Come una volta la sera. Vita minima di un isolese

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SERGIO PEDEMONTE COME UNA VOLTA LA SERA COME UNA VOLTA LA SERA SERGIO PEDEMONTE Sergio Pedemonte, nato nel 1950 a Isola del Cantone dove risiede, si occupa di storia lo- cale pubblicando articoli sulle riviste In No- vitate, Novinostra, Urbs, Iulia Dertona, Quaderni della Comunità Montana Alta Valle Scrivia. Come geologo, per vent’anni, si è di- vertito a veder costruire gallerie ferroviarie e raccontando le sue esperienze su PG Profes- sione Geologo, Geologia Tecnica & Ambientale, GEAM, Quaderni di Geologia Applicata, Quarry and Construction, Quaternario e in numerosi Atti di Congressi Nazionali e In- ternazionali. Ha inoltre dato alle stampe i vo- lumi Verso Casa – Cronache di soldati isolesi (1995), Bibliografia dell’Oltregiogo (2002), Han fatto la guerra (2003). E’ dirigente del Settore Progetti Infrastrutturali Strategici della Regione Liguria. cover come una volta:Layout 1 30-11-2009 16:09 Pagina 1

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SERGIO PEDEMONTE

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Sergio Pedemonte, nato nel 1950 a Isola delCantone dove risiede, si occupa di storia lo-cale pubblicando articoli sulle riviste In No-vitate, Novinostra, Urbs, Iulia Dertona,Quaderni della Comunità Montana Alta ValleScrivia. Come geologo, per vent’anni, si è di-vertito a veder costruire gallerie ferroviarie eraccontando le sue esperienze su PG Profes-sione Geologo, Geologia Tecnica & Ambientale,GEAM, Quaderni di Geologia Applicata,Quarry and Construction, Quaternario e innumerosi Atti di Congressi Nazionali e In-ternazionali. Ha inoltre dato alle stampe i vo-lumi Verso Casa – Cronache di soldati isolesi(1995), Bibliografia dell’Oltregiogo (2002),Han fatto la guerra (2003). E’ dirigente delSettore Progetti Infrastrutturali Strategicidella Regione Liguria.

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A Claudia, Paolo e Vincenzo

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SERGIO PEDEMONTE

COME UNA VOLTA LA SERA

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StampaGrafiche G7 - Savignone (GE)

In copertina: Isola del Cantone nel 1903 – Confluenza del Vobbia nello Scrivia

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INTRODUZIONE

Sarebbe bello iniziare la presentazione di un libretto come que-sto dicendo: “Dopo innumerevoli insistenze di molti amici …”; pur-troppo però succede a pochi.

Io ho deciso di raccogliere tutti questi miei scritti perché in fin deiconti mi piacciono. Rileggendoli ritrovo un me stesso più educato e di-plomatico di quel che sono nella realtà. Mi sembra di vedere a volte unbambino, a volte un adulto, che ha rispetto dei suoi simili e che in certeoccasioni riesce ad essere brillante o originale. Invece so benissimo di es-sere un po’ pedante e scontato, a volte collerico e invadente.

Comunque non è solo questa fragile megalomania che mi haspinto: forse non potrò, come una volta la sera, mettermi a raccontarequel che ho visto e vissuto.

Ho pensato quindi che, non oggi per carità, ma forse tra dieci,vent’anni, qualcuno potrà essere interessato al clima sociale di un pae-sotto che si trasforma in periferia di Genova. Forse si metterà intornoad Internet ed al fuoco di un motore di ricerca troverà le mie parolescritte; proprio perché mi cercherà, il suo viso non sarà visibilmenteannoiato e magari avrà gli spunti adatti anche per la sua introspezione.

Perché quello che c’è più avanti è una mia introspezione.Avevo iniziato a scrivere firmandomi Archimede sull’effimero

Eco di Isola degli ormai lontanissimi anni ’70 continuando poi sui variAppunti, Rendiconti e U Bricchettu del Centro Culturale: tante piccoleconfessioni che oggi possono far parte di questo zibaldone.

Servirà a qualcosa tutto ciò? Non lo so, ma sono convinto chese gli anziani che ho conosciuto avessero scritto le loro memorie forsecapiremmo le atmosfere odierne attraverso quelle antiche.

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UN’ESTATE ISOLESE

È una sera in cui il sole indugia sulla Cagnola. Davanti a Poldo si finiscono, stancamente, i commenti, men-

tre il ghiaccio nel bicchiere, allo stesso modo, si scioglie.Guardando verso Ronco appare una figura su bicicletta modello

Santamaria anni ’60 con cambio Simplex: i pantaloni hanno due mol-lette alle caviglie.

In giro bagnano gli orti e forse qualcuno va ancora a lavarsi nelVobbia (lago delle Figgie perché in quello degli Uomini l’ombra arrivagià nel primo pomeriggio).

Profumo di ambra solare e salici nell’aria.Aria, per favore, aria. Certo, pure i rintocchi delle campane fanno parte di questo

quadro: potrebbero essere i ciucchetti perché poco fa Don Zaccaria hafinito di cenare con l’Arciprete e si è precipitato verso la chiesa.

Ma sì sono proprio i ciucchetti: non vedi la Rosetta che si av-via, poi la Natalina, il Signor Sciutti e dietro due o tre bambini?

È proprio estate e addirittura ci sono le rondini che sembranopreferire il cielo sulla piazza del Comune.

La signora Leale esce dal suo negozio e chiama “Ginetto-o!!”.Dai ruderi della Casa Littoria come fantasmi appaiono anche

Nanni, Peppi, Liccio; hanno sbucciature sulle ginocchia o nei gomiti,scarpe da tennis bianche e blu, cerbottane, cacciafruste1 e quant’altropossa servire nel loro Far West immaginario.

Gli manca solo il tempo: quello non basta mai perché è subito sera.

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UN INVERNO ISOLESE

Ernesto cominciava a sollecitarmi poco dopo la fiera di S. Michele: “Dai tiriamo fuori la slitta! Finisce che nevica e non è ancora

pronta”.Aveva un pezzo di sciolina vecchio di trent’anni ma la sua

slitta non era fatta in casa, era elegante e slanciata.Le giornate si accorciavano e le nuvole passavano sempre più

piano poi la neve iniziava a cadere quando erano ferme del tutto e in-sieme a lei arrivava il silenzio. Se succedeva di notte me ne accorgevoperché l’unico suono al risveglio era quello del badile di Rico che grat-tava sul marciapiede.

Con un atto di coraggio mi alzavo e dai vetri ghiacciati m’in-cantavo a guardare le meteore bianche che miracolosamente solleva-vano lo stato d’animo: chi può infatti immaginare qualcosa di nega-tivo durante una lenta nevicata?

Correvo a scuola ma che patire! “Mia de nu bagnate, né!” mi gridava dietro mia madre.Per strada pochi avventurosi con il bavero rialzato entravano dal

giornalaio, o nel bar, pestando i piedi. Si può descrivere la dilatazione che subisce in quelle circostanze

lo spazio dal negozio di Caccian fino al campanile sullo sfondo?Tutto sembra lontanissimo: sarà la nebbia che nasconde Moncu, saràil turbinio, sarà che anche le rare auto vanno pianissimo, ma arrivarefino alla piazza del Comune ti costringe a notare particolari come inuna camminata di ore in altre stagioni.

Poi dal banco, finché la Pierina non suonava la campanella,guardavo il monumento ai Caduti le cui aquile diventavano improv-visamente vive, rannicchiate sotto un velo di neve e pregustavo le di-scese vertiginose in slitta sfiorando il muro della Villa.

Invece del piumino avevo (avevamo) un cappotto goffo, un ma-glione di lana, la camicia di flanella, la maglia da pelle in lana urti-cante: il tutto ci riduceva a palombari che deambulavano al rallenta-tore e sudavano al minimo sforzo.

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All’uscita della scuola Nanni, Peppi, Liccio e Ginetto ridevanonel raccontarsi il tema della giornata: “La prima neve”.

No, le maestre non avevano grande inventiva.Avevano un grande cuore.

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UN AUTUNNO ISOLESE

In autunno il colore dei tetti aumenta la mia tristezza.Ormai la piazza è vuota anche nel primo pomeriggio e po-

che biciclette sfrecciano nella Strada Vecchia. Nessuno ha il co-raggio di sedersi sulle panchine sotto i tigli della piazza.

Ho visto mia madre riporre le scarpe da tennis in una scatola:un altr’anno mi andranno ancora bene?

Alla sera è già freddo ma nessuno porta il cappotto, solo ma-glioni pungenti dai colori impossibili.

Eppure a scuola si scruta con ansia il cielo per sperare in unagiornata di sole che permetta l’esplorazione di Piancastello, S. Stefanoo del Rià Badun; ma alle quattro c’è la dottrina che fa rima con Vit-torina. Le pagellette, condotta e profitto, riposano ancora lì su queltavolino e continuano a indicare che tutta la vita è così: sono un attodi coraggio e responsabilità per chi le compila, sono un monito, unosprone, un premio, un suggerimento per chi le porta a casa.

Non sperate voi giovani che scompaiano per semprePoi la pioggia restringe il campo e ci fa rifugiare sotto il vol-

tino di Stecun per monotone partite con le figurine o le grette; ognitanto facciamo un sopralluogo ai ruscelli che soffiano e spandonoun odore di umidità tale da invocare il fuoco della stufa.

Stufa a legna. Non è ancora accesa, troppa grazia S. Antonio.Però mio padre sega i roveri, i carpini, i frassini, poco castagno, tuttoa mano, e ogni pezzo che cade io lo prendo e lo porto in cantina.

Con Nanni, Peppi, Liccio e Ginetto raccogliamo mucchi difoglie sul piazzale della Chiesa per buttarcisi dentro con un tuffodal muretto: ma già le ombre e l’abitudine ci richiamano verso casa.

“A domani”.Già, a domani, perché non ci sono dubbi, ci rivedremo di

nuovo e staremo bene insieme.

E non è poco.

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UNA PRIMAVERA ISOLESE

Verso le due la Strada Vecchia veniva illuminata da un sole de-bole ma che permetteva di tenere aperte le finestre; era facile così chia-mare gli amici e trovarsi nel pomeriggio intorno alla Casa Littoria.

Non era ancora il tempo delle biciclette, quelle uscivano dallecantine ad aprile inoltrato, comunque ormai le giornate si erano al-lungate e con loro il nostro raggio d’azione.

Chi ci attirava di più era lo Scrivia. Dopo i mesi invernali in cuiben difficilmente ci si andava, con la primavera ogni ostacolo era ri-mosso e l’ancestrale rapporto con il torrente riaffiorava prepotente-mente.

Scendevamo giù dal sottopassaggio della ferrovia verso il baraggio2

e già a metà strada ci assalivano acuti l’odore e il rumore del fiume. Quanto era diverso il mondo visto dal greto! Il ponte sembrava altissimo, l’acqua precipitava incessante dallo

sbarramento scivolando sul letto di bava verdastra, erodendo la mu-ratura, formando un gorgo ribollente tra grossi massi che ai nostri oc-chi nascondevano caiastri e barbi enormi. Più in giù c’erano il lagodella Stanza e il lago del Cavallo con tutte le loro leggende irrisolte.

Proseguivamo sulla sponda cercando di non bagnarci le scarpee le sgure3 ci frustavano la faccia. Si risaliva dalla Sabbiunea passandovicino alla casa di Berto e attraverso il Chinettone ci trovavamo davantialla Sede parrocchiale, sopra la Sacrestia.

Il nostro Camel Trophy era terminato: non ci rimaneva che ilping-pong.

Nanni, Peppi, e Liccio sceglievano le racchette e cominciavanole partite con agonismo, voglia di vincere e vera competizione.

Nessuno però ne usciva sconfitto moralmente.

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UN CURATO ISOLESE

Don Gianni Russotto fu Curato di Isola molto tempo fa, neifatidici anni che seguirono il ‘68. Per alcuni di noi, alla voglia di sco-perte tipica dei ventenni, si sommava l’influenza del clima politico diallora: eravamo dei sovversivi di campagna che all’ombra del campa-nile finivano per contestare sé stessi.

Gianni, perché sorprendentemente fu il primo Curato a farsidare del tu, aprì la porta della Canonica ad un esperimento che si chia-mava ISOLA VIVA. Ogni sabato sera ci vedevamo in tanti, giovanie meno giovani, a discutere su fantomatiche gite, concorsi, mostre chepoi puntualmente non si concretizzavano. Ma quello che contava erastare insieme, conoscersi, parlare. Non esistevano Presidenti e Con-sigli, fumavamo come turchi e ci facevamo crescere la barba.

Da Gianni avremmo dovuto imparare tantissimo, anche se al-lora non volevamo ammetterlo: innanzitutto l’altruismo, la caparbietànel raggiungere gli obiettivi attraverso sacrifici personali, la generosità.Avremmo dovuto accettare che un’informazione non deve essere ne-cessariamente un giudizio e che la tolleranza non è una debolezza.

Suoi, e di pochi altri, furono il Villaggio dei Ragazzi, le Mi-niolimpiadi, i campeggi fino a Varazze, Recco e all’Antola.

Certe sere partivamo con zaino e sacco a pelo, anche d’invernocon la neve, e andavamo a dormire in qualche cascina, soprattutto inAlpe di Buffalora, una stravaganza che ci faceva vivere momenti bel-lissimi: una volta recitò la parte del Diavolo, un’altra fece il fantasmaarrampicandosi su un campanile, un’altra ancora rapì uno di noi sor-prendendo gli altri.

Andare in Alpe, divenne nel nostro immaginario sinonimo disfida al comodo letto, a quelli che rimanevano al caldo: era la nostravita spericolata; forse una scusa per garantirci la diversità in unmondo che stava profondamente cambiando ma non sapevamocome.

Gianni si trovò cosi al centro di un processo che senz’altro non

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avrebbe voluto guidare ma che lo vide, almeno ai nostri occhi, prin-cipale protagonista. Capimmo però l’importanza di quei giorni, comesuccede sempre quando si cresce, non appena lui andò via, prima aBolzaneto, poi missionario in Cile, a Copiapò.

Ripensando a tutte le presunte fughe dalla realtà, conden-sammo nella poesia seguente quei tempi: inutile dire che non riescesenz’altro ad esprimere ciò che abbiamo provato.

A pensarci bene non era stupido quel sentieroche ci portava in Alpe al buioanche se anonimo e faticosoma non guardarsi attornopermetteva un dialogoe riuscivi almeno a confessarmi.Poisulla modesta vettaquasi sempre sudato nella nebbiati fermavi alla porta di S. Annaio scoppiato lì vicinoscettico ma serioascoltavo quel misto di preghierache usciva insieme alla tua tosse.Non riuscivo a riderecome avrei fatto in cittàed anche col solito ventocessavan il respiro quei ruderiscomposti e provati dal tempo.

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GIOCHI ISOLESI4

I luoghi cambiano di poco, i giochi anche, chi cambia sono le persone.

Soprattutto nelle prime sere d’estate, la Piazza del Municipio ela strada vecchia diventavano teatro di tanti giochi. La Casa Littoria5,enorme scheletro incompiuto di calcare e mattoni, era il rifugio nonsolo dei gatti, ma delle nostre scorribande giovanili.

Subito dopo la novena della Madonna, quando le lampadinenon erano ancora accese e un tardivo sole illuminava e faceva risaltarela Cagnola, castelletto bruscia monopolizzava grandi e meno grandi.A seconda dei partecipanti (non credo di esagerare elevando il numeroa 40-50 in certe sere), ci si divideva in due squadre: chi cercava (7-8persone) e chi scappava (tutti gli altri); una volta stabilita in base al-l’età, ai vincoli di amicizia e alla prestanza fisica questa divisione, lasquadra cercante si riuniva attorno al Monumento ai Caduti edaspettava che gli altri corressero a nascondersi.

Ma descriviamo un po’ meglio l’ambiente: la parte superioredella Piazza non aveva gli attuali ornamenti architettonici ed era interra battuta e ghiaietto: a pochi passi dalla CRI una pompa a manodava un’acqua freschissima, che però sapeva di ferro e proveniva daun sottostante pozzo, resto del giardino prospiciente il palazzotto set-tecentesco.

Il Monumento era circondato da una ringhiera con cancellettocolorata di nero il cui scopo era difendere alcuni asfittici alberelli.

La casa Littoria, era divisa in due corpi: uno parallelo a Via Po-stumia con il “ballo” in mattonelle rosse e, sotto, locali per gli attrezzidi manutenzione comunale; uno abbozzato con tanti muretti cheavrebbero dovuto sostenere il pavimento. Oggi la prima parte ospitail Municipio e la seconda la Caserma Carabinieri. Intorno e dentro:spine, acacie e liane.

Dalla Via Postumia vi si accedeva per uno stretto viottolo che

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costeggiava “la villa” e mi ricordo una terra rossa e scivolosa se bagnata(la taera gnera) e un profumo che non ho più sentito di fiori selvatici,di scarpe da tennis nuove (quelle bianche e celesti), di veghissi accesi.

Ogni tanto una madre, la Maria, la Vera, a Scià Anna gridavanoqualcosa all’indirizzo di qualcuno.

Sull’attuale Piazza Vittorio Veneto, tra i tigli, alcune panchine verdisostituivano qualunque sede sociale, culturale o politica: anche se al mat-tino era ben difficile vederle occupate, e al pomeriggio servivano solo aqualche mamma, alla sera tutti noi ragazzi ci riunivamo là.

Chi girava in bicicletta tra gli alberi e le panchine dellapiazza finiva sempre per scontrare o gli uni o le altre, ma il recorddi acqua ossigenata e cadute penso lo detenga ancora Ginetto, il fi-glio della signora Leale: vestito con pantaloni di cuoio alla tiroleseaveva uno zio con tanto di stendardo e stemma Savoia per legrandi occasioni.

Le ricerche in campo naturalistico consistevano nel catturaremosche e grilli da inserire nelle ragnatele che si formavano sulle pa-reti della strada vecchia: quella adiacente alla villa, si ricopriva di pa-rietaria officinalis o scanigea, un’erba leggermente urticante cheserve ancora oggi per lavare le bottiglie; qualcuno sosteneva fosse an-che diuretica; insieme all’ortica e al papavero è la pianta che popolai miei ricordi: oggi occorre andare sempre più lontano dalle case pertrovarle.

Ma ritorniamo al castellettu: nascostisi i fuggitivi, iniziava ilgioco. I cercatori gridavano:

castellettu bruxia in simma de na pruscia, a pruscia a lè brusciàa castellettu a lè restà”.

A Giretta si diceva: “castellettu sciallu scià, chi l’è foa vegni aciappà”. Paese e generazione che vai, ritornello che trovi. A Prarolod’altronde lo stesso gioco era chiamato a loa.

Chi veniva catturato (cioè toccato) era condotto al monu-mento e, insieme ad altri sventurati formava una riga che con pode-rosi calci teneva lontano le guardie.

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I compagni dovevano con furbizia e velocità riuscire a toccare a lorovolta la catena liberando tutti ed allora echeggiava il grido: “Liberi tutti!”.

Non mi ricordo che una partita sia stata vinta da qualcuno, sifiniva perché il buio impediva di continuare e, completamente sudati,si andava alla fontana vicino all’ARCI, allora falegnameria di Nittodove immancabilmente chi arrivava prima al rubinetto bagnava tutti.

I più fortunati, cioè quelli che non avevano madri ossessionateda scuole e rapitori, confabulavano ancora un po’ ricordando o in-ventando storie di fantasmi o, meglio, di spiriti.

I nascondigli da castellettu erano diversi a seconda che fosse buioo no. I più coraggiosi andavano in quella che si chiamava a suddica,tra via Roma e Via Postumia, vicino alla lavanderia. Oppure nel ri-tale che va a Montemoro, nella villa del Barbarossa6, nel portico diMedeo7, che se durante il giorno era nostro alleato come venditore diammennicoli ciclistici, di sera andava su tutte le furie per il rumore.

Non so con quale legge cambiano i soprannomi, probabil-mente con la stessa che ha governato la nascita del nomi e poi dei co-gnomi, ma sarebbe interessante farne una ricerca per Isola: c’era Ve-rinna, Nanni (comunissimo), Cocco Bill, la Tatto, Castellin,Trapattoni, Lillu e Lello e altri che ancora resistono come Treg e Peppi.

Ho fatto tutte queste divagazioni perché pensare al nostrogioco preferito è inscindibile da tante altre sensazioni, come gli odori,i posti, alcuni personaggi, (e aggiungerei Amabene Gesualdo, il dott.Cilli, il maestro Strata) ma ho la tentazione di concludere in poesia,così descrivendo Isola:

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È un paese senza ombre lunghe il miodove l’acqua si trascina millenniper creare spazio tutt’attorno;e basta una nuvola sola per coprirne il cielomentre i tetti e la gente la toccano.

Eppure, nelle tranquille sere di maggiola prima erba tagliata è odorosae ti aumenta la voglia di viverci

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LE SUORE DELL’ASILO

I ricordi dell’Asilo sono diversi da quelli delle Elementari per-ché gli episodi compaiono nella memoria meno nitidi e se la Maestraha un volto la Suora è indefinita.

Riaffiorano però gli odori del refettorio e quei banchi moltobassi, il formaggio degli aiuti americani ed il cestino in vimini per lamerenda: dentro i biscotti si scioglievano in un abbraccio con le ba-nane del Monopolio di Stato mentre il Cremifrutto lo trovavamo solouna volta alla settimana.

La Suora ci aspettava ogni mattina all’ingresso e chi era ac-compagnato dalla mamma coglieva frasi smozzicate sul proprio ca-rattere o sulle ultime linee di febbre: “… però il dottor Cilli ha dettoche non è niente ...”.

Mai che la Suora elencasse problemi suoi, ascoltava quelli delprossimo.

Se poi non ne avessi conosciute altre nella mia vita e mi affidassiai soli ricordi dell’Asilo, potrei credere che queste donne fosseroaliene dai crucci umani a tal punto che necessitavano di un solo ve-stito nero, il più semplice che esista.

Non che fossero belle, anzi, a volte le vecchie zie erano in con-fronto delle Miss, però non le ricordo pedanti o villane, arroganti opretenziose. Certo, inconsciamente avevamo nella più giovane lapreferita, mentre la Superiora era sempre esigente e poco propensa afarci le coccole che in alcuni giorni un po’ malinconici andavamo cer-cando. Ma chissà a quante domande avrà dovuto rispondere senzal’aiuto della Psicologia dell’Età Evolutiva, scoperta dopo il ‘68. Pro-babilmente erano domande più pungenti di quelle odierne che sonotempestivamente soddisfatte da genitori ultra preparati in mille corsipre e post matrimoniali.

L’ho incontrate anche negli Ospedali, quando Volontario dellaCRI arrivavo a considerarle colleghe. Però il mio era un contatto li-mitato ed effimero con il paziente, loro ne portavano avanti uno ben

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più complesso e pesante. Quante domande anche lì avranno dovutoevitare? E non si trattava di Educazione Sessuale o di Morale, ma diVita e di Morte.

Alcune, anni dopo, le ho riviste e scherzosamente si è anche par-lato di certe mie scelte, non proprio ortodosse, fatte nel tempo. Mail burbero rimprovero, con un sorriso mal nascosto, era sempre direttoal bambino, quasi che l’uomo per loro fosse ancora da venire.

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CORPI SANTI E ANIME PERSE

Ai corpisanti gli isolesi scendono sul piazzale della Chiesa. Tutti mugugnano che la festa è scialba, che la Banda è sempre più

fuori moda, che nella lotteria quest’anno ci sono un mucchio di serie, chea Busalla fanno i fuochi artificiali, che a Gavi c’è più gente, però tutti sonolì, dopo la processione, a guardarsi ed a guardare in giro.

Anche negli anni ‘60 il rito sociale si equivaleva, ma per noi c’erauna grande differenza: i Beatles. Altre generazioni avranno avuto El-vis Presley o Gino Latilla e non mi chiedo cosa successe a loro. Io soche noi diventammo diversi da quello che saremmo dovuti diventareperché allora c’erano i Beatles e Bob Dylan.

Le serate in Prodonno, nella vecchia Conceria, per la nostra ge-nerazione avevano un senso solo se si pensa a cosa ci fece fare il Rockcon i suoi protagonisti: alle letture che ci accompagnavano, ai dischi,agli atteggiamenti che assumevamo convinti di imitare i fans ameri-cani o inglesi, alla superiorità che pensavamo di possedere perché tra-ducevamo Like a rolling stone, per ciò che eravamo prima di AbbeyRoad, per l’insana voglia di leggere l’Ulisse.

C’era un nesso tra la swinging London ed il nostro ‘68 campa-gnolo? Non credo, ci sarebbe stato anche per altri, eventualmente.

Qualcuno teneva le Marlboro tra le labbra mentre parlava edera, ai nostri occhi, originale; c’era chi conosceva tutti i titoli possi-bili e immaginabili dell’universo discografico; altri erano propriocome adesso: irreprensibili. Riuscivamo ad essere contenti con millelire di benzina in una 850 spider celestina ma non, come molti pen-sano, perché eravamo giovani e spensierati: no. Eravamo soprattuttopieni di interrogativi e tendenzialmente pessimisti perché coscienti chead ottobre si chiudeva una parentesi festosa per aprirsene una malin-conica. La nostra era un’equazione molto semplice: all’aumentare de-gli anni diminuivano le incognite della vita. Bastava aspettare edavremmo saputo cosa avremmo fatto, chi avremmo incontrato, cosasaremmo stati.

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Può darsi che pure questo abbia contribuito a far sì che ancoraadesso i corpisanti non mi rapiscono in quel vortice di luoghi comuniche potrebbe essere però tonificante. Pensavo, allora come oggi, chequesti meeting erano a misura di chi, in un modo o nell’altro, accettaIsola come è.

Io invece sognavo altro e non so dire con precisione cosa. Nonera ribellione, non era intolleranza, era senz’altro la coscienza di vo-lere qualcosa di più di quello che mi si offriva.

Come un alieno osservavo la processione sfilare, l’ondeggiaredell’urna, i canti e le preghiere interrotti continuamente dalla banda,la lunga fila delle auto bloccate agli ingressi del paese, le lampadinecolorate sui balconi e i visi abbronzati dal sole degli orti, le camiciebianche dei padri che tenevano per mano i bambini.

Aspettavo ai bordi della strada che passasse il crocifisso osten-tato da una ragazza, poi due file con i più piccoli, le donne sotto ilvelo, i Cristi luccicanti, i sacerdoti, le reliquie, le autorità compunte,la marea di chi seguiva in un voluto disordine. Finito il vespro andavosul campo sportivo o dietro la chiesa o in bicicletta da qualunque al-tra parte che non fosse il piazzale.

Per me i corpisanti hanno ancora adesso profumo di incenso edi tonache inamidate. Vedo i visi sudati degli uomini sotto la cassa enon mi sembrano diversi da quelli che fanno ballare il Cristo: non sop-porto l’idea che una morte così atroce possa essere il pretesto di unaprova di forza mascherata da atto di Fede.

In anni passati ho percorso anch’io tutta Isola lentamente, dachierichetto con il candeliere o da anonimo parrocchiano in ungruppo cui giungeva solo l’eco del salmodiare misto al parlottio deivicini. Non c’erano fortunatamente ancora gli altoparlanti portatili chemi ricordano le fiere con gli imbonitori rauchi.

Poi ho seguito altre strade e mi sono trovato, sempre più spessoe sempre più per caso, ai bordi di un marciapiede che era una speciedi frontiera: di là i Credenti dietro al Parroco, di qua gli altri.

Per anni molti come me sognarono un ballo alla Festa del Paese;sembrava che quei quattro salti avrebbero rivitalizzato Isola. Sarebbe sen-

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z’altro stata una rottura nei confronti della tradizione e di un’atmosferache pesava perché limitativa di quelli che sembravano diritti. “Vietare”il ballo lo consideravamo (ed era) la solita ipocrisia italiana: come sem-pre ce lo avrebbero concesso quando ormai non ci interessava più.

Anche per il ’68 finì così: pretendevamo cose che oggi sono ba-nali ma che allora segnavano il crinale tra una vita autonoma e unadipendente dal conformismo imperante.

Con gli anni cambiammo noi, cambiò Isola e cambiarono i cor-pisanti: il paese ad un certo punto offrì alla mia generazione gli stru-menti necessari per un’affermazione “politica” che però non volle (onon fu capace) di sfruttare; forse rimase al palo quel rinnovamento cul-turale che avremmo almeno tentato di proporre.

Con il passare del tempo tutte le innovazioni divennero vitto-rie che non davano l’orgasmo della conquista e ci accorgemmo cheIsola Viva, USI, Croce Rossa o Centro Culturale rimanevano esperi-menti sfibranti, zuppe di pesce che non si trasformavano in acquaritropicali, riserve indiane al dilagare di un anestetico che si chiamava,come al solito, conformismo.

Oggi i corpisanti hanno un rito tradizionale che si svolge sempre sulpiazzale della Chiesa ma che è il passaporto per andare a far finta di divertirsidietro al Cimitero: un’innovazione che non ci saremmo davvero aspettatie che tutto sommato non sposta il problema di una virgola.

Isola, 3 settembre 1998.

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ISOLA DEL CANTONE VISTA DA ALFREDO DEDDO RIVARA8

Per tramandare l’opera dell’uomo spesso ci si rivolge ai grandimonumenti, alle splendide sculture, alle gesta memorabili: noi, ecome noi tanti altri, preferiamo rivolgerci alle cose di tutti i giorni, aquella che è esperienza di tutti, all’essenza del vivere semplicementein un paese lavorando con onestà e contribuendo senza schiamazzi odegocentrismo al suo sviluppo.

Con il Centro Culturale abbiamo così pubblicato le TradizioniReligiose, abbiamo esplorato il mare senza fine dei dolori causati dalleguerre con le testimonianze raccolte in Verso casa; adesso proponiamoqualcosa di diverso che potremmo paragonare ad una sorta di me-moria visiva, come le leggende e i racconti lo erano per i nostri vec-chi intorno alla stufa.

Alfredo Rivara, Deddo per tutta Isola, con le sue foto ci tra-manda un paese che non saremmo capaci di raccontare con le sole pa-role; una comunità a cui un inizio di benessere, siamo tra il ’50 e il’60, ha impedito di imprimersi nitido nei ricordi della gente, cosìcome lo rimanevano invece le carestie, le malattie, gli avvenimentiesagerati di forse un secolo fa. L’Isola del Cantone di quegli anni nonviene ancora descritta come un patrimonio comune a tutti: essa è tut-tora ricordo del singolo ed al singolo appartiene potendola trasfor-mare in aneddoto, curiosità o episodio individuale.

Deddo invece, con le sue immagini, riesce in un solo colpo a smus-sare ed amalgamare una ridda di sentimenti privati dandogli una dignitàquasi storica. Ecco che le processioni, le partite di pallone, le prime gite incorriera non sono più l’attimo di vita di cinque o dieci isolesi, ma sono leprocessioni, le partite, le gite di una comunità intera.

È facile quindi osservare in esse non soltanto il viso del com-pagno di banco o di leva, ma intuire anche il loro stato d’animo e ri-cordare improvvisamente che la scuola era un grosso sacrificio o chedalla fabbrica e dalla campagna non si ricavava granché.

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Proviamo a considerare non solo com’era Isola in quegli anni,ma come stava cambiando in meglio o peggio che sia, ovvero come icambiamenti sociali ed economici influenzassero gli isolesi nel loromodo di vivere.

Ad esempio il ritratto, nei tempi che furono, era appannaggiodi pochi: addirittura mancava a molti l’immagine di se stessi o, sel’avevano, non era riproducibile facilmente. La foto rivoluzionò tuttoquesto: anche le classi meno abbienti poterono impressionare le pro-prie sembianze e spedirle a chi era lontano. L’infernale macchina la-vorò a trasmettere “dati” per molti anni: il figlio soldato, il nipotinoai parenti oltremare e così via. Non erano ancora i tempi per poter fis-sare i ricordi, gli attimi fuggenti di un tratto di vita. Solo in seguitoiniziò la ripresa di momenti celebrativi collettivi: la festa campestre,la gita, il matrimonio ...

Oggi la foto è costume, essa è il nostro binario parallelo: c’è tuttoquello che facciamo, dal lavoro ai momenti intimi, privati, alle cose fu-tili a quello che pensiamo o vogliamo vedere in un gioco di luci. Essa èreportage, arte spicciola, ausilio alla memoria, strumento di lavoro, in-trospezione psicologica, tentativo di manipolare la realtà e così via.

Quando Deddo iniziò a fotografare Isola e gli isolesi, si era inmezzo al guado di questa tecnica ormai alla portata di tutti ma chenon era ancora una procedura semplice. Occorreva in altre parole unmediatore: il fotografo.

Volevamo il ritratto ed era il fotografo che ci imponeva la posa;volevamo il ricordo ed era lui che sceglieva le inquadrature. Pochipossedevano una macchina fotografica e in ogni modo si decidevanoa scattare un’immagine solo quando le condizioni erano ottimali per-ché c’era sempre il dubbio se veniva o no.

Anche il nostro Autore aveva dei limiti da non oltrepassare ma,rispetto ai più, possedeva almeno la volontà di fare una cosa non soloper hobby, a tutti i costi, con quanto di meglio si poteva avere comeprofessionista di provincia.

A quel punto, immaginiamo, occorreva interessare i soggetti,costringerli in qualche modo, inconsciamente, a diventare potenziali

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protagonisti di quel palcoscenico che sono gli avvenimenti in unpaese. Pensate un po’ se Deddo si fosse accorto che ai suoi compaesaninon piacevano le foto di processioni, di incidenti stradali, di nevicatenotturne, di balli in maschera. Avrebbe degnamente ricoperto il ruolodi artista da foto-tessera e sarebbe finita lì. Complici i tempi e la cu-riosità, egli arrivò a sistemare una bacheca sotto casa dove tutti, pas-seggiando, potevano ammirare gli ultimi scatti eseguiti,programmando chissà, di poter comparire presto su quello schermo.

Ma per non irritare o deludere il pubblico non si può solo far-gli vedere quello che già vede: occorre proporgli fatti e persone in unaluce diversa dal normale, filtrata o elaborata da un taglio che nontutti riescono a fornire.

Probabilmente Deddo non era cosciente di tutto questo pro-cesso tecnico - psicologico ma senz’altro intuì che solo una ricercaoriginale, fuori dagli schemi, poteva alimentare l’interesse per i suoiracconti ad immagini.

C’era in quel momento nell’aria una continua trasformazionedi idee che si traduceva in nuove scenografie anche a Isola: pensatesolo alla nuova autostrada, al Municipio appena inaugurato, al camposportivo, ai primi condomini.

Associati a questi abbiamo però la scomparsa della Casa Littoria,dei baracconi di Savio, di alcune abitazioni e di campi e prati. Nel socialec’era l’avvento della televisione come momento aggregante che poi, di-venuta patrimonio di ogni famiglia, si trasformerà in principale causa diisolamento; arrivarono le scuole medie obbligatorie (le commerciali) eterminò l’esodo verso le Americhe iniziando quello per Genova.

Non che nei decenni precedenti non ci fossero state profonde tra-sformazioni nella comunità isolese: basta pensare alle guerre del fascismoche dispersero i giovani in tutta Europa all’infuori che a casa loro. Solo checon il cosiddetto boom il cambiamento non venne imposto dalle necessitàmateriali o dall’alto: per la prima volta c’era una parte di scelta in quelloche stava succedendo a livello personale. In fin dei conti non si moriva piùdi fame e la democrazia (o la cultura), anche se ancora giovane, permet-teva quello che era impensabile qualche anno prima.

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Cosa contraddistingue in fin dei conti le nazioni avanzate dallealtre? Le comunicazioni e l’energia. Se cominciate a far leggere gior-nali di ogni tipo, commentare le notizie, trasmettere opinioni, lasciargirare la gente a proprio piacere, vuol dire che tutto sommato ci sonostrade, petrolio, libertà. Possiamo discutere su quanto di tutto que-sto serve per essere veramente moderni, ma la sostanza della crescita,dell’espansione economica italiana, era questa.

E il nostro paese ne risentiva come ne risentivano singolar-mente gli isolesi.

Nelle foto di Deddo abbiamo tutto ciò: il calcio giocato con lescarpe che servivano anche per le feste, la Vespa e la Lambretta (di-ventate passioni come Coppi e Bartali, il Genoa e il Doria), cappottigoffi e pesantissimi, le maschere di carnevale che non sono più esclu-sivamente Arlecchino e Pulcinella ma anche Indiani e Cow-boys, Ci-nesi e Fate.

Guardate quelle processioni del Corpus Domini che non co-municano pathos spirituale o folcloristico ma un sobrio spettacolo digente insieme, sì, uno spettacolo in cui gli attori hanno condiviso ilcopione senza dirselo.

Guardate quei gruppi affollati a Livorno o alla Guardia chesembrano voler dimostrare all’obiettivo che la giornata non finisce lìperché non si può sorridere in quel modo se la vita è appesa al sottilefilo di una scampagnata: ci vuole una speranza, un’illusione, un pro-gramma per il futuro.

Oggi non si fanno più fotografie di gruppo, non ci si mettepiù in posa; forse neanche nelle scuole, a primavera, si scende fin sullapiazza con la Maestra per un ritratto che sarà il termine di paragoneper tanti anni. A cosa servirebbe? Oltre, nel futuro, c’è delusione, c’ècoscienza di scarsi rapporti interpersonali, si guarderebbero le foto (acolori) solo per notare la pettinatura. Cosa fa Sandro o Giorgio oAnna tanto lo sappiamo benissimo, non c’è neanche bisogno di uscireperché il telefonino è comodo e poi ognuno è preso nel vortice dellecose nuove e non si ha il tempo di somatizzare l’esperienza delle altregenerazioni. Chissà cosa succederà con Internet in tutte le case?

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Già oggi non esistono più generazioni. La creatività, il ricordo, il sogno, sono diventati un software che si

può innestare su qualunque hardware biologico: che differenza c’è tra undiciottenne ed un trentenne alle soglie del 2000? La si misura in terminidi rap o di branco, sono entrambi insoddisfatti e cercano solo di preno-tarsi un posto sull’autobus del welfare che passa sempre più raramente.

Nelle foto di Deddo la differenza esiste eccome: il crinale eranetto, preciso. Finita la scuola (elementare per i più) si lavorava, nonc’era alternativa, i ragazzi di qui, gli altri di là: belin lo potevano diresolo i grandi, ai mocciosi e alle donne rimaneva il belan.

Tutto questo si rifletteva in una mancanza di tempo libero chesfociava in domeniche intense, da vivere profondamente. Ecco allorache stare insieme non era un caso, ma una programmata necessità per vi-vere meglio la settimana dopo. Aggiungete la mancanza di auto, unaTV ancora acerba e troverete il perché dei narcisi sul Monte Buio, odelle lunghe ore di pullman su per il Bracco per arrivare fino a Parma,fotografarsi sotto un campanile e ritornare a Isola nella notte fonda.

Ma un’altra cosa ci colpisce in quei gruppi: un’immancabiletonaca nera. Allora il Curato era organizzatore e assistente spiritualedi una generazione: Don Ferretti, Don Cerro, Don Canepa, Don Se-rafino, Don Gianni hanno largamente influenzato i giovani che lifrequentavano. Sul piazzale della Chiesa, in Canonica, nella Sede, siforgiavano gli animi in divertimenti ma anche in discussioni, verifi-che, provocazioni, smarrimenti, ilarità. Non per niente Isola ricordaproprio quei preti che più hanno inciso fuori dall’altare vero e pro-prio, fuori dal rito religioso. Agli ex frequentatori della Parrocchianon vengono in mente le belle Messe, gli splendidi Vespri della pro-pria gioventù, tutt’altro. Nei discorsi tornano in continuazione le serepassate a discutere magari di calcio, di lavoro, e, perché no, di unaprima timida educazione sessuale.

Hanno fatto breccia i Curati che non si sottraevano alle do-mande più spinose con qualche citazione dottrinale, ma che sape-vano affrontare la realtà, le contraddizioni, le spinte autonome deigiovani isolesi.

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Oggi i Curati sono in via d’estinzione e se ce ne fosse uno perIsola non avrebbe probabilmente l’ascendente di quelli di una volta.Quando si parla di villaggio globale, di massificazione, si uccidonoanche i capo-branco. Chi potrebbe reggere alla concorrenza, qualun-que essa sia, disponendo solo della propria buona volontà unita a unasede spoglia e fredda d’inverno?

Deddo ambientò e ritrasse comparse e scenari con la complicitàdi un mondo che manteneva ancora atteggiamenti antichi e aspira-zioni moderne, cerimoniali consunti dalle esperienze e regole di com-portamento in rapida evoluzione. Ma non per questo il suo merito èminore: ancora oggi egli conserva con grande meticolosità quelmondo di ricordi che riusciamo ad evocare debolmente solo se sen-tiamo Modugno, Claudio Villa o i Platters.

Con le sue foto egli ha surrogato la macchina del tempo: per un iso-lese sono lo specchio in cui, veramente, appare quello che non c’è più.

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GLI ISOLESI IN TUSCIA

Per gli isolesi Santuario è sinonimo di Tuscia.Siamo affezionati ad Alpe ma è una Cappelletta, ci incute rispetto

S. Michele che è la Parrocchiale figuriamoci se avessimo una Basilica oduna Cattedrale. Non pensiamo di sbagliare quindi affermando che Tu-scia è il luogo di culto più vicino sentimentalmente agli isolesi.

Tra l’altro è una zona paesaggisticamente gradevole, strana-mente bassa rispetto al profilo della valle od alla tipica posizione dimolti Santuari fondati generalmente sulle vette dei monti liguri: illetto del Vobbia poi la lambisce come una sciarpa rilucente e gli stessicolori dell’edificio e della cupola del campanile sembrano più consoniad un luogo di serenità che non di penitenza.

Bisogna aver assaggiato le leccornie di un 8 settembre prece-dente agli anni settanta per capire la giusta atmosfera di quelle feste;intanto si raggiungeva Tuscia a piedi: alla mattina per la Messa (piùdonne e bambini che uomini) e quindi al pomeriggio per il Vespro.A quel punto c’era il pienone, un po’ di odore d’incenso anche sulpiazzale e qualche viso arrossato dalla fatica di mangiare antipasti, bro-dino con fegatini, ravioli (obbligatori), pollami e conigli, verdure, fu-gassa duse, e tutto quello che le cuoche riuscivano a scovare nel lorocurriculum.

Tra i massari i più intraprendenti scendevano con bottiglia e bic-chiere a brindare con amici e conoscenti mentre alcune donne dallafinestra chiamavano gruppi famigliari per l’assaggio dei dolci o per ilcaffé.

Bambini ce n’erano a frotte: i figli degli organizzatori in una po-sizione di privilegio, con un ascendente che sarebbe scomparso già ilgiorno dopo; poi c’erano i chierichetti che avevano conosciuto in quel-l’occasione menù inaspettati e vino dolce fino allo stordimento. Tuttigli altri alla ricerca di uno spazio dove provare il giocattolo appena ac-quistato alla bancarella: spade di gomma alla Tre Moschettieri, aereocon motore ad elastico incorporato, cerbottana simil bronzo con mi-

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rino variabile, fucile a tappi, pallone in vero cuoio con camera d’ariain gomma per il più fortunato e meritevole.

Premi di consolazione, dopo un’ora di Vespro in silenzio e confinto raccoglimento, erano le reste di canestrelli durissimi, la liquiri-zia a strisce, le mente, il reganissu ed i famosi, unici, mai sufficiente-mente lodati, degni di uno spot fantastico (se fosse esistita la televi-sione): i marunsini!

Erano complemento e sregolatezza di una giornata che volgevaalla fine; complemento perché senza di loro non esisteva Tuscia ne-anche se ci fosse stato Gualtiero Marchesi a cucinare; sregolatezza per-ché dopo la Mamma ce li facevamo comprare dal Pa’, poi dalle Lallee dai Barbi e avevamo già in corpo biscotti, torte e caramelle.

In stagioni più avanzate della vita ai marunsini sostituivamo laluna che si vedeva durante il ballo a Noceto. Ahi che momenti! I 4Jolly o i Meppiggs sudavano su chitarre e fisarmoniche, noi arrivavamo(per la terza volta a piedi nella giornata) con il maglioncino sulle spalle,calzoni in terital a zampe di elefante e aspettavamo che apparisse Lei:in genere aveva una sola treccia, niente trucco, gonna a pieghe, bici-cletta della zia. A quel punto pre-fantozzianamente ci aggrediva la ta-chicardia con saliva azzerata e sguardo brillante tipo Mino Reitano.

Se poi suonavano Samba pa ti o Whiter shade of pale si rischiavaveramente l’infarto nel tratto di cemento che ci separava dal chiederle:“Sc-sc-u-usa, b-balli?”. Ahi luna! Niente ombretto, abbronzatura na-ture, profumo preso dal tabacchino. Non sto descrivendo Mazinga:erano proprio così!

E ci facevano impazzire lo stesso.Finivamo la serata con una sigaretta (Nazionali semplici, 180

lire al pacchetto) e la sensazione che l’estate fosse agli sgoccioli. An-cora un bagno, forse due, al lago di Savio; poi un temporale che nonprovocava alluvioni, decretava però l’uscita dalla scena degli amici ge-novesi e Vobbietta o Isola o Prodonno ritornavano ad essere un in-sieme di case e strade.

Fino alla festa in Tuscia erano state il nostro paradiso.

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JAZZ ISOLESE

Martedì 12 agosto 2003, ex scalo ferroviario FS.Il caldo è soffocante. Alle nove metà sedie sono occupate e si ri-

vedono visi quasi dimenticati mentre per molti è la prima volta chesentono jazz dal vivo.

La mia agorafobia vorrebbe che me ne andassi e rimpiango giàquesta debolezza estiva in onore della musica del popolo afro-americano.

Che scoperta fu il jazz! Quando si sciolsero i Beatles pensai cheil rock era ormai affidato al solo Bob Dylan (dovetti accorgermi annidopo quanto sbagliavo …) e quasi per ripicca oltrepassai le frontieredella classica e della lirica.

Tenete presente che allora il rock non era solo musica: era uncomportamento e un credo. Rifiutare Claudio Villa, Gianni Morandie Wilma Goich o, meglio, il Quartetto Cetra, significava schierarsi coni capelloni, ritenere la musica un’emancipazione sociale, proiettarsi inun futuro di libertà. Era insomma una bandiera: dietro di essa vi eranotorme di irrequieti che di generazione in generazione si chiamaronofigli dei fiori, hippy, punk, metallari e così via.

Mi stupii a sentire non solo Beethoven ma anche Chopin,Bach, Strauss: quante arie mi erano già note! Avanzavo in un mondoche avevo considerato fossile e invece rivelava attualità inaspettate, so-norità vive e, oltre alle tradizioni, anche messaggi per il futuro.

Le Quattro Stagioni di Vivaldi o l’Alleluja di Haendel avevanocostituito per la musica ciò che Shakespeare aveva fatto per il teatro:una rivoluzione. Ma ancora oggi indicano all’ascoltatore che la di-mensione tempo nella cultura non esiste, che i capolavori nascono dalcoraggio, dall’intuizione, dalla preveggenza, dall’ostinazione di unuomo e tale messaggio non si estingue, persiste, modella e influenzale coscienze anche secoli dopo la sua comparsa.

Cioè è sempre attuale.Se ti senti emozionato nell’ascoltare Bruce Springsteen in Drive

all night e subito dopo provi la stessa cosa con il Lieder di Schubert

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An Sylvia, ebbene, per la proprietà transitiva significa che per te il mes-saggio dei due Autori è lo stesso.

Dall’Inno alla Gioia passai quasi subito a Verdi, Bellini, Rossinie Puccini: certo, per la lirica il discorso non può prescindere da un pal-coscenico; lo spettacolo è l’unico modo per apprezzare totalmentel’opera. Però anche a casa, se togli un po’ di scoria tra un’aria e unacavatina, tra un preludio e un quartetto, come fai a non apprezzarenon dico il Va’ pensiero, ma anche Una voce poco fa, Casta diva, Ladonna è mobile, Un di felice eterea …

E un bel giorno comprai per 1.000 lire il 33 giri Jumpin’ withWoody Herman’s first herd: devo dire che Aldo Adamoli, villeggiantea Giretta, ebbe parecchia responsabilità in tutto ciò. Ancora oggi Blueson parade mi fa andare fuori di testa. Ma all’orizzonte comparve Nuttydi Thelonious Monk. Tanto per prendere qualcosa in prestito da qual-cuno: niente fu più uguale nella mia vita.

Ricordo ancora quando una sera con Giorgino andai da Giu-lio Marelli che si stava allenando sul sax tenore. Giorgio soffiò per laprima volta in vita sua in quello strumento e ne uscì abbozzata,rude, imperiosa, Nutty! Lo invidiai, lo ammirai, avrei clonato la suadote musicale, avrei ipotecato la mia collezione di minerali per poterlofare anch’io. Mi accontentai di acquistare col tempo almeno 500 long-playing di Miles Davis, John Coltrane, Count Basie, Oscar Peterson,Sonny Rollins, Ornette Coleman ecc ecc.

Se con la musica classica l’orchestra era quasi un suono unico,qui sentivo e imparai a distinguere i singoli strumenti: piano, sax con-tralto/tenore/baritono, tromba, flicorno, clarino e la voce che diven-tava pure lei strumento.

Lessi subito I primi del jazz di Milton Mezzrow e poi Free jazzBlack power di Carles e Comolli e mi vennero in mente i volantini ri-sorgimentali lanciati alla Scala con su scritto VIVA VERDI: la mu-sica che si fa politica e la politica che si fa musica.

Ebbi così la sensazione che ciò valesse anche per All you need islove, Blowin’ in the wind, per gli Inti Illimani, Garcia Lorca, Quasi-modo e per quanti altri recitavano, componevano, strumentavano le

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aspirazioni di chi voleva un mondo libero, autonomamente scelto emigliore, di chi voleva rompere gli schemi.

A quei tempi il sesso era il centro della nostra libertà individuale:odiavamo le imposizioni conformiste e volevamo esplorare i nostrisentimenti senza tirare in ballo regole e imposizioni. Dal sesso parti-vano quindi le nostre istanze di democrazia vera e vita da vivere.

L’ancheggiare di Elvis Presley, La Traviata, il solista dei Queen,ma anche Archie Sheep che gridava “Il mio sax è un simbolo sex”erano tutte facce della stessa medaglia.

Però se la musica classica è passione, se il rock è amore, per iljazz c’è solo un termine di paragone: complicità allo stato puro.

Come non ritrovare tutto ciò al vecchio scalo ferroviario quellasera? Avete visto quelle ragazze che muovevano le spalle o le gamberitmicamente guardando Faraò, Zunino o Bobby?

E quei cinquantenni che alzavano le braccia e ululavano? Cosaera quello se non complicità, cioè la passione e l’amore sommati in-sieme, quello di tutti i protagonisti di Nove settimane e 1/2 finalmenteespressi senza sottintesi malevoli, senza malizia, con grazia e garbo? Equando Durham & C. hanno bissato con Georgia on my mind chi sisarebbe rifiutato di dedicarla al proprio/a partner, chi non si è illusodi conquistarlo/a con un’atmosfera simile?

Sto scrivendo e sento il CD del Bobby Durham Trio: come vor-rei che questa fosse la tastiera di un piano! Come vorrei chiamarmiFaraò e suonare per Isola, per il mondo, sottintendendo ad ogninota che finché c’è musica c’è speranza, che solo i regimi retrivi e to-talitari hanno paura dei giovani ai concerti, che dal gregoriano in poil’uomo ha usato le note e le corde vocali per testimoniare il suo at-taccamento alla vita, al meglio.

Ma a tutto questo si aggiungeva l’atmosfera dello Scalo: pen-sare a una serata così tempo fa era impossibile. Per Isola esisteva soloil Piazzale della Chiesa con la Banda, qualche complesso rock, sem-pre all’ombra di una festa patronale e come riempitivo tra lotterie, ve-spri e gare di bocce.

No, l’altra sera non era così. Si usciva di casa per sentire jazz non per

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vedere chi c’era e chi non c’era. Un altro segnale che Isola è cambiata.Grazie anche al jazz.

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A GIBU’ 9

Non posso dirti che ci rivedremo di là perché gli uomini si sonoriservati questa prerogativa solo per sé stessi.

Posso prometterti che ogni volta, su per i ruscelli o lungo il Vob-bia, ti sentirò seguirmi, fedele non solo a parole, nonostante lo sforzonon indifferente dovuto al tuo peso.

Per me sarai sempre sdraiato sul tappeto con il muso tra lezampe a guardare perplesso Araone e Attila che vicendevolmente si la-vano, come solo i gatti sanno fare con delicatezza e affetto.

Sarai sempre quell’amico che poco ubbidiente, ma terribil-mente affezionato, finiva ogni volta per impormi la sua volontà di ri-manere nel prato ancora un po’.

Sarai sempre quello che appoggiato sulle zampe anteriori era ca-pace di aspettare per ore il momento in cui lo degnavo di attenzione.

Non è vero che siamo tutti uguali: voi siete migliori. Non avete bisogno di molto: solo di affetto. Vi si può dare qualunque leccornia ma ciò a cui aspirate è avere

vicino il vostro padrone. Voi non siete capaci di tradire né dimenticare; con i vostri si-

mili conoscete la competizione, non l’odio o l’umiliazione.Tu poi, Gibù, eri anche paziente con i cani piccoli e rompiballe:

li guardavi abbaiare e saltellare e sembrava che ti stupisse tutto quelcasino; non ti sei mai avvalso della tua mole per avvantaggiarti. An-che i gatti mangiavano nella tua ciotola e aspettavi che finissero.

Non posso pensare che ti ho perso: dovrò però avere la forza perconvincermene.

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RELIO E LE ARGILLITI

Cari Sergio e Marco,finalmente riesco a scrivervi. Pensate che dopo la vostra proposta

mi ero detto: “Perché a un geologo debbono sempre chiedere storiedi sassi e di oceani scomparsi, di animali impietriti e di versanti in-stabili?” Non ne avevo voglia di cominciare con la solita solfa … “ AMontoggio più di 60 milioni di anni fa vi era un mare calmo dove leparticelle di argilla si depositavano sul fondo formando …”

No, mi sono detto, Marco e Sergio sono degli originali, il loromodo di fare cultura non è mai didattico e scontato, quindi non gliracconto quella dell’uva, devo trovare qualcos’altro.

Quella dell’uva! Ma certo, posso cominciare col dirgli che Miglindi Giretta pigiava i suoi grappoli in una navassa e poi metteva il mostoin una vecchia botte dove con la bollitura cominciava a uscire dall’ap-posita apertura. Prendeva allora una specie di fango plastico, a tera gnera,in genere rosso vinaceo (ma guarda un po’) o grigio chiaro e lo model-lava intorno al foro costruendo un canale di scolo che arrivava a una ti-nozza in modo da riutilizzarlo. Questo materiale naturale affiorava a Pra-rolo e i bambini ci giocavano facendo orrende statuine o palline dagettare contro un muro dove restavano attaccate proprio come si vedealla Grotta di Toirano: solo che lì i grandi archeologi non hanno datoancora (che io sappia) un significato vero a questo fenomeno e pensanoa riti religiosi, scaramantici o chissà cosa.

Ma questa roccia debole non serviva solo a quello: Relio di Ca-scissa era specializzato in innesti di alberi da frutto e verso la fine difebbraio partiva da quel borgo a 1.000 metri di altezza, oggi abban-donato, e passando per la Serra, Spinola, S. Lazzaro scendeva a Tuscianel greto del Vobbia. Lì cercava, dove ogni anno le piene si diverti-vano a coprire e scoprire, uno strato dello stesso materiale che usavaMiglin di Giretta. Lo metteva in un sacco e ritornava, con due ore distrada a piedi, a Cascissa.

In precedenza aveva tagliato i rametti di albero da frutto (le mele

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roncaline o le ciattine, le pere dall’armella, le prugne settembrine) conalmeno tre gemme e li aveva messi sotto la sabbia bagnata in modoche ritardassero la fioritura. Al momento giusto scendeva su quelleisole di pietra che sono i campi da Cascissa a Busti, larghi due metrial massimo e lunghi una decina, uno sopra all’altro tenuti da maxe-e10 centenarie. A volte pensava che se le sue galline avessero fatto l’uovosui bordi di uno di quegli orti volanti sarebbe rotolato fino al Pontedi Zan senza mai fermarsi: ma gli animali hanno buon senso.

Trovato il selvatico da innestare, con il pennacco11 faceva unospacco alla testa del ramo segato e vi infilava un piccolo cuneo inmodo da tenerlo aperto. Poi incastrava, proprio sulla circonferenza,in modo che la corteccia del nuovo toccasse quella del vecchio, l’in-nesto sagomato e toglieva il cuneo. A quel punto sigillava con la teragnera presa a Tuscia le ferite della pianta in modo che l’acqua piovananon si infiltrasse, e fasciava il tronco con una striscia di stoffa vecchia.Un salice, u sanguin, teneva il tutto ben stretto e legato.

Che ne sapevano Miglin e Relio delle Argilliti di Montoggio ter-mine ormai entrato nella Geologia italiana e che contraddistingue pro-prio l’elemento semplice, frutto della Terra e della sua Storia, da lorousato? Forse Montoggio lo avevano sentito nominare perché era sullastrada di Torriglia dove qualcuno si spingeva, temerario, a comprarele patate da semina, e quarantin-e o gianche de Torriggia, ma delle Ar-gilliti del Cretacico senz’altro non conoscevano niente.

Oggi Relio, dopo il militare in Francia, Albania e Russia, riposain un cimitero tranquillo da cui non si sente il rumore di autostradee ferrovie ma al cui perimetro non ci sono alberi da frutto innestati,mentre Miglin, anche lui ormai tra i più, rimpiange probabilmenteil suo vino: sempre in bottiglioni mai nella trequarti.

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PUNNI E LA CALCE

«A volte osserviamo uno scalino, a volte camminiamo su un so-laio, ma mai ci chiediamo come è nato quel materiale che lo compone,che lo rende duro come la pietra.

Con Punni di Alpe invece, se ti sedevi sulla panca con le spalleal muro di casa sua, in una serata estiva quando si guardavano le stellee iniziavano i ceti12, non potevi non chiedergli ad un certo punto:

“Ma è vero che secondo te la calce di una volta era migliore delcemento di oggi?”.

Tutti sapevano in paese di questa sua teoria e tutti, pur rispet-tandolo e apprezzandolo come muratore e carpentiere, tendevano afarla diventare un tormentone da tempo perso.

Suo nipote, che studiava da geometra, stava zitto anche se noncredeva neanche all’influenza della luna sull’imbottigliamento delvino e lasciava che Punni si arrotolasse una sigaretta e iniziasse a par-lare:

“Mio padre mi diceva che intorno al ‘13 o ‘14 (del 1900, s’in-tende) erano arrivati dalla Lombardia dei tecnici che lavoravano nellagalleria ferroviaria di Borlasca e avevano sorriso quando gli fece vederecome otteneva la calce.

Lui andava sempre dove erano andati suo padre e suo nonno,là alla Costa Sarvega13 dove c’è uno spiazzo che sembra fatto apposta.Scavava un buco di circa 1 metro e mezzo, 2 metri di diametro e pro-fondo altrettanto. Era proprio sul ciglio della piccola scarpata e sottoci stava il fornello in cui metteva paglia e fascine umide.

Prendeva dei blocchi di pietra, pria de casin-na, lì vicino, di-rettamente dalla parete di roccia. Sceglieva con cura perché anche asoli 100 metri di distanza lo stesso banco dava una calce meno resi-stente e li inseriva nel buco. Sotto a tutto c’era la ramaglia e poi ve-nivano strati di pietre e legna de savergu fino a coprirne l’ultimo conterra bagnata. Una volta acceso il fuoco lo teneva avviato anche tregiorni e tre notti e poi lo lasciava raffreddare per cinque o sei fino a

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che la pietra diventava leggera e più chiara. A quel punto prendeva ibuoi e portava la calce viva a casa.

In un grosso recipiente la sommergeva di acqua e aspettava ilmomento che servisse a lui o a qualcuno della sua famiglia. Poteva pas-sare anche un anno: l’importante era che la calce fosse sempre sot-t’acqua e non toccasse l’aria. Otteneva così la calce spenta che me-scolata a sabbia fine o anche grossolana e, ovviamente con ancora unpo’ d’acqua aggiunta, gli serviva per costruire muri e case.

Questi tecnici gli dissero che loro in tre giorni facevano tre cotteperché usavano il carbone e quindi raggiungevano i 900 °C: lui conle sue ramaglie bagnate evidentemente non raggiungeva neanche i 6-700. Mio padre non rispose, perché non era presuntuoso, disse soloche quello che faceva andava bene per lui e che quindi non intendevacambiare. Anch’io ho fatto la calce con lo stesso metodo finché nonè comparso il cemento in sacchetti. La mia calce però resisteva di più,ma oggi è più comodo e veloce comprare il cemento”.

L’allievo geometra allora interveniva e spiegava che la tecnolo-gia dei materiali contraddiceva questi ricordi: “Anche il tempo sem-bra che cambi. Tu, nonno, dici sempre che da giovane gli inverni eranoterribili, che veniva tanta neve, che avevate i geloni alle mani. Ma nonè il tempo che cambia! È solo che le case e i vestiti sono migliori e al-lora ti pare di sentire meno il freddo. Forse qualche piccolo cambia-mento c’è stato, ma è una cosa naturale che fluttua negli anni e sta-tisticamente si ripropone. È solo alla scala dei tempi geologici che sipuò ammettere un cambiamento percepibile e significativo …”.

Fortunatamente a quel punto arrivava qualcun altro di Alpe chefinita la cena voleva ciccare il toscano in pace con gli amici e il discorsosi spostava su altri temi: dalla scabbia14 bruciata alla pioggia che nonarrivava, dalla qualità del fieno a seconda dell’altezza dell’erba fino allecimici che quell’anno invadevano i pagliai.

Punni taceva, non era un contadino e i muratori si sa, hannomeno variabili incontrollabili nel loro lavoro.

Anni dopo incontrai a Genova il nipote diventato geometra.

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Come va, come non va, il nonno ormai è mancato, il paese è cresciutoe lui lavorava in Soprintendenza.

Bene, “Sarai contento” gli dico. “Certo” risponde “ma ho unrammarico che solo tu puoi capire”.

E mi spiegò che negli anni ’80 aveva partecipato al restauro delPalazzo Ducale ed ai lavori al Porto Vecchio. Insieme ad altri, guidatida un giovane professore universitario, tale Ercolani, aveva dovutoconstatare che la calce usata per i moli antichi resisteva all’azione delmare meglio delle stesse pietre in essa inglobate. Strati di 20 centimetridi calce erano ancora intatti dopo secoli.

Infervorato e spinto dalla mia curiosità mi disse anche che que-ste calci venivano cotte a Sestri Ponente alle pendici del Monte Gazzoe il materiale di partenza era la dolomia che ancora oggi è sfruttata.Ma la calce odierna non ha la qualità e la resistenza di quella antica.Una studentessa aveva provato a rifarla cambiando alcune cose (e quicominciavo a perdermi perché non sono un ingegnere) come la tem-peratura di cottura che influenza la pressione di CO2, l’umidità pre-sente eccetera eccetera.

Insomma la morale era che i vecchi, come suo nonno Punni,inconsapevolmente avevano trovato il metodo giusto: riuscivano adottenere una struttura a grana fine che la calce cotta a 900 °C non ha.

Nel restauro del Palazzo Ducale invece avevano scoperto un in-tonaco di marmorino di calce pura spesso circa 1 o 2 millimetri cheper rifarlo avevano dovuto cercare due famiglie che ormai da anni nonlavoravano più ma conoscevano questi segreti.

Era poi ritornato con un geologo al sito dove Punni raccoglievale pietre da cuocere ed aveva così saputo che quello strato era il piùcalcareo dei dintorni, con una quantità di argilla giusta per ottenerela calce selvatica, quella che si assomiglia di più alle calci idrauliche.Quelle rocce erano il cosiddetto Flysch dell’Antola di cui erano fattii monti di Alpe e dei paesi vicini della Valle Scrivia da Torriglia e Mon-toggio fino a Isola; flysch significava per i geologi “caotico” perché eradifficile che uno strato fosse uguale all’altro sia nello spessore che nellacomposizione mineralogica, cioè nelle quantità di carbonato di cal-

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cio e argilla. Trovare il livello con una percentuale di argilla tra il 5 edil 10%, senza gli strumenti odierni, era lavoro da veri esperti, cioè “dicoloro che dell’esperienza fanno tesoro”, aveva detto l’anziano geologo.

Viveva quindi con il rimorso di aver snobbato il nonno, di nonaver riconosciuto in quelle sue parole una saggezza atavica che non erasolo tecnica ma anche morale.

Poco prima di incontrarlo avevo comprato un piccolo libro incui, sfogliandolo, mi erano capitate sotto gli occhi due frasi:

“...Da quando la ragione ha dato agli uomini la coscienza di es-sere loro i padroni del mondo, si sono divisi in due gruppi: quelli chevogliono trasformarlo continuamente, convinti di migliorarlo, e quelliche si sentono responsabili di conservarlo, convinti di salvarlo...”.

“... Non si può salvare il mondo se non si salva l’uomo, ma èimpossibile salvare l’uomo senza salvare il mondo ...”15.

Glielo regalai sperando di convincerlo che altri personaggi più fa-mosi e importanti, di me e di lui, avevano avuto momenti di scettici-smo o buchi neri della ragione ma che poi, si spera, si erano ravveduti.

Anche se troppo tardi per gli affetti familiari».

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UOMINI DI GALLERIA, GALLERIA DI UOMINI16

Il Capo Cantiere rimase perplesso per la mia arrabbiatura.Però quell’inclinometro17 non stava fermo e poi il cunicolo di dre-naggio che non andava avanti ... Bastava un temporale estivo per met-tere in crisi tutto il lavoro. Da buon bergamasco si accese l’ennesimasigaretta e disse: “Dai dottor geomago, non prendertela, faremo tuttoil possibile! Adesso andiamo a Iselle e mangiamoci su. Vedrai che itempi saranno rispettati”.

Salimmo sulla Land Rover in dodici, come al solito; avevo l’el-metto del Bepi che mi schiacciava contro il finestrino e maledicevo ifiloinglesi che preferivano quelle assurde macchine a due comodissimePanda 4x4. Era inutile che gli spiegassi che nelle gallerie oggi si puòentrare in pantofole, niente, loro volevano il carrarmato.

Arrivati nel sottopasso della stazione l’autista con difficoltà in-granò la marcia: sulla parete di roccia viva spiccava una grande la-pide; la mia innaturale posizione me l’aveva fatta scorgere. Una se-rie di nomi in fila e una frase retorica, subito mi venne in mente cheeravamo all’imbocco della Galleria del Sempione, la più lunga.d’Italia, 19 Km.

“Ferma! Ferma! Voglio vedere quella lapide!” Undici bocche affamate di minatori smoccolarono in vari dia-

letti rudi, che idea veniva a quel benedetto geologo? Prima le misureal fronte18, poi le temperature dell’acqua e adesso anche la lapide, chetra l’altro porta male.

Una pubblicazione sui lavori nella Galleria del Sempione così recita:“... Per effetto delle pressioni interne si ruppero travi di quer-

cia di 40x40 cm. mentre la galleria si deformava sino a chiudersi ...dopo una volata si ebbe una violenta irruzione di acqua della portatadi ben 1.118 litri secondi.

Il 5 novembre 1902 all’ottavo chilometro la temperatura raggiunsei 54 °C. Finalmente il 24 febbraio 1905 alle ore 7,20 venne aperta laprima breccia che mise in comunicazioni italiani e svizzeri …”.

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Quanti minatori sono morti durante i lavori e poi a causadella silicosi?

Un tuffo al cuore, un cognome e un paese familiari nella lunga li-sta: BARBAGELATA G.B. (Torriglia). Ma allora c’era uno della Valle Scri-via! Sarà partito da Pentema o da chissà dove, magari dopo aver lavoratoin altre gallerie era finito lassù tra quelle gole e quelle rocce così diverse dallenostre. Con lui qualcun altro di Vobbia o di Voltaggio, forse ci saranno statianche un Desirello, uno Zuccarino, un Garaventa, un Tavella.

Mangiai con poca voglia nonostante che il Toni per l’ennesimavolta raccontasse dello scherzo fatto al topografo, quando il sondag-gio in avanzamento19 dava per sbagliati i suoi conti.

E sul treno pensavo alla mia vita: vado e vengo in un giorno daDomodossola e mugugno; chissà allora quanto saranno stati senza ve-dere Monte Reale? E poi io vado in galleria quando ce n’è bisogno eper un tempo limitato, loro, come oggi, avranno lavorato almeno ottoore al giorno nella polvere e nell’umidità, con la roccia che non sem-pre “ride”20 e che a volte fa paura. Sai solo che occorre affrontarla concalma perché le reazioni non sono mai sicure.

Alla sera a casa parlo con la Lilli che è un po’ la memoria sto-rica della. famiglia21 ed al nome di Iselle-Trasquera ride:

“C’è nata nel ‘900 la madre della Milia, la Maria. Si chiamava Bar-gelli e i suoi erano dello stesso paese toscano del Remo Vitali; sono ve-nuti qui per la costruzione della galleria ferroviaria tra Ronco e Arquata.”

Nooh!“Ma la Milia non è di Serré?”“Sì, lei è nata a Serré perché sua madre ha sposato un Repetto.

Un fratello della madre è morto proprio nella galleria di Borlasca unpo’ prima del ‘15”.

Pochi giorni dopo vedo Erminio abbronzato anche lui dal soledi cantiere:

“Mio nonno ha lavorato al Sempione, era caposciolta22, poi allagalleria di Ronco e quando hanno sospeso i lavori per la guerra è an-dato con Savio a fare le piccole gallerie del Castello della Pietra. Unamattina del ‘17 hanno caricato la volata23, allora usavano una polvere

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bagnata con olio, una mina non è partita così lui e un altro sono en-trati a vedere: ci sono rimasti sul colpo. I Fortieri sono marchigiani ehanno girato l’Italia sottoterra”.

Mi vengono in mente i Tartagni, i Cappelli, i Beneforti e poi iPerri: autostrade e ferrovie isolesi hanno fermato la marcia di questiminatori, qualcuno sarà arrivato addirittura con Sommelier e Gran-dis24 quando nel 1853 costruirono la galleria di Pietrabissara.

Vado all’avanzamento dopo qualche giorno, Bepi e Toni no-nostante la polvere fumano tranquilli sotto centinaia di metri di roc-cia, il rumore è assordante e non hanno le cuffie (per sentire se le cen-tine miagolano25, dicono loro).

Un gesto, un saluto: “Il Doria l’è come la roccia di Antigorio”.“L’Atalanta l’è come noi, che la roccia di Antigorio la buttiamo

giù con un chilo per metro cubo26!”Me la sono cercata, me la meritavo. Loro sono i Signori del sotterraneo, loro non hanno paura.

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ALTRI UOMINI DI GALLERIA

“Hai preso la lampada?”“Si”“Portiamo anche i pantaloni impermeabili?”“Si”“Hai svegliato Bolla?”“Senti ... non è la prima volta che noi entriamo in quel male-

detto cunicolo, so benissimo quello che bisogna fare! Smettila di rom-pere e muoviti, è un’ora che ci siamo alzati.”

Le Cime Bianche di Telves, stamattina hanno il colore della de-pressione, quello stesso che ricordo dell’Alpe di Marmassana vista dalponte alla mattina presto. Un bel dire quello di Logan! Anche lui ènervoso. Sono tutti nervosi. La fresa si è piantata, bloccata in fondoal cunicolo dalla spinta della roccia; da me vogliono sapere se ce nesarebbe stata ancora tanta di quella porcheria plastica davanti alla mac-china27. L’acqua inoltre, nei primi chilometri, è aumentata contro ogniprevisione e adesso esce da ogni fessura proprio come nell’etichettadella San Bernardo.

Anche lì, depressione.Mi prendevano quelle bottiglie trent’anni fa in farmacia, solo

quando ero malato perché allora costava troppo o forse non era dimoda comprare l’acqua. C’era un minatore sull’etichetta, con un grancappello e una lampada e guardava una specie di fiotto che usciva daun buco in una parete sotterranea.

O era la Lurisia?A mezzogiorno vado in paese a vedere se ne hanno. Sono

scemo; qui hanno solo acque austriache28 e poi oggi chissà a che orausciamo.

La vita in cantiere ha comunque i suoi aspetti ridicoli: ricordoquando Venin andò con il Direttore Tecnico a comprarsi le scarpe a Man-tova, per risparmiare. Nel negozio, come al solito, si tiravano le tasche e

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la commessa ingenuamente chiese:“Ma come, vi prendete in giro e vi date del lei?”“E si, lavoriamo insieme in galleria”“Ah! Vendete quadri. Interessante: allora conoscete tanti artisti!”Chiamali artisti …Oppure quando vicino a Pasqua un cappellano tirolese celebrò Messa

nella sala ritrovo. Chi non era di turno fu alzato dal letto e spedito a presen-ziare. Anch‘io, per educazione, mi ci recai. Ero appoggiato alla parete di fondoe mi divertivo ad analizzare gli strani abiti degli operai sotterranei in liberauscita: un insieme di tute da ginnastica, felpe con scritto University of Cali-fornia, scarpe da lavoro, piumini stinti e strappati, capelli ancora umidi peruna frettolosa doccia senza shampoo, lo sguardo di chi cerca una sigaretta.

Il sacerdote, in un italiano germanizzato, aveva iniziato la predica.Eravamo quasi tutti con le braccia incrociate, chi guardva il soffitto, chii turni di domani, chi il cuoco che intanto spadellava in cucina.

“ … Foi fate laforo duro, lontano da fostra famiglia, sempre alpuio, con grande pericolo, fostri molti amici fi guardno da lassù, io fi au-guro tanta fortuna e spero di rifederfi un altr’anno!”

Immediatamente una trentina di mani scesero all‘altezza media delloro possessore e toccarono quello che viene considerato il portafortuna piùefficace: Don Volkmar sgranò gli occhi perché la scena spontanea dovevaessere stata proprio eclatante! Un rito pagano finito per caso nel mezzo diun serissimo precetto pasquale.

Il capo cantiere, che ci teneva ai buoni rapporti con i locali, fecepoi un cicchetto a tutti, me compreso, perché statale, laureato e per di piùnato a sud di Bergamo senza un‘educazione adeguata. Si calmò solo all‘in-domani quando il sacrestano portò una cassetta di vino bianco Traminerofferta dal simpatico sacerdote.

“Ragazzi, la prossima volta sentite Messa in ginocchio e con le manigiunte!”

Ma intanto cercava disperatamente il cavatappi che nei momentigiusti è sempre nel cassetto sbagliato.

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I primi passi nel cunicolo sono duri perché devi abituarti alfondo irregolare, con le piccole rotaie, qualche masso staccato, ma èsoprattutto il fiume d’acqua che ti fa faticare. Poi inizi a sudare eguardi sempre più insistentemente i numeri sulle pareti che indicanola progressiva rispetto all’ingresso: ... 1.250 metri, 1.300, 1.350 ...2.750, 2.800 … ecco qui iniziano le centine ... 4.000, 4.050, il tubodell’aria è strappato e sibila. Ormai non c’è più un centimetro di roc-cia visibile sulle pareti, tutto calcestruzzo proiettato e centine d’acciaio.Sopra di noi almeno mille metri di montagna.

Logan ha cessato di parlare della sua Golf che ha preso fuoconell’autostrada, Rico penserà certamente a come tirare fuori la fresae salvare i conti della ditta; da parte mia ho da tenere il cuore a badaperchè un senso di soffocamento sta salendo alla bocca.

Ci siamo tolti le mantelle impermeabili, basta stillicidi, sulfondo corre solo un rigagnolo. L’aria è mefitica e si incontrano bot-tiglie di birra vuote, uno stivale, delle tavole, delle frasi in tedesco cheil topografo scrive con lo spray rosso per ricordarsi i punti che gli ser-vono.

Ci fermiamo a bere qualcosa, ovviamente in piedi. Riesco aguardare finalmente l’orologio perché è sotto alla camicia e alla tuta:sono le nove.

Quattro chilometri, come da Isola a Ronco, forse. Però cisiamo fermati a vedere un sacco di cose.

Una lampada comincia a dare segni di appannamento, per imiei occhiali è una tragedia, mentre il sudore cola sotto la camicia. Lepoche parole che diciamo rimbombano; mi fermo un po’ indietro espengo la lampada per provare il nulla: buio e silenzio totale … da im-pazzire. Si sente il cuore battere, non dall’interno ma dall’esterno!

Cerco di pensare ad altro e mi viene in mente il Vobbia dai TreLaghetti a u Lagu de cadenne29 con un odore di salici e ambra solare,le prime ragazze in costume, perché?

Lì, sulle ripide pareti calcaree ci sono quei buchi fatti dai genieriin tempo di guerra, e risento qualche genitore che grida perchéstiamo entrando; c’era un fango repellente sul fondo, erano possibili

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antri misteriosi pieni di serpenti secondo i più anziani ... associazionedi idee, autoanalisi, ma dove sono adesso?

Ho di nuovo Isola nella testa e rivedo la costruzione della ca-serma dei carabinieri, decine di anni fa, quando insieme ad altri neesploravo le camere ancora vuote, che rimbombavano ... ecco: sichiude una porta e rimaniamo intrappolati!

Sono tornato bambino, prigioniero in quella stanza buia e nes-suno mi sente.

E se urlo come allora?Riprendo a camminare e ho un dubbio: sarà il verso giusto? Mi

sarò girato nel buio inavvertitamente e starò andando dalla parte sba-gliata? No, sono in salita, vado bene.

“Il gorgonzola ha bisogno di marsala secco, non puoi berci del bar-bera, porca vacca!”

Teoria e pratica si sposano nelle parole di un grande intenditorecome Bolla. Poi riprende:

“Ti ricordi quando per un mese il cuoco ha fatto solo maiale di se-condo? Mi usciva dalle orecchie. Un giorno esasperato gli chiedo una fet-tina di vitella e nei miei occhi c’era un odio profondo. Me la porta sorri-dendo, 1’assaggio e gli dico: ma è maiale!”

“Sì, ma è come se fosse vitella!”Sperava nella suggestione ...Un‘altra volta arriva il Grande Capo, era di mattina, con forse sette

o otto gradi sotto zero. Gli offriamo un caffé in mensa, è sorridente (sod-disfatto della produzione? contento di aver riposato nel dormitorio fattoda Cecco Beppe?). Lo sorseggia, poi si rivolge a quel maledetto cuoco e si-bila:

“Ne ha ammazzati tanti stamattina con questa roba?”Giornata rovinata.

Riprendo il mio viaggio al centro della Terra in un silenzio daincubo: Logan e Rico mi aspettano più avanti parlottando appoggiatiuno di fronte all’altro. Hanno spento le lampade per risparmiare le

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pile. La loro presenza dovrebbe rinfrancarmi ma mi accorgo che peri miei nervi è ancora peggio.

Vedo le prime spaccature nel rivestimento e mi sembra che laroccia spinga anche sull’aria del cunicolo, che tutto poi si ripercuotasul mio corpo: forse sono il diavoletto di Archimede (o di Pascal?) diun colossale esperimento di fisica.

Certo le gallerie hanno qualche riflesso sulla nostra mente,forse rappresentano un tentativo di ritorno nel ventre materno, forsei nostri antenati hanno vissuto migliaia di anni nelle grotte e cihanno trasmesso nei cromosomi quell’aspirazione all’antro caldo e si-curo. Ho conosciuto un sacco di gente che si divertiva a scendere sot-toterra, basta pensare agli speleologi, ma io, pur attratto da questa at-tività (e me lo ricordo adesso), più che a Bossea ed in quei piccolicunicoli del Vobbia non sono mai stato.

Ora il sudore è di un altro tipo, almeno il mio: è panico cri-stallino. Vedo ondeggiare le pareti e sento che ormai sono chiuso den-tro, mi sembra che l’acqua tenda a salire e che tra poco arriverà finoa noi. La camicia appiccicata alla pelle stringe il collo, continuo a cre-dere che non finisca mai questo buco inospitale.

Un altro flash mi illumina: Il Signore degli Anelli di Tolkien! Unlibro bellissimo e inquietante che descrive un’avventura fiabesca nel-l’oscurità delle Miniere di Moria, l’ho letto tempo fa e mi ha colpitoper le sue descrizioni:

“… col moltiplicarsi delle insidie la marcia si fece più lenta. Pa-reva già che i loro pesanti passi fossero andati avanti, avanti, senza fine,sin nelle radici delle montagne. Erano più che sfiniti, eppure non offrivaalcun sollievo il pensiero di una sosta in qualche parte ... Non vi era al-tro rumore che quello dei loro piedi; il passo sordo degli stivali da Nanodi Gimli; ... quando sostavano per un attimo, non udivano assolutamentenulla, salvo di tanto in tanto un debole gorgoglio e un gocciolare di ac-que invisibili. Eppure Frodo incominciò a udire, o a immaginare di udire,qualche altra cosa ...”30.

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Anch’io sono come Frodo: sfinito, ma fermarmi non mi portasollievo e non ho accanto il Mago Gandalf con il suo bastone dai po-teri eccezionali.

I miei due compagni continuano a camminare e imprecano peril caldo, come se si trovassero in una qualunque gita in montagna.

“Logan, vado indietro!”“Sei matto? Abbiamo ancora poco ... ”“Non ce la faccio ... ho ... paura ...”Mi accorgo di aver sbagliato termine: è come spiegare ad un ci-

nese il gusto del ragù. Logan non sa cosa sono paura, angoscia o an-sia. Dovevo dire che sto male e basta.

Ci pensano le mie gambe a mettere in evidenza il mio statod’animo: semplicemente si afflosciano. A quel punto Rico capisce chenon è una cosa leggera e decide di tornare.

Mi prendono sottobraccio, ma ad ogni passo che faccio versol’uscita sento le forze ritornarmi finché poi cammino da solo. Svelto.

Penso che la cosa farà il giro di tutti i cantieri. “Ti ricordi quando il Teorico se 1’è fatta addosso nel cunicolo?” “Fanno tanto i duri, ma poi son galli d’allevamento!” Forse smetteranno di parlare quando entrerò in mensa alla

sera. Sarà inutile che racconti cosa ho fatto al mio paese, le escursioni,gli aneddoti ... per loro sarò sempre un fifone.

Non m’importa. Adesso voglio uscire ... 3.250, 3.200, 3.150 ...in discesa si va meglio, anche se ormai un po’ d’acqua entra dal collo... 1.600, 1.550 ... qui c’è la grande curva, la luce la vedremo solo agliultimi metri ... 800, 750, adesso sto correndo ed ho contagiato gli al-tri: o forse lo fanno per non lasciarmi andare da solo?

Un’aria più fresca entra sotto la tuta ed un chiarore avanza, si,è l’uscita! L’effetto dei fumi all’imbocco o di chissà che cosa dà unaparvenza notturna al paesaggio: adesso mi calmo. Mai visto contanto piacere una centrale di betonaggio.

Mi sembra di essere di nuovo in salvo nella Strada Vecchia.

“Siete già tornati?” chiede Bolla stupito togliendo le mani unte

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dall’interno del compressore.“Era inutile proseguire” fa Logan “le batterie sono a terra e po-

tevamo rimanere al buio”“Bisogna cambiare il caricatore, non dobbiamo rischiare ogni

volta” aggiunge Rico.Guardo stupito i due.“No!” dico, e mi giro verso Bolla “sono tornati indietro perché

ho avuto un attacco di panico, chiamala claustrofobia, paura, strizza,ma non riuscivo ad andare avanti!”

Bolla ha costruito tante gallerie che ormai l’Italia l’ha vista dallaparte dei più tanti: ha iniziato quando si utilizzava ancora il legnamee gli incidenti mortali erano in media uno al chilometro, esclusa la si-licosi.

Per me invece la carriera è finita appena iniziata, pazienza.Ciao ragazzi, dovrei dirgli, è stato un piacere conoscervi, siete

simpatici, ma io non posso rimanere in questo cantiere e diventarnelo zimbello.

Prendo la mantella e mi avvio alla doccia.“Ehi belin!”È la voce di Bolla; adesso mi prenderà in giro. Sembrano tre giu-

dici, mi guardano, non ridono. C’è già odore di spezzatino in questoeffimero villaggio di containers e case prefabbricate; avrei voglia disprofondarmi sotto le lenzuola, dimenticare che ho delle debolezze in-compatibili con la mia età e il mio mestiere.

La bandiera italiana voluta dal capo garrisce sul pennone maRin Tin Tin è in ritardo.

“Lo sai quanti ne ho visti diventare bianchi e portati fuori a brac-cia? Bellunesi, abruzzesi e anche tuoi compaesani mangia-pesto. È un bi-glietto che bisogna pagare. Adesso stiamo tutti zitti ma domani entri conme. Solo dopo vedremo se darti una martellata sulla gnuca!”.

Oggi, a distanza di quattro anni, il cantiere lo stanno smon-tando, la galleria ha ancora necessità di qualche ritocco, poi è finita.Rico e Logan sono già a cento chilometri di distanza alle prese con le

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prime baracche, i primi problemi di un’altra stagione (“io con quellolì in stanza non ci dormo: in Libia russava come un orso ... voglio ve-dere Tele Valtellina altrimenti me ne vado ... ragazzi, se vi provate an-cora a rompere le palle a quella che serve in tavola vi licenzio: è la ni-pote del Sindaco ... ”).

Bolla mi stringe la mano e brontola di portare via tutte quellemaledette pietre che ho lasciato nel magazzino degli attrezzi. Lui an-drà invece nel “cantiere sotto casa”, cioè in pensione.

Ha un paio di occhiali scuri comprati da un marocchino arri-vato fin quassù e le Cime Bianche di Telves riescono a starci dentroriflesse; i suoi blue-jeans sono stirati con la piega nel mezzo come fos-sero pantaloni normali, la cravatta ha un nodo bestiale, si vede che nonla mette mai. Forse bestemmia un po’ meno.

“Ti ringrazio, senza di te non sarei mai più entrato in un cu-nicolo. È stata una grande cosa farmi riprovare e accompagnarmi: hoanche capito che nella vita è bene dare una possibilità in più a quellicome me”

“Sei una bestia!” sibila in veneto mentre si infila la giaccatroppo stretta “non hai imparato un’ostia, boia d’un can. Una possi-bilità in più bisogna darla a tuti, non solo a quelli come te, scoppia-libri e cocacola!”

La scuola che frequentava non ha mai insegnato pedagogia néfilosofia, ciò non toglie che sia diventato un grande personaggio: ca-pire gli altri è un diploma che non si prende in nessuna università.

La sua scassatissima Opel sta già partendo con un rombo.Sono un pirla, devo ammetterlo, perché il mio cuore diventa piccolopiccolo.

Se non fosse ridicola e impropria una scena del genere tra mi-natori mi verrebbe in mente il finale di Via col Vento:

“Domani è un altro giorno”“Sì O’Hara, domani è un altro giorno”Mi giro e rientro nell’ufficio per preparare le poche cose da met-

tere in valigia. Stacco le foto appiccicate disordinatamente sull’armadio.In una c’è Rico senza barba sulla jeep impantanata; in un’altra

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le due giornaliste vichinghe del Dolomiten con tuta misura XL, stivali,elmetto e dei nani estasiati attorno.

Ho anche quella in bianco e nero scattata a Paola mentre prendeun caffè in un boulevard di Parigi: solo gli occhi sono a fuoco.

Quindi ripongo le polaroid di gruppi in visita, anonimi, tuttiuguali, sorridenti sul fronte di scavo come giapponesi a Firenze, maimpacciati e fieri con le mantelle gialle indossate per l’occasione.

Per ultima prendo quella mia e di Bolla sulla fresa. Dietro c’èuna sbiadita scritta a pennarello con la calligrafia di chi ha mani grossee calli secolari:

“13/7/82 al Pede — me amigu - progr. 6.150 cunicolo”Si nota il mio viso che è disteso e lui che ride come un pazzo.

Mi svegliano dei rumori insoliti. Ho fatto uno strano ed agitatosonno, devo finirla con canederli e speck31 a cena. Al buio 32 cerco l‘oro-logio e il calendario, amici che mi ricordano la direzione della vita: è pre-sto però per alzarsi. Sono le sei e un quarto di martedì 12 luglio, S. For-tunato, anno stupendo per chi ama la Nazionale ed i mondiali di calcio:siamo campioni. Logan è già in piedi perché sento che traffica nella suastanza e parla con il capo sciolta33 del turno di notte appena smontato.

Speriamo che la fresa non si sia bloccata, ieri sera faticavano a pro-seguire34.

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È TORNATO ARZIMBA?

Si presentò la prima volta in estate quando il turno pomeridianousciva dalla galleria e c’era ancora un po’ di luce. La Letteria cominciòa raccogliere qualcosa per lui in mensa ogni sera e divenne uno di noi.

Allora lavoravo al rivestimento in calcestruzzo e pensavo di es-sere fortunato: avevo un salario qui in Italia, ritornavo una volta almese a casa, dormivo in una baracca con stanze a due letti e potevovedere la televisione dell’Impresa.

Mi sembra che lo scavo allora proseguisse bene, non ricordo in-terruzioni o pause, i camion giravano continuamente sollevando pol-vere o schizzando fango e lui aveva imparato ad evitarli: sapeva chesbucavano da quel buco nero contro la collina e si dirigevano verso ilruscello, gli bastava quindi scavalcare l’imbocco e attraverso i ma-gazzini arrivare alle cucine.

Non si può dire che ci desse molta confidenza, ma era giustocosì. Anche i minatori non avevano troppa voglia di moine, se non aSanta Barbara o quando arrivavano brutte notizie dal paese.

Io ero il più giovane e ogni tanto cercavo di accarezzarlo, nonera un tentativo per accattivarmelo, lo giuro, era che mi sembrava solo,o per lo meno poco compreso dagli altri, anche se nessuno lo mal-trattava o sbeffeggiava.

Una sera il capo cantiere andò a vedere i nuovi casseri a Imperiae allora decisi di fargli visitare la galleria: un’idea cretina come un’altra.

Mio cugino aveva una doccia in cortile ed al sabato facevamo lafila per lavarci. I gatti osservavano sorpresi quegli animali più alti che lun-ghi, in costante equilibrio precario, senza pelo , che si buttavano sotto ungetto bollente. C’erano Attila, Faccia Bruttilla, Araone e uno che chia-mavamo Rossetto Idraulico per il colore e la propensione ad osservare l’ac-qua che cadeva. Mia nonna diceva che facevano bene al cuore perché ri-posavano la testa se li tenevi in braccio alla sera e ronfavano. Be’, incantiere è tutto un po’ diverso perché le poltrone non esistono e se ognuno

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avesse un gatto ci dovrebbe essere il veterinario quando non c’è neancheun infermiere.

Comunque non fu difficile convincerlo a salire sulla Land Ro-ver: lui non sapeva che guidavo da pochi giorni. Si fidava.

Chi entra in galleria per la prima volta crede di trovare un maredi gente che sgobba come ad una catena di montaggio e magari unatensione, non dico paura, che pervade chi lavora vicino al fronte diavanzamento. Non è così: in giro ci sono a volte i topografi, un elet-tricista, quelli come me che si dedicano ai calcestruzzi, e poi due o treveri minatori nel punto più avanzato e pericoloso.

Tutto il resto sono camion che entrano ed escono, visitatorirompiballe e rumori. Questi e quelli sono tanti e tutti diversi, ma poici si abitua in un modo o nell’altro. In quanto ai sentimenti sono ingenere di noia o fatica perché chi ha visto mille volate non ha più cu-riosità di incontrare chissà che cosa.

A metà del tragitto vedemmo il mio amico Venin ma eratroppo preso dalle betoniere per considerarci anche solo un attimo.Proprio la sera prima la Letteria gli aveva portato una scodella di fa-gioli e lui, con la battuta sempre pronta, gli aveva sibilato:

“Me ne faccia avere qualche metro cubo che li mettiamo sulpiazzale a strati: sono meglio della ghiaia”.

Mi stupivo sempre di come sapeva coniugare il suo carattere cri-tico ad oltranza con l’ironia e con il mestiere, forse fu il nostro primoaddetto alla “qualità” perché controllava anche la data sui gelati dellospaccio, ma allora non ne sapevamo niente di questa nuova specia-lizzazione. Una volta a Ferrara, in un pomeriggio di caldo tremendo,mi invitò a bere in un bar. Io ordinai un’aranciata e lui un bicchiered’acqua minerale mezza naturale e mezza gasata. La signora da die-tro il banco rispose:

“Allora le do’ la Ferrarelle...”. Venin con calma ribatté:“No, perché ha 1.500 milligrammi di residuo fisso”. Lo ammirai.Ma intanto il mio ospite Arzimba, perché questo era il suo

nome, non mi sembrava per niente interessato alla gita ed a quello che

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gli raccontavo: si era addormentato sul sedile.

Quanto spazio bisogna lasciare in un foglio per dare l’idea deltempo?

La maestra non me l’ha spiegato e io leggo pochi libri. So cheal punto che adesso voglio raccontare i camion non uscivano più dal-l’imbocco sul cantiere ma percorrevano ormai la galleria fino al suotermine verso il mare.

Arzimba non si era più fatto vedere, forse aveva capito che ioero interessato maggiormente ad altre cose o forse percepiva la mia tri-stezza perché l’inverno ai minatori fa tristezza, doppia rispetto a voi,perché si finisce a non veder mai la luce naturale. O lavoriamo in sot-terraneo o dormiamo.

E Arzimba me lo dimenticai.

“Ride o non ride?”La domanda si fa ad ogni cambio turno: se la roccia spinge, se le

centine scricchiolano, se i bulloni si spezzano allora la roccia non ride.Ma, paradossalmente, non sono quelli i momenti pericolosi per-

ché gli uomini stanno attenti e non mancano i mezzi per fronteggiareogni eventualità.

Il problema purtroppo nasce quando la roccia è contenta, sem-bra che non serva nulla a sostenerla, tutto va bene, si avanza veloci,scattano i premi di produzione, la gente si distrae e ...

Fu così il primo incidente al quale assistetti.Cuccurullo aveva lasciato i pomodori di Caserta per fare l’ope-

raio in galleria ed il suo compito era quello di manovrare la pompadel calcestruzzo, un lavoro monotono che ti fa pensare troppo a casatua, che ti rovina i polmoni, che però ti fa comprare i BOT e sperarein un pezzo di terra in futuro.

Probabilmente vedeva il sole della Campania (sì è un’espressionebanale ma questo racconto non lo scrivo per avere il Premio Nobel, vo-glio solo dirvi come stanno le cose) quando un pezzo di roccia si staccòdal tetto della galleria e lo colpì. È assurdo, è assurdo vedere un amico

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steso per terra, il casco in mille frantumi e quel pezzo di roccia lì vicino.Dico un pezzo di roccia perché è così che si muore in galleria: bastanodue chili di calcare o granito per togliervi da mezzo, l’importante è chela loro stazione di partenza sia ad almeno otto metri sopra di voi.

L’accompagnammo al cimitero e sul cumulo poggiammo quellapietra ed un elmetto nuovo. E fu proprio lì che mi ricordai di Arzimba.

Il nome glielo aveva dato Cuccurullo che possedeva questa pre-dilezione: chiamava il capo cantiere Nembo Kid, il ragioniere era Cru-civerba ed io Archimede, poi c’erano Penna Bianca e Stramal, Mago-Stinco e Duracell.

Forse mi scappò anche da ridere al funerale, ma rividi la scenacome fosse stato ieri: tutti in cantiere aspettavamo il Presidente del-l’Abkasia che è una Repubblica sul Mar Nero con capitale Sukumi.Preparativi, ruffianaggini e pulizie, bisognava fare bella impressioneche forse ci avrebbe dato lavoro per tre tunnel là in quella terra dovegli aranci e i limoni dicono che maturano due volte l’anno. Viene do-mani, no, domani non può; viene domenica, no, va dal Papa; vieneil 15 luglio, no, va da Ranieri a Montecarlo. Insomma, tra un falsoallarme e l’altro il Presidente dell’Abkasia non si fece più vedere.

Io e Cuccurullo eravamo seduti sotto un albero a commentarequeste bufale estive sul calar della sera, quando lui improvvisamentegrida e ride:

“Eccolo Arzimba, è arrivato!”Un magnifico gatto strabico stava facendo il suo ingresso al

campo e per prima cosa si strofinò sulle gambe di Cuccurullo.

Ancora adesso lo aspetto e ogni tanto chiedo a Letteria:“È tornato Arzimba?”“No, non l’ho visto e se torna non so cosa dirgli di Cuccurullo”

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NOTE

1 Fionda.2 Briglia in calcestruzzo che evita l’erosione delle fondazioni del ponte tra

Isola e Cantone.3 I salici.4 Pubblicato su AA.VV., Tradizioni religiose isolesi, Centro Culturale di

Isola del Cantone, 1991.5 Durante il periodo fascista (1922-1943) si iniziò la costruzione di un edi-

ficio che avrebbe ospitato oltre che la sede del Partito anche le attività culturali esociali del paese.

6 Attuale residenza di Maria e Renato Seghezzo.7 Amedeo Zuccarino.8 Dagli Appunti del Centro Culturale del 1998. Il Centro aveva organizzato

una mostra fotografica dedicata a Deddo.9 Gibù (da Gibuti) era un Mastino dei Pirenei (circa 70 kg di peso), bianco

e nero. Vissi con lui dal 1996 al 2003.10 Muretti a secco.11 Roncola.12 Pettegolezzi.13 È un toponimo inventato, come tutto il racconto d’altronde.14 Bosco ceduo, da taglio.15 Questo racconto è, come già detto, immaginario, ma la sostanza delle vi-

cende e cose dette intorno alla calce è vera. Debbo tutto quanto da me scritto a quelMaestro che è Tiziano Mannoni, insigne docente all’Università di Genova, che hasaputo coniugare la Scienza con l’Esperienza degli umili. Egli ci ha insegnato cheancora oggi purtroppo molti preferiscono dimenticare in pochi anni ciò che si è im-parato in centinaia e che non sempre è possibile ricostruire mezzi e fasi di lavora-zione per recuperare il perduto. Ercolani, il giovane archeologo, è uno dei prota-gonisti de Il Fantasma della Ripa scritto dal Prof. Mannoni all’epoca delleColombiadi quando il porto vecchio di Genova fu ristrutturato e aperto al pubblico.Per una più documentata descrizione delle fornaci per calce si veda F. Bandini, C.

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Montanari, A. Spinetti, “Quarta campagna di archeologia ambientale di Vobbia(Ge): i forni da calce”, in Archeologia Postmedievale, n. 3, 1999.

16 Strumento che misura i movimenti dei terreno a causa di frane o scavi ingalleria.

17 Fronte: la parte più avanzata della galleria in costruzione18 Sinonimo di “fronte”.19 È un modo di dire dei minatori per spiegare che al fronte c’è una situa-

zione tranquilla e senza problemi.20 Santina Rivara Cornero, mia suocera. Lo stupore era anche dovuto al fatto

che Lilli non era mai stata, escluso il viaggio di nozze, fuori da Isola un solo giorno.21 Caposquadra all’avanzamento.22 L’insieme delle cariche di esplosivo.23 Sommelier e Grandis provarono le loro perforatrici a vapore durante la

costruzione della galleria per la ferrovia Torino-Genova a metà del secolo XIX. Se-condo Natale Rivara furono loro a costruire la galleria di Pietrabissara e con essa il“falso scopo” in mattoni che oggi si vede sulle pendici del monte sovrastante la sta-tale dei Giovi.

24 Le centine in ferro hanno sostituito il legname nella costruzione di gal-lerie: quando la montagna spinge vanno sotto sforzo ed in alcuni casi si sentono fortirumori, quasi miagolii.

25 Con un chilo di dinamite per metro cubo di roccia.26 A costo di annoiare i pochi lettori credo sia utile descrivere una parte delle

operazioni necessarie alla costruzione di gallerie. A volte lo scavo vero e proprio(raggio 5,5 metri) è preceduto da un foro pilota (cunicolo o preforo) che hadimensioni di circa un decimo rispetto alla sezione finale e che può arrivare anchea molti chilometri di lunghezza. Si utilizzano in questi casi delle frese meccanichelunghe anche 100 metri (talpe), che possono purtroppo avere notevoli danni se laroccia “spinge”, cioè se il cunicolo diminuisce di raggio subito dopo lo scavo. Ècapitato che tale riduzione fosse di parecchi decimetri, incompatibile con lestrutture della talpa: non resta allora che abbandonare il foro pilota e, nei casiestremi, anche la macchina stessa il cui valore era, negli anni ‘80 e ‘90 di circa due-tre miliardi di lire. Essendo poi il cunicolo un’opera provvisoria rispetto alla galleria

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vera e propria, i rivestimenti sono limitati al minimo indispensabile e quindi ilpericolo più frequente è il crollo delle pareti dietro la talpa o l’irruzione improvvisae inaspettata di acqua. Le ditte appaltatrici di prefori sono in genere svizzere oaustriache; all’imbocco gli operatori della fresa mettono sempre, oltre alla statua diSanta Barbara protettrice dei minatori, anche un vistoso cartello con scritto GluckAuf! (Buona Fortuna!).

27 L’episodio è accaduto al Brennero.28 Al Lago delle catene.29 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, 1977, pagg. 389 e 390.30 Piatto tipico sud-tirolese.31 Capo squadra.32 Inutile dire che ogni riferimento geografico o di persona non ha un esatto

riscontro con la realtà. I fatti sono comunque accaduti, anche se non in quel pre-ciso modo.

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INDICE

INTRODUZIONE 5

UN’ESATE ISOLESE 7

UN INVERNO ISOLESE 8

UN AUTUNNO ISOLESE 10

UNA PRIMAVERA ISOLESE 12

UN CURATO ISOLESE 13

GIOCHI ISOLESI 15

LE SUORE DELL’ASILO 19

CORPI SANTI E ANIME PERSE 21

ISOLA DEL CANTONE VISTA DA ALFREDO DEDDO RIVARA 24

GLI ISOLESI IN TUSCIA 32

JAZZ ISOLESE 35

A GIBÙ 39

RELIO E LE ARGILLITI 40

PUNNI E LA CALCE 42

UOMINI DI GALLERIA, GALLERIA DI UOMINI 46

ALTRI UOMINI DI GALLERIA 49

È TORNATO ARZIMBA? 58

NOTE 63

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FINITO DI STAMPARE

NEL GENNAIO 2010

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