Coinvolgere per persuadere. Considerazioni sulla percezione dei rilievi storici romani

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co. Le fonti tacciono, ma sono le stesse opere figurate che ci informano sulla maniera in cui venivano utilizza-te e in funzione di quali scopi. Nel corso del presente lavoro ci concentreremo sulle modalità della percezione dei rilievi romani, sulla base di ciò che è possibile rico-struire del contatto visivo degli antichi coi monumenti, e cercheremo di dimostrare che la committenza ufficiale sfruttò sempre più consapevolmente la decorazione a rilievo nelle opere pubbliche, tuttavia al fine di suscita-re nell’osservatore una reazione di natura più psicolo-gica che estetica.

I rilievi nei complessi monumentali e negli edifici ri­cordati dalle fonti antiche

Nonostante nella letteratura greca e latina superstite si trovi menzionato un certo numero di rilievi in pietra, come si ricava dagli esempi riportati nell’Appendice in fondo al presente lavoro, non compare mai qualche for-ma di riflessione su simili manufatti, di cui viene solo attestata la presenza. Ma ciò che stupisce maggiormen-te è che le fonti che descrivono importanti complessi monumentali come quelli di Roma, pur soffermandosi talora su alcuni componenti di particolare significato, tacciano del tutto sulle decorazioni a rilievo che vi si potevano vedere, anche nei casi in cui tali opere siano almeno in parte sopravvissute fino a noi e costituiscano tappe irrinunciabili per la nostra ricostruzione della produzione artistica di età romana. Si pensi alla Colon-na Traiana: le testimonianze letterarie che parlano del Foro di Traiano non solo non descrivono il suo fregio spiraliforme, ma non ne ricordano nemmeno l’esisten-za, poiché preferiscono insistere sulla grandiosità dell’impianto forense nel suo complesso, etiam numi­num assensione mirabilem, secondo un’espressione usata nel celebre resoconto della visita di Costanzo II traccia-to da Ammiano Marcellino (XVI 10, 15-16) [2]. I docu-

,.Plutarco, Praecepta gerendae reipublicae 801c

(da Menandro).

Per noi studiosi moderni della civiltà romana, il “ri-lievo storico” riveste una grande importanza, tanto da essere una delle categorie della produzione figurativa che più ricevono considerazione, sia sul piano della ri-cerca scientifica, sia su quello della didattica universita-ria. All’interesse attuale non sembra però aver corrispo-sto un analogo apprezzamento da parte degli osserva-tori antichi dei rilievi in pietra, almeno a giudicare dalle fonti che possediamo, da cui peraltro risulta che si trat-ta di un fenomeno riscontrabile già nel mondo greco. Mentre la pittura e la scultura a tuttotondo suscitarono a più riprese l’attenzione degli autori contemporanei e posteriori, i quali ci hanno tramandato su questi ambiti e sugli artisti che se ne occuparono non solo una massa enorme di citazioni e aneddoti, ma anche fondamentali riflessioni di tipo storico-artistico, le opere a rilievo ap-paiono menzionate con frequenza assai minore e di norma in maniera abbastanza superficiale, dato che quasi sempre la fonte si limita appena a notare il tema rappresentato e, in molti casi, per monumenti di impor-tanza secondaria. Mai vediamo affiorare i segni di uno specifico interesse per il rilievo in quanto tale e per le sue peculiarità stilistiche; allo stesso modo, mai trovia-mo accenni all’atteggiamento del pubblico antico di fronte ai rilievi, anche se non va dimenticato che, sull’aspetto particolare delle reazioni degli osservatori, le testimonianze letterarie sono in generale piuttosto avare di informazioni [1].

Nel momento in cui la si consideri da vicino, l’appa-rente indifferenza manifestata dalle fonti dirette potreb-be far dubitare della reale efficacia della scultura a rilie-vo agli occhi degli uomini antichi, quasi come se i pan-nelli e i fregi figurati fossero ritenuti poco più che un ornamento degli edifici nei quali erano collocati, nono-stante il peso che la ricerca moderna vi ha attribuito nel-la trasmissione dei valori ideologici del potere e nella conquista del consenso. Però il rilievo svolse effettiva-mente un ruolo di questo tipo nel mondo romano, an-che se non giunse mai a sollevare un interesse che po-tremmo chiamare storico-artistico nel pubblico coevo, come non lo aveva sollevato nemmeno nel mondo gre-

CoINVoLgeRe PeR PeRSuAdeRe.CoNSIdeRAzIoNI SuLLA PeRCezIoNe deI RILIeVI SToRICI RoMANI

Simone Rambaldi

[1] Cfr. zanker 2002, soprattutto 228-229.[2] La Colonna Traiana è qui del tutto taciuta, forse perché Ammiano ha già ricordato le due coclidi di Roma nel paragrafo immediata-mente precedente, nell’ambito di una rapida rassegna delle meravi-glie della città (14: elatosque vertices qui scansili suggestu consurgunt, priorum principum imitamenta portantes). Cfr. infra, nota 10.

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[3] Mansuelli 1969; Settis 1988, 49-56; Coarelli 1999, 4. Cassio dione, che a proposito delle qualità formali inerenti alla Colonna si limita solo a osservare che era “grandissima” (), dice che essa ser-viva “sia come tomba di lui (Traiano), sia come dimostrazione del la-voro che era stato fatto per il Foro”. Perché non aggiungere, come terzo scopo, che serviva anche per illustrare le guerre daciche? Lo stesso testo dell’epigrafe, d’altronde, non fa alcun riferimento alla decorazione, poiché l’unico accenno alle campagne belliche è fornito dal Dacico che compare nella titolatura di Traiano. Per Salvatore Set-tis sarebbe stato superfluo menzionare esplicitamente il fregio, il quale traduce in un lungo racconto per immagini la concisa ufficiali-tà della dedica, perché il lettore dell’iscrizione non può comunque fare a meno di guardarlo (Settis 1988, 56). Il silenzio epigrafico è stato addirittura interpretato come indizio di un’attribuzione ad Adriano dei rilievi (Claridge 1993), ma ciò è da ritenere improbabile (sulla questione, cfr. galinier 2007, 12-13, e Stevenson 2008).[4] Fonti raccolte in Lugli 1965, 53-54, nrr. 319-333. Cfr. galinier 2007, 126-129.[5] Lugli 1965, 57-73, nrr. 352-407, dove, insieme alle iscrizioni, è riu-nita la relativa documentazione letteraria. Sul corredo scultoreo del Foro di Traiano si veda anche infra.[6] Cfr. specialmente: Panvini-Rosati 1958-1959; Pensa 1969-1970, 281-291; gauer 1977, 76-77; Settis 1988, 56-60; galinier 2007, 126-127 e nota 39. L’inversione del fregio non è, peraltro, l’unica incongruenza manifestata dalle riproduzioni sulle monete: una notevole discussio-ne, che qui non importa riprendere, ha suscitato la civetta che com-pare talora in cima alla Colonna, per la quale di recente eugenio La Rocca si è mostrato favorevole a riproporre un’interpretazione sim-bolica (La Rocca 2004, 201-202).[7] Fonti su questo Foro in Lugli 1965, 37-42, nrr. 209-251.[8] L’impatto della statua poteva essere tale da ispirare in certi casi un’idea di vitalità: su questa impressione, e sui suoi riflessi letterari, vedi Franzoni 2006, 3-4. Per Isocrate le immagini realizzate a rilievo, come quelle incise sulle stele funerarie, rivestono invece un valore paradigmatico di immobilità e carenza di reputazione (IX 74). Per il significato preciso di in questo passo, vedi Roux 1961, 10-11, nr. 5.[9] Cfr. Appendice.

che Severo Alessandro aveva fatto innalzare nel testé ricordato Foro Transitorio (Al. Sev. 28, 6), o quelle dei summi viri che lo stesso principe aveva riunito nel Foro di Traiano (ibid. 26, 4). Resta il fatto che, anche di tante altre opere di primaria importanza nella storia del rilie-vo romano, le fonti si limitano appena a nominare i mo-numenti cui appartenevano senza scendere in dettagli sulla decorazione di questi ultimi, ma considerandoli nella loro globalità, come è possibile notare a proposito degli archi onorari [9], evidentemente perché le peculia-rità architettoniche delle costruzioni destavano un mag-giore interesse. Non si può nemmeno giustificare que-

menti che nominano espressamente la Colonna, quasi tutti tardi, sono più interessati a commemorare i lavori di sgombero per ricavare lo spazio necessario alla rea-lizzazione del Foro, come avviene in un passo epitoma-to di Cassio dione (LXVIII 16, 3), palesemente influen-zato dall’epigrafe dedicatoria della Colonna stessa (CIL VI, 960) [3], oppure indulgono a notare l’altezza di que-sta, o la statua di Traiano sulla sua sommità, o il fatto che le ceneri dell’imperatore fossero state riposte all’in-terno della base [4]. dell’apparato decorativo del Foro vengono ricordate solamente le statue onorarie [5]; anche nel passo di Ammiano Marcellino appena citato, l’unica opera di scultura di cui si segnala la presenza è la gran-de statua equestre di Traiano che era collocata nella piazza. Le sole fonti dirette che risultano avere tenuto conto del fregio non sono di natura letteraria, essendo costituite da alcune rappresentazioni monetali della Colonna dove si può distinguere la sua spirale, la quale però sale verso l’alto in senso inverso rispetto a quello visibile nella realtà, cioè con le spire che si avvolgono da destra a sinistra anziché da sinistra a destra; in altre monete il fusto appare del tutto liscio [6]. Anche a propo-sito degli altri Fori Imperiali, le testimonianze che vi si riferiscono, quando non si tratti solo dei tardi repertori topografici, fanno spesso menzione delle statue di cui erano costellati, mentre invece rimangono silenti sulle decorazioni a rilievo. Se non ne fosse sopravvissuta una porzione, non sapremmo nulla del fregio figurato che correva sopra le colonne lungo i muri perimetrali del Foro Transitorio, fregio sul quale dovremo tornare [7].

Tutto ciò viene a confermare come, nel campo della scultura, un’attenzione di gran lunga preponderante fosse rivolta alle espressioni a tuttotondo, quasi fossero le sole degne di meritare un interesse specifico, forse perché si tratta di un genere di manufatti che, per sua natura, si impone in modo più deciso allo sguardo dell’osservatore, anche di colui che non sia animato da particolari propensioni artistiche [8]. In molti casi biso-gna rilevare, però, che le fonti registrano la presenza di una statua in un luogo pubblico in quanto interessate soprattutto a ricordare la volontà encomiastica o ever-getica che ne era all’origine, senza alcuna preoccupa-zione di natura storico-artistica: è solo per questo moti-vo, ad esempio, che l’Historia Augusta si dà la pena di ricordare le statue colossali degli imperatori divinizzati

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[10] L’aggettivo cochlis che viene utilizzato per entrambe le Colonne dai cataloghi topografici si riferisce alla presenza della scala a chioc-ciola interna. Il ricorso a un passo del De medicina di Cornelio Celso (VIII 10, 1), dove è descritto un tipo di fasciatura che va fatto salire intorno a una frattura a mo’ di cochlea, cioè di chiocciola, come pro-pone Sonia Maffei per sostenere la duplice valenza dell’aggettivo, il quale alluderebbe dunque anche al fregio a spirale (Maffei 1993a, 303, e 1995, 358), a mio avviso non è dirimente. Per intendere l’agget-tivo in senso prettamente architettonico, oltre alla testimonianza di Isidoro di Siviglia (Etym. XV 2, 38), che usa il termine cocleae per in-dicare altae et rotundae turres, dove si saliva appunto grazie a scale a chiocciola, mi pare significativo il fatto che il Curiosum e la Notitia, subito dopo avere menzionato la columna coclis di Traiano e la sua altezza, si soffermino a precisare il numero dei gradini e delle fine-stre (pur con disuguaglianze), ciò che mi sembra denotare un inte-resse prevalente per le caratteristiche dell’interno della colonna (Va-lentini, zucchetti 1940, 115 e 174). L’identica formula è utilizzata an-che per descrivere l’Aureliana (ibid., 125 e 176; gli stessi testi, insieme a Polemio Silvio, citano altrove la Traiana e l’Aureliana solo come Columnae coclides II: ibid., 160, 187 e 309). Per la particolare ammira-zione che le scale interne suscitarono negli osservatori contempora-nei anche nel caso delle colonne coclidi di Costantinopoli, vedi Be-catti 1960, 100-101. un problema simile è posto dal sostantivo vertex usato da Ammiano Marcellino in relazione alle coclidi di Roma in un passo controverso già citato poco più sopra (XVI 10, 14): il suo signi-ficato fondamentale di “vortice” (cui si lega l’accezione secondaria di “culmine”) potrebbe fare riferimento sia alla forma della scala inter-na, sia a quella del fregio esterno (si veda la trattazione di galinier 2007, 127-128). Tuttavia, se anche fosse lecito associare al fregio ter-mini come cochlis e vertex, essi rimarcherebbero solo l’aspetto più “strutturale” del fregio stesso, il suo essere cioè una sorta di fascia avvolta intorno alla colonna, senza implicare il minimo accenno alla presenza di figure scolpite, la quale, in mancanza di riscontri diretti, non avrebbe potuto essere inferita solo su questa base.[11] elenco, con testi, in Koeppel 1987, 101-103 e nota 4.[12] Negli assi neroniani della zecca di Lugdunum, raffiguranti un alta-re con la legenda ARA PACIS, si è infatti proposto di riconoscere un monumento dello stesso tipo realizzato nella città gallica, altrimenti sconosciuto: Meissonnier 2005. È in ogni caso significativo che, ai lati dell’entrata, appaiano rilievi.[13] Le colonne erano state ammirate anche da Cicerone, altro estimatore della bellezza della Basilica, il quale ne attesta il reimpiego nel restauro del 54 a.C. dal precedente rifacimento di epoca sillana (Ad Att. IV 16, 8), lui pure, però, senza ricordarsi del fregio (cfr. Coarelli 1985, 205-206). un’ipotesi molto seguita, fra le diverse che sono state avanzate nell’am-bito della vexata quaestio sulla sua cronologia, propone che il fregio do-vesse essere stato analogamente riutilizzato in quell’occasione (si veda il punto della situazione tracciato da Albertson 1990, 801-803). In un altro passo della sua opera, relativo alla diffusione dei ritratti di uomini illustri, Plinio menziona le immagini clipeate poste da Marco emilio nella Basilica emilia, oltre che nella sua casa (XXXV 13).

sto silenzio documentale addebitandolo alla perdita di tanta parte della letteratura greco-latina, perché se i ri-lievi lapidei fossero mai stati oggetto di riflessione teo-rica qualche cenno di ciò, nelle fonti che possediamo, sarebbe dovuto rimanere.

Per tornare ai monumenti, occorre notare che anche il fregio della seconda coclide di Roma, l’Aureliana, viene completamente ignorato dalle scarse testimonianze su di essa [10]. Nulla è detto della base della Colonna Anto-nina, la quale non è neppure ricordata da qualche fonte letteraria, poiché gli unici documenti antichi che la ri-guardano, eccettuata l’iscrizione dedicatoria, sono solo alcune emissioni monetali. gli esempi potrebbero con-tinuare, ma sarebbe superfluo. Non vorrei tuttavia mancare di osservare che, anche risalendo agli inizi del periodo imperiale, non troviamo alcuna menzione nem-meno della decorazione esterna dell’Ara Pacis Augustae, un’altra opera fondamentale per comprendere come il potere dominante non disdegnasse di demandare al ri-lievo l’espressione della propria ideologia. Secondo la consuetudine diffusa, nessuna delle non numerose te-stimonianze (perlopiù epigrafiche) che riguardano il monumento si sofferma a descriverlo [11], perché di esso viene soltanto ricordata l’esistenza, a partire dall’esem-pio ufficialmente fornito dallo stesso Augusto nelle sue Res gestae (12, 2). un accenno ai rilievi è invece riscon-trabile, anche in questo caso, in conii monetali, ammes-so che si riferiscano proprio all’altare di Roma [12]. Nep-pure quando si tratti di fregi collocati in edifici che ri-sultano particolarmente apprezzati dagli autori antichi troviamo qualche indizio di un’attenzione per i rilievi, mentre possono essere lodati altri dettagli del comples-so architettonico: Plinio il Vecchio annovera la Basilica Pauli fra le opere più belle che si siano mai viste al mon-do, pur tuttavia non dice nulla del fregio interno raffi-gurante una serie di episodi della storia ancestrale di Roma, preferendo ricordare nello specifico le magnifi-che colonne in marmo frigio dell’edificio (XXXVI 102) [13]. Nessuna fonte, del resto, cita il fregio di quella Basilica, nonostante i temi in esso rappresentati fossero in grado di suscitare negli osservatori colti un interesse se non altro di tipo antiquario.

La questione non si pone in modo differente se vol-giamo lo sguardo al mondo greco. Basti pensare che nessuna fonte ha mai menzionato, neppure di passag-

gio, quello che per noi rappresenta uno dei massimi tra-guardi della produzione greca non solo in rapporto alla

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[14] Per. 13, 6 e 14. della copiosissima bibliografia mi limito a citare: Schweitzer 1967; Brommer 1977, 271-275; Beschi 1979, 580, 590; Har-rison 1996, 39-40.[15] A proposito di questa attribuzione, si veda Corso 1988, 173-175.[16] Sul metodo di Pausania in generale, vedi Musti, Beschi 1982, xxxvi-lv; specificamente sul suo comportamento nei confronti delle opere d’arte, ibid., li-lv.[17] Ibid., 339-340 (commento ad loc.); più diffusamente sulla “concisio-ne” con cui Pausania descrive gli edifici sulla sommità della collina, ibid., xcvi-xcviii. Non va dimenticato che la tendenza a concentrarsi su singole parti di un’architettura è tutt’altro che sconosciuta agli autori antichi, come dimostrano le fonti sulla Basilica Pauli citate po-co più sopra.[18] Boardman 1999, 306, il quale rimarca che il fregio non era inclina-to verso il basso, come molti avevano ripetuto in passato. Improba-bile il ricorso a correzioni ottiche per facilitare la visione, ipotesi su cui insiste molto Lagerlöf 2000 (soprattutto 13-26), tuttavia senza ap-profondire adeguatamente le sue enunciazioni. Per la policromia: Ridgway 1999, 115-118; Brinkmann 2004.[19] Stillwell 1969. La sua analisi, oltretutto concentrata solo sui lati brevi del fregio, non pare esente da forzature, in particolare nel suo ricercare rapporti visivi fra le travi del soffitto della peristasi e i grup-pi di figure sottostanti, rapporti che avrebbero avuto lo scopo di ri-chiamare l’attenzione. È vero però che la piena visione dell’episodio basilare della consegna del peplo era garantita dalla sua posizione centrale, tra le due colonne mediane della facciata (in effetti, negli

collocato in posizione molto elevata nello spazio ristret-to del colonnato intorno alla cella, doveva imporsi poco all’attenzione dei visitatori dell’Acropoli proprio a cau-sa della sua ubicazione, che ne rendeva difficoltosa la lettura globale, anche se la comprensione delle figure doveva essere agevolata dall’originaria policromia e dalla maggiore profondità della porzione superiore del rilievo [18]. Per potere seguire il fregio nella sua interez-za, evitando le pause determinate dalla presenza delle colonne, le quali comportano inevitabilmente un’inter-ruzione della continuità narrativa agli occhi di chi sta-zioni all’esterno dell’edificio, occorreva osservarlo dall’interno della peristasi. Qui però si verificava un al-tro inconveniente, poiché l’angolazione non idonea per una visione soddisfacente faceva sì che le figure si pre-sentassero in maniera fastidiosamente scorciata. Per ov-viare a tali problemi, qualcuno ha pensato che fossero stati pianificati dei punti di osservazione privilegiati sulla piattaforma circostante il tempio, nei quali i visita-tori sarebbero stati indotti a fermarsi e da dove avreb-bero potuto cogliere i momenti salienti del fregio, la cui composizione sarebbe stata organizzata a questo fine [19].

tipologia del rilievo scultoreo, ma dell’arte in generale, cioè il fregio del Partenone. Il collegamento del suo pro-getto con Fidia non è infatti attestato esplicitamente da alcun autore antico, trattandosi di una deduzione ope-rata dalla ricerca moderna sulla base delle affermazioni di Plutarco, concernenti il ruolo di supervisore e re-sponsabile principale affidato allo scultore nei cantieri ateniesi di Pericle [14]. Le testimonianze si concentrano sulla produzione a tuttotondo di Fidia, compreso Pau-sania, il quale, come è noto, tace del tutto su fregio e metope del Partenone, limitandosi ad accennare ai sog-getti dei due frontoni (I 24, 5). di altri importanti edifici sacri il Periegeta è solito descrivere i gruppi frontonali, forse perché assimilati alla scultura a tuttotondo, come per i templi di era ad Argo (II 17, 3) e di zeus a olimpia (V 10, 6-8), ma anche per quello di Atena Alea a Tegea (VIII 45, 4-7) e per quello di eracle a Tebe, cui lavorò Prassitele (IX 11, 6)15], magari soffermandosi brevemen-te sui loro artefici, come per il Tempio di Apollo a delfi (X 19, 4). Il “silenzio” di Pausania, che sull’Acropoli ate-niese si estende ad altre decorazioni a rilievo che pure sono per noi del più grande interesse, come i fregi dell’eretteo e del tempio di Atena Nike con la relativa balaustra, è stato perlopiù interpretato come indizio di un atteggiamento selettivo, che lo induceva a privile-giare l’insolito e il poco conosciuto, rispetto a quanto era più celebrato, e ciò che gli consentiva di introdurre digressioni narrative e mitografiche [16]. Per questa ra-gione si sarebbe trattenuto poco su un edificio che go-deva di larga fama come il Partenone. d’altronde di un monumento egli spesso registra soprattutto il particola-re che più lo ha colpito, come ad esempio nel caso dei Propilei della stessa Acropoli, di cui segnala solamente l’imponenza dei blocchi marmorei del soffitto (I 22, 4) [17].

Tuttavia, se Pausania era maggiormente portato a soffermarsi sulle realizzazioni che gli davano l’oppor-tunità di aprire parentesi eziologiche, non si capisce perché dovesse passare sotto silenzio la rappresentazio-ne della processione panatenaica. Questa avrebbe potu-to suscitare a buon diritto un interesse di ordine mito-grafico, assai più delle metope, dove comparivano sog-getti molto meno inconsueti, la cui omissione desta perciò minore sorpresa. Si è giustamente notato da più parti che il fregio partenonico, alto appena un metro e

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edifici greci, connessioni tra le immagini scolpite e gli elementi archi-tettonici circostanti talora non mancavano: Ridgway 1999, 80-81, 85). Cfr. inoltre Neils 2001, 69-70. L’interpretazione di Robin osborne (1987), nel suo notare, da un lato, come dall’esterno della peristasi fosse consentita all’osservatore solo la visione di brevi segmenti del fregio che mutavano al variare della sua posizione, dall’altro come lo snodarsi della processione tutt’intorno alla cella lo stimolasse a pro-cedere verso l’entrata del tempio, riattualizzando in un certo senso la processione stessa e facendola propria, mostra somiglianze con la lettura dei rilievi storici romani che sarà proposta nelle pagine se-guenti. Tuttavia, secondo la mia opinione, nel caso del Partenone a stento si sarebbe potuto innescare un simile meccanismo di immede-simazione da parte dell’osservatore, a causa sia della lontananza da lui delle immagini del fregio sia delle oggettive difficoltà di lettura riscontrate, cui va aggiunta anche la “distrazione” indotta da tutto ciò che il visitatore vedeva intorno a sé nel suo cammino sull’Acro-poli (le offerte votive, gli altri edifici…). Come si vedrà quando par-leremo dei monumenti romani, affinché potesse scattare qualche forma di immedesimazione, trattandosi di un fenomeno intimamen-te legato alle modalità con cui i rilievi si offrivano alla percezione dell’osservatore, era necessario che le immagini scolpite fossero po-ste relativamente vicino a lui e senza ostacoli che compromettessero la sua comprensione.[20] Kroll 1979; Simon 1983, 71-72; Preisshofen 1984; Jenkins 1994, 17-18.[21] Il problema della visibilità non era del resto esclusivo del fregio partenonico, ma si poneva anche per altre realizzazioni nel mondo greco: si consideri l’efficace analisi di Ridgway 1999, 74-102, la quale ripercorre nello stesso tempo le modalità di visione con le quali lo spettatore antico poteva entrare in contatto con la scultura architetto-nica.[22] Brommer 1963, 138.[23] Cfr. Appendice.[24] Non è qui necessario addentrarsi nell’intricata questione, sulla quale si vedano: Jeppesen 1986, 52-67; Hoepfner 1996a, 106-110; Waywell 1997; Cook 2005, 17-28; Lucchese 2009, 42-55.[25] Lib. mem. 8, 14: Pergamo ara marmorea magna alta pedes quadraginta cum maximis sculpturis; continet autem Gigantomachiam. Vedi infra, no-ta 39.

attenta all’aspetto d’insieme del grande sepolcro. Le co-se non vanno molto diversamente a proposito di una realizzazione ancora più importante per la storia del ri-lievo greco. Il solo Lucio Ampelio, tra le fonti di cui di-sponiamo, cita espressamente il grande fregio dell’Al-tare di Pergamo, un altro monumento che doveva esse-re assai celebre nel mondo antico [25]. Quella che è regi-strata semplicemente come una “gigantomachia” viene però al secondo posto, e in forma pressoché incidentale, dopo la menzione delle “grandissime sculture”, nelle quali, dal momento che vengono distinte appunto dalla

Ma nell’ambito di un edificio che, insieme alla statua della Parthenos che conteneva, si può spiegare comples-sivamente come una grande offerta votiva, si è anche pensato di attribuire alla processione scolpita un priori-tario ruolo di anathema [20], cosa che farebbe passare in secondo piano l’esigenza di una perfetta visione: in ef-fetti sono proprio le originarie, e ineludibili, modalità di fruizione del fregio posto in opera che possono avva-lorare una simile interpretazione [21]. Ciò aiuterebbe a capire la cura scrupolosa con la quale furono resi detta-gli che l’osservatore medio, dal basso, avrebbe potuto discernere con fatica (ad esempio, le vene rigonfie nei cavalli impennati), secondo una logica non tanto dissi-mile da quella che spinse gli artisti qui coinvolti a com-pletare spesso le sculture all’interno dei timpani in tutte le parti, comprese quelle posteriori, che sarebbero rima-ste sempre invisibili (almeno finché i gruppi frontonali rimasero al loro posto) [22].

Ritornando all’atteggiamento di Pausania verso i ri-lievi, per comprendere meglio il disinteresse da lui rive-lato in proposito è necessario tenere presente che esso non è un fenomeno isolato, come già si è notato. occor-re dunque interpretarlo alla luce del comportamento più generale manifestato dagli autori antichi nei con-fronti di queste espressioni scultoree, le quali, evidente-mente, apparivano meno significative ai loro occhi, co-me se fossero soprattutto complementi decorativi di mo numenti che traevano la propria importanza da altri fattori. un’apparente eccezione sembra costituita dal passo pliniano sul Mausoleo di Alicarnasso (XXXVI 30-31), dove il lavoro dei quattro artisti impegnati nella relativa decorazione è indicato per mezzo del verbo cae­lo, che può riferirsi alla scultura a rilievo, anche in pie-tra [23]. Tuttavia, secondo diversi studiosi, esso qui non implicherebbe soltanto i fregi, ma comprenderebbe il ricco apparato statuario del monumento. Plinio del re-sto, nonostante la sua ricerca di esattezza nel ripartire fra gli scultori i quattro lati del Mausoleo, non dice nul-la intorno ai temi dei fregi, i quali sono da noi conosciu-ti solo grazie alle lastre che sono state recuperate, coi conseguenti, e ben noti, problemi di attribuzione ai no-mi tràditi [24]. L’unico elemento del corredo scultoreo che viene da lui ricordato con precisione è la quadriga di marmo che coronava la piramide sommitale, nell’ambi-to di una descrizione che, nel complesso, appare più

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[26] Scheibler 2004, 76-79.[27] esemplare in tal senso l’apparato decorativo del cratere François, magistralmente studiato di recente da Mario Torelli (2007).[28] Così Pind., Nem. 10, 35-36; Aristoph., Eccl. 996. Cfr. il sempre vali-do Richter, Milne 1935, passim. Le fonti risultano più interessate a notare il materiale di cui erano fatti i vasi, prediligendo i metalli pre-ziosi: se ne può avere un’idea circostanziata passando in rassegna il lungo excursus sui tipi vascolari e sugli usi simposiali contenuto nel libro XI dei Deipnosofisti di Ateneo, con le citazioni letterarie ivi ri-portate. oltre alle ceramiche dipinte che sono giunte fino a noi, le uniche testimonianze antiche sulla pittura vascolare sono costituite da certe scene di simposio rappresentate sui vasi stessi, dove compaio-no crateri figurati. Questi sembrano assumere il valore di cimeli di famiglia, specialmente quando si tratti di pezzi decorati a figure ne-re, riprodotti nell’ambito della produzione a figure rosse. Vedi Schei-bler 2004, 22, figg. 10 e 164.

to che, talora, non si tralasciasse di abbozzarne la pre-senza su documenti ufficiali quali le raffigurazioni mo-netali dei monumenti cui appartenevano, pur negli ov-vi limiti connessi con questo genere di riproduzioni, conferma il peso che ad essi l’autorità centrale attribui-va. ora sarà necessario tentare di ricostruire le diverse modalità con cui la committenza sfruttò le prerogative inerenti ai rilievi, al fine di rendere più agevole nei de-stinatari la ricezione del messaggio affidato alle imma-gini scolpite.

Importanza dell’analisi della percezione nello studio dei rilievi

La riluttanza delle fonti a descrivere la natura e l’im-patto di un’opera a rilievo potrebbe suggerire l’idea che essa fosse soprattutto espressione della volontà di crea-re un anathema, valido eminentemente come monumen-to in sé, a prescindere dalla sua piena visibilità: quest’ul-tima, in effetti, non sempre in ambito greco sembrereb-be essere stata un’esigenza prioritaria (lo si è notato in modo particolare discutendo del fregio del Partenone). La lettura delle immagini, e quindi la relativa compren-sione, in casi del genere poteva essere attuata cogliendo con lo sguardo, essenzialmente, singoli segmenti più o meno lunghi delle rappresentazioni figurate, servendo-si di punti di vista fissi oppure mutevoli, in rapporto con le possibilità di movimento individuale rispetto all’oggetto contemplato, possibilità che non escludeva-

gigantomachia, vanno riconosciute le statue che ador-navano la peristasi. Ciò ribadisce come fosse abitudine corrente attribuire un ruolo predominante alle creazio-ni a tuttotondo, nonostante l’effetto quasi prepotente che il grande rilievo pergameno, allora come oggi, do-veva esercitare sull’osservatore, il quale non poteva fa-re a meno di notarlo.

La pittura vascolare greca offre un paradosso simile a quello rappresentato dal rilievo scultoreo: anche lì ab-biamo a che fare con un genere di produzione artistica di importanza fondamentale per noi, ma sul quale le fonti antiche hanno mantenuto un riserbo ancora più ampio. Analogamente, nel caso della ceramica dipinta, la funzione e la forma del manufatto concorrevano a segnalare la singola opera forse più della sua decora-zione, la quale rivestiva comunque un ruolo semantico importante, da non intendere come meramente orna-mentale [26]. Ciò è dimostrato nella maniera più evidente dai vasi caratterizzati da programmi iconografici parti-colarmente complessi, che richiedono un’attenta deco-dificazione [27], ma rimane il fatto che anche la ceramica figurata non fu mai oggetto di riflessione artistica. In origine il vaso dipinto serviva essenzialmente a una specifica élite come esibizione di ricchezza, come mezzo di autorappresentazione e autoriconoscimento, pur tro-vando occasioni per essere apprezzato da un pubblico più vasto, in concomitanza con feste o sotto forma di offerta votiva e funeraria. Tuttavia gli autori che men-zionano i vasi greci, di età contemporanea e posteriore, si concentrano sulla diversa destinazione d’uso dei sin-goli tipi, ricordandone il rivestimento pittorico solo di rado e in modo generico [28].

I rilievi appaiono dunque sostanzialmente trascurati dalle fonti, anche nei loro esiti più notevoli in assoluto, sia in ambito greco sia in ambito romano. Nondimeno, come possiamo ancora giudicare dalle opere giunte fi-no a noi, questo non significa che il potere dominante non li ritenesse veicoli importanti per la trasmissione dei propri valori. Nel mondo romano, in particolare, i rilievi vengono progressivamente “riscattati” dal ruolo in prima istanza votivo e/o decorativo che ne aveva ca-ratterizzato tante espressioni, a prescindere dal risulta-to artistico magari altissimo dei singoli casi, e vengono valorizzati come mai era avvenuto in precedenza. Il fat-

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[29] Paul Veyne, in un testo riproposto più volte, con lievi modifiche, ha opportunamente rimarcato come questa modalità di approccio sia stata abituale per gli osservatori di ogni tempo, anche in rapporto a monumenti di età medievale e moderna, che in tanti casi esibisco-no essi pure decorazioni in posizioni dove risultano di comprensio-ne difficoltosa (prima redazione: Veyne 1988, soprattutto 7-8).[30] Il lavoro di Adolf Philippi (1872) rappresenta il primo tentativo di sistemazione critica dell’argomento, sebbene sia oggi totalmente su-perato. In particolare non è più condivisibile la sua trattazione stori-ca della categoria, anche se bisogna tenere conto delle conoscenze lacunose del tempo (basti ricordare che non era stata ancora accerta-ta la pertinenza all’Ara Pacis dei suoi rilievi allora noti, riconoscimen-to che ebbe luogo solo pochi anni dopo per merito di Friedrich von duhn: vedi Koeppel 1987, 105-106). Nella sua volontà di esaltare l’originalità dei rilievi romani, svalutando l’apporto dell’arte greca, Philippi finisce poi per enfatizzare eccessivamente l’importanza del-la decorazione degli archi onorari. La trattazione più ampia della ti-pologia scultorea del rilievo è tuttora quella di edmond Courbaud (1899).[31] Per il significato e la molteplicità di aspetti del l’espressione “rilie-vo storico romano”, di uso corrente anche se spesso posta tra virgo-lette, vedi Rebecchi 1991, 144-145. Ancora del tutto valido quanto rilevava una trentina d’anni fa Mario Torelli, intorno al fatto che il concetto di “historical reliefs” non è cambiato molto dai tempi di Riegl e Wickhoff (Torelli 1982, 1-2). Rimarcando il valore soprattutto simbolico delle rappresentazioni a rilievo nell’arte ufficiale romana, di recente Tonio Hölscher ha preferito parlare di “rilievi statali” (Hölscher 2010, 269).

stione, evidenziandone il valore nel complesso più di celebrazione ideologica che di narrazione storica [31]. È rimasto però sostanzialmente trascurato un problema: qual era il tipo di impatto visivo che, a prescindere dal tema specifico delle rappresentazioni, i rilievi esercita-vano sugli osservatori, a seconda delle relative forma e ubicazione? e come poteva cambiare la percezione de-gli osservatori al variare della loro propria posizione rispetto ai rilievi, e quindi al variare del loro movimen-to intorno ai rilievi stessi? Appare di notevole significa-to tentare almeno di abbozzare un esame del genere, perché le istanze contenutistiche e formali, sulle quali, come si è appena ricordato, si sono soprattutto appun-tate le riflessioni degli studiosi, potevano essere asse-condate e, magari, sottolineate dalla particolare disloca-zione delle scene a rilievo rispetto al pubblico dei frui-tori.

Le ragioni del disinteresse che fino ad oggi è gravato su questo approccio così peculiare dipendono certo dai suoi caratteri molto sfuggenti. Si tratta di un tipo di

no l’eventualità che sulle immagini ci si accontentasse di gettare solo brevi occhiate di sfuggita [29]. Questo tipo di visione frammentata e parcellizzata, condizionata dal movimento fisico e oculare dell’osservatore, po-tremmo chiamarla “per flashes”, usando il termine flash per indicare la visione a colpo d’occhio di singoli seg-menti di un tutto figurativo complesso, visione di volta in volta determinata dalla posizione e dalla volontà di chi guarda, ma comunque bastevole a far intuire il sen-so globale dell’insieme.

Nel mondo romano si manifesta ancora la tendenza a creare opere scultoree il cui significato può essere affer-rato soprattutto “per flashes”, ma col tempo, insieme a una maggiore varietà nei supporti architettonici e nelle modalità di applicazione della decorazione scultorea a rilievo, sembra svilupparsi una propensione a poten-ziare la capacità del rilievo stesso di coinvolgere diret-tamente l’osservatore, quasi insinuandogli l’impressio-ne di partecipare all’azione rappresentata nella scena figurata. Non è questo un processo univoco e non pare nemmeno essere stato seguito in modo continuativo fra una tappa e l’altra, ma se ne possono riconoscere gli ef-fetti fino alle soglie della tarda antichità. In particolare, come vedremo, l’impatto esercitato poteva essere raf-forzato mediante una disposizione dei rilievi su super-fici che si imponevano in misura sempre più decisa allo sguardo e alla mente, nonché grazie a un accorto sfrut-tamento del movimento che si presumeva il fruitore avrebbe compiuto nel corso dell’atto autoptico. I rilievi, per quanto in molti casi potessero realmente essere visi-bili a stento in ogni loro parte, si ponevano sempre di fronte all’osservatore come oggetti di percezione, ed è di questo specifico aspetto che si vuole discutere nelle pagine che seguono.

Il “rilievo storico romano” è non solo uno degli argo-menti più importanti nell’ambito della produzione arti-stica di età romana, ma anche uno dei più dibattuti dal-la moderna ricerca archeologica. A tutt’oggi l’accento è stato posto di preferenza, a partire già dai primi studi che vi furono dedicati [30], sugli aspetti più “intrinseci” ai rilievi stessi, vale a dire lo stile scultoreo, il contenuto delle raffigurazioni, le strategie compositive alle quali, in seno a uno stesso monumento, sembra essere stata affidata l’esigenza di trasmettere nella maniera più effi-cace possibile il messaggio espresso dall’opera in que-

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[32] Si vedano in particolare elsner 1995 e gli studi di Paul zanker (1997 e 2002). Recentissimo, sulle connessioni semantiche e anche visive instaurate dai monumenti nei contesti di appartenenza, il con-tributo di Sandro de Maria (2010).[33] Si veda infra.[34] una valutazione delle implicazioni ottiche poste da un’importan-te opera a rilievo in galinier 2007, 121-163, il quale parte proprio da una ricostruzione dell’ottica antica per riesaminare approfondita-mente il problema della visibilità della Colonna Traiana, uno dei mo-numenti principali di cui dovremo occuparci. Alla fisiologia dell’oc-chio e alla fenomenologia dello sguardo, soprattutto nel mondo gre-co, è dedicato Rizzini 1998. Nella sua analisi della resa dello spazio prospettico nella pittura pompeiana, all’interno di un celebre saggio incentrato sull’evoluzione delle concezioni prospettiche nell’arte ita-liana, John White ha tenuto conto anche dell’effetto che il moto ocu-lare produce sull’osservatore (White 1971, 356-369).[35] Le basi per l’esame dei processi percettivi innescati dai manufatti artistici antichi furono gettate da Alois Riegl, soprattutto con la sua Historische Grammatik der bildenden Künste, peraltro rimasta inedita vivente l’autore (poco tempo fa sono state pubblicate in lingua italia-na entrambe le sue versioni: Riegl 2008, con un’utile bibliografia te-matica [315-333]). Le conclusioni di Riegl, tuttavia, non saranno ri-percorse in questa sede, poiché la sua analisi dei meccanismi della percezione non appare tanto finalizzata alla ricostruzione del punto di vista dell’osservatore antico, quanto rivolta all’individuazione di princìpi più universali. un recente convegno italiano ha fatto il pun-to della situazione sul ruolo attualmente occupato dalla figura dello

relativo dello spettatore durante l’azione visiva [34]. Con ciò non si intende minimamente proporre letture di ti-po metastorico, che sarebbero quantomai fuorvianti, ma si cercherà di ricostruire il punto di vista dell’osser-vatore antico e le sue reazioni ai meccanismi della per-cezione: come si vedrà, un accorto sfruttamento di que-sti meccanismi sembra essere stato funzionale a garan-tire una trasmissione più efficace dei messaggi veicolati dai rilievi. Poiché non esiste una bibliografia specifica su questo tema particolare nell’ambito degli studi ar-cheologici, in relazione ai monumenti di volta in volta riportati come esempi, tra i quali si troveranno alcune delle realizzazioni più significative e più studiate dell’intera produzione artistica del periodo romano, ci si limiterà perlopiù a citare testi che offrano qualche spunto utile alle riflessioni che si formuleranno. Talora sarà importante fare riferimento a lavori nei quali siano trattati in generale i problemi della dinamica della per-cezione visiva, specialmente gli studi di Rudolf Ar-nheim, impostati sulla psicologia della forma elaborata dalla scuola gestaltica [35].

analisi, infatti, che si presenta particolarmente difficile da condurre, poiché qui più che mai occorre basarsi in modo pressoché esclusivo sui monumenti stessi, non essendovi nelle fonti – letterarie, epigrafiche – alcun ac-cenno alla problematica che si intende a questo punto affrontare. Sarebbe inoltre della massima importanza poter disporre di una conoscenza completa dei contesti in cui i rilievi si trovavano collocati, una circostanza che permetterebbe di impostare la riflessione su basi più so-lide, ma sulla quale naturalmente non è sempre possibi-le contare; soprattutto sarebbe di grande utilità valutare se e come i rilievi potessero interagire, anche solo sul piano meramente visivo, con gli edifici che sorgevano accanto ad essi, e magari coi rilievi di altri monumenti presenti nelle vicinanze. da qualche tempo a questa parte, le modalità della ricezione dell’opera d’arte ro-mana nel sito originario e dal punto di vista dell’osser-vatore antico, a lungo trascurate, sono entrate nel dibat-tito archeologico [32]. A proposito dei rilievi, che è quanto interessa nella presente occasione, tentativi di vagliarne lo specifico impatto visivo sul pubblico sono già stati effettuati in relazione a monumenti di particolare signi-ficato, come le colonne coclidi di Roma, o a certe parti della decorazione scultorea di un manufatto, come i “piccoli fregi” degli archi onorari e trionfali [33]. Ma è fi-nora mancata, a quanto mi risulta, una proposta di let-tura complessiva di questi fenomeni, con la quale alme-no si provasse a riconoscere se, in relazione alle varie tipologie di opere a rilievo, sia esistita qualche forma di consapevole sfruttamento delle opportunità di elabora-zione percettiva che esse potevano ispirare.

dopo la necessaria premessa sull’atteggiamento del-le fonti, il presente studio è dedicato specificamente a questo problema, pur senza pretese di sistematicità e nella consapevolezza della sua provvisorietà. gli aspet-ti legati allo stile e al contenuto delle raffigurazioni, nei monumenti che via via saranno considerati, verranno chiamati in causa solo quando strettamente necessario. ora, infatti, si vuole concentrare l’attenzione sull’im-patto esercitato dai rilievi in quanto oggetti di percezio-ne, non in senso precipuamente ottico, bensì come pro-dotti che si impongono e influiscono sulla mente del fruitore in primo luogo grazie alla rispettiva posizione nell’ambiente circostante, alla forma ad essi conferita dalla natura del supporto che li ospita e al movimento

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studioso austriaco nell’ambito delle discipline archeologiche: negli Atti relativi si veda in particolare il contributo di B. Brenk (2008).[36] Cfr. Appendice.[37] Mi limito a citare: Hoepfner 1993, 113-119; Kästner 1996, 80-83.[38] Hoepfner 1996, 68-69; Queyrel 2005, 148 ss.

un tipo di opera a rilievo che consentisse un’osserva-zione ravvicinata delle sue raffigurazioni, come l’Ara Pacis, aveva peraltro dei precedenti importanti nel mon-do greco. In primo luogo si possono citare le basi per statue decorate con rilievi, come, per fare un esempio, quella che sorreggeva il gruppo di Prassitele raffiguran-te Latona e i suoi figli a Mantinea [36] (ricordiamo che a questa categoria, sul suolo romano, apparteneva l’“Ara di domizio enobarbo”). Ma un prototipo più stringente può essere riconosciuto, anche se su scala molto più monumentale e dalla forma architettonica solo in parte coincidente, nell’Altare di Pergamo, esso pure una rea-lizzazione a sé stante e costituita da un recinto decora-to, che aveva la funzione di racchiudere il vero e pro-prio altare [37]. Concentrando ora l’attenzione sul grande fregio esterno della gigantomachia, anche in questo ca-so l’osservatore antico si trovava di fronte a una struttu-ra quadrangolare rivestita su tutti i lati di rilievi, i quali potevano essere apprezzati nella loro totalità soltanto camminandovi all’intorno. Il grande monumento di Pergamo, infatti, sembra porsi tra i primi esempi di un processo di progressiva conquista di autonomia archi-tettonica delle raffigurazioni a rilievo e della capacità delle stesse di coinvolgere direttamente l’osservatore, processo i cui effetti più impressionanti si manifeste-ranno nell’arte ufficiale romana del periodo imperiale, come cercheremo di dimostrare nelle pagine che segui-ranno. È già stato notato che la scelta di abbassare quasi al livello degli spettatori la gigantomachia pergamena, a fronte della tradizione, prima rappresentata ancora dal Mausoleo di Alicarnasso, dei rilievi posti a una cer-ta altezza sui monumenti, suscitava nell’osservatore una compartecipazione emotiva che non aveva prece-denti [38]. Tornando al confronto con l’Ara Pacis, il gran-de Altare si presentava al centro di una terrazza aperta verso il fondovalle del Caico, ma in ogni caso ben deli-mitata rispetto alle aree circostanti, dove veniva ammi-rato da visitatori che avevano potuto scorgerlo in parte già da lontano e che comunque erano “preparati” dalla

Se dalle fonti scritte si evince poco o nulla sull’impat-to che i rilievi esercitavano sugli osservatori e i contesti non sono sempre noti in misura sufficiente, è dai monu-menti stessi che occorre sforzarsi di ricavare gli elemen-ti necessari a un’analisi di questo tipo. d’altronde, a causa della medesima reticenza delle testimonianze let-terarie, anche per la valutazione delle qualità semanti-che delle raffigurazioni che compaiono nei rilievi si è sempre dovuto procedere attenendosi essenzialmente all’esame delle opere reali.

La vicinanza dei rilievi all’osservatore aiuta la com­prensione

Volendo iniziare l’analisi con un monumento partico-larmente emblematico della categoria del “rilievo storico romano”, è opportuno considerare l’Ara Pacis Augustae, che costituisce, fra l’altro, il più antico esempio di grande manufatto rivestito per intero di rilievi a noi giunto dal mondo di Roma (non contando a questo proposito la molto più ridotta “Ara di domizio enobarbo”). Al di là dei richiami formali e stilistici, più volte ribaditi, notia-mo che i lati lunghi del suo recinto esterno propongono un’evidente analogia col fregio del Partenone ma anche, allo stesso tempo, una fondamentale differenza. La pro-cessione ideale rappresentata si mostra “sdoppiata” lun-go le fiancate del quadrilatero marmoreo, marciando in file che si muovono parallelamente nella medesima dire-zione, allo stesso modo dei cavalieri e dei componenti del corteo panatenaico sui lati della cella del tempio ate-niese. Mentre però la sequenza a rilievo del Partenone poteva essere vista solo da lontano e con difficoltà, a cau-sa dell’altezza della sua collocazione, come si è già ricor-dato, la processione all’esterno dell’Ara Pacis si esibiva, invece, a una distanza di gran lunga più ravvicinata, la quale, benché anch’essa in una posizione più elevata ri-spetto alla linea oculare dell’osservatore, permetteva co-munque una lettura molto più diretta del rilievo. In que-sta maniera veniva facilitata la comprensione degli ele-menti più importanti del corteo raffigurato, fra cui, in primo luogo, la persona di Augusto, mentre nel prece-dente partenonico non vi era alcun dettaglio dotato di una tale specificità storica da necessitare di una comoda distanza di visione per il suo riconoscimento.

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[39] L’unica fonte che si riferisca con certezza all’Altare è il già citato Liber memorialis di Lucio Ampelio. Tuttavia, il fatto che l’autore pon-ga il monumento fra le meraviglie del mondo conosciuto, menzio-nando espressamente la gigantomachia (seppure dopo le statue del-la peristasi, come si è visto), lascia pensare che esso beneficiasse di larga rinomanza. Questa sarebbe confermata dall’Apocalisse di gio-vanni (2, 12-13), se ilpresso il quale risiede l’an-gelo della Chiesa di Pergamo andasse identificato proprio con l’Alta-re. Per le fonti antiche, reali e presunte, vedi la discussione in Quey-rel 2005, 115-122. Sulla situazione urbanistica della terrazza relativa, si vedano Hoepfner 1993, 113; Id. 1996, 68; Radt 1999, 170; Queyrel 2005, 21-22. Non sono stati riconosciuti resti riferibili con certezza a un propileo (Kästner 1996, 74).[40] una lettura più attenta, sul tipo di quella dell’Ara Pacis, nell’Alta-re pergameno era invece richiesta dal fregio interno della Telepheia.[41] Questa caratteristica è mutuata dai rilievi classici, che non sono mai molto alti (quello del Partenone arriva a poco più di un metro, mentre quello di Bassae non supera i settanta centimetri).[42] La Rocca 1985, 90-95; Viscogliosi 1988; Id. 1993, spe cialmente 53; Id. 1996, 160-196; de Nuccio 2002, soprattutto 151-157.

fama di cui esso godeva in antico [39]. Il monumento ro-mano, disponendosi nel Campo Marzio senza barriere architettoniche o urbanistiche che ne ostacolassero la visione, almeno nella fase originaria dell’impianto, do-veva attirare l’attenzione proprio in virtù della sua de-corazione a rilievo, che invitava i passanti ad avvicinar-si per esaminare meglio sia la “doppia” processione, sia le scene allegoriche sui lati brevi. Tutte queste raffigura-zioni, per via delle dimensioni meno imponenti del mo-numento (l’Ara Pacis misura circa un terzo dell’altare microasiatico) e dell’assenza di unità tematica, esigeva-no un tipo di analisi più raccolta e meditata di quanto non presupponesse l’immane congerie di corpi umani e mostruosi che sgomentava l’osservatore a Pergamo, dove era possibile cogliere un’immagine d’insieme suf-ficiente a comprendere il messaggio complessivo del grande fregio anche sostando in un unico punto [40].

Maggiore carattere decorativo dei rilievi posti a di­stanza dall’osservatore?

A Roma non mancavano esempi di sequenze di rilie-vi la cui lettura era tutt’altro che agevolata dalla rispet-tiva posizione, alla maniera del fregio panatenaico, an-che se nell’architettura templare romana non compaio-no fregi continui nei corridoi delle peristasi paragona-bili a quello del Partenone. Poteva trattarsi, semmai, di rilievi collocati in alto sulle pareti interne dei luoghi di culto, analogamente a prototipi greci sul tipo del fregio con scene di Amazzonomachia e Centauromachia che si dispiegava sopra il colonnato dentro la cella del Tem-pio di Apollo Epikourios a Bassae. un caso di questo ge-nere era offerto, a Roma, dalla sequenza “trionfale” nel-la cella augustea del Tempio di Apollo in circo, la cui piena comprensione doveva essere ostacolata dalla sua altezza ridotta (inferiore a un metro [41]) e dalla posizio-ne elevata nella quale si trovava, al di sopra del primo ordine di colonne marmoree che movimentavano le pa-reti. In quell’ambiente, del resto, la luminosità probabil-mente scarsa, la ricchezza degli ornamenti architettoni-ci e la profusione di opere d’arte lì conservate dovevano contribuire a far passare in secondo piano il fregio a ri-lievo, in sostanza solo un componente della decorazio-ne dell’insieme [42] (fig. 1).

Fig. 1. Roma, Tempio di Apollo in circo. Disegno ricostruttivo della decorazione architettonica interna (da La Rocca 1985)

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della lunga piazza, poteva essere letto con facilità molto maggiore di quanto non avvenisse in un caso come quello del fregio panatenaico. oltre ad essere en plein air e quindi bene illuminata, la superficie scultorea non ri-maneva parzialmente occultata da elementi architetto-nici che ne rendessero difficoltoso l’apprezzamento, come invece avveniva nel Partenone per chi osservava la sequenza a rilievo dall’esterno dell’edificio, a causa delle colonne della peristasi che interrompevano la con-tinuità visiva della rappresentazione, come si è segnala-to in precedenza. Si può tuttavia dubitare che il fregio

Alla categoria dei rilievi distanti dall’osservatore ap-partengono realizzazioni concettualmente non dissimi-li da quelle appena richiamate, ma introdotte in ambiti del tutto differenti, come il fregio continuo che si snoda-va lungo la trabeazione del recinto del Foro Transitorio. Anche questo era posto sopra un colonnato, quello ap-punto addossato ai muri perimetrali della piazza, di cui ora rimangono soltanto le celebri “Colonnacce”, recanti l’unica porzione sopravvissuta del fregio, con scene mi-tologiche relative a Minerva (fig. 2). Qui però il rilievo, seppur visibile solo dal livello del piano di calpestio

Fig. 2. Roma, Foro Transitorio. Particolare del muro perimetrale con le “Colonnacce” (Foto Rambaldi)

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[43] Bauer 1976-1977, 124; Meneghini 2009, 103-106. grazie al recente ritrovamento dei frammenti di una figura femminile a rilievo appar-tenente alla decorazione degli attici, da associare a quella tuttora vi-sibile al di sopra delle “Colonnacce” e che tradizionalmente veniva interpretata come Minerva, è stato possibile postulare la presenza di una serie di personificazioni delle province dell’Impero: Fiore 2005, 235, nr. II.7.3 (L. ungaro). L’idea che nel Foro Transitorio comparisse un ciclo di questo genere era già stata avanzata in precedenza, sulla base dell’iconografia dell’immagine da sempre nota (Wiegartz 1996).[44] von Blanckenhagen 1940, soprattutto 157-168; Viscogliosi 2009, 208.[45] Cfr. supra, nota 30.[46] Per una sintesi si veda de Maria 1988, 233, nr. 5, cui va aggiunta l’importante lettura proposta successivamente da Torelli 1997.

goria [45]. gli archi davano l’opportunità di esibire rilievi a più livelli, dalla base fino alla sommità, almeno nei casi più sontuosi, come può dimostrare l’esempio parti-colarmente significativo costituito dall’Arco di Traiano a Benevento. Per le ragioni che già sono state esposte, non rientra fra gli obiettivi del presente lavoro un riesa-me del valore simbolico dei tanti pannelli figurati e del-le interrelazioni tematiche che vi si possono individua-re, su cui si è ampiamente dibattuto in studi di notevole importanza [46]. Al di là dei collegamenti semantici fra le varie scene rappresentate, le quali, anche per il carattere allegorico di molte di esse, necessitano comunque di un’attenta analisi (da parte dell’osservatore antico non meno che dell’interprete moderno), in rapporto alla fruizione visiva la disposizione dei rilievi che decorano le due fronti dell’arco assume una configurazione che potremmo chiamare “prismatica”, nel senso che può essere apprezzata da qualsivoglia angolazione lo spet-tatore si ponga, senza che la mancata visione di un set-tore del monumento pregiudichi in misura sostanziale la comprensione generale della condotta politica e delle virtutes dell’imperatore Traiano (fig. 3). Mentre un os-servatore davvero motivato a decodificare l’intricata rete di informazioni trasmesse dalla decorazione scul-torea era (è) disposto a concentrarsi su un’esegesi ap-profondita e ragionata dell’arco, la maggior parte dei viandanti finiva (finisce) anche qui per accontentarsi di una lettura, inevitabilmente, “per flashes”. Questa, che in virtù della sua maggiore capacità di incidenza può essere considerata la modalità predominante di approc-cio, consente sì di cogliere solo una parte del contenuto

del Foro Transitorio si segnalasse in modo speciale alla vista dei passanti, poiché sembra probabile che, nell’am-bito della ricchissima trabeazione di cui esso era una parte tutto sommato esigua, la più imponente decora-zione originaria degli attici sovrastanti, a rilievo e a tut-totondo, dovesse attirare maggiormente l’attenzione [43]. In ogni caso l’osservatore, avanzando nel Foro, avrebbe potuto seguire, in teoria, tutta la sequenza delle scene del fregio una dopo l’altra, ma anche qui egli doveva finire per limitarsi a un tipo di lettura “per flashes”. Le figure del ciclo, infatti, seguivano senza interruzioni la facciata molto frastagliata dei muri di limite della piaz-za, contornando tutti i lati dei pronunciatissimi aggetti in cui si articolava la trabeazione al di sopra della co-lonne, perciò una porzione molto cospicua di esse rima-neva sempre nascosta, qualunque fosse il punto di vista del passante. Questi, muovendosi nella piazza, poteva scoprire sempre nuove figure, mano a mano che altre, visibili un momento prima, si celavano ai suoi occhi, ma difficilmente sarà stato invogliato ad affrontare la fatica di seguire l’intero fregio, camminando lungo tut-to il perimetro del Foro con lo sguardo all’insù e sempre voltando la testa ogni volta che, superato uno sporto, poteva scorgerne il lato retrostante, prima invisibile. Anche l’animatissima alternanza di luce e ombra deter-minata dalla forte articolazione delle superfici verticali doveva incidere in maniera non indifferente sull’effetto d’insieme, sia del prospetto architettonico in generale sia del fregio in particolare, convogliando l’attenzione prevalentemente sui segmenti che, di volta in volta, si trovavano ad essere meglio illuminati [44].

grazie all’analisi di casi diversi, potremo continuare a notare come le peculiarità strutturali del supporto ar-chitettonico entrassero in gioco per modellare la perce-zione di un’opera a rilievo.

Modalità percettive: punti di stazione, percorsi linea­ri, percorsi circolari e percorsi multipli

Si offrivano liberamente alla visione degli osservato-ri anche i pannelli che ornavano le superfici degli archi onorari e trionfali, vale a dire il tipo di impiego della decorazione a rilievo da cui soprattutto, nella seconda metà dell’ottocento, prese le mosse lo studio della cate-

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[47] Ibid., 163.[48] La maggiore o minore profondità scultorea poteva, infatti, essere in rapporto con la posizione e la funzione del rilievo nell’edificio che l’ospitava: cfr. Pfanner 1981, 514.[49] La fortunata lettura che vede nei due pannelli, soprattutto nel pri-mo, un vertice nella resa dell’illusionismo spaziale nella scultura a rilievo del periodo imperiale risale a Franz Wickhoff, il quale annet-teva anche particolare importanza al concorso del colore per l’effetto complessivo (cito dal terzo volume dell’edizione delle opere di Wickhoff curata da M. dvořák: Wickhoff 1912, 86-90, 115-121). Negli ultimi decenni la ricerca ha maturato una più precisa valutazione critica dell’arte flavia, pervenendo a una maggiore storicizzazione degli esiti in passato ritenuti più caratteristici, specialmente il “ba-rocco”. Si veda l’analisi di Pfanner 1983, 58-63, dove si dimostra che ciò che più pare innovativo nell’Arco di Tito rappresenta, in realtà, la continuazione di stilemi già usati in precedenza.

in parte visibile già dall’esterno del monumento anche per chi vi si fosse trovato esattamente di fronte, e non magari in un punto più angolare di stazione, come av-viene in maniera emblematica nell’Arco di Tito a Ro-ma [48]. Qui, a differenza di ciò che sarà poi realizzato all’interno del fornice nell’arco di Benevento, dove sa-ranno rappresentati due avvenimenti sostanzialmente “stabili”, sono mostrati due episodi “in movimento”, cioè le ben note scene con la processione trionfale da un lato e la quadriga di Tito dall’altro [49]. I personaggi che compaiono nei due pannelli, come è stato giustamente notato, si muovono nello stesso senso in maniera spe-

informativo, dal punto di vista strettamente semantico, ma non tradisce il messaggio complessivo affidato al monumento, il quale assolve in ogni caso la sua funzio-ne e raggiunge l’obiettivo previsto dalla committenza.

L’articolazione dell’apparato decorativo, tuttavia, sembra essere stata studiata per attirare il più possibile l’attenzione di chi si imbatta nell’arco. Se i pannelli so-vrapposti sui vari registri nelle facce esterne dei piloni si prestano bene a una visione di tipo stazionario, nel momento in cui si accorge della presenza di rilievi an-che sulle pareti interne del fornice il passante è invo-gliato ad avvicinarsi e a entrare nel monumento, così da vedere le due scene di dimensioni maggiori e di impor-tanza più rimarchevole nell’ambito dell’intero comples-so, cioè quella dell’institutio alimentaria e quella, di con-tro, del connesso sacrificio. In un caso del genere, al fine di suscitare ancora più efficacemente l’interesse del po-tenziale osservatore e di invitarlo a penetrare nella struttura architettonica per guardare meglio, si poteva-no utilizzare vari espedienti, come quello di mostrare le diverse rappresentazioni di Traiano nei pannelli esterni rivolte verso l’asse del fornice, quindi verso l’interno, così da dirigere lì l’attenzione [47] (fig. 4). Ma si potevano pure sfruttare prerogative inerenti ai rilievi collocati dentro il passaggio, ad esempio conferendo ad essi un aggetto molto pronunciato, un accorgimento che aveva la conseguenza di rendere la scena raffigurata almeno

Fig. 3. Benevento, Arco di Traiano. Veduta da sud­ovest (foto Rambaldi)

Fig. 4. Benevento, fronte orientale dell’Arco di Traiano: le raffigurazioni dell’im­peratore sono tutte rivolte verso il fornice, compresa quella perduta nel pannello di sinistra dell’attico (rielaborazione da foto Rambaldi)

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[50] de Maria 1988, 288, nr. 74; Arce 1993, 110; Coarelli 1999a, 227.[51] Non va dimenticato che l’osservatore antico si trovava più vicino ai rilievi di come può succedere ora, a causa degli sterri ottocenteschi che, mettendo a nudo le fondazioni dei piloni, hanno provocato la sopraelevazione dell’arco rispetto all’attuale piano di calpestio, cor-rispondente al livello augusteo.[52] Cfr. Pfanner 1983, 82-90.[53] Coarelli 1968, 61, e nota 36 a p. 95; Bonfante Warren 1970, 54-55.

Nell’ottica di favorire una sensazione di diretto coin-volgimento nell’apparato decorativo di un’opera pub-blica, si poteva dunque sfruttare il movimento lineare del viandante con l’assecondare un percorso già esi-stente, come era quello del trionfo, facendolo scavalcare da un arco nel quale si perpetuava il ricordo della ceri-monia che di lì era sfilata e che poteva essere idealmen-te rivissuta anche solo mediante il semplice passaggio. In aggiunta a ciò, una disposizione conveniente della decorazione a rilievo sul monumento poteva sollecitare un tipo di movimento non casuale, ma finalizzato a fa-vorire una migliore comprensione della decorazione stessa. Anche questo era un modo per spingere l’osser-vatore a rievocare l’avvenimento che aveva determina-to l’erezione dell’opera celebrativa, rendendolo così più consapevole e quasi partecipe dell’azione rappresenta-ta. Nello stesso Arco di Tito, il piccolo fregio sopra il fornice, oggi conservato solo nella porzione centrale della fronte orientale, in origine circondava la struttura su tutti e quattro i lati. Se la sequenza procedeva senza soluzione di continuità da un lato all’altro, cosa che sembra del tutto probabile [52], era qui riprodotta in ma-niera unitaria la sfilata del trionfo, la quale, come si evince osservando la disposizione delle figure nel tratto superstite, dove esse appaiono muoversi da sinistra verso destra, si svolgeva attorno al monumento con di-rezione antioraria, analogamente a quanto si può anco-ra vedere per intero nell’arco di Benevento. Il fregio de-scriveva quindi un percorso che riproduceva l’anda-mento seguito dal reale corteo trionfale, che, nel suo snodarsi dal Campo Marzio verso sud-est attraversan-do il Circo Massimo (dopo aver aggirato il Velabro) e piegando poi a nord per costeggiare il Palatino e da qui passare nel Foro, per ascendere infine il Campidoglio, tracciava appunto un circuito antiorario, come era tipi-co delle processioni a carattere lustrale [53]. Ciò ribadiva ulteriormente la valenza trionfale dell’Arco di Tito, che

culare, secondo l’andamento seguito nella realtà dai cortei dei trionfi, che lungo questo settore della via Triumphalis procedevano da est verso ovest, in direzio-ne del Campidoglio, dove le cerimonie erano destinate a terminare [50] (fig. 5). Ciò faceva sì che il viandante che, passando sotto l’arco, si inoltrava nel Foro Romano da questa parte avesse l’impressione di ripetere di persona il percorso del trionfo, riattualizzandolo e perciò quasi eternandolo, accanto alle figure scolpite che vedeva camminare non tanto lontano da lui [51]. Così si veniva, in un certo modo, a completare la funzione celebrativa del trionfo giudaico implicita nel monumento, sugge-rendo a colui che attraversava il fornice di riviverne lo svolgimento per sempre, come per sempre il movimen-to del passante sembrava rianimare ai suoi occhi la sali-ta verso il cielo della figura di Tito trasportato dall’aqui-la visibile al centro dell’intradosso.

In questo abbiamo l’opportunità di riconoscere un esempio importante della maniera in cui la deambula-zione dell’osservatore arricchiva e modificava la sua percezione dei rilievi, influendo sul significato che ad essi egli finiva per attribuire, secondo un processo che non poteva essere fortuito, ma che doveva essere stato previsto in sede progettuale, dato che aveva come effet-to quello di intensificare nei destinatari la ricezione del messaggio commemorativo veicolato dal monumento.

Fig. 5. Roma, Arco di Tito. Direzioni dei personaggi nei pannelli all’interno del fornice (rielaborazione da foto Rambaldi)

Coinvolgere per persuadere. Considerazioni sulla percezione dei rilievi storici romani

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[54] de Maria 1988, 233, nr. 5.[55] Per la possibilità di leggere i rilievi tutt’intorno all’arco, seguendo un livello per volta dal basso verso l’alto, quasi fosse una colonna coclide, cfr. Torelli 1997 e la bibliografia da lui citata (173, nota 25).

dall’altra parte dell’iscrizione (fig. 7). L’espediente di separare i due protagonisti dell’episodio serve anche per amplificare il gesto compiuto dal dio, grazie alla va-sta superficie coinvolta nell’azione.

I rilievi, da elementi in qualche modo “accessori” nelle architetture, nel senso che le completavano senza però assumere un ruolo prevaricante, come appunto era avvenuto coi fregi nei templi greci, si trasformavano per questa via in vettori che assorbivano l’osservatore, sollecitandone l’attenzione al massimo grado e incorag-giando in lui una sorta di immedesimazione. Ma come per altre questioni che riguardano i rilievi romani a sog-getto storico, per tale modalità di lettura non siamo as-sistiti da riscontri nelle fonti scritte giunte sino a noi. Tuttavia, nel valutare l’impatto di queste opere sulla percezione dei contemporanei, possiamo proseguire aggiungendo altri esempi che paiono confortare l’idea

induceva gli osservatori a commemorare l’evento all’origine della sua erezione per mezzo di una sorta di doppia riattualizzazione della cerimonia, in armonia con la duplice rappresentazione che di essa era offerta dall’apparato decorativo. La prima modalità riattuativa era basata su un percorso lineare attraverso il monumen-to, col quale, di concerto coi due rilievi interni del forni-ce, si rievocava l’istante in cui la processione aveva im-boccato il tratto finale del suo tragitto, cioè quello che, attraverso il Foro, l’avrebbe condotta sul colle capitoli-no; la seconda era basata su un percorso circolare intor­no al monumento, col quale, come suggeriva il verso delle figure nel piccolo fregio all’esterno, si riassumeva l’intero itinerario anulare compiuto dal corteo nelle vie della città (fig. 6). Col percorso lineare si ricalcava effet-tivamente un breve segmento del cammino del trionfo, mentre con quello circolare lo si sintetizzava ripetendo-ne in piccolo l’andamento generale (la direzione del fre-gio favoriva certo una circolazione parallela intorno all’arco, dunque antioraria, più che una in senso oppo-sto). Il fatto che in un monumento non trionfale, quale era l’arco beneventano, sia stato utilizzato il medesimo accorgimento di disporre i personaggi del fregio mino-re tutt’intorno al manufatto, con direzione antioraria, denota come il pro cedimento fosse usuale e potesse es-sere applicato anche lontano da Roma, nei casi in cui doveva essere rappresentata una pompa (lì si trattava si-curamente del trionfo dacico del 107 d.C. [54]). Il movi-mento da sinistra verso destra delle figure scolpite era, infatti, quello che con maggiore aderenza descriveva l’andamento reale della cerimonia che aveva avuto luo-go nella capitale qualche anno prima (l’arco fu dedicato nel 114 d.C.), permettendo in questo modo di farla “ri-vivere” anche fuori Roma, almeno agli occhi degli os-servatori che avessero seguito interamente lo svolgi-mento del fregio sui lati della struttura. La circolazione intorno al monumento così favorita permetteva inoltre di cogliere meglio i nessi intercorrenti fra i singoli pan-nelli della decorazione, sia nell’ambito della stessa fac-ciata, sia tra l’una e l’altra [55]. Basti pensare alla scena divisa fra i due rilievi nell’attico sulla facciata verso la città, dove il movimento da sinistra verso destra impli-cato dalla sottostante processione trionfale è ribadito da giove che, nel pannello di sinistra, porge il fulmine a Traiano, il quale lo riceve stando nel pannello di destra,

Fig. 6. Roma, Arco di Tito. 1: percorso lineare; 2: percorso circolare (rielaborazio­ne da Mansuelli 1981)

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[56] Pfanner 1983, 84-85. Sulle rappresentazioni di questo tipo cfr. inol-tre Hölscher 1993, 59-61.[57] Si può condividere del tutto l’ipotesi di Mario Torelli, per il quale gli Anaglypha sostituivano i cancella di bronzo che, secondo una testi-monianza di epoca augustea (Conone, Narr. 48), proteggevano la fi­cus e la statua, come fanno pensare le tracce di incassi per elementi metallici riconoscibili al di sopra delle cornici superiori: Torelli 1982, 108-109, e 1999, 96.[58] Le lastre furono trovate reimpiegate nelle fondazioni di una torre medievale. Rüdiger (1973, 162-163) riteneva che, nella disposizione originaria, le scene “storiche” apparissero sulle facce interne, ma la maggiore importanza propagandistica da esse rivestita rende prefe-ribile una collocazione all’esterno dell’area racchiusa dai plutei, do-ve risultavano molto meglio visibili, come ha proposto Torelli (1982, 89, e 1999, 95).

lati opposti, un’area delimitata nell’ambito del Foro Ro-mano, molto probabilmente la zona del Comitium dove si trovavano la ficus Ruminalis e la statua di Marsia, rap-presentate su entrambe [57]. Al movimento dell’osserva-tore era in ogni caso demandata anche qui una funzione significativa, in particolare in rapporto con la decora-zione di quelle che dovevano essere le facce esterne dei plutei, raffiguranti l’adlocutio di Traiano e la distruzione dei registri dei debiti [58]. Queste scene attiravano l’atten-zione del passante, il quale, dopo essersi avvicinato per

che il movimento degli osservatori e quindi dei loro oc-chi lungo le superfici scultoree, almeno in certi casi, ac-quisisse un ruolo considerevole, in quanto diveniva un fattore atto a completare la comprensione nei destinata-ri cui i monumenti erano rivolti. Naturalmente non si deve pensare che un tale procedimento fosse vincolante per la ricezione del significato generale delle scene scol-pite: anche chi si fosse accontentato di cogliere solo qualche particolare a colpo d’occhio (“per flashes”), sen-za girare intorno all’arco beneventano o a quello di Tito, avrebbe potuto intendere con facilità il senso della pro-cessione trionfale raffigurata, ricostruendo mentalmen-te il tutto per mezzo della parte. A questo scopo, nel caso specifico dei piccoli fregi degli archi, la modalità rappresentativa adottata, con la propensione a mostra-re le singole figure di fronte e intervallate da spazi vuo-ti, era probabilmente funzionale a favorire nella manie-ra più efficace la comprensione dell’osservatore, che poteva così distinguere senza difficoltà ogni dettaglio della cerimonia [56].

L’impossibilità di ricostruire il contesto originario al quale appartenevano gli Anaglypha Traiani compromet-te la valutazione dell’effetto a suo tempo esercitato da queste lastre, che dovevano comunque cingere, su due

Fig. 7. Benevento, fronte occidentale dell’Arco di Traiano. 1: direzione del corteo trionfale; 2: direzione della consegna del fulmine (rielabo­razione da foto Rambaldi)

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[59] Scott Ryberg 1955, 104-119; ead. 1967, 38.[60] Per le ragioni della doppia cerimonia, vedi Torelli 1982, 106-108 (per l’interpretazione complessiva dei plutei, 89-118).

rievocare nella maniera più evidente la processione pu-rificatoria prima del sacrificio, anch’essa antioraria [59]. Ma la scelta di una disposizione parallela e non circola-re era quella che meglio poteva chiarire che le due file di vittime erano pertinenti a due distinti suovetaurilia, in rapporto con una doppia lustratio [60]. Si può poi avanza-re l’ipotesi che, nel caso di riti quali i suovetaurilia, l’istanza predominante fosse quella di assicurare a chiunque ne guardasse le riproduzioni in scultura che la procedura era stata rispettata secondo le regole, quin-di con le vittime canoniche (uno scrupolo sempre pre-sente alla mentalità religiosa romana), più che quella di stimolare l’osservatore a rievocarli col proprio movi-mento. una simile riattualizzazione doveva essere pre-vista e incoraggiata solo in casi determinati, in stretto rapporto con la natura delle cerimonie raffigurate nei rilievi. È una questione sulla quale dovremo tornare fra poco.

Allo scopo di seguire nel dettaglio, passo dopo pas-so, il messaggio trasmesso dai rilievi che decoravano un monumento celebrativo poteva essere necessario, perciò, compiere un determinato percorso logico: o fisi-camente, come per gli archi di Tito e di Traiano e per le facce esterne degli Anaglypha, o anche solo mediante lo sguardo, come per le facce interne di questi ultimi. Rien-tra nella prima modalità di fruizione un’altra delle ope-re più citate di tutta l’arte di età romana, vale a dire la base della Colonna Antonina. Anche in questo caso ab-biamo un manufatto che deve essere letto tutt’intorno, in quanto ogni faccia del dado, eccettuata quella con l’epigrafe dedicatoria, reca una figurazione a rilievo: l’apoteosi della coppia imperiale sul lato opposto al-

considerare la prima che gli era capitata davanti agli occhi, a seconda della direzione da cui proveniva, era invogliato a spostarsi dalla parte opposta per vedere anche l’altra. Ma il contenuto delle raffigurazioni pote-va provocare un coinvolgimento percettivo che non si limitava alla superficie delle lastre, perché, ai fini di una comprensione più completa, l’osservatore era tenuto ad allargare il suo campo visivo, estendendolo anche alla zona circostante. Nel fondale dei rilievi, dietro gli epi-sodi “storici” rappresentati in primo piano, si poteva facilmente riconoscere la fila degli edifici situati lungo il lato meridionale del Foro. Lo sfondo architettonico era diviso in egual misura sulle due lastre, essendo virtual-mente incernierato sul nesso Marsia-ficus raffigurato identico all’estremità destra dell’una e a quella sinistra dell’altra. Perciò era possibile eventualmente confron-tare le riproduzioni a rilievo – veritiere, pur con alcuni accomodamenti, come l’ottastilo Tempio dei Castori ri-dotto a pentastilo – con gli edifici esistenti nella realtà, che sorgevano proprio di fronte. In tal modo il panora-ma visuale a disposizione dell’osservatore veniva redu-plicato, anche se con un significativo adattamento, in quanto l’originaria messa in opera dei rilievi ripropone-va sì l’esatta sequenza degli edifici allineati su uno dei lati del Foro reale, però divisa fra due lastre che non potevano essere prese in considerazione entrambe nello stesso momento, dunque con un unico sguardo. Tutta-via il raffronto tra il fondale fittizio e il fondale concreto confermava la validità della rappresentazione, ram-mentando che gli eventi eternati in primo piano sulle lastre avevano avuto luogo nella piazza forense.

Mentre una lettura completa delle scene “storiche” richiedeva allo spettatore di circolare intorno ai plutei, la loro decorazione interna poteva essere apprezzata anche solo per mezzo del movimento degli occhi, quin-di stazionando in un punto fisso all’interno o di fronte all’area degli Anaglypha. Qui erano mostrate due volte, sull’una e l’altra lastra, le vittime di un suovetaurile, le quali avanzavano nella stessa direzione in due file pa-rallele, da una parte da destra a sinistra (fig. 8), dall’al-tra da sinistra a destra. Alla luce di quanto abbiamo notato poco fa discutendo i fregi “trionfali” degli archi, ci saremmo potuti aspettare che le teorie di animali se-guissero anche qui un percorso anulare, dunque muo-vendosi nello stesso senso su entrambe le lastre, così da

Fig. 8. Roma, Anaglypha Traiani. Direzione delle vittime del suovetaurile su una delle due lastre (rielaborazione da Bianchi Bandinelli, Torelli 1976)

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[61] La stretta somiglianza di questi due rilievi deve essere stata accen-tuata dai restauri eseguiti in età moderna (si veda in proposito Vogel 1973, 12-17).[62] Ibid., 56-60 (con le fonti). La duplicazione della rappresentazione ai piedi della Colonna Antonina alludeva verosimilmente a due di-verse decursiones, quella effettuata per Antonino Pio e quella per Fau-stina Maggiore, morta vent’anni prima: Helbig 1963, 378-380, nr. 480 (e. Simon): 380; Kleiner 1978-1980; Maffei 1993, 299. Contra la Vogel (1973, 66-67 e 85-86; seguita da Ward-Perkins 1976, 346), per la quale sarebbero qui riprodotte due decursiones in onore dello stesso Anto-nino Pio, guidate dai due augusti Marco Aurelio e Lucio Vero.[63] Come si evince dalle raffigurazioni monetali, la Colonna Antoni-na era in origine circondata da una balaustra (Maffei 1993, 298-299), la quale peraltro non doveva ostacolare la piena visione dei rilievi basamentali, altrimenti il messaggio ad essi affidato sarebbe stato vanificato.[64] Nelle composizioni figurate il senso da sinistra a destra appare del resto quello più naturale: vedi Arnheim 1984, 48-50.

mente, il normale senso di lettura destrorso dei testi scritti, come avviene ad esempio, per citare altri manu-fatti che prevedano una visione torno torno, nei miliari cilindrici con iscrizioni [64]. Tuttavia, lo sfruttamento di quel verso direzionale come modalità di osservazione privilegiata, al fine di apprezzare le rappresentazioni di alcuni momenti, reali e simbolici, di un’occasione ceri-moniale in cui quel particolare andamento era, a tempo debito, sancito dal rituale, autorizza a mio avviso l’ese-gesi più pregnante, analogamente a quanto si è notato nel caso dei piccoli fregi degli archi. Nella base della

l’iscrizione, le due immagini quasi identiche di decursio su entrambi gli altri lati [61]. Benché non vi sia la rappre-sentazione di un unico avvenimento diviso in segmenti ortogonali l’uno all’altro, come nei piccoli fregi trionfali degli archi, l’esigenza di decodificare ciascuna tappa del ciclo scultoreo richiedeva in ogni modo all’osserva-tore lo sforzo di camminare intorno al basamento della colonna, compiendo pertanto un giro completo. In tale maniera, però, il visitatore pareva quasi riattualizzare pure qui un’importante cerimonia pubblica collegata con l’erezione del monumento, cioè proprio la decursio raffigurata sulle due fiancate opposte del dado, la qua-le, come è noto, consisteva in tre evoluzioni eseguite dai cavalieri intorno alla pira funebre, proletticamente so-stituita al centro di ciascun rilievo dai pretoriani che, in un diverso momento, prendevano parte anch’essi al ri-to [62]. L’osservatore antico, al fine di prendere visione dell’intero programma figurativo del basamento, era quindi tenuto a compiere una sorta di sua decursio pri-vata, con la quale faceva rivivere, per così dire, la ceri-monia ufficiale rappresentata dai caroselli di cavalieri nei due rilievi laterali e, magari senza nemmeno accor-gersene, rinnovava la commemorazione della consecra­tio imperiale. Anche questa doveva avvenire in senso antiorario, trattandosi di un rito di natura lustrale, co-me è reso manifesto dalla direzione delle due cavalcate, che nel monumento sono conformate in modo da per-correre “in verticale” il circuito che, nella realtà, si svol-geva tutt’intorno alla pira (fig. 9). Si può aggiungere, inoltre, che nell’economia dell’insieme un ruolo essen-ziale sembra essere rivestito dal genio alato, di norma identificato con Aion, nella scena allegorica sulla faccia principale: il disporsi della figura lungo la diagonale ideale che unisce l’angolo in basso a sinistra, dove si allungano i suoi piedi accanto alla personificazione del Campo Marzio, a quello in alto a destra, verso il quale tende la sua spinta ascensionale e dove si espande la sua ala sinistra, aveva probabilmente lo scopo di invita-re l’osservatore a muoversi intorno al podio appunto da sinistra a destra, cioè in senso antiorario (fig. 10). Così si assecondava sia il moto lineare di Aion sia quello circo-lare dei cavalieri impegnati nella decursio, riproducen-doli nella realtà con uno stesso movimento [63] (fig. 11). A questa interpretazione si potrà forse obiettare che il ver-so dei rilievi potrebbe solo rispecchiare, più semplice-

Fig. 9. Roma, Musei Vaticani. Direzione della decursio su uno dei lati della base della Colonna Antonina (rielaborazione da Kleiner 1992)

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[65] Vogel 1973, 32; Maffei 1993, 298.

un’osservazione stazionaria, magari secondo una pro-spettiva angolare che permettesse di contemplare nello stesso momento due lati della base, in modo da affer-rarne con un unico colpo d’occhio la valenza di comme-morazione funeraria. Anche qui, dunque, un semplice sguardo garantiva una visione parziale ma sufficiente per acquisire una prima, fondamentale informazione. una fruizione di questo tipo attivava vivacissimi svi-

Colonna Antonina, perciò, la fruizione dell’apparato decorativo era in stretto rapporto con la funzione fune-raria del monumento, che nella sua collocazione origi-naria nel Campo Marzio era orientato sullo stesso asse dell’ara consecrationis attribuita ad Antonino Pio, verso la quale era rivolto il lato con l’apoteosi [65].

Naturalmente un senso di lettura come quello che abbiamo appena descritto assumeva solo un carattere preferenziale, non coercitivo: il messaggio sostanziale della decorazione poteva essere colto anche senza gira-re intorno alla Colonna di Antonino, limitandosi ad

Fig. 10. Roma, Musei Vaticani. Direzione di Aion nella scena di apoteosi sulla base della Colonna Antonina (rielaborazione da Luschi 1992)

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[66] A meno che, nel rilievo che lo illustra, la parziale sovrapposizione degli animali da sinistra verso destra (il toro, mostrato nella sua inte-rezza, copre la parte posteriore dell’ariete, il quale a sua volta cela le terga del verro) non sia da interpretare come un tentativo in tal sen-so. oltre che a contenere all’interno del riquadro le figure delle vitti-me, troppo grandi per essere riprodotte integralmente l’una dietro l’altra, l’espediente potrebbe essere funzionale, infatti, a suggerire l’impressione che la teoria di animali stia circolando con moto antio-rario. Parrebbe comunque una soluzione finalizzata più a mostrare il rito in forma meglio compiuta che a stimolare il movimento dell’os-servatore, anche perché lo schema compositivo mostra evidenti ana-logie con monumenti di età precedente, in particolare la lastra giulio-claudia con rappresentazione di suovetaurile oggi al Louvre, dove gli animali sono disposti in maniera identica, seppure meno “compres-sa” (Scott Ryberg 1955, 117).

circolazione parallela da parte dell’osservatore (come i cortei nei piccoli fregi degli archi), ma convergono en-trambe verso lo stesso punto (come le vittime nei rilievi interni degli Anaglypha Traiani), vale a dire il lato dove è mostrato il sacrificio. Ciò avviene molto probabilmente perché, proprio come negli Anaglypha, qui si tratta di processioni diverse, anche se con uguale destinazione.

Nessun particolare artificio, nell’organizzazione del-le scene scolpite sulla base dei decennali, sembra esco-gitato specificamente per indurre il passante a conti-nuare l’osservazione un lato dopo l’altro, come nella Colonna Antonina, né per rievocare chiaramente il cir-cuito del suovetaurile [66]. Si ripropone così un problema

luppi percettivi quando un monumento era formato da più elementi isolati, come nel caso di un’opera celebra-tiva più tarda e innalzata per un’occasione completa-mente diversa, però obbediente, nei suoi singoli com-ponenti, alla medesima tipologia dell’Antonina: il Mo-numento dei decennali di epoca tetrarchica. È noto che esso sorgeva nell’area nord-occidentale del Foro Roma-no ed era costituito da cinque colonne, di cui è giunta fino a noi soltanto una base, ornata per intero da rilievi (analogamente alle altre, come è del tutto plausibile). Le processioni rappresentate su due lati opposti, quella dei togati e quella del suovetaurile (fig. 12), non procedono nel medesimo senso, quindi sfilando intorno al dado basamentale una dietro l’altra, così da sollecitare una

Fig. 11. Ricostruzione della base della Colonna Antonina (cfr. nota 63). Intorno al podio è indicato l’ipotetico movimento dell’osservatore, che asseconda le dire­zioni di moto espresse nei rilievi (disegno Cosetta Gigli)

Fig. 12. Roma, Foro Romano. Direzione delle vittime del suovetaurile sulla base dei Decennali (rielaborazione da Bianchi Bandinelli, Torelli 1976)

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[67] Kähler 1964, 22-29 e fig. 6.[68] giuliani, Verduchi 1987, 155-156.

zare ancora una considerazione, che indicherebbe come suggestioni di varia natura concorressero a rendere così ricca di implicazioni l’organizzazione delle immagini a rilievo offerte all’attenzione degli osservatori antichi. Quando abbiamo ricordato l’esistenza di analogie tra la processione sull’Ara Pacis e il fregio del Partenone, ab-biamo notato proprio il ricorso al sistema convergente, poiché in entrambi i casi la rappresentazione di un cor-teo unidirezionale appare “sdoppiata” sulle fiancate della struttura che la ospita, confluendo verso l’entrata principale. La presenza, a Roma, di questa apparente scissione processionale sull’altare augusteo potrebbe avere influenzato altri monumenti, realizzati successi-vamente nella città, determinando la scelta di una di-sposizione del genere anche quando, sulle facce di uno stesso manufatto, dovevano essere rappresentati più cortei, con iconografie divergenti ma concettualmente apparentate.

Al di là della maniera in cui sono orientate le figure scolpite intorno al dado superstite, la conformazione originaria che è possibile immaginare per l’intero Mo-numento dei decennali rivela che, all’osservatore, era-no fornite molteplici opportunità di lettura dell’appa-rato decorativo delle basi, in stretta relazione con le mutevoli modalità di approccio che gli venivano con-sentite. A seguito delle indagini da lui condotte nel sito, Heinz Kähler aveva ipotizzato che le cinque colonne fossero disposte dietro i rostra, lungo una linea semicir-colare che ne assecondava l’emiciclo posteriore, con quella centrale più arretrata delle altre [67]; ricerche suc-cessive hanno però dimostrato che le colonne erano al-lineate al di sopra della tribuna degli oratori, lungo il suo margine occidentale [68] (fig. 13). In ogni caso era inevitabile che i passanti guardassero i rilievi da punti di stazione variabili, da dove potevano scorgere lati di-versi di basi diverse, anche se la visione assiale, impo-stata sulla colonna centrale di giove, sarà stata sicura-mente quella privilegiata (come si vede nel rilievo dell’oratio sull’Arco di Costantino). È un peccato che non si conoscano per intero le scene rappresentate sui dadi non più esistenti, perché, a meno che non fosse ovunque predominante il tema del sacrificio, come fa-

che abbiamo già individuato parlando degli Anaglypha, cioè l’assenza di un’idea di completa circolarità nella rappresentazione di un atto rituale che invece prescri-veva un percorso anulare, esattamente come le proces-sioni trionfali e le decursiones, le quali però, come abbia-mo visto, nelle decorazioni a rilievo venivano rese con accorgimenti che certificavano il loro reale svolgimento e invitavano i passanti a ripeterne l’andamento. In man-canza di riscontri è difficile spiegare questa disparità di trattamento, ma si può tentare qualche congettura. I cortei sacrificali erano cerimonie che, pur rivestendo in molte circostanze una valenza pubblica importante per l’intera cittadinanza (e questo era certo il caso dei riti che avevano solennizzato la celebrazione dei decennali tetrarchici), nella loro concreta attuazione manifestava-no tratti di esclusività, nel senso che richiedevano l’in-tervento di personale appositamente dedicato allo sco-po. Per cui, in questi casi, chi presiedeva alla pianifica-zione del programma figurativo di un monumento ten-deva forse a evitare l’attivazione di eventuali riattualiz-zazioni, quali potevano essere quelle operate virtual-mente dagli osservatori che si accostassero alle rappre-sentazioni scultoree del rito, secondo le modalità che abbiamo cercato di mettere in luce, favorendo al contra-rio un tipo di approccio incentrato sulla contemplazio-ne del fatto sacrale in sé. oltre a ciò non si possono tra-lasciare valutazioni puramente visive nella scelta delle disposizioni adottate per le figure nei rilievi, in relazio-ne sia ai possibili percorsi di avvicinamento da parte dei fruitori sia alle preesistenze monumentali circostan-ti. I cortei trionfali, invece, non erano processioni esclu-sivamente sacrificali, sebbene si concludessero con un’offerta di vittime, e si configuravano come grandi manifestazioni collettive cui contribuivano numerose persone, interessando anche materialmente tutta la cit-tà nel loro svolgimento, in maniera simile a quanto av-veniva in occasione dei riti funebri imperiali. Nella rap-presentazione di tali cerimonie su monumenti pubblici, i quali avevano lo scopo di trasmetterne per sempre il ricordo, la ricerca di un coinvolgimento anche fisico ed emotivo dello spettatore, nel senso che abbiamo delinea-to, doveva essere in stretto rapporto con la valenza uni-versalistica di cui queste immagini si facevano portavo-ce. Per spiegare il moto convergente nelle scene sacrifi-cali degli Anaglypha e dei decennali si può, però, avan-

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[69] Il testimone è l’erudito rinascimentale Francesco Albertini, il qua-le ricorda come, su un lato di una base più grande delle altre, che doveva essere quella della colonna di giove, fossero visibili sacerdo­tes sculpti taurum sacrificantes (vedi il commento a CIL VI, 1205 e 31262; Kähler 1964, 8-9).

spettatore passivo, ma aveva la sensazione di essere chiamato a contribuire, seppure solo al livello della sua percezione personale, al processo di costruzione figura-tiva del monumento che celebrava l’anniversario dei tetrarchi. Forse anche per tale ragione non era stato pre-visto un senso di lettura vincolante per i rilievi che de-coravano ciascuna base.

rebbe supporre l’unica notizia su uno dei rilievi perdu-ti di cui disponiamo [69], sarebbe stato interessante sco-prire se, tra una decorazione e l’altra, fossero state preor-dinate delle interrelazioni semantiche, variamente atti-vabili a seconda della posizione e del movimento dell’osservatore rispetto alle colonne. A quest’ultimo, comunque, era data la possibilità di combinare visiva-mente i differenti rilievi che si offrivano al suo sguardo, componendo così una sequenza figurativa che, di volta in volta, mutava a seconda del punto di vista da lui scelto, tanto più se, sulla tribuna dei rostra, non vi fos-sero barriere che impedissero la libera circolazione fra le colonne. In questo modo il visitatore non era uno

Fig. 13. Ricostruzione dell’estremità nord­occidentale del Foro Romano. Al centro la tribuna dei rostra col Monumento dei Decennali (particolare da Giuliani, Ver­duchi 1987)

Coinvolgere per persuadere. Considerazioni sulla percezione dei rilievi storici romani

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[70] Per la Traiana si considerino soprattutto: gauer 1977, specialmen-te 45-48; Farinella 1981; Brilliant 1987, 91-128; Settis 1988, in modo particolare 202-241; da ultimo galinier 2007, 69-119, con ampia di-scussione dello status quaestionis sulle “letture” della Traiana (8-13 e 19-33). Per l’Aureliana: Wegner 1931; Brilliant 1987, 115-120; galinier 2000, 148-153; Sauron 2000. Paul Veyne, nel lavoro citato supra, nota 29, si è concentrato sul problema della visibilità con accenti originali, che hanno sollevato ampio dibattito fra gli studiosi delle colonne co-clidi (si veda, in particolare, la discussione in Settis 1991).[71] dal livello del suolo, solo le prime sei spire della Traiana possono essere seguite chiaramente con lo sguardo, come conferma il fatto, rilevato da Salvatore Settis, che i disegni degli artisti che, nei secoli pas sati, riprodussero il fregio osservandolo dal basso non superano mai questo limite (ibid., 190-191).[72] Cfr. le considerazioni di Hölscher 2000, soprattutto 90-91.[73] Settis 1988, 203-204. Per un’analisi puntuale dei due fabbricati tra-dizionalmente interpretati come biblioteche, vedi Meneghini 2002; Id. 2009, 146-151.

che avrebbe agevolato la sua comprensione dei temi raffigurati [70]. Si può tuttavia convenire che, in accordo con quanto è suggerito dall’andamento stesso del fre-gio (il quale procede da sinistra verso destra, avvolgen-do il fusto in senso antiorario, dunque “cerimoniale-trionfale”), egli fosse potenzialmente invitato a seguire il dipanarsi degli eventi rappresentati circolando attor-no alle Colonne, sebbene dopo poche spire si sarebbe inevitabilmente arrestato, per proseguire da fermo con una lettura di tipo assializzato [71]. In tale maniera, anche limitandosi a notare solamente qualche scena qua e là, avrebbe ricevuto conferma di come le raffigurazioni proseguissero fino alla sommità a descrivere le gesta vittoriose dell’esercito romano, sulla base di un pro-gramma pianificato in ogni dettaglio [72]. La situazione non sarebbe tanto cambiata quand’anche la lettura dei registri più lontani fosse stata facilitata, almeno nel caso della Traiana, dalla possibilità di fruire di un più eleva-to luogo di visione, come, secondo un’ipotesi ripropo-sta più volte, i piani alti dei due edifici attigui (le c.d. biblioteche) e della Basilica ulpia, magari con una sorta di balconata che permettesse di camminare lungo tutti e quattro i lati del cortile che ospitava la Colonna [73] (fig. 14). Quello del quale si beneficiava era dunque un tipo di approccio percettivo sostanzialmente simile, seppure su scala più ampia, a quello che abbiamo detto essere prevalente in rapporto a un monumento come l’arco di Benevento, dove la mancata visione di una o più parti della decorazione non pregiudicava la ricezione del

Il rilievo come architettura

I rilievi nei principali spazi pubblici romani poteva-no trovarsi impiegati in molte posizioni diverse, dove comparivano alla stregua di appendici applicate, ma sempre connotate da uno specifico valore semantico, come è bene attestato anche solo dagli esempi che ab-biamo preso in cosiderazione fino ad ora. In certi im-pianti e monumenti essi potevano occupare un posto tutto sommato marginale (Foro Transitorio) o comun-que subordinato alla logica architettonica dell’insieme (Arco di Tito); in altri (Ara Pacis, Arco di Benevento, Anaglypha Traiani, base della Colonna Antonina, base dei decennali), invece, essi finivano per assumere il ruolo più importante, riempiendo tutto o quasi lo spa-zio disponibile e facendo passare in secondo piano la struttura che materialmente li ospitava, come se questa non fosse altro che un mero supporto predisposto per esibirli.

È sul fondamento di questo particolare modo di uti-lizzarli che si poté giungere a esiti di sostanziale auto-nomia architettonica dei rilievi, quasi fossero monu-menti a sé. di ciò offrono una testimonianza emblema-tica le colonne coclidi, alla cui trattazione l’idea già considerata che, intorno a certi manufatti, fosse neces-sario circolare allo scopo di comprendere a fondo le sce-ne figurate sulle loro superfici, così da “leggerli” per intero, conduce inevitabilmente. Non si intende qui ri-prendere la discussione sull’effettiva visibilità dei rilie-vi nelle spire delle Colonne, la quale esula dalla temati-ca in esame, essendo un problema che investe soprat-tutto il contenuto e la ripartizione delle scene fra i vari registri. Che nella Colonna Traiana, e ancor più nell’Au-reliana, sia stata predominante l’istanza di evidenziare i momenti più rappresentativi della virtus dell’impera-tore e del valore dell’esercito, mediante un’accorta di-sposizione delle scene che ne facilitasse una lettura “as-sializzata” di tipo sintetico, è del resto un’interpretazio-ne largamente condivisa. L’osservatore, facendo scorre-re l’occhio lungo le diverse “facce” virtuali delle Colon-ne che a lui si offrivano a seconda del variare del suo punto di vista, avrebbe riconosciuto, allineati sulla me-desima verticale e quindi in ideale corrispondenza fra loro, episodi di contenuto analogo (anche sul piano ge-stuale), o comunque concettualmente collegati, cosa

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[74] Per Filippo Coarelli, l’osservatore antico della Colonna Traiana non si sarebbe posto il problema della visibilità, la quale, del resto, non sarebbe stata sentita come un’esigenza prioritaria nemmeno dal punto di vista del committente, vale a dire l’imperatore (Coarelli 1999, 19-21). Cfr. inoltre zanker 2002, 227-228.[75] Meneghini 1998, in particolare 138-140; Id. et al. 2001, 247-248. Contra Packer, Burge 2003, ma vedi La Rocca 2004, 196-198, che avva-lora l’idea del propileo analizzando approfonditamente i percorsi di visita presso la Colonna. Sulle ipotesi di ricostruzione di questo ac-cesso monumentale, vedi inoltre Meneghini 2009, 155-159. Per la questione del tempio cfr. infra, nota 85.

dalla superficie particolare del fregio spiraliforme che lì si innalzava, allo scopo di valutare, di conseguenza, se la convessità del rilievo potesse imprimere suggestioni differenti da quelle determinate dai fregi e dai pannelli piani.

Le due colonne coclidi di Roma, pur essendo molto simili, al di là delle peculiarità stilistiche e strutturali dei rispettivi fregi scolpiti, si ponevano al cospetto dell’osservatore antico con modalità alquanto differen-ti, a causa della diversità sostanziale dell’ambiente che le recingeva. La Colonna Traiana, che oggi appare isola-ta, si ergeva all’interno di un cortile, quello fra le due biblioteche, relativamente troppo angusto per conte-nerla, tanto che il fusto col suo basamento ne occupava gran parte. Per chi proveniva da est, cioè dalla piazza del Foro traianeo (da dove non era visibile), l’improvvi-so apparire della colonna istoriata, dopo il gigantesco volume della Basilica ulpia, doveva essere fonte di no-tevole emozione, invogliando alla contemplazione del-le scene scolpite, pur secondo le particolari condizioni di lettura prima ricordate. Per chi, invece, si avvicinava da ovest, se da questa parte vi era un propileo che im-metteva direttamente nel cortile delle biblioteche, se-condo la plausibile proposta formulata dopo che è stata riconosciuta l’assenza in questo punto del Tempio dei divi Traiano e Plotina [75], la Colonna era il primo com-ponente architettonico del Foro che si offriva allo sguar-do (figg. 14-15). Il visitatore, perciò, era subito indotto a sostare per ammirarla e apprendere il contenuto delle scene figurate, prima di proseguire verso gli altri spazi dell’enorme impianto pubblico, che avrebbe attraversa-to seguendo un cammino rovesciato rispetto a quello che veniva tradizionalmente ritenuto il percorso prima-rio sulla base della vecchia planimetria, finché il lato

messaggio complessivo. Ma è anche, se vogliamo, una riproposizione con modalità e forme diverse della diffi-coltà di lettura del fregio del Partenone, cui si ovviava accontentandosi di afferrare una serie di flashes che, pur mutando a seconda della posizione dell’osservatore, garantivano la comprensione generale dell’insieme, in quanto ogni singolo flash è in sé un segmento che può compendiare l’assunto globale [74]. Non sembra molto credibile che, anche nel caso del tempio sull’Acropoli ateniese, un visitatore medio avesse voglia di girare tut-t’intorno alla cella per rincorrere l’intera processione raffigurata (fra l’altro sdoppiata sui lati lunghi, come abbiamo già ricordato, quindi con un’interruzione della continuità narrativa dal punto di vista di chi l’osserva-va passando da un lato all’altro), vincendo lo sforzo oculare causato dalla necessità di seguire immagini lon-tane da lui e visivamente distorte.

Qui si vuole però riservare maggiore attenzione, con-cordemente con quanto è stato fatto sinora, all’effetto che i rilievi delle colonne coclidi erano in grado di eser-citare sullo sguardo e sulla mente degli osservatori, considerando la maniera in cui la percezione di questi ultimi era condizionata dallo spazio che li circondava e

Fig. 14. Ricostruzione degli edifici nord­occidentali del Foro di Traiano: propileo, Colonna, biblioteche e Basilica Ulpia (da Meneghini 1998)

Coinvolgere per persuadere. Considerazioni sulla percezione dei rilievi storici romani

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[76] grassigli 2003, specialmente 168-171.[77] Mansuelli 1969, 129 (il lavoro di Mansuelli contiene considerazio-ni degne di nota ancora oggi, benché si debba ovviamente tenere conto del radicale mutamento che le ultime indagini hanno portato alla conoscenza planimetrica del Foro di Traiano); Farinella 1981, 2; Brilliant 1987, 94-95, 106. Sulla forza visiva della verticalità in archi-tettura, cfr. le interessanti riflessioni di Arnheim 1981, 43-80.[78] zanker 1970, 538-539; Packer 1995, 349, 351-352; Id. 2001, 4-5.[79] Platner, Ashby 1929, s.v. Columna M. Aurelii Antonini, 133; gatti 1955, 19; Maffei 1993a, 303-304.

Atrium libertatis, e terminava poi il suo cammino nella vasta piazza, probabilmente il luogo più frequentato dell’intero complesso [78].

Il rilievo come fulcro spaziale

La Colonna Aureliana, eretta al centro di una grande corte affacciata verso la via Lata, poteva contare in misu-ra minore su un effetto di sorpresa. In primo luogo per-ché non era più una novità, nel panorama monumenta-le di Roma; in secondo luogo perché si presentava più direttamente all’attenzione dell’osservatore. Lo spazio che la circondava doveva apparire come una sorta di allargamento del cortile che conteneva la Colonna Traia-na: era sempre un’area scoperta, ma coi limiti assai più arretrati rispetto al fusto spiraliforme, a delimitare una vera e propria piazza con lati porticati, ammesso che sia giusta la ricostruzione solitamente ipotizzata, basata, più che su dati sicuri, sull’analogia con le altre piazze porticate della zona [79] (fig. 16). una siffatta soluzione planimetrica accentuava moltissimo il valore di anathe­ma dell’Aureliana e dei suoi rilievi: quello che lo spetta-tore vedeva era essenzialmente un cilindro istoriato con scene figurate, che appariva autosufficiente e isolato al centro di uno spazio aperto, quasi fosse un monumento onorario sul tipo delle statue equestri nelle piazze dei Fori imperiali, ivi compreso quello di Traiano. Se era questa una disposizione che si adeguava alla tipica pro-pensione romana per l’assializzazione dei volumi ar-chitettonici, non va dimenticato che, percettivamente, un elemento posto al centro di uno spazio delimitato esercita sempre un forte potere di attrazione, tanto mag-giore quanto più tale elemento si presenta isolato, come appunto le statue onorarie nelle piazze (anche ai nostri

della piazza situato di fronte alla Basilica ulpia era con-siderato il principale luogo d’accesso al complesso [76]. Le recenti ricerche, rivelando la grande importanza ri-vestita dall’ingresso dalla parte del Campo Marzio, hanno permesso di attribuire alla Colonna, all’interno della sintassi distributiva dell’impianto, un ruolo molto più rilevante di quello che risultava dalla disposizione planimetrica reputata valida in precedenza. Il piccolo cortile che la conteneva, posto all’inizio dell’itinerario lungo gli spazi del suo Foro (nonché al principio di tut-ta la sequenza monumentale dei Fori Imperiali), acco-glieva il visitatore invitandolo al raccoglimento e alla riflessione intorno alla rappresentazione figurata delle gesta di Traiano, su cui veniva subito attirata l’attenzio-ne. La comparsa immediata della Colonna, con la sua esaltante proiezione verso il cielo, oltre la ristrettezza dello spazio circostante e i bassi tetti delle biblioteche, doveva favorire lo scorrimento lungo il fusto dell’oc-chio dell’osservatore, in ciò naturalmente assecondato dalla spinta ascensionale che l’andamento elicoidale del fregio suggerisce, con le sue fasce parallele che si innalzano avvolgendosi in diagonale [77]. da qui il vian-dante procedeva attraverso spazi diversificati nelle fun-zioni, sempre più ampi e sempre più animati, che dove-vano accrescere in lui, passo dopo passo, la sensazione di grandezza e magnificenza già ispirata dalla visione della Colonna: dal raccolto cortile fra le due biblioteche entrava nella Basilica, un luogo coperto ma di enormi dimensioni, dove si svolgevano le attività giudiziarie e le manumissiones servili prima celebrate nel demolito

Fig. 15. Pianta del Foro di Traiano secondo le ricerche recenti (da Milella 2007)

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[80] Arnheim 1984, 42-43.[81] Questo va inteso come un monumento celebrativo nella sua glo-balità, come ha ben dimostrato zanker 1970.[82] Rambaldi 2003, 83-84, rispettivamente nr. P12 (cubicolo M, ora al Metropolitan Museum di New York) e nr. P13 (triclinio 14). un effet-to similare nell’oecus 15 della stessa Villa di Oplontis, dove al posto dell’edicola vi è un tripode delfico, analogamente cinto da porticati.[83] Cfr. Arnheim 1984a, 173-174.

forza attrattiva soprattutto dal loro trovarsi nel centro prospettico delle combinazioni di architetture dipinte delle quali fanno parte, altrimenti si distinguerebbero molto meno, nell’ambito delle sintassi compositive in cui i pittori hanno immaginato di ospitarle [83].

L’allargamento dello spazio vuoto intorno al monu-mento aureliano accresceva l’importanza della struttu-ra, in quanto ne valorizzava l’autonomia dal punto di vista percettivo, facilitando in teoria l’osservazione del fregio a rilievo, il quale non si mostrava spiacevolmente scorciato, come doveva invece apparire quello della Traiana nel suo cortile, a causa della forzata vicinanza del visitatore alla Colonna stessa (su questo punto però sarà necessario tornare). Così si contribuiva ad esaltare il carattere celebrativo che ormai costituiva la principa-le ragion d’essere dell’Aureliana, dato che essa aveva perso il valore sepolcrale associato al prototipo cui si ispirava, fosse questa un’accezione pertinente al pro-

tempi) [80]. La colonna coclide precedente, per quanto sia importante per noi studiosi, dal punto di vista proget-tuale assumeva un ruolo meno privilegiato, poiché era solo un componente all’interno di un organismo com-plesso qual era la gran macchina planimetrica e archi-tettonica del Foro di Traiano [81]. essa, anzi, appariva quasi affogata nel contesto monumentale che la cingeva da presso su tutti i lati (fig. 17). da qui non emergeva altro che la sua sommità, ma solamente agli occhi di chi, da ovest, si avvicinava al propileo che le si apriva da-vanti, mentre per chi proveniva dalla direzione oppo-sta, vale a dire dalla piazza del Foro traianeo, si frappo-neva la mole della Basilica ulpia a impedirne la visione da lontano. Il rapporto della Colonna Traiana con la sua serrata cornice architettonica ricorda un poco, sul piano visivo, lo schema di quelle composizioni pittoriche im-perniate su edicole circolari, collocate al centro di fitti-zie aree porticate, che si scorgono su pareti decorate in II stile, come a Boscoreale nella Villa di P. Fannius Syni­stor (fig. 18) e a Oplontis nella c.d. Villa di Poppea [82]. Le rotonde colonnate, in questi casi, traggono la propria

Fig. 16. Ipotesi di ricostruzione schematica della piazza della Colonna Aurelia­na. I limiti perimetrali proposti intendono solamente suggerire l’effetto volume­trico dell’insieme (disegno Cosetta Gigli)

Fig. 17. Ricostruzione del cortile della Colonna Traiana (da Coarelli 2008a)

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[84] La Rocca 2004, 198-204. Secondo Penelope J.e. davies (1997), an-che il fregio a rilievo della Traiana avrebbe implicato una valenza funeraria: per seguirne lo svolgimento intorno alla Colonna, l’osser-vatore avrebbe dovuto effettuare un percorso circolare, riattualiz-zando in questo modo quella parte dei riti funebri che prevedeva appunto processioni con tale andamento, come si è visto a proposito della decursio. un’interpretazione di questo genere, volta a indivi-duare lo sfruttamento del movimento fisico dello spettatore per uno scopo che oltrepassava la semplice necessità di guardare le scene scolpite, mostra un’analogia con la lettura di diversi monumenti a rilievo romani che stiamo tentando in queste pagine. Tuttavia non mi sembra plausibile che le esequie imperiali potessero essere rievocate utilizzando una rappresentazione di eventi bellici, la quale era chia-ramente finalizzata all’esaltazione dei successi militari di Traiano (come conferma la raffigurazione allegorica della Vittoria al centro del fusto). Se la valenza celebrativa delle guerre fosse stata, almeno in parte, funzionale a quella funeraria, sarebbe stato necessario espli-citarlo, invece non vi è nulla che legittimi questo collegamento, né nell’apparato scultoreo (compresi i rilievi della base) né nell’epigrafe dedicatoria. La Colonna Traiana serviva sì anche come tomba dell’imperatore, ma nella sua decorazione esterna l’istanza celebrati-va appariva assolutamente predominante, a maggior ragione se la funzione sepolcrale non era stata prevista dal progetto originale. Il senso antiorario del fregio spiraliforme è perciò da intendere, a mio avviso, in senso “trionfale”, come anche nell’Aureliana. una rievoca-zione del rituale funerario, lo si è visto, è invece del tutto ammissibi-le per la Colonna Antonina, dove è giustificata da una decorazione che esibisce appunto temi funerari.[85] Si era pensato che il Tempio del divo Marco fosse situato dietro la Colonna, dalla parte opposta rispetto alla via Lata, sulla base del ri-trovamento in questa zona di frammenti architettonici che un poco sbrigativamente erano stati attribuiti all’edificio funerario e, forse, per influenza del nesso Colonna-Tempio accettato in passato per il Foro traianeo (Platner-Ashby 1929, s.v. Divus Marcus, templum, 327; gatti 1955, 18-19; Maffei 1993a, 303; de Caprariis 1996). Più di recen-te eugenio La Rocca ha proposto un’interessante soluzione al proble-ma, ipotizzando un’unità topografica tra templum e columna, anche per la Traiana: in entrambi i casi, il primo andrebbe identificato con lo spazio aperto intorno alla seconda, da considerarsi un’area sacra sub divo, dedicata alla coppia imperiale (La Rocca 2004, 227-233; l’idea tradizionale sull’ubicazione del tempio collegato all’Aureliana è stata invece ripresentata da Coarelli 2008, 12-16). Anche Pierre gros propende per riconoscere il templum divi Traiani in qualcosa che è già sotto i nostri occhi nell’ambito del Foro dell’imperatore, cioè le due biblioteche, che potrebbero essere le aedes di Traiano e Plotina (gros 2005, soprattutto 188-195), mentre Amanda Claridge congettura un tempio, esastilo e con un’orientazione diversa da quella un tempo corrente, nell’area a nord della Colonna (Claridge 2007). Talvolta si ripete che nel basamento della Colonna di Traiano erano accolte an-che le ceneri della moglie: nelle fonti, tuttavia, mancano riscontri precisi al riguardo, per cui rimane soltanto un’ipotesi (La Rocca 2004, 226). Fra le onoranze che Adriano decretò in memoria di Plotina do-po la sua morte, secondo la testimonianza di Cassio dione, si anno-verano particolari manifestazioni di lutto, un tempio a lei dedicato e

getto originario della Traiana oppure aggiunta in segui-to [84]. È vero che lo stretto rapporto col Tempio del divo Marco Aurelio attestato da fonti tarde, da un lato, e la vicinanza al luogo dove l’imperatore era stato cremato, dall’altro, dovevano aver rivestito un ruolo decisivo nella scelta di replicare il monumento che, nell’ambito del più vasto dei Fori imperiali, fungeva anche da luo-go di sepoltura per Traiano (sebbene l’Aureliana non contenesse le ceneri di Marco) [85]. Ma quella che, in ori-

Fig. 18. New York, Metropolitan Museum. Affresco da Boscoreale, Villa di P. Fannius Synistor, cubicolo M, disegno (da Rambaldi 2003)

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la composizione di inni, ma non la sua tumulazione nella Colonna accanto al marito (LXIX 10, 3).[86] gatti 1955, 27-28; La Rocca 2004, 226-227.[87] gatti 1955, 22-27; Becatti 1960, 47-53; Jordan-Ruwe 1990 (qui è proposta un’ipotetica ricostruzione del podio basamentale che ac-centua le analogie con quello della Traiana); Maffei 1993a, 303; Huet 2000, 111-115; Martines 2000, 63-68; Coarelli 2008, 37-42.[88] Sulla cronologia di questi avvenimenti si confrontino però le con-siderazioni di Coarelli (ibid., 46-57).[89] zanker 1997, 189.

gine, era solo una parte all’interno di un tutto articolato e polifunzionale veniva ora isolata e trasformata nel fulcro dell’area dove sorgeva. Non va poi trascurato che la colonna coclide, in questo caso, si imponeva an-cora più decisamente sugli osservatori a causa della no-tevole altezza da essa raggiunta, al di sopra di un terre-no che doveva già essere più elevato rispetto all’adia-cente tracciato stradale [86]. Anche se il fusto era pari a quello della Traiana, la statua dell’imperatore sulla sommità si ergeva a una quota molto più alta, per via del notevole volume originario del basamento, oggi in gran parte interrato, ma riconoscibile nelle riproduzio-ni rinascimentali, che ne raffigurano lo stato prima del-la trasformazione da esso subita nel 1589 [87] (fig. 19).

Adattamenti nelle strategie di comunicazione visiva

Benché la maggiore “autonomia” della Colonna Au-reliana, in relazione con lo spazio che la recingeva, fa-vorisse la circolazione all’intorno e quindi la possibilità di contemplarne la superficie, l’accentuazione dei suoi valori di verticalità andava a detrimento della com-prensione delle rappresentazioni che avvolgono il fu-sto, qui ancor più che nel precedente traianeo. A causa della notevole altezza da cui prendevano avvio, i rilievi raffiguranti le vicende belliche di Marco Aurelio contro le popolazioni germaniche e sarmatiche si presentava-no, anche nelle spire inferiori, più lontani dagli occhi di chi li ammirava. A ciò si cercò un parziale rimedio anti-cipando nei registri più bassi, dunque più vicino agli osservatori, gli episodi ritenuti più significativi delle guerre, come i ben noti prodigi del fulmine e della piog-gia [88], ma anche ribadendo quell’“assializzazione” del-le scene già riscontrata nella Colonna Traiana. Nono-stante tali espedienti, in concomitanza col maggiore spes sore del rilievo e con altri accorgimenti formali [89], la visione complessiva del fregio figurato risultava pro-babilmente più sfuggente che sul prototipo cui si ispira-va. In linea di principio, la convessità della superficie istoriata su una coclide avrebbe potuto assecondare, nell’osservatore, l’impressione che le figure gli venisse-ro incontro, quasi come se si staccassero dal fusto per farlo intimamente partecipe dell’azione rappresentata. una tale sensazione di “avvolgimento”, che è suscitata

Fig. 19. Disegno di A. Lafreri raffigurante la Colonna Aureliana con quanto re­stava del basamento originario (intorno al 1575). A sinistra è riprodotto l’obeli­sco oggi in piazza dell’Esquilino (da Martines 2000)

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[90] galinier 2007, 136-137.[91] Bianchi Bandinelli 1969, 315-316; Id. 1980, 107-108. Va peraltro te-nuto presente che, anche nel caso dei rilievi aureliani, per valutare compiutamente l’impressione di un’ideale cooptazione dell’osserva-tore occorrerebbe sapere quali fossero la dislocazione e l’altezza dal suolo previste per la messa in opera originaria.[92] Becatti 1960, 47-53; Brilliant 1987, 118-120; Jordan-Ruwe 1990, 62-63; Maffei 1993a, 304; Brilliant 1994, 279-281.[93] zanker 1970, 513-517; Capodiferro 1993, 88-89; galinier 2007, 185-187. Cfr. inoltre ibid., 188-190.

gresso dell’area dominata dalla Colonna, si trovava una perduta lastra a rilievo, raffigurante una deditio di bar-bari al cospetto di Marco Aurelio e probabilmente di Commodo (vedi ancora fig. 19). Sembra ragionevole che questo episodio, posizionato in corrispondenza della stessa “faccia” della Colonna dove compaiono al-cune delle scene principali del fregio, quali la prima ap-parizione dell’imperatore e la Vittoria che scrive sullo scudo, rivestisse una funzione riassuntiva del significa-to complessivo delle figurazioni che avvolgono il fusto, in modo da facilitarne la comprensione con un surplus semantico, trasmettendo subito, e più a portata d’oc-chio, il risultato finale al quale tende idealmente tutta la narrazione [92]. Anche per mezzo di tale espediente, che pareva tenere conto delle difficoltà visive poste dalla lettura del fregio, veniva sottolineato il carattere cele-brativo del monumento, ulteriormente rimarcato dalle Victoriae con ghirlande sugli altri tre lati della base, in sostituzione delle generiche cataste d’armi visibili sul podio della Traiana. Non va del resto dimenticato che, per quanto ne sappiamo, nell’area che l’accoglieva era solamente l’Aureliana a celebrare le vittorie sui barbari, grazie ai rilievi che la rivestivano. Nel Foro di Traiano, invece, facevano mostra di sé altre opere che ricordava-no le guerre combattute dall’imperatore, come le statue di daci sugli attici intorno alla piazza, i quali riprende-vano e sintetizzavano, in un luogo diverso dell’impian-to pubblico, il complesso messaggio narrativo affidato alle spire della Colonna, e come anche il grande Fregio parzialmente riutilizzato nell’Arco di Costantino, se in principio era collocato nell’ambito del Foro, secondo un’ipotesi più volte ripetuta, magari nella Basilica [93].

La Colonna Aureliana, nelle intenzioni originarie, doveva dunque servire ancor più del suo modello traia-neo come monumento eretto alla maggior gloria del-

dall’idea di moto implicita nel regolare avvicendamen-to delle scene, tutte disposte in sequenza e con gran parte dei personaggi in movimento che vi compaiono rivolti nella stessa direzione della spirale, doveva esse-re di certo intensificata dalla policromia delle raffigura-zioni [90]. Quest’ultima costituiva un mezzo basilare per potenziare la capacità dei rilievi di attirare l’attenzione, indipendentemente dalla natura del supporto, anche se per noi è arduo valutarne la portata effettiva. In pratica, però, difficilmente le colonne coclidi avrebbero potuto innescare un processo di immedesimazione, sul tipo di quello descritto da Ranuccio Bianchi Bandinelli per il rilievo con Marco Aurelio sacrificante reimpiegato nel-l’attico dell’Arco di Costantino, dove il corteo rituale, seguendo una curva intorno all’altare, sembra uscire dal fondo a coinvolgere lo spettatore [91], in ottemperan-za a un principio che a questo punto non ci appare nuo-vo, poiché si rivela analogo ai procedimenti che abbia-mo proposto di individuare su alcuni dei monumenti finora trattati e che troveremo ancora, in altri casi molto significativi. un’illusione del genere a stento può essere provocata da una coclide, a causa dell’elevarsi progres-sivo del fregio (che già si avviava da un’altezza consi-derevole, soprattutto nella seconda delle due colonne, come si è detto) e quindi a causa della lontananza e del rimpicciolimento ottico sempre crescenti delle figure, effetti che vanificano in partenza un simile risultato. L’insieme rimane un tutto in sé concluso, che trae la sua coesione proprio dalla particolare configurazione del fregio. L’intero andamento dei rilievi non può essere se-guito realmente da colui che guarda, lo si è già notato, eppure la concatenazione avvolgente degli episodi sug-gerisce in modo irresistibile un’idea di moto continuo (cosa che il fregio di un tempio, con la scansione lineare dei suoi lati, riesce a fare molto meno). grazie alla con-sapevolezza che quello che gli si svolge davanti è un mondo figurativo coerente e a sé stante, teso all’esalta-zione dell’imperatore la cui immagine si stagliava alla sommità della Colonna, l’osservatore potrà così colle-gare idealmente scene anche staccate e lontane, ma ri-manendo comunque uno spettatore passivo, senza ave-re l’illusione di essere chiamato a esercitare qualche ruolo all’interno di questo processo.

Come è noto, sulla fronte del basamento dell’Aure-liana verso la via Lata, quindi sul lato rivolto verso l’in-

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[94] Cfr. supra, nota 63.[95] Cfr. Brilliant 1967, 219.

e senza la minima complicazione di natura percettiva. In quella circostanza, la committenza aveva dimostrato di essersi resa conto pienamente che i rilievi potevano esercitare una reale funzione psicagogica solo a certe condizioni. Per questa via si giunse non solo a privile-giare la vicinanza fisica (e soprattutto oculare), ma an-che a conferire alle decorazioni un assetto più “inva-dente”, in modo da garantirne al massimo grado la pre-sa sull’osservatore.

Verso un coinvolgimento sempre maggiore dell’osser­vatore

Anche dopo la realizzazione dell’Aureliana, la scul-tura a rilievo applicata ai monumenti celebrativi non sempre favoriva l’elaborazione percettiva nel pubblico dei fruitori, magari soltanto avvalendosi di una stretta interrelazione tra elementi vicini, poiché si poteva pre-ferire il ricorso a raffigurazioni che ponevano all’atten-zione scenari in sé conclusi, da considerare mediante un approccio di tipo essenzialmente contemplativo. del resto l’osservatore poteva essere guidato a immedesi-marsi nelle composizioni figurate soprattutto in rap-porto a opere circoscritte, vuoi per le dimensioni (come il basamento della Colonna Antonina), vuoi per l’op-portunità di cogliere una visione appagante da un pun-to di vista privilegiato (come l’Arco di galerio, che esa-mineremo più avanti), altrimenti avrebbe finito facil-mente per distrarsi, a causa della fatica e delle difficoltà di lettura di un fregio continuo o di un ciclo di rilievi troppo lungo e troppo lontano da lui.

I quattro grandi pannelli sulle due fronti dell’Arco di Settimio Severo nel Foro Romano recano composizioni molto simili fra loro, in quanto illustrano al loro interno episodi delle guerre partiche con forti analogie e distri-buiti più o meno negli stessi punti delle superfici figu-rate a disposizione [95]. Ciascun riquadro è in sé autosuf-ficiente e in grado di riassumere gli avvenimenti bellici che soprattutto avevano motivato l’erezione dell’arco, indipendentemente dagli altri rilievi, venendo dunque

l’imperatore protagonista delle vicende illustrate. Ma per quanto riguarda l’impatto esercitato sui destinatari dalla sua decorazione figurata, considerando la que-stione da un punto di vista puramente percettivo, essa segna un passo indietro. A fortiori se si pensa che era stata da poco preceduta da un’opera come la Colonna Antonina, la cui committenza, nel decidere di limitare i rilievi al podio di base, si era rivelata più sensibile alle esigenze di un’immediata comprensione del messaggio rappresentato, che era stato avvicinato agli occhi dell’os-servatore, al fine di coinvolgerlo attivamente stimolan-done il movimento intorno alle sculture [94]. evidente-mente, come confermano certi accorgimenti che abbia-mo notato nell’Aureliana, si era ormai capito che i rilie-vi comunicano con difficoltà il loro messaggio quando sono lontani, ad esempio quando sono collocati nelle parti alte di un edificio complesso e dotato di altre ca-ratteristiche che attirino l’attenzione. La Colonna Anto-nina, invece, grazie al rapporto molto più diretto che ispirava, “imponeva” la sua decorazione a colui che vi si fosse imbattuto, senza che egli potesse esimersi dal prenderla in considerazione. In questo modo veniva rinnovata la fortissima impressione di tangibilità che aveva caratterizzato, secoli prima e in un altro contesto, una realizzazione come l’Altare di Pergamo, pur dove-rosamente aggiornandola mediante la rappresentazio-ne di scene “storiche” (anche se filtrate attraverso il velo dell’allegoria). Allo stesso tempo, l’immediatezza espres-siva veniva associata a una varietà di aspetti, ottenuta accostando sulle facce del podio scene differenti sul piano iconografico e stilistico, però collegate sul piano logico. Questa rinuncia all’unità d’azione, tipicamente romana, si era già manifestata in età augustea non solo sull’Ara Pacis, ma anche su opere meno monumentali, come ad esempio l’altare del Belvedere, con le sue quat-tro facce che compongono un messaggio celebrativo di Augusto, esaltato in qualità di erede di giulio Cesare e rifondatore dei culti aviti, oppure certi altari funerari decorati sui lati con scene varie, sia narrative sia allego-riche, sul genere di quello di Naevoleia Tyche nella necro-poli di Porta ercolano a Pompei, per citare un caso cele-bre. Con l’Antonina, tuttavia, la possibilità di combina-re immagini diverse era stata sfruttata allo scopo di or-ganizzare un preciso percorso narrativo, che poteva essere seguito dall’osservatore col proprio movimento

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[96] zanker 2002, 226-229.[97] Il fregio probabilmente non raffigurava nemmeno il corteo trion-fale, ma doveva commemorare, anche per mezzo di elementi allego-rici, l’adventus a Roma dell’esercito dopo la vittoria finale (de Maria 1988, 306, nr. 89).[98] Vedi Brilliant 1967, 155, che rileva l’idea di continuità suggerita da questa disposizione, come se le coppie sui lati dei plinti intervenisse-ro costantemente a rimpiazzare le figure frontali che proseguono nella loro marcia.

immagini esterne di Traiano sono sempre rivolte verso il fornice, ma con un valore ancora più forte. Qui i per-sonaggi rappresentati sui plinti paiono muoversi senza sosta verso il passaggio centrale [98], sottolineando l’im-portanza del percorso lungo il quale si era mosso il rea-le corteo trionfale, prima che il percorso stesso venisse scavalcato dall’arco, che ne alterava radicalmente la prospettiva in questo punto del Foro (fig. 21). La rievo-cazione della cerimonia non era però affidata solo al messaggio muto delle immagini, ma si proponeva an-che dinamicamente col concorso dei viandanti. Come nel passare attraverso l’Arco di Tito lungo la stessa via processionale, l’osservatore poteva avere l’impressione di camminare insieme alle figure scolpite che vedeva vicino a sé e quindi di contribuire, in modo illusorio, al trionfo dell’imperatore perennemente rinnovantesi.

incontro anche all’“osservatore frettoloso e distratto” di cui ha parlato Paul zanker, da intendere essenzialmen-te come l’utente abituale dello spazio occupato dal ma-nufatto, il quale, per l’assiduità della sua frequentazio-ne, vi presta ormai un’attenzione molto scarsa, se non nulla [96]. Le scene rappresentate nei quattro pannelli si distribuiscono in ordine cronologico, a partire da quello di sinistra sulla fronte verso il Foro e seguendo la con-sueta direzione antioraria di natura “trionfale”, palese-mente l’andamento più idoneo per la raffigurazione di vittorie militari. Ma poiché la decorazione dell’arco è limitata alle fronti, senza proseguire sui lati minori, l’at-tenzione dell’osservatore è portata a soffermarsi soltan-to su queste due facce, anche per via della presenza dei gradini che permettono l’accesso ai fornici laterali, i quali invitano a una fruizione dell’apparato scultoreo più attraverso il monumento che attorno ad esso, in stretto rapporto col percorso viario scavalcato dalla struttura architettonica. Tali soluzioni nuocciono all’ap-prezzamento della continuità narrativa dei rilievi, che finiscono per apparire più come episodi del tutto stac-cati, che come momenti svoltisi successivamente nel corso delle due campagne contro i Parti. Anche il picco-lo fregio della trabezione non descrive ordinatamente una processione unitaria, rievocandola lungo tutti e quattro i lati della struttura, come nei due archi di Tito e di Traiano prima considerati, perché è costituito, solo sulle fronti, da due sequenze non collegate fra loro, cia-scuna delle quali è a sua volta divisa in due pannelli oblunghi collocati sopra i fornici laterali, dalla compo-sizione, qui pure, analoga nella sostanza [97]. un’atten-zione più “attiva” da parte dello spettatore poteva però essere sollecitata, nel monumento severiano, da un set-tore della sua decorazione scultorea che forse finora ha destato minore interesse, vale a dire i rilievi che ornano i tre lati visibili degli otto plinti delle colonne poste da-vanti alle fronti. I gruppi formati da soldati romani e prigionieri che vi compaiono sono, infatti, tutti ordinati secondo un piano preciso: quelli di due figure sulle su-perfici laterali dei plinti procedono sempre in avanti, come se uscissero dall’arco incontro all’osservatore, mentre quelli di quattro nei rilievi frontali convergono verso il fornice principale, su entrambe le facciate del monumento (fig. 20). È un principio simile a quello che abbiamo visto applicato nell’arco di Benevento, dove le

Fig. 20. Roma, Arco di Settimio Severo. Particolare della fronte verso il Campi­doglio: direzioni delle figure sui plinti delle colonne (rielaborazione da foto Ram­baldi)

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[99] La valenza trionfale dell’arco è del resto affermata esplicitamente nell’epigrafe dedicatoria, dove il monumento viene definito trium­phis insignem (CIL VI, 1139, 8).

immagini di pertinenza tutto sommato discutibile (i tondi adrianei), la disposizione dei rilievi coevi all’arco e raffiguranti le imprese costantiniane ripropone inte-gralmente l’andamento circolare di tipo “trionfale”, col suo descrivere un regolare circuito antiorario lungo i quattro lati, fra l’altro cominciando da ovest (quindi dalla parte rivolta verso il Campo Marzio, da dove i trionfi partivano). Benché Costantino non avesse cele-brato il trionfo dopo la sconfitta di Massenzio, il suo arco viene a costituire una sorta di sostituto monumen-tale, che supplisce alla cerimonia reale (che non aveva avuto luogo) con una commemorazione ideale finaliz-zata a perpetuare il ricordo della sua vittoria, suggeren-do che essa, pur compiuta su concittadini, avrebbe po-tuto meritare onori trionfali completi [99]. Questa impres-sione era procurata innanzitutto mediante l’ubicazione scelta per il trifornice, eretto lungo la via che sempre era stata percorsa dai cortei dei trionfatori, ma poi anche mediante la narrazione delle gesta dell’imperatore, con-dotta secondo l’antioraria direzione “trionfale” e inseri-ta nella stessa posizione che, salvo le differenze di tipo squisitamente architettonico, nel vicino Arco di Tito era riservata alla vera e propria processione del trionfo ri-prodotta nel piccolo fregio. Si insisteva, in questo mo-do, sul coinvolgimento diretto dell’osservatore, quasi invitandolo a partecipare alle scene raffigurate come se fosse uno dei sodali di Costantino. Non solo l’ordine cronologico nel quale sono disposti i rilievi, ma anche il moto da sinistra a destra rappresentato in alcuni di essi (in particolare quelli sui lati minori, con la partenza da Milano e l’ingresso a Roma) invoglia l’osservatore a gi-rare intorno all’arco, compiendo per intero il solito cir-cuito antiorario. I pannelli sulle fronti non raffigurano scene di viaggio, però, in quelli con episodi bellici sul lato meridionale, il senso destrorso riaffiora nell’impeto dell’esercito costantiniano contro le mura della città co-munemente identificata con Verona, da una parte, e nel-la direzione in cui sono rivolti quasi tutti i cavalieri che spingono nel Tevere le truppe di Massenzio dall’altra. Totalmente stazionarie sono, come è naturale, le scene cerimoniali sul lato settentrionale, dove il movimento si

L’Arco di Costantino, pur muovendo, per quanto ri-guarda la forma architettonica di base, dal precedente costituito dall’esemplare severiano, si giova maggior-mente delle molteplici valenze offerte dalla possibilità di combinare vari pannelli a rilievo in posizioni diffe-renti. A tale scopo si nota anche il recupero, nell’orga-nizzazione dell’apparato scultoreo, di una configura-zione “prismatica” simile a quella di cui abbiamo parla-to per l’Arco di Benevento, cioè una logica distributiva capace di garantire la comprensione generale dell’insie-me da qualunque angolo visuale. Tuttavia, fra gli ele-menti decorativi, viene ora suggerito un dialogo più serrato, nel quale l’osservatore poteva sentirsi coinvol-to. Se infatti la volontà predominante di celebrare le vir­tutes imperiali in tutti i loro aspetti ha portato al reim-piego cumulativo di materiali scultorei di natura dispa-rata, cioè scene ritagliate da sequenze più vaste (i seg-menti del grande Fregio Traianeo) ed episodi apparen-temente slegati (i pannelli aureliani), inserendovi anche

Fig. 21. Roma, Arco di Settimio Severo: le figure sulle fronti dei plinti delle co­lonne convergono verso il fornice centrale (rielaborazione da Kleiner 1992)

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[100] L’orange, von gerkan 1939, 37-41.[101] dei pannelli laterali mostrano iconografie differenti i quattro sul-le facce esterne dei plinti angolari, con coppie di barbari ai lati di un trofeo, e quelli sulle facce interne dei plinti che inquadrano il passag-gio centrale, con portatori di insegne e immagini divine (Sol e Victo­ria). La distribuzione di queste figure manifesta una studiata grada-zione, che ha portato a collocare le rappresentazioni più importanti nei punti meglio visibili in assoluto (ibid., 131-134).[102] È già stato notato il rapporto visivo in origine instaurato col vici-no Colosso di Sol, il quale appariva incorniciato dal fornice centrale a chi si avvicinava all’arco da sud: mi limito a citare Tantillo 2003, 1011-1014, con bibliografia, lavoro in cui il legame di Costantino col culto solare è riesaminato soprattutto sulla base degli aspetti formali. Anche le Vittorie che compaiono sulle fronti dei due plinti conserva-ti del dioclezianeo Arcus Novus, oggi a Firenze nei giardini di Boboli, sono similmente convergenti: cfr. Kähler 1936, 5-6.

monumento, dando così a chiunque l’impressione di intervenire in prima persona in un sistema figurativo molto complesso, che coinvolgeva anche altri elementi, esterni all’arco [102].

Nella realizzazione costantiniana viene quindi ripre-so e aggiornato lo schema decorativo dei plinti nelle facciate già impiegato nel precedente severiano, però la valenza dell’insieme è potenziata mediante il recupero del più antico motivo del fregio che attiva un percorso circolare intorno alla struttura, in vista di convogliare

esaurisce; tuttavia un accenno di moto è ancora ispirato dai piccoli rilievi angolari con figure di soldati e cava-lieri, generalmente poco considerati, che fungono da collegamento coi pannelli sui fianchi, ribadendo la cir-colarità del percorso implicato dal fregio e invitando l’osservatore a continuare il cammino intorno al monu-mento [100]. I rilievi traianei reimpiegati all’interno del fornice centrale confermano invece, come già nell’Arco di Tito, l’andamento lineare di un ipotetico trionfo, na-turalmente senza esibire una reale processione trionfa-le, ma mostrandone le necessarie premesse: la vittoria militare nel pannello occidentale, dove l’imperatore è rappresentato mentre si scaglia al galoppo contro i ne-mici, e l’adventus in quello orientale. Su entrambe le pa-reti la figura di Traiano (notoriamente trasformato in Costantino) è rivolta verso nord, cioè in conformità al senso di marcia che il corteo avrebbe dovuto lì seguire se il trionfo si fosse celebrato. Il viandante che avesse attraversato la struttura provenendo da sud non avreb-be perciò rinnovato col suo passaggio una cerimonia realmente avvenuta, come nel caso del precedente arco flavio, ma avrebbe provato la sensazione di portare a compimento per conto proprio il fittizio rituale che il monumento evocava in vari modi.

Per stimolare ancora di più il coinvolgimento emoti-vo dell’osservatore, un’attenzione particolare è stata ri-servata agli elementi messi in opera nei punti più vicini ai passanti, antichi e moderni, vale a dire i plinti delle colonne in facciata, mutuando questo espediente da un altro arco, quello di Settimio Severo, come abbiamo vi-sto. Ma mentre nel monumento più antico di circa un secolo la decorazione delle basi era tutta destinata al-l’esaltazione del corteo trionfale, ora entra in gioco so-prattutto una dimensione allegorica, assente nel model-lo. Se molti rilievi laterali ripropongono coppie di sol-dati e prigionieri, che procedono anche qui come se si allontanassero dalla struttura architettonica per prose-guire il loro cammino, nelle otto fronti dei plinti i parte-cipanti alla cerimonia del trionfo sono sostituiti da figu-re di Vittorie, accompagnate da barbari inginocchiati [101]. Le Vittorie sono tutte rivolte verso il fornice centrale (fig. 22), come i personaggi collocati nelle stesse posi-zioni nell’Arco di Settimio, idealmente per accogliere l’imperatore vittorioso, ma in pratica per salutare anche il semplice viandante che si appresti ad attraversare il

Fig. 22. Roma, Arco di Costantino: le Vittorie sulle fronti dei plinti delle colonne convergono verso il fornice centrale (rielaborazione da Kleiner 1992)

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[103] Per la distinzione tra rilievi propriamente “narrativi” e rilievi “di status”, vedi le riflessioni stimolanti di Torelli 1982, 119-138, ribadite in Id. 1998.[104] Brilliant 1987, 122.[105] Vermeule 1968, 336-350; Pond Rothman 1977, 451-454.

li, precisamente sulle fronti dell’attico e sulle facce in-terne dei piloni (fig. 23); tuttavia, nell’arco leptitano, i rilievi erano trattati alla maniera tradizionale come nor-mali riquadri inseriti nelle pareti, e anche la ricca deco-razione architettonica applicata alle quattro fronti, pur con talune peculiarità (come gli spicchi di timpani so-pra le colonne libere), denotava una sostanziale fedeltà ai modelli precedenti della tipologia dell’arco onorario. Il tetrapilo tessalonicese è invece letteralmente permea-to dai rilievi che ricoprono i piloni in ogni parte, senza alcuna articolazione architettonica che ne movimenti le superfici (a meno che non vogliamo intendere in tal senso le cospicue cornici vegetali che separano vertical-mente i registri): come nelle colonne coclidi, la forma architettonica pare quasi scomparire dietro il rivesti-mento scultoreo cui fa da supporto (fig. 24). dal punto di vista della percezione complessiva, il monumento di galerio richiama alla mente le coclidi anche nell’aspetto esteriore dei piloni istoriati, perché i loro registri so-vrapposti e pieni di figure possono appunto ricordare le spire dei fregi elicoidali, aggiustate in senso orizzon-tale e applicate alla logica architettonica dell’arco ono-rario [104]. Secondo un’ipotesi più volte avanzata, le facce interne dei quattro piloni decorati, sotto la cupola che coronava la struttura, esibivano gli avvenimenti princi-pali di tutto il programma figurativo, incentrato, insie-me a scene di natura cerimoniale, sulle campagne mili-tari condotte da galerio [105]. In ogni caso, questi erano i rilievi su cui più si sarebbe soffermata l’attenzione dei numerosi passanti che transitavano in quel luogo, poi-ché l’arco scavalcava l’importante punto d’incrocio tra la via Egnatia e la strada perpendicolare che univa il Pa-lazzo Imperiale alla grande Rotonda, situata più a nord (fig. 25).

Ma se una colonna coclide si configurava, percettiva-mente, come un pieno avvolto di rilievi, intorno ai qua-li lo sguardo poteva scorrere liberamente, il nucleo dell’Arco di galerio, cioè lo spazio delimitato dalle fac-ce interne dei piloni centrali, appariva come il contra-

nella maniera più completa ed efficace l’attenzione del pubblico. Non si deve pensare che questa sorta di com-partecipazione emotiva cui è chiamato l’osservatore at-tenui l’espressione della potenza e dell’invincibilità di Costantino, alla quale è finalizzato il monumento col suo apparato decorativo, in particolare i rilievi coevi. essa, al contrario, amplifica il messaggio della commit-tenza, perché comunica l’idea che tutti i cittadini siano coinvolti nel processo che ha portato Costantino alla vittoria, come se esso si fosse svolto unicamente per lo-ro e per il loro interesse. La manifestazione tangibile dello stretto rapporto instaurato fra l’imperatore/com-mittente e i cittadini/destinatari, che riassume e chiari-sce il ruolo di ciascuno nella società costantiniana, la troviamo sull’arco stesso, nei pannelli della facciata nord che raffigurano l’oratio e la liberalitas, dove questo legame indissolubile è mostrato in un modo che solen-nizza con la massima intensità la maiestas di chi detiene il potere supremo. Ma nell’ottica di ricercare un’intera-zione spirituale sempre maggiore tra monumento e pubblico, suggerendo a chi guarda, in una certa manie-ra, l’illusione di essere parte attiva delle composizioni realizzate a rilievo e sopperendo, così, agli inevitabili limiti posti da una forma di rappresentazione artistica che difficilmente poteva farsi narrativa in tutti i sen-si [103], il traguardo più significativo in assoluto era stato raggiunto pochi anni prima con l’Arco di galerio a Sa-lonicco.

L’Arco di Galerio: un punto d’arrivo

Il monumento galeriano, molto diverso dagli archi in precedenza considerati, trattandosi in origine di un te-trapilo dai piloni interamente rivestiti di rilievi marmo-rei, cui furono aggiunti durante la costruzione quattro piloni minori non decorati su due lati opposti, veniva a creare, all’interno del suo nucleo, una sorta di ribalta-mento del fenomeno che si verificava a Roma con le Co-lonne di Traiano e Marco Aurelio, come vedremo fra poco. La tipologia del tetrapilo non era una novità, in quanto era già bene attestata in ambito provinciale, do-ve aveva prodotto risultati importanti, fra i quali l’arco quadrifronte di Settimio Severo a Leptis Magna. Anche lì comparivano complesse scene figurate su diversi livel-

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le vicinanza al viandante degli episodi figurati, che nei registri inferiori si mostravano praticamente al suo li-vello, cosa che nelle coclidi, come abbiamo visto, non avveniva. In questo modo si poneva un rimedio alla ca-renza di attenzione caratteristica dell’osservatore fret-

rio: era un vuoto che avvolgeva di rilievi l’osservatore, che non poteva fare a meno di vederli e di sentirsi as-sorbito dentro di essi, anche qualora si trovasse a passa-re di lì casualmente e gettasse intorno a sé solo uno sguardo distratto. L’effetto era accresciuto dalla notevo-

Fig. 23. Ricostruzione dell’Arco di Settimio Severo a Leptis Magna (da Di Vita 1975)

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[106] Cass., Var. VII 6, 1: Traiani forum vel sub assiduitate videre miracu­lum est.[107] Al tema del centro in un ambiente dato, inteso come campo di forze sul piano visivo, sono dedicate le approfondite riflessioni di Arnheim 1984a. Cfr. inoltre Id. 1981, 110-114.[108] I legami semantici tra i rilievi superstiti e il possibile contenuto di quelli scomparsi sono stati discussi a più riprese. L’analisi maggior-

uno dei tanti personaggi scolpiti nel cui flusso si trova-va immerso, così da rinnovare ogni volta un’emozione non facilmente garantita da monumenti meno sover-chianti nei confronti della sensibilità dello spettatore. Il fatto poi che l’interno dell’arco fosse anche l’incrocio di due linee perpendicolari, costituite dalle vie cittadine che lì si intersecavano, determinava nel passante un’im-pressione di centralità, favorendo la sua sensazione di trovarsi proprio “dentro” le scene scolpite intorno a lui (fig. 26). Mentre una coclide, all’interno dell’area che l’accoglieva, si poneva come un fortissimo centro spa-ziale, col quale di volta in volta entrava in relazione il centro percettivo rappresentato dal singolo osservatore, nel caso del monumento di Salonicco il centro spaziale e il centro percettivo si identificavano, in quanto veni-vano a coincidere [107]. La perdita di gran parte dei rilievi originari, soprattutto a causa della distruzione di due piloni interi, impedisce di comprendere se eventuali correlazioni fra i tanti registri figurati potessero ulte-riormente condizionare la percezione dei viandanti; ciononostante l’effetto complessivo esercitato dalla de-corazione nel punto più importante dell’arco può esse-re ricostruito idealmente in questo modo [108]. Qualcosa

toloso prima ricordato, ciò che appare tanto più signifi-cativo qualora si consideri che, nella documentazione letteraria a noi giunta, affiora la consapevolezza che la frequentazione abituale di uno spazio finisce per atte-nuare le facoltà ricettive di chi vi transita: un passo di Cassiodoro asserisce che il Foro di Traiano non cessava mai di essere fonte di meraviglia, anche per coloro che ne avevano consuetudine [106]. La decorazione a rilievo, nel tetrapilo tessalonicese, si imponeva risolutamente alla vista e sulla persona del viandante, quasi incorpo-randolo e chiamandolo in qualsiasi momento a sentirsi parte delle scene raffigurate, come se fosse lui stesso

Fig. 24. Salonicco, Arco di Galerio. Particolare del pilone sud­occidentale (da Mansuelli 1981)

Fig. 25. Ricostruzione assonometrica del contesto urbanistico dell’Arco di Gale­rio a Salonicco (da Torelli, Mavrojannis 1997)

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mente dettagliata e approfondita di tutte le peculiarità del monu-mento è la fondamentale monografia di Hans Peter Laubscher (1975), basata sugli studi rimasti incompiuti di Hans-ulrich von Schöne-beck, cui vanno aggiunti i notevoli riesami di Pond Rothman 1977 e Meyer 1980.[109] Laubscher 1975, 59; engemann 1979, 156-157.[110] Pond Rothman 1977, 453-454; Brilliant 1987, 122-124; Id. 1994, 287.

rio, come altri hanno notato, la sovrabbondanza di con-tenuti e la mancanza di un ordine chiaro nella distribu-zione dei registri creano, dal punto di vista dell’analisi formale, un’impressione di caoticità, anche se il distac-co da una logica costruzione narrativa è da mettere in rapporto con la concezione trascendente del potere al-lora ormai affermatasi, che poneva la figura imperiale al di sopra del divenire storico [110]. Tuttavia, la mancan-za di unità temporale nelle immagini che circondavano il viandante non doveva essere d’ostacolo alla sensazio-ne di profondo coinvolgimento cui egli andava incon-tro: ne sollecitava, al contrario, l’istantanea e intima adesione, poiché non era più necessario riflettere sulla dinamica degli eventi rappresentati.

Le colonne coclidi, e in particolare l’Aureliana, pre-sentavano ancora un’analogia tettonica con realizzazio-ni precedenti del mondo greco, ad esempio il già più volte richiamato Altare pergameno, nel loro apparire come fulcri decorati di rilievi al centro di aree delimita-te. In questi casi il monumento istoriato si impone deci-samente sull’osservatore, ma rimane comunque qual-cosa d’“altro” rispetto a lui, un’entità a sé. Sono opere pensate per spazi aperti e per una visione esterna al ma-nufatto stesso. L’Arco di galerio, invece, nel suo piega-re la decorazione a rilievo alla dinamica dello spazio chiuso, riusciva come mai prima a catturare l’osserva-tore, a farlo sentire parte di esso, per così dire fagocitan-dolo. Se in precedenza i rilievi venivano concepiti es-senzialmente per le aree esterne (eccettuati i già ricor-dati fregi che talora potevano essere collocati in am-bienti chiusi come le celle dei templi, rilievi che, però, finivano per svolgere una funzione percettivamente ac-cessoria e del tutto subordinata alla logica architettoni-ca dei vani della cui superficie interna erano una com-ponente), ora si facevano essi stessi ambiente, involu-crando di immagini il luogo che circoscrivevano, in ar-monia con l’importanza sempre maggiore che gli am-

di simile era già stato offerto dai fornici con rilievi sulle pareti interne, come l’Arco di Tito a Roma e quello di Traiano a Benevento, dove però la sensazione di coin-volgimento cui si andava incontro era sicuramente as-sai minore, essendo l’osservatore attorniato solo su due lati da pannelli scolpiti. un’altra somiglianza con archi di cui abbiamo già parlato, precisamente quello di Set-timio Severo e quello di Costantino (il secondo di poco successivo al monumento galeriano), può essere rico-nosciuta nell’apparenza di moto espressa dai registri inferiori della decorazione, che anche nel tetrapilo sem-brano essere stati concepiti per attrarre il passante den-tro la struttura, grazie alle figure, convergenti verso l’interno, che vi compaiono. Le numerose teorie di ani-mali (poco conservate), insieme alle Vittorie sul lato nord-orientale del pilone meridionale e ai portatori di offerte sull’adiacente lato sud-orientale, al di là (o in ag-giunta) delle eventuali relazioni con la topografia urba-na circostante o coi rilievi immediatamente sovrastanti sugli stessi fianchi dell’arco, secondo le proposte di al-cuni studiosi [109], potrebbero avere avuto appunto lo scopo di invogliare l’osservatore a seguirle, attraver-sando così il monumento. È vero che nell’Arco di gale-

Fig. 26. Ricostruzione schematica dell’interno dell’Arco di Galerio a Salonicco (rielaborazione da Brilliant 1987)

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[111] Si considerino in particolare gli allineamenti di scene figurativa-mente simili che si possono riscontrare, pur con divergenze, all’in-terno di due schizzi riprodotti in Becatti 1960, tavv. 73 (Bibliothèque Nationale di Parigi) e 75 (disegno Freshfield), con la relativa analisi (160-161 e 187 ss.).[112] Sull’importanza predominante di questi rilievi, rispetto alle sce-ne belliche lungo il fusto, insiste Kelly 2006, 265. Il fregio figurato e la scala interna della Teodosiana sono ricordati dal poeta Costantino Rodio (il quale riferisce ad Arcadio entrambe le Colonne), ma quale fosse l’aspetto esteriore del plinto non è ricavabile dai suoi versi (202-215: cit. in Becatti 1960, 100).[113] gauer 1981, 185-187; Brilliant 1994, 293.

le, come trapela dai disegni che si riferiscono alla secon-da [111]. era stata ripresa anche l’idea di fornire “anticipa-zioni” del contenuto del fregio sui plinti, come già nella Colonna di Marco Aurelio, ma con una sintassi compo-sitiva molto più complessa e una maggiore dimensione allegorica, anche in senso cristiano, almeno per quanto riguarda la Colonna di Arcadio, l’unica di cui sia docu-mentata graficamente la base [112]. Sembra peraltro diffici-le immaginare un’immedesimazione dello spettatore di fronte a quelle raffigurazioni simboliche e ripetitive [113], come anche di fronte al dado basamentale dell’obelisco innalzato da Teodosio sulla spina del circo, coi suoi lati tutti caratterizzati da composizioni estremamente simili (fig. 27). I quattro rilievi, qui, si imprimevano sulla men-te dell’osservatore ciascuno per proprio conto, ribaden-do un analogo messaggio visivo, dominato da una rigi-da e atemporale simmetria, della quale non si poteva che prendere atto, sostituendo all’immedesimazione la semplice contemplazione. Con queste opere la nuova Roma aveva ormai optato per un’esibizione di forza in-discussa e di potere irraggiungibile cui nessuno era più invitato, in qualche modo, a partecipare.

Appendice: la terminologia greca e latina dei rilievi in pietra

Si propone qui un’analisi sintetica dei termini che compaio-no nelle fonti scritte per designare i rilievi, allo scopo di com-pletare la valutazione dell’atteggiamento antico nei confronti di queste opere. Sebbene siano note anche attestazioni epi-grafiche per i vocaboli che andremo ora a considerare, l’esa-me sarà basato essenzialmente sui documenti letterari, poiché è solo in questo secondo genere di testimonianze che l’even-tuale presenza di qualche forma di riflessione sulla categoria del rilievo avrebbe potuto lasciare tracce.

bienti chiusi stavano acquistando in epoca tarda. L’idea di spazio in sé concluso era favorita, poi, dall’analogia architettonica che la cupola del tetrapilo poteva sugge-rire con la vicina Rotonda, seppure su una scala monu-mentale più contenuta. Il nucleo dell’arco doveva esse-re comunque bene illuminato, grazie alla luce che pene-trava nelle sue ampie campate, attraverso i “corridoi” corrispondenti agli assi viari colonnati che lì si interse-cavano, per cui, pur salvaguardando la sensazione di luogo chiuso che si poteva provare sotto la cupola, la piena leggibilità delle raffigurazioni e quindi il loro po-tere d’impatto venivano garantiti.

Per concludere

Rispetto all’esperienza testimoniata dall’arco tessalo-nicese, la capacità di influenza dei rilievi sul pubblico dei fruitori non poteva andare più oltre. un simile risul-tato non fu però ricercato metodicamente nel corso del-le varie applicazioni del “rilievo storico romano” nei monumenti celebrativi via via innalzati. I casi che, sul piano della percezione, riuscivano a suscitare un certo coinvolgimento emotivo nell’osservatore furono il pro-dotto di iniziative singole, che non giunsero a essere elaborate in modo sistematico. Ciò contribuisce a spie-gare la reticenza delle fonti intorno a un genere di scul-tura che, come attesta la quantità di grandi monumenti giunti fino a noi, fu ampiamente praticato e diede vita a innovative sperimentazioni, ma senza pervenire mai a creare una tradizione unitaria alla quale fare riferimen-to. Le divergenze che si possono riscontrare fra i rilievi conosciuti non dipendono solo dalle peculiarità stilisti-che e compositive sulle quali finora si è soprattutto con-centrata la ricerca scientifica, ma anche dalle diverse reazioni che la committenza e gli artisti che di questa traducevano le istanze si proponevano di ottenere dagli osservatori, a partire dal posizionamento delle scene fi-gurate e dalla forma del loro supporto.

gli ultimi monumenti di Costantinopoli ornati con ri-lievi abbandonarono qualunque tentativo di coinvolge-re emotivamente il loro pubblico. Nelle colonne coclidi di Teodosio e Arcadio era stato probabilmente utilizzato ancora l’espediente di disporre lungo la stessa verticale episodi di cui si voleva rimarcare la relazione concettua-

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trovano utilizzati (insieme al verbo ) per indicare opere lavorate genericamente “a rilievo” come quelle della toreutica, ma con due importanti applicazioni a specifici la-vori di scultura in pietra. La prima affiora nella descrizione dello schema tipologico dei templi egiziani che Strabone trac-cia parlando di Heliopolis (XVII 1, 28), dove i grandi rilievi () che decoravano i muri da lui chiamati “ali” () vengono paragonati a “quelli dei Tirre-ni e ai più antichi fra quelli realizzati in ambiente greco” [115]. La seconda ricorre nell’Anthologia Palatina, per indicare le sce-ne scolpite negli stylopinakia del tempio elevato a Cizico da eumene II e Attalo II di Pergamo in onore della madre Apol-lonide. Si tratta però, in questo caso, di un’attestazione tarda, poiché il termine non compare in un testo antico, ma è utilizzato nel titolo del libro III dell’antologia, dove sono appunto raccolti gli epigrammi ciziceni [116]. è un apax che troviamo solamente in questo stesso titolo, men-tre il semplice , così come i suoi derivati (, , ), non risulta di applicazione comune per designare bassorilievi nella letteratura che conosciamo, an-che se è usato spesso con questo senso nel moderno lessico archeologico (si pensi, ad esempio, ai pinakes locresi) [117]. Per tale motivo, alcuni hanno pensato che le raffigurazioni negli stylopinakia di Cizico fossero dipinte, sebbene la precisazione che questi contenevano “scene scolpite” () sembri togliere ogni dubbio in proposito [118]. In latino trovia-mo due volte, in Plinio il Vecchio e in Marziale, la variante anaglyptus dell’aggettivo, in greco testimoniata da un docu-mento epigrafico, dove si riferisce ai piedi di una lavorati come zampe di [119]. Ma in nessuno dei due passi è impiegata nell’accezione che a noi interessa, vale a dire in relazione a rilievi lapidei su monumenti, bensì in rapporto con l’uso domestico di argenterie cesellate: vasi scolpiti nella Naturalis historia [120], “bassorilievi sui mobili de-gli avi” nella raccolta di epigrammi [121].

[114] Vedi infra.[115] Trad. di N. Biffi. Si veda Mansuelli 1989, dove sono ricordate al-cune delle opere d’arte etrusca trasferite a Roma che Strabone po-trebbe avere avuto in mente come termine di paragone, e il commen-to in Biffi 1999, 315. La scultura etrusca come paradigma di rigidità in Quintiliano, Inst. orat. XII 10, 7.[116] [117] Cfr. Liddell, Scott, Jones 1940, s.vv. relative.[118] Cfr. Pairault Massa 1981-1982; Brilliant 1987, 33-35. Sugli epi-grammi cfr. inoltre Pontani 1978, 91.[119] Petzl 1987, nr. 753, 9-10.[120] XXXIII 139: (Vasa) anaglypta […] quaerimus.[121] IV 39, 8, nell’ambito di un catalogo di oggetti preziosi d’argento: […] mensis anaglypta de paternis (trad. di g. Ceronetti [1964]). Valore

Come di norma avviene per gran parte del lessico artistico e architettonico, il latino desume direttamente dal greco la terminologia che si riferisce alle opere di scultura a rilievo. Lasciando da parte ciò che riguarda in particolare i lavori del-la toreutica, dell’intaglio e della glittica, che qui non interes-sano, il rilievo scultoreo in pietra viene denominato nella lin-gua greca coi termini tecnici di / e , cui corrispondono i latini anaglyptus e typus.

Alcuni composti basati sulla radice di , il quale assu-me varie sfumature di significato intorno ai concetti dell’inta-glio, dell’incisione e della scultura, possono essere impiegati in rapporto coi rilievi lapidei, come il verbo in ero-doto (II 4; 106; 124; 138; 148), talora in associazione col termi-ne [114]. Sono da notare in particolare, anche perché sono gli unici ad avere lasciato echi in ambito latino, il sostantivo e il corrispondente aggettivo , che nella letteratura greca superstite, quantunque non molto spesso, si

Fig. 27. Istanbul, base dell’obelisco di Teodosio (da Bianchi Bandinelli, Torelli 1976)

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Anche il molto più frequente e tutta l’area lessicale che vi ruota intorno, cioè, oltre al verbo , i composti e, specialmente, , cui si ricollegano altre forme (, , , ), rinviano in tanti casi ad ambiti diversi da quello del rilievo figurato in pietra, fra i quali la toreutica e la glittica occupano un posto importante [122]. Col significato di rilievo lapideo, è usato più volte da erodoto nel suo libro sull’egitto (II 106; 136; 138; 148; 153), mentre nel resto della sua opera compare solamente in un altro passo, a proposito di un monumento con l’imma-gine di un cavaliere, eretto da dario per commemorare la sua ascesa al trono persiano (III 88). Pausania se ne serve per indi-care vari manufatti: una base con un toro e un lupo scolpiti davanti al tempio di Apollo Lykios ad Argo (II 19, 7) [123], una raffigurazione della contesa per la palma fra Eros e Anteros all’interno di un complesso ginnasiale a elide (VI 23, 5), alcu-ne immagini di Artemide, Asclepio e Igea nel recinto sacro delle grandi dee presso l’agorà di Megalopoli (VIII 31, 1), i rilievi sulle pareti di un portico nel santuario della Despoina a Licosura (VIII 37, 1), una rappresentazione a Tebe delle Phar­makides (ai suoi tempi ormai poco distinguibili), le quali erano state inviate da era per ostacolare il parto di Alcmena (IX 11, 3), i rilievi colossali in marmo pentelico di Atena ed eracle nell’Herakleion della stessa città, opera di Alcamene, ricordati dopo la descrizione dei frontoni del tempio (IX 11, 6).

L’uso di con riferimento al rilievo a sé stante è in real-tà un’estensione del suo significato di “modello”, inteso come “impronta” su una matrice (giusta la radice di ), poi passato a indicare anche i calchi prodotti e quindi, per analo-gia, i rilievi realizzati in tutt’altra maniera, come appunto quelli in pietra [124]. Il senso preciso che esso riveste in talune occorrenze ha sollevato discussioni, come in alcuni passi di euripide, nei quali si è pensato che possa alludere a sculture a tuttotondo, sebbene nulla vieti di intendere il termine col valore di “immagine a rilievo” anche in questi casi [125]. L’arti-colazione semantica del vocabolo è bene attestata dall’impie-go che ne è stato fatto in ambito latino. Plinio lo introduce laddove disserta, da un lato, sull’operato di eufranore, ser-vendosene per individuare parte della sua produzione, costi-tuita anche da “modelli” (XXXV 128) [126], dall’altro sugli esor-di dell’arte di plasmare ritratti in terracotta, la quale sarebbe nata da un calco in argilla realizzato dal vasaio Butade di Si-cione (XXXV 151) [127]. Che typus fosse divenuto anche un ter-mine tecnico per designare propriamente il rilievo da appli-care alle pareti, a prescindere dal materiale di cui era costitui-to, è dimostrato invece da Cicerone. In una nota lettera ad Attico egli domanda l’invio, in aggiunta a statue, erme e due putealia sigillata [128], di rilievi non meglio precisati coi quali po-ter adornare le pareti dell’atriolum della sua villa tuscolana (Ad Att. I 10, 3) [129]. Questo brano epistolare costituisce l’unico documento letterario dell’utilizzo di rilievi decorativi in una cornice domestica, una moda della quale sono state recupera-

non tanto dissimile ha l’unica attestazione latina della forma anagly­phus (recuperata dalla letteratura archeologica per indicare gli Ana­glypha Traiani), presente nella Vulgata in riferimento alla decorazione delle porte della cella nel tempio di Salomone, in legno d’ulivo rive-stito d’oro (III Reg. 6, 32).[122] Hdt. II 86; eur., Ph. 1130; Rh. 305; Pl., Tim. 50d; Men., fr. 24, 4 Kock; Pol. XXI 6, 7; 37, 6; diod. Sic. V 30, 2; XVIII 26, 5; dion. Hal. II 19, 4; Fl. Jos., Ant. Iud. III 114; 137; De bello Iud. V 235; Cass. dio LI 3, 6; Philostr. Iun., Imag. 876, 12; 881, 4; Iamb., Protr. 120; zos. III 19, 1 (l’elenco è lungi dall’essere completo). un’analisi delle occorrenze epigrafiche di questi termini è effettuata da Tamassia 1961, che trae spunto dai dibattuti di Timoteo, sui quali si veda la discussio-ne di Yalouris 1992, 70-74.[123] In questo caso si è anche pensato a un’opera in bronzo: cfr. Musti, Torelli 1986, 275, commento ad loc.[124] Roux 1961, 5-6.[125] nelle Troiane (1074), espressione che potrebbe indicare tavolette votive, e ,/ nell’Ipsipile (TrG­Fr 5, fr. 752c Kannicht), dove è descritta la decorazione frontonale del tempio arcaico di zeus a Nemea, ancora esistente ai tempi del trage-diografo: vedi Roux 1961, 6-9, nrr. 1-2 (in questo lavoro sono prese in esame le controversie esegetiche originate da certi usi del termine). oliver Primavesi, che riferisce entrambi i passi a immagini a tutto-tondo, aggiunge a sostegno della sua interpretazione un altro fram-mento euripideo di fabula incerta (TrGFr 5, 928a, 2-3, Kannicht), dove sono menzionati realizzati da dedalo con l’ausilio di . Mentre questi ultimi mi pare evidente che vadano intesi come “modelli” nel senso testé precisato, l’ulteriore frammento tragico adespoto richiamato dallo studioso, allo scopo di giustificare il colle-gamento tra e , sembra mantenere le due cose, in real-tà, su piani distinti, anche perché il secondo termine non allude qui a manufatti lapidei (TrGFr 2, 618, 6-7, Kannicht-Snell: /). Vedi Primavesi 2004, 294-295, nr. 2.[126] Fecit et colossos et marmorea et typos scalpsit. Vedi Ferri 2000, 234, ad loc.[127] […] impressa argilla typum fecit. Ibid., 252, ad loc.[128] Sulla categoria si veda golda 1997. L’aggettivo sigillatus in riferi-mento a un manufatto decorato con piccole figure a rilievo è usato da Cicerone anche nelle Verrine, per qualificare due scyphi (Verr. II 4, 32). Immagini dello stesso genere sono indicate come signa in Verg., Aen. V, 267 e 536; IX 263-264. Vitruvio chiama sigilla le figure che decorano lo zophorus di un tempio ionico, ponendosi il problema della loro vi-sibilità, la quale richiederebbe dimensioni maggiori del solito per il fregio (De arch. III 5, 10; cfr. infra).[129] Praeterea typos tibi mando quos in tectorio atrioli possim includere. Si discute se Cicerone si riferisse a rilievi di qualunque genere, o non preferisse piuttosto autentici ex voto greci del periodo classico: Fro-ning 1981, 8-9; Baumer 2001, 85-86; Comella, Stefani 2007, 33-34. Per designare i rilievi votivi non è attestato nel mondo greco alcun termi-ne specifico, trovandosi utilizzati a questo scopo, nella documenta-zione epigrafica, i più generici e (Hausmann 1960, 9).

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le figure sulla base della statua fidiaca nello stesso edificio e sul suppedaneo del dio (V 11, 7-8) [135]. Pausania non ricorre mai, invece, al verbo , utilizzato da altri col mede-simo significato, come fa erodoto in uno dei passi citati in precedenza (II 106).

Tutte queste parole vertono essenzialmente sulla maniera in cui una scultura a rilievo è eseguita e sul tipo di azione necessaria per produrla. un altro termine cui si poteva fare ricorso per indicare un rilievo lapideo, e che a differenza dei precedenti fa specifico riferimento alle figure che l’ornavano, è quello che designa il fregio di un edificio, cioè . Tale termine però, nella letteratura in lingua greca giunta fino a noi, riveste un’accezione architettonica unicamente in dio-doro Siculo, dove viene descritto il catafalco di Alessandro, la cui decorazione comprendeva quattro raffiguranti il condottiero macedone e le sue trup-pe, da intendere tuttavia, con ogni probabilità, come tavole dipinte (XVIII 26, 6-27, 1). Zophorus compare invece varie vol-te nel trattato di Vitruvio, dove peraltro è sempre utilizzato nel senso di partizione architettonica, nella descrizione delle trabeazioni, per designare la fascia al di sopra dell’architrave, decorata o meno [136]. In greco, per indicare un fregio, si può anche trovare il termine (più noto al presente come corrispettivo di praecinctio), ma in un solo caso viene esplici-tamente ricordato che un simile elemento architettonico era

te testimonianze materiali [130]. un riferimento di typus a una categoria del tutto differente può essere invece riconosciuto all’interno della Vita di elagabalo nell’Historia Augusta, dove per due volte il vocabolo è applicato al simulacro aerolitico della Magna Mater a Roma, oggetto di particolare interesse da parte dell’imperatore (3, 4 e 7, 1) [131].

Per quanto concerne il rimanente materiale lessicale che condivide la radice di , il verbo è usato da Se-nofonte a proposito dei rilievi della base di un cavallo bron-zeo dedicato nell’Eleusinion di Atene (Eq. 1, 1), da Platone quando dice che un essere umano diviso in due nel senso dell’altezza assomiglierebbe alle figure di profilo scolpite sul-le stele funerarie (Symp. 193a), da Pausania per descrivere un auleta rappresentato su una stele a olimpia (VI 14, 9) e un’im-magine di Ares Gynaikothoinas su un’altra stele nell’agorà di Tegea (VIII 48, 4), da Filostrato Maggiore per indicare le fati-che di eracle riprodotte su un altare in un santuario presso Cadice (Vita Apoll. V 5). Il composto compare nella lunga descrizione della pompè di Tolemeo II tracciata da Cal-lisseno di Rodi e riportata da Ateneo, anche se in relazione a opere toreutiche, precisamente due crateri d’oro con figure finemente cesellate (Deipn. V 199e). Il ricorso di Plinio a en-trambi i composti prostypa ed ectypa nel medesimo passo, du-rante la sua trattazione degli sviluppi della coroplastica, ha sollevato una discussione sul significato preciso rivestito da ciascun termine. Il già ricordato Butade, il quale sarebbe stato l’inventore delle antefisse lungo gli orli dei tetti, “queste ma-schere sul principio le chiamò prostypa, poi fece anche dei cal-chi o ectypa, e di lì nacquero i fastigi dei templi” (XXXV 152) [132]. Silvio Ferri (di cui si è riportata la traduzione) pro-pendeva per riconoscere nei prostypa delle antefisse lavorate direttamente a mano o con la stecca, mentre gli ectypa fareb-bero pensare a rilievi da cui fossero state ricavate matrici per produrre calchi in serie. Ma sono state formulate altre defini-zioni [133]. Nella letteratura latina il primo dei due vocaboli compare solamente in questo passo, mentre ectypus ritorna in altri due casi, una volta ancora in Plinio, un’altra in Seneca, però sempre in relazione a gemme incise [134].

Pausania, oltre che per mezzo dei termini su cui ci siamo appena soffermati, molto più spesso si riferisce a rilievi (non solo lapidei) per mezzo del verbo , talvolta in as-sociazione con (nei passi citati VIII 31, 1 e 37, 1), ma nella maggior parte dei casi assoluto. In questa forma compa-re, volendo richiamare alcuni esempi di particolare significa-to, per indicare la scena della nascita di Pandora sulla base dell’Atena Parthenos (I 24, 7), le figure sulla base del gruppo cultuale crisoelefantino nel Tempio di Poseidone a Istmia (II 1, 8-9), le rappresentazioni in bronzo delle fatiche di eracle e di altri soggetti nel Tempio di Atena Chalkioikos a Sparta (III 17, 3), la decorazione del trono dell’Apollo di Amicle (III 18, 9-16), il Gorgoneion sullo scudo d’oro posto sotto la Nike acro-teriale sulla sommità del Tempio di zeus a olimpia (V 10, 4),

[130] Vedi Comella, Stefani 2007, loc. cit., per le attestazioni nelle città vesuviane. di grande rilievo, nell’ambito di tale tipo di decorazione nelle case romane, i fregi fittili rinvenuti a Fregellae: Coarelli 1990, 638-639; Id. 1994; Id. 1998, 62-65.[131] Per l’interpretazione di questi passi vedi Will 1955, 49-50.[132] […] quae inter initia prostypa vocavit, postea idem ectypa fecit. Hinc et fastigia templorum orta.[133] Lo stesso Ferri riteneva plausibile anche l’interpretazione dei pri-mi come mezze figure e dei secondi come figure a tuttotondo (2000, 253-254, ad loc.). Antonio Corso, nel suo commento al testo pliniano, preferisce un’altra ipotesi, secondo la quale gli ectypa erano immagi-ni realizzate a rilievo ma senza fondale, da cui avrebbero avuto ori-gine gli acroteri fittili a tuttotondo (in Conte 1988, 477, ad loc.). Ricol-legandosi a questo passo pliniano, ulrich Sinn ha proposto di consi-derare un la nota testa arcaica di olimpia solitamente attri-buita ad era, la quale sarebbe in realtà pertinente a una Sfinge in al-torilievo (Sinn 1984, 80).[134] Rispettivamente Nat. Hist. XXXVII 173 e De ben. III 26, 1.[135] Il fregio dei Niobidi sui fianchi del trono, rielaborato nell’ambito della produzione neoattica, è ricordato semplicemente attraverso la menzione del soggetto (V 11, 2). Vedi Maddoli, Saladino 1995, 239, ad loc., con bibliografia.[136] De arch. III 5, 10; 11; 13; IV 1, 2; 8, 1; V 1, 5. Vedi, anche per altri vocaboli che qualificano il fregio architettonico attestati per via epi-grafica, il commento di P. gros in Id. 1990, 182-183, e quello di A. Corso in gros 1997, I, 344-345.

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alcuni templi repubblicani di Roma (XXVI 23; XXXIV 4). Pro-perzio descrive le raffigurazioni in avorio sulle porte del Tempio di Apollo Palatino a Roma, con i galli sconfitti sul Parnaso su una valva, la strage dei Niobidi sull’altra (II 31, 12-14) [144]. Tacito racconta che domiziano, durante il principa-to di Vespasiano, aveva eretto un modicum sacellum a Iuppiter Conservator, il cui altare era decorato con rilievi marmorei che rievocavano le lotte sostenute dal padre e da lui stesso contro i partigiani di Vitellio (Hist. III 74): questa inconsueta testimo-

ornato con figure: lo troviamo nella descrizione della nave di Tolemeo IV redatta da Callisseno, dove si dice che nella cabina più grande del battello l’architrave d’oro era appunto “sormontato da un fregio con vistose figure in avo-rio, più grandi di un cubito, di fattura mediocre, ma notevoli per la ricchezza del materiale impiegato” [137]. Vitruvio è poi l’unico testimone, tralasciando alcune varianti epigrafiche, di un altro vocabolo che può essere associato alle decorazioni scultoree a rilievo ed è oggi di uso comune, cioè metopa, anch’esso, però, impiegato da lui solo nel significato di mem-bro architettonico [138]. Plinio si serve talora del verbo caelo, fre-quentemente più riferito a lavori di cesellatura e intaglio, dunque con materiali diversi dalla pietra: esso è infatti da lui utilizzato nella descrizione dell’Atena Parthenos, dove quali-fica sia la scena che ornava la base ricordata anche da Pausa-nia, come si è visto poco più sopra (e che, sul fondo in pietra di eleusi, era analogamente in oro e avorio [139]), sia gli orna-menti figurati dello scudo e dei sandali della statua crisoele-fantina (XXXVI 18-19). Ma caelo ricompare altrove, nella Na­turalis historia, per designare le trentasei colonne lavorate a rilievo dell’Artemision efesino (nella sua ricostruzione succes-siva alla metà del IV sec. a.C.), una delle quali era stata scol-pita da Scopa (XXXVI 95). due volte, poi, Plinio ricorre allo stesso verbo per indicare la decorazione figurata del Mauso-leo di Alicarnasso, una in generale e una laddove suddivide i lati del monumento fra i quattro scultori che erano stati chia-mati a lavorarvi (XXXVI 30-31) [140].

Al di là dell’impiego di termini specifici, le fonti possono fare riferimento ai rilievi, lapidei e non, ricorrendo a perifrasi, di solito incentrate sui soggetti rappresentati [141]. In ambito greco, euripide fa descrivere alle ancelle di Creusa, che costi-tuiscono il coro della tragedia Ione, la decorazione architetto-nica del tempio di delfi, celebrando in particolare i temi mito-logici delle metope (184-218). Callisseno nota le cento figure in marmo che ornavano le ante del padiglione di Tolemeo II ad Alessandria (Athen., Deipn. V 196e). Al rilievo in pietra ri-conduce anche una notizia riportata da Strabone, secondo il quale l’altare del Tempio di Artemide a efeso era stato deco-rato interamente da Prassitele (XIV 1, 23). Pausania, dal canto suo, ricorda ad esempio i soggetti delle metope insieme a quelli dei frontoni nell’Heraion di Argo (II 17, 3) e nel Tempio di zeus a olimpia (V 10, 6-9), come pure le figure delle Muse e di Marsia intento a suonare l’aulòs sulla base del gruppo prassitelico di Latona coi suoi figli visibile in un tempio di Mantinea, base di cui sono state ritrovate tre lastre [142] (VIII 9, 1). Ma il più esteso resoconto di un’opera a rilievo da lui trac-ciato non riguarda un manufatto lapideo, perché è quello re-lativo all’arca di Cipselo a olimpia, in legno di cedro con de-corazioni in avorio e oro, che gli consentiva di soffermarsi sull’identificazione di molte figure mitologiche e divine, certo l’aspetto che più attirava la sua curiosità (V 17, 5-19, 10) [143]. In ambito latino, Livio rammenta le antefisse figurate sui tetti di

[137] Athen., Deipn. V 205c: · ’ , , (trad. di A. Marchiori in Canfora 2001).[138] Rimando all’analisi da me tracciata in Rambaldi 1999, 76.[139] donnay 1968, 25-26.[140] 30: Scopas habuit aemulos eadem aetate Bryaxim et Timotheum et Leo­charen, de quibus simul dicendum est, quoniam pariter caelavere Mauso­leum; 31: Ab oriente caelavit Scopas, a septentrione Bryaxis, a meridie Ti­motheus, ab occasu Leochares. Kristian Jeppesen ha proposto di emen-dare il testo, sostituendo con altri verbi le due occorrenze di caelo (celebravere per caelavere ed excelluit per caelavit: Jeppesen 1977-1978, 182-186; Id. 1986, 61-62). L’intervento esegetico appare però discuti-bile: cfr. Cook 2005, 18. Nel brano di Vitruvio sul Mausoleo dove so-no in modo analogo riportati i nomi degli artisti, con una difformità testuale sulla quale non importa qui soffermarsi, il lavoro degli scul-tori è ricordato con parole più generiche (De arch. VII, praef. 13: namque singulis frontibus singuli artifices sumserunt certatim partes ad ornandum et probandum). Luciano cita espressamente le statue di ca-valli e uomini, lodando il marmo prezioso che era stato impiegato (Dial. mort. 29, 1-2).[141] I rendiconti epigrafici dell’eretteo elencano le varie figure del fre-gio dell’edificio allo scopo di registrare le somme corrisposte agli scultori che le avevano eseguite (IG I3, 476, 158-183). Naturalmente per ragioni particolari potevano prevalere altre istanze, come dimo-strano altri passi in questi stessi documenti, che designano il fregio con una circonlocuzione basata sul materiale lapideo utilizzato (474, 41-42; 475, p2-4; cfr. Corso, loc. cit. supra, nota 136).[142] oggi conservate al Museo Nazionale di Atene: vedi Moggi, osan-na 2003, 332, ad loc., con bibliografia. Presso il gruppo di Latona si trovava una stele dedicata a Polibio, col suo ritratto a rilievo (). Pausania ricorda di avere visto altre immagini dello storico, sia a rilievo sia a tuttotondo, in diverse località dell’Arcadia (a rilievo i monumenti menzionati in VIII 30, 8-9; 37, 2; 48, 8). una stele con un ritratto di Polibio è stata ritrovata nella città di Clitore: Moggi, osanna 2003, 332-333.[143] Cfr. dio Chrys. XI 45. Vedi Brilliant 1987, 35-36, con bibliografia, cui va aggiunto Splitter 2000.[144] Cicerone, invece, oltre al Gorgonis os pulcherrimum cinctum angui­bus, esalta senza specificarne l’iconografia gli ex ebore diligentissime perfecta argumenta sulle porte del Tempio di Atena a Siracusa, spolia-to da Verre (Verr. II 4, 124). descrizioni particolareggiate, ancorché fittizie, di porte templari lavorate in oro e avorio compaiono in Virgi-lio (Aen. VI 20-33: Georg. III 26-33).

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tuario dell’attico, noto dall’iconografia monetale [150]. I ritratti dei dedicatari sono ricordati esplicitamente da Tacito, quan-do parla dei due archi tributati a germanico e a druso Mino-re nel Foro di Augusto (Ann. II 64, 1). L’aggettivo , che Cassio dione associa più volte a un arco (), vale sem-plicemente “trionfale”, senza che si debba pensare vi sia im-plicato qualche riferimento al suo apparato decorativo [151].

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Talora poteva accadere che un’importante opera di scultu-ra a rilievo venisse citata senza precisarne l’effettiva natura, come avviene, ad esempio, nel caso delle Cariti collocate presso i Propilei dell’Acropoli ateniese, che Pausania, più in-teressato a rimarcarne l’errata attribuzione al celebre filosofo, chiama semplicemente “le Cariti che dicono scolpisse Socrate figlio di Sofronisco” (I 22, 8; trad. di d. Musti): dalle sue pa-role si sarebbe potuto pensare in primo luogo che si trattasse di statue, ma, come è noto, diversi rilievi sono stati ricono-sciuti come loro copie, di cui la più celebre è quella ai Musei Vaticani [146].

diversi documenti che tramandano la costruzione di archi onorari in Italia accennano alla relativa decorazione sculto-rea, peraltro concentrandosi sulle statue degli attici, come di-mostrano le fonti sui fornices di età repubblicana a Roma [147]. Ma anche nelle testimonianze del periodo imperiale che par-lano degli archi allora costruiti sarebbe vano cercare qualche allusione a rilievi dove fossero mostrate le vicende che ne avevano motivato l’erezione, sul tipo di quelli che ornano gli archi di Roma sopravvissuti fino a noi. L’epigramma di Mar-ziale (VIII 65) dove è descritto l’arco quadrifronte di domizia-no, costruito per commemorare i suoi successi sui Chatti dell’83 d.C., si riferisce sicuramente alle sculture dell’attico quando recita Hic gemini currus numerant elephanta frequentem, / sufficit inmensis aureus ipse iugis (vv. 9-10), anche perché vi sono corrispondenze molto precise con le riproduzioni figu-rative conosciute del monumento, costituite soprattutto da monete, nelle quali è possibile distinguere appunto due qua-drighe con elefanti sulla sommità dell’arco [148]. Nel verso su-bito precedente Stat sacer et domitis gentibus arcus ovat, tutta-via, si potrebbe riconoscere un’allusione a una o più scene rappresentate nei rilievi che lo adornavano, a meno che non siano qui descritte le statue stanti presumibilmente di prigio-nieri che le monete mostrano davanti alle fronti dell’attico [149]. Il non meglio determinato summo tristis captivos in arcu, inclu-so da giovenale in una serie generica di trofei militari, deve certo riferirsi a una statua sull’attico di un arco, che il poeta aveva in mente (X 133-137). Allo stesso modo anche un passo svetoniano, relativo a un monumento per druso Maggiore sulla via Appia, allude con ogni probabilità solo al corredo sta-

[145] Quando la sua esistenza non è stata revocata in dubbio (Schei-thauer 2000, 191), si è proposto di riconoscere l’edificio in monumen-ti diversi, come la Porticus Octaviae, restaurata da Settimio Severo e Caracalla (Tortorici 1989-1990), o l’Arco severiano del Foro Romano (Turcan 1991, 301-302: i gesta […] et triumphos et bella raffigurati sareb-bero perciò quelli visibili nei quattro grandi pannelli delle fronti).[146] In maniera simile a Pausania si comportano gli altri testimoni delle Cariti (raccolti in overbeck 1868, 163-164, nrr. 910-915), eccet-tuato il solo scolio alle Nuvole di Aristofane (773), il quale usa sia sia per indicarle. Cfr. Musti, Beschi 1982, 343-344, ad loc.[147] Liv. XXXIII 27, 3-4 (archi di L. Stertinio con statue dorate); XXXVII 3, 7 (arco di Scipione Africano con statue dorate e fontane marmo-ree); Ps.-Ascon. e Sch. gronov. ad Cic., In Verrem I 7, 19 (Fornix Fabia­nus con statue). Vedi gualandi 1979, 102-106; de Maria 1988, 262-266, nrr. 49-52, 54.[148] Più sintetiche le rappresentazioni visibili su due dei pannelli au-reliani reimpiegati nell’Arco di Costantino: vedi complessivamente ibid., 289-291, nr. 75; Rodríguez Almeida 1993. A questo e ad altri ar-chi che sarebbero stati costruiti da domiziano in numero imprecisato rimandano anche Svetonio, il quale ne segnala le quadrighe unita-mente agli insignia triumphorum (Dom. 13, 2: Ianos arcusque cum qua­drigis et insignibus triumphorum per regiones urbis tantos ac tot extruxit), e Cassio dione (LXVIII 1, 1). Vedi darwall-Smith 1996, 238-239.[149] Fra i rilievi che decoravano l’arco, nelle raffigurazioni monetali si riconosce con sicurezza soltanto una scena di sacrificio su una delle fronti: de Maria 1988, 290.[150] Claud. 1, 3: Praeterea senatus inter alia complura marmoreum arcum cum tropaeis via Appia decrevit. Vedi de Maria 1988, 272-274, nr. 60.[151] XLIX 15, 1 (un arco per ottaviano dopo la vittoria su Sesto Pom-peo); LI 19, 1 (due archi per ottaviano, a Brindisi e nel Foro di Roma, dopo la vittoria di Azio); LVI 17, 1 (due archi in Pannonia per Augu-sto e Tiberio dopo i successi militari di germanico); LX 22, 1 (due archi per Claudio dopo la sua vittoria sui Britanni, uno a Roma e l’altro in gallia); LXVIII 29, 3 (arco di Traiano a Roma). In un altro passo (LIII 22, 2) sono specificamente ricordate le statue () sugli archi () eretti in onore di Augusto, a Rimini e a Roma, per celebrare il ripristino della via Flaminia da lui operato.

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