). Si tratta,in sostanza, di pensare alla psicoanalisi come ad una speciale pratica curativa econoscitiva la cui riuscita non dipende dalla verità o falsità delle proprie asserzio-ni. Ma quando, e a quali condizioni, un atto linguistico può dirsi felice? Austinelenca una serie di condizioni:

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«[1]. Deve esistere una procedura convenzionale accettata avente un certoeffetto convenzionale, procedura che deve includere l’atto di pronunciare certeparole da parte di certe persone in certe circostanze, e inoltre, [2]. le particolari per-sone e circostanze […] devono essere appropriate per il richiamarsi alla particolareprocedura cui ci si richiama. [3]. La procedura deve essere eseguita da tutti i parte-cipanti sia correttamente che [4]. completamente. [5]. Laddove, come spessoavviene, la procedura sia destinata all’impiego da parte di persone aventi certi pen-sieri o sentimenti, o all’inaugurazione di un certo comportamento consequenzialeda parte di qualcuno dei partecipanti, allora una persona che partecipa e quindi sirichiama alla procedura deve di fatto avere quei pensieri o sentimenti, e i parteci-panti devono avere intenzioni di comportarsi in tal modo, e inoltre [6]. devono inseguito comportarsi effettivamente in tal modo» (ibid., 17).

Un atto linguistico felice rispetta queste condizioni, mentre «se noi trasgre-diamo una qualunque (o più) di queste sei regole, il nostro enunciato performati-vo sarà (in un modo o nell’altro) infelice» (ibid.). Che succede nel caso della curadelle parole, nella terapia psicoanalitica?: 1) La «procedura convenzionale» èquella della seduta, in cui «l’analista riceve il malato in una data ora del giorno elo lascia parlare, lo sta ad ascoltare, poi gli parla a sua volta ed è l’ammalato cheascolta» (Freud, 1926, 355). 2) Le «particolari persone e circostanze» sono, da unlato la cornice spazio-temporale della seduta, l’analista ed il suo paziente dall’al-tro. 3) La «procedura» è lo specifico e particolare metodo psicoanalitico, e cioè lelibere associazioni, il racconto dei sogni con le connesse «costruzioni» analiti-che, l’«attenzione fluttuante» da parte dell’analista (Freud, 1912, 533), il «tran-sfert» che è «il vero motore della cura. Il contenuto intellettuale delle nostre spie-gazioni non può servire, dato che il malato […] crede ad esso tanto poco quanto inostri critici del mondo scientifico. Il nevrotico prende parte al lavoro perché hafiducia nell’analista; e ha fiducia nell’analista in forza di una particolare imposta-zione emotiva che egli acquista verso la persona dell’analista» (Freud, 1926,391). 4) La procedura viene svolta «completamente» proprio perché, attraverso iltransfert ed il contro-transfert, si stabilisce una relazione effettiva fra analista epaziente, dal momento che la semplice e neutrale informazione sulle presuntecause rimosse della sua nevrosi non riuscirebbe in alcun modo ad avere un effettoterapeutico: «è un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenzesuperficiali, quello secondo cui l’ammalato soffrirebbe per una specie d’insipien-za, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla con-

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nessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienzedella sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale “non sapere”per sé stesso il fattore patogeno […]. Se la conoscenza dell’inconscio fosse tantoimportante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, bastereb-be per la guarigione che l’ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri»(Freud, 1910, 329). Ma questo ancora non è sufficiente, perché la parola che curacura effettivamente soltanto se è in grado di attribuire un senso alla sofferenzadel paziente. Freud è chiaro su questo punto, non è il «“non sapere” per sé stessoil fattore patogeno», ma quello che quella mancanza di consapevolezza può avereprovocato in modo nascosto, per le conseguenze implicite, e quindi fuori del con-trollo volontario, che può avere avuto nella vita del paziente. L’obiettivo dellacura, e qui siamo al punto 6, è infatti «la libertà spirituale che distingue […] l’atti-vità psichica cosciente da quella inconscia» (Freud, 1914, 373). E questa «libertàspirituale» è impedita dal fatto che «colui che è soggetto all’ossessione compial’azione senza conoscerne il significato […]. Solo mediante gli sforzi della tera-pia psicoanalitica la persona diviene cosciente del significato della sua azioneossessiva e insieme dei motivi che la costringono ad essa» (Freud, 1907, 345).Ma che significa, propriamente, che ciò di cui soffrirebbe il malato consistereb-be, sostanzialmente, nel fatto che la sua sofferenza sarebbe per lui priva di senso?Qui è pienamente evidente l’effetto performativo della «costruzione» analitica,che non ha lo scopo (o lo ha, come dice Wittgenstein, soltanto in un senso mitico)di riscoprire il passato, quanto piuttosto di comporre in modo unitario quel chenel paziente è scisso e subito come una «azione ossessiva», e per questa ragionesentito in modo doloroso: «l’oblio» del nevrotico, infatti, equivale «a un annulla-mento di connessioni, a un disconoscimento di concatenazioni causali, a un iso-lamento di ricordi» (Freud, 1914, 355). Così, di fronte ad «un singolo sintomo»,ad esempio, «l’analisi serve a spiegare questo sintomo», sforzandosi di «afferra-re, secondo un certo ordine, ora l’una ora l’altra parte del significato del sintomo,finché si riesce a ricomporle tutte in unità» (Freud, 1911, 519; questa è quella cheWittgenstein, come abbiamo visto, chiama «rappresentazione perspicua», laquale «media la comprensione, che consiste appunto nel “vedere le connessioni”.Di qui l’importanza del trovare anelli intermedi»; Wittgenstein, 1967, 29).

Ma la «costruzione» dell’analista, presa nel suo insieme, è comunque vera?Seguendo Austin abbiamo scoperto come la coppia vero-falso sia soltanto unaspecie del più comprensivo genere atto linguistico felice-atto linguistico infelice.La riuscita di un atto linguistico non dipende mai, soltanto, dal suo essere vero

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(così come la sua non riuscita dal suo essere falso), e questo vale, in particolare,per quel particolare atto linguistico che è la terapia psicoanalitica. È performativaanche una asserzione (cioè un enunciato che dichiara che le cose stanno così ecosì, e che quindi è vero o falso), così come anche un rito è comunque, in quantoatto linguistico – che quindi aspira alla felicità – implicato con la situazione in cuiviene celebrato: «è vero o falso che Belfast è a nord di Londra? Che la galassia hala forma di un uovo fritto? Che Beethoven era un ubriacone? Che Wellington vin-se la battaglia di Waterloo? Quando troviamo affermazioni ci sono vari gradi edimensioni di successo: le affermazioni “calzano” i fatti in modo più o meno ela-stico, e in modi diversi in occasioni diverse e quando si hanno scopi e intentidiversi» (Austin, 1970, 124). Un atto linguistico è felice se rispetta le sei condi-zioni elencate da Austin; non basta che sia vero, che cioè si possa mettere in corri-spondenza con i fatti, perché sia un atto linguistico efficace, il che significa chepuò essere efficace anche un atto linguistico che non corrisponde ai fatti (senzache questo implichi che debba necessariamente essere falso; di una preghiera, adesempio, non ha senso chiedersi se sia vera o falsa). L’efficacia della cura (la«libertà spirituale») non dipende dalla verità della «costruzione» così come, loabbiamo visto, l’inefficacia dalla sua eventuale falsità. Nel modello referenzialedel Freud neurologo il livello della verità-falsità collassa su quello della felicità-infelicità (nel senso di Austin). In realtà «non sembra esserci alcuna buona ragio-ne per cui all’asserire debba essere riconosciuta una posizione sui generis» (234).Più in generale, il modello di Austin, che poi è quello del Wittgenstein delleRicerche filosofiche, quello che nella nostra ipotesi controfattuale permette aFreud di adeguare, alla fine della sua carriera scientifica, la sua teoria metapsico-logica ai risultati dell’esperienza clinica, non assegna alcun privilegio, comevisto, alle asserzioni rispetto agli altri atti linguistici. Si torna, con questo model-lo, al fatto elementare della relazione analitica, in cui «fra paziente e analista nonaccade nulla se non che parlano fra loro». Questa è la parola che cura, e cura per-ché riesce ad elaborare una «costruzione» possibile e convincente in cui trovanoposto le parole e le sofferenze del paziente, le eventuali esperienze traumaticheche potrebbe aver dimenticato, come quelle esperienze che la teoria analiticaprevede che accadano, anche se il paziente non le ricorda (e che forse non ha maivissuto). L’aspetto essenziale di queste «costruzioni» è la loro coerenza, non laloro verità o falsità (si tratta di «costruzioni» che si possono dire vere rispetto allateoria che le postula e si aspetta di incontrarle): «l’impressione che sempre siriceve è che tali avvenimenti infantili siano in qualche modo richiesti come qual-

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cosa di necessario, appartenente al nucleo essenziale della nevrosi. Se fanno par-te della realtà, tanto meglio; se la realtà non li ha forniti, allora vengono elaboratiin base ad accenni e completati con la fantasia. Il risultato è lo stesso, e a tutt’ogginon siamo riusciti a dimostrare una diversità di conseguenze a seconda che la par-te maggiore in questi avvenimenti infantili spetti alla fantasia oppure alla realtà»(Freud, 1915-17, 526).

Rimane da analizzare il punto [5] dell’elenco di Austin, che sembra avere ache fare con gli stati interni di chi partecipa all’atto linguistico, in particolare conquelli dell’analista (il transfert sembra invece una condizione essenziale per ilpaziente, e vedremo fra poco perché). È necessario che chi prende parte allasituazione analitica provi determinati stati interni? Qui sarà opportuno distingue-re fra una necessità psicologica ed una necessità che potremmo chiamare,seguendo Wittgenstein, grammaticale. Quello che si richiede, per partecipare adun atto linguistico in modo competente, affinché l’atto nel suo complesso risultifelice, sembra essere, più che la necessità psicologica quella grammaticale.Come a dire, non sembra rilevante quello che l’analista prova, ad esempio, rispet-to al suo paziente, perché il suo lavoro analitico proceda in modo soddisfacente.Quello che sembra importante è che l’analista segua le mosse previste dalla tecni-ca psicoanalitica. I suoi stati interni, in questo senso, sono rilevanti da un punto divista grammaticale, non psicologico. Conta che segua la tecnica, che faccia quelche deve fare quando è il caso di farlo, non che provi certe sensazioni. Il puntodiventa forse più chiaro ritornando al passo delle Ricerche filosofiche in cui Witt-genstein si pone la stessa questione (proposizione che abbiamo già incontrato):«supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamia-mo “coleottero”. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice disapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero – Ma potreb-be ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. […] Ma sup-poniamo che la parola “coleottero” avesse tuttavia un uso per queste persone![…] La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco lingui-stico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuo-ta» (1953, I, § 293). Possiamo partecipare in modo efficace al «gioco linguistico»del coleottero anche se nella nostra scatola privata non abbiamo un coleottero;per partecipare con successo al gioco basta agire come è il caso di comportarsi inquesto particolare gioco. Lo stato interno psicologico non è grammaticalmenterilevante, non è necessario per partecipare con successo al gioco linguistico: lafelicità dell’atto linguistico in cui compare non dipende da esso. Ma è proprio

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quello che Freud ci ha appena detto: certi «avvenimenti infantili» (attenzione, sitratta di stati interni grammaticali) sembrano «richiesti come qualcosa di neces-sario. Se fanno parte della realtà, tanto meglio [in questo caso sarebbero statiinterni psicologici]; se la realtà non li ha forniti, allora vengono elaborati in basead accenni e completati con la fantasia. Il risultato è lo stesso». Come in tutte lepratiche scientifiche le entità di base sono, in realtà, non le prime ad essere incon-trate, ma quelle che si trovano, al contrario, alla fine della costruzione teorica.Quel ricordo deve esserci, che ci sia o meno nella memoria del paziente, lo preve-de la teoria psicoanalitica; poiché la sua «esistenza» «è compatibile con il corpodelle altre affermazioni accettate, allora lo si può dire ben verificato. In effetti sipuò mettere in dubbio se questo tipo di verifica si possa distinguere nettamente daqualche provvedimento più diretto; infatti […] il concetto di osservazione “diret-ta” non è affatto chiaro» (Goodman, 1951, 199).

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che questa conclusione, «il risultatoè lo stesso» non è affatto una dichiarazione di irrilevanza delle teoria, la rinunciaad ogni criterio di scientificità, come non equivale ad un abbraccio mortale conl’ermeneutica: significa, però, che la psicoanalisi deve elaborare una sua specificateoria della propria pratica, e che questa teoria non può basarsi sul modello refe-renziale e comunicativo del linguaggio (in un modello del genere la psicoanalisi èinutile). L’efficacia della parola che cura si può, allora, spiegare in un quadro teori-co in cui è il linguaggio stesso l’agente della guarigione, perché, come Freud ciricorda «la parola era […] in origine un sortilegio, un atto magico; ed essa ha tutto-ra conservato gran parte della sua antica efficienza». Qui l’accostamento allamagia non deve suonare come una diminuzione del valore scientifico della psicoa-nalisi, al contrario, significa riconnetterla alle più antiche modalità di cura specifi-camente umane. Nelle culture tradizionali, prima ancora dell’invenzione dellascrittura, la cura è del tutto impastata di magia. La questione dell’efficacia di que-ste cure è antropologicamente analoga al problema dell’efficacia della terapiapsicoanalitica: «è chiaro che l’efficacia della magia implica la credenza nellamagia […]: c’è, anzitutto, la credenza dello stregone nell’efficacia delle sue tec-niche; poi, quella del malato curato o della vittima perseguita, nel potere dellostregone stesso; infine, la fiducia e le esigenze della opinione collettiva che for-mano ad ogni istante una specie di campo di gravitazione in seno al quale si defi-niscono e si collocano le relazioni fra lo stregone e quelli che sono da lui stregati»(Lévi-Strauss, 1964, 190). L’efficacia della stregoneria non si spiega nello stessomodo in cui possiamo dare conto dell’efficacia terapeutica di un farmaco; qui

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sono in gioco quantità, misure, percentuali (che, al contrario, presuppongonoscetticismo e sfiducia).

Con la magia il fattore essenziale è la fiducia nell’efficacia della stregoneriastessa. È necessario, cioè, perché l’azione magica abbia successo, perché sia feli-ce (nei termini di Austin), che colui al quale è rivolta si aspetti che quell’azionesia efficace: come a dire, l’efficacia della singola azione magica presuppone uncontesto pubblico in cui quell’efficacia è considerata possibile e in qualche misu-ra fuori discussione. In questo senso la relazione di transfert rappresenta una ver-sione delimitata e circoscritta (una versione “scientificamente” accettabile,potremmo dire) della stessa situazione di base: la cura psicoanalitica, infatti, pre-suppone «che il suo attaccamento [del malato all’analista] (traslazione) sia giun-to ad un punto tale da far sì che il rapporto sentimentale con lui renda impossibileil rinnovarsi della fuga» (Freud, 1910, 329-330).

È questa dimensione radicalmente intersoggettiva, in cui sono impastati inmodo inestricabile conscio ed inconscio, attenzione razionale ed emozione,parola e rito che la logica chirurgica del modello referenziale del linguaggio nonriesce a cogliere. Per questo l’azione magica è antropologicamente affine a quel-la psicoanalitica: in entrambi i casi la sofferenza di una persona trova una forma,una ricomposizione di senso, mediante l’azione performativa di un’altra persona,lo stregone o lo psicoanalista: «lo sciamano fornisce alla sua ammalata un lin-guaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati,e altrimenti non formulabili. E proprio il passaggio a questa espressione verbale(che permette, allo stesso tempo, di vivere in forma ordinata e intelligibile unaesperienza attuale, ma che sarebbe, senza quel passaggio, anarchica e ineffabile)provoca lo sbloccarsi, in senso favorevole, della sequenza di cui l’ammalata subi-sce lo svolgimento» (Lévi-Strauss, 1964, 222).

Il rito sciamanico, la «costruzione» dello psicoanalista, su basi teoriche com-pletamente diverse, ma su uno sfondo antropologico identico, cercano di ricon-durre ciò che è privato, quindi ineffabile e doloroso, nell’ambito dello spaziopubblico, condiviso. Qui il dolore prende oggettività, non è più solo un tormentoindividuale, e come tale cieco, insensato, diventa dolore accessibile, dolore con-divisibile – attraverso la mediazione del linguaggio – e può così spalmarsi sul-l’intera collettività, proprio perché l’azione dello sciamano/psicoanalista lo hareso comprensibile a tutti, e quindi, in primo luogo, a colui che altrimenti lo vive-va in modo coatto. In entrambi i tipi di azioni l’evento centrale è il rito performa-tivo, la magia dello stregone e la «costruzione» dello psicoanalista, che mirano a

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«provocare una esperienza» nella persona malata, ed «entrambe vi riesconocostruendo un mito che il malato deve vivere, o rivivere» (224). Qui il rito magicovale come performativo, come parola che cura, e lo stesso accade, sullo sfondodel transfert, con la «costruzione» psicoanalitica, la cui efficacia va valutata nonsul suo astratto valore e impersonale di verità, ma proprio sulla sua capacità ditrasformare l’essere dolore in provare dolore, il privato in pubblico, l’implicito inesplicito.

Certo, accettare questo paragona significa ridefinire completamente il cam-po di appartenenza della psicoanalisi, anche rispetto ad alcune esplicite afferma-zioni di Freud (quelle del Freud neurologo). Se la psicoanalisi decide di rifiutarequesta ascendenza, collocandosi nel campo delle scienze naturali (comprese lesue incarnazioni più recenti, le cosiddette scienze cognitive; cfr. Cimatti, 2004),quelle dominate dall’apparato metodologico centrato sulla nozione di causa effi-ciente, allora non c’è per lei alcun futuro praticabile: in questo quadro metodolo-gico contano sono le cause materiali, e il transfert, ad esempio, non è quantifica-bile né misurabile. E ciò che non rientra nel campo logico del misurabile sempli-cemente non esiste. Ma senza transfert non c’è più psicoanalisi. In quel quadrometodologico si ammettono (almeno in linea di principio) solo asserzioni (chesono o vere o false), che nella psicoanalisi – come abbiamo visto – non trovanoun campo d’applicazione privilegiato. Il performativo mal si adatta alle scienzenaturali, almeno se naturale viene inteso semplicemente come sinonimo dimateriale:

«Dal fatto che lo sciamano non psicoanalizzi il suo malato si può quindi con-cludere che la ricerca del tempo perduto, considerata da taluni come la chiave dellateoria psicoanalitica, è solo una modalità […] di un metodo più fondamentale, chebisogna definire senza far ricorso all’origine individuale o collettiva del mito. Laforma mitica, infatti, precede il contenuto del racconto. […] Questa forma modernadella tecnica sciamanistica, che è poi la psicoanalisi, trae quindi suoi caratteri spe-cifici dal fatto che, nella civiltà meccanica, non c’è più posto per il tempo mitico senon nell’uomo stesso. Da questa contrapposizione, la psicoanalisi può desumereuna conferma della sua validità, oltre che una speranza di approfondire le sue basiteoriche, e capire meglio il meccanismo della sua efficacia, attraverso un confrontodei suoi metodi e dei suoi fini con quelli dei suoi grandi predecessori: gli sciamani egli stregoni» (Lévi-Strauss, 1964, 229).

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PER UNA PSICOLOGIA SENZA PSICHE

Da ultimo proveremo a sviluppare per qualche tratto l’idea che dà il titolo aqueste pagine, una mente senza profondità, una mente ad una sola dimensione,una mente la cui vita sia tutta in ciò che appare, che però – evidentemente – non èuna apparenza nel senso che sarebbe una mera apparenza (come se soltanto sottodi essa ci fosse la sostanza): no, la mente che ci interessa è un fenomeno, appare, etutta lì, e per questo non si spiega, perché al di là di essa non c’è più nulla, non c’èné mente né vita mentale: «limitarsi a descrivere è così difficile perché si credeche per comprendere i fatti sia necessario integrarli. È come se uno vedesse unoschermo su cui sono sparse delle macchie di colore e dicesse: così come sono,sono inintelligibili; acquisteranno senso solo se le si integra in una figura. – Men-tre quello che io voglio dire è, invece: è tutto qui (Se lo integri, lo snaturi)» (Witt-genstein, 1980, § 257).

A noi interessano quelle macchie di colore che si vedono sullo schermo di cuiparla Wittgenstein, nient’altro. Interessa una psicologia senza psiche, perché lapsiche è nascosta, è profonda, è invisibile, mentre la psicologia che Freud leggein Wittgenstein, e che crediamo si possa intuire in alcune sue pagine (che sia unaoperazione spericolata lo sappiamo, ma proviamo a vedere dove ci porta), è unapsicologia senza profondità, la psicologia di una mente – la mente umana – chevive soltanto nella relazione con gli altri, finché quella relazione è possibile, enella misura in cui è possibile. Si tratta di pensare una psicologia che non conoscenulla come pensieri e stati interni ed emozioni e sensazioni; tutto questo c’è, sec’è, soltanto come effetto del partecipare di questa mente ai «giochi linguistici».Sì, perché questa psicologia senza psiche è inseparabile dai «giochi linguistici»(Cimatti, 2004), è una psicologia radicalmente pubblica (una psicologia indivi-duale, secondo questo approccio, propriamente non si dà, così come l’espressio-ne «psicologia sociale» è ridondante), è una psicologia che non ha antecedentievolutivi (la psicologia evoluzionistica può forse dirci qualcosa sulla mente deglianimali non umani, ma non ha nulla da dire, se non banalità o errori, sulla menteumana).

Il punto di partenza per questa psicologia senza psiche, tuttavia, non può cheessere Freud, in particolare il Freud che scopre la particolarissima costituzionelogica dell’inconscio: «assenza di reciproca contraddizione, processo primario(mobilità degli investimenti), atemporalità e sostituzione della realtà esterna conla realtà psichica sono i caratteri […] [del] sistema Inc[conscio]» (Freud, 1915,

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71). Lo sviluppo più conseguente e articolato delle conseguenze affatto parados-sali di questo peculiare regime logico del mondo inconscio lo dobbiamo a MatteBlanco, secondo il quale l’inconscio è retto globalmente da un principio di sim-metria in base al quale, ad esempio, «se Giovanni è padre di Pietro, Pietro è padredi Giovanni» (Matte Blanco, 1975, 44). Ma allora, nell’inconscio, se ogni carat-teristica di Giovanni è contemporaneamente anche una caratteristica di Pietro, eviceversa, com’è possibile distinguere Giovanni da Pietro? Propriamente nonpossono essere distinti, nell’inconscio non esistono entità definite e individualiz-zabili. In un ambito logico retto dal principio di simmetria, pertanto, non è possi-bile che si diano differenze spaziali; infatti «per il principio di simmetria, ogni-qualvolta a sta a destra di b, b sta anche a destra di a, e ancora, ogni volta che undato punto è parte di una data linea, la linea è parte del punto, cioè, ogni punto èidentico ad ogni altro punto e a tutta la linea. In altre parole, se sono disponibilisolo relazioni simmetriche, il concetto fisico-matematico di “linea” scompare.Lo stesso si può dire dello spazio di due, tre o più dimensioni. Generalizzando,possiamo dire che se sono disponibili soltanto relazioni simmetriche, non puòesserci spazio nel senso fisico-matematico del termine» ( ibid., 47). E lo stesso siapplica al tempo, dal momento che «non può esserci alcuna successione» (ibid.,44), perché non è possibile una successione se non si possono distinguere imomenti successivi della serie; ma senza serie non c’è nemmeno possibilità didistinguere il prima e il dopo, e senza questa distinzione «il tempo, nel senso fisi-co-matematico, non può esserci» (ibid., 45). Il risultato, che possiamo solo for-mulare ma in nessun modo comprendere, perché va contro il naturale modo dipercepire e pensare della mente umana (che pensa sempre qualcosa) è che «ilprincipio di simmetria come unico e onnicomprensivo principio logico dissolvecompletamente ogni logica. Possiamo anche dire, per descrivere il risultato finaledella sua azione, che l’applicazione piena del principio di simmetria dà origine adun insieme infinito onnicomprensivo in cui non si può distinguere nulla» (ibid.,62). Per questo vincolo logico, Freud (che aveva studiato con Brentano, che ave-va fatto della intenzionalità – cioè dell’essere diretti verso un oggetto – la caratte-ristica specifica del pensare) osservava coerentemente che «in sé e per sé i pro-cessi inconsci sono inconoscibili» (Freud, 1915, 71). Se conoscere, infatti, signi-fica individuare un oggetto di conoscenza, e se individuare significa distinguerlodagli altri possibili oggetti di conoscenza, siccome questa operazione nell’incon-scio è logicamente impossibile (perché è retto dal principio di simmetria), alloral’inconscio è inconoscibile in linea di principio: «tutte le caratteristiche dell’in-

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conscio, a differenza del pensiero, tendono ad unire e a fondere cose che per ilpensiero cosciente sono differenti e del tutto distinguibili l’una dall’altra» (MatteBlanco, 1988, 100). Conclusione, che suonerà sorprendente, ma che è inevitabilese si segue il ragionamento impostato da Freud: non esistono oggetti inconsci.Ma questo appunto significa che non c’è nulla di profondo nella psiche, nulla dinascosto, semplicemente e propriamente perché non c’è nulla, nell’inconscio, didelimitato e di individualizzabile (propriamente l’espressione «oggetto incon-scio» è un ossimoro). L’archeologo della psiche, se anche riuscisse a spingersinel campo dell’inconscio, non vi troverebbe né soprattutto potrebbe trovarvialcunché. Ma se non c’è nulla da trovare o di trovabile, non ci sarà nemmeno nul-la da portare in superficie, né ci sarà nulla da esprimere, nulla da esternare. Nulla.Cominciamo a capire perché la psicologia è monodimensionale, perché è priva dipsiche, perché non ha un sotto, e senza un sotto non c’è nemmeno un sopra: tuttoquello che della psiche ci interessa è la sua manifestazione, non c’è altro – logica-mente – da cercare.

Scartiamo subito, intanto, un equivoco, che questo tipo di impostazionepotrebbe far sorgere: la psicologia che stiamo proponendo non ha nulla a chespartire con il comportamentismo, quella curiosa teoria psicologica secondo laquale la mente non esiste (qui non si sostiene affatto questo, il punto che ci inte-ressa è lo statuto logico della psiche unidimensionale, non la sua esistenza, chenon si discute): «perché mai dovrei negare che c’è un processo mentale? – Sol-tanto, “Adesso ha avuto luogo in me il processo mentale del ricordare […]” nonvuol dire nient’altro che: “Adesso mi sono ricordato che […]” Negare il processospirituale vorrebbe dire negare il ricordare; negare che qualcuno si ricordi mai diqualcosa» (Wittgenstein, 1953, I, § 306). Il punto che interessa è che non c’èseparazione fra (presunto) evento mentale del ricordo ed il ricordare vero e pro-prio, così come «le parole “sono felice” equivalgono ad un comportamento digioia», e non ad una descrizione di un anteriore e privato processo interiore. Inquesto senso la psicologia che stiamo descrivendo, la psicologia che Wittgensteinci fa immaginare, e che Freud forse delinea alla fine della sua carriera scientifica(naturalmente solo per il Freud controfattuale che legge il filosofo austriaco), èuna psicologia senza profondità, in cui l’evento mentale è contemporaneo edinseparabile dal «gioco linguistico» in cui appare, in cui diventa manifesto. Ilpunto essenziale è che prima di questa apparizione non c’era, da un punto di vistalogico, alcun fenomeno psichico, non era nascosto da nessuna parte; semplice-mente non c’era. Per questo a Wittgenstein stanno tanto a cuore le apparenze,

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perché letteralmente non c’è altro, se è la vita umana che ci interessa. Tutto que-sto diventa forse più evidente se ci si pone questa domanda: come si impara a par-lare dei propri (presunti) stati interni?:

«In qual modo le parole si riferiscono a sensazioni? – Qui sembra che non cisia nessun problema: non ci capita tutti i giorni di parlare di sensazioni e di nomi-narle? Ma come viene istituita la connessione tra il nome e il nominato? La doman-da è identica a quest’altra: come impara un uomo il significato dei nomi di sensa-zioni? Per esempio, della parola “dolore”? Ecco qui una possibilità: Si colleganocerte parole con l’espressione originaria, naturale, della sensazione, e si sostituisco-no ad essa. Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti gli parlano e gli insegnanoesclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comporta-mento del dolore. “Tu dunque dici che la parola ‘dolore’ significa propriamentequel gridare?” – Al contrario; l’espressione verbale del dolore sostituisce, nondescrive, il grido» (ibid., § 244).

Il punto essenziale è che «l’espressione verbale del dolore sostituisce, nondescrive, il grido». Il modo umano di vivere l’esperienza del dolore è quello cheprevede la partecipazione al «gioco linguistico» del dolore. In questo gioco ildolore non viene descritto mediante la parola «dolore» (come se potesse esseredistinto il dolore dal «dolore», lo psichico dal verbale, l’interno dall’esterno), èl’esperienza del dolore che è inseparabile da quella del manifestarlo verbalmen-te: dire «che dolore!» è già vivere l’esperienza del dolore.

Ma tutto questo non implica, alla fine, il trasformare il campo dello psichico inqualcosa di puramente esteriore, nel tagliare ogni contatto con il campo del corpoe, attraverso questo, dell’inconscio? Una obiezione come questa presuppone,ancora una volta, quel modello neurologico del mentale che fin dall’inizio di que-sto lavoro stiamo cercando di allontanare da noi. Solo in un modello siffatto, che sibasa sulla distinzione fra interno ed esterno, il linguaggio è uno strumento diespressione. Ma se, con Freud e Matte Blanco, scopriamo che nell’inconscio, pro-priamente, non c’è nulla, una obiezione come questa perde ogni efficacia, perchéora non c’è proprio più nulla da esprimere, da tirare fuori, da comunicare. Il cam-po dello psichico prende forma (appare, appunto) nel momento in cui entra nel«gioco linguistico»: né prima (ché prima di questo apparire non c’era nulla daesprimere) né dopo (ché un gioco che non viene giocato semplicemente non esistepiù): «“Non so che cosa stai pensando. Dimmi che cosa pensi!” – Vuol dire all’in-

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circa: “Parla!”» (Wittgenstein, 1980, § 585). In questa prospettiva il campo del lin-guaggio, il campo del manifesto, non esaurisce il campo del reale, che tuttavia sidelinea come una sorta di «resto» (Recalcati, 1995) dell’operazione attraverso cuiil simmetrico si individua nell’asimmetrico. La logica che individua, che assegnauna collocazione agli oggetti, deve compiere questa operazione su uno sfondo (ilcampo impensabile e indicibile del simmetrico) che non è esauribile, che sempreeccederà le sue risorse di articolazione. La psicoanalisi non è una ermeneutica (perla quale linguaggio = mondo) per questa ragione, perché è lo spazio del senso chegenera, nella sua stessa dialettica, quello del non senso, ché il simmetrico è – para-dossalmente – l’effetto dell’asimmetrico: «parlare di essere simmetrico è già unmodo asimmetrico di delinearlo» (Matte Blanco, 1975, 117).

Ma che rimane, allora, del campo psichico interno, in questa descrizione?Non rimane comunque il rischio di svuotare di ogni vita questa psicologia? Chene è, alla fine, delle emozioni? Sarà ancora Matte Blanco a tracciare una stradapossibile: «ogni volta che ci troviamo di fronte ad una struttura bi-logica siamo difronte al fatto che la stessa realtà viene trattata simultaneamente da un lato comese fosse divisibile o eterogenea, formata da parti, e dall’altro come se fosse una eindivisibile» (Matte Blanco, 1988, 83). L’animale umano si colloca esattamenteall’intersezione, impensabile da un punto di vista logico, fra il campo del princi-pio di simmetria – che non conosce né spazio né tempo, e quindi non conosceoggetti distinti – e quello asimmetrico, che invece identifica e distingue.

Le emozioni sono strutture logiche che si trovano all’intersezione fra questidue campi dell’esperienza umana: in quanto simmetriche sono totalizzanti, nonpersonali (nel campo simmetrico non soltanto non ci sono oggetti, non c’è nem-meno soggetto, ché non ci può essere quest’ultimo senza i primi), in quanto asim-metriche, sono personali e individualizzabili: «esiste nell’intima struttura del-l’essere umano un’antinomia fondamentale risultante dalla co-presenza di duemodi di essere che sono tra loro incompatibili e, tuttavia, co-esistono e appaionoinsieme nello stesso oggetto, senza mai fondersi in un concetto unitario piùampio che li comprenda entrambi. In tal senso sono come l’azoto e l’ossigenonell’aria: insieme e, tuttavia, separati e mai combinati a formare biossido di azo-to. Ciò è incomprensibile per il nostro pensiero normale» (ibid., 81). L’emozionevive e appare nel momento in cui il simmetrico entra in contatto con l’asimmetri-co, ma può vivere ed apparire soltanto finché questa intersezione si mantiene.

Qui il bambino dell’esempio di Wittgenstein grida «dolore», e qui appare ilsuo psichico, ma solo qui, nel partecipare al «gioco linguistico». In questo senso si

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tratta di una psiche monodimensionale, perché il campo del simmetrico non hadimensioni (non è una struttura spaziale), e perché il campo asimmetrico ha l’uni-ca dimensione del suo apparire. Il simmetrico non si trova sotto l’asimmetrico per-ché l’emozione è comunque una certa emozione, è comunque un oggetto («il sen-timento non è pensiero logico normale ma contiene o esprime anche un certo tipodi pensiero bi-logico»; ibid., 88), mentre nel simmetrico nulla di simile può darsi.La psiche monodimensionale non è, allora, fredda, al contrario, ma il suo calorepuò scaldare – anche chi lo prova, appunto perché quel calore se rimane confina-to nel campo del simmetrico non ha nessuno da riscaldare – soltanto nel momen-to in cui prende forma e vita, cioè quando si manifesta, nel «gioco linguistico»;qui, appaiono contemporaneamente l’emozione e chi la prova, la parola ed il pen-siero, l’oggetto e colui per il quale quell’oggetto è un oggetto. In questo sensol’emozione non rappresenta affatto, come certa ideologia evoluzionistica vorreb-be, lo strato più antico e profondo della mente umana, al contrario, l’emozione èpossibile solo per quell’animale che può vivere l’esperienza dei «giochi linguisti-ci», in cui simmetrico e asimmetrico entrano in contatto, in cui il simmetrico sidifferenzia e individualizza, e gli oggetti dell’asimmetrico sfumano nel simme-trico. Questo snodo fondamentale è quello in cui il preindividuale (e naturalmen-te quel pre - vale solo a posteriori) si individua; e siccome l’individuazione uma-na avviene a livello sociale, come succede al bambino dell’esempio di Wittgen-stein, che si scopre capace di provare emozioni quando impara a giocare il «giocolinguistico» del dolore, prima era emozione, poi ha emozioni; allora le emozionisono un fenomeno evolutivo tardivo, un fenomeno sociale, letteralmente una for-ma sociale: «l’emozione è incomprensibile in base all’individuo, perché non haradici nelle strutture o nelle funzioni dell’individuo in quanto individuo»(Simondon, 1989, 169). Una spiegazione evolutiva delle emozioni, come mezzodi adattamento all’ambiente, è autocontraddittoria: «se si riconduce l’emozioneai comportamenti che garantiscono la sicurezza dell’individuo, si constata che,emozionandosi, l’essere si disadatta non meno di quanto si adatti. Se l’emozionepone alla psicologia problemi così difficili da risolvere, è perché non la si puòspiegare in funzione dell’essere che si reputa del tutto individuato» (ibid.). Edove cercare, allora e in conclusione, le emozioni, il tesoro privato dell’indivi-duo? Se si abbandona il campo dell’interiorità, campo che come abbiamo visto èprivo di ogni realtà, è affatto vuoto, rimane – paradossalmente, se teniamo contodel nostro punto di partenza, la neurologia di Freud e un pensatore così lontanoda preoccupazioni politiche come Wittgenstein – proprio il campo dell’azione

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sociale, lo spazio della politica: «l’emozione […] è incompleta e incompiuta fin-ché non si realizza nell’individuazione del collettivo; non esiste effettivamenteemozione al di fuori del collettivo […]. A ben vedere, l’emozione non è disorga-nizzazione del soggetto, ma innesco di una nuova strutturazione che potrà stabi-lizzarsi solo nel collettivo. L’istante cruciale dell’emozione è l’individuazionedel collettivo; dopo questo istante, o prima di esso, non si può trovare l’autenticaemozione nella sua completezza. […] L’emozione non è, dunque, socialità impli-cita o individualità sregolata, è ciò che, nell’essere individuato, serba la possibi-lità di partecipare a individuazioni ulteriori, che incorporino la realtà preindivi-duale sussistente nel soggetto» (ibid., 170).

La psicologia senza psiche che abbiamo cominciato ad abbozzare è allora lapsicologia di una mente che vive nello spazio del linguaggio, all’interno dei «gio-chi linguistici», che esperisce stati interni (nel senso di uso per sé di un mezzopubblico, il linguaggio) che non sono in alcun modo privati e incomunicabili, chepensa nella misura in cui parla, che prova emozioni solo nell’esperienza politica(intesa come esperienza dell’agire collettivo), che può trovare un senso alla pro-pria esperienza soltanto fuori di sé. Non c’è nulla di nascosto, qui (se non i segre-ti, ma un segreto è appunto qualcosa che può essere svelato: il segreto è per defi-nizione pubblico), tutto alla luce del sole, tutto in vista:

«Qui ci imbattiamo in un fenomeno notevole, e caratteristico delle ricerche filo-sofiche: la difficoltà – potrei dire – non consiste nel trovare la soluzione, ma nel rico-noscere come soluzione una cosa che sembra essere soltanto un preliminare per lasoluzione. “Abbiamo già detto tutto. – Non qualcosa che ne segue, ma proprio que-sta cosa è la soluzione!” Questo, credo, dipende dal fatto che ci aspettiamo a tortouna spiegazione: invece la soluzione della difficoltà è una descrizione, purché l’inse-riamo correttamente nella nostra considerazione. Purché ci soffermiamo su di essa enon tentiamo di andare oltre. La difficoltà, qui, sta nel fermarsi» (Wittgenstein,1967, § 314).

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