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Loach, Sang-soo, Scola, De Peretti, Oliviero, Amelio, Cantet Speciale Venezia 70 Figure e capricci #3 · 50 anni del Gattopardo Mostre e festival c i neforum 528 Cineforum Via Pignolo, 123 24121 Bergamo Anno 53 - N. 8 ottobre 2013 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Poste Italiane S.p.a. 8,00

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Loach, Sang-soo, Scola, De Peretti, Oliviero, Amelio, Cantet

Speciale Venezia 70

Figure e capricci #3 · 50 anni del Gattopardo

Mostre e festival

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TRA I FILM DEL PROSSIMO NUMERO

GRAVITYLO SCONOSCIUTO DEL LAGO

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CineforumVia Pignolo, 12324121 BergamoAnno 53 - N. 8 ottobre 2013Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCBPoste Italiane S.p.a.

€ 8,00

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Nel corso del recente convegno di studi, tenuto aBergamo dalla Federazione Italiana Cineforum dal 21al 23 settembre scorso, si è relazionato e dibattuto sultema “Divi e divine”. Argomento forse un po’ desueto inquesti tempi. Non che manchino le star e le celebrità;ma lo scarto semantico è significativo del cambiamentodi qualità nel rapporto che lega tutti coloro che, a variotitolo, ancora provano curiosità, interesse, partecipazio-ne, trasporto per le/gli interpreti delle storie in transitosul “grande schermo” (o su altri: viviamo un periodo ditransizione…). L’elemento “religioso” (con o senza vir-golette?) che sostanziava la relazione con divi/divined’antan si è in effetti dissolto negli ultimi decenni,lasciando spazio a sentimenti e proiezioni irrimediabil-mente differenti, anche quando marcati dalla nostalgiaper ciò che un tempo fu.

Nel film di Truffaut La sirène du Mississippi (1969),Louis/Belmondo si rivolge a un certo punto aJulie/Deneuve dicendole: «Sei adorabile. Sai cosa vuoldire “adorabile”? Vuol dire “degna di adorazione”». Inquel momento Catherine Deneuve vince sul propriopersonaggio e Belmondo diventa per un attimo “uno dinoi”: e la battuta si trasforma, travalica la funzione die-getica per imporsi come un omaggio irrefrenabile aquella che forse è l’ultima delle “divine” generate dallamagia del cinema.

Un elemento comune è emerso dalle relazioni che, nelcorso del convegno, hanno illustrato le differenti quali-tà del divismo di Marlene Dietrich e Ingrid Bergman, diMarlon Brando e Gary Cooper. Si tratta della dualità,del chiaroscuro che ambiguamente ombreggia questefigure “degne di adorazione”, modelli in verità inimita-bili e/o inafferrabili per tutti gli adepti al loro culto. È,in ultima analisi, proprio questa caratteristica a fare del

divo (e più ancora, forse, della divina) ciò che è: puntodi congiunzione dei contrari, dell’accettabile e dell’inac-cettabile, del bene e del male; così vicini, dunque, a noi“umani” ma anche così lontani perché – loro sì – ingrado di conciliare in sé l’inconciliabile. Per il nostrogodimento e la nostra perdizione.

Mostri, quindi. Ma la mostruosità non è forse un attri-buto tradizionale del sacro? Qualcosa da temere e davenerare, da fuggire e da contemplare, senza soluzione dicontinuità. Poco importa che fosse il risultato di unacostruzione pianificata dall’apparato industriale cinema-tografico sotto l’occhio vigile e vivisezionatore dei tyco-on, finalizzato a trasformare il sentimento adorante indenaro sonante. L’illusione di riscatto dal quotidiano chegenerava valeva bene il prezzo del biglietto (o di tutto ciòche fosse necessario acquistare per aderire al culto). Lasocietà dello spettacolo viveva il tempo di un’infanzia chepiù si allontana più sfuma nel mitologico: condizione pri-vilegiata che trascolora oggi in forme di ripresa senti-mentale di comportamenti e dichiarazioni appassionate,più che altro funzionali a riecheggiare un’autenticitàormai perduta – così come le “celebrità” dell’oggi consa-pevolmente si limitano soltanto a interpretare il ruolo da“divi e divine” loro assegnato, ben sapendo che il tutto sirisolve in un laicamente dichiarato raddoppiamentodelle apparenze. C’è qualche traccia di questo nel recen-te Facciamola finita di Seth Rogen e Evan Goldberg.

In verità, figura definitiva della conclusione diun’epoca e delle sue luci è stato, nel lontano 1978,Fedora di Billy Wilder: con il suo intreccio di doppi, disegreti e bugie a dichiarare la raggiunta impossibilità diriprendere a sognare.

Quei sogni, non ci resta ormai che evocarli neiconvegni.

Divo è morto?

Adriano Piccardi

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SOMMARIOEDITORIALEAdriano Piccardi/Divo è morto 1

I FILMAnton Giulio Mancino/Spirit of ’45 di Ken Loach 4Dario Tomasi/In Another Country di Hong Sang-soo 8Paola Brunetta/Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola 11Tullio Masoni/Apache di Thierry de Peretti 14Anton Giulio Mancino/La variabile umana di Bruno Oliviero 17Giancarlo Mancini/L’intrepido di Gianni Amelio 20Luca Malavasi/Foxfire – Ragazze cattive di Laurent Cantet 23

Nicola Rossello, Chiara Santilli, Paola Brunetta, Fabrizio Liberti, Tina Porcelli, Elisa Baldini, Giacomo Conti/La religiosa - Infanziaclandestina - Fedele alla linea. Giovanni Lindo Ferretti - Elysium - Il mondo di Arthur Newman - Mood Indigo. La schiuma dei giorni - In trance 25

SPECIALE VENEZIAFabrizio Tassi/Felici contaminazioni 33Valentina Alfonsi, Pietro Bianchi, Gianluigi Bozza, Giacomo Calzoni, Massimo Causo, Andrea Chimento, Andrea Frambrosi, Leonardo Gandini, Federico Gironi, Riccardo Lascialfari, Roberto Manassero, Matteo Marelli, Alberto Morsiani, Federico Pedroni, Lorenzo Rossi, Fabrizio Tassi, Alessandro Uccelli, Rinaldo VignatiIl meglio delle varie sezioni 35Le “pagelle” di «Cineforum» 54Film in concorso 57Fuori concorso 58Orizzonti 62Biennale College 64Giornate degli autori 65Settimana della critica 67

PERCORSISergio Arecco/Figure e capricci #3. Jean-Luc perseguitato 70Simone Villani/50 anni di Gattopardo 78

FESTIVALPaolo Vecchi/Asian Film Festival 83Dario Tomasi/Far East 85Arturo Invermici/Cinelatino a Bergamo 88Alberto Spadafora/Cinema ritrovato 90

LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 92

INFO dal luned al venerd - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 - [email protected]

cineforumrivista mensiledi cultura cinematografica

anno 53 - n. 8 - Ottobre 2013

Edita dallaFederazione Italiana Cineforum

Direttore responsabile:Adriano Piccardi • [email protected]

Comitato di redazione:Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttoreeditoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara,Luca Malavasi, Emanuela Martini, AngeloSignorelli, Fabrizio TassiSegreteria di redazione:Arturo Invernici, Daniela Vincenzi

Collaboratori:Sergio Arecco, Elisa Baldini, Alberto Barbera,Marco Bertolino, Francesca Betteni-Barnes D.,Pietro Bianchi, Pier Maria Bocchi, PaolaBrunetta, Francesco Cattaneo, Massimo Causo,Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, Andrea Chimento,Pasquale Cicchetti, Jonny Costantino, EmilioCozzi, Giorgio Cremonini, Lorenzo Donghi,Simone Emiliani, Michele Fadda, DavideFerrario, Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca,Leonardo Gandini, Federico Gironi, GiuseppeImperatore, Lorenzo Leone, Fabrizio Liberti,Nuccio Lodato, Pierpaolo Loffreda, AlessandraMallamo, Roberto Manassero, Anton GiulioMancino, Giacomo Manzoli, Michele Marangi,Matteo Marelli, Tullio Masoni, EmilianoMorreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca,Federico Pedroni, Lorenzo Pellizzari, AlbertoPezzotta, Tina Porcelli, Piergiorgio Rauzi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi, AntonioTermenini, Dario Tomasi, Paolo Vecchi, Rinaldo Vignati, Chiara Zingariello.

Progetto grafico e impaginazione:Paolo Formenti - PiEFFE Grafica*

Amministrazione:Cristina Lilli, Sergio Zampogna

Redazione e amministrazione:Via Pignolo, 123IT-24121 Bergamotel. 035.36.13.61 - fax 035.34.12.55e-mail: [email protected]://www.cineforum.it

Abbonamento annuale (10 numeri):Italia: 60,00 EuroEstero: 80,00 EuroExtra Europa via aerea: 95,00 EuroVersamenti sul c.c.p. n. 11231248intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 - 24121 Bergamoe-mail: [email protected]

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stampato presso Tipolitografia PaganiLumezzane - Brescia

Iscritto nel registro del Tribunale diVenezia al n. 307 del 25-5-1961

associato all’USPIUnione Stampa PeriodicaItaliana

In copertinaIn Another Country di Hong Sang-soo

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i film

The Spirit of ‘45In Another Country

Che strano chiamarsi FedericoApache

La variabile umanaL’intrepido

Foxfire - Ragazze cattive

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THE SPIRIT OF ’45 di Ken Loach

In memoria dello Stato socialeAnton Giulio Mancino

«Bisogna fare tutto un lavoro di aggiunta al vecchio schemapartiti-parlamento-governo, di un nuovo schema di unademocrazia integrale che arriva fino alla periferia, e dal basso siautoeduca e si autoamministra. Soltanto una società di questogenere è sopportabile, soltanto essa realizza quell’andare oltrela politica, in nome di una liberazione infinita e una solidarietàpopolare, che ci portò a lottare contro il fascismo. Soltanto unasocietà di questo genere, società veramente di tutti, è l’elementoche può accompagnare quella tramutazione profondadell’uomo, che lascerà dietro di sé tutte le vecchie civiltà e levecchie realtà».(Aldo Capitini) (1)

REQUIEM FOR A WELFARE DREAM

Uno dei maggiori equivoci cui rischia di andareincontro ogni corretta analisi di The Spirit of ’45riguarda la presa di posizione rispetto al modello diWelfare State introdotto in Inghilterra grazie alla lineadi governo protezionista e assistenzialista avviata dalpremier laburista Clement Attlee dopo la schiacciatevittoria elettorale del suo partito a luglio del 1945.Quello di Ken Loach non è un’apologia di quella sta-gione politica, né una magnificazione in valore assolu-to dello Stato sociale, né tantomeno un tentativo diedificare il passato, a vantaggio dell’azione del Labour

Party. A questa conclusione affrettata si può arrivaresolo se non si presta la dovuta attenzione a come ilfilm espone le sue argomentazioni, a chi le affida e inquale forma persegue il suo obiettivo di commemora-zione – questo sì – di un esperimento politico, socialeed economico innovativo e unico, che tuttavia nonesclude critiche genealogiche alle scelte compiute. Ilfilm, appassionata requisitoria retroattiva dell’esisten-te, non può essere letto senza tener conto della visioneper l’appunto molto critica e intransigente che, attra-verso i testimoni scelti e disposti nell’arco di poco piùdi novanta minuti, l’autore offre del Welfare. Almenodi come esso fu messo in pratica in quella precisa faseanimata appunto da un sano e irripetibile “spirito” dirinnovamento nato sulle ceneri del fascismo sconfittoda una guerra senza precedenti e sorretto da una forteesigenza di classe di conseguire diritti elementari disopravvivenza, prima ancora che di benessere (sanità,lavoro, alloggi in prima istanza).

Se lo “spirito” di quel momento fu forte, l’attuazioneche ne conseguì, pur in un clima di entusiasmo gene-rale, fu alquanto discutibile. Ken Loach si rende conto

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e fa intendere che il neonato Stato sociale necessitavadi un movimento dal basso, di poggiare saldamente suquello “spirito” collettivo, comunitario, mutualistico,che invece i trent’anni successivi tradirono al punto dalasciar campo libero all’opera di azzeramento portataavanti con la premiership di Margaret Thatcher.Distingue perciò molto bene la temperie popolaredalla prassi politica governativa. Lo “spirito” deltempo rimase, potendo perciò essere rivendicato eriproposto oggi, un oggetto non completamente iden-tificato, un’opportunità mancata, ancora di là da veni-re: una corrente di energia sociale nella sostanza sof-focata da uno Stato ancora burocratico, privo di par-tecipazione diretta, che istituzionalizzò e poco pervolta disattese le istanze di base. Il vento “socialista”che nel dopoguerra in Inghilterra soffiò prese da subi-to – come intuì un anonimo autore di un lontano opu-scolo del 1886 – una direzione purtroppo «a favore diuna amministrazione forte centralizzata» (2), a dispet-to di quella componente che inevitabilmente avrebbeassunto connotazioni anarchiche senza tuttavia assu-mere forma partitica.

Ecco, The Spirit of 1945, al di là delle apparenze difilm univoco nella sua difesa a oltranza del Welfare, èun’opera che può permettersi di esprimere perplessitàsul passato e sul presente, strategicamente saldati.Poiché lo fa partendo da posizioni inconciliabili disicuro con quelle neoliberiste e conservatrici, invecericonducibili a un tipo di socialismo di ispirazioneanarchica (3) (o piuttosto votato a un progetto coope-rativo e alternativo a quello centralizzato e dirigistaimpostosi dal 1945). Affine per molti versi alla linea dipensiero autenticamente democratica, anzi omnicrati-ca (4), che in Italia portò avanti il filosofo e attivistadella nonviolenza con il suo progetto davvero rivolu-zionario di liberalsocialismo (5), in egual misura raf-forzato dall’antifascismo come punto di non ritornostorico, politico e morale per una via nuova da imboc-care (in Italia, ma non solo) al riparo da qualsiasisovrastruttura dello Stato totalizzante, quantunquesocialista, impostata dall’alto e non dal basso.

Questa componente ideale, tutt’altro che astratta oillusoria, in The Spirit of ’45 c’è. Donde l’aspetto ine-quivocabilmente militante, che con cognizione dicausa va dunque inquadrato – è il caso di dire – nellagiusta dimensione cinematografica. Senza quindidimenticare, come troppo spesso accade, che KenLoach è un regista cinematografico. Che i suoi sonoinnanzitutto dei film e come tali vanno considerati,capiti, lungi da letture strettamente contenutistiche le

quali prescindono da come un film è appunto organiz-zato. Né si può, con The Spirit of ’45, rimettere manoa vecchi strumenti spuntati come la distinzione tradocumentario e film di finzione, che dovrebbe oramaiaver fatto il loro tempo. Non c’è in Ken Loach unapproccio diverso alla fiction rispetto alla cosiddetta,presunta nonfiction. Piuttosto una relazione forte.Addirittura una attrazione, reciproca. Così marcata daspingere solitamente ad affrontare ogni suo film a sog-getto, recitato da attori, proprio perché molto diretto eimmediato, in termini molto realistici. La finzione vaverso la realtà. E viceversa, come nel suo segmento delfilm collettivo 11 settembre 2001 e ora in The Spiritof ’45, nei quali bisogna riflettere sull’importanzadella costruzione narrativa nella forma di documenta-rio adottata, pur così classica, trasparente, austera: ilruolo giocato dal montaggio, che provvede al posizio-namento strategico dei frammenti all’interno di bloc-chi tematici, cronologici e discorsivi, è quindi conse-quenziale all’altrettanto accurata ricerca d’archivio epreliminare per la riposizione a colori delle stesseimmagini di repertorio in bianco e nero inaugurali.Investendo tanto i contenuti quanto la forma del film,e con essa le modalità di ricezione dello spettatore.

CHI LA DURA NON LA VINCE

Se The Spirit of ’45 fosse un film di finzione accor-gersi della sua impostazione sarebbe più semplice:comincia con una rievocazione del periodo di stenti econdizioni disumane precedente lo scoppio dellaSeconda guerra mondiale, cui fa seguito il desideriodell’immediato dopoguerra di dare risposte efficacialle grandi questioni sociali, umane e lavorative, di cuiil Labour Party sembra farsi interprete, ottenendo ilmandato di governo nell’estate del 1945. In questaprima parte troviamo dapprincipio testimoni anziani,uomini e donne, operai e minatori che si fanno inter-preti di quello “spirito” su cui sarà edificato il WelfareState. Progressivamente, le interviste, tutte rigorosa-mente in bianco e nero, cominciano a includere, sem-pre amalgamandosi ai frammenti d’archivio, interlo-cutori diversi della macchina da presa: attivisti politi-ci, economisti, sindacalisti anche di seconda o terzagenerazione. La prospettiva si allarga, e all’entusia-smo per la svolta attuata dai laburisti alla guida delloStato subentrano voci meno entusiaste. C’è ad esem-pio chi rammenta, e contesta, la scelta dei dirigentidella nuova macchina statale, gli stessi che avevano

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avversato le ora conclamate politiche socialiste. Alfilm non sfuggono né la fragilità né le contraddizionidel nuovo sistema. Non a caso il trionfo del Welfare edei suoi paladini di governo viene accompagnatoanche da brani di numerosi film “educativi” o di pro-paganda.

Ma ogni sogno è destinato a durare poco. In ognifilm di Ken Loach, di finzione o meno, quando tuttosembra procedere (apparentemente) per il meglio,qualcosa si prepara a succedere. Se tutto va bene,troppo bene rispetto alle premesse negative ambienta-li, sociali e individuali, vuol dire che è giunto ilmomento della retromarcia catastrofica. Inaspettatoma coerente con un dispositivo filmico non edulcoran-te o ingannevole, sopravviene l’avvenimento imprevi-sto che fa precipitare la situazione. Il provvidenzialeassestamento, conseguito dai protagonisti con grandefatica in un clima prossimo alla disperazione, saltairrimediabilmente. Anche in The Spirit of ’45: a metàfilm, dopo aver dato conto delle principali tappe dellanazionalizzazione operata dal Welfare (la sanità, l’edi-lizia, le miniere, i trasporti, i contratti di lavoro, l’ener-gia elettrica), assistiamo a un balzo temporale in avan-

ti, molto brusco. L’azione si sposta nel fatidico 1979con l’insediamento della Thatcher che innesca l’altret-tanto sistematico smantellamento delle importanti manon inossidabili, né immacolate conquiste del sistemapubblico. Questo “buco” di quasi trent’anni rende piùforte lo “shock”, marca l’inversione di tendenza.Induce a interrogarsi daccapo su cosa non abbia fun-zionato, già allora, proprio quando lo “spirito” origina-rio, progettuale, imprendibile, quasi zavattiniano,cominciava a essere insidiato da compromessi di ver-tice. Ciò che nel film manca aiuta lacanianamente acomprendere il lungo periodo sommerso in cui l’am-ministrazione del Welfare attraverso i governi che sisono succeduti hanno dovuto affrontare la prova deltempo. E dei fatti.

LA (TERZA) PARTE DEGLI ANGELI

Ken Loach in pratica elude questo lungo periodointermedio, nel quale quel modello sociale, pronta-mente e discutibilmente istituzionalizzato è andatoincontro a un processo di logoramento e di crescente

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perdita di credibilità. Per divenire preda, alla finedegli anni Settanta, delle politiche aggressive delladestra neoliberista. Si arriva così all’epilogo. A quel-lo che nelle commedie di Eduardo De Filippo era ilterzo atto. Questa parte conclusiva nei film di KenLoach aiuta a capire quale approccio all’esistente sirende necessario, nella fase contingente, dove unadose in più o in meno di pessimismo e ottimismopossono fare la differenza per l’immaginazione e lo“spirito” dello spettatore. Dopo il fallimento permolti versi annunciato (dal momento che ogni vitto-ria, a ben guardare, è relativa, stazionaria, covandouna sventura a orologeria, inevitabile), l’autore diThe Spirit of ’45, ha spesso scelto la strada dello sde-gno estremo, come marchio indelebile di un difficilis-simo cambiamento da denunciare a oltranza. Eppuredi recente, si pensi a La parte degli angeli, pur man-tenendo nell’aria le possibilità molto plausibili dellasconfitta, egli ha prospettato, più che una soluzionevera e propria, una urgente via di fuga, a queste con-dizioni positiva. Con un tasso di probabilità bassissi-mo, o inesistente. Se le cose possono funzionare omigliorare solo per via cinematografica, diciamopure consolatoria, perché non concedere al protago-nista di La parte degli angeli il lusso di un happy endsocialmente utile e sostenibile?

In The Spirit of ’45 la rivendicazione di uno Statosociale defunto o sul punto di resistere solo comericordo o di valore da difendere e trasmettere da unagenerazione all’altra, proprio come il vigoroso “spiri-to” di quell’anno irripetibile, eccezionale in quantopartorito da un passato recente e remoto atroce, com-

porta una riflessione a posteriori. Che il film, a dieciminuti dalla fine, affida alle parole di John Rees, scrit-tore ed esponente del Partito socialista di recente fon-dato nel 2004, Respect (acronimodi “Respect”, “Equality”, “Socialism”, “Peace”,“Environmentalism”, “Community” e “TradeUnionism”): «Difendevamo un sistema difettoso. Èquesto il verme che si annidava nella mela del 1945. Ilavoratori non avevano il controllo, il popolo non eracoinvolto nella gestione. Non c’era il controllo dallabase, non c’erano comitati locali a gestire le case popo-lari, non c’erano i sindacalisti a gestire le industriesiderurgiche e del carbone. C’erano solo dei burocratistatali che avevano sostituito i burocrati aziendali».Mentre l’ultima parola spetta a Dot Gibson, Segretariadella National Pensioners’ Convention, che sulla base«di cosa significava proprietà in comune, condivisione,comunità» auspica che si possa «cominciare a rico-struire questa visione del tipo di vita che vogliamo».Esattamente come nell’appello capitiniano riportatoin esergo, espressione dello “spirito” italiano disgrazia-tamente minoritario del 1948, complementare a quel-lo inglese del 1945 distillato da Ken Loach.

(1) Aldo Capitini, La via del popolo italiano, «Il nuovo corriere», 15maggio 1948.(2) Anonimo, What Socialism Is, «Fabian Tract» n. 4, Fabian Society,Londra 1886.(3) Cfr. Colin Ward, Social Policy: An Anarchist Response, FreedomPress, Londra 1996 (tr. it. La città dei ricchi e la città dei poveri,E/O, Roma 1998).(4) Cfr. in particolare Aldo Capitini, La realtà di tutti, Tornar, Pisa1948 (poi in Scritti filosofici e religiosi, Fondazione Centro StudiAldo Capitini, Perugia 1998, pagg. 171-215), e Il potere di tutti, LaNuova Italia, Firenze 1969; Guerra, Perugia 1999.(5) Cfr. Aldo Capitini, Liberalsocialismo, E/O, Roma 1996.

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THE SPIRIT OF ’45 Ken LoachTitolo originale: Id. Regia e sceneggiatura: Ken Loach (ricerche, Izzy Charman; archivi, Jim Anderson). Fotografia:Stephen Standen. Montaggio: Jonathan Morris. Musica: George Fenton. Con: Dot Gibson, John Rees, Julian Tudor Hart,Dai Walters, Ray Davies, Tony Mulhearn, Doreen McNally, John Farrell, Eileen Thompson, Sam Watts, Tony Nelson, TerryTeague, Karen Reissmann, Dena Murphy, Margaret Battin, James Meadway, June Hautot, Tony Benn, Raphie de Santos,Alan Thornett, Anthony Richardson, Harry Keen, Jacky Davis, Jonathon Tomlinson, Ray Thorn, Alex Gordon, BillRonksley, Ray Jackson, David Hopper, Stan Pearce, Inky Thomson, Simon Midgley, Adrian Dilworth. Produzione:Rebecca O’Brien, Kate Ogborn, Lisa Marie Ruso per Fly Film/Sixteen Film/BFI Film Fund/Film4/Channel Four.Distribuzione: BIM. Durata: 94’. Origine: Gran Bretagna, 2013.

La fine della Seconda guerra mondiale porta con sé un bisogno in Inghilterra nella classe lavoratrice di una svolta, chespiega l’inaspettata sconfitta di Winston Churchill e la vittoria clamorosa a luglio del 1945 alle Elezioni del LabourParty guidato da Clement Attlee. Comincia così, a partire dall’istituzione nel 1948 dell’Health National Service, il siste-ma sanitario nazionale, la storica introduzione nel Paese del Welfare State. Trent’anni dopo, con la sconfitta dei labu-risti e l’elezione a premier di Margaret Thatcher, ha inizio l’ondata di misure che provvederanno a smontare quel siste-ma, a fronte di una politica di privatizzazioni.

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Primo lavoro di Hong Sang-soo a essere distribuitoin Italia, In Another Country rappresenta, comesostanzialmente tutta l’opera di un regista che più dialtri ha di fatto sempre girato lo “stesso” film, un effi-cace punto d’incontro tra un cinema minimalista, dauna parte, e uno postmoderno, nelle sue varianti ludi-che e strutturaliste, dall’altra. Minimalisti, piaccia onon piaccia la definizione, sono, come lo è questo, tuttii film di Hong: pochi personaggi, incontri casuali, pas-seggiate, lunghe scene di conversazione, abbondantibevute di soju (il tipico liquore coreano), qualche men-zogna e litigio, piccoli tradimenti e, nella migliore delleipotesi, un po’ di sesso (mai in forme particolarmenteclamorose). Altrettanto piano è lo stile del regista,fatto pressoché interamente di piani sequenza che, senon sono fissi, ricorrono a pochi ed essenziali movi-menti di macchina, come, in In Another Country, leripetute carrellate ottiche che nella loro artificialitàquasi straniante accentuano il carattere onirico esopra le righe dell’intero film.

Questo minimalismo di forme e contenuti, tuttavia,si incontra con una strutturazione del racconto che èal contrario estremamente complessa e articolata,

secondo quell’oltrepassamento delle tradizionali linea-rità e progressione temporali del cinema classico che èproprio del postmoderno (dal Tarantino di Le Iene ePulp Fiction al Nolan di Memento e Inception, dalloStone di Assassini nati alla Ramsay di E ora parliamodi Kevin). Chiarito per inciso che il postmodernoriprende tali sovvertimenti strutturali dal moderno,privandoli tuttavia del loro implicito ermetismo, e con-ferendo a essi una natura ludica che non punta tantoa disorientare lo spettatore quanto ad avvincerlo e adappassionarlo, possiamo tornare al nostro film.

In Another Country non è un semplice omnibus filmcostruito su tre episodi autonomi e separati, in quan-to le “tre storie” (d’ora in poi tra virgolette) si intrec-ciano fra loro in un evidente ed esplicito gioco dirimandi, paralleli e variazioni, che può ricordare Gliesercizi di stile di Raymond Queneau, con la sostan-ziale differenza che nel film di Hong gli esercizi (e levariazioni) non sono tanto di stile quanto di contenu-to narrativo. A intrecciare le “tre storie”, a farne inqualche modo una storia che è “una e trina”, c’è, percominciare, la presenza di una stessa attrice che inter-preta sempre un personaggio dallo stesso nome, Anne,

IN ANOTHER COUNTRY di Hong Sang-soo

Tra minimalismo e postmodernitàDario Tomasi

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declinato in tre diverse identità. La prima è una regi-sta affermata, abbastanza sicura di sé è un po’ scostan-te anche se capace di gesti d’affetto; la seconda è unadonna ricca e alquanto ingenua, che si rifugia nei suoisogni e in una relazione adultera; la terza è una moglieappena abbandonata dal marito, sofferente, inquieta eaggressiva. Tre diversi personaggi, si potrebbe cosìdire: tutti e tre però costretti a confrontarsi con unmedesimo universo dove ritornano gli stessi luoghi,incontri, esistenti e oggetti.

La località in cui si svolgono le “tre storie” è la stes-sa, Mohang, come identici sono i suoi spazi: l’albergo,la spiaggia e il parco. Alcuni personaggi appaionoalmeno in due dei tre episodi, altri in tutti e tre.Sempre presenti, insieme alla stessa Anne, sono, infat-ti, sia la giovane custode del resort, Won-Ju, che è poicome vedremo anche la narratrice delle “tre storie”, sial’aitante bagnino e ingenuo seduttore senza nome. Gliincontri che le “tre storie” mettono in scena fra questipersonaggi e Anne, giocano su un esplicito sistema diripetizioni e, più o meno accentuate, varianti. All’iniziodelle “tre storie” è sempre Won-ju ad accompagnareAnne, da sola o insieme a qualcuno, nella sua stanza.Nel corso delle diverse vicende Anne non manca maidi chiedere alla ragazza se ci sia qualche posto interes-sante da visitare. Durante gli incontri con il bagninoritornano sempre gli stessi argomenti e le stesse battu-te di dialogo: sul freddo, sull’assenza di turisti e sullatenda dell’uomo piantata davanti ai bagni pubblici.Soprattutto a ripetersi è la richiesta di Anne su dove sitrovi quel faro la cui visita gli è stata consigliata daWon-ju, e che, nella forma del running gag, dà vita auna serie di esilaranti fraintendimenti ed equivoci lin-guistici. Nelle “tre storie” gli esiti dei tentativi di sedu-zione dell’uomo producono tre risultati diversi cheperò non sono – anche quando apparentemente cen-trano il loro risultato – che tre manifestazione di unostesso scacco. Nel primo episodio l’uomo deve accon-tentarsi di un breve messaggio scritto che Anne glilascerà prima di partire ma di cui non riesce a com-prendere la calligrafia; nel secondo si ritroverà a spia-re con un binocolo l’incontro sulla spiaggia delladonna con il suo amante; nel terzo, infine, dopo essereriuscito a fare l’amore con lei, anche grazie all’aiutodel soju, si scoprirà poi, al risveglio, abbandonato e tri-stemente solo.

Ai personaggi di Anne, di Won-ju e del bagnino, sipotrebbe aggiungere quello di Mun-soo, l’uomo sposa-to con la moglie incinta che, insieme con questa, occu-pa la stanza a fianco di quella di Anne. A onore del

vero – ma di quale “vero” si tratti adesso vedremo –l’uomo è presente solo nel primo e nel terzo episodio(contrariamente alla moglie che appare brevementeanche in quello di mezzo). Non sono tuttavia necessa-rie particolari acrobazie esegetiche per rendersi contodi come lo stesso personaggio sia presente, pur attra-verso un nome, un’identità e un interprete diversi,anche nel secondo episodio, dove Mun-soo, il marito,si trasforma in Jong-soo, l’amante. A legare i due per-sonaggi, oltre alla desinenza dei loro nomi propri, Soo,c’è la stessa professione: entrambi, infatti, sono registi(occupazione a dire il vero assai frequente nel cinemadi Hong). Inoltre, quel che più conta, identica è la loroesplicita funzione narrativa che, correndo a fianco diquella del bagnino, rappresenta per la protagonista lapossibilità di un altro più o meno aleatorio legamesentimentale, che, di nuovo, assume diverse ma sem-pre insoddisfacenti forme.

Nel primo episodio, Mun-soo ha avuto in passatouna relazione con Anne e si direbbe timidamenteintenzionato a riprenderla, pur in forma clandestina,senza però trovare nella controparte alcuna complici-tà. Nel secondo, Jong-soo è l’amante di Anne, ma talerelazione sembra potersi realizzare, e per altro connon pochi ostacoli e difficoltà, solo su un livello oniri-co. Nel terzo, ancora Mun-soo tenta di baciare un’al-

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ticcia e complice Anne, che ha appena conosciuto, maè interrotto dall’improvviso arrivo della moglie. Dettoin altri termini, nel primo caso il desiderio maschilenon incontra quello femminile, nel secondo il deside-rio femminile, trovandosi di fronte a un amante assen-te, può realizzarsi, e solo parzialmente, su un piano

diverso da quello della realtà, e nel terzo, infine, dovei due desideri, per quanto piuttosto accentuati dall’al-col, sono finalmente in sintonia, sarà un ostacoloesterno a fungere da impedimento. Attraverso la rap-presentazione dei rapporti che Anne instaura con ilbagnino, da una parte, e con Jong/Mun-soo, dall’altra,In Another Country, come tutto il cinema di Hong,assume i toni di un desolato trattato di fenomenologiaamorosa in cui i rapporti fra il femminile e il maschi-le non possono che darsi all’insegna della reciprocainsoddisfazione.

Per terminare le nostre osservazioni sul carattere“uno e trino” del film si può ancora osservare l’usovolutamente ambiguo che esso fa di un particolareoggetto. Si tratta di quell’ombrello che in tutti e tre gliepisodi – nel terzo durante un’ellissi – Won-ju prestaad Anne. Accade che, nella seconda storia, la donnadecida di liberarsene, nascondendolo sotto un muret-to e poi che, nel finale della terza, ritorni a prenderlo,esattamente là dove l’aveva lasciato in precedenza.Proprio come se le due storie non fossero una separa-ta e autonoma dall’altra ma parte di uno stesso flussodi eventi. In sostanza, anche attraverso la sua naturametacinematografica – le tre storie sono “scritte” e“narrate” da un’aspirante sceneggiatrice e il secondodei tre episodi si avvale di scene che solo retrospetti-vamente si leggono come oniriche – In AnotherCountry è un film sul cinema e sulla vita che costrui-sce un mondo percorribile quasi all’infinito lungodiverse traiettorie, secondo la strada che di volta involta si decide di intraprendere, proprio come fa, inognuna delle tre storie, Anne di fronte allo stesso biviodavanti cui inesorabilmente, come un personaggio diBorges o di Resnais, viene a trovarsi.

IN ANOTHER COUNTRY Hong Sang-sooTitolo originale: Dareun naraeseo. Regia e sceneggiatura: Hong Sang-soo. Fotografia: Jee Yoon-jeong, Parl Hong-yeol.Montaggio: Hahm Sung-won. Musica: Jeong Yong-jin. Interpreti: Isabelle Huppert (Anne), Yoo Jun-sang (il bagnino),Jeong Yoo-mi (Won-ju), Yoon Yeo-jeong (Park Sook), Keun Moon-sung (Mun-soo), Hyo Kwon-hye (Jong-soo), Moon So-ri (Kum-hee), Kim Youngoak (il monaco). Produzione: Kim Kyoung-hee per Jeonwonsa Film. Distribuzione: Tucker.Durata: 89’. Origine: Corea del Sud, 2012.

A Mohang, località marittima della Corea del Sud, la giovane Won-joo tenta di vincere la noia scrivendo una sceneggia-tura ambientata nel luogo in cui si trova. Il film che immagina è costituito da tre varianti di una stessa storia.Protagonista ne è sempre Anne, «un’affascinante turista francese» che veste, di volta in volta, i panni di una regista, diuna moglie che dovrebbe incontrare il suo amante e di una donna appena lasciata dal marito. In ognuna delle tre sto-rie, che hanno sempre in qualche modo a che fare col tradimento, la donna incontra un giovane e aitante bagnino chela corteggia con modi piuttosto goffi ma spontanei, ottenendo ogni volta un risultato diverso.

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Federico Fellini aveva fatto Roma per rivedere e rive-dersi sin dal primo giorno in cui vi era arrivato, EttoreScola prova a immaginarsi quello stesso giorno per poisperare di potersi anch’egli rivedere così come era tantianni fa, quando tutto era iniziato. Inizia infatti specular-mente al film di Fellini del 1972 Che strano chiamarsiFederico, l’ultimo affondo, una sorta di commiato, delregista di Trevico. In entrambi i film un giovane ragazzobussa a una porta. In Roma quella di un’enorme casapiena di porte e personaggi mai visti: la matrona a lettoper un “problemino” alle ovaglie, la servetta ammiccante,il mammone di casa appena tornato ustionato dal mare,il gagà che aveva forse fatto qualche comparsata nel cine-ma, un signore del tutto uguale al Duce che si produce inun discorso antialbionico, una nonnetta piccola piccola,torme di bambini sciamanti lungo lo sterminato corrido-io. Era quella una vita nuova e inimmaginata verso laquale si era condotto il protagonista.

La porta invece a cui bussa il Federico di Scola è piùconcretamente il «Marc’Aurelio», dove i sogni di

entrambi convergono a distanza di diversi anni unodall’altro. Due gesti identici per cercare di raccontarela prima cosa importante vista dopo la fine della gio-vinezza e l’ingresso nel mondo degli adulti. Uno realema poi trasfigurato tanto da non poter esser più defi-nito un reperto, un documento. L’altro tout courtinventato semplicemente perché non si era presenti aquel giorno. La differenza sta nella posizione in cui cisi mette, in quanto narratori e registi. Fellini raccontain prima persona, è inevitabile che sia così, ogni suapulsione lo spinge verso questo tipo di procedura.Scola invece si mette apparentemente da una parte perimmaginarsi come deve essere stato quel primo giornodi Federico al «Marc’Aurelio». Salvo poi mettercianche il proprio di arrivo a quella redazione, tantianni quasi quanti li divideva l’anagrafe. Entrambi,Roma e Che strano chiamarsi Federico, cercano di rac-contare come si è formato uno sguardo, un modo diplasmare le cose, di osservarle in modo così personalecosì come oggi ci appare.

CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICOSCOLA RACCONTA FELLINI di Ettore Scola

Come si formauno sguardoGiancarlo Mancini

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Due film in cui il cinema stesso si mescola con il rac-conto del reale, della vita, l’invenzione libera con lastoria, perché entrambi, Fellini e Scola, hanno vissutoda protagonisti la stagione del neorealismo, anzidovremmo meglio dire che il neorealismo ha contami-nato in modo irreparabile il loro sguardo, rendendolinon dei realisti redenti ma degli irrealisti ancor piùconsapevoli. Eppure a vederli oggi i loro lavori appa-iono così diversi tra loro da doversi sforzare per trova-re dei punti di contatto. Si prendano le interpretazionidi Marcello Mastroianni, così lindo, normale come loamava e serviva a Fellini per La dolce vita o per 8 1/2

e invece così imbruttito, inselvatichito come eral’Oreste Nardi di Dramma della gelosia (1970).

Ma raccontare la storia di uno sguardo non è maistata un’impresa facile, tanto più se in relazione conquello dell’amico, attraverso tutti questi anni. Eccoallora spiegarsi la varietà di registri di Roma e di Chestrano chiamarsi Federico, varietà tale da renderlidegli oggetti inclassificabili per chi li ha voluti mette-re nella casella dei documentari o, se si volesse usareun termine più contemporaneo, dell’autofiction.

Quando arriva nella capitale Fellini è un ragazzoalto, d’una magrezza smunta, con gli occhi protesi in

avanti rispetto alle cavità che dovrebbero racchiuder-li. Bussa alla porta del «Marc’Aurelio», il settimanalesatirico diretto da Vito De Bellis nel quale figuranoMarcello Marchesi, Vittorio Metz, Attalo, RuggeroMaccari e il è caporedattore Stefano Vanzina, Steno.Siamo nel 1939, già soffiano pesanti venti di guerravia via che le minacce di Hitler alla Polonia si fannopiù pressanti, fino all’invasione iniziata il 1° settem-bre con i conseguenti interventi a fianco della Poloniadi Francia e Inghilterra che getteranno l’Europaprima e il mondo intero poi nella Seconda guerramondiale. Quei ragazzacci del «Marc’Aurelio» peròpoco si curano dei rapporti sempre più stretti venuti-si a saldare tra la Germania e l’Italia fascista dopo lafirma del patto d’acciaio. Del contegno marziale diMussolini e dei gerarchi, tra cui il bersagliatissimoStarace, già segretario del partito, si fanno beffa inmodo più o meno velato, così come della perfidaAlbione e dell’altezzosa Francia.

Fellini ha in mano una cartelletta con delle vignet-te, il direttore le osserva, di qualcuna nota l’efficaciaumoristica, di qualcun’altra tace passando oltre. Sisorprende quando scopre che il ragazzo scrive anchedelle vere e proprie piccole prose umoristiche, dei

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lazzi, delle battute. È quello il momento in cui sidecide ad aprirgli le porte della redazione mentre è inatto una tambureggiante riunione. Passano noveanni, è finita la guerra, la stessa scena si ripete quan-do tocca a Scola. È il 1948, ci sono alle porte elezio-ni politiche fondamentali per la nostra giovanissimaRepubblica, eppure in quelle stanze ci si prepara arinfocolare i lapis per prendere per il naso i potenti.Anche se sono De Gasperi, Togliatti, Nenni. Non c’èpiù la rubrica È permesso…?, perché Fellini ha cam-biato lavoro e la macchina fiammante con cui si pre-senta sotto alla sede del giornale lo testimonia. Il gio-vane Scola non ci va a vederlo, non lo conosce abba-stanza, eppure ugualmente quando inizierà a parlar-gli, dopo aver divorato per anni e anni le sue battu-te, scoprirà di essergli tanto vicino. Non bisognafidarsi troppo della memoria né delle successioni cro-nologiche per godersi questo film, occorre immerger-visi dentro e fluttuare sereni.

Per molte cose, come abbiamo detto, sono diversis-simi Scola e Fellini, così come Roma e Che strano chia-marsi Federico, si palesano, eppure quest’ultimo sem-bra in qualche modo irrimediabilmente contaminatodal precedente. Roma è stato girato dopo il Satyriconper tornare a vedere oggi quella città e raccontarlaattraverso le spesse lenti della propria facoltà immagi-

nativa. In Che strano chiamarsi Federico Roma è suifondali dipinti nel Teatro 5 di Cinecittà, cioè ancorapiù felliniana di quella del regista di Rimini o in quelviaggio impossibile che il vecchio Scola compie con ilgiovane Fellini di notte.

A osservarlo, questo sguardo all’indietro di Scola suFederico, ci si accorge che è di sè che sta parlandoattraverso le vicende dell’amico. Momento cruciale è ilracconto di quando convince Fellini a interpretarsi inC’eravamo tanto amati (1974) assieme a MarcelloMastroianni mentre stanno girando la scena della fon-tana di Trevi con la Ekberg. Si avvicina un uomo dellaproduzione, c’è un funzionario dei servizi segreti desi-deroso di salutarlo ed è sempre meglio tenersi buonicerti personaggi. Fellini stringe la mano all’uomo, ilquale però lo saluta come Rossellini, uno sgambettodegno del «Marc’Aurelio» dei tempi migliori, al qualeegli risponde con un sorrisetto consapevole della trap-pola in cui è caduto.

Ora è finito il tempo delle burle e degli sberleffi, l’ul-timo grande protagonista del cinema italiano in unastagione ineguagliabile saluta il vecchio amico di unavita, il grande Federico Fellini. Guarda il mare, l’oriz-zonte, seduto sulla sedia del regista. Sembra Federicoma non è lui, anche se bussarono alla stessa porta,tanti anni fa.

CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICOSCOLA RACCONTA FELLINI Ettore ScolaRegia: Ettore Scola. Sceneggiatura: Ettore Scola, Paola Scola, Silvia Scola. Fotografia: Luciano Tovoli. Montaggio:Raimondo Crociani. Musica: Andrea Guerra. Scenografia: Luciano Ricceri. Costumi: Massimo Cantini Parrini.Interpreti: Tommaso Lazotti (Federico Fellini giovane), Maurizio De Santis (Federico Fellini anziano), GiacomoLazotti (Ettore Scola bambino), Giulio Forges Davanzati (Ettore Scola/Scarpelli), Ernesto D’Argenio (MarcelloMastroianni), Emiliano De Martino (Ruggero Maccari), Fabio Morici (Giovanni Mosca), Andrea Salerno (Steno),Sergio Pierattini (De Bellis), Carlo Luca De Ruggieri (Alvaro De Torres), Pietro Scola Di Mambro (Attalo), MicheleRosiello (Age), Andrea Mautone (Metz), Alberto Clemente (Enrico De Seta), Sergio Rubini (il madonnaro), VittorioViviani (il narratore). Produzione: Paypermoon Srl/Palomar/Cinecittà Luce. Distribuzione: BIM/Cinecittà Luce.Durata: 93’. Origine: Italia, 2013.

Il film è un ricordo/ritratto di Federico Fellini, raccontato da Ettore Scola in occasione del ventennale della morte delgrande regista. Oltre la ricchezza del cinema di Fellini un devoto ammiratore dell’ineguagliabile Maestro rievoca il pri-vilegio di averlo frequentato ed essere stato testimone della sua ironia e delle sue riflessioni su “la vita che è una festa”.È il racconto della loro conoscenza al giornale «Marc’Aurelio» nei primi anni Cinquanta; dei loro incontri; degli amicicomuni come Maccari, Sordi, Mastroianni; delle visite “di piacere” sui set dei rispettivi film; di Cinecittà, del Teatro 5 edi altre vicinanze che hanno cementato e fatto durare nel tempo la loro amicizia. Dal suo debutto nel 1939 come giova-ne disegnatore, al suo quinto Oscar nel 1993, anno del suo settantesimo e ultimo compleanno, Federico viene ricorda-to da Ettore come un grande “Pinocchio” che per fortuna non è mai diventato “un bambino perbene”. Un film fatto diricordi, frammenti, momenti e impressioni sparse, ricostruiti e girati a Cinecittà, e alternati a materiali di repertoriod’epoca dagli archivi delle Teche Rai e dell’Istituto Luce.

(dal pressbook del film)

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Thierry de Peretti non è molto conciliante verso laCorsica, sua terra d’origine e di crescita, e i luoghicomuni attraverso cui viene descritta: belle spiagge,boschi, buoni formaggi, mentre la realtà sociale del-l’isola si è storicamente formata nella diseguaglianzae nella separazione: da una parte i francesi ricchi e ituristi, dall’altra gli immigrati “pied-noir” e arabi,accomunati dalla subalternità ma a loro volta divisida una “concorrenza” che facilita il crimine: «Nellapiccola città di Porto Vecchio», dice «che, come intutto l’estremo sud della Corsica è in preda alla spe-culazione immobiliare, si continua a costruire e aespandersi; […] a prima vista sembra un golfo para-disiaco, ma in realtà è circondata da zone paludose;[…] oggi è pulita, è diventata un luogo di sogni, masotto la sabbia c’è ancora la palude putrida che affio-ra. Sarebbe e a dire che le spiagge idilliache sono inrealtà false spiagge! Mi piace molto questa idea [ilregista insiste sull’arcaismo dell’interno che, sullacosta, si traduce spesso in anomala, cioè banditescagestione della legalità, ndr]. È molto romantica eanche un po’ inquietante».

LE MANI DI AZIZ, L’UOVO LUMINOSO, LA DISTANZA

L’inquadratura con la quale Apache (1) si apre, racco-glie i motivi del film quasi per intero: la villa di vetro benadagiata nel paesaggio, le figure di Aziz e di suo padreche raggiungono la veranda, il vento che soffia, e tuoniche rompono da lontano una solare fissità. La camerarimane a una certa distanza; una distanza simile a quel-la che il regista tenterà di stabilire o ristabilire sempre inseguito, alla ricerca del giusto punto di osservazione.

Finito il lavoro in piscina, Aziz prova a entrare nellavilla per servirsi del bagno: dall’interno della casa, vedia-mo le sue mani che premono sul vetro nel vano sforzo diaprire; abbiamo cioè il segno tangibile – poi ricorrente intutta la vicenda – di una separatezza reale ma, per viadella trasparenza, “equivoca”; una costante simbolicachiara e, come altre, usata con prosastica o descrittiva“disinvoltura”. L’incipit, insomma, crea una sorta disuperficie piatta. Non si incresperà neppure con la trage-dia perché la tragedia, se consumata fra le zone bassedella popolazione, può essere vissuta con la massima

APACHE di Thierry de Peretti

Il senso della distanzaTullio Masoni

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indifferenza anche dal punto di vista della legge e del-l’impegno dei suoi funzionari.

Apache riprende un fatto realmente successo; solo l’in-differenza diffusa spiega che sia venuto alla luce con tantoritardo e che l’inabilità dei colpevoli non sia bastata adenunciarli. In un lungo e approfondito commento su«Alias» (10 agosto 2013) Silvana Silvestri ricorda che iltermine “Apaches” serviva, nella Parigi degli anniCinquanta, a definire i teddy boys, e che i giovani diPeretti (non abbastanza efferati da fare branco e tuttaviacapaci di compiere, da “criminali-innocenti” pasoliniani,azioni di inaudita brutalità, ndr) vivono effettivamentecome in una riserva indiana. A contatto con gli altri, però;separati dall’invisibile, come ho detto poco sopra, cioè dauna ipocrisia diventata senso comune e condivisa ancheda chi la subisce. La superficie piatta, l’economia deimovimenti e la loro compostezza, la scelta di campi lun-ghi e medi per seguire anziché entrare nel dettaglio del-l’azione, sono il mezzo stilistico che il regista adotta per lanecessità di stare nella posizione dello spettatore antepo-nendo l’osservazione al giudizio e, al tempo stesso, farsicarico della mentalità dominante. Il delitto è premeditatoma, come nell’Étranger di Camus, anche gratuito, occa-sionale, tremendo perché vissuto “in superficie”.

Il senso della distanza domina i protagonisti, l’auto-re e il pubblico, anche nel gioco e nella “magia”. Sulbordo della piscina dove i giovani – Aziz e Hamzamarocchini, Jo “pied-noir” come la ragazza di Aziz,François-Jo di origine incerta, forse naturalizzato –

celebrano il loro “rito iconoclasta”, compare un grossouovo illuminato, una lampada che può galleggiare; unoggetto insolito e sorprendente che stimola, con la sualeggera e al tempo stesso corposa fisicità, nuove occa-sioni di divertimento. Ma, solo un attimo prima, rifles-sa sulla vetrata dall’interno, la lampada era apparsapiatta e scomposta: il volo di una forma astratta o unaspecie di ectoplasma. Una “magia”, anche visiva, chediverrà sinistra, uno scarto simbolico creato dal caso,ed espressivo di una sorpresa troppo sofisticata per chila scopre, di un’impotenza.

DAVANTI AL MURO

Il gruppo dei quattro ragazzi – Maryne e Pascalerestano marginali – appare etnicamente misto, o,meglio, confuso. François-Jo si proclama corso e perfi-no nazionalista, ma non è da escludere del tutto abbialontane radici nordafricane, Joe è precisamente difamiglia “pied-noir”, Aziz e Hamza sono marocchinifrustrati. Hamza, in particolare, che si tinge i capelli dibiondo, sarà l’esecutore dell’assassinio e, al tempostesso, è l’unico a manifestare un disagio religioso:«Dovremmo pregare tutti», sbotta «… e mettere il salealle porte per tenere lontano il diavolo!».

Ciò per dire che Apache è, fra le altre cose, un dram-ma laconico: di sentimenti veri quanto deboli e, guar-dando all’adolescenza, della volubilità. Di qui, allora,

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un cinismo che può farsi radicale anche nei marginidel quotidiano, come mostra esemplarmente il dialogodi François-Jo con un compagno di lavoro mentre que-sti apre il cellulare: «Hanno ammazzato uno: guarda,mi hanno appena mandato il video, lo hanno fatto apezzi – poi – che ti frega, è morto…», al che l’altro sasolo replicare: «Bella definizione, il tuo telefonino».

“Pied-noir”, naturalizzati e arabi; arabi tutti per lospazio in apparenza esiguo e invece incolmabile che,separandoli dai ricchi e dai turisti, li costringe a unastorica infelicità. Quella che, in un saggio del 2004,Samir Kassir aveva definito con queste parole:«L’infelicità araba […] è anche lo sguardo degli altri.Quello sguardo che impedisce perfino la fuga e che,sospettoso o condiscendente che sia, ti rimanda alla

tua condizione ritenuta ineluttabile, ridicolizza la tuaimpotenza, condanna a priori la tua speranza.»(L’infelicità araba, Einaudi, Torino 2006, pagg. 3 e 4).

Così è il “capo”, il patetico nazionalista François-Jo,che, senza cura del rischio ma forse consapevole di unasociale invisibilità, in pieno giorno e fra i giovani france-si danzanti attorno alla piscina, decide di entrare nellavilla e restituire la valigia coi fucili. Nessuno sembravederlo perché “non esiste” (l’osservazione è stata fatta dauna giornalista all’anteprima romana in sintonia conRossella Chiovetta della Kitchen) ma, proprio nelle ulti-me battute, dal muro impenetrabile di corpi gli vengonosguardi e gesti di allegro scherno o minaccia.

O invece quei ragazzi guardano in macchina? E per-ché il più insistente è un mulatto, cioè un giovane inte-grato, almeno storicamente, da poco? Peretti lasciaaperte varie ipotesi e non nasconde la parte avuta,nella scelta ultima, dall’improvvisazione. Accettandola chiave simbolica dell’invisibilità, aggiunge peròqualcosa: gli sguardi e i gesti che rimbalzano dal murocontro cui sbatte l’attonito sentimento di Francois-Jo– il piccolo enigma – potrebbero fungere da invito perlo spettatore: che ricominci da capo e, con meno spon-taneità, riesamini tutta la storia.

(1) Il titolo francese del film, esordio al lungometraggio di Thierry dePeretti, è Les Apaches. Il cineasta, molto impegnato come attore e inteatro, ha firmato in precedenza i corti Le jour de ma mort, dedicatoa Pasolini, e Sleepwalkers, opere nelle quali, pur mostrando interes-si di fondo coerenti, si misura con una scrittura affatto diversa daquella adottata in Apache: primi piani insistiti, macchina amano,eccetera.

APACHE Thierry de PerettiTitolo originale: Les Apaches. Regia: Therry de Peretti. Sceneggiatura: Thierry de Peretti, Benjamin Baroche. Fotografia:Hélène Louvart. Montaggio: Pauline Dairou. Musica: Cheveu. Scenografia: David Bersanetti. Costumi: Mati Diop.Interpreti: François-Joseph Culioli (François-Jo), Asis El Haddachi (Aziz), Hamza Meziani (Hamza), Joseph-MarieEbrard (Joseph), Maryne Cayon (Maryne), Andréa Brusque (Pascale), Henri-Noël Tabary (Jean-Si), Danielle Arbid(Sophie), Michel Ferracci (Bati), Hassane El Idrissi. Produzione: Igor Wojtowicz, Fabien Danesi per Ferris &Brockman/Stanley White. Distribuzione: Kitchen. Durata: 82’. Origine: Francia, 2013.

Corsica. Mentre migliaia di villeggianti occupano le spiagge, cinque adolescenti di Porto Vecchio trascinano il loroFerragosto fra discoteche, vie notturne, squallide periferie e affollati quartieri turistici. Per vincere la noia Aziz porta gliamici nella villa dove il padre lavora come custode; lui stesso, aiutante di malavoglia, aveva in giornata pulito la pisci-na per l’imminente arrivo degli agiati proprietari francesi. I ragazzi fanno il bagno, poi entrano in contrasto perché unodi loro insidia la ragazza di Aziz, bevono, si ubriacano; alla fine, incoraggiati per polemica dallo stesso Aziz, che gli altriconsiderano ospite un po’ servo e zelante, rubano qualche oggetto e uno stereo. Aziz, però, non si è accorto che due degliamici hanno trovato e portato via una valigia con fucili da collezione. Il giorno seguente i proprietari denunciano il fattonon alla polizia ma a un boss locale. I ragazzi, intanto, si comportano da sprovveduti; François-Jo tenta senza successodi vendere i fucili mentre Aziz, messo alle strette dai malavitosi, consegna la merce rubata ma non le armi. Tra i ragaz-zi del gruppo si insinua l’idea del tradimento, Aziz viene ucciso e sommariamente sepolto in un bosco. Quando François-Jo decide di riportare nella villa la valigia coi fucili una folla di ragazzi francesi sta facendo festa in piscina; nessunosembra accorgersi di lui, ma…

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I MILANESI AMMAZZANO IL SABATO?

La variabile umana è sì un giallo, ma obbedisce soloformalmente, quasi con sufficienza e indolenza, a questasorta di autoinvestitura, perseguendo senza mezzi termi-ni – crediamo – lo scopo di tradirlo, onde concedersi ilprivilegio di cercare l’essenziale tra le pieghe del nondetto, di ciò che di solito nei gialli è accessorio. Per dirlacon Wenders, che a un’operazione di decostruzione esvuotamento del giallo con L’amico americano si era concognizione di causa prestato, pur nel rispetto delle impli-cazioni profonde dell’omonimo romanzo originale diPatricia Highsmith, quello che conta o almeno interessaprioritariamente all’autore di La variabile umana è “lospazio tra i personaggi”. Detto altrimenti proprio quellaeccezionalità intimista, psicologica, domestica, in praticala “variabile umana” dichiarata dal titolo, “variabile” atutti gli effetti non indipendente, che conferma la regola.O meglio una prassi precisa. Quella che chiameremo la“costante gialla”del cinema italiano, potremmo dire daquasi un secolo quantunque spuria ed eccentrica, occa-sionale e non riconducibile a formule fisse, assimilabile aun fiume carsico che non smette mai di riaffacciarsi insuperficie, veicolando ogni sorta di progettualità. Ecco,La variabile umana di Bruno Oliviero è qualcos’altro, disicuro un oggetto agli antipodi del giallo classico, una via

di mezzo tra L’aria serena dell’Ovest di Silvio Soldini,prototipo di quella che ancora oggi si configura comeuna scuola milanese nel panorama nazionale, e la traspo-sizione cinematografica di un romanzo giallo di GiorgioScerbanenco, sempre per mantenersi in ambito milanese.E Scerbanenco sarebbe stata una via ideale, perfetta, pre-disposta per scardinare dall’interno le regole del gioco.

Viceversa, il regista e gli sceneggiatori si sono guarda-ti bene, a torto o a ragione, dall’attingere a un testo let-terario solido ed efficacemente congeniato. Hanno inven-tato di sana pianta la propria trama gialla, ne hanno con-cepito la struttura, il dispositivo a orologeria, senza perquesto ottimizzarne l’impatto spettatoriale.Spieghiamoci meglio. Sarebbe semplice, ma anche a benvedere controproducente, rimproverare al film d’esordiodi Oliviero, La variabile umana, almeno nell’ambito dellafinzione (avendo già diretto i documentari Così eravamo,Milano 55.1 – Cronaca di una settimana di passioni, MMMilano Mafia, Napoli 24), la quasi assoluta indifferenzaverso uno dei tabù fondamentali del film giallo, categoriain cui sceglie di rientrare per situazioni, personaggi ecostruzione: far capire allo spettatore praticamente dal-l’inizio chi ha davvero sparato al facoltoso notabile mila-nese, cioè la figlia dell’ispettore Monaco, adoperando lapistola d’ordinanza paterna. Il film di Oliviero del restonon compie affatto la scelta chiara e inequivocabile di

LA VARIABILE UMANA di Bruno Oliviero

La “costante gialla” Anton Giulio Mancino

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scoprire le carte da subito. Non evita il perpetuarsi con-venzionale del mistero circa l’identità dell’assassino, oper meglio dire della parziale assassina, in quanto noncompletamente responsabile del decesso di Ullrich, cuiconcorre in modo determinante la moglie ripetutamentetradita dalla vittima. Tardando apposta, per vendetta oinaffettività, non fa differenza, a chiamare i soccorsi, ladonna condanna a morte il marito. Ma ad aver sparato,con la pistole del genitore poliziotto, lo stesso cui vienechiesto di seguire le indagini, è la minorenne Linda.

Su tutto ciò il film gioca la carta della costruzione clas-sica, la strada deduttiva cosiddetta del whodonit (notaforma contratta di “who [has] don[e] it?”, cioè “chi l’hafatto?”). Opera nel modo più consueto, lasciando chepoco a poco Monaco pervenga all’insostenibile e doloro-sa verità che lo riguarda in prima persona e lo ferisce sulpiano familiare, sebbene arrivi alla verità piuttosto inritardo rispetto allo spettatore, che invece ha indovinatotutto dal principio. E forse si augura che quest’eccesso dievidenza costituisca soltanto un depistaggio. Invece no.Colei che sembra aver commesso il delitto è esattamentecolei la quale si intuisce da subito, da quando i videodelle telecamere di sorveglianza non consentono di vede-re in volto la giovane possibile assassina. Chi altra maipotrebbe essere, se non Linda, su cui gravano il distaccoma anche la crescente preoccupazione del padre, dalmomento che il film si sforza di non mostrarcela?L’indecisione se seguire la formula del giallo integral-mente, o se con gesto altrettanto marcato infischiarsene,si traduce in una persistente opacità che investe i perso-naggi, i loro sentimenti, la loro dimensione relazionale.La variabile umana, in chiave edipica, racconta la crisifamiliare che colpisce un padre, figura istituzionale, auto-

ritaria per definizione, quindi un poliziotto di mestiere, euna figlia, figura antagonista, trasgressiva, insofferentedell’autorità, un’autorità oltretutto blanda, distratta e deltutto assente sul piano materiale dei sentimenti. Linda èperciò un’assassina più o meno involontaria, la qualesparando a Ullrich con l’arma del padre commetteemblematicamente un patricidio, o almeno un tentativodi questo tipo. Il dolore di Monaco, secondo la chiaveemblematica che il film suggerisce, nasce dalla scopertanon tanto di avere per figlia un’assassina, ma la sua ine-quivocabile assassina. Che lo punisce per averla lasciatasola dopo la morte della madre, quasi di averla causatacon il suo fisiologico distacco, concentrandosi sul mestie-re di poliziotto invece che sulla famiglia. Perciò ad avercontribuito alla morte di quell’Ullrich, che rimanda aMonaco, risulta essere stata addirittura la moglie ugual-mente sola, disamorata, fredda, impenetrabile.

La variabile umana, complice un’immagine decisa-mente plumbea di Milano, è un dramma o piuttosto unatragedia familiare (quasi) sfiorata. Che per non dare trop-po nell’occhio, come film non di genere, si traveste digenere, un genere forte, predeterminato: il giallo.Contestualmente tuttavia predilige i silenzi, i vuoti, lepause, la ricercatezza delle inquadrature anziché la ricer-ca della verità. Oltretutto neanche una verità politica-mente e sociologicamente allarmante, che pure si coglietra le righe (l’uomo ucciso è uno dei maggiorenti dellacittà e forse dell’intera Nazione), ma non per questo trop-po determinante. C’è in ultima analisi nel film di Olivierola volontà di servirsi del giallo come di un viatico prezio-so per individuare, nel frattempo che la trama fa il suocorso, quand’anche poco sorvegliato, una visione perso-nale e originale del mondo e del cinema. Ed è questo il

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motivo più evidente che spinge un esordiente a trincerar-si in un giallo, così come è avvenuto in questi anni anchead autori di lungo e medio corso di aver adoperato il gial-lo per dissimulare, a seconda dei casi, crisi d’ispirazione,incertezze circa il come e il cosa rappresentare, fughedalla realtà. Magari nel disperato sforzo di afferrarla peraltra via, va da sé: attraverso il giallo.

ALL’OMBRA DEL GIALLO

Sebbene quello giallo non sia stato storicamente unodei filoni portanti del cinema italiano, almeno non quan-to la commedia, è anche vero che in epoche diverse, perragioni o secondo modalità produttive non omologabili –con le più svariate venature, politiche o noir, umoristicheo macabre, dalla denuncia all’intrattenimento, dall’in-chiesta relativa ai limiti democratici della procedurapenale vigente, in vista di un progetto di riforma, al ritrat-to di costume – l’incursione nel giallo (come genere osegreta tentazione, non di rado d’autore) non ha maismesso di offrire occasioni importanti di rispecchiamentodella realtà italiana, isolate o sistematiche. Non è certoquesta la sede per dar conto delle numerose anime chehanno attraversato il giallo cinematografico italiano. Manon si può, approfittando soprattutto dell’occasione e permolti versi del pretesto offerto dall’ultimo esemplare inordine di tempo di questo fenomeno di lunga durata, Lavariabile umana, non accorgersi della riviviscenza recen-te del giallo, come maschera consapevole e ostentata di

un orizzonte tematico e stilistico che spesso e volentieritrascende il rispetto dell’ortodossia della detection, dellesue regole elementari, della logica tradizionale a essa sot-tesa. In altre parole, dal quel che è dato capire, il giallo nelcinema italiano, con maggiore o minore convinzione, èstato adoperato come impianto di base, magari non esat-tamente appropriato ma di sicuro utile e vantaggioso,anziché essere l’obiettivo principale e di conseguenza fun-zionare in maniera adeguata. È accaduto in molti film ita-liani, spesso in quegli autori che nell’ultimo decennio sisono mossi nei paraggi del giallo (da Giuseppe Tornatore,il quale aveva già rotto gli indugi negli anni Ottanta conUna pura formalità, che sceglie la suspence e il mistero inLa sconosciuta e La migliore offerta, al coprotagonista diUna pura formalità, Sergio Rubini in La terra, o ancorada Roberta Torre in Mare nero a Carlo Mazzacurati in Lagiusta distanza, fino a Michele Placido in Il cecchino eMarco Risi in Cha Cha Cha), o – circostanza da non sot-tovalutare – in alcune opere prime (La ragazza del lago diAndrea Molaioli e, appunto, La variabile umana di BrunoOliviero). Insomma, il giallo è stato e continua a quantopare a essere un alveo collaudato all’interno del quale svi-luppare discorsi o addirittura ossessioni estremamentepersonali, che non avrebbero trovato o ancora non trove-rebbero immediata riconoscibilità. In virtù del presuntoimpatto salvifico sullo stato delle cose e le sorti progres-sivamente sempre meno esaltanti e incoraggianti in cuiversa quella che in Italia non è mai stata, seriamente,un’industria cinematografica, perennemente in cerca digeneri, ergo di normalizzazione.

LA VARIABILE UMANA Bruno OlivieroRegia: Bruno Oliviero. Soggetto: Bruno Oliviero, Valentina Cicogna. Sceneggiatura:Valentina Cicogna, Doriana Leondeff,Bruno Oliviero. Fotografia: Renaud Personnaz. Montaggio: Carlotta Cristiani. Musica: Michael Stevens. Scenografia:Silvia Nebiolo, Luigi Maresca. Costumi: Silvia Nebiolo. Interpreti: Silvio Orlando (Adriano Monaco), Giuseppe Battiston(Carlo Levi), Alice Raffaelli (Linda Monaco), Sandra Ceccarelli (la signora Ullrich), Renato Sarti (il questore), AriannaScommegna (Ruth Levi), Giorgia Senesi (Cristina), Dafne Masin (Olivia), Mao Wen (il cinese indagato), Davide Tinelli(il buttafuori interrogato), Caterina Luciani (Caterina), Luca Cerri (il ragazzo in motorino), Silvano Piccardi (il prefet-to), Paolo Grossi, Gabriele Dino Albanese (i ragazzi al posto di blocco), Francesco Palamini (il signor Ullrich), RobertaPaparella (la giornalista televisiva). Produzione: Lionello Cerri, Gabriella Manfrè per Lumière & Co./Invisibile Film/RaiCinema. Distribuzione: BIM. Durata: 83’. Origine: Italia, 2013.

Nel corso della stessa notte due avvenimenti di diversa gravità interessano la Questura milanese. L’omicidio nel suoappartamento di un noto esponente dell’alta società, il signor Ullrich, segnalato dalla telefonata della moglie, e l’arrestodi un gruppo di ragazzi intenti a sparare per gioco con una pistola d’ordinanza a barattoli e bottiglie. Tra questi c’èLinda, la figlia minorenne dell’ispettore Adriano Monaco, il quale in seguito alla morte della moglie ha scelto di restar-sene dietro una scrivania. Ed è sua la pistola usata da Linda durante la ragazzata. A Monaco, che non vuole assoluta-mente un trattamento di favore per la figlia e intende rispondere personalmente anche delle sue responsabilità relativealla pistola, è stato intanto chiesto di seguire le indagini sul delitto Ullrich, affiancando il collega Carlo Levi. Il rappor-to, già molto fragile, tra Monaco e sua figlia si incrina ulteriormente in seguito a questa vicenda che strada facendo siintreccia con il delitto Ullrich. Le verità inaspettate che Monaco scopre nel corso dell’indagine, lo porteranno a chieder-si quali scelte compiere, da genitore e da poliziotto.

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Finora non era mai accaduto che Gianni Amelio rea-lizzasse un film (destinato alle sale) dopo l’altro, adappena un anno di distanza dal precedente. Dopo letraversie produttive e le amarezze causategli da Ilprimo uomo, riuscito e sentito adattamento da Camus,ha girato L’intrepido in uno stato di grazia, costruen-dolo su misura per l’interprete, Antonio Albanese, tro-vando con lui un’intesa ideale e rinnovandola con unatroupe di collaboratori ormai affiatati (il direttore dellafotografia Luca Bigazzi, lo scenografo Giancarlo Basili,il musicista Franco Piersanti). È anche il film con cuiAmelio è ritornato a girare in Italia dopo Le chiavi dicasa (2004), anche per raccontare il presente: «È unfilm che vorrebbe respirare l’aria del tempo, ma certevolte trattiene il fiato perché l’aria è irrespirabile» (1).

Il titolo, però, richiama il passato e precisamenteuna serie di fumetti d’avventure molto popolari neglianni in cui Amelio era bambino, dove apparivano«squarci di mondi esotici che pensavo esistessero dav-vero» (2). Quella parola, carica di risonanze legate aun’altra epoca – «Intrepido era una parola difficile, cheaveva a che fare con il coraggio, l’intraprendenza, conuna sorta di fierezza leonina. E mi spaventava, la tro-vavo esagerata» – designa nel film l’attitudine coriaceae risolutamente, paradossalmente ottimista di AntonioPane, che dovrebbe essere un uomo di oggi, un picco-

lo eroe del quotidiano, obbligato dalle circostanze aun’operosità bulimica e dotato di un camaleontismodel fare che lo porta a trasformarsi, all’occorrenza, inoperaio di un cantiere edile, intrattenitore per bambi-ni in un centro commerciale, attacchino, addetto allapulizia degli stadi, bibliotecario, fattorino delle pizze adomicilio, tranviere, muratore, aiuto cuoco, pesciven-dolo, venditore di fiori, infine commesso di un negoziodi scarpe e perfino cantante.

Si definisce, non senza patetico orgoglio, un “rimpiaz-zo”, buono per tutte le ore e le stagioni, pronto a mette-re la propria eccezionale manualità e instancabile dispo-nibilità al servizio di ogni ambiente e occasione in qual-siasi lasso temporale. La sua è una professione che lecontiene tutte e quindi non corrisponde a nessuna, unasorta di precarietà all’ennesima potenza, che gli ispiral’amara risposta a un operaio: «Fortunato chi lavora per-ché almeno può scioperare». L’intrepido poliforme e poli-morfo è anche caratterizzato da una bontà inossidabile,da un altruismo straziante e in questo conferma la suamatrice zavattiniana di povero buono come il pane.

Se muta la “divisa” via via indossata nei diversiambiti lavorativi, la maschera umana di Albanese (chesi conferma un attore di notevole finezza e sobrietà), inrealtà, rimane sempre la stessa (a differenza che neifilm satirici di Giulio Manfredonia), mentre intorno a

L’INTREPIDO di Gianni Amelio

L’Italia delle scatole vuote Roberto Chiesi

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lui, in un ruolo di deuteragonista, c’è una Milano fred-da, triste e distante, spesso svelata negli spazi incom-piuti di cantieri oppure in quartieri anonimi e periferi-ci, al cui interno si scoprono interni squallidi (come lapalestra del datore di lavoro) o alienanti e freddi(come gli uffici e i negozi), mai rassicuranti. La sceltadei luoghi e la loro funzionalità evocativa è uno degliaspetti più riusciti del film, anche perché alcuni di essihanno un’incerta identità temporale, come la palestra(che ricorda Rocco e i suoi fratelli), sentina opaca efatiscente di una corruzione che sembra, anch’essa,più affondata nel passato che nel presente. Al passatofanno pensare anche i vecchi tram che percorronoMilano ma la crisi economica, continuamente citatanel film, rimanda inequivocabilmente al presente.

Intorno a questi elementi, si articola una narrazioneche purtroppo si limita a sfiorare il quadro drammati-co del nostro tempo perché ingolfata da situazioni pre-vedibili, poco convincenti o troppo generiche (laragazza borghese che non trova lavoro e finisce persuicidarsi; il figlio di Antonio, musicista di talento, ini-bito dalla sua fragilità e dal suo rigore professionale)che sono ulteriormente indebolite da alcuni dialoghidove, come scriveva lo stesso Amelio, «i personaggiparlano come gli sceneggiatori» (3).

IL PASSATO E IL PRESENTE

Il problema di L’intrepido ci sembra risiedere in un’in-certezza di fondo: Amelio voleva fare un film sul passato,sulla nostalgia di un’Italia che non esiste più (la tonalitàdella nostalgia dominava già Il primo uomo) sotto la cro-sta di un presente talmente ripugnante che non lo ispira,anzi lo respinge e per raffigurarlo deve ricorrere a figuredi repertorio (probabilmente lo squallido gestore napole-tano, incarnazione del Male che, con felice trovata, giocaa boxe da solo), cercando la sintesi in un clima surrealezavattiniano e nelle risonanze di alcune citazioni più omeno dissimulate (oltre a Rocco, anche Breakup/L’uomo dei cinque palloni di Ferreri).

Ma l’alchimia temporale fra le due dimensioni nongli è riuscita. È lo stesso disagio a misurarsi con ilnostro tempo che si può riscontrare da circa vent’anniin altri autori che una volta riuscivano a catturare ilsenso di un’epoca (per esempio, l’Ettore Scola di Lacena o Gente di Roma, l’Ermanno Olmi diCentochiodi eccetera). Il degrado del Paese è andato aldi là dell’immaginabile ed è una materia così sfuggen-te e vischiosa da diventare una trappola per tanti

cineasti dalle buone intenzioni. Il film risente anche diun’altra mancanza. A proposito di Pane, il regista hacitato in alcune occasioni ora Charlot e Keaton (cui lopuò apparentare l’incrollabile determinazione con cuicontinua la sua folle esistenza), ora due grandimaschere della commedia italiana, Sordi e Tognazzi eun film, Un eroe dei nostri tempi di Monicelli.

Ma in realtà, nonostante il talento di Albanese, il suopersonaggio non ha nulla a che vedere con questi rife-rimenti perché gli manca un connotato essenziale: lacattiveria. Charlot non mancava mai di reagire a unsopruso o alla miseria con un dispetto, uno sberleffo epoteva essere crudele (in Il monello sta addirittura pergettare il neonato nel tombino). Inoltre (soprattuttonei cortometraggi) era un seminatore di caos. Sordi eTognazzi, poi, sono state maschere straordinarie diuna commedia umana dove risaltavano anche le atti-tudini più sordide e l’antieroe del film di Monicelli eradi una viltà agli antipodi dal coraggio di Pane. Questiinfatti, non solo è di una bontà senza rancori, senzaasprezze, senza ombre ma non riesce nemmeno a pro-vare rabbia nei confronti del vecchiaccio che lo paga asinghiozzo. Neanche quando scopre che il suo loscodatore di lavoro sfrutta un traffico di bambini prosti-tuiti ai pedofili (in cui, oltretutto, è stato involontaria-mente coinvolto), non si arrabbia, non si ribella, men-

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tre proprio a proposito delle figure zavattiniane, in untesto su Miracolo a Milano (4), Amelio sottolineava«Come sa essere feroce Cesare il buono! Quanta rabbiac’è nei suoi teneri straccioni…».

Grazie ad Albanese, Pane non è mai stucchevole marimane chiuso in un’astrazione e in una programmati-cità che gli impediscono di raggiungere un reale spes-sore: è il portavoce di un discorso edificante più che unpersonaggio di carne e passioni. L’assenza di cattivisentimenti, in lui, impedisce alla narrazione di compie-re uno scatto in più, la priva di quell’energia contrad-dittoria che avrebbe potuto arricchirlo e nutrirlo.Togliendo la rabbia al suo personaggio, Amelio l’hatolta al film e all’ultimo trasformismo di Antonio, chesuona il sassofono per salvare il figlio e spingerlo ariprendere la lotta dell’esistenza, segue un suo primopiano, l’ultimo, dove sorride in macchina, che forseavrebbe voluto riecheggiare il sorriso di Cabiria nel-l’ultima inquadratura del film di Fellini. Ma quel sor-riso appariva, inatteso, dopo un’atroce disillusione vis-suta da un personaggio la cui bontà traspariva sottol’ira e l’asprezza difensiva.

In due momenti, Amelio riesce però a darci un qua-dro dell’Italia che stiamo vivendo. In parte ci riescenell’episodio del bambino che viene affidato adAntonio perché lo accompagni al parco dove sarà pre-levato da un “vecchio zio”, che in realtà è un pedofilo.Questo orrore è calato nella normalità affollata di unparco pubblico e il momento culminante dell’incontrocon l’orco è inquadrato in un campo lunghissimo.Segue poi una sequenza di vuoto e attesa, nel parco

dove corrono tranquilli i maratoneti, mentre Antonionon ha ancora capito ciò che sta succedendo.

Ma la sequenza più bella del film è probabilmentequella in cui Antonio indossa giacca e cravatta, perchéè stato impiegato come commesso in un negozio discarpe dal nuovo compagno dell’ex moglie, un riccocommerciante. Dopo giorni e giorni in cui non entranessuno (ma la cassa è misteriosamente piena di con-tanti) ecco che finalmente entra un cliente la cui misu-ra di piedi non corrisponde a quella delle scarpe inesposizione. Antonio scende sollecito nel deposito ecercando la taglia giusta fra le pile e pile di scatole,scopre che sono tutte vuote, che non contengono nean-che una scarpa. Allora Antonio decide, senza unaparola, di abbandonare il negozio e il lavoro.

L’immagine delle scatole vuote, ordinate con cura inun negozio asettico e senza vita, illuminate da unasinistra luce intermittente, è un’istantanea dell’Italiacontemporanea che, in una sintesi efficace (e senza lecadute didascaliche di altre sequenze) allude alla cata-strofe di un Paese di società fantasma o matrioske, diospedali abbandonati dopo l’inaugurazione, di specu-lazioni dai percorsi inafferrabili. Un Paese avvelenatoe mangiato dal vuoto.

(1) La fiducia, nonostante tutto, intervista a Gianni Amelio di MarcoSpagnoli, «Vivilcinema» n. 4, luglio-agosto 2013, pag. 22.(2) Gianni Amelio, Il mio intrepido sotto l’acqua, «Il Sole24 ore», 25agosto 2013.(3) Gianni Amelio, Citizen Kazan, in id., Un tram che si chiama desi-derio, Einaudi, Torino 2010, pag. 100.(4) Gianni Amelio, I poveri volano, in id., Il vizio del cinema. Vedere,amare, fare un film, Einaudi, Torino 2004, pag. 44.

L’INTREPIDO Gianni AmelioRegia e soggetto: Gianni Amelio. Sceneggiatura: Gianni Amelio e Davide Lantieri. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio:Simona Paggi. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Giancarlo Basili. Costumi: Cristina Francioni. Interpreti: AntonioAlbanese (Antonio Pane), Livia Rossi (Lucia), Gabriele Rendina (Ivo), Alfonso Santagata (il gestore della palestra),Sandra Ceccarelli (l’ex moglie). Produzione: Carlo Degli Esposti, Gianfranco Barbagallo per Palomar/RaiCinema.Distribuzione: 01. Durata: 104’. Origine: Italia, 2013.

Rimasto disoccupato a causa della crisi economica e per di più abbandonato dalla moglie, il calzolaio cinquantenneAntonio Pane non si è perso d’animo e si è riciclato come “rimpiazzo”: sostituisce, per un tempo che può ridursi a pocheore o durare giorni, qualunque categoria di lavoratore che sia malato o impossibilitato a svolgere la sua professione.Lavori e lavoretti gli sono procurati dal vecchio ed equivoco gestore di una palestra, che però lo paga con il contagoc-ce, mentre qualche aiuto gli proviene dal figlio Ivo, sassofonista di un certo talento. Antonio tenta anche la carta degliesami di Stato ma, pur essendo preparato, viene regolarmente scartato. Durante una di queste prove, aiuta una ragaz-za, Lucia, che soffre della propria condizione di precaria. Antonio la corteggia discretamente ma non riesce ad aiutarlaa vincere la depressione e un giorno scopre casualmente che si è suicidata. Quando si rende conto che il gestore dellapalestra sfrutta anche un giro di prostituzione minorile, decide di andarsene. Dopo un incontro casuale con l’ex moglie,unitasi a un uomo facoltoso, accetta di farsi aiutare da quest’ultimo che lo piazza in uno dei suoi negozi di scarpe. Maun giorno Antonio scopre che il negozio è solo un paravento…

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Truman Capote detestava senza mezzi termini JoyceCarol Oates: «She’s a joke monster who ought to bebeheaded in a public auditorium or in Shea or in afield with hundreds of thousands. To see her is to loa-the her. To read her is to absolutely vomit». Ora, si puònon essere del tutto d’accordo con Capote, ma non c’èdubbio che nella sterminata sequenza di romanzi, rac-conti, poesie e saggi prodotti da Oates dagli anniSessanta a oggi, quelli buoni sono meno dei capolavo-ri. E di certo, fra questi ultimi non può essere rubrica-to Foxfire: Confessions of a Girl Gang, a casa nostraRagazze cattive, pubblicato nel 1993 e portato unaprima volta sullo schermo nel 1996 con molti tradi-menti (per esempio, gli anni sono i Novanta, non iCinquanta), e adesso, con maggiore fedeltà, daLaurent Cantet.

Come il precedente film del regista, Foxfire raccontala storia di un gruppo di adolescenti tra disadattamen-to e adattamento problematico; questa volta, però,hors les murs. E nello studio di questo “fuori”, proba-bilmente, vanno cercati la ragione e il senso dell’ap-propriazione di Cantet, portato a suo volta lontano, inuna terra e in una lingua che non sono le sue, per inse-guire il ribellismo rosa di Maddy, Legs e le altre. Checosa può succedere a un gruppo di ragazzine che deci-dono di chiudere con la scuola, la famiglia, la religio-

ne e le buone maniere? E che si alleano tra di loro, permetà fuggendo, per metà combattendo ciò che nondesiderano? L’indagine, come in Entre le murs, è pseu-do-documentaristica; lo stimolo, più etnografico chestorico, anche se il filtro è la memoria di Maddy, nar-ratrice interna con macchina da scrivere e un buongrado di scetticismo. A Cantet interessa poco la rico-struzione del “periodo”, lasciato infatti sullo sfondo,come un dettaglio sfumato. Sta vicino alle sue ragazzecattive, ne spia le dinamiche di gruppo, guarda sboc-ciare disordinatamente il fiore di quello che sarà, di lìa poco, il secondo femminismo americano (intendendocome primo quello delle suffragette di inizio secolo). Equi sta il primo problema di un film pieno di proble-mi: le ragazze cattive, a ben vedere, valgono soprattut-to come il frutto acerbo di una storia del costume (nonsolo americano) destinata a cambiare il mondo; eppu-re, Cantet sembra più interessato alla dimensionemélo, allo studio delle dinamiche sentimentali, fino atrasformare la vicenda irrisolta di Legs in una speciedi film del film, continuamente – ma infelicemente –sedotto dal tentativo di far diventare altro il rapportotra questa e Maddy.

Così, il gioco delle ragazze cattive resta tale, ancheun po’ puerile, e le loro rivendicazioni somigliano rara-mente a qualcosa di più di una semplice reazione alle

FOXFIRE – RAGAZZE CATTIVE di Laurent Cantet

Frutti acerbi in film incompiuto Luca Malavasi

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piccole infelicità quotidiane. Il secondo, grande pro-blema di Foxfire è infatti quello di non riuscire mai asollevarsi dalla cronaca – anche un po’ noiosa – dellemalefatte di un gruppo di ragazzine confuse, governa-to da una legge priva di morale. Mai che le loro azio-ni riescano a caricarsi di un valore ulteriore; mai chele loro parole finiscano per sedimentare un senso altro.Tutto è, terribilmente, letterale; e a poco serve tritareinsieme un po’ di religione, un po’ di filosofia da stra-da (tema: la felicità che non si conosce davvero mai, senon quando la si ripensa come cosa ormai perduta),un po’ di razzismo e qualche momento familiare. Direche c’è “qualche problema di sceneggiatura” (di per sé,una valutazione critica da bar) è dir poco. Manca,piuttosto, l’ambizione (la capacità ci sarebbe tutta) difare delle ragazze cattive qualcosa di più di un gruppo

di ragazze cattive. Manca un registro, un obiettivo,un’interpretazione.

Cantet, insomma, resta fuori, lui per primo, senza mairiuscire a trasformare lo spazio disegnato da Legs e com-pagne in un luogo di rifrazione e riflessione di ciò chenon vi è ammesso. Al tempo stesso, giusto per segnalareun altro problema, la storia apparentemente istruttivadella piccola lotta parafemminista delle ragazze si riveladel tutto incapace di suggerire il destino stesso di questalotta. Cantet, come detto, sembra solo capace di chiude-re e trascrivere, via Maddy. Facendogli un favore eccessi-vo, aveva più cose da dire sul tema (donne bianche, damarito, in società repressiva e maschilista anniCinquanta) un film come Mona Lisa Smile (2003), chestava, non a caso, dentro le mura. E si ispirava, neppuretroppo sotterraneamente, a Il gruppo di Mary McCarthy,dei primi anni Sessanta ma ambientato nei Trenta, dop-piamente dentro e silenziosamente rabbioso: perché leotto ragazze del libro – quelle sì, a modo loro, davverocattive – vivevano quotidianamente ciò che Legs e lealtre rifiutano senza davvero conoscere.

Aggiungiamoci pure uno straordinario miscasting, eil risultato è un film a dir poco irrisolto, nel qualeCantet non riesce neppure a disegnare un sentimentodi maturazione: alla fine, un episodio del tutto confu-so e accessorio come il rapimento del “ricco” decide deldestino di chi aveva deciso di reagire al proprio desti-no. Le cattive ragazze restano un soggetto e un filmincompiuti. Ma neppure questa incompiutezza – che èdel femminile anni Cinquanta americano – riesce aimporsi come un valore. E, una volta tanto, un discre-to romanzo finisce per essere meglio del film.

FOXFIRE – RAGAZZE CATTIVE Laurent CantetTitolo originale: Foxfire, confessions d’un gang de filles. Regia: Laurent Cantet. Soggetto: dal romanzo Ragazze cattivedi Joyce Carol Oates. Sceneggiatura: Robin Campillo, Laurent Cantet. Fotografia: Pierre Milon. Montaggio: RobinCampillo, Sophie Reine, Stéphanie Léger, Clémence Samson. Musica: Timber Timbre. Scenografia: Franckie Diago.Costumi: Gersha Phillips. Interpreti: Raven Adamson (Legs), Katie Coseni (Maddy), Madeleine Bisson (Rita O’Hagan),Claire Mazerolle (Goldie), Rachael Nyhuus (Violet), Paige Moyles (Lana), Lindsay Rolland-Mills (VV), AlexandriaFerguson (Marsha), Chelsee Livingston (Agnès), Tamara Hope (Marianne), Rick Roberts (il signor Kellogg), BrionyGlassco (la signora Kellogg), Ali Liebert (Muriel Orvis), Gary Reineke (padre Theriault), Ron Gabriel lo zio Wirtz), IanMatthews (il signor Buttinger), James Allodi (Acey Holman), Brandon McGibbon (Ab Sadovsky). Produzione: CarolineBenjo, Julien Favre, Barbara Letellier, Carole Scotta, Simone Urdl, Jennifer Weiss per Haute et Court/The FilmFarm/Memento Films(France 2 Cinéma/Lorette Distribution. Distribuzione: Teodora. Durata: 143’. Origine:Francia/Canada, 2012.

Anni Cinquanta. Le giovani Maddy, Legs, Lana, Rita e Goldie vivono in un sobborgo operaio dello Stato di New York.Stanche di subire lo strapotere degli uomini, che le umiliano e discriminano doppiamente, in quanto donne e povere, leragazze stringono un forte sodalizio e formano una gang femminile, le Foxfire (con tanto di tatuaggio a forma di fiam-ma). Ben presto, cominciano ad agire.

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LA RELIGIOSA

Guillaume Nicloux

Titolo originale: La religieuse.Regia: Guillaume Nicloux.Soggetto: dal romanzo omonimo diDenis Diderot. Sceneggiatura:Guillaume Nicloux, JérômeBeaujour. Fotografia: Yves Cape.Montaggio: Guy Lecorne. Musica:Max Richter. Scenografia: OlivierRadot. Costumi: Anaïs Romand.Interpreti: Pauline Étienne(Suzanne Simonin), IsabelleHuppert (la Madre superiora delconvento di Saint Eutrope), LouiseBourgoin (suor Christine),Françoise Lebrun (madame deMoni), Martina Gedeck (la madredi Suzanne), Gilles Cohen (il padredi Suzanne), Agathe Bonitzer (suorThérèse), Alice de Lencquesaing(suor Ursule), Marc Barbé (padreCastella), Franços Négret (il signorManouri), Lou Castel (il barone deLasson), Pierre Nisse (il marchesede Croismare), Nicolas Jouhet (ilprete di Sainte-Marie), PascalBongard (l’arcidiacono), FabrizioRongione (padre Morante).Produzione: Benoît Quainon, M.Reza Bahar, jacques-HenriBronckart, Olivier Bronckart,Nicole Ringhut per Les Films diWorso/Belle Epoque Films/VersusProduction. Distribuzione: OfficineUbu. Durata: 114’. Origine:Francia/Germania/Belgio, 2013.

Cinquant’anni dopo lo “scandalo-so” adattamento di Rivette («Unerrore seducente», a detta del regi-sta), il romanzo di Diderot tornasul grande schermo grazie aGuillaume Nicloux, una singolarefigura di cineasta e scrittore, anno-verato in Francia tra i maggiorirappresentanti del genere neopolar.

Purtroppo i suoi film giunti inItalia – Les enfants-volants (1990),un’opera d’esordio ancora acerba,e L’eletto (2006), un pastrocchioscombinato che mischiava insiemethriller ed esoterismo d’accatto –sono considerati i meno riusciti.Tant’è: il talento scostante diNicloux ha trovato anche da noi isuoi estimatori. I quali parlano dipellicole abitate da personaggi sini-stri che si muovono in scenarimalati: film dove un senso del grot-tesco si combina con umori cupa-mente malsani, celebrando il rifiu-to di ogni accademismo.Non sorprende pertanto che l’ap-prodo a uno stile più sobrio, privodi forzature espressionistiche,abbia potuto suscitare sconcerto.Di fatto, Nicloux ha scelto qui dinon rimanere vincolato alle magliedella propria maniera, ma di cer-care una lingua nuova, capace diassecondare la dimensione univer-sale della storia, una lingua che,seguendo un’idea di classicismo,consentisse allo spettatore di oggidi ravvisare echi di attualità in unavicenda calata in un contesto stori-co da noi lontano, gravato daurgenze in apparenza diverse. Allostesso tempo, la scelta dell’austeri-tà (nessun compiaciuto voyeuri-smo nelle scene di passione omoe-rotica; nessuna intenzione di épa-ter le bourgeois) sembra obbedirea un preciso imperativo morale:assumere il rigore della messa inscena come corrispettivo stilisticodella determinazione con cui laprotagonista del film affronta lasua battaglia.Al bestiario degradato che popola-va le precedenti pellicole del regi-sta si è qui sostituita un’eroinaangelicata. La Suzanne di Niclouxpuò apparire una fanciulla fragilee vulnerabile, di quelle che faceva-no la gioia del Divin Marchese.

Invero, è una donna impavida,capace di votarsi con tutto l’esseresuo in una lotta senza quartiereper non lasciarsi stritolare dallaviolenza del convento.Quest’ultimo – uno spazio femmi-neo e presociale che evoca ladimensione carceraria – è percepi-to dalla novizia come spazio dellacoercizione fisica e psicologica: unluogo da cui è possibile solo fuggi-re (e la fuga diviene atto di affer-mazione di sé, rivendicazione dellapropria irriducibile individualità).Suzanne è rimasta un’animaincorrotta. Ha conservato unapurezza verginale che la rende unafigura aliena. Ed è proprio que-st’alterità a creare scandalo. Se ilsuo rifiuto della vita monastica èfomite di disordine, la sua inno-cenza straniera arriva a suscitaredesideri morbosi in chi, forte del-l’autorità che esercita su di lei,vorrebbe assoggettarla alle pro-prie voglie. Tutti restano turbatida Suzanne: la badessa (unaIsabelle Huppert deliziosamentesopra le righe, capace di venare ipropri isterismi di un salutareumorismo) arriva a consumarsinella bramosia di possederla; nellestesse sevizie che le infligge suorChristine si può leggere un’attra-zione mal dissimulata.

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Il film denuncia una pratica dellareligione ridotta a vuoto simula-cro. Ma Nicloux non è afflitto dafurori iconoclasti. La sua requisi-toria è rivolta contro quelle istitu-zioni (confessionali o no) che, inca-paci di accettare il diverso, sifanno complici di un sistema auto-ritario disumano. La religiosa, aconti fatti, non intende irridere lavita monastica. La cinepresa diYves Cape si muove, anzi, neglispazi conventuali a suggerire unsenso di quieta armonia. Unacalda luce naturale bagna le celle,i corridoi, i chiostri, contemplaarredi e vesti monacali, sino acomporre una serie di amorosenature morte. La stessa Suzanne,pur tra le mille traversie, conservafino alla fine la fede in Dio (e, adifferenza che in Diderot e Rivette,la sua fiducia nella Provvidenzasarà ricompensata). La disubbi-dienza nasce in lei, è vero, dal-l’aspirazione a vivere liberamentela vita vera realizzando i propribisogni femminili più profondi. Main Suzanne permane un anelito auna spiritualità autentica.Nessuna astiosa negazione delsacro, dunque, nel suo rifiuto dimonacarsi, ma una scelta dettatadall’esigenza di essere coerentecon se stessa («Non ho il bene dellavocazione», dice), contro ognioscurantismo religioso (e cultura-le) di ieri, di oggi e di sempre.

Nicola Rossello

INFANZIA CLANDESTINA Benjamín Ávila

Titolo originale: Infancia clande-stina. Regia: Benjamín Ávila.Sceneggiatura: Benjamín Ávila,

Marcelo Müller. Fotografia: IvánGierasinchuk. Montaggio: GustavoGiani. Musica: Pedro Onetto,Marta Roca. Scenografia: YamilaFontán. Costumi: Ludmila Fincic.Interpreti: Teo Gutiérrez Romero(Juan), Ernesto Alterio (lo zioBeto), Natalia Oreiro (Charo),César Troncoso (Daniel), CristinaBanegas (la nonna Amalia),Violeta Palukas (María), MayanaNeiva (Carmen), Douglas Simon(Gregorio), Candelaria Irigoyen(Victoria), Lucas García (Felipe),Lucas Zenone (Esteban), DylanEzequiel Rodríguez (Sergio),Rodrigo Romero Odriozola(Claudio), Florencia CamilaPagliaroli (Natalia), CatalinaSchneider (Paola), Joel SebastiánSerrano (Juan a sette anni), PilarVega (Victoria da piccola), FrancoDefelice (Gonzalo). Produzione:Luis Puenzo, Benjamín Ávila perHistorias Cinematográficas/Habitación 1520 Producciones/Antártida Productions/Academiade Filmes/Radio & TelevisiónArgentina. Distribuzione: GoodFilms. Durata: 112’. Origine:Argentina/Spagna/Brasile, 2011.

Una famiglia rientra a casa dopouna passeggiata serale: niente dipiù normale, verrebbe da pensare.La quiete invece si spezza dopoappena una manciata di secondi:un’auto sfreccia e sgomma, piùpistole esplodono colpi mentregrida di rabbia e di terrore squar-ciano la calma apparente dellanotte scura. Il girato, d’improvvi-so, cede il passo all’animazione:sono gli occhi e l’immaginazionedi Juan, protagonista di Infanziaclandestina, a rielaborare l’acca-duto in chiave fumettistica e per-sonalissima. Schizzi a inchiostro espruzzi di colore sono un modocreativo, forse l’unico modo possi-

bile, per sfuggire a una realtà sof-focante come quella in cui ècostretto a vivere un ragazzino sul-l’orlo di un’adolescenza assaidiversa da quelle normali, bracca-ta com’è dalle scelte e dalle opinio-ni politiche dei genitori. Entrambi, infatti, sono fieri mili-tanti nel gruppo dissidente deiMontoneros: conducono vite dadesaparecidos, ancor prima didiventarlo ufficialmente. Breveripasso per l’interrogazione di sto-ria argentina: nel 1976 la dittaturamilitare di Videla ha rovesciatocon un golpe il governo di IsabelPerón, installando un regime diterrore e repressione nei confrontidegli oppositori politici. Juan e lafamiglia, dopo il riparo sicuro diCuba, rientrano clandestinamentein Argentina con l’intenzione diricominciare a vivere nel proprio,amatissimo Paese; ma se “vivere”,per due Montoneros, è sinonimo di“lottare”, altrettanto non è per illoro figlio dodicenne, preso dallesacrosante brame delle prime gitescolastiche e delle prime cotte. È così che Infanzia clandestina sicalibra sulla sua misura e nelmetro e sessanta di Juan l’univer-

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sale si fa particolare, grazie a unosguardo che traduce la Storia (conla s maiuscola) di un Paese nellavicenda di un singolo nucleo fami-liare, anzi, di più: nell’epopea diuna singola infanzia. Lo si evincedai dettagli, potenti e insistiti, chepopolano da cima a fondo l’interapellicola: a volte sono dita che siintrecciano o labbra che si incre-spano, altre ancora è un battito diciglia o lo scrocchiare di un pop-corn sotto i denti. La visione almicroscopio della normalità diErnesto (è questo il nome con cuitutti conoscono il clandestino Juanfuori dalla porta di casa sua) fa apugni con l’enormità macroscopi-ca del pericolo e del disagio vissu-ti dalla sua famiglia, vessata dauno stato costante di allarme cheimpedisce il naturale dispiegarsidei rapporti umani fra genitori,figli e nipoti. Le uniche note di colore fra lemura ingrigite dalla paura le rega-la lo zio Beto, proiezione adultadel giovane protagonista al puntodi fondersi coi suoi sogni e diven-tare guida, sciamano, persinoangelo custode: senza di lui latenera storia d’amore diErnesto/Juan con María nonavrebbe mai potuto avere luogo. Ibatticuori hanno il pregio di ren-dere lieve l’atmosfera pesante diquesti anni di piombo sudamerica-ni; spostano un po’ la prospettiva,è vero, dando risalto all’educazio-ne sentimentale di un pischelloanziché all’educazione politica diun popolo. Ma quando i titoli dicoda, finalmente, svelano lasostanza autobiografica del filmallora ci si commuove pensando aun regista quarantenne e alle sueinfinite tribolazioni di ragazzo,perdonandogli subito il peccato diaver troppo semplificato una fettacospicua di storia, sacrificandola

sull’altare delle farfalle nello sto-maco.

Chiara Santilli

FEDELE ALLA LINEA GIOVANNI LINDO FERRETTIGermano Maccioni

Regia e sceneggiatura: GermanoMaccioni. Fotografia: MarcelloDapporto. Montaggio: WalterCavatoi, Germano Maccioni.Musica: CCCP, CSI, LorenzoEsposito Fornasari. Con: GiovanniLindo Ferretti. Produzione: IvanOlgiati, Stefania Marconi perArticolture/ Apapaja.Distribuzione: Cineteca diBologna/Articolture/Apapaja.Durata: 74’. Origine: Italia, 2013.

«A volte la gente pensa che gli arti-sti siano indisciplinati ma anche seun artista beve o fa cose di questogenere, dentro di sé ha una grandedisciplina», ha affermato Fatur,membro dei CCCP-Fedeli alla lineadal 1984 al 1990, e di questadisciplina ci parla il documentariodi Germano Maccioni su GiovanniLindo Ferretti, leader della bandsuddetta e poi delle formazioni cheda essa sono nate, CSI e PGR, e rap-presentante storico del punk ita-liano. Che non è un film musicalené una biografia del cantante emi-liano ora allevatore di cavalli, maun ritratto intimo dello stesso chene indaga la natura più profonda,di uomo, realizzato da un registache è prima di tutto un amico, unapersona che lo conosce e stimadopo aver partecipato all’esperien-za bolognese della Bottega diMusica e Comunicazione. Ed è una cosa importante, questa:

come in Roman Polanski: A FilmMemoir, ritratto toccante del regi-sta alla vigilia degli ottant’anniche ha compiuto il mese scorso(per Ferretti sono sessanta, ades-so), è un amico che gli mette ilcuore a nudo e lo fa con affetto sin-cero, come ha avuto occasione didichiarare («È un amico, gli vogliobene, quello che esce dal documen-tario è il ritratto di una bella per-sona, perché per me lo è»), tramu-tando quello che doveva essere undocumentario sul nuovo spettaco-lo del cantante, l’opera equestreSaga. Il canto dei canti, in un filmche ripercorre la vita di una perso-na che è importante per quello cheè più che per quello che ha fatto efa, per il percorso esistenziale cheha svolto e continua a svolgere,nella ricerca di un senso da dareall’esistenza e nella considerazionedi tematiche dal sapore filosoficoforte, vita, morte, malattia, natura,fede, silenzio, tempo, spiritualità,solitudine, amore, terra, radici.E qui torniamo all’inizio delnostro discorso, la disciplina cheva intesa come fedeltà a una linea,per riprendere il titolo solo appa-rentemente scontato del film, che

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non è la linea politica (filosovieti-ca) a cui facevano riferimento iCCCP né una fede/idea/ideologia dialtro tipo, ma è la propria linea, lafedeltà a se stessi nel proprio per-corso di ricerca, che è anche evolu-zione e cambiamento perché comescriveva Bréton, «L’ultima cosa chemi preoccupa è di essere coerentecon me stesso» (e del resto Ferrettiha dichiarato: «Io offro la sinceritàdel mio percorso, del resto m’im-porta poco»). Cioè coerenza non èrigidità e su quest’aspetto insistoper rispondere a chi non segue piùFerretti, pur essendo stato fanacceso delle band di cui ha fattoparte, accusandolo di aver traditola ribellione punk che incarnavacon la sua svolta recente, il ritirosull’Appennino e la “conversione”al cattolicesimo in particolare. In realtà quello recente di Ferrettiè un ritorno alle origini, alla terranatia anzi alla terra tout court, allamontagna, agli animali, agli affettiprofondi (la madre da poco scom-parsa), alla semplicità di una vitabasata su ciò che è essenziale. Ealla fede che ha sostanziato la suainfanzia e adolescenza fino allasvolta punk, fede che non è cosìimportante inquadrare in una reli-gione codificata perché è prima ditutto spiritualità vera, senso misti-co, silenzio dell’anima e delle chie-sette appenniniche come quella diSan Paolo che si vede nel film. Che si occupa innanzitutto di que-sti aspetti, solitudine silenzio con-nessione con la natura con il tuttoe con il divino che lo sostanzia,terra sangue forza arcaica e pri-mordiale degli uomini e degli ani-mali pur nella fragilità che caratte-rizza questa nostra esistenza,malattia dolore e morte ma anchemalattia come vita e ragione divita, ricerca di un’essenza anche interre più lontane e più “vere” (la

Mongolia), a partire da tre elemen-ti che possono rappresentare lecostanti dell’uomo Ferretti, l’in-quietudine che lo porta a interro-garsi sul senso, la contestazionedel sistema di pensiero di volta involta dominante e il senso dell’iro-nia e della provocazione. Con losguardo al Pasolini di Io sono unaforza del passato. E con una levitàdi tocco e una verità come sempli-cità che rendono la complessitàma anche la bellezza di questi pic-coli esseri che siamo, nel nostrospaesamento ma anche nellanostra forza, in senso pascaliano.Grazie Maccioni.

Paola Brunetta

ELYSIUM Neill Blomkamp

Titolo originale: id. Regia e sce-neggiatura: Nell Blomkamp.Fotografia: Trent Opaloch.Montaggio: Julian Clarke, LeeSmith. Musica: Ryan Amon.Scenografia: Philip Ivey. Costumi:April Ferry. Interpreti: MattDamon (Max), Jodie Foster(Delacourt), Sharlto Copley(Kruger), Alice Braga (Frey), DiegoLuna (Julio), Wagner Moura(Spider), William Fichter (JohnCarlyle), Brandon Auret (Drake),Josh Blacker (Crowe), EmmaTremblay (Matilda), Jose PabloCantillo (Sandro), Maxwell PerryCotto (Max da piccolo), ValentinaGiron (Frey da piccola), FaranTahir (il Presidente Patel), AdrianHolmes (Manuel), Jared Keeso(Rico). Produzione: SimonKinberg, Stacy Perskie per AlphaCore/Media Rights Capital/QED

International/ Simon Kinberg

Productions/Sony PicturesEntertainment. Distribu-zione:Warner Bros. Durata: 109’.Origine: USA, 2013.

Los Angeles, 2154. La Terra è unpianeta morente, senza vegetazio-ne, dove una moltitudine di esseriumani sopravvive in uno stato diprofonda indigenza e violenza. Percontro, una minuscola élite difacoltosi dalle grandi disponibilitàeconomiche, si è trasferita circon-data da ogni confort su Elysium,una enorme stazione spaziale cheruota attorno alla Terra. Un luogodove parole come vecchiaia emalattia non hanno più senso gra-zie a una tecnologia avanzatissimache preserva i suoi abitanti da ognipreoccupazione sanitaria. La sicurezza di questo eden laico,che nel nome si ispira ai paganiCampi Elisi, è garantita da undispositivo militare che lo difendedall’arrivo di indesiderati migran-ti, gestito dal ministro Delacourt,donna affascinante che adora l’ele-gante lingua francese, ma dai modiautoritari che si fondano sull’usodi una spietata violenza per man-tenere lo status quo. Un equilibriodistopico, perfetto e malato, desti-nato a saltare per l’ostinazione diMax, abile ladro di auto di origineispanica, che cerca un riscattoattraverso il lavoro per realizzare ilsuo sogno coltivato fin da ragazzi-no e condiviso con l’amica Frey,quello di vivere su Elysium appun-to. Un desiderio destinato ad avve-rarsi anche se non nel modo previ-sto e che cambierà il destino dimolti.Il regista sudafricano NeillBlomkamp all’ombra diHollywood continua il suo percor-so di un cinema politico ambienta-to in un futuro più o meno prossi-mo. Dopo il folgorante District 9,

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descrizione di un apartheid galat-tico ambientato nei luoghi ghettodell’originale sudafricano, il regi-sta con Elysium suggerisce unafantascienza distopica che ha tro-vato nuova linfa e si accoda airecenti In Time, Oblivion e AfterEarth. Un racconto affidato a una fanta-scienza hi-tech nel quale però siriflette in modo terribile e inquie-tante il nostro presente, con tutte lesue laceranti contraddizioni e disu-guaglianze, e che somiglia piuttostoa una puntata di Presa Diretta delbravo Riccardo Iacona, dove senzasoluzione di continuità troviamoricchi che senza vergogna descrivo-no i loro lussuosi ricevimenti emostrano le meravigliose dimoredotate di ogni confort, accostati aquei poveri disgraziati di migrantiapprodati a Lampedusa stremati enudi alla meta. È innegabile comunque come l’in-cisività, il cinismo, la schizofrenicarappresentazione visiva e la cru-dezza di District 9 siano stempera-te in questo film da una evidentepacatezza e conciliazione. Unannacquamento che converge inun epilogo decisamente consolato-

rio e buonista in cui si materializ-za la storiellina alla Esopo sul-l’amicizia tra l’ippopotamo e ilsuricato raccontata dalla figliolet-ta di Frey.Di certo Blomkamp con l’aiuto deisuoi collaboratori, in primo luogodel direttore della fotografia TrentOpaloch, ha costruito due visionidi mondi agli antipodi, decisamen-te straordinarie nel loro estremorealismo. Se il verdeggiante e riccoElysium trova il suo naturale set aVancouver e nei suoi sobborghi, laLos Angeles del futuro la costrui-sce nei dintorni della discarica diItzapalapa di Città del Messicodove la troupe ha davvero vissutodei giorni di riprese durissimi chehanno segnato ognuno nel profon-do a causa della assoluta povertà edegradazione ambientale che li cir-condava. Stavolta poi il regista ha dissemi-nato il film di innumerevoli cita-zioni cinematografiche che ognispettatore può divertirsi a scovarenel proprio personale bagaglio diricordi e amori cinematografici.Fosse anche per una singola imma-gine, si va in ordine alfabetico da1997: fuga da New York a Lazona, passando per i vari Aliens –Scontro finale, Brazil, Wall-e,2001: Odissea nello spazio, 2022:i sopravvissuti e Robocop, e tantialtri ancora ce ne saranno. Decisamente più interessante è illavoro che il regista ha compiutonella costruzione del suo cast.Accanto a stelle celebrate comeMatt Damon e Jodie Foster chevestono comunque panni incon-sueti per le loro carriere,Blomkamp ha costruito un castdel melting pot in cui ha riunito lefacce più interessanti del cinemasudamericano con quella del suoattore feticcio, il sudafricanoSharlto Copley.

Alice Braga, Diego Luna, WagnerMoura e il già citato SharltoCopley, costruiscono quindi uncredibile cast dal sud del mondoche troverà nel prossimo futurosempre più spazio a Hollywood.Davvero straordinario il lavorofatto sul timido e impacciatoCopley di District 9 che qui inveceinterpreta il ruolo di un mercena-rio assolutamente privo di ogniscrupolo etico/morale e fisiogno-micamente brutto, sporco e davve-ro cattivo, quasi irriconoscibile.

Fabrizio Liberti

IL MONDO DI ARTHUR NEWMAN

Dante Ariola

Titolo originale: Arthur Newman.Regia: Dante Ariola. Sceneggiatura:Becky Johnston. Fotografia: EduardGrau, Paula Huidobro. Montaggio:Olivier Bugge Coutté. Musica: NickUrata. Scenografia: ChristopherGlass. Costumi: Nancy Steiner.Interpreti: Colin Firth (WallaceAvery/Arthur Newman), EmilyBlunt (Michaela “Mike”Fitzgerlad/Charlotte Fitzgerald),Anne Heche (Mina Crawley),Sterling Beaumont (Grant Wells),Kristin Lehman (Mary Alice Wells),David Andrews (ChuckWilloughby), M. Emmet Wlash(Zazek), Autumn Dial (Charyl),Nicole LaLiberte (Sarah), DeanChekvala (Trevor), Steve Coulter(Owen Hadley), Sharon Morris(l’impiegata al collocamento), PeterJurasik (l’autista dell’autobus),Lucas Hedges (Kevin Avery),Anthony Reynolds (il ranger),Michael Beasley (il poliziotto),

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Phillip Troy Linger (Fuller Wells),Natalia Volkodaeva (LudmillaHadley), L. Warren Young (lo scerif-fo Johnson), Jason Benjamin(l’agente Clark), Devon Woods(Janie). Produzione: BeckyJohnston, Mac Cappuccino, BrianOliver, Alisa Tager, StefanSonnenfeld per VertebraFilms/Cross Creek Pictures.Distribuzione: Videa. Durata: 101’.Origine: USA, 2012.

Esordio alla regia del regista pubbli-citario Dante Ariola, Il mondo diArthur Newman è una commediaromantica che ruota intorno al temadi una crisi di mezza età. Il cinquan-tenne Wallace Avery, rimasto senzalavoro, divorziato e con un figlioadolescente che lo ignora, decide difare tabula rasa della sua vita.Facendosi credere morto, Averyassume le false generalità di ArthurNewman, non un nome qualsiasima, come da precisa richiesta, unapersona reale prematuramentescomparsa. Lo aspetta una secondachance come insegnante di golf,sport in cui eccelleva in passatoprima di interrompere la sua carrie-ra di professionista per un crollomentale.

Fin troppo facile per noi italiani ilriferimento al pirandelliano MattiaPascal; invece il più bel personaggiodel film deve ancora arrivare. Ariolae la sua sceneggiatrice BeckyJohnston (Il principe delle maree;Sette anni in Tibet) rimpolpano lanarrazione rilanciando nell’intreccioun’altra identità in crisi. Entra cosìin gioco la coprotagonista femmini-le Mike Fitzgerald, con una sorellagemella internata in un ospedalepsichiatrico, della quale usa docu-menti e nome proprio, insieme adaltri pseudonimi, tra cui quello diElda, la spregiudicata moglie delloscrittore di Il grande Gatsby. ComeElda, infatti, Mike si distingue dasubito per i suoi atteggiamenti anti-convenzionali e per un linguaggioschietto e disinibito. Finita in ospedale per un’overdosedi sciroppo per la tosse, Mike sidefinisce una bomba genetica aorologeria a causa della schizofre-nia della madre e della sorella, ed èlei a trascinare Wallace-Newman inavventure fuori dall’ordinario. Nelloro viaggio, i due entrano in casemomentaneamente vuote, dormonoin letti di estranei, indossano i lorovestiti, mangiano il cibo che trova-no nel frigorifero. In attesa di rag-giungere la vita che finalmentedesiderano, è come se Arthur eMike si affacciassero a sbirciare levite degli altri, rubandone fram-menti e brevi istanti, simbolica-mente rappresentati dagli oggettisenza valore che la ragazza accu-mula nel proprio zainetto.L’opera prima di Dante Ariola, seda un lato non brilla per originali-tà, dall’altro afferma una sorta dicontinuità, per così dire, con unatematica sviluppata nei lavori piùbrevi e persino nei film pubblicita-ri: l’atto della scelta, come momen-to decisivo per la propria vita. Bastiguardare Parallels, uno tra i suoi

spot più riusciti, girato per il whi-skey Jim Bean nel 2011, doveWilliam Defoe interpreta di voltain volta vari personaggi spiegandocome ciascuna persona diventaquello che è, in base alle scelte chefa. Vincente, perdente, c’è unmomento in cui tutto può esserecambiato e portarci in un’altradirezione. Proprio come tenta difare Avery. Ma, come insegna Francis ScottFitzgerald in Il grande Gatsby, nonsi può sfuggire al proprio vissuto:«Così continuiamo a remare, bar-che contro corrente, risospintisenza posa nel passato». Perciò,quando Newman scopre che Mikeha nascosto anche il portafogliosottratto a un moribondo, impe-dendone l’identificazione, capisceche il viaggio è giunto al termine.Bisogna tornare e rimettere a postoi pezzi del puzzle. Tessere che inqualche modo Avery trova giàricomposte senza far troppa fatica,perché la lontananza e la distanzahanno accentuato i rimpianti per lasua mancanza e gli predispongonouna benevola accoglienza.

Tina Porcelli

MOOD INDIGO LA SCHIUMA DEI GIORNIMichel Gondry

Titolo originale: L’écume des jours.Regia: Michel Gondry. Soggetto:dal romanzo La schiuma dei giornidi Boris Vian. Sceneggiatura:Michel Gondry, Luc Bossi.Fotografia: Christophe Meaucarne.Montaggio: Marie-CharlotteMoreau. Musica: Étienne Charry.Scenografia: Stéphane Rozenbaum.Costumi: Florence Fontaine.

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Interpreti: Romain Duris (Colin),Audrey Tautou (Chloé), GadElmaleh (Chick), Omar Sy(Nicolas), Aïssa Mäiga (Alise),Charlotte Le Bon (Isis), SachaBourdo (Mouse), Philippe Torreton(Jean-Sol Partre), Vincent Rottiers(il sacerdote), Laurent Lafitte(l’amministratore societario),Natacha Régnier (la venditrice dirimedi), Zinedine Soualem (il diret-tore della fabbrica di armi), AlainChabat (Jules Gouffé), MarinaRozenman (la duchessa diBovouard), Michel Gondry (il dot-tor Mangemanche). Produzione:Luc Bossi, Genevieve Lemal,Arlette Zylberberg per BrioFilms/Studio Canal/France 2Cinéma/Hérodiade/Scope. Distri-buzione: Koch. Durata: 125’.Origine: Francia, 2013.

Michel Gondry, da bravo videoarti-sta e mago dei videoclip, si è inven-tato negli anni il proprio concettodi messa in scena: si serve dellamateria più plastica del cinema, lascenografia, come base fondanteper costruire tutto il resto. Quelloche si avverte come tangibile,vedendo le sue opere, è un instan-

cabile, pregevole, articolatissimolavoro nella realizzazione dellosfondo: un crogiolo brulicante dioggetti più o meno animati che lot-tano senza stregua per assurgere alruolo di protagonisti, riuscendociquasi sempre. Quelli che sulla cartasono i personaggi principali, inve-ce, si trovano confinati nelle retro-vie, costretti a recitare come pappa-galli la loro parte, scatenati neimovimenti giusto per ricavarsi unospazio e disegnare una traiettoria,trovando pace solo quando, per unmotivo o per un altro, entrano incomunione con il contesto. Questoè il cinema di Michel Gondry dopoSe mi lasci ti cancello, naturalmen-te, dove il lavoro sulla sceneggiatu-ra di Charlie Kaufman aveva smus-sato quel tanto che basta la sua viscreativa così debordante, riuscendoanzi a fare di essa un’alleata effica-ce nell’esposizione, seppur fram-mentaria ed ellittica per sua stessanatura, del racconto.In Mood Indigo – La schiuma deigiorni Gondry parte dal romanzoche Boris Vian pubblicò nel 1947,un’opera insolita per l’epoca, sur-realista e formalmente anarchica, erealizza un film che, nell’intento diessere fedele al testo e al suo imma-ginario senza però tradire quellodel regista, finisce per ripiegarsi suse stesso come un pezzo di cartaessiccato dal sole. Claude, estetabohémien senza problemi di dena-ro, vive insieme a Nicolas, il suodomestico di colore ossessionatodalla cucina, e un piccolo topolinoantropomorfo e pretestuoso in unabizzarra abitazione ricavata daalcuni vagoni del metro. Il suomigliore amico, Chick, nutre unapassione insalubre nei confrontidello scrittore e filosofo diversa-mente strabico Jean-Sol Partre chelo spinge a dilapidare tutti i suoiaveri per comprare qualsiasi

ristampa esistente dei libri dell’au-tore. Sullo sfondo vi è una Parigistralunata governata dal caso e damotori di ricerca a manovella.Come in ogni storia che si rispetti,Claude ha bisogno della sua Eva, eincontra Chloé, carina ed entusia-sta, oltre che destinata ad amma-larsi mortalmente subito dopo ilmatrimonio. Se la prima parte del film è domi-nata dal colore e dai toni da nuovaoggettività tipici dello stile diGondry (una sorta di Walt Disneyradical chic rimasto chiuso in unnegozio di falso vintage), la secon-da parte si trascina in un’atmosfe-ra cupa e soffocante degna di TimBurton, le superfici si ricoprono diragnatele e sporcizia, gli spazi sirestringono, la speranza svanisce.È il dramma, che entra senza pre-avviso, e si porta via tutto, azzeran-do gli intenti, acuendo ancora dipiù i toni già eccessivi di quello chec’era prima: un entusiasmo pococredibile, reazioni smodate, diva-gazioni nel balletto in chiave jazzcon tanto di allungamento arti stileMuppets. Quello che c’era di meta-forico e suggestivo nel romanzo diVian rimane appeso alla suapenna, e diventa, nel film diGondry, fumetto.I personaggi, nonostante l’innega-bile bravura degli interpreti, hannotutti gli occhi spalancati, dall’inizioalla fine. Sono come marionettebuffe congelate nella loro assenzadi profondità, una condizione tra-gica che nemmeno l’irruzione deltradimento e della morte riesce adapprofondire. Sono tutti movimen-ti a vuoto come quelli di Claude,nelle acque del fiume, che nel fina-le si presta, malleabile, a imperso-nare la citazione da L’Atalante diJean Vigo.

Elisa Baldini

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IN TRANCE Danny Boyle

Titolo originale: Trance. Regia:Danny Boyle. Soggetto: JoeAhearne. Sceneggiatura: JoeAhearne, John Hodge. Fotografia:Anthony Dod Mantle. Montaggio:Jon Harris. Musica: Rick Smith.Scenografia: Mark Tildesley.Costumi: Suttirat Anne Larlarb.Interpreti: James McAvoy (Simon),Vincent Cassel (Franck), RosarioDawson (Elizabeth), Danny Sapani(Nate), Matt Cross (Dominic),Wahab Sheikh (Riz), MarkPoltimore (Francis Lemaître),Tuppence Middleton (la donna nel-l’auto blu), Simon Kunz (il chirur-go), Vincent Montuel (il cameriere),Jai Rajani (il posteggiatore),Gursharan Chaggar (il postino),Spencer Wilding (il ladro degli anniSessanta), Edward Rising (il bandi-tore d’asta degli anni Sessanta),Seelan Gunaseelan (il dottor K.Rahi), Michael Shaeffer, TonyJayawardena (gli addetti alla sicu-rezza). Produzione: Danny Boyle,Christian Colson per Cloud EightFilms/Decibel Films. Distribuzione:20th Century Fox. Durata: 101’.Origine: Gran Bretagna, 2013.

Il bel giovine Simon lavora in unacasa d’aste londinese e dietro la fac-

ciata operosa nasconde alcuni segre-ti. Franck è un sanguigno banditofrancese in trasferta che vorrebbemettere a segno il colpo della vitatrafugando un rarissimo dipinto.Elizabeth traffica corpo a corpo coni ricordi e le paure dei nevrotici nelsuo prestigioso studio di ipnoterapi-sta. Un piano criminale smagliato lifarà incontrare e scontrare in untriangolo che sgretolerà la regola disicurezza secondo cui “nessunaopera d’arte vale una vita umana”. Viene da chiedersi cosa abbia spin-to Danny Boyle ad affrontare unsoggetto scivoloso come quello di Intrance: probabilmente la curiositàdi manovrare un genere ancora ine-splorato dopo aver prodotto com-medie nere (Piccoli omicidi traamici e Trainspotting), fantascienza(28 giorni dopo e Sunshine), fiabesociali (Millions e The Millionaire)e l’immancabile film “tratto da unastoria vera” (127 ore). Le ambizionidel progetto sulla carta appaionoconsiderevoli. C’è veramente tantacarne al fuoco in questa chiassosasarabanda firmata dall’ex provoca-tore originario di Manchester: ilsesso e l’arte, la consapevolezza el’oblio, la violenza e il sotterfugio, ilpresente e il passato danzano abraccetto in un meccanismo intri-gante che per reggere fino al novan-tesimo minuto dovrebbe essere olia-to in ogni minuscolo dettagliomisterioso. L’attacco cattura agilmente l’atten-zione con un blocco action ambien-tato nelle sfarzose sale del Victoriaand Albert Museum: la voce off diSimon, il bombardamento di framee la rapida alternanza di situazioniilludono il pubblico sulla probabili-tà di andare incontro a un sostenutothriller senza tregua. Giunti circaalla metà del tortuoso camminopurtroppo le ottimistiche previsionivengono frustrate seccamente e il

generoso sforzo del cast non riesce amascherare un andamento incautoche enumera pacchianerie, inqua-drature splatter a casaccio e twistcarpiati con avvitamento oltre lasoglia di incredulità più ben dispo-sta.Boyle paga lo scotto di visualizzarein modo goffo una materia oscurache forse sarebbe stato saggiolasciare alla parola e al regno delfuori campo, mutando così un’inda-gine psicologica nei meandri dellamente in una baracconata implausi-bile dove le visioni ipnotiche simaterializzano a portata di clic sulpalmare. Simbolo manifesto di que-sto sfasamento registico potrebbeessere l’insistenza puerile della mdpsulla vulva tosata della Dawson(paragonata addirittura alla MayaDesnuda di Goya!): una scelta chevorrebbe magari “scandalizzare iborghesi” mentre al contrario depo-tenzia la tensione erotica scadendonel comico involontario da softcorevia digitale terrestre. Meglio sorvolare sulla strizzatad’occhio alle problematiche di gene-re con la proposta di una soluzionealquanto peculiare per combatterele persecuzioni degli stalkers. Dannoil colpo di grazia all’insieme gli sti-lemi da shooter del Nostro che inquesto caso stancano rapidamente:una fotografia spottistica in balia disfocature e luci colorate che fannotanto arty; il montaggio forzatamen-te spezzettato; le ritmiche tecno adistesa per gonfiare invano lasuspence allo stremo. Si comprendeil V.M. 14 del “visto censura” italia-no, ma i destinatari più ricettivi diIn trance potrebbero essere propriogli adolescenti dopati di MTV, cheincontrerebbero una piccante diva-gazione sui terreni del videoclip sur-riscaldato a loro congeniale.

Giacomo Conti

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C’è da rimanere esterrefatti di fronte a certe cose lettesui giornali durante la Mostra di Venezia, rea di averattentato al buonumore dello spettatore e al suo dirittoa un cinema potabile possibilmente ottimista. Era tuttoun fiorire di “troppismi” (o di tropismi, in senso biologi-co, reazioni di pelle, di gusto): «Troppo cupo», «Troppoviolento», «Troppo difficile», «Troppo noioso». Quasinessun tentativo di chiedersi qual è il ruolo di un festi-val come questo (ancora? sì, ancora) in tempi come inostri, in cui il cinema si è “disincarnato” (liberandosidal corpo-sala e dalla pellicola-carne) esplodendo intante direzioni e possibilità (compreso il feticismo dellasala, perché no?); in cui il “sentimento dell’epoca” parladi brutalità, solitudine, bisogno di redenzione-palinge-nesi (di credere ancora che ce ne siano); in cui anche ilcinema mainstream cerca confusamente strade alterna-tive (produzioni spurie, semi-indipendenti) per nonaffogare nelle sabbie mobili del film clone, di un gigan-tismo sempre più rischioso, ma anche del cinema confe-zionato per target.

A noi Venezia 2013 è piaciuta. Più o meno per gli stes-si motivi per cui non è piaciuta ad alcuni commentatori:per gli ibridi e le contaminazioni felici, gli oggetti (cine-matografici) non identificati, il “cinema del reale” chemente per essere più vero oppure che aderisce completa-mente alla realtà quasi annullandosi come cinema, i filmrigorosi, impietosi, feroci, affiancati ai blockbuster d’au-tore e ai campioni del cinema classico (un genere, ormai,

più che uno stile) che manipolano lacrime e risate conformidabile faccia tosta.

Ma prima di entrare nei dettagli, parliamo di numeri. Ilnostro gioco dei voti (giocato da 18 critici cinematografi-ci) parla chiaro: in Concorso ci sono punte clamorosecome il 4,5 a Stray Dogs di Tsai Ming Liang (ricordiamoche il massimo è 5 e 3 la sufficienza) o il 3,9 al film diPhilip Gröning, ma anche il 3,8 a Frears, il 3,6 a Dolan eGarrel, il 3,5 a Morris. Se aggiungiamo altri 9 film intor-no alla soglia del 3, abbiamo la fotografia di un’annatanotevole, soprattutto dopo un’edizione di Cannes chesembrava aver fatto piazza pulita di tutto ciò che di appe-tibile c’era in circolazione. Altri voti eccellenti li troviamonel Fuori Concorso, vedi il 4,6 a Edgar Reitz e il 4,3 aWiseman e Miguel Gomes, il 4 a Wang Bing e il 3,7 aSteven Knight, fino al 3,5 di Gravity. Non sorprende,invece, che ci sia poco da segnalare sul fronte Orizzonti:l’anno scorso qui c’era il meglio del Festival, gli azzardi,le scoperte, i documentari, che invece stavolta hanno con-quistato il posto d’onore in competizione. Si sono fattinotare quasi solo Uberto Pasolini (4) e Shahram Mokri(4). Quanto alle rassegne parallele, meglio la Settimanadella Critica rispetto alle Giornate degli Autori.

Per il resto, vale la pena ribadire ciò che abbiamo giàscritto dal Lido. Il dio del cinema (con la laica complici-tà dei selezionatori) ci ha fatto trovare un programma incui si passava dall’oltrecinema di Tsai Min-liang, fisso,contemplativo, ultraterreno (così dentro i corpi e le cose

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Felici contaminazioniFabrizio Tassi

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da riuscire a intravvedere l’invisibile) al cinema a orolo-geria di Stephen Frears, con la sua semplicità appassio-nante e intelligente; dall’esibizione di violenza irredimi-bile di Alexandros Avranas alla camminata nel desertoaustraliano, col cuore in mano e i capelli al vento, di JohnCurran (cinema per famiglie? Perché no?); dal film diGröning che frammenta la realtà, evoca, nasconde, rive-la, suggerisce, fino a far esplodere la verità drammaticadella violenza famigliare (tutto di testa) al Joe di DavidGordon Green, così risaputo nel clima, i temi, la trama,nella costruzione dell’eroe maledetto, eppure a suo modopotente (tutto di stomaco).

Certo, per riuscire a vedere davvero e godere un filmcome Tom à la ferme, non ci si può accontentare di farnelo spelling tecnico (fotografia ok, trama così così, mon-taggio disordinato), te lo devi sentire addosso, ne deviapprezzare i guizzi irrazionali e l’umorismo nero, e chi sene frega se non sai bene dove sta andando e perché, cisono immagini, idee, volti che sono cinema al quadrato.

Per apprezzare un film come quello di Miyazaki biso-gna aver abitato a lungo i suoi mondi e capire che sitratta di un malinconico commiato, del racconto auto-biografico di un vecchio sognatore che per tutta la vitaha lottato con la materia per trasformare le sue visioniin realtà (animata).

Per capire il reale valore del Sacro Gra (se uno proprionon vuole accontentarsi di goderselo, di lasciarsi iniziareal mistero buffo del Grande Raccordo Anulare), bisognaliberarsi dalle paturnie su come dovrebbe essere la real-tà perché sia davvero reale. Perché qui la realtà è pro-vocata e messa in scena, è abitata e poi ricostruita, e noipossiamo vedere cose, luoghi, personaggi reali e insiemel’atto di guardarli, in un “documentario” (ahah) che èquasi una commedia all’italiana, ne ha l’amarezza, l’ar-guzia e anche la tenerezza (lirica).

Il bello, parlando di non-fiction, è che nella stessa edi-zione c’era un film come quello di Errol Morris, che inve-ce di mettersi a fare le pulci al cattivo Donald Rumsfeld,invece di lanciarsi in un banale esercizio di controinfor-mazione, lo incontra, lo lascia parlare, ne misura le paro-le e le definizioni, lascia che si difenda e si confonda, con-segnandoci un ritratto complesso e ambiguo. Ancora piùbello è che, all’opposto, sia stato possibile vedere il nuovofilm di Wiseman, che se ne sta lì ad ascoltare le lezioni diBerkeley, le discussioni sul futuro della scuola pubblica,le riflessioni di studenti e insegnanti, con un’ostinazionee un’umiltà che annullano il mezzo, anzi, che ne esaltanoil potere di aderire completamente alla realtà.

Poi, certo, possiamo anche notare che Parkland eradeludente e anche Under the Skin, che da KellyReichardt ci saremmo aspettati di più, che Amelio hasbagliato tutto, che Piccola Patria (su cui si scommette-va molto) si è rivelato un film troppo manicheo e pro-grammatico. Ma questo fa parte del “gioco” del festival edelle diverse sensibilità critiche. Ne fanno parte anchel’ottima scelta del film d’apertura (che bella sorpresaGravity!), l’interessantissimo Locke, quel gioiello che èRedemption di Gomes o il solenne film fiume di Reitz.

Cosa possiamo chiedere, oggi, a un festival come quel-lo di Venezia se non di testimoniare la complessità e aprir-si alle contraddizioni del cinema contemporaneo? Difotografare, per quanto possibile, lo “spirito del tempo”?Di lasciarsi incuriosire da questo confondersi di generi ecategorie, estremi paradossali, cinema che omaggia il pas-sato mentre cerca un futuro possibile? Di mostrare ciòche altrimenti sarebbe difficile vedere? (troppo banale? Ilproblema è che poi certi film non arrivano in sala e searrivano il pubblico li respinge? Ma allora la questionesta da un’altra parte, si chiama distribuzione, coraggio diinvestire in canali alternativi, si chiama educazione, cul-tura e funzione della critica, sulla carta e online).

Se la Mostra di Venezia avrà il coraggio di proseguirein questa direzione – al di là del fattore casualità, perchéci sono sempre annate buone e annate cattive – noi sare-mo qui e online a sostenerla.

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Nella lingua degli indios dell’Amazzonia esiste unaparola che significa all’incirca “la freccia alla fine deltempo”. Jacob Simon, il protagonista della quartapuntata di Heimat (quinta, se si considerano anche iframmenti di Heimat-Fragmente: Die Frauen, 2006),quella freccia la insegue, la afferra e la rilancia, perritrovarsi ogni volta daccapo, solo al mondo e appaga-to dall’unica sensazione che nella sua ignavia sa vive-re fino in fondo, il “respiro della madre”. Che poisarebbe il primo heimat a cui tornare, vale a dire illuogo natio, la casa, la Patria, in un passaggio dalladimensione privata a quella collettiva e storica nelquale è racchiuso il senso dell’intera saga di Reitz.Come Jacob stesso, d’altronde, lo stesso regista tede-sco con questo suo nuovo, un po’ meno fluviale capo-lavoro (“solo” quattro ore) torna all’unico mondo cine-matografico che dall’inizio degli anni Ottanta ha sapu-to vivere e coltivare, come terra da lavorare, sudare ecoltivare ancora, ricominciando ogni volta da capo ilciclo della vita.In questa nuova puntata di Heimat la freccia deltempo si è piegata all’indietro e la storia è ricomincia-ta. Siamo nell’Hunsrück prussiano tra il 1842 e il1844, in un mondo di contadini e artigiani che lotta-no contro la miseria, in cui l’unica soluzione è la par-tenza verso il Brasile, l’abbandono della propria terraverso un nuovo luogo dove ricreare il ventre materno.Jacob è un intellettuale sognatore, un visionario che difronte alle carovane di povera gente pronta a partire,studia la lingua delle popolazioniindigene, si appropria con l’im-maginazione di un altro mondo,ricrea nella sua testa un’altraPatria e la trasforma nell’altrovedi cui l’Occidente ha ancora oggibisogno per sopravvivere a sestesso. Jacob, però, nonostanteReitz ne faccia l’unico protagoni-sta del suo affresco ottocentesco,è una figura passiva: sogna quelloche gli altri fanno, nella sua igna-via si nega al mondo, la Storia glipassa davanti, gli ruba le idee, loimprigiona, lo travolge, e lui ognivolta si rialza, si appende a testa

in giù e vive il “suo” mondo. O meglio lo immagina, loreinventa, così come ancora lo stesso Reitz ricrea ilsuo racconto in un passato lontano, in un tempo nonstorico ma ancestrale, e così facendo permette alla suasaga e al suo stesso cinema di ricominciare. La reinvenzione della realtà sta negli occhi chiusi eppu-re aperti di Jacob, nelle potenzialità infinite di unsognatore e di un autore, Reitz, che a costo di simboli-smi forse eccessivi trova il passo classico e commoven-te di un cinema che trasfigura la realtà in poesia. Dieandere Heimat, cioè l’altra Heimat, è un dramma fami-liare sobrio e fluviale, sognante e svagato, illuminato daun bianco e nero splendido, plastico e insieme naturali-sta; soprattutto, è un film di grandi momenti – il primoincontro tra Jacob e le due contadinelle, la scene dellavendemmia, la festa della composta – e di oggetti, par-ticolari e immagini trasformate in correlativi oggettivi.Primo fra tutti l’albero di campagna sotto il qualeJacob porta la madre in punto di morte per farle vede-re ciò che si vede dalla loro terra. «Da qui puoi vedereil mondo intero», le dice, e l’inquadratura stacca su unpanorama di colline che invadono l’orizzonte e non per-mettono all’occhio di spaziare. Ma nel tempo e nellospazio ancestrali di Reitz, Jacob e la madre sembranoper davvero vedere il mondo: lo sognano, lo immagina-no e l’albero sopra le loro teste ne raccoglie i pensieri,conservandoli fra i rami nodosi.

Roberto Manassero (Fuori concorso)

DIE ANDERE HEIMAT CRONIK EINER SEHNSUCHT di Edgar Reitz

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Dopo il funerale del cinema messo in scena con Visage(2009), film che celebrava la morte della Settima artecome morte dell’arte tutta, come impossibilità di trovaresalvezza tanto nell’esperienza della visione quanto nel-l’atto creativo, Tsai Ming-liang, a dispetto di quanto tra-pelato sulla sua presunta intenzione di smettere con ilmestiere di regista, torna con un film che è, ancora unavolta, la celebrazione di un funerale. Questa volta perònon si tratta di consacrare un gesto, un’azione oun’espressione artistica, bensì di rivolgersi direttamenteal significato dell’esistenza e, in particolare, all’uomo.Jiaoyou è un film sull’annientamento e sulla sconsolanteconstatazione della fragilità della vita. Certo non è uncinema facile quello del regista taiwanese, non è di imme-diata accessibilità e forse non è nemmeno per tutti.Eppure è un cinema essenziale, puro, totale. Un cinemafatto di elementi primari e costruito senza nessun filtroartificiale, senza imbrogli visivi e senza pudore alcuno.Spesso ci si inganna a discutere di lentezza e di duratamentre ciò che più importa, quando si parla dell’arte diTsai Ming-liang, è la visione intesa come atto del guar-dare, perché il suo cinema altro non chiede che di essereguardato, scrutato e percepito così com’è.La storia di Jiaoyou è quella di un uomo che, senza fissadimora e con due figli piccoli, conduce un’esistenza mise-ra e infelice nella periferia di Taipei. Il protagonista è unindividuo che tenta in ogni modo di annullare la propriavolontà di essere e di esistere. La parabola di cui si rendeinterprete è in fondo una ricerca umana e spirituale dellamorte intesa come atto di discernimento, di presa dicoscienza e di avvertimento della fine. Persino il lavorodegradante e avvilente al quale è costretto, quello di astadi sostegno umana per cartelli pubblicitari – tocco attra-verso il quale Tsai dice la sua, a modo suo, sulla crisi glo-bale e sulla mancanza del lavoro – sembra quasi tenerloancorato alla realtà e a una condizione di esistenza for-zata. Per questo decide di rinunciare anche a tale picco-lo e deprimente contatto con il mondo, per questo deci-de di isolarsi dal mondo dei “vivi” e per questo sceglie,forse inconsapevolmente, di rifugiarsi in una sorta didimensione onirica e filtrata dai ricordi. Ma è qui, in que-sta condizione di estraneità, che egli capisce quanto l’an-nientamento verso il quale punta sia una chimera irrag-giungibile, un rimedio inattuabile. Questa dolente presadi coscienza ci è mostrata nella lotta penosa e selvaggia

che egli ingaggia con un grosso cavolo cui la figliolettaha, per gioco, attribuito sembianze umane. L’uomo tentadi divorarlo, di distruggerlo, di sopprimerlo.Nell’interminabile piano sequenza che spacca in due ilfilm e che per via di una natura vagamente grottescastrappa qualche ingenua risata, l’uomo capisce che nonpuò avere la meglio nemmeno su qualcosa di insignifi-cante e piccolo come quel cavolo. E mentre egli si avver-te dell’inefficacia della propria condotta autodistruttiva,il regista comincia lentamente a tramutare il propriosguardo funereo sul destino dell’individuo in un senti-mento di esile speranza. L’apparizione di una donnamisteriosa che è madre, amante, sorella, compagna e cheha la capacità di risvegliare istinti vitali, sprigiona forzeinsopprimibili e inarrestabili: come la pioggia che comin-cia a cadere copiosa dal cielo e l’acqua che si insinuadappertutto. È Lei che concede di sperare nonostante la disperazione,è Lei che, musa, apre uno spiraglio di luce nella nerissi-ma e cupa esistenza del protagonista. Attraverso Lei,senza che ce ne rendiamo conto, Tsai ci invita a osserva-re, ancora una volta, il potere dell’arte (e del cinema)venire in soccorso dell’uomo. Così come nella parte ini-ziale il protagonista, immobile a reggere un cartello neltraffico della piovosa Taipei, trovava la propria parzialeconsolazione intonando un canto popolare, così nel fina-le, abbracciato alla sua compagna, fissa un muro fine-mente dipinto all’interno di un palazzo in disfacimentocome fosse lo schermo di un cinema. Per venti minuti lacamera fissa coglie i due personaggi intenti a guardareun muro. Mentre il nostro di sguardo attende, indugia,riflette, si distrae e poi torna lì per accorgersi che, infondo, è stato solo un istante, un attimo, un soffio di vita.

Lorenzo Rossi (Concorso)

JIAOYOU (STRAY DOGS) di Tsai Ming-liang

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È il momento del documentario: festival,rassegne, premi. Del genere Wiseman puòessere considerato un progenitore, unaspecie di padre nobile, autore di opere fon-damentali che risalgono all’epoca in cui idocumentari venivano ancora discriminatie snobbati (tant’è vero che Titicut Follies eHospital sono film splendidi quantomisconosciuti). Ma la sua nobile paternitàrispetto al genere passa anche attraversouno stile che ha fatto scuola e diversidiscepoli, non ultimo il Gianfranco Rosi diSacro Gra. Uno stile improntato a unatteggiamento di discrezione e curiosità:nel raccontare un luogo Wiseman si fa pic-colo piccolo, praticamente invisibile. Maquesta invisibilità gli permette di essere alcontempo onnipresente, di vagare indi-sturbato da un ambiente all’altro senza essere maiinvasivo, in modo tale che gli spettatori non percepi-scano mai la presenza di un cineasta/narratore.Un’assenza cruciale sul piano estetico, poiché allalunga genera nel pubblico un’impressione di familiari-tà con l’ambiente descritto. Per rimanere ai suoi ulti-mi film, Boxing Gym e Crazy Horse, usciamo dallasala con la netta impressione di avere frequentato perun po’ una palestra di pugilato e un locale di spoglia-relli, di averne colto appieno le dinamiche interne e lescansioni quotidiane, al di là di quanto questi spazipossano esserci abitualmente estranei. Qui il compito del regista si presenta più arduo, poi-ché l’università – a maggior ragione nel caso di uncampus imponente come quello californiano diBerkeley – è un mondo infinitamente più vasto, com-plesso e articolato del microcosmo rappresentato daun locale notturno o da una palestra. Ma Wisemannon si scoraggia, anzi decide di fare dell’eterogeneitàl’ingrediente principale del film. Boxing Gym e CrazyHorse erano documentari verticali, dove lo sguardodel cineasta andava in profondità, sondando un reper-torio circoscritto di spazi e di personaggi. At Berkeleyinvece è un documentario orizzontale, dove quellostesso sguardo attraversa un repertorio di situazionifra loro molto differenti. A seconda dei momenti, nelfilm sentiamo parlare di studi per la cura del tumore,

di scheletri di dinosauro da ricomporre, della potatu-ra dei prati del campus, di poesia, di teatro, di budget.La parola viene data in ugual misura a studenti, pro-fessori e burocrati, di volta in volta protagonisti diconversazioni che, per creare quell’effetto di naturalez-za che rappresenta il tratto distintivo del cinema diWiseman, si sviluppano nel tempo. Sequenze lunghe,articolate quanto l’argomento che vi viene dibattuto,solitamente complesso e talvolta irrisolvibile. Adesempio il problema del denaro, forse la presenza piùricorrente nel film. Una ricorrenza deleteria, visto cheaffligge in ugual misura il corpo dei docenti – da quigli accorati appelli del rettore ai colleghi perché sele-zionino con oculatezza le nuove leve – e gli studenti –tra i quali si discute sull’opportunità di indebitarsi dagiovani per pagarsi gli studi. Ma Wiseman non per-mette al tema delle carenze economiche, che pure hala sua parte nelle conversazioni, di trasformare il suofilm in un atto di denuncia contro i tagli all’universi-tà. Al contrario Berkeley esce dal documentario piena-mente all’altezza della sua fama: un luogo di intensoscambio dialettico e culturale, dove le opinioni siincontrano e si confrontano con invidiabile frequenzaed estensione di argomenti. Insomma un’università,nel senso pieno ed etimologico del termine.

Leonardo Gandini (Fuori concorso)

AT BERKELEYdi Frederick Wiseman

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Pietà per i potenti: PedroPassos Coelho, SilvioBerlusconi, Nicolas Sarkozy,Angela Merkel… Tutti vinci-tori e tutti vinti, chi prima chidopo, chi non ancora…Fatalmente perdenti nellainnegabile caduta del mondodi cui, nel dominio delledestre europee, si sono fattigaranti. Dispersi nella malin-conia di un potere che li pos-siede e nella consapevolezzadel decadimento organicodella vittoria… Solo l’umane-simo storicizzato e beffardo diMiguel Gomes poteva averel’idea di giocare con le loroaltezze, incarnandole nellamalinconia mentre sprofon-dano, offrendo l’ironia di una crudele redenzione alloro potere, nel gioco languido e iconoclasta che limostra esposti, a cuore aperto, nella fragilità dei lorosentimenti, nel monologo interiore dei loro dubbi, nelflusso di coscienza dei ricordi. Privandoli naturalmen-te della loro immagine (pubblica) e spingendoli nelmagma indistinto di un archivio (filmico) che già li haassorbiti, perché già li possedeva in germe… I ventisette minuti di cinema assoluto che compongo-no Redemption nascono come un’esercitazione difound footage, messa in atto da Miguel Gomes nell’an-no di tutoraggio trascorso a Le Fresnoy, e si concretiz-zano nel fraseggio languido e suadente offerto al deca-dimento di quattro governanti sospinti nella lorogoffa, impotente, patetica intimità. NaturalmenteGomes non gioca la partita a tattica aperta, in chiavedidascalica: ci offre questi quattro scorci di umanitàmalinconica come fossero tracce di vita captate nell’al-veo indistinto dei viventi e solo alla fine, con una delletorsioni tipiche del suo cinema, scopre le carte e con-ferma i sospetti, gli indizi che ha disseminato. I cartel-li finali ci dicono che quei rimpianti, quelle confessio-ni, quei dubbi, quelle incertezze di cui siamo statitestimoni nell’ascolto dei monologhi diaristici, episto-lari, coscienziali… appartengono a quattro dei poten-

ti di questa povera Europa: Pedro Passos Coelho, lea-der del PSD e Primo ministro del Portogallo, ci è offer-to nella malinconia per l’Angola, dove è cresciutofiglio del tardo colonialismo portoghese, espressa aundici anni in una lettera alla madre, datata 21 gen-naio 1975; di Silvio Berlusconi ascoltiamo l’amareg-giato sfogo rivolto a Alessandra (la “olgettina”Sorcinelli?) il 13 luglio 2011, nei giorni più bui del“bunga bunga”; Nicolas Sarkozy lo sentiamo confessa-re alla figlia la sua amarezza di padre assente, nel gior-no della sua sconfitta presidenziale (6 maggio 2012);Angela Merkel, infine, ci è offerta nei pensieri del gior-no del suo primo matrimonio (3 settembre 1977),quando ancora giovane, nel pieno dei suoi studi di fisi-ca e della sua militanza socialista, non riesce a toglier-si di testa un brano del Parsifal di Wagner… Fughe prospettiche su scenari veri e inventati, comesempre in Miguel Gomes applicati a strutture chegovernano il senso di ciò che è mostrato, tagliano ericuciono la verità dei sentimenti in una affabulazioneche va colta nel senso del contrario, nella ricomposi-zione della scena mentale e logica. Di sicuro – e inassoluto – il vero capolavoro di Venezia 70!

Massimo Causo (Fuori concorso)

REDEMPTIONdi Miguel Gomes

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Lunghe giorni e lunghissime notti trascorsi in un ospeda-le psichiatrico dello Yunnan, una regione montuosa dellaCina sudoccidentale al confine con il Tibet e la Birmania.Pazienti lasciati a loro stessi – ce lo dicono le sintetichedidascalie accostate ai volti – per mesi, anni o addirittu-ra decenni. Medici assenti, cure inesistenti. Puro e sem-plice abbandono di uomini che sono lì, e con ogni proba-bilità ci resteranno fino alla morte, per le ragioni piùdiverse. I disturbi mentali, lo capiamo molto prima che aconfermarcelo siano le note dei titoli di coda, rappresen-tano solo uno dei motivi della reclusione, e spesso non ilpiù importante. Qualcuno è stato abbandonato dallefamiglie, magari per povertà e impossibilità di prender-sene cura, altri puniti per reati veri o presunti.Di fronte a un film non di finzione che sfiora le quat-tro ore, e quasi del tutto basato sulla ripetizione deigesti in un tempo talmente dilatato da perdere consi-stenza, bisogna capire come posizionarsi.Mentalmente ed emotivamente. Il solo fatto di dispor-si a vederlo, accettando implicitamente di resisterefino alla fine con la necessaria attenzione, è una deci-sione che richiede consapevolezza. Wang Bing scegliedi filmare una situazione estrema e chiede a noi spet-tatori di condividerla, sia pure di riflesso. La macchi-na da presa di Wang porta sullo schermo l’intollerabi-lità nauseante del nulla, l’agonia di vite umane con-dannate allo spreco, rendendo visibile una condizioneesistenziale che nessuno vorrebbe essere obbligato aguardare per duecentoventotto minuti. E nella rispo-sta che scegliamo di dare – rifiuto,distacco, paura o viceversa faticosaadesione– risiede forse il senso diun’operazione cinematograficatanto impegnativa. Lungo questo percorso Wang fissadei punti che assumono la funzionedi bussole di senso. Il primo è il tito-lo, Feng ai: senza timore di apparirebanale o peggio di cattivo gusto,Wang prende la parola “amore”(“ai”) e la accosta all’aggettivo“pazzo” (“feng”). Tra le estenuanticamminate che riportano questiuomini sempre al punto di parten-za, le chiacchiere vuote e l’impossi-

bile ricerca di qualcosa da fare per riempire le ore,vediamo ben poca pazzia. Gli eccessi sono rari e,quando avvengono, appaiono del tutto comprensibili.I ricoverati di Feng ai bruciano dal bisogno di toccarequalcuno, di parlare, di non dormire soli. Le visitedelle mogli, per chi ce l’ha, sono rare e tristi. Come giàin San zimei, vincitore del premio Orizzonti 2012 peril miglior documentario, Wang mostra l’umanità, laresistenza e la normalità di persone – in quel casobambine, stavolta uomini adulti – costrette a viveresituazioni di difficoltà e solitudine. E la domanda, che stacca il film dalla pur necessariadenuncia sociale, è una sola: serve a qualcosa questaresistenza eroica? Quando a uno dei protagonisti diFeng ai viene permesso di uscire dall’ospedale e tornaa casa, l’evento – che potrebbe significare un punto disvolta – sembra non produrre alcun cambiamento sudi lui né sullo sguardo instancabile di Wang. Né, diconseguenza, su di noi seduti in platea. Smarrimento,sensazione di panico di fronte a un vuoto spaziale,temporale e relazionale che non si sa come riempire.«Quando il tempo si ferma, appare la vita», scriveWang nelle note di regia. Una vita che non cede ecerca sempre, con tenacia straziante, di trovare vici-nanza e calore umano, pur scontrandosi di continuocon una realtà indifferente. Forse è per questo chel’amore è pazzo.

Valentina Alfonsi (Fuori concorso)

FENG AI (’TILL MADNESS DO US PART) di Bing Wang

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Basato su una storia vera avvenuta nel 1974, e ispira-to da un testo teatrale (Las brutas [1980], di JuanRadrigán) il film di Sepúlveda racconta di Justa, Lucíae Luciana Quispe, tre sorelle che vivono sull’altopianocileno dove accudiscono un piccolo gregge di capre. Laloro vita, che si svolge fuori dalla Storia ed è fatta dellacontinua ripetizione delle stesse azioni, viene messa indifficoltà quando la giunta militare impone la requisi-zione di tutti gli animali. Cosa fare: vendere il greggefinché si è ancora in tempo e ricavare quanto possibi-le o trovare un’altra via d’uscita? Produttore (assieme al fratello Juan de Dios) di Lasniñas Quispe è Pablo Larraín. Collegandolo all’ultimapellicola diretta da Larraín, si potrebbe allora interpre-tare il film di Sepúlveda come un’altra riflessione sul“No” al regime di Pinochet. Le tre sorelle – nella lettu-ra che la pièce e il film ne danno – pronunciano infattiun chiaro e potente No al regime. In realtà, le tre sorel-le Quispe non pronunciano alcun proclama, ma com-piono un gesto che resta enigmatico, incomprensibile –persino, verrebbe da dire, irragionevole (quando la“ragionevolezza” della sopravvivenza avrebbe consiglia-to, come ci viene detto che hanno fatto gli altri pastori,di vendere gli animali per ricavare qualcosa e trovare, inqualche modo, un altro sistema per tirare avanti) – eanche aperto a una pluralità di ipotesi diverse da quel-la, che rimane comunque la più plausibile, del suicidiocollettivo (ipotesi che erano state adombrate, ad esem-pio, nel documentario televisivo Las hermanas Quispe[2008], di Octavio Meneses).Nella ricostruzione (di fantasia, anche se fondata suun accurato lavoro di ricerca) che ci viene proposta,

quello delle tre sorelle – che, come lo scrivanoBartleby, è come se si fermassero dicendo «I wouldrather prefer not to» – appare come un gesto estre-mo di rifiuto della logica imposta dal governo mili-tare. Un modo per far risaltare la disumanità dellostesso regime. Lontane da qualsiasi forma di impe-gno e dalla consapevolezza politica (significativo ilbreve confronto con l’oppositore che cerca una viaper fuggire in Argentina), le tre sorelle compionoun’azione di formidabile intransigenza rifiutandosidi accettare il confronto e il compromesso con unregime brutale, optando per la morte piuttosto chepiegarsi alle condizioni dettate da questo.Quello di Sepúlveda è un film dai dialoghi scarni,che si dipana con stile rigoroso e asciutto ma non“pauperistico” (la fotografia non è priva di preziosi-smi), senza forzature drammatiche, privo di un verocrescendo narrativo, costantemente condotto sulmezzopiano. La conclusione arriva così repentina einaspettata e per questo colpisce e rimane dentro,lasciando nello spettatore profondi interrogativi. Èun film che, come altre opere di giovani registi cile-ni (penso, ad esempio, a Huacho [2009], diAlejandro Fernández Almendras), si pone dallaparte di chi – isolato, escluso – ieri come oggi non haricevuto i benefici di una “modernizzazione” avvenu-ta lasciando nel Paese ampi spazi di povertà e sotto-sviluppo. E ne esalta la dignità osservandone conaffetto, a un tempo misurato e partecipe, gli umiligesti quotidiani.

Rinaldo Vignati (Settimana della critica)

LAS NIÑAS QUISPEdi Sebastián Sepúlveda

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Sono stato nel 1995 nella riserva di Pine Ridge, SouthDakota, Stati Uniti. Un luogo di una bellezza e di unaforza evocativa incredibili. Qui vivono i resti delle glo-riose tribù delle praterie, i plain indians, i Sioux e iDakota che distrussero le truppe di Custer inMontana, a Little Big Horn (pure lì sono stato). Possodunque testimoniare di prima mano la verità e la sag-gezza del documentario di Anna Eborn, forse la piùbella cosa che ho visto quest’anno a Venezia.L’intelligenza del film è quella della neutralità dellamacchina da presa che osserva alcuni abitanti di que-ste lande mentre sono intenti a svolgere le loro blandeattività (ad esempio, tener dietro a una gas station nelnulla) oppure cazzeggiano in giro. Già, perché non èche ci sia molto da fare da queste parti per i discen-denti dei gloriosi combattenti dell’Ottocento. Ora, asparare, sono rimasti solo i bianchi, che si divertono aprendere di mira con grossi fucili alcuni bersagli nellaprateria. Una sequenza mozzafiato, che crea un violen-to e ironicissimo ma anche tragico contrasto con l’inu-tile cazzeggio e il tempo sprecato dei giovani nativi,annoiati e privi di progetti che non siano quelli di tira-re a campare in qualche modo. La riserva, come anche quelle all’Ovest dei Navajo, èuna enclave di sorda sofferenza e di bastarda routine,stupendamente evocata dalla Eborn con lunghi pianisequenza in cui nulla sembraaccadere e pure tutto è già (pur-troppo) accaduto, già da un secoloe mezzo. Toccanti i momenti dedi-cati al Wounded Knee Memorial,dove gli ultimi resistenti indiani eil loro grande capo Sitting Bullvennero spazzati via vigliacca-mente dalle mitragliatrici Gatlingdei soldati in divisa blu: una dellepagine più repellenti di tutta lastoria dell’umanità. Per il resto, inimmagini di straziante bellezza,vediamo giochi di bambini, adole-scenti che siedono sotto un albero,spezzoni di rodeo coi cavalli e coni tori e conseguenti cadute rovino-se (perché il rodeo è rimasta l’uni-ca occasione per sentirsi ancora

vivi e combattivi nonostante tutto, per i giovanimaschi, a parte il bere come spugne e il fare a botteper strada – esattamente come gli aborigeni nelle out-skirts delle cittadine nell’Outback australiano).Fantastica l’immagine di un personaggio femminileisolato all’interno dell’abbacinante bellezza grigiadelle Badlands, uno dei luoghi più fascinosi e insiemetristi del Pianeta, proprio perché evocano memoriedolorose di sconfitta e sofferenza da parte di chiattualmente le abita (a parte i turisti, peraltro nontanto numerosi da queste parti – preferiscono andarea vedere i faccioni dei Presidenti incollati sul MountRushmore, come ha poi fatto anche Alfred Hitchcock,e bearsi così della potenza anche retrospettiva Wasp). Che aggiungere? Che questo sì che è documentarismodi grande bellezza e potenza, senza il bisogno dicostruire piccole sitcom poco interessanti come hafatto il finto documentario che ha poi vinto il Leoned’Oro. D’altronde, tra Gran Raccordo Anulare diRoma e la Pine Ridge Reservation del South Dakotac’è una bella differenza in quanto a profondità di riso-nanza tragica e coinvolgimento emotivo e storia pas-sata ma non ancora spenta del tutto. Viva la Eborn eil suo cinema!!!

Alberto Morsiani (Fuori concorso)

PINE RIDGEdi Anna Eborn

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La morte nel cinema contemporaneo è un necessarioaccidente narrativo, spesso rappresentato con pornogra-fica impudicizia. Anatomopatologi e medici legali sonoormai immancabili coprotagonisti, se non figure di primopiano che confondono con la loro disumana supereffi-cienza tecnico-scientifica. I morti sono rappresentaticome labili presenze elettroniche, ombre da rimuovere,intralci da cui liberarsi rapidamente affidandoli ai tecni-ci che trattano i corpi come materia senza identità né sto-ria. Il culto e la pietas per i morti, da millenni declinati intutte le culture, stanno volatilizzandosi nell’universo glo-balizzato. È una questione che esaspera la nostra fragili-tà e che il cinema continua (Yojiro Takita conDepartures, fra gli altri) ad approfondire suscitandosgradevoli inquietudini. Pasolini sa trasformare conl’amara ironia (propria del cinema britannico classico diMacKendrick, di Neame, di Powell e Pressburger) il rap-porto con la morte (prima altrui e, infine, propria) in unpoetico riaffermarsi del mistero della vita di cui la mortestessa è componente essenziale.Pasolini al suo secondo lungometraggio come regista,sceneggiatore di grande qualità e produttore apprezzato,ha ricavato il suo soggetto osservando come sta mutan-do l’Occidente: la frammentazione sociale annulla i rap-porti di vicinato ed esaspera la non condivisione deimomenti esistenziali, il disinteresse degli uni per gli altri;il tramonto della famiglia tradizionale; il sorgere delfenomeno della morte in solitudine, nella distratta igno-ranza e nel disinteresse degli altri. Partendo da questacupa realtà ha creato un film che celebra e rammenta ilvalore della vita vissuta, in particolare di coloro che pas-sano inosservati.Il protagonista John May (memorabile l’interpretazioneEddie Marsan) è un funzionario della municipalitàdella Grande Londra il cui compito è rintracciare iparenti più prossimi delle numerose persone che muo-iono in solitudine e della cui scomparsa spesso si vienea sapere molti giorni dopo. Solitario e sobrio è un buro-crate che ogni giorno indossa gli stessi vestiti, percorrela stessa strada, si esprime con gli stessi gesti, mangiagli stessi cibi. Ma ha un’anima. Compie ogni sforzo perinformare i parenti del defunto (possibile che nella loroesistenza non abbiano lasciato dietro di sé qualchericordo, una briciola di affetto?) per coinvolgerli nelleesequie. Quando non vi riesce, cerca di interpretarne la

storia personale e organizza con meticolosità il funera-le coerentemente con le appartenenze religiose e scri-vendo discorsi celebrativi che nessuno, eccetto lui,ascolterà mai. Si preoccupa per mesi di conservarne leceneri nella speranza che qualcuno venga a richiederle.Il giorno in cui gli viene annunciato il suo licenziamen-to dinanzi al caso del suo dirimpettaio, un vecchio alco-lista, intuisce che la propria condizione esistenziale èspeculare a quella del morto. La municipalità conside-ra i morti degli ingombri, immondizie non produttive dicui liberarsi alla svelta senza cerimonie in spazi comu-ni o disperdendoli nel vento. John chiede di poteraffrontare l’ultimo caso che diviene anche quello di sestesso. Lo fa con impegno assoluto mutando al contem-po le proprie abitudini per tuffarsi finalmente in unavita meno opaca. Alla sepoltura del vicino alcolizzato èpresente una piccola folla. Poco distante in assolutasolitudine, ignorato da tutti, John viene sepolto anchelui senza una traccia. I tanti defunti solitari di cui si eracurato si riuniscono sulla sua tomba per rendergliomaggio con affetto.

Gianluigi Bozza (Orizzonti)

STILL LIFEdi Uberto Pasolini

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Gruppo di famiglia in 59 frammenti. Die Frau desPolizisten, sesto lungometraggio di Philip Gröning(coraggiosamente acquistato per l’Italia da SatineFilm) è una storia a pezzi. Un mosaico che raccoglie icocci della vita di Christine, Clara, Uwe, che sarebbepoi il poliziotto del titolo. Mi permetto di sceglierneuno, quasi dal fondo, di questi frammenti: sarà la soli-ta suggestione pittorica personale, ma il capitolo 47,dei 59 in cui Philip Gröning scandisce questo suonuovo film, sembra evocare inequivocabilmente unritratto di famiglia (tema prediletto dalla settantesimamostra), un conversation piece, uno di quei quadriolandesi di metà Seicento, severamente calvinisti nellaforma e al tempo stesso invasi da una materia pittori-ca rigogliosa e lucente; uno di quei dipinti che nellegrandi gallerie sfidano, più di altri, il visitatore, a com-prendere quale microcosmo si dischiuda oltre quellacornice, cosa sia rimasto fuori dal limite del supporto,quali fossero i suoni, gli umori, gli odori, i ritmi vitalidi un momento qualunque, a che ritmo il sangue scor-resse sotto quella pelle. Il cinema può di più: quell’immagine-quadro è unadelle sequenze più scopertamente antinaturalistiche,o, se si vuole, antidocumentaristiche del film. Mentrela famigliola di Uwe, lo sguardo inchiodato in macchi-na, intona un Kinderlied che solo la piccola Clara sem-bra ricordare a memoria, si rivelano sul volto deiconiugi, sotto una luce chiarissima e impietosamenteiperrealista, i lividi e le nevrosi, le contraddizioniormai ampiamente scoperte della loro relazione; siimpastano con un senso di verità, che si nutre dell’im-barazzo che sembra affiorare negli attori maturirispetto alla spontaneità della bambina. Il Kinderliedparla ovviamente di principesse, principi e lieti fini;l’immagine dissolve a nero, “fine del capitolo 47”,come ormai, a questo punto del film, lo spettatore haimparato ad aspettarsi. Che senso avrà, dunque, comehanno fatto alcuni recensori, lamentarsi dei ventiminuti di “nero” sulla durata complessiva, quasi treore, del film? È ancora necessario, nel 2013, che unautore debba spiegare in conferenza stampa le ragionidi una scelta strutturale e narrativa di quel genere,nella fattispecie del ragionamento brechtiano che ne èall’origine? non basta la sottile vertigine che ogni fadeout provoca nello spettatore?

Perché la scansione in capitoli scelta da Gröning, com-prese le frazioni minimali, estreme, anantropiche, chesuscitano qualche risolino in sala, è il sistema-cornice,il framework attraverso il quale guardiamo, senzapotere né dover intervenire, momenti di varia naturadella vita di alcune persone, in un ordinato villaggiotedesco ai confini con l’Olanda. Se, seguendo la sugge-stione di Roberto Manassero, Anfang e Ende, inizio efine, in didascalia a ogni capitolo, ricordano il moto diuna spoletta sul telaio, il tessuto che ne esce è voluta-mente imperfetto, una trama che si sviluppa dietro unordito cieco, nella quasi totale noncuranza per legrammatiche del narrare ordinario. Un ordito che sca-tena il senso di straniamento, suscita la necessità dicapire, connettere; attraverso quel framework si fastrada l’attenzione, quasi sperimentale, in senso scien-tifico, da biologi o entomologi, che Gröning esercita eimpone ai nostri occhi: ora immagini intensamentebelle, ora momenti di violenza strisciante; ora situazio-ni di intimità straziante, tra madre e figlia, tra sposi-amanti, ora le botte e gli insulti, in un crescendocomunque inesorabile. Die Frau des Polizisten guarda la vita farsi, germoglia-re, brulicare, corrompersi, così come Christine e Claraaspettano che dalle frazioni di terra covata sotto lemattonelle scoperchiate nel giardino germogli la vita,indipendentemente da ciò che accade sotto quelle cheinvece sono rimaste al loro posto.

Alessandro Uccelli (Concorso)

DIE FRAU DES POLIZISTENdi Philip Gröning

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Philomena è il film che più di ogni altro a Venezia 70 hamesso d’accordo tutti: critica, pubblico, selezionatori epersino l’Associazione Cattolica Mondiale dellaComunicazione (Signis) e l’Unione degli Atei e degliAgnostici Razionalisti (UAAR) dai quali è stato (distinta-mente) premiato. Tale straordinaria attitudine, che pervia dell’ecumenicità di cui è intrisa, potrebbe far storce-re il naso a qualcuno, altro non è che la testimonianza diquanto un certo tipo di cinema, che tutto è tranne chealternativo, sperimentale o instradato verso la ricerca, siacapace non solo di risultare universale nel senso miglio-re del termine – cosa di per sé davvero poco importante– ma anche di testimoniare che per fare un film di quali-tà basta, in certi casi (e almeno all’apparenza), davveropoco. Questo di Frears è, del resto, quello che potremmodefinire un film perfetto, sotto tutti i punti di vista. A par-tire dalla sceneggiatura, dalla messa in scena e dallascrittura dei dialoghi ma nondimeno per quel che riguar-da la regia e la scelta degli attori. Il film racconta la storia di Philomena, una donna irlan-dese che alle soglie della terza età decide di andare allaricerca del figlio che non vede da cinquant’anni. Appenaadolescente infatti, Philomena era rimasta incinta di unosconosciuto e, ripudiata dalla famiglia era stata accoltadalle suore del convento di Roscrea. Come era consuetu-dine all’epoca però le monache diedero in adozione ilpiccolo senza che la madre potesse avere, da quelmomento in poi, alcuna notizia di lui. Ora grazie all’aiu-to di Martin, un giornalista ex spin-doctor laburista epu-rato dal gabinetto Blair, Philomena, nonostante la reti-cenza che ancora manifestano le suore del convento, èsicura di poter rintracciare il figlio scomparso. Ispiratoalla vera storia di Philomena Lee raccontata nel libro diMartin Sixsmith The Lost Child of Philomena Lee, il

lavoro di Frears evita attentamente i luoghi comuni e leprese di posizione ideologiche. Pur non trascurando didare risalto alle passioni in gioco, il regista e gli sceneg-giatori Steve Coogan (che è anche il protagonista maschi-le) e Jeff Pope, riescono nel difficile lavoro di coniugare ilfortissimo lato emotivo che è parte integrante dellavicenda con un incedere narrativo misurato, mai eccessi-vo e punteggiato di un’ironia sottile e tagliente. Facendosì, in altre parole, che la macroscopica ingiustizia dellaquale la protagonista cade vittima, non diventi più gran-de e non prenda il sopravvento sulla storia stessa. E delresto Philomena è tutt’altro che il diario di uno scanda-lo o un film a tesi: non se la prende con il mondo eccle-siastico e non punta l’indice contro le suore del conven-to di Roscrea. Ma ciò che più distanzia l’opera di Frearsda film come Magdalene di Mullan, che da più parti èstato (a sproposito) tirato in ballo, o anche da ciò che contale soggetto avrebbe potuto fare qualche agguerritoregista politico o dal dente avvelenato, è non tanto (o nonsolo) la confezione di cui si parlava, ma piuttosto lo stra-ordinario personaggio della protagonista.Judi Dench dà vita a una donna che nella propria ele-mentare semplicità mostra nel carattere tutte le sfaccet-tature e le contraddizioni dell’essere umano che si affidacompletamente alla fede. La vita di rinunce alla quale ladonna ha dovuto far fronte si traduce in quella disar-mante ingenuità che ne caratterizza l’agire. Non c’è reto-rica alcuna nei gesti e nelle parole di Philomena e chitratteggia psicologicamente il personaggio non cade nellatrappola della celebrazione dell’umiltà e della condiscen-denza. La lezione che Philomena impartisce nel finaleusando l’arma del perdono, poi, è talmente potente daottenere in risposta soltanto il silenzio: sia da parte di chiil perdono lo predica senza comprenderlo, come la vec-chia suora decana del convento, sia da chi sente di nonaverne nemmeno bisogno del concetto di perdono, comelo scrittore liberal e benpensante. Espediente tramite ilquale, questo, gli autori riescono nell’intento di fustigarein un sol colpo tanto il reazionarismo ecclesiastico quan-to il paternalismo leftist britannico. Perché sarà anche unfilm convenzionale Philomena, come sottolinea pure ilfinale agrodolce, ma di film così, anche ai festival, qual-che volta ce n’è tanto bisogno.

Lorenzo Rossi (Concorso)

PHILOMENAdi Stephen Frears

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Tutto si può scrivere tranne che Locke di StevenKnight (apprezzato sceneggiatore di Piccoli affarisporchi e La promessa dell’assassino) non sia andatoincontro, fin da subito, a un’ottima accoglienza: «Ilfilm sinora più applaudito», avevano titolato i quoti-diani dopo la proiezione veneziana nella sezione Fuoriconcorso. Il problema nasce proprio da qui. Nel giro diqualche ora, in seguito all’ottima risposta del pubbli-co e della critica, Locke diventa il film che AlbertoBarbera, il direttore della Mostra, avrebbe dovutoinserire in gara. Perché non l’ha fatto? Poi è compar-so un tweet: «Locke, un attore, un’auto, tre macchineda presa, otto notti di riprese… e una sceneggiaturageniale». Chi lo ha scritto? Alberto Barbera. Insomma,piccoli grandi equivoci festivalieri, si dirà. Ma questa èun’altra storia.Quella con cui deve fare i conti Ivan Locke, invece, èuna storia molto più seria. Per lui i fatti, a dispetto dicerta filosofia, esistono eccome. Sono lì, con il loropeso sempre più insostenibile. Lo accompagnano dalprimo momento che è salito in macchina e ha matura-to, in silenzio, la propria decisione. Continua a pensa-re che la strada che ha imboccato – anche se non locondurrà a casa – è quella giusta. Ma che cosa è suc-cesso a Ivan Locke? Ciò che può succedere a un padredi famiglia alle prese con una lunga trasferta di lavoro

e con una serata diversa dalle altre, trascorsa in com-pagnia di una collega che conosce appena. L’avventuradi una notte, insomma. Il problema è che quella donnaè rimasta incinta e adesso aspetta un figlio da lui.Anzi, sta per partorire in ospedale e Ivan Locke vuoleessere presente. Per questo ha cambiato direzione dimarcia. Alla moglie dovrà dire la verità. Le continuetelefonate in viva voce che si susseguono lungo gliottantacinque minuti del film sono l’ingrediente piùoriginale della sceneggiatura. Insieme a Locke è comese ci mettessimo in ascolto delle “vite degli altri”. Ditutte le persone che deve informare. Anche una scre-ziatura nel timbro della voce, un palpito di commozio-ne, il rumore sommesso di un respiro che si tramuta inaffanno diventano per lo spettatore tappe di un’espe-rienza: Knight potenzia il fuori campo sonoro e schivain maniera magistrale l’oggettiva impasse di unamessa in scena ridotta all’essenziale.Girato quasi in tempo reale, basato sulla sola, straor-dinaria prova attoriale di Tom Hardy, Locke ha unpregio in particolare: quello di basarsi su un soggettoche non infrange mai lo statuto di verosimiglianza e dicredibilità. Anzi, trattasi di un meccanismo a orologe-ria pressoché perfetto. Anche quando il protagonistaentra nel territorio vischioso e pericolante del propriovissuto interiore, per confrontarsi con il “fantasma” del

padre e con la sua ingombran-te assenza (guarda nello spec-chietto retrovisore e si rivolgea lui come a un immaginariopasseggero seduto sul retro: loaccusa, pieno di rabbia e dirancore, di non averlo ricono-sciuto alla nascita). Propriol’errore che lui, stavolta, nonintende commettere. IvanLocke è un uomo, ha delleresponsabilità e intende ono-rarle. A differenza di quantoha fatto con i suoi interlocuto-ri al telefono, non può metter-si “in attesa”.

Riccardo Lascialfari(Fuori concorso)

LOCKEdi Steven Knight

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Philippe Garrel è sempre solito lavorare in tutti i suoifilm dentro alla propria esperienza biografia, quasicome a voler svuotare le storie della propria vita finoa elevarle al rango di storie universali, a volte quasiastratte. D’altra parte non deve forse fare questo ilcinema: operare una torsione nel visibile in modo datirare fuori da quello che è nella realtà, quello che c’èma non si vede? I “garrelliani” convinti (una specie invia d’estinzione, purtroppo) senz’altro si ricorderannodi Sauvage innocence, presentato a Venezia nel 2001;un film in cui Garrel arrivò a uno degli apici di intrec-cio tra cinema e vicende autobiografiche. Ma la stessacosa era già avvenuta con L’enfant secret, e anche conJ’entends plus la guitare, tutti film in cui Garrel met-teva più o meno a tema la propria storia d’amore conla cantante Nico. La jalousie ne ripercorre in un certo senso lo schema.Anche se questa volta non si tratta solamente di vicen-de amorose (a dispetto del titolo) ma di vicende fami-gliari. Stando alle parole di Philippe Garrel, LouisGarrel, protagonista del film, interpreterebbe infattiun personaggio modellato sul padre del regista, l’atto-re Maurice Garrel scomparso due anni fa. In uno stra-no intreccio di padri-figli, realtà-finzione e generazio-ni che si accavallano, Louis finisce per incarnare suononno quando aveva la sua stessa età, ed era apparen-temente nella stessa situazione nella quale si trova nelfilm: attore di teatro squattrinato che abbandona unadonna con cui aveva avuto una figlia per andare avivere con un’altra. «Non sono gelosa di te, papà», dice la figlia in braccioa Louis a un certo punto del film. Perché la gelosia dicui si parla è quella che lega i bambini ai padri quan-do ci si trova a cavallo di due famiglie diverse.Philippe fa interpretare il suo corrispettivo a una bam-bina, la piccola Charlotte (interpretata splendidamen-te da Olga Milshtein), alla quale spetta di re-inventareil rapporto con il padre quando questi si innamora diun’altra donna che non è sua madre. «Un uomo gelo-so», diceva Lacan «ha torto anche quando sua mogliegli fa davvero le corna», questo perché la gelosia non èuna speculazione sul fatto di un tradimento effettiva-mente avvenuto, ma è un affetto, una posizione sogget-tiva indipendente. La gelosia della madre di Charlottenei confronti di Louis, di Louis nei confronti della pro-

pria amante Claudia (Anna Mouglalis) e di Claudia neiconfronti di Louis non sono la cupa constatazionedella caducità dell’amore, come il cinismo dei nostritempi vorrebbe farci credere. Garrel ci fa vedere comel’affetto della gelosia possa essere ribaltato positiva-mente e farsi testimonianza di una capacità d’amare.Perché questo dev’essere in grado di trasmettere unpadre: non l’applicazione della legge, ma la testimo-nianza di avere un desiderio. Anche nella forma delladebolezza che la gelosia è capace di esprimere quandodi fronte alla propria figlia ci si mostra nudi nelladisperazione di un amore non corrisposto. Con La jalousie Garrel fa il suo bel più film da Lesamants reguliers, e uno dei film migliori del suo perio-do “narrativo”. Aiutato da un bellissimo bianco e neromolto contrastato realizzato da Willy Kurant, chedepotenzia i rischi di realismo didascalico e aumentail senso di radicalità delle relazioni oppositive del film,La jalousie evita ogni rischio di sentimentalismo econsolazione. Questi incastri di realtà e finzione, forseun po’ contorti da mettere in luce, non tolgono nullaalla semplicità e all’efficacia della storia che sta anchebenissimo da sola così com’è. La jalousie è il film concui Philippe Garrel vuole parlare del rapporto col pro-prio padre all’indomani della sua morte. E lo fa, comesempre fa, mettendosi in mezzo ma evitando i faciliautobiografismi. Perché il cinema di Garrel è da sem-pre fedele a un assunto teorico fondamentale: nellarelazione tra vita e immagine, l’immagine non è mai lìper rappresentare qualcosa, ma semmai per provare adare forma alla propria vita.

Pietro Bianchi (Concorso)

LA JALOUSIEdi Philippe Garrel

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Ci sono gli scontri e ci sono le scintille, in Tom à laferme. Ci sono i poli opposti, che inevitabilmente siattraggono. Ci sono le traiettorie insolite di un deside-rio che turba e sconvolge, e che, in un modo o nell’al-tro, si è sempre costretti ad affrontare: magari anchesolo in forma fantasmatica. Il Tom di Dolan è un orga-nismo alieno che deflagra all’interno di un organismoaltro: un virus metropolitano, raffinato e gay che inva-de timidamente un mondo rurale e familiare piatto,conservatore, sanguigno e terrestre, e che rischia disoccombere ai suoi anticorpi. Riuscirà a salvarsi, asfuggire al fagocitamento tentatore, ma non prima diesserne stato corrotto e contaminato, né di aver corrot-to e contaminato a sua volta. Il Tom di Dolan (ri)portauna vitalità fatta di sesso e trasgressione laddoveerano stati banditi, per scelta o circostanza: quandolegge all’ignara madre del fidanzato morto la lettera incui lui parla di sesso, la donna esplode in un riso irre-frenabile; e la sua presenza, la sua istanza, basta a sca-tenare in Francis, fratello del defunto, pulsioni violen-te e proibite, a scoperchiare un vaso di Pandora cheera stato chiuso con forza e sangue. Eppure quelmondo così claustrofobico e tuttavia apertissimo,quella violenza ruvida, quel modo sanguigno, quelmettere le mani fisicamente nella natura, come quan-do porta in braccio un vitello appena nato, seduconoTom in maniera altrettanto perversa e liberatoria.Tanto che quando un altro organi-smo alieno s’insinua nella relazionetra lui e Francis, l’equilibrio sirompe, la fuga si rende necessaria. Dotato di un talento evidente,eppure acerbo, Xavier Dolan giraun thriller che è hitchockiano benoltre la colonna sonora di GabrielYared che pare una campionaturadel lavoro di Bernard Hermann, mache lo è nel raccontare sguardi,osservazioni, ruoli e identità conuno stile malato ed elegante. Unostile che s’insinua sottopelle, checorrompe e contamina, che anchequando la visione è terminata lavo-ra dentro e cambia, che costringe atrovarsi faccia a faccia con rimossi e

pulsioni che nascono e terminano nella brutalità aspradella vita. Tom à la ferme è cinema vivo, pulsante,imperfetto. Sporco e affascinante. Un cinema nervoso,non conciliato, che provoca a livelli assai meno banalidi quelli superficiali e sessuali. La sessualità, nel filmdi Dolan, l’erotismo, sono tanto più intensi quanto piùsottili e sottratti; negati eppure sempre sfacciati, sem-pre immanenti. Così come, in fondo, negata ma immanente è la violen-za. Tanto è vero che il regista stesso opta per un ambi-ziosissimo cambio di formato nei due momenti piùfisicamente nervosi e concitati del film, due momentidi fuga e di scontro fisico, come a suggerire che quellecose lì sono per uno sguardo diverso, per un raccontodifferente. E allora sessualità e violenza, sguardo edesiderio, continuano a ossessionare lo spettatoredopo la visione (fantasmatica) di Tom à la ferme, cosìcome ossessiona e ossessionerà Tom la visione altret-tanto fantasmatica di quelle cicatrici e quel voltodeturpato che si trova di fronte alla fine (all’inizio?)della sua avventura. Cicatrici e volto che di sessualitàe violenza sono sintesi indelebile. Perché dalle osses-sioni, sembra dirci Dolan con il finale del suo film, nonsi scappa: possiamo correre lontano, ma loro sarannosempre lì, immote, ad aspettarci.

Federico Gironi (Concorso)

TOM À LA FERMEdi Xavier Dolan

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«Ci sono i known knowns – le cose che sappiamo disapere – ma ci sono anche i known unknowns – le coseche sappiamo di non sapere – e infine ci sono gliunknown unknowns – le cose che ignoriamo di nonsapere». Questa frase, pronunciata durante una confe-renza stampa alla Casa Bianca da Segretario alla Difesadi George W. Bush, raffigura la piramide concettualedel personaggio pubblico Donald Rumsfeld: un uomopolitico, attore in uno dei ruoli più influenti dello scac-chiere internazionale, abituato a ragionare con schemilogici tipici dell’aggressiva economia neoliberista, con-sona alle previsioni di bilancio di una grande multina-zionale ma inadatto al destino militare della principalepotenza mondiale. C’è però una zoppia nell’apparente-mente cristallina riflessione di Rumsfeld: la presenza,almeno ipotetica, di fatti che siano unknown knowns,ovvero cose che crediamo di sapere ma che invece nonsappiamo. È proprio su questo granello capace diinceppare l’ingranaggio che si concentra il lavoro discavo, quasi maieutico, dell’intervistatore/regista ErrolMorris nei confronti del suo oggetto d’indagine. Morris è attratto (con una pulsione talmente forte daessere insieme lucida e quasi morbosa) dal rapporto trauomo – singolo individuo nell’esercizio delle propriefunzioni – e Storia. Come Robert MacNamara in TheFog of War, Rumsfeld sembra rappresentare lo spiritodel tempo, le cui ragioni diventano strumenti in gradodi fornire una nuova chiave interpretativa ai capricci,spesso imperscrutabili, dei rivolgimenti storici. MaMacNamara, ministro negli anni del Vietnam con JohnF. Kennedy e Lyndon B. Johnson, appariva come unuomo deciso a fare i conti con se stesso e con il proprioruolo umano prima che geopolitico. Rumsfeld sembrainvece prigioniero della propria impercettibilità: sulladifensiva, pronto a eludere le responsabilità con unrovesciamento costante del punto di vista, dotato diuna sicurezza ostentata prima ancora che imposta.MacNamara era il totem pronto a riconquistarsi unaverginità, anche attraverso l’analisi dei suoi possibilierrori di valutazione. Rumsfeld è l’uomo che considerale conseguenze del proprio operato come una necessa-ria e inalienabile condizione di verità. Non un ripensa-mento, non un’indecisione, non un pentimento. La fluviale intervista di Morris assume a tratti i termi-ni canonici di una sfida. Tra intervistato e intervistato-

re non si crea un pathos, un fine comune per cercareuna soluzione catartica. Si sviluppa piuttosto il clima diuna partita a carte in cui il politico – lobbysta, oligar-ca, inestinguibile potente – cerca di mettere sotto scac-co chi osa dubitare della propria intangibilità. Ci sonomomenti in cui Rumsfeld ostenta la propria sicurezza:è sorridente, sornione, soddisfatto di sé. Morris a trattimostra di accusare il colpo. Ma proprio l’insistenza nelgiocare il gioco del suo interlocutore si dimostra lacarta vincente. Rumsfeld vuole essere il gatto con iltopo: si trincera in studiati silenzi, concede ma nonammette, riporta tutto a un pattern logico che scansa idrammi iracheni, le torture di Abu Ghraib, i danni col-laterali in nome di un sistema ideologico sovrano usatosempre in modo strumentale. A Morris è stata imputata un’eccessiva morbidezza, larinuncia a incalzare quando l’avversario indietreggia-va. Ma lui è un cineasta che, a differenza di MichaelMoore, non desidera la resa del suo oggetto d’indagi-ne. Cerca piuttosto la frantumazione di un sistemalogico (di potere, di forza, di propaganda) capace dirappresentare l’orlo di un baratro. Morris è un liberalebreo e anche per questo ha un senso altissimo dellaStoria. Sa che solo attraverso il dubbio – ciò cheRumsfeld finge di non considerare – si possono mina-re le certezze dell’agire politico. E attraverso un dosag-gio miracoloso tra primi piani in sfondo nero, silenzi,asserzioni, repertorio e sparuta ma necessaria forzaretorica sa creare un cinema civile capace di rileggereun percorso altrimenti inaccessibile a uno spettatore –un cittadino – meno attento.

Federico Pedroni (Concorso)

THE UNKNOWN KNOWNdi Errol Morris

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L’annuncio del ritiro di Hayao Miyazaki, dato proprioa Venezia dal presidente dello studio Ghibli KojiHoshino durante la conferenze stampa di Kaze tachi-nu, fa sì che sia naturale leggere il film come un’operadefinitiva, di chiusura. Eppure la storia di Jiro, che findall’infanzia sogna il volo, uno dei temi narrativi evisivi prediletti da Miyazaki, da Porco rosso a Ilcastello errante di Howl, non dà risposte né indicadirezioni e, anzi, solleva interrogativi morali insolubi-li. Jiro è un personaggio strano – in originale gli dà lavoce un doppiatore inusuale, il creatore di NeonGenesis Evangelion Anno Hideaki – e per il quale par-teggiare e fare il tifo, come si fa quasi sempre in unracconto di formazione (tra l’altro Kaze tachinu nascecome manga), non è così scontato. Miyazaki lo disegnausando come riferimenti Jiro Horikoshi, creatore degliaerei da combattimento Mitsubishi A6M1 (i cosiddetti“Zero” usati durante la Seconda guerra mondiale), e loscrittore Tatsuo Hori, autore del racconto da cui ilregista prende in prestito il titolo del film – a sua voltatraduzione in giapponese di un verso del Cimiteromarino di Paul Valéry, «Le vent se lève, il faut tenter devivre» – e alcuni passaggi della storia.Due sono gli elementi, entrambi per definizione impal-pabili, intorno ai quali il film è costruito: il vento, evi-

dentemente legato all’idea divolo oltre che filo rosso dellastoria d’amore di Jiro eNahoko, e il sogno, inteso siacome attività onirica notturnadurante la quale Jiro stabili-sce un contatto con l’ingegne-re aeronautico italianoCaproni, sia come capacità diimmaginare il futuro sullabase dei propri desideri. Latragedia contenuta in Kazetachinu – a tutti gli effetti undramma storico, piuttostocupo e serio – sta nella distan-za tra visione interiore e vita enel fatto che entrambe sianoreali, perché umane. I sogni diJiro, modellati in simbiosi conCaproni oltre ogni logica spa-

zio-temporale, sono veri perché Jiro ne vede la bellez-za pura e poi li traduce in studio, lavoro, fatica. Ma sono veri anche il dolore, le malattie, le conseguen-ze delle scelte, i morti provocati dalle macchine daguerra volanti progettate proprio da Jiro. Tutto èmateria dell’uomo. Ecco allora che sia i rombi degliaerei sia lo squasso provocato dal terremoto, quello diKanto nel 1923, nella colonna sonora del film sonoriprodotti attraverso voci umane. Ed ecco perché sta-volta l’aspetto fantastico, molto presente nella filmo-grafia di Miyazaki e dipinto in modo trionfante nelfilm appena precedente, Ponyo sulla scogliera, qui èmesso da parte. È l’uomo stesso a essere fantastico,soprattutto lo sono le sue capacità creative – non acaso Naoko è una pittrice, e di sicuro l’autore mettequalcosa di sé anche in lei oltre che nel più evidentealter ego Jiro. E se la perfezione formale di un aereonon ne cancella le gravi responsabilità belliche, laguerra non compromette la bellezza originaria del-l’idea da cui quell’aereo è nato. È un fragile e doloro-so equilibrio di forze ma, ribatte Miyazaki attraversola vicenda esemplare di Jiro e Naoko, quando il ventosi alza, bisogna provare a vivere.

Valentina Alfonsi (Concorso)

KAZE TACHINUdi Hayao Miyazaki

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Per Amos Gitai «gli eventi politici che oggi scuotono ilmondo non possono essere affrontati senza tenerconto della loro rappresentazione per immagini»(Amos Gitai in Serge Toubiana, Il cinema di AmosGitai. Frontiere e territori, Mondadori, Milano 2006,pag. 69), perché, come sostiene anche Kiarostami,«non si può credere a certi avvenimenti, a meno cheessi non vengano mostrati» (Abbas Kiarostami inVittorio Giacci, Immagine immaginaria: analisi einterpretazione del segno filmico, Città NuovaEditrice, Roma 2006, pag. 193). Con Ana Arabia Gitaicontinua l’indagine, cominciata in Devarim e prose-guita poi in Yom Yom e Kadosh, sulla struttura com-posita della società d’Israele, una realtà complessa chenon può essere riassunta in slogan, formata da gruppidiversi (religiosi, coppie miste arabo-ebraiche) chehanno mantenuto, al di là della lettura unilaterale chel’informazione è solita proporre, la capacità di gestiree organizzare questa apparenza collettiva. Simbolo diquesta transcultura è proprio Ana Arabia (letteral-mente “io, l’araba”), donna ebrea polacca, sopravvis-suta ad Auschwitz e trasferitasi dopo la Shoah inIsraele, in un villaggio alle porte di Tel Aviv, dove sposaun arabo e si converte all’Islam. Yael è la giornalistache va alla sua ricerca perché vorrebbe ricostruirne la

storia. Non riuscirà a trovare la donna mala comunità in cui ha scelto di vivere, difronte alla quale non potrà fare altro cheascoltarne le storie.Gitai ha necessità di trasmettere questacontinuità culturale, che resiste nonostantei muri, ideologici e tangibili, eretti a difesadi presunte irrisolvibili diversità, anche alivello formale. Quello che si chiede è comeriuscire a tradurre quest’idea astrattaall’interno di una precisa forma filmica.Ecco spiegato l’ininterrotto pianosequenzadi ottantuno minuti, sorta di frase infinitadove nulla si interrompe ma tutto simuove. Una scelta registica rispettosa chénon spezza o sintetizza mai, a monte di unarappresentazione della vita come insiemedi eventi, di tempi, di memorie, di versionidella medesima storia tutti validi e cheaccadono tutti contemporaneamente in

una dimensione spaziotemporale dilatata, labirintica.Nella realtà esiste sempre un’ambiguità immanente, ènecessario che il cinema la restituisca e riveli in unarappresentazione dotata della medesima ambiguità. InAna Arabia, ma in tutto il cinema di Gitai, realtà e fin-zione, fantasia e Storia si alternano con disinvolturacome se fossero delle opzionali modalità narrative enon aspetti antitetici della vita. Si è di fronte a unacomplessità di scrittura audiovisiva che ridefinisce leregole facendo della contaminazione, della commistio-ne delle forme un vero e proprio principio compositi-vo. Per mezzo del pianosequenza la macchina da presaè direttamente coinvolta e intrattiene un rapportointersoggettivo con le cose. È il guardare (il percepire)di un soggetto, non più il mostrare (il registrare) diuna macchina. In Ana Arabia l’esperienza filmica nonè dettata dalla contemplazione di una storia racconta-ta dalle immagini in movimento, ma da immagini inmovimento che chiedono allo spettatore di partecipa-re attivamente. Del resto «un film», come dicevaFassbinder «è qualcosa che amplifica la vita, che laingrandisce. Perché non si tratta soltanto di copiarlama di cercare di comprenderla».

Matteo Marelli (Concorso)

ANA ARABIAdi Amos Gitai

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«E Medea, l’infelice abbandonata […] si strugge inlagrime, poiché si sente dal consorte offesa […] è tre-menda; e contro di lei chi mosse a nimicizia, facil nonsarà che riporti trofeo». In Moebius di Kim Ki-Duk iltradimento subito, che fa divampare l’ancestraledramma adulterino, si traduce in sofferenza ferina,espressione di una follia tragica, che trova sfogo inun’assoluta lacerazione. La madre punisce l’umiliazio-ne subita sostituendosi al padre nella cesura dellacastrazione, negando così l’impedimento alla relazioneincestuosa. Ki-duk rinuncia alla mediazione simbolicascegliendo di esprimersi per immagini di inequivoca-bile chiarezza, tanto da toccare l’esasperazione dida-scalica. Non gli occorrono parole per dirci che l’uomoè un’appendice del Fallo, che, incontrando i limiti delcorpo, la pulsione è lì canalizzata e che per questo ènucleo fondamentale che organizza il pensiero e rendemobili gli investimenti della libido; non ricorre a meta-foriche traslazioni semantiche ma mostra il tutto inbella e brutale evidenza: peni tagliati, mangiati, aspor-tati, trapiantati, buttati e schiacciati. E tutt’attorno undisperato girotondo di esseri avvolti tra loro in unlegame mortifero.Che il discorso di Ki-duk vada oltre le circostanze eadotti i toni di una riflessione più generale è reso evi-dente dalla scelta di lasciare i protagonisti coinvoltisenza nome. Prima di esse-re personaggi sono degliarchetipi, figurazione di unconcetto. Il padre, sce-gliendo di asportarsi edonare il proprio pene alfiglio, evirato dalla madre,lo condanna, inconsape-volmente, alla dannazioneedipica. Il desiderio delfiglio infatti troverà soddi-sfazione soltanto incon-trando il desiderio dellamadre, che a sua volta cor-risponde a quello delpadre nei confronti di lei. Ilfiglio è costretto a incarna-re il bisogno materno, cheappunto orbita intorno

all’oggetto fallico del padre: egli è il fallo che mancaalla madre; è il suo fallo. «Uno dei temi più misteriosidel teatro tragico greco è la predeterminazione dei figlia pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sonobuoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essidevono essere puniti. È il coro – un coro democratico– che si dichiara depositario di tale verità: e la enun-cia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli parenaturale» (Pier Paolo Pasolini, I giovani infelici, inLettere Luterane luterane – Il progresso come falsoprogresso, Einaudi, Torino 2003, pag. 5).Ki-duk avvolge la sua narrazione nel tempo sospesodel mito; fa saltare lo sviluppo in divenire introducen-do elementi che creano una sorta di circolarità tempo-rale senza fine e senza principio. Lo spettatore si vienecosì a trovare annodato in un Nastro di Möbius, inevi-tabilmente spossessato della meta cui l’inizio avrebbedovuto condurlo; smarrito nel non-luogo, si scopreincapace di tracciare una mappa coerente e attendibi-le, in grado di accogliere e armonizzare tutti i dati rac-colti nel tragitto filmico. E l’immagine è l’immagine diun tempo su cui nessuno ha alcun potere. Che siamemoria del passato o proiezione nel futuro ciò non faalcuna differenza.

Matteo Marelli (Fuori concorso)

MOEBIUSdi Kim Ki-duk

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Night Moves, ovvero (1) il nome dell’imbarcazionesulla quale i tre protagonisti compiono il gesto terro-ristico, ma anche (2) il titolo di una canzone di BobSeger, classico statunitense idealizzato come simbolo eicona di un Paese. E poi, soprattutto (3), un’espressio-ne quantomeno esplicativa e sintetica di ciò in cui sitrasformerà effettivamente il film nella sua secondaparte, in quel dopo che suggella in maniera così nettauna cesura con tutto quanto mostrato fino a quelmomento. Dopo la trasfigurazione del western inmateria astratta (Meek’s Cutoff), Kelly Reichardt que-sta volta parte da un immaginario strettamente noir (iltitolo è lo stesso di un poliziesco di Arthur Penn, initaliano Bersagli di notte, e siamo quindi a 4), tant’èche il film comincia e si sviluppa seguendo coordinateche sembrano proprie di un thriller in piena regola. Lapreparazione del piano, la ricerca del fertilizzante uti-lizzato come esplosivo, il viaggio silenzioso ed oscuro– in tutti i sensi – verso la diga che i tre attentatorifaranno saltare in aria: si respira un clima sospeso eimmateriale, fatto di lunghi silenzi e tempi dilatati, nelquale la tensione sale in maniera impercettibile fino aesplodere insieme alla bomba. Poi, lo scarto. Del resto, la libertà di scrittura pienamente raggiuntadalla regista le permette questo e altro, trasformandoil suo film in un oggetto pla-smabile che non può e nonvuole limitarsi a nessunaetichetta. Esattamentecome i suoi personaggi,Night Moves è indefinito emai compiutamente realiz-zato, perché neanche larealtà delle cose lo è: attra-verso i suoi ambientalistiradicali, la Reichardt rac-conta ancora una volta unPaese alle prese con lacostante ricerca di un’iden-tità e di un’ideologia, senzariuscire più a distinguere inmaniera netta e definitivacosa è giusto da cosa non loè. Un’America notturna e albuio, nella quale i suoi pro-

tagonisti non riescono mai a farsi vedere per ciò chesono veramente, ma solo per ciò che appaiono insuperficie; smarriti all’interno di un paesaggio che ètestimone indifferente e silenzioso, dinanzi al qualepersino l’omicidio (per quanto involontario e acciden-tale, come in Paranoid Park di Gus van Sant, non acaso nume tutelare della regista) perde qualsiasi formadi responsabilità innanzitutto umana, essi sono glistrumenti attraverso i quali la Reichardt permette allospettatore di guardare al mondo nella sua complessi-tà, nel suo insieme variegato di elementi. Ed è uno sguardo, o meglio una ricerca, mai facile ogratificante: perché la realtà è un universo sconosciu-to che non permette alcun manicheismo nel quale rifu-giarsi. L’ambiguità di Night Moves è l’ambiguità del-l’uomo e del suo pensiero, del mondo e delle conse-guenze delle azioni di chiunque, e la verità – se mai neesiste una – si nasconde là dove non te lo aspetti. Trai silenzi e gli sguardi, tra le strade e la gente. Inquell’Oregon che ormai nessuno riesce più a filmarecome invece fa la regista americana, sempre e comun-que saldamente ancorata all’idea di un cinema forte-mente legato al territorio.

Giacomo Calzoni (Concorso)

NIGHT MOVESdi Kelly Reichardt

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Il ponte usato come rappre-sentazione figurata del lega-me, e allo stesso tempodella distanza, tra dueopposti (tra l’adolescenza ela maturità, tra il vecchio eil nuovo, tra il bene e il malee così via) e del loro even-tuale superamento è unodei più ricorrenti elementidel dizionario di simboli acui il cinema (soprattuttoamericano) fa ricorso. Eprecisamente su un ponte sisvolgono due scene chiave(tra cui il finale) di Joe, cheè esplicitamente centratosul contrasto tra bene emale, sul crinale che li sepa-ra e sulla difficoltà di man-tenersi dalla parte giusta. L’America profonda, dovecase e baracche isolate sono separate da grandi distan-ze da percorrere su pick-up scassati, dove armi, bevu-te e scazzottate sono all’ordine del giorno, diventa,ancora una volta, in questo film dalla partenza lenta eapparentemente sfocata, ma dalla progressione ineso-rabile e coinvolgente, luogo in cui si svolgono conflittifondamentali, nei quali può rispecchiarsi chiunque,anche se la sua vita scorre ben lontana da quel mondo,da quei personaggi e da quelle situazioni.Joe (Nicholas Cage) è un good man come una volta,una sorta di cowboy fuori dal tempo: un capo che dàla giusta paga a chi lavora e che guarda dritto negliocchi di chi gli parla. Ma è anche un uomo che non rie-sce ad adattarsi alla legge, a regole che gli venganoimposte da un’autorità esterna, impersonale (che è ilmodo in cui la modernità risolve il problema della giu-stizia). Un uomo che ha sempre una pistola a portatadi mano e che tiene un cane killer come guardia dellasua proprietà e che è pronto a far uscire la parte piùviolenta di sé ogni qual volta qualcuno si azzardi aprovocarlo. A confrontarsi con il bene e il male non èsolo Joe. Ci sono anche altri due personaggi, un ragaz-zo e il padre di quest’ultimo, un vecchio alcolizzato. Itre appaiono in realtà come diverse facce dell’essere

umano di fronte al problema della scelta. Il vero pro-tagonista è Joe – sfaccettato, complesso, tormentato –che sta in mezzo agli altri due personaggi – il giovanee la sua adamantina aspirazione al bene e il vecchio,che ormai ha perdutamente scelto il male – più unidi-mensionali. Fra di loro compare anche una specie diincarnazione luciferina che tenta il protagonista, stuz-zicandolo con le sue gratuite provocazioni a far emer-gere la parte oscura di sé, e che tenta (senza riuscirvi)anche il ragazzo (sul ponte) e poi (con facilità) il vec-chio.David Gordon Green utilizza con abilità elementi diun paesaggio e di un campionario umano che il cine-ma ci ha mostrato tante volte e riesce a disegnare unprotagonista (eroico e perdente allo stesso tempo, giu-sto ma irrimediabilmente asociale) di notevole forza.Lo spettatore che aspettasse questo film per quandouscirà in sala deve essere però avvertito che – con tuttaprobabilità – il doppiaggio farà perdere le sonorità ori-ginali, essenziali per la creazione del suo significato:quando si esprimeranno in un italiano medio i perso-naggi inevitabilmente appariranno più piatti di quelche in realtà sono.

Rinaldo Vignati (Concorso)

JOEdi David Gordon Green

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CONCORSOJIAOYOU (STRAY DOGS) di Tsai Ming-liang

DIE FRAU DES POLIZISTEN di Philip Gröning

PHILOMENA di Stephen Frears

TOM À LA FERME di Xavier Dolan

LA JALOUSIE di Philippe Garrel

THE UNKNOWN KNOWN di Errol Morris

KAZE TACHINU di Hayao Miyazaki

ANA ARABIA di Amos Gitai

SACRO GRA di Gianfranco Rosi

ES-STOUH (LES TERRASSES) di Merzak Allouache

NIGHT MOVES di Kelly Reichardt

VIA CASTELLANA BANDIERA di Emma Dante

CHILD OF GOD di James Franco

JOE di David Gordon Green

MISS VIOLENCE di Alexandros Avranas

THE ZERO THEOREM di Terry Gilliam

UNDER THE SKIN di Jonathan Glazer

TRACKS di John Curran

PARKLAND di Peter Landesman

L’INTREPIDO di Gianni Amelio

FUORI CONCORSODIE ANDERE HEIMAT – CHRONIK EINER SEHNSUCHT di Edgar Reitz

WOLF CREEK 2 di Greg McLean

LOCKE di Steven Knight

GRAVITY di Alfonso Cuarón

MOEBIUS di Kim Ki-duk

HARLOCK: SPACE PIRATE di Shinji Aramaki

DISNEY MICKEY MOUSE ‘O OLE MINNIE di P. Rudish, A. Springer, C. Morrow

YURUSAREZARU MONO (UNFORGIVEN) di Lee Sang-il

WALESA. CZLOWIEK Z NADZIEI (WALESA. MAN OF HOPE) di A. Wajda

UNE PROMESSE di Patrice Leconte

AMAZONIA di Thierry Ragobert

THE CANYONS di Paul Schrader

PROIEZIONI SPECIALIREDEMPTION di Miguel Gomes

AT BERKELEY di Frederick Wiseman

SUMMER 82 WHEN ZAPPA CAME TO SICILY di Salvo Cuccia

PINE RIDGE di Anna Eborn

THE ARMOSTRONG LIE di Alex Gibney

FENG AI (‘TIL MADNESS DO US PART) di Bing Wang

UKRAINA NE BORDEL (UKRAINE IS NOT A BROTHEL) di Kitty Green

CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO – SCOLA RACCONTA FELLINI di E. Scola

LA VOCE DI BERLINGUER di Mario Sesti e Teho Teardo

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DI CIN

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4 5 5 5 5 4 4 4 3,5 3 5 5 5 4 5 4 5 4,5

5 3 4 1 4 4 4 3,5 5 4 4 4 4 3 5 3,9

4 4 3 3,5 3 3,5 4 4,5 3,5 3,5 4 4 4 3,5 4 3,8

4 4 3,5 3 4 3,5 2 3,5 4 3,5 4 4 3 3,5 3,5 4 4 3,5 3,6

3,5 5 3 3 4 3 4 3,5 3,5 3,5 5 3 3 4 3,5 4 2 3,6

4 3,5 3,5 2 2 3 3 3 4 4,5 3,5 4 5 5 3,5 3,5 3,5 4 3,5

4 3 5 4 3 3 3 2 4 2 5 3,5 3,5 3,5 2 3,3

3 3,5 5 3,5 4 3 3 3 3,5 4 1 4 4 3 2 3 3,2

3,5 3,5 3,5 3 2 3 3 3,5 3,5 3,5 3,5 3,5 4 2 4 4 3 3,1

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3 3,5 3 3,5 3 2 2 3,5 4 2 4 2 1 4 3 3,5 3 2,8

2 3 3 3,5 3 4 3 3 2 4 2 3,5 1 3 3,5 3 3,5 2,8

3,5 2 5 2 2 3 4 1 3,5 2 2 4 1 3,5 2 5 2 2,6

3,5 3 3 2 3,5 2 3 2 2 2 1 3 1 3 3 3 3 3 2,4

2 3 2 3 2 3 2 2 4 2 1 2 2 2 2 1 2,2

1 3 1 2 2 1 4 1 2 2 3,5 2 2 1,9

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CON IL FIATO SOSPESO di Costanza Quatriglio

DIETRO LE QUINTE DI OTTO E di Gideon Bachmann

DAI NOSTRI INVIATI – 1980-1989 di E. Salvatori, G. Giannotti e D. Savelli

ORIZZONTIHOUSES WITH SMALL WINDOWS di Bülent Öztürk

COLD SNAP di Leo Woodhead

MAHI VA GORBEH (FISH & CAT) di Shahram Mokri

STILL LIFE di Uberto Pasolini

SHISHUI (STAGNANT WATER) di Xiawei Wang

BALLKONI (BALCONE) di Lendita Zeqiraj

KUSH di Shubhashish Bhutiani

EASTERN BOYS di Robin Campillo

DEATH FOR A UNICORN di R. Bernasconi e F. Reverdito

LA GALLINA di Manel Raga

WOLFSKINDER (WOLFSCHILDREN) di Rick Ostermann

BAYUR (LITTLE BROTHER) di Serik Aprymov

QUELLO CHE RESTA di Valeria Allievi

UN PENSIERO KALASNIKOV di Girogio Bosisio

RUIN di Amiel Courtin-Wilson e michael Cody

ANINGAAQ di Jonas Cuarón

LA VIDA DESPUÉS di David Pablos

JIGOKU DE NAZE WARUI (WHY DON’T YOU PLAY IN HELL?) di S. Sono

LA PRIMA NEVE di Andrea Segre

VI ÄR BÄST! (WE ARE THE BEST!) di Lukas Moodysson

MINESH di Shalin Sirkar

TOUTES LES BELLES CHOSES di Cécile Bicler

THE AUDITION di Michael Haussman

MEDEAS di Andrea Pallaoro

PICCOLA PATRIA di Alessandro Rossetto

PALO ALTO di Gia Coppola

BLANCO di Ignacio Gatica

THE SACRAMENT di Ti West

IL TERZO TEMPO di Enrico Maria Artale

JE M’APPELLE HMMM… di Agnès B.

ALGUNAS CHICAS di Santiago Palavecino

VENEZIA CLASSICIMY DARLING CLEMENTINE (SFIDA INFERNALE) di John Ford

SORCERER (IL SALARIO DELLA PAURA) di William Friedkin

LITTLE FUGITIVE (IL PICCOLO FUGGITIVO) di R. Ashley, M. Engel e R. Orkin

¿QUIÉN SABE? di Damiano Damiani

NON ERAVAMO SOLO… LADRI DI BICICLETTE. IL NEOREALISMO di G. Bozzacchi

HÔTEL MONTEREY di Chantal Akerman

LE 15/8 di Chantal Akerman e Samy Szlingerbaum

PROFEZIA. L’AFRICA DI PASOLINI di Gianni Brogna

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PANE E CIOCCOLATA di Franco Brusati

TIAN MI MI (COMRADES: ALMOST A LOVE STORY) di P. Ho-sun Chan

BIENNALE COLLEGE – CINEMAMEMPHIS di Tim Sutton

YURI ESPOSITO di Alessio Fava

MARY IS HAPPY, MARY IS HAPPY di N.Thamrongrattanarit

THE NORM OF LIFE di Evgeny Byalo

GIORNATE DEGLI AUTORISIDDHARTH di Richie Mehta

LA MIA CLASSE di Daniele Gaglianone

LENNY COOKE di Benny e Joshua Safdie

BETHLEHEM di Yuval Adler

LA BELLE VIE di Jean Denizot

KOKSUZ (NOBODY’S HOME) di Deniz Akçay Katiksiz

LA RECONSTRUCCIÓN di Juan Taratuto

ALIENATION di Milko Lazarov

MAY IN THE SUMMER di Cheiren Dabis

GERONTOPHILIA di Bruce Labruce

LE DONNE DELLA VUCCIRIA (MIU MIU WOMEN’S TALES) di H. Abbass

THE DOOR (MIU MIU WOMEN’S TALES) di Ava Duvernay

KHAWANA (TRAITORS) di Sean Gullette

KILL YOUR DARLINGS di John Krokidas

VENEZIA SALVA di Serena Nono

RIGOR MORTIS di Juno Mak

L’ARBITRO di Paolo Zucca

JULIA di J. Jackie Baier

TRES BODAS DE MAS di Javier Ruiz Caldera

SETTIMANA DELLA CRITICAÅTERTRÄFFEN (THE REUNION) di Anna Odell

LAS NIÑAS QUISPE di Sebatián Sepúlveda

L’ARMÉE DU SALUT di Abdellah Taïa

SHUIYIN JIE di Vivian Qu

RAZREDNI SOVRAZNIK (CLASS ENEMY) di Rob Bicek

LOS ANALFABETAS di Moisés Sepúlveda

WHITE SHADOW di Noaz Deshe

ZORAN, IL MIO NIPOTE SCEMO di Matteo Oleotto

L’ARTE DELLA FELICITÀ di Alessandro Rak

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Per sovrapposizioni d’orario o contingenze simili non sono stati visti da nessuno dei collaboratori i film la cui mediacompare con la sigla nc.

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Concorso

Es-Stouh (Les terrasses)

di Merzak Allouache

(a.f.) Bab El-Oued un quartierepopolare di Algeri, abbarbicato sullacollina che degrada verso il mare,alle sue spalle l’intricato reticolourbano della casbah, davanti i gran-di viali trafficati del lungomare cheseguono la sinuosità della baia che siapre sul mare. Le Terrazze del titolodel film di Merzak Allouache, sonoquelle che sovrastano quasi tutti gliedifici del quartiere, luoghi dove gliabitanti dei palazzi, popolari o meno,si ritrovano (si ritrovavano) persocializzare, per godere del bellissi-mo paesaggio della baia e del porto,per festeggiare (un matrimonio, peresempio), ma che oggi, secondo ilregista, sono anche diventate luoghidi violenza e di precarietà sinoni-mo delle tensioni che sta vivendo lasocietà algerina contemporanea,apparentemente ormai lontana dalleviolenze che hanno caratterizzato ildecennio precedente attraversatodalla furia terrorista. Cinque storie si intrecciano nel corsodi una narrazione scandita dalle cin-que preghiere che il Muezzin lanciadagli altoparlanti e che scandiscono

il tempo della giornata e della notte.Una serie di microcosmi e di perso-naggi entrano ed escono dalla narra-zione di un film che non cerca dispiegare niente, non gioca la cartadella facile indignazione, non vuoleenfatizzare gli eventi, ma cerca,attraverso un registro “in levare” diraccontare una società apparente-mente pacificata dove in realtà bolleun magma in cui modernità e tradi-zioni, vecchi riti e nuove tecnologie,si scontrano fatalmente. Il registafrancoalgerino entra in punta dipiedi in questi microcosmi, scrutacon la sua macchina da presaun’umanità dolente (lo zio tenuto let-teralmente in gabbia), alle prese conle tensioni stridenti tra passato e pre-sente (la figura del guaritore), unaviolenza strisciante nei rapporti diforza tra chi ha e chi non ha, il diva-rio sempre più ampio tra ricchi epoveri, la voglia (soprattutto, ovvia-mente, tra i più giovani) di uscire daquesta impasse.

Child of Goddi James Franco

(a.c.) Un adattamento che convince ametà: Child of God, film tra i più(ingiustamente) criticati del concorsodella Mostra di Venezia 2013, confer-ma pregi e difetti del James Francoregista. Da una parte un’innata viva-cità cinematografica, caratterizzata dacontinui saliscendi stilistici e da presedi posizione registiche rischiose e maibanali, dall’altra una messinscenaancora piuttosto acerba e incerta sullagiusta strada da imboccare. Trattodall’omonimo capolavoro letterario diCormac McCarthy (datato 1974),Child of God racconta la vita di LesterBallard, balordo violento e rifiutatodalla società. Sfrattato dalla sua pro-

prietà e messo ai margini della conteadi Sevier, nel Tennessee (stato in cuiMcCarthy è cresciuto), Lester spro-fonderà, gradualmente, in un vorticesegnato dal crimine e dalla degenera-zione. Dopo aver portato sul grande scher-mo As I Lay Dying di WilliamFaulkner (pubblicato nel 1930), pro-posto all’interno della sezione UnCertain Regard dell’ultimo Festival diCannes, Franco si “appoggia” a unaltro classico della letteratura ameri-cana del Secolo scorso, adattandolodignitosamente. Fedele allo spirito delromanzo, Child of God (quarta tra-sposizione sul grande schermo per leopere di Cormac McCarthy) riporta,in maniera fin troppo didascalica, per-sino la matrice descrittiva del testo dipartenza tramite una (poco raffinata)voce narrante.Nonostante gli eccessi e lo scarsosenso della misura, Franco si confer-ma un regista di buon talento ingrado di stupire, emozionare e coin-volgere lo spettatore, trascinandolocon successo nella psicologia inquietae perversa del suo protagonista. Ilregista si concede anche una piccola(e, francamente, poco utile) apparizio-ne davanti alla macchina da presa, acompletare un cast vanamente allaricerca di essere all’altezza del pococonosciuto Scott Haze, un grandiosoLester Ballard per il quale si è ispira-to, a suo dire, a tre personaggi chehanno fatto la storia del cinema: il

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Travis Bickle di Robert De Niro inTaxi Driver, il Joker di Heath Ledgerin Il cavaliere oscuro e, su suggeri-mento di James Franco, il vagabondoCharlot in La febbre dell’oro.

The Zero Theoremdi Terry Gilliam

(f.p.) Qohen Leth è un geniale pro-grammatore di computer che vive eopera in un futuro governato dallemultinazionali. Si divide tra i suoiturni di servizio e la casa-santuario incui si rinchiude per sfuggire alle pres-sioni di un mondo che sente estraneoe pericoloso. Oscillando tra misantro-pia patologica e bisogno inconscio dicalore, Qohen rischia di impazzirequando i suoi superiori gli affidano losviluppo di un progetto apparente-mente impossibile da realizzare e chedovrebbe ridefinire lo scopo ultimodell’esistenza. Il cinema di Terry Gilliam assomigliasempre di più a un mantra, a una con-centrica variazione sul tema. I riverbe-ri – teorici e stilistici – di Brazil sonopalesi, ma nelle relazioni tra i perso-naggi e nelle loro psicologie s’intui-scono rimandi a L’esercito delle dodi-ci scimmie e a La leggenda del RePescatore. Gilliam, oltre alla consape-vole autocitazione, ha spinto il suocinema verso un cortocircuito temati-

co che rende quasi circolare il suo cor-pus filmico fino a caratterizzare operedifferenti come variabili di un’ideafissa. Il senso di déjà vu riguarda sia lescenografie – che costruiscono un ipo-tetico vintage futuribile in bilico tratecnologia e modernariato postindu-striale – che le teorizzazioni su tempo,libertà, massificazione, dominioorwelliano del capitale. La messa inscena di Gilliam, che ha fatto dell’ori-ginale brillantezza un canone visivo,conserva la sua feroce ironia ma senzauna rinnovata capacità interpretativa,come se tutto quello che c’era da direfosse stato già detto. Anche la fisiognomica dei personaggiè un rimando al passato: ChristophWaltz ripete i tic psicotici di JonathanPryce e sfoggia un cranio lucido comeBruce Willis. La differenza è forse nel-l’ostentata cupezza dello sguardo diGilliam, che aggiunge al ghigno sarca-stico delle sue inquadrature sghembee deformate un senso di disperazioneverso un presente/futuro sempre piùdisumano. Un’ombra di distacco fata-lista che traspare già dalla scelta ono-mastica: Qohen Leth è un modernoEcclesiaste (Qohèlet, appunto) che,come nel libro più filosofico e disin-cantato del Vecchio Testamento, s’in-terroga sulla vanità dell’universosenza trovare nessuna risposta certa.

Under the Skindi Jonathan Glazer

(l.g.) Uno dei film più sconclusionatidella rassegna veneziana. ScarletJohansson è un’aliena che arriva sullaTerra e gradualmente prende coscienzadella propria sessualità, poiché la suaavvenenza suscita nelle vittime deside-ri dei quali inizialmente non riesce acapire l’origine e la natura. Come acca-de spesso con i film dove il progetto

originale subisce in seguito diversirimaneggiamenti sul piano della sce-neggiatura, Under the Skin è una spe-cie di fiera delle occasioni mancate. Parte con un sofisticato apparato visi-vo che rimanda alla fantascienza stiliz-zata degli anni Settanta, del quale perònon rimane traccia in seguito. La sto-ria infatti prende un’altra strada,incentrata sul disorientamento dellaprotagonista, catapultata in un mondo– siamo in Scozia – che non conosce enon capisce. Ma anche su questo fron-te il film esaurisce presto il proprioslancio, per concentrarsi quindi sullaquestione dell’identità femminile, dellasua dimensione fisica, che per il perso-naggio rappresenta un pianeta nonmeno misterioso di quello dove è atter-rata. Tante buone idee che rimangonolì, sospese, senza mai essere sviluppatein modo compiuto. A dispetto del tito-lo, un film superficiale.

Fuori Concorso

Summer 82When Zappa Came to Sicily

di Salvo Cuccia

(a.f.) Nell’estate del 1982 gli italianisono incollati agli schermi televisivi

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per seguire i campionati mondiali dicalcio che, quell’anno, si svolgono inSpagna. In quella stessa estateapproda in Italia il grande musicistae compositore statunitense FrankZappa per un tour che tocca nell’or-dine Milano, Pistoia, Roma, Napoli ePalermo. Geniale istrione, oltre chemusicista iconoclasta, Zappa non silascia sfuggire l’occasione, affascina-to com’è da quell’evento, per mesco-lare il sacro e il profano. Si racconta,infatti che nella tappa di Pistoia fecemontare un maxi schermo dietro ilpalco sul quale gli spettatori del con-certo potessero seguire GermaniaOvest-Francia (lo racconta LorenzoMaffei sul suo blog). Per non parlaredella tappa romana che coincide conla vittoria dell’Italia e i conseguentifesteggiamenti con i caroselli auto-mobilistici per le strade dellaCapitale, che esalta ancor di più ilmusicista. Tutto questo avrà inveceun finale amaro nel disastroso con-certo palermitano. Incredibilmentemessa in calendario (difficilmente igrandi nomi allora scendevano finolà), Zappa (la cui famiglia è origina-ria di Partinico), si spinge invece finoa Palermo. Da sempre fan del cantante, il futu-ro regista Salvo Cuccia acquista ilbiglietto per il concerto, ma non viarriverà mai. Il perché lo raccontatrent’anni dopo in questo bellissimodocumentario quando, insieme allavedova dell’indimenticato musicista

(1940-1993) e i figli che compionoun viaggio in Italia sulle tracce deisuoi progenitori e su quelle dellostesso viaggio che Frank intrapreseall’epoca del concerto, ricostruiscequel fatidico giorno raccontando unpersonaggio, un uomo, ma anche unclima (quello infuocato di queglianni caratterizzati, tra l’altro, dauna delle più feroci guerre di mafia).Ricordi personali (bellissimo ilritratto del padre scomparso prema-turamente), ritratto di un’epoca,quadro storico e ricognizioni geo-grafiche, completano un lavoro nonsolo dedicato ai fan dell’autore diHot Rats, ma a tutti quelli che cre-dono, come dice l’autore che: «Lavita è fatta di materiali contrastantie così anche l’arte, e a volte l’unacambia il percorso dell’altra, in undialogo continuo».

Wolf Creek 2di Greg McLean

(a.m.) Nella cultura australiana, lapercezione dell’interno del Paesecome un luogo di rifugio romanticoconfligge con l’immensità e l’intrat-tabilità di un paesaggio/continentequasi completamente desertico evuoto di gente. In Australia, che hovisitato tante volte anche nei luoghimostrati nel film di Greg McLean, ildesiderio romantico di ritrovare lapropria spiritualità nella naturaaliena e ostile si scontra con la ver-sione materiale di quest’ultima,antitetica a una visione romantica insenso occidentale. Rovesciato,rispetto a noi, per quanto riguardaciclo stagionale, atmosfera e signifi-cato, il paesaggio dell’outbackaustraliano come specchio dell’ani-ma riflette il grottesco e il desolatopiuttosto che il bello e il pacificato.

Il ritratto delle comunità rurali eisolate nei film australiani del gene-re “gotico” si basa sulla loro alteritàrispetto all’ambiente urbano e aisuoi abitanti. Queste diversità sonomesse in evidenza dall’arrivo di out-siders, viaggiatori che si muovonodal margine civilizzato del Paeseverso l’interno isolato, l’outback,come i giovani tedeschi del film. Per questo è così azzeccata e “giu-sta” la serie horror di Wolf Creek. Ilcratere è un grande Buco Nero doveannegano rimorsi, paure, idiosincra-sie della popolazione bianca delContinente. Il cratere rigurgitaanche il suo vendicatore, il sadicoserial killer Mick Taylor (si chiamaproprio come l’ex chitarrista degliStones, incredibile), che finisce perimpersonare una certa identitàaustraliana nazionalista e conserva-trice, che distrugge tutto ciò che puòinquinarla (gli odiati “stranieri”). Ilkiller si muove sul suo pickup scas-sato lungo le strade diritte e perseall’orizzonte dell’outback, in unariedizione della saga di Interceptor.Nei road movies americani, il mezzomeccanico e la strada possono esse-re interpretati come liberatori oricostituenti, oggetti di aspirazione oagenti di trasformazione per chiviaggia; all’opposto, nei road moviesaustraliani, l’auto o la moto sonoprerequisiti essenziali di sopravvi-venza nelle isolatissime aree rurali.La strada diventa il luogo del con-

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flitto mortale; conta arrivare, nonciò che accade tra l’inizio e la finedel viaggio, come normalmente neiroad movies. Anche qui, la differen-za è notevole, e il bellissimo WolfCreek 2 lo conferma in pieno.

Harlock: Space Piratedi Shinji Aramaki

(g.c.) Il rischio maggiore, natural-mente, era quello di deludere leaspettative dei numerosi fan dellaserie animata (e del manga) di LeijiMatsumoto: pericolo sventato alme-no in parte, dal momento cheHarlock: Space Pirate si proponeinnanzitutto come operazione stret-tamente ipertestuale, in grado diattraversare immaginari e contestitra loro differenti sia per natura cheper provenienza geografica (contanto di palesi riferimenti alla sagadi Star Wars, soprattutto ai tre capi-toli della nuova trilogia). Questa versione digitale in motion-capture a firma di Shinji Aramakinon è, come previsto, l’adattamentofedele delle avventure dell’Harlockche tutti (o quasi) conosciamo, maallo stesso tempo ne mantiene intat-te alcune componenti fondamentali:l’esaltazione dei valori universali dipace e speranza, la ricerca costantedi un nuovo inizio per il pianetaTerra, il terrore e il disgusto nei con-fronti della guerra (nonostantebuona parte del film sia dedicata adampie e non sempre giustificatesequenze di battaglia). Decisamente più cupo rispetto allaserie originale, il film di Aramakilavora sull’icona rappresentata daHarlock e ne stratifica maggiormen-te la personalità, mettendolo a con-fronto con antagonisti in grado diminarne le certezze e la buona fede;

allo stesso tempo, però, si inseriscepienamente all’interno della poeticamatsumotiana secondo la qualeogni viaggio è metafora, alla costan-te ricerca di un nuovo inizio tramiteil quale poter rifondare la saga.Senza mai andare ad approfondirele questioni messe sul tavolo, certo, epreferendo adagiarsi entro i confinidi un intrattenimento tecnicamentepiù che valido e, tutto sommato,discretamente divertente.

Ukraina ne bordel (Ukraine Is Not a Brothel)

di Kitty Green

(p.b.) Kitty Green, giovanissimaregista australiana, segue le azioni,ormai diventate transnazionali, delgruppo femminista ucraino dellaFemen. Chi negli ultimi due anninon è vissuto sulla Luna ne avràsenz’altro già sentito parlare. Ilgruppo femminista di Kiev è riusci-to a raggiungere un successo che hadell’inverosimile per un gruppo diragazze che comunque si autopro-clamano femministe: un termine che– ahinoi – è lentamente scivolato dalrango di identità politica a quello distigma del linguaggio comune.L’ingrediente principale di questosuccesso è presto detto: si tratta dimettere in scena delle azioni dimo-

strative, tanto sensazionali quantopovere di contenuti, che abbianocome obiettivo una generica criticadel sistema patriarcale, e di farlo…completamente nude! Aiutate da un sospetto fisico damodelle e da un furbissimo uso deimedia, le Femen sono riuscite a rag-giungere un livello di popolaritàimpensabile. La contraddizione dimostrarsi nude a combattere ilpatriarcato – ovvero di utilizzareuno strumento della propria oppres-sione con la finalità di denunciare lastessa – è sufficientemente eclatante.Kitty Green scarta abilmente ilparadosso politico e decide invece diguardarle dall’interno, cercando dicapirne i dispositivi di funzionamen-to e scoprendo diversi elementi cheribaltano completamente il quadro.Pochi sanno, ad esempio, che leFemen sono capeggiate niente menoche da uomo. Il patriarcato che sivoleva combattere insomma risorgeproprio al cuore delle relazioni delgruppo. Da gruppo di furbette che sonodiventate superstar utilizzando ilproprio corpo e qualche slogangenerico, le Femen diventano in que-sto film un’espressione e un sintomoproprio di quello che vogliono com-battere. La contraddizione tra laforma e il contenuto delle loro azio-ni passa in secondo piano e subisceun ulteriore rivolgimento metarifles-sivo: perché è proprio la loro presen-

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za sulle copertine di mezz’europache mostra come il patriarcato stianella forma del loro successo e nonnella modalità o nei contenuti delleloro azioni.

Yurusarezaru mono (Unforgiven)

di Lee Sang-Il

(m.c.) L’idea di prendere il soggettoscritto da David Webb Peoples e tra-sformato da Clint Eastwood in queltardo western antieroico che èUnforgiven, per farne un remakeambientato in terra giapponese,nello stesso periodo storico (il 1880),potrebbe lasciare perplessi. Ma allafin fine il progetto Yurusarezarumono risulta sostanzialmente riusci-to proprio nella misura in cui simuove nei limiti del semplice adatta-mento, senza ambire a sterzate stili-stiche e narrative rispetto all’origina-le, anzi mantenendone persino iltono introflesso e pensoso. Il mar-chio Warner che campeggia sui titolidi testa è garanzia di un prodottoche nasce tra le pareti della casamadre della Malpaso di Eastwood elo sguardo nippocoreano di LeeSang-Il (già autore di Villain e diHula Girl) garantisce un equilibriodinamico tra matrici culturali efedeltà dei caratteri.

Con Ken Watanabe, la più interna-zionale delle star giapponesi, a inter-pretare il ruolo appartenuto a ClintEastwood nell’originale,Yurusarezaru mono si muove allafine dell’era Meiji, nello scenariodeclinante dello shogunato, a Ezo(ora Hokkaido), l’isola più a norddel Giappone. Sullo sfondo dellavendetta cercata dalla prostituta sfi-gurata a colpi di lama, il film intrec-cia il senso di colpa di JubeiKamata, un ex ronin fedele allo sho-gun, temuto come spietato assassinoma ora umile contadino che allevadue figli sulla tomba della moglie; levicende degli Ainu, gli aborigena diEzo odiati dall’orgoglio nipponico; ela figura ributtante di un violentocapo delle truppe imperiali.

The Canyonsdi Paul Schrader

(r.m.) Il problema di Bret EastonEllis è che quando a vent’anni si èpiù avanti di tutti (non più bravo,più avanti), conviene muoversi pertempo, evolvere e cambiare, perchése poi a un certo punto gli altricominciano ad arrivare, il rischio èquello di farsi superare e diventarefatalmente vecchi. The Canyons, perquanto prodotto e realizzato condue lire (ma a inizio lavorazione daitweet del petulante Ellis si percepi-vano ben altre intenzioni), è un filmfallimentare nelle intenzioni, fermoa tutto ciò che sappiamo dell’Ellisromanziere e dell’Ellis sceneggiato-re: parola come significante puro,situazioni come sculture iperreali-ste, più vere del vero ma inermi, per-sonaggi vuoti come vuoti sono illoro cuore e il mondo che li ospita. Se poi quel mondo è Hollywood, ilsolito sottobosco di attorucoli,

produttori ossessivi, ville in legnochiaro, sex addicted e omicidi,l’aggravante sta proprio in unragionamento fatto, sì, sul nulla,ma soprattutto di nulla, con lasolita scappatoia dello specchia-mento tra personaggi e senso gene-rale che non regge più da secoli (èun film di morti perché morto èl’ambiente e morto è pure il cine-ma), e che non raddrizzi nemmenose il contributo di Paul Schrader almesto disastro consiste nel monta-re in apertura fotogrammi di cine-ma abbandonati, come se bastasseripetere il concetto – «Siamo tuttimorti!», lo ripetiamo anche noi –per allestire nella solita, vecchiaterra desolata il solito, vecchiospettacolo della morte al lavoro.Siamo già oltre, grazie. Anche damorti.

Con il fiato sospesodi Costanza Quatriglio

(g.b.) La linea di demarcazione fradocumentario e film di finzione èsempre più incerta e mutevole e si stariconfigurando in questi anni conmolteplici sperimentazioni che scar-dinano empiricamente (con una liber-tà di linguaggio che mette in discus-sione i codici narrativi) i modelli con-solidati (i film realizzati) e la capacità

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di concettualizzare delle parole alungo (se non da sempre) utilizzateper definire i film e riconoscerne iconfini. Si è aperto un orizzonte daesplorare, una terra di nessuno di cuinon troppo si conosceva, uno spazioche permette infinite sperimentazionie che si sta espandendo offrendoimprevedibili occasioni sia per gliautori che per gli spettatori. Venezia70 ha offerto numerosi indizi su comesi sta muovendo questa trasformazio-ne. Certamente uno dei più lucidi estimolanti è rappresentato da questomediometraggio (trentacinque minu-ti) della Quatriglio e dalle riflessionicon cui l’autrice ne ha accompagnatola presentazione: «Ciascun cineasta…sperimenta in continuazione quellimite oltre il quale ciò che si vuoleraccontare diventa… non filmabile.Nel cinema documentario il non fil-mabile è quella soglia che divide ildiscorso pubblico che un testimoneha desiderio e disponibilità a fare e lapropria intimità che ritiene inviolabi-le… Nel caso specifico dei fatti rac-contati… la percezione di questolimite fin da subito mi ha spinto adesiderare la messa in scena, la scrit-tura di una sceneggiatura e il lavorocon gli attori. Anche quella tra cine-ma di finzione e cinema documenta-rio è una soglia, ed è proprio lavoran-do su questi diversi limiti, che ho con-cepito il film».Il soggetto è originato da fatti realiaccaduti nei laboratori di chimica,

chiusi dalla Magistratura per inqui-namento ambientale nel 2008, dellaFacoltà di Farmacia dell’Università diCatania, e sui contenuti del memoria-le di un giovane dottorando di ricercache aveva lavorato in quei laboratorimorto per un tumore al polmone.L’autrice ha indagato sugli eventi, poiha scelto di trasformarli in sceneggia-tura e infine come narrarli. Per espri-mere la situazione facendo emergerenarrativamente la drammatica realtàche vivono i giovani appassionatiricercatori, si affida precipuamente aun’intervista (senza respiro, nel sensodi insistita, impietosamente determi-nata, ma mai aggressiva) a un perso-naggio di finzione, Stella (una AlbaRohrwacher di grande efficacia), lacui testimonianza (chi la interroga,fuori campo, è la stessa regista) fondeelementi personali ed esperienze con-divise. L’approccio rende forse troppodescrittiva la narrazione e la suatematizzazione, ma lo sviluppo stili-stico è incisivo e pervaso di suggestio-ni linguistiche. È un lavoro importan-te che porta a riflettere a nostro pare-re sia per come è costruito che per lequestioni che testimonia. Emerge, inogni caso, con trasparenza che l’Italianon è un Paese per i giovani, nemme-no per quelli che si impegnano e checercano con il loro impegno di offrir-ci un futuro.

Orizzonti

Wolfskinder (Wolfchildren)

di Rick Ostermann

(f.t.) Erano bambini, sono diventa-ti lupi. Si nascondono nei boschi,

dormono per terra, mangiano ciòche trovano. Hanno lo sguardo lim-pido, trasparente, dei bambini: ilmondo si riflette in quegli occhi intutta la sua bellezza indifferente, intutta la sua violenza crudele. Mahanno anche l’espressione affama-ta, disperata, del lupo braccato,dell’animale che è solo istinto,fame, freddo, paura. Wolfskinder,esordio convincente di RickOstermann, racconta i “bambinilupo” costretti a nascondersi dallafuria dei soldati sovietici. Il film è ambientato in terra prus-siana (orientale) nel 1947. I fratel-li Hans e Fritzchen Arendt, persala madre, iniziano una lunga odis-sea nel tentativo di raggiungere laLituania. Si perdono e si ritrovano,mentre vivono un’esperienza daincubo, incrociando altri orfanicome loro, altre vittime innocentidella guerra e dell’odio.Ostermann non ci risparmia nulladelle loro sofferenze, ma allo stes-so tempo riesce a raccontarci illoro mondo interiore con grandesensibilità. Ci racconta soprattuttoHans, il bambino, che appare inmezzo a un campo, tra nuvole,alberi, visioni estatiche, la suaintensità silenziosa, il coraggio, ildolore. E ci racconta che queiragazzini, se volevano sopravvive-re, dovevano rinunciare a ciò cheerano, accettare di avere un nuovonome e cognome, nuovi genitori,

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un nuovo Paese. Ecco, si parlaanche di radici, in questo film,intese come identità, come il dirit-to (violato) a essere ciò che si è.

La vida despuésdi David Pablos

(a.u.) La famiglia. Non è il caso,qui, di allargare il discorso alleragioni di così tanto cinema diargomento familiare, dell’insisteresulla cellula base, più o meno mala-ta, disfunzionale, del vivere sociale,leitmotiv di molta parte dei filmveneziani. Quel che è certo è che ilmessicano David Pablos aveva giàaffrontato a modo suo il problemadella famiglia mutila, delle conse-guenze della “vita dopo” – lì era lamadre a essere morta, ammazzata –in La canción de los niños muertos(2008), un bel corto pluripremiato,disturbante nel ritrarre le psicologiedi un padre e del gruppo dei suoifigli, sottratti a ogni regola civile, inun purgatorio di alcool e abusi,depressione e follia. Con più pudore, e ancor maggioreempatia, La vida después muove daun paradiso terrestre imperfetto, dauna gita al mare: Silvia, la madre,che sorveglia i giochi innocenti diSamuel e Rodrigo, un emblematicshot non risolto, un’armonia appa-

rente, una famiglia incompleta. Ilsistema di Silvia, anche quello ner-voso, andrà in crisi con il suicidioimprovviso di suo padre, e anche ilpaesaggio intorno sarà deserto, efoto da stracciare; come lei, si incri-na anche Rodrigo, il figlio maggio-re, che più le somiglia, che condivi-de la sua fragilità rabbiosa. Samuel,che non a caso è “invisibile” pergioco all’inizio del film e crederà diesserlo ancora durante la bellasequenza del funerale del nonno,sembra essere più equilibrato: gesti-sce al meglio il rapporto conRodrigo, nella ricerca della madre,quando questa sparisce lasciandodietro di sé un semplice biglietto;riesce, infine, a ritagliarsi una via disalvezza, un aldilà terreno, una “vitadopo” che è una “vita senza”: senzalei, senza il fratello, senza famiglia.

Jigoku de naze warui (Why Don’t You Play in Hell?)

di Sion Sono

(g.c.) Il Sion Sono che non ti aspet-ti. Temevamo di averlo un po’ persoper strada, dopo il dittico sul terre-moto di Fukushima composto daHimizu e The Land of Hope; quasisi fosse arenato nei meandri di uncinema giusto ma forse tropposerioso, a tratti incapace di trasfor-mare l’impegno e la partecipazionein una vera poesia dello sguardo (èil caso soprattutto di The Land ofHope). E invece ecco un oggettocompletamente diverso, questoJigoku de naze warui (Why Don’yYou Play in Hell?)… O forse no?Diverso nei toni, sicuramente, ma aben pensarci, non si può evitare divedere in questa divertente – edivertita – apocalisse pop unasorta di dimensione parallela

rispetto agli orrori concreti edrammatici del Reale. Una pausa ludica e di intratteni-mento, insomma: nel Cinema, sulCinema, con il Cinema. Un universoin cui piegare qualsiasi legge fisicao narrativa al proprio volere, dovela morte non esiste se non in virtùdi un disegno più ampio che è quel-lo del regista demiurgo e deus exmachina; un rifugio, un antro nelquale nascondersi e dare liberosfogo alla fantasia creativa, inrisposta a un mondo in cui ledistrazioni non sono permesse equalsiasi perdita è irrimediabil-mente, tragicamente vera. La storia è quella di un gruppo digiovani ragazzi – i Fuck Bombers –alle prese con la realizzazione di unfilm che dovrà «cambiare la storiadel cinema», e che si ritroveranno ariprendere dal vivo la resa dei contitra due importanti famiglie dellayakuza, in un crescendo parossisti-co e fanciullescamente anarchico.Sion Sono mescola senza timorereverenziale Kitano e Truffaut,Tarantino e Kurosawa, evitandosempre la trappola del citazionismosterile: in Jigoku de naze warui lapassione per il cinema diventamotore narrativo che fa innamora-re i propri personaggi e li apre allavita, impedendogli costantementedi morire (anche quando hanno ilcervello trafitto da una spada).Anche in virtù di questo, il Dio del

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Cinema, quello stesso costantemen-te invocato dal protagonista, senti-tamente ringrazia.

Palo Altodi Gia Coppola

(a.m.) Scene di vita quotidiana inCalifornia. No lotta di classe, sìall’angoscia esistenziale che si nutredi se stessa, di giovani che divoranose stessi tra droga sesso e noia.Niente di troppo nuovo, natural-mente, tra l’altro con il torto di arri-vare subito dopo il capolavoroSpring Breakers di Harmony Korine(e anche, se è per questo, dopo glistupefacenti film di Larry Clark). Daquesto punto di vista, l’ultima ram-polla giunta dalla famiglia Coppolaè sicuramente perdente. Ma il film,tratto dai racconti del factotum (fatutto, male) James Franco, si faguardare perché gli sguardi perdutie attoniti degli adolescenti allosbando mantengono, in questasocietà ovattata e fintamente pacifi-cata, di vetrate e fioriere, che è laCalifornia, un loro perché e un loroambiguo fascino (triste, ma fascino). Il film pedina senza muovere moltola macchina da presa le evoluzionidi alcuni giovinastri, mantenendouna impostazione molto fotograficasulla realtà. Gia guarda alla cugina(è la cugina?) Sofia di Le vergini sui-cide, ovviamente, ed anche allo zio(è lo zio?) Francis Ford di I ragazzidella 56a strada e di Un sogno lungoun giorno. Affiorano anche remini-scenze extra famiglia Coppola, adesempio il Bogdanovich dell’oscara-to Ultimo spettacolo. Al solito,Edward Hopper è in agguato nelfarsi copiare le raffigurazioni dellesoglie esistenziali tra stabilità enomadismo, andare (a farsi fottere)

o restare (a farsi un buco). Ripeto,nulla di non già visto, ma gradevolenonostante tutto, per chi, come me,ama i paesaggi della banalità bau-drillardiana americana.

Piccola patriadi Alessandro Rossetto

(r.m.) C’era una volta Signore esignori di Germi, il Veneto delboom, la borghesia democristianabenestante, il sesso fedifrago e l’ipo-crisia. Oggi, quasi cinquant’annidopo (era il 1965), c’è Piccolapatria, il Veneto non è più benestan-te, ma l’ossessione per il sesso el’ipocrisia sono ancora lì. In più cisono gli immigrati, gli albanesi e icinesi, gli adolescenti che fannogirare il mondo e lo sguardo di undocumentarista all’esordio nella fic-tion che prova a cogliere lo stato diuna Regione, di una Nazione, neiframmenti di una tragedia. Proprioqui, però, in quello che potrebbeessere il suo pregio maggiore (l’am-bizione, cioè, di raccontare lo sfa-scio della borghesia italiana conuna magniloquenza lontana dalminimalismo intimista), Piccolapatria si ingarbuglia e distrugge sulnascere ogni intenzione. Il film è una storia di un ricatto ses-suale, di un’amicizia interrotta, di

un amore clandestino, di un odiorazziale orrendo, di un assassiniosfiorato: troppa materia in ballo,troppa voglia di racchiudere l’animadi un Paese lungo le statali e icapannoni della geografia imprendi-toriale italiana, sperando che il qua-dro si tenga da sé, quasi che l’ingor-go di elementi bastasse a costruireun film. E invece per le stesse ragio-ni, perso dietro mille rivoli di realtà,Piccola patria si sfalda, urla ma nonmorde, prova a mettere insiemeClaire Denis e il saggio antropologi-co, e ovviamente non ce la fa. Ciòche si vede sullo schermo, infatti, èsolo una teoria, sono solo i pezziconfusi di un puzzle non finito.

Biennale College

Memphisdi Tim Sutton

(f.g.) Già protagonista del concorsodel Torino Film Festival del 2012 conil suo film d’esordio, Pavillion, ilnewyorchese Tim Sutton ha svilup-pato con Biennale College un filmche ne conferma il talento e ne estre-mizza uno stile estetico e narrativo diriconoscibile personalità. Uno stilecaratterizzato da una libertà estremama mai urlata, dalla capacità dilasciare che il cinema sia realmenteesplorazione (anche di se stesso) al difuori delle rigide coordinate del-l’anarchismo blasé più stanco e codi-ficato. Memphis è il suo protagonista,Willis Earl Beal (che nel film inter-preta se stesso), bluesman tormenta-to e tarantolato, alla ricerca diun’ispirazione perduta, appesantitodalle aspettattive e dal suo stesso

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talento, incerto sulla posizione e sulladirezione da prendere nella musica enella vita. L’andamento erratico, con-traddittorio, indecifrabile di Beal èallora lo stesso del film di Sutton, unfilm che pare abbracciare il dubbio emettersi in gioco e a nudo davanti alsuo spettatore, chiamandolo in causadirettamente ed esplicitamente perbocca e sguardo di una ragazzinache, nei primissimi minuti del rac-conto, fissa spaesata lo sguardo inmacchina e chiede «Cosa devo fare?».Eppure Sutton sa benissimo cosadeve fare, e il suo fare è un abban-donarsi sereno agli andirivieni di unprotagonista che non gira in tondoma procede vagabondo senza unavera meta, perché una meta non èpiù possibile. Memphis procede allostesso modo, troncando poi un rac-conto, un documento che risultainevitabilmente incompleto, perchéuna completezza non è più possibi-le. Ma se Sutton si mette in gioco eci chiede di giocare, in questa suadenuncia di un senso oramai man-cante, suggerisce anche che non èforse la destinazione quanto il cam-mino, a nascondere i segreti piùpreziosi. E la forza emotiva, spessoscomoda e a tratti struggente delsuo film sta nelle pause e nelledigressioni, negli spazi vuoti e inquelli riempiti da transiti e monoto-nie, di minuti rubati alla ricercadello scopo e investiti nell’apprez-zamento del momento, della vita. Di

un cinema che sceglie di perdersi inse stesso per trovarsi; o forse no.

Giornate degli Autori

Bethlehemdi Yuval Adler

(r.l.) Dopo il durissimo e tragico fina-le di Bethlehem mi è risuonata piùvolte in testa la parola “disperazione”.Il dizionario non lascia dubbi: statod’animo di chi non ha più alcuna spe-ranza ed è perciò oppresso da incon-solabile abbattimento morale. È pro-prio il sentimento da cui si senteschiacciato il giovane Sanfur. E che loha condotto a compiere un gesto dalleconseguenze irrimediabili. Lui abita in Cisgiordania, nei Territorioccupati, ma fa l’informatore per gliisraeliani. Il suo referente è l’agentedei servizi segreti Zari, diventato neglianni come un fratello maggiore. MaSanfur un fratello maggiore ce l’ha. ÈIbrahim, il leader delle Brigate deiMartiri di al-Aqsa che organizzaattentati terroristici. Di chi si può dav-vero fidare Sanfur?Sceneggiato anche dal giornalistapalestinese Alì Waked, attivo in orga-nizzazioni no profit che promuovonola convivenza tra cittadini arabi eisraeliani, l’ottima opera prima diYuval Adler ci parla di una lacerazio-ne profonda, ancora difficile da rimar-ginare. E che miete vittime (quasi)innocenti. Lo fa con sguardo lucido econtrollato, ponendo interrogativiscomodi allo spettatore, costretto finda subito a confrontarsi con gli stessidubbi che agitano Sanfur e Zari: laloro è un’amicizia impossibile? Purcon qualche schematismo nella defini-

zione dei personaggi di contorno,Bethlehem si rivela un thriller politicodal ritmo teso e avvincente, con unamagistrale sequenza d’azione – l’irru-zione nel covo dove si nasconde ilricercato Ibrahim – tra le cose in asso-luto più belle viste a Venezia.

Köksüz (Nobody’s Home)

di Deniz Akçay

(v.a.) Negli ultimi anni la Mostra diVenezia ha mostrato, in modo tra-sversale alle varie sezioni, un’atten-zione particolare per il cinema turcoe due film, Çogunluk (Majority) diSeren Yüce nel 2010 e Küf (in ItaliaMuffa, distribuito dalla Sacher) diAli Aydin nel 2012, hanno anchevinto il Premio opera prima.Comincia così a essere possibilericonoscere argomenti e punti divista comuni di una cinematografiache anche altrove – C’era una voltain Anatolia di Nuri Bilge Ceylan havinto il Grand Prix a Cannes 2011 –ottiene sempre più visibilità.Köksüz, visto quest’anno alleGiornate degli Autori, è l’esordio nellungometraggio di Deniz Akçay,trentaduenne con alle spalle studi distoria, cinema e comunicazione e unabuona esperienza da sceneggiatricetelevisiva. Come Çogunluk, e come

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Araf di Yesim Ustaoglu (Orizzonti2012), il film di Akçay mette in scenala famiglia come una prigione senzavia d’uscita dove l’affetto dei genitoriè un ricatto e il desiderio di libertà deifigli una superficiale voglia di fuga. Ilconflitto tra generazioni diverse nonconosce soluzione e ogni tentativo dirompere con la tradizione e i doveriimposti produce conseguenzetragiche. Qui c’è una madre vedovache tiene in trappola i figli scaricandosu di loro il senso di colpa che lei nonè in grado di gestire. Interpreti effi-caci, compresi i più giovani, e unaregia sensibile e decisa: la sequenzafinale, quella della festa di nozze, èesemplare per come mostra, sotto ilvelo delle convenzioni sociali rispet-tate, lo scontro definitivo, terribile etutto interiore, tra madre e figlia.

La reconstruccióndi Juan Taratuto

(f.p.) Eduardo è un uomo solitario, haun figlio lontano che studia a BuenosAires e passato doloroso alle spalle.Dal suo volto non traspaiono emozio-ni. Nel lavoro dimostra efficienza epignoleria più che trasporto e realeinteresse. Si accinge alle ferie – proba-bilmente solitarie – quando una tele-fonata dell’amico Mario lo trascinacontrovoglia in Patagonia. Mario ècaloroso e felice, divide la sua vita trail negozio di souvenir e l’amore di unamoglie e due figlie: una normalitàaffettiva che sembra escludereEduardo fino a quando l’amicomuore improvvisamente lasciandoloin un limbo di dolore e responsabilità. La reconstrucción è un film che inda-ga il senso di perdita e ne analizza lepotenzialità taumaturgiche. Rappresenta il lutto come momentodi possibile rinascita costruendo un

personaggio che riscopre le emozioniattraverso la definitiva consapevolez-za di un’assenza. Eduardo è un uomoimpermeabile ai rapporti, disilluso,quasi cinico, incapace però di resiste-re (con ostentata, scontrosa timidez-za) al richiamo degli affetti quando unamico ha bisogno di lui. Ma dopo laprematura scomparsa di Mario ciòche sembra spingerlo non è un comu-ne senso di solidarietà umana, voltaunicamente a lenire il dolore che sentecrescere sgomento intorno a sé, quan-to il riaccendersi di una volontà diagire da troppo tempo perduta. Unmotore che lentamente si riavvia. Juan Taratuto mette in scena un filmdi sfumature, dai colori attenuati edalle psicologie nette che si staglianosul maestoso ambiente naturale checirconda i protagonisti. Il meccanismo– narrativo ed emotivo – è a tratti sintroppo scoperto e il film soffre diun’architettura eccessivamente pro-grammatica e calcolata, ma i senti-menti celati dietro ai tratti nodosi delsuo interprete Diego Peretti a volteconquistano barlumi di sinceritàcapaci di spalancare nuovi orizzonti,di immaginare una reale, viva, catarti-ca ricostruzione.

Gerontophiliadi Bruce LaBruce

(a.c.) Non il solito Bruce LaBruce:accolto come uno dei film scandalodella settantesima Mostra di Venezia,Gerontophilia è, in realtà, il titolo più(tra molte virgolette) “mainstream” delprovocatorio fotografo e regista cana-dese. Presentato all’interno delleGiornate degli Autori, il film vede pro-tagonista Lake, un ragazzo che scopredi essere fortemente attratto dagliuomini di una certa età. Nonostantesia fidanzato con una coetanea, Lake

instaura un forte legame con Mr.Peabody, paziente della casa di riposodove il giovane lavora come infermiere.Dopo il ripetitivo e (in tutti i sensi)disgustoso L.A. Zombie (2011), BruceLaBruce sceglie una poetica più deli-cata e ovattata che solo raramentesconfina nel cattivo gusto. Se l’autore,sempre eccessivamente conscio deipropri mezzi, è riuscito a toccare cordeinedite nella sua filmografia, conGerontophilia cade però nella trappo-la di voler mettere troppa carne alfuoco e, indeciso su quale sia la giustastrada da imboccare, sceglie di percor-rerle tutte. A volte emozionante e poe-tico, a volte sarcastico e dissacrante, ilfilm si perde sempre più col passaredei minuti, toccando il fondo in unasequenza conclusiva forzata e del tuttofuori luogo. Poco armonico nelle sceltemusicali e nell’eccessivo uso di ralenti,Gerontophilia rimane vittima di unaconfezione altalenante e di un cast(eccezione fatta per Walter Borden/Mr.Peabody) decisamente non all’altezzadella situazione.

L’arbitrodi Paolo Zucca

(a.f.) Presentato come film di “prea-pertura” alla Mostra del Cinema diVenezia, nella sezione delle Giornatedegli Autori, il film nasce da un

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corto dello stesso Zucca che siaggiudicò il David di Donatellocome miglior cortometraggio, nel2009. Parte alto, il film, citandoAlbert Camus che scriveva «Tuttoquello che so l’ho imparato dal cal-cio» ma poi si diverte (e ci diverte) aprendersi un po’ (molto) in giro. Èper questo che non bisogna prender-lo (troppo) sul serio questo film: nelbene come nel male. Certo non unasatira del mondo del calcio, tropposurvoltato, troppe macchiette, trop-po grottesco per esserlo. Eppure uncerto quale divertito e divertentegioco al massacro dei riti e dei miticalcistici ci sta tutto. Così come il caricaturale mondobarbaricino (faide, turgori macisti,l’omertà) sono, ovviamente, carica-ti ma alla fine fanno anche sorride-re. Complici gli interpreti che nonsi risparmiano nel prendersi bona-riamente in giro. Film duale (ancheforse un po’ ambiguamente),L’arbitro va preso per quello che è,un esercizio di stile, con il suo bian-co e nero e le sue immagini cherimandano a un immaginario diregime da cinegiornale Luce, stem-perato nella satira delle coreogra-fie, dei balletti, delle movenze cari-caturali ma esteticamente pregnan-ti, che riecheggiano un mondo hol-lywoodiano di celluloide. Un filminsomma dove magari non tuttofunziona alla perfezione ma che rie-sce a suo modo a mettere in scena

un mondo (anzi più di uno) quellodel calcio, quello barbaricino, quel-lo del tifo “primordiale” dei campet-ti di periferia.

Settimana della critica

Återträffen (The Reunion)

di Anna Odell

(m.c.) L’artista svedese Anna Odell èuna abituata a intrecciare le sferedella realtà, del vissuto e della rap-presentazione. Già nel 2009 avevarealizzato il progetto UnknownWoman 340701 a partire da unaperformance (un finto tentato suici-dio) che ricostruiva un suo reale epi-sodio psicotico di anni prima: finìper una notte e un giorno in unospedale psichiatrico prima di rive-lare la verità, provocando polemichee reprimende ministeriali… Ora, conÅterträffen, la Odell spinge la suaarte in stato lucidamente confusio-nale nelle dinamiche di un cinema inbilico tra documentazione, backsta-ge e psicodramma: non invitata daicompagni alla festa per celebrare ivent’anni dalla maturità, l’artistacostruisce un film in cui da un latoimmagina nella finzione quello cheforse sarebbe accaduto se lei avessepartecipato alla festa e avesse recri-minato sul trattamento subìto inclasse per anni. Dall’altro lato, la regista traducenella realtà quell’ipotesi finzionale,convocando i suoi compagni permostrare ricostruzione e provocareil rispecchiamento tra il suo e il lorovissuto. Quando poi la registaaggiunge all’operazione un terzo

step, in cui mostra l’incontro tra illeader della vecchia classe e l’attoreche l’ha interpretato, il film porta lariflessione nella sfera della relazionetra verità e finzione, chiudendo ilcerchio di un’opera che lavora sulrapporto tra oggettività e soggettivi-tà. Come dire l’applicazione concre-ta dell’ipotesi teorica iniziata dainordici cugini danesi del Dogma 95quasi vent’anni fa: più o menoquando Anna Odell si congedavadai suoi compagni di scuola.

Razredni sovraznik (Class Enemy)

di Rob Bicek

(r.m.) Se solo fosse un po’ menoschematico, o meglio, se solo laschematicità non fosse necessariaquando si parla di scuola e si vuoleallestire un parabola morale sul-l’educazione e lo scontro tra indivi-duo e sistema, con l’intenzione dilavorare non sulle sfumature masugli imperativi spesso disattesi diuna struttura sociale fondamentale;se solo, insomma, Razredni sovraz-nik (cioè “nemico di classe”) nonfosse vittima della sua stessa impo-stazione ideologica, sarebbe un’otti-ma opera prima. Perché di certo èun film che cresce alla distanza, chesconta una prima parte troppo rigi-

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da – l’arrivo di un nuovo professorein una classe, l’imposizione dinuove regole, il suicidio di unaragazza, la reazione dei compagniverso il docente – e patisce il biso-gno di impostare la battaglia traragazzi e istituzione come unametafora dei conflitti sociali. Per un’ora Razredni sovraznik nonva, rischia la freddezza, accumula ste-reotipi; ma è un film a tesi, prima opoi gli argomenti vengono a galla, equando il presunto nemico di classe sitrasforma in un alleato, allora diventachiaro il senso del parabola, l’invitocioè ad affrontare la vita come realtà,non come illusione e rinuncia, e adaccettare la distruzione come attocreativo. È un passaggio, la distruzio-ne dell’io, fondamentale per crescerepienamente, e lo stesso Bicek, nonancora trentenne, lo deve sentire comeun processo in corso, un camminodoloroso e decisivo che coinvolgeanche il suo cinema e che si spera loporti a liberarsi di tutte le sovrastrut-ture che per il momento appesantisco-no la sua voce.

Shuiyin jie (Trap Street)

di Vivian Qu

(a.u.) Il lavoro del topografo preve-de l’errore, la necessità di ricalcola-re, di far quadrare: Li Qiuming (LuYulai) è un giovane ingegnere chevive con entusiasmo, e un po’ dileggerezza il proprio apprendistato,nelle vie di Nanchino, effettuandorilievi per una mappatura elettroni-ca della città; non ha previsto che ilsuo tacheometro inquadrerà la bel-lissima Guan Lifen (He Wenchao),mentre imbocca Forest Lane. Il titolo inglese rivela un concettoche è, nei fatti, rovesciato dal film:

una trap street è un espedienteusato dai cartografi per cautelarsida eventuali violazioni del copy-right: una strada inesistente chediventa il watermark dell’autoredella mappa. Però, Forest Lane èreale: è il sistema GPS a rifiutare idati come incoerenti, a negarnel’esistenza. Qiuming ci torna perrimisurare, e toppare di nuovo,ma anche, ovviamente, per rivede-re Lifen, inconsapevole, forse,femme fatale; non sa, si ostina anon voler sapere che quello è illuogo in cui un laboratorio gover-nativo sta svolgendo attività clas-sificate top secret. Ex produttrice indipendente, qua-rantenne, Vivian Qu sceglie la viadel noir, con un espediente quasialla De Palma, per ordire una sto-ria che rivela i meccanismi del con-trollo e della censura nella Cinacontemporanea. La parabola diQiuming, da giovane pieno di spe-ranze a burattino paranoico, èquella delle ultime generazioni digiovani cinesi, che credevano diaprirsi al mondo, con la moderniz-zazione e con il web, mentre loStato li intrappolava, ridisegnandoconfini invisibili con gli strumentidella censura e della tortura psico-logica: una parabola che, proprioper l’assenza di qualsiasi facile“esotismo”, fa ancora più paura.

L’armée du salut di Abdellah Taïa

(r.l.) Abdellah Taïa, scrittore arabo,classe 1973, ha fatto parlato di sénegli anni passati per il suo “scan-daloso” coming out e per una pro-vocatoria lettera, L’omosessualitàspiegata a mia madre, pubblicatasulla rivista marocchina «Telquel».

Tratto dal suo omonimo romanzoautobiografico, L’armée du salut(L’esercito della salvezza) raccontail viaggio fisico e metaforico delprotagonista Abdellah alla ricercadi un posto nel mondo. È la storia dolce ma anche crudeledi un ragazzino di Casablanca cheaffronta in solitudine la propria(omo)sessualità e scopre le conse-guenze che essa comporta in unafamiglia (e una società) conservatri-ce come quella marocchina.Abdellah mangia e dorme in mezzoalle donne (la madre e le sorelle), sichiude in camera dell’odorato fratel-lo maggiore Slimane (affonda il visonei suoi vestiti, nelle lenzuola delletto dove ha dormito…), trascorrele giornate tra piccoli lavoretti e fur-tivi incontri sessuali con gli uomini.Molti anni dopo, a Ginevra, cerche-rà di imprimere una svolta decisivaalla propria esistenza. Diviso tra una parte girata inMarocco e il finale “svizzero”, illu-minato dalla splendida fotografiadi Agnès Godard, L’armée du salutè un’opera prima riuscita, pur nellasua evidente imperfezione. In pocopiù di ottanta minuti, Taïa ci trasci-na con inquieta sensualità dentrouno spazio filmico e personale fattodi silenzi, turbamenti adolescenzia-li e rabbiosi accenni di una maturi-tà che avrà comunque bisogno diun “altrove” per realizzarsi inmaniera compiuta.

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Figure e capricci #350 anni del Gattopardo

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FIGURE E CAPRICCI #3Sergio Arecco

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«La follia di Jean-Luc era di una specie particolare: non si era estesa a tutta la testa, né si era portata via il comprendonio; ce l’aveva lì, se così si può dire, in un angolo; per tutto il resto, manteneva il suo buonsenso».(Charles Ferdinand Ramuz, Jean-Luc perseguitato, 1908, cap. IX)

1. «Per questo, più vado avanti, più vado verso lasemplicità. Impiego le metafore più consunte. Infondo, le uniche cose eterne sono per esempio le stelle,somiglianti agli occhi, o la morte, somigliante alsonno. (Borges)». È la didascalia iniziale di Les cara-biniers (1963) di Jean-Luc Godard. Borges, con unpizzico di civetteria, articola una tale confessioneminimalista (peraltro ben presto smentita) a seguito diinnumerevoli scritti. Godard, al suo quinto lungome-traggio, se ne serve come pezza d’appoggio non già peripotecare, nel senso di una maggior leggibilità, l’operafutura, ma semplicemente per giustificare la “semplici-tà” di Les carabiniers, non a caso accusato dagli stessiamici dei Cahiers di sciatteria e trasandatezza.Qualcuno disse “rozzezza”. Ma come non farsi “rozzi”,per “simpatia” – e narrativamente, non cinematografi-camente – se si vuol mettere in scena la rozzezza didue contadini semianalfabeti sepolti in mezzo a unacampagna desolata e all’interno di una baracca fati-scente, in compagnia di due ragazze, Cléopâtre perUlysse, Vénus per Michel Ange, inopinatamente arruo-lati sul campo, un campo pieno di tutto il “fango delleperiferie” (l’anno successivo, in Bande à part, il fangodi un terrain vague farà da contrappunto addiritturaallo stereotipo di Parigi), per una guerra dichiarata daun fantomatico Re per il tramite di due carabinieri, iquali, pur di convincere Ulysse e Michel Ange, promet-tono loro ogni più desiderabile esperienza e ricchezzain cambio di violenze e massacri?

«Case, palazzi, città, cinematografi, negozi di fiori,stazioni, aeroporti, piscine, casinò, teatri, archi ditrionfo, fabbriche di sigarette, aeroplani, fari, donne

lascive (esemplificate da due foto: una firmata Yvonnecon una pin-up in costume da bagno inginocchiatasull’acqua, l’altra con una “donna in posa che si spo-glia”), treni veloci, gioiellerie, Alfa Romeo, chitarrehawaiiane, paesaggi meravigliosi, elefanti, locomotive,metropolitane, Rolls Royce, Maserati, case d’appunta-menti, ristoranti gratis». Questo è, nel preciso ordine dielencazione, il catalogo completo delle virtù o deibenefici della guerra: enunciato dal carabiniere n. 1,quello con la mitraglietta sempre in pugno e l’attitudi-ne alla persuasione (l’altro, il superiore, si limita a sug-gerirgli all’orecchio quanto deve dire). Al che i dueimbecilli (anche se il Marino Masé interprete diUlysse, sigaro in bocca e aria diffidente, sembra menoilletterato, e non per nulla sarà chiamato da MarcoBellocchio a impersonare il fratello maggiore di Ale, ilpiù responsabile, in I pugni in tasca [1965]) abbocca-no, salutano le rispettive compagne, saltano sullacamionetta e s’imbarcano per la guerra. Del resto lamatrice del viaggio di piacere come viaggio-deriva e asuo modo partenza per la guerra, tornerà quasi cin-quant’anni dopo a marcare Film socialisme (2010). Lìsarà la crociera multanime sulla Costa Concordia, male mete saranno, in formato moderno, le stesse diUlysse e Michel Ange: l’Egitto, Odessa, la Grecia,Napoli, Barcellona. L’Egitto, soprattutto.

2. Il catalogo. Godard, si sa, è un cultore del catalo-go, dell’enumerazione, della citazione: di titoli di libricome di film, di estratti di libri come di film (in segui-to, con il monumento a se stesso di Histoire(s) du ciné-ma [id. 1988-1997], di film tout court). È uno degliartifici che ne hanno connotato, in assenza di una verae spontanea capacità di raccontare, lo stile seriale(l’unico film davvero narrativo resta il primo, Finoall’ultimo respiro [À bout de souffle, 1960], per girareil quale Godard può contare sulla complicità e l’atti-

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tudine “romanzesca” di Truffaut), uno stile che trovanella voluta “rudimentalità” di Les carabiniers (di soli-to la serialità di Godard è sofisticatissima) la suaprima e massima esaltazione. Quando Ulysse e MichelAnge tornano al natio borgo selvaggio e mostrano aCléopâtre e Vénus, che nell’arco di oltre “tre primave-re” hanno tenuto aggiornate sulle loro spedizioni cri-minali con una serie di cartoline postali [la serie delledidascalie del film, esattamente 18, successive a quel-la incipit di Borges], che cosa estraggono dalla sudiciavaligetta, unico bene loro rimasto e portato con sé? Lecartoline illustrate puntualmente correlative e confer-mative – con un cortocircuito della ricorsività cinema-tografica che fa capo a L’Àge d’or (1930) di Buñuel –del catalogo esposto a parole dal carabiniere n. 1. E,visto che alle parole devono seguire i fatti, ecco il cata-logo delle cartoline, catalogo non più verbale bensìvisivo, per giunta sbandierato – le cartoline, impac-chettate con elastici a seconda della serie di apparte-nenza, escono dalla valigetta come altrettanti coniglidal cilindro del prestigiatore e vengono sparpagliate,spesso alla rovescia, sul tavolo di cucina come fosserocarte dello stesso seme – nell’ordine sequenziale delleserie e delle sottoserie. Nell’ordine. Serie monumenti,con sottoserie di monumenti antichi (menhir diCarnac, Piramidi, Colosseo…), medievali (torre diPisa, orientata con difficoltà dagli ignoranti fruito-ri…), rinascimentali (Palazzo Pitti, Villa Medici…),moderni (Versailles, stazione di Stoccarda, acquario diChicago…). Serie trasporti, con sottoserie trasporti surotaia (vari tipi di treni), su strada (Isotta Fraschini,Bugatti, Mercedes-Torpedo…), fluviali (transatlantico,sottomarino…), aerei (Boeing 707, SuperConstellation…). Serie meraviglie della natura (baia diNapoli, Niagara Falls, Grand Canyon…). Serie grandinegozi (Galéries Lafayette, La Samaritaine,Tiffany’s…). Serie animali (pinguino, tigre, marmotta,Rin Tin Tin, il gatto Felix…). Serie industrie(Volkswagen, Hollywood…). Serie opere d’arte(Modigliani, Ingres, Degas, Manet...). Insomma, unamassa eteroclita che “fa mucchio” sul tavolino, debor-da, si sparpaglia sul pavimento, confonde le serie eapre traiettorie interstiziali tra l’una e l’altra (tipo: ilLeprotto di Dürer illustra la serie animali e non opered’arte, l’Autoritratto di Rembrandt del 1660 è appesoal muro di una casa sequestrata da Michel Ange nelcorso di un’incursione e viene da lui salutato con un“attenti”, gesto che verrà replicato da EddieConstantine in Germania nove zero [Allemagne neufzéro, 1991]). E introduce un altro degli artifici di

Godard narratore mancato e, nel caso, calvinista man-cato: l’ordine del disordine e viceversa, la continuitàdella discontinuità e viceversa, la convertibilità deldentro/fuori, l’intersezione delle serie, il sopravventosul caos di un tema conduttore, lo slittamento funzio-nale da una serie all’altra, il loro taglio trasversale, laloro numerologia-fiume, la categorizzazione apodittica(brechtiana) degli insiemi-sottoinsiemi-disinsiemi. Peresempio, i monumenti enumerati da Michel Ange(ovvio) corrispondono a 21 cartoline. Le meravigliedella natura, enumerate (ovvio) da Ulysse, a 8. I tra-sporti, enumerati da entrambi in ragione della loromolteplicità, a 34 (15 + 19). Persino gli animali sonosottoserializzati, tra mammiferi (Ulysse: 13) e inverte-brati (Michel Ange: 7). E, dal momento che MichelAnge ha avviato (o intavolato) la litania globale,Ulysse la chiude con le sottoserie delle industrie e dellericchezze della Terra (5 cartoline).

3. E le donne? le donne (2) già prefigurate all’inizioin forma di cartolina estratta con circospezione dallagiubba del carabiniere? Ecco il terzo artificio delGodard calvinista mancato e narratore mancato: quel-lo del Godard dissimulatore o manipolatore riuscito,del Jean-Luc (in)felicemente perseguitato dall’osses-sione citazionista del cinema (almeno fino aHistoire(s) du cinéma, dove il vizio è in qualche modosublimato), al punto che quasi ogni inquadratura deisuoi film è, per una sorta di predestinazione (leggiCalvino), eco o memoria o evocazione, magari distor-te, del film di un altro. Le donne sono sempre 2, e poi-ché sono già state codificate dal formato cartolina, oravengono ricodificate dal formato pellicola: la pin-upsulla spiaggia diventa protagonista di un piccolo film“da vasca da bagno”, la “donna in posa che si spoglia”protagonista di un piccolo film da “femme de monde”.A legare la duplice cinematografia, ecco la duplicatio,c’era da aspettarselo, dell’imago convenzionalmenteritenuta originaria dell’histoire du cinéma, quelladell’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat (1895,Lumière), con tanto di “copiatura” della reazione deiprimi spettatori, spaventati dall’irruzione in sala,attraverso lo schermo/illusione, della locomotiva (aproposito: intersezione con la serie locomotive!) etimorosi di esserne investiti. Della quale dissimulazio-ne è scontatamente titolare Michel Ange, il più ebetedei due fratelli, in una saletta del Cinema Mexico (mecsi con: “un emerito coglione”) di Santa Cruz, cittàperaltro della Bolivia; senza contare che il Messico faa sua volta parte della serie delle cartoline consacrata

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alle meraviglie della natura, con altri rinvii cinemato-grafici come i bastioni di Mogador/Essaouiradell’Otello (Othello, 1952) di Welles o la MonumentValley dei western di Ford (la tessitura dei rimandi traserie e serie, o tra serie e sottoserie, o tra sottoserie esottoserie, ma anche tra pro-persecuzione e pro-perse-cuzione di Jean-Luc, è come sempre infinita).

4. Un leitmotiv tra i leitmotiv, se proprio se ne voles-se individuare uno? Quello delle piramidi. La guerradei poveri, prototipo in figura di tutte le guerre delmondo, come in ogni allegoria o apologo che si rispet-ti (questo di Les carabiniers deriva da una commediain salsa Ubu di Beniamino Joppolo di cui Rossellini hanarrato la trama a Godard), ha portato Ulysse eMichel Ange a visitare il mondo intero (in cartolina),dall’Africa (piramidi d’Egitto) all’America del Nord(Statua della Libertà), dall’America del Sud (teatro diSanta Cruz) all’Asia (tempio di Angkor) all’Oceania,ma pare focalizzarsi, via cartoline, sull’Egitto e sullepiramidi, «le tombe per quando saremo morti», comechiosano Ulysse e Michel Ange. Per cui vorrà dire che

proprio lì, insieme ai faraoni, saranno virtualmentesepolti i due malcapitati, vittime della guerra civilescoppiata in coincidenza con il loro ritorno a casa (aucciderli è il medesimo carabiniere n. 1 che li ha rag-girati e reclutati). Didascalia finale: «Lassù i due fra-telli si addormentano per l’eternità, credendo che ilcervello, durante il processo di decomposizione, conti-nui nonostante tutto a funzionare al di là della morte,e che siano i sogni [sottolineatura di Godard] a costi-tuire il Paradiso».

5. Un locus amoenus di alberi e frescure, di viottoliboschivi e limpidi ruscelli in cui pescare, di panchinesu cui leggere e greti su cui sostare e osservare ilrifrangersi delle onde salvifiche di un lago (il lagoLemano, icona solare di tutto l’ultimo Godard, daPrénom: Carmen [id., 1983] in poi). È cosi che vieneimmaginato, per non dire dipinto, “cartolinizzato”, inNotre musique (2004), il Paradiso, terzo dei tre Regniimmaginari (danteschi, tanto per non tradire la coa-zione a citare: Inferno, Purgatorio, Paradiso) di cui sicompone il film, ispirato a Godard da una circostanza

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autobiografica e storica insieme: la celebrazione aSarajevo, la Sarajevo ancora semidistrutta, a diecianni di distanza dall’assedio e dalla guerra civile(1992-1995), degli Incontri Europei del Libro. La car-tolina recita, con un’allusione alla storia del cinema,Eva contro Eva (All About Eve, 1950), e in essa SarahAdler, il personaggio-guida di Notre musique, si aggi-ra pertanto nelle vesti di Eva per il giardino dell’Edendel Terzo Regno, come in Fahrenheit 451 (id., 1966) siaggiravano per i boschi i superstiti-libro – estremoomaggio riconciliatorio di Godard all’amato-odiato-riamato Truffaut? –, fino a scoprire che il Paradiso è sìun empireo idilliaco ma anche un’enclave militarecustodita da marine americani (sono loro i pescatorid’acqua dolce, come se fossero turisti in vacanza nelVermont).

Dopo l’irriducibile (s)mania enciclopedico-assertiva,un’altra irriducibile (s)mania godardiana, quella del-l’asserzione visiva, parallela alle tante asserzioni ver-bali di cui il film, come tutti i titoli della filmografiagodardiana, anche se qui in misura esponenziale, èdisseminato: «Il comunismo è sì esistito, ma una volta

sola, allo stadio di Wembley, per i 90’ della partitaInghilterra-Ungheria (3-6), quando gli ungheresi, pra-ticando un perfetto gioco di squadra, sconfissero gliinglesi, legati a un tipo di un gioco troppo individuali-stico» (anonimo); «Gli uomini più umani non fabbrica-no rivoluzioni, fabbricano biblioteche e… cimiteri»(Godard-Goytisolo); «Esistono più ispirazione e ric-chezza umana nella sconfitta che nella vittoria»(Mahmoud Darwish); «Uccidere un uomo per difende-re un’idea non è difendere un’idea, è uccidere unuomo» (Juan Goytisolo).

Sono asserzioni-oracolo da bar (la prima), da trasfe-rimento in auto (la seconda), da intervista (la terza ela quarta). Dove? All’Holiday Inn di Sarajevo, l’hotelche ospita il Congresso ed è trasformato in un set idea-le da Godard, il quale, come si sa, si muove benissimonelle atmosfere rarefatte degli incontri e dei disincon-tri entro spazi alieni, possibilmente in sinergia conestranei o avventizi in transito, in rapporto ai qualiinstaura (qui si muove in prima persona) percorsiimpalpabili, disegnando mappe astratte intessute divoci e silenzi, di gag surreali e paradossi sull’attore, un

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vero palinsesto alla rincorsa di se stesso e del sensosfuggente delle immagini. «Un giorno i fisiciHeisenberg e Borg stavano passeggiando tra le muradel castello di Elsinore [Helsingor], e il tedesco osòdire che quel posto non gli sembrava poi tanto specia-le, finché Borg non lo avvertì che era il castello diAmleto e che era giusto quella circostanza a renderlospeciale. Elsinore è il reale, Amleto è l’immaginario.Campo e controcampo. L’immaginario è la certezza.La realtà è l’incertezza. Il principio del cinematografoè: andare verso la luce per dirigerne il flusso verso lanostra notte. La nostra musica» (il tutto scandito dalprimo piano di una lampadina oscillante, memoredella lampadina oscillante nel buio durante la “confes-sione” di Il corvo (Le corbeau, 1943) di Clouzot: «Voicredete che il bene sia la luce, e l’ombra il male. Madov’è l’ombra? Dov’è la luce?»).

6. Godard recita l’asserzione-oracolo nella penom-bra di una saletta dell’Holiday Inn riservata a unseminario per studenti, un’assemblea che pende dallelabbra del guru e prende diligentemente appunti.Forse non tutti i presenti hanno visto Hélas pour moi(id., 1993), un film di dieci anni prima, in cui il regi-sta che siede davanti a loro ribadendo come fosse unalitania, tra i molti mutismi d’uso, “campo/controcam-po”, “campo/controcampo”, con tanto di fotografieesemplificative (i palestinesi, gli israeliani), è riuscito arealizzare l’utopia di una sceneggiatura senza unaparola che fosse sua, a far parlare i personaggi, perl’intero film, con frasi altrui, appartenenti a tutti irepertori possibili (letterario, quotidiano, giornalistico,proverbiale, scientifico), onde lasciare il terreno com-pletamente libero al flusso “amletico” dell’immaginarioin sé, alle sue geometrie, al suo alfabeto, alla sua“musica”. Ma molti dei presenti hanno sicuramentevisto Histoire(s) du cinéma, in cui il regista ha realiz-zato, con mezzi più preclari, l’utopia inversa, quelladel film senza un’immagine che fosse sua, sposando intoto il caleidoscopio ormai secolare del cinema altrui,e orientando infallibilmente la traiettoria della sualuce nel buio della nostra incertezza. E forse, beatiloro, capiscono che cosa Godard intende dire, baloc-candosi tra un motto di spirito e l’altro e rifiutandoogni contraddittorio (a domanda non risponde, comeun idolo di pietra), con il suo deliberato non dire.

7. Anche Notre musique include una sua personaleHistoire du cinéma. Ejzenstein, Ford, Curtiz, Siegel,Fuller, Kurosawa, Walsh, Rossellini, Bresson… Le loro

inquadrature belliche, a colori e in b/n, più cruente,più atroci, più truculente (tranne Bresson, metteur-en-scène di una belligeranza tutta esistenziale). Alternatecon le inquadrature di repertorio bellico più cruente,atroci, truculente, a colori e in b/n (lager, bombe,esplosioni, carneficine, pogrom, stragi), assimilabili,per quanto connotate da un’efferatezza superiore, aglispecimini d’archivio già campionati in Les carabiniers– definito non a caso da Godard, con uno dei suoi con-sueti arbitrari calembour, conte de fées et conte defaits –, onde riempire i vuoti filmici relativi alle opera-zioni militari della sporca guerra di Ulysse e MichelAnge.

Il primo bersaglio dei serbi nel primo bombarda-mento di Sarajevo fu un simbolo, la biblioteca, strut-tura millenaria che ora Godard si adopera a promuo-vere a set sgomentevole in tutta la sua mai iniziataricostruzione, vuota carcassa di un sapere perduto persempre, il cui regesto del nulla è affidato a una vecchioscrivano smemorato e silente, vecchio Re Lear dalletroppe tempeste e dai troppi oltraggi. E il secondo ber-saglio fu un altro simbolo, il ponte di Mostar, oggi sì

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ricostruito tale e quale, eppure, per Godard, il qualeama i simboli ma li ama attraverso l’alibi della carto-lina, visibile solo da lontano, riscaldato da una bellacalda luce pomeridiana: “in cartolina”, appunto.

8. Anche le cartoline di One plus One [dove 1+1,tiene subito a precisare Godard, l’1 dell’insieme e l’1suo, non faranno mai 2), il film musicale girato aLondra in pieno 1968 come testimonianza della regi-strazione in studio dell’album The Beggars’ Banquetdei Rollins Stones, contenente, quale solco 1,Sympathy for the Devil (che è come dire fascinazionedel male, insinuare che la Strega è ben più seducentedi Biancaneve), sono ancora una volta serializzate. Laserie delle prove in studio è periodicamente intervalla-ta, o attraversata, da altre tre serie, con alcune ulterio-ri sottoserie-incursioni: in un negozio di riviste porno-grafiche; in un cimitero di automobili eletto dai mili-tanti del Black Power a set di apprendistato rivoluzio-nario (critica dei testi e critica delle armi); in un boscometastorico in cui una Anne Wiazemsky, in deliziosoabito ottocentesco, si fa intervistare da un troupe tele-visiva su orgasmo, droghe, intellighenzia, rivoluzione,rispondendo sempre e soltanto sì o no, e prevalente-mente sì a tutti gli slogan più libertari e antagonistici,tanto che alla fine, da Eva qual è – il nome che dice diavere, come poi la Sarah Adler di Notre musique –,viene ribattezzata Democrazia.

Da qui il doppio titolo del film: One plus One, perun Godard che non disdegna, nel caso, il calembournumerico oltre che linguistico; Sympathy for the Devilper il produttore Jain Quarrier, che predilige un titolocommerciale, quello celebre della canzone, e rimonta ilfilm utilizzandone il sicuro impatto musicale per com-mentare la scena-choc finale – la cartolina recita, conun’allusione insieme alla storia degli slogan del ’68 ea quella del cinema, Sous le pavé il y a la plage (Sottoil selciato c’è la spiaggia), con Anne Wiazemsky spiag-giata e sacrificata alla causa della rivoluzione, cioèinseguita e uccisa dai controrivoluzionari, e issatadallo stesso Godard sul braccio della grande gru delset insieme a una bandiera rossa e a una nera (oneplus one qui funziona: vuol dire anarchia), in un’asce-tica congiunzione con i cieli azzurri dell’utopia. SeGodard, nella clausola di One plus One, mette la sor-dina agli accordi/disaccordi di Sympathy for the Devildei Rolling Stone, Quarrier ne fa esplodere tutta lageometrica potenza, facendone un inno rivoluzionarioe reiterando a raffiche di colori-fuoci d’artificio (unascarica di rosso, giallo, blu…) l’effigie-totem di AnneWiazemky sulla gru, come già fosse (lo diventerà)un’icona del XX secolo.

9. Sympathy for the Devil («Piacere di conoscervi, /spero abbiate indovinato il mio nome. / Ma quello chevi rende perplessi / è la natura del mio gioco…») è lanostra musica dei quegli anni, e Jean-Luc lo sa bene.Tanto che provvede a far dire immediatamente sì adAnne, senza le esitazioni che ostenta spesso di fronte adaltre domande, quando le chiedono se il Diavolo è, höl-derlinianamente, un “Dio in esilio”. Questa Anne chepasseggia eterea per il bosco di One plusOne/Sympathy for the Devil – in un lunghissimo carrel-lo-piano sequenza (una decina di minuti di grande cine-ma) e ci ricorda de visu come davvero per Godard “ilcarrello sia una questione di morale” –, un po’ gironzo-lando e un po’ sedendosi sull’erba, sempre attorniatadai quattro ragazzi della troupe, mai spazientita, sem-pre disponibile fino alla fine, questa Eva-Democrazia incammino verso una Storia che non l’ha ancora maieffettivamente conosciuta, ci appare, a posteriori, il per-fetto preludio alla Eva-Sarah di Notre musique, la qualesi aggirerà nel bosco sacro, o giardino dell’Eden, delTerzo Regno per cercare non si sa bene che cosa, non unlettore (eviterà con indifferenza il ragazzo nascosto die-tro la copertina di Sans espoir de retour di DavidGoodis, un “Série noire” tra l’altro tradotto in film da unSam Fuller alla sua ultima fatica, Street of no Return

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[1989]), non un oggetto: forse un’atmosfera meno insi-diosa di quella fintamente edenica che sta respirando,forse qualcuno che si nasconde nel giardino come gli dèidella mitologia, forse proprio il “Dio in esilio” e, con lui,“la natura del suo gioco”.

10. Il culto feticistico per i titoli e le copertine deilibri, o per la recitazione di certi loro passi, avrebbepotuto suggerire a Godard, tra le “cartoline” illustrati-ve del Secondo Regno di Notre musique, quello deiPaesaggi dopo la battaglia di Juan Goytisolo. Inveceha optato per Minuit di Julien Green (1936), che pro-babilmente gli è suonato più allusivo per nominare laprofonda notte di Sarajevo distrutta, o che forse gli èparso una compensazione alla già di per sé ingom-brante presenza di Goytisolo nel film – personaggiostrambo e non riconciliato come lo stesso Godard, pre-coce esule dalla Spagna franchista e mai più ritorna-tovi, oggi autoconfinatosi a Marrakech – sulla scenadell’Holiday Inn, un Goytisolo che compare e parla,con rabbia, più di chiunque altro scrittore invitato afar parte di quella, per fortuna temporanea, frequenta-zione dei fantasmi dell’albergo o della cultura o dellamusica, e si esibisce persino in un giro di danza.

Perché il “Dio in esilio”, o il devil in maschera, è dicerto dissimulato tra quei fantasmi da dopoguerra maiconcluso, da armistizio mai definitivamente sigillato.Solo che bisognerebbe riconoscerlo…

Filmografia essenziale(in ordine di apparizione)Les carabiniers (Jean-Luc Godard, 1963)Notre musique (Jean-Luc Godard, 2004)Histoire(s) du cinéma (Jean-Luc Godard, 1988-1997)Film socialisme (Jean-Luc Godard, 2010) One Plus One/Sympathy for the Devil (Jean-Luc Godard, 1968)

Bibliografia(in ordine di riferimento)Louis Ferdinand Ramuz, Jean-Luc perseguitato, Jaca Book,Milano 1983; Susanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat,Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, Le Mani, Recco 1998;Claude Simon, Storia, Einaudi, Torino 1971; Sergio Arecco, voceGodard in Giampiero Brunetta (a cura di), Dizionario dei registidel cinema mondiale, vol. II, Einaudi, Torino 2005; JuanGoytisolo, Paesaggi dopo la battaglia (1982), Cargo, Napoli2009; Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, Gallimard, 4voll., Paris 1998; Id., Histoire(s) du cinéma, 2 dvd + libro,Cineteca di Bologna, Bologna 2010; David Goodis, Strada senzaritorno (1954), I Classici del Giallo Mondadori n. 979, Milano2000; ** According the Rollins Stones, Mondadori, Milano 2003(sull’abbandono di Brian Jones e la sua morte); Jean-LucGodard, Due o tre cose che so di me, minimum fax, Roma 2007;Antoine de Baecque, Godard, Grasset, Paris 2010; RobertoTurigliatto (a cura di), Passion Godard: il cinema (non) è il cine-ma, Il Castoro, Milano 2011.

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50 ANNI DEL GATTOPARDOSimone Villani

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Cinquant’anni fa usciva Il Gattopardodi Luchino Visconti, un film che ha contribuito a strutturare l’immaginario nazionale: al prezzo di un fraintendimento del romanzo?

Quella di diventare un scrittore (così come l’appro-do del successo letterario) è un’aspirazione tipicamen-te piccoloborghese, e non può trovare posto nel siste-ma di valori di un aristocratico, tantomeno di un prin-cipe. È questo forse non l’ultimo dei motivi per il qualeGiuseppe Tomasi di Lampedusa covò per almeno ven-t’anni il romanzo ispirato al suo bisnonno paterno, ilprincipe e astronomo dilettante Giulio di Lampedusa,che voleva ambientare nella Sicilia dal 1860 al 1910.

Il romanzo di Lampedusa e il film di Visconti (infondo quasi un instant movie, al netto dei tempi dellapreparazione e del tournage) appaiono rispettivamen-te nel 1958 e nel 1963, a cavallo del secolo dagli even-ti che raccontano e del centenario dei Mille, una datala cui forza simbolica doveva agire a contrario anchesu Lampedusa («Ed io non posso preoccuparmi di ciòche saranno i miei eventuali discendenti nell’anno1960», dice presago del declino del casato il protago-nista del romanzo in una frase tagliata dal film) (1) eche egli morto nel 1957 non vedrà mai; a cinquant’an-ni da allora, e nell’assiologia molto più incerta del cen-tocinquantenario, non sarà forse inutile interrogarsisulla relazione tra queste due opere, che da decenniformano insieme un luogo ormai “mitologico” dell’im-maginario nazionale.

Come manifesto quasi ufficiale delle intenzioni diVisconti potremmo assumere il dialogo con AntonelloTrombadori pubblicato – nella indimenticabile collana“Dal soggetto al film” della Cappelli – nel volume sulfilm curato da Suso Cecchi e introdotto dal padreEmilio (2), questo sì più che un instant book a tutti glieffetti, edito anzi a preannunzio del film il 30 marzo

1963, ben prima dello sbarco a Cannes. Il regista è alsolito tranchant, e dice nel punto che più ci preme inquesto momento: «Certo è inutile cercare nel mio filmquella contrapposizione scettica e senza costrutto traintimità dei sentimenti e passioni collettive, tra impul-si irrazionali del cuore e movimenti reali della storia,insomma tra disperazione e speranza, che talunihanno voluto leggere nel “Gattopardo”, tentando perdiversi interessi di collocare questa opera, che è beniscritta nell’anagrafe del realismo, in non so qual sortadi vago eliso, del resto assai provinciale, della cosid-detta letteratura dell’angoscia. Nel “Gattopardo” siracconta la storia di un contratto matrimoniale» (3).

Impossibile condividere quest’ultima affermazionedi Visconti: il matrimonio d’interesse di Angelica eTancredi è una linea narrativa episodica e discontinua,e vive, come tutti gli avvenimenti esteriori del libro,esclusivamente per la eco di cui risuona nell’animo delPrincipe (4). La riduzione del libro alla storia del con-tratto matrimoniale è una tipica operazione da sceneg-giatori, e pare da subito orientare il lavoro verso un’at-tenzione alle forze materiali della società e nella dire-zione di una lettura marxista del romanzo. Degno diproblematizzazione appare anche l’arrocco di Viscontisull’afferenza anagrafica del romanzo al realismo, cheegli mostra per di più di considerare salda.

Un ulteriore motivo di diffidenza sui contenuti deldialogo, del resto, è dato dalla personalità dell’interlo-cutore, che associa paradossalmente un massimo diamicalità (Trombadori era una delle due o tre personeche Visconti “ascoltava” veramente) a un massimo diufficialità (il suo ruolo politico): in particolare,Trombadori era per Visconti il più importante traitd’union con Palmiro Togliatti, al rapporto col qualeteneva enormemente. Ecco dunque l’opportunità, inprossimità del lancio del film, di disinnescare gli attac-chi da sinistra al romanzo (decadente?, o addirittura

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reazionario?) che già si riposizionavano e volteggiava-no su di esso. Il 2 aprile, dopo averlo visto a Torino,proprio in una lettera a Trombadori, Togliatti avrebbein effetti difeso il film. Visconti aveva ottenuto un veroe proprio fuoco di sbarramento preventivo.

Può soccorrere qui il confronto tra libro, film ecopione originale in due punti strategici di ognitesto narrativo e in particolare di un cinema comequello di Visconti, così profondamente “musicale” etanto attentamente votato alla costruzione dellacurva drammaturgica: l’attacco e la chiusa, l’inizioe la fine del film.

Nel romanzo il sipario narrativo si apre sulla con-clusione della recita del Rosario, e il baricentro dellastoria si assesta rapidamente sulla torreggiante figuradel Principe; chiuso così il primo sottocapitolo(“Rosario e presentazione del Principe”) del “Capitoloprimo”, è al secondo sottocapitolo (“Il giardino e il sol-dato morto”) che è delegato il famoso episodio dellascoperta del corpo di un soldato ucciso dai ribelli cheera venuto a morire nel giardino dei Salina, incapsula-to peraltro nella bolla mnestica di un ricordo delPrincipe che l’associa per contrasto ai profumi sensua-li del giardino medesimo.

Se nel libro dunque l’episodio è cristallizzato in unillic et tunc che ne anestetizza la maleodorante trauma-ticità, gli sceneggiatori di Visconti lo riconducono all’hicet nunc: si è appena chiuso il Rosario, quando «unadelle porte del salone vien socchiusa e nel salone entrascodinzolando il cane Bendicò, e un rumore di voci agi-tate quanto mai inconsueto» (5), in corsivo nel testo,reca notizia dello shockante rinvenimento. Nel film, tut-tavia, Visconti dà un ulteriore giro di vite: le voci delgiardino si insinuano progressivamente nel tessutosonoro della recita del Rosario, “stonandone” la musica-le monodia e profanandone la latineggiante separatezzalinguistica: il Principe, furioso, ne chiederà ragione.

La progressiva torsione dell’incipit dal libro attra-verso la sceneggiatura fino al film rivela naturalmentein controluce l’intenzione del regista: la turbativa delRosario, assunto come declinazione sacra e intangibi-le dell’apparato ideologico della conservazione, si fasimbolo del sonno astorico della Sicilia interrotto dal-l’urto continentale del Risorgimento: nel momentopreciso in cui deflagra questa traumatica interferenza– più e prima del romanzo – il film ha inizio.

Infinitamente meno univoca appare la relazione chetra libro e film si determina all’altro estremo del testo,

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l’explicit, che registra peraltro l’intervento più radica-le sul tessuto narrativo del romanzo. Il penultimocapitolo del libro – intitolato “La morte del principe” esignificativamente l’unico a non essere segmentato insottocapitoli – è un impressionante resoconto “in sog-gettiva” dal punto di vista di un agonizzante. L’ultimocapitolo è ambientato nel 1910, cinquantenario deiMille, ma è centrato sulla privatissima, disperata rou-tine delle figlie del Principe, zitelle e ormai settanten-ni, e si chiude sull’immagine assoluta della sagomadell’antico cane Bendicò, da quarantacinque anniimbalsamato, che dalla finestra una cameriera final-mente getta alle immondizie. «Poi tutto trovò pace inun mucchietto di polvere livida».

Un finale che non poteva compiacere non si dicePlechanov, ma probabilmente neppure il più dialetticoTogliatti, che del libro aveva detto male.Evidentemente il romanzo, che “corteggia la morte”non meno del suo protagonista nella famosa scenadella contemplazione della Morte del giusto di Greuze(6), non poteva essere ascritto al realismo nel senso incui Visconti voleva farlo accettare a Trombadori.Eppure, è possibile salvarlo al realismo per altre vie:una di queste potrebbe rimandare alla categoria tim-panariana di materialismo (7), di un materialismo cioè

che, più radicale di quello classico marxiano, non ripo-si né sulla struttura né tantomeno sulla sovrastruttu-ra, ma sul dato fisico, biologico, di malattia vecchiezzamorte, più irredimibile e ancora più “oggettivo” deimovimenti della società e della Storia.

Il film taglia di netto gli ultimi due capitoli (8). Essosi chiude sul presagio struggente della morte delPrincipe: dapprima la sua genuflessione dinnanzi allospettacolo di un sacerdote che viene a dare il SantoViatico a un moribondo, anteriore al ballo nel romanzoe traslata al finale già in sceneggiatura (9), poi l’invoca-zione a Venere, la «fedele stella» del mattino, e infine lacamminata solitaria del Principe verso il fondo del qua-dro, della quale da solo il pathos struggente del crescen-do musicale si incarica di fare il simbolo definitivo. Cosìil film – la cui forza è appunto nel superbo “passo” dellaregia e non nell’operazione tematico-ideologica – sichiude e si ricompone sullo splendido tramonto delPrincipe, e alla magnifica crudeltà delle estreme paginedel romanzo oppone un empito neoromantico e unaperaltro efficacissima mozione degli affetti che ha nelteatro musicale tanto appassionatamente detestato dalLampedusa il suo vero modello estetico.

In quest’ottica, non è più così paradossale che ilromanzo paia in condizione di rivendicare un mate-

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rialismo “avanzato” che il film – respinto dal côtémortuario, che si doveva presumere regressivo, degliultimi due capitoli, e anche delle loro mille propaggi-ni che li preannunciano e li prolungano nei primi sei– si è vietato di attingere. Per converso, se del roman-zo pur nel suo successo plenario capitolo settimo eottavo costituiscono la parte meno “maneggevole” peril grande pubblico, elidendoli e poi gratificandolo delfasto sontuoso della mise en scène il film lo ha resoun oggetto stupendamente levigato in grado di pro-lungare indefinitamente la propria persistenza nel-l’immaginario.

(1) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli,Milano 196057, pag. 55. (2) Suso Cecchi d’Amico (a cura di), Il film “Il Gattopardo” e la regiadi Luchino Visconti, Cappelli, Bologna 1963.(3) Ivi, pag. 25, poi in Giuliana Callegari, Nuccio Lodato (a cura di),Leggere Visconti. Scritti, interviste, testimonianze e documenti di esu Luchino Visconti con una bibliografia critica generale,Amministrazione Provinciale di Pavia, Pavia 1976, pag. 95.(4) Sull’evanescenza della trama è esplicito Francesco Orlando: «Aformarne una, non concorre quel tanto che emerge nel racconto dellevicende politiche collettive, e meno ancora delle vicende familiari in

senso economico. A stento potrebbe far parlare di trama il triangoloamoroso fra Concetta, Tancredi e Angelica, rapidamente risoltocom’è, e destinato a prolungamenti radi e muti» (Francesco Orlando,L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Einaudi, Torino1998, pag. 27). (5) Suso Cecchi d’Amico (a cura di), Il film “Il Gattopardo”, cit., pag.37.(6) Del costante “vivere sulla punta della spada” peculiare a DonFabrizio, basti un esempio particolarmente significativo perché avve-lena fin lo spettacolo della giovinezza, e la figura adorata di Tancredie della sua Angelica: «Essi offrivano lo spettacolo patetico più di ognialtro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme […]attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e Romeonascondendo la cripta e il veleno, già previsti nel copione […] dallareciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire» (GiuseppeTomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., pag. 265). (7) Cfr. Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri Lischi, Pisa1970 (poi Unicopli, Milano 1997), passim.(8) È una riconfigurazione troppo significativa per esaurirla nellamotivazione pragmatica della difficoltà di mettere in scena i perso-naggi invecchiati di vari decenni.(9) Una delle conseguenze di questa resezione è peraltro il più clamo-roso fraintendimento che opera nella vulgata del Gattopardo: il «Sevogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» diTancredi (in una parola, il gattopardismo). Gli ultimi due capitoli,difatti, ne rivelavano il carattere tragicamente illusorio (e anzi, sulpiano storico e di classe, controproducente).(10) Il carattere “assoluto” degli ultimi due capitoli (sia pure così bre-vemente riassunti qui sopra) mostra poi quanto irrealizzabile (oimplicitamente semplificatrice) fosse l’aspirazione, più volte rivendi-cata dagli sceneggiatori, di dare tutto nel ballo.(11) Cfr. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., pag.254 e Suso Cecchi d’Amico (a cura di), Il film “Il Gattopardo”, cit.,pagg. 147-148.

IL GATTOPARDO Luchino ViscontiRegia: Luchino Visconti. Soggetto: dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico,Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Montaggio: MarioSerandrei. Musica: Nino Rota. Scenografia: Mario Garbuglia. Costumi: Piero Tosi. Interpreti: Burt Lancaster (il Principe Don FabrizioSalina), Claudia Cardinale (Angelica Sedara/Donna Bastiana), Alain Delon (Tancredi Falconeri), Paolo Stoppa (Don Calogero Sedara),Rina Morelli (la Principessa Maria Stella Salina), Romolo Valli (padre Pirrone), Serge Reggiani (Don Francisco Ciccio Turmeo), MarioGirotti [Terence Hill] (il conte Cavriaghi), Pierre Clémenti (Francesco Paolo), Lucilla Morlacchi (Concetta), Giuliano Gemma (il gene-rale garibaldino), Ida Galli (Carolina), Ottavia Piccolo (Caterina), Carlo Valenzano (Paolo), Brook Fuller (il Principino), Anna MariaBottini (mademoiselle Dombreuil), Lola Braccini (Donna Margherita), Marino Masé (il tutore), Howard Nelson Ruben (Don Diego),Ivo Garrani (il colonnello Pallavicino). Produzione: Goffredo Lombardi per Titanus/Société Nouvelle Pathé Cinéma/Société Généralede Cinématographie. Distribuzione: Titanus. Durata: 187’. Origine: Italia/Francia, 1963.

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Meno denari, meno giorni di pro-grammazione, in un’unica sala,senza possibilità di repliche.Eppure l’undicesima edizionedell’Asian Film Festival, la terzadopo il trasferimento da Roma aReggio Emilia, ha fatto segnare unbuon incremento di pubblico,ovviamente rapportato al numerodelle proiezioni. Oltre al concorso,la manifestazione diretta daAntonio Termenini si articolava inquattro piccole sezioni informative,una delle quali, quella dedicata alMyanmar, praticamente azzerata daproblemi legati alla difficile situa-zione di quel travagliato Paese.

Come sempre buono il livello deifilm in competizione, votati per laprima volta dal pubblico, che haespresso la preferenza per Ai detishen (Tutte le scuse) della cineseEmily Tang, che ha ritirato il pre-mio insieme al suo produttoreChow Keung. Un ragazzo muore inun incidente stradale, il responsabi-le non ha il denaro per pagare ilrisarcimento e il padre gli violenta eingravida la moglie per riavere ilfiglio che gli è stato tolto. Dopo un

incipit di commedia la tonalità dellanarrazione vira al dramma sociale,facendo emergere sia la povertàdelle periferie che la condizione sot-tomessa della donna, ma il temaforte di quest’opera aspra e dise-guale ci sembra piuttosto quello, inqualche modo filosofico, dellacolpa, della vendetta e dei meccani-smi brutalmente sostitutivi che essainnesca.

Il premio alla pellicola più origi-nale, attribuito dagli studenti

dell’Università di Modena e Reggio,è andato a Nan fang xiao yang muchang (Quando un lupo si innamoradi una pecora), del taiwanese HouChi-jan. L’esile vicenda di una storiad’amore “a inseguimento”, tra foto-copiatrici, test di ammissione, canismarriti e santoni che cucinano inoodles è contrappuntata da grazio-si inserti animati, che le conferisco-no la stessa aerea leggerezza degliaeroplani di carta gettati dall’alto diun edificio dai protagonisti.

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Asian Film FestivalPaolo Vecchi

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Di tutt’altro segno il palmarèsdella giuria del Sindacato NazionaleCritici Cinematografici Italiani –Sezione Emilia Romagna Marche,che ha scelto Nihon no higeki (Unatragedia del Giappone) di MasahiroKobayashi. Se il grande KeisukeKinoshita nel suo omonimo capola-voro del 1953 metteva sullo sfondol’atomica di Hiroshima e Nagasaki,oggi il riferimento non può cheandare allo tsunami e a Fukushima,alla memoria delle cui vittime il filmè dedicato. Kinoshita si muoveva enplein air, mentre Kobayashi delimi-ta l’azione tra le mura domestiche,in un tesissimo kammerspiel chevede un anziano al quale il cancroconcede pochi mesi confrontarsi conil figlio disturbato che ha perso lafamiglia a causa del maremoto e conil fantasma della moglie da poco

defunta. La narrazione procede conieratica lentezza, i flashback vannoa frammentarne la struttura, unimplacabile bianco e nero cede nelfinale solo per un attimo al colore,con un effetto traumatico non dissi-mile all’analogo passaggio nel testdi Rorschach. Pur sostanziandosidi geometrie rigorose, lacerantiintrospezioni e durissimi fuoricampo, il film non raggiungerebbela stessa efficacia senza il magnificoottantenne Tatsuya Nakadai, vero eproprio monumento del cinemanipponico, compagno di strada diKurosawa, Naruse, Ichikawa,Teshigara, soprattutto di un altroKobayashi, Masaki, per il quale èstato interprete, anche, dello stra-ordinario Harakiri.

La giuria SNCCI ha poi volutosegnalare Sakura namiki no man-

kai no shita ni (traduzione, nonletterale, immaginiamo: Fioriturafredda) di un altro giapponese,Atsushi Funahashi, che della pel-licola di Kobayashi riprende iltema dello tsunami e delle sueconseguenze sull’economia, maappare curiosamente imparentatoanche ad Ai de tishen per il rovel-lo della colpa e della necessità diespiarla (il protagonista ha cau-sato la morte di un collega opera-io con un’azione maldestra ecerca in tutti i modi di risarcire lamoglie riluttante). Pur con qual-che ingenuità sul piano narrativo,è opera di un certo interesse, gio-cata sul contrasto tra durezzadell’argomento e un linguaggioestetizzante, che si compiace distacchi lirici sulle fioriture deltitolo.

Nihon no higeki

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Giunto in ottima salute – nono-stante la crisi economica – alla suaquindicesima edizione, il Far EastFilm Festival di Udine (19-27 aprile2013), si è presentato al suo pubbli-co con due importanti novità: l’ob-bligata conversione delle proiezionidal tradizionale 35mm al digitale, el’adozione di sottotitoli italiani (inaggiunta a quelli inglesi) che sosti-tuiscono il fastidioso sistema dellatraduzione simultanea in cuffia(fastidioso soprattutto per chi puraffidandosi ai sottotitoli, era distrat-to dal gracchiante audio provenien-te dagli auricolari degli spettatorivicini). Uno dei film evento del festi-val – anche per l’attuale contesto ditensioni internazionali – è stata laprima italiana del nordcoreanoComrade Kim Goes Flying, direttoda Kim Gwang-hun, NicholasBonner e Anja Daelemans (in realtàuna coproduzione insieme al Belgioe alla Gran Bretagna). Del film, cheripropone (senza ironia) i tipici cli-ché del cinema di Pyongyang, ho giàavuto modo di scrivere in occasionedella sua proiezione al Busan FilmFestival («Cineforum» n. 213, genna-io-febbraio 2013, pagg. 83-84) equindi a tale articolo rinvio.

I tre lavori che si sono aggiudicatil’Audience Awards sono stati il sud-coreano How to Use Guys withSecret Tips di Lee Won-suk, vincito-re del Gelso d’oro, il tailandeseCountdown di Nattawut “Baz”Poonpirya e l’hongkonghese Ip Man– The Final Fight di Herman Yau. Ilfilm sudcoreano, che narra di una

assistente alla regia timida e frustra-ta che, grazie a un misterioso videodal titolo Uomini: istruzioni perl’uso, riesce a scoprire una nuovadimensione di sé che le garantirà unsorprendente successo, sia nel lavo-ro, sia nei rapporti con l’altro sesso,è una gradevole operina postmoder-na che di tale tendenza propone leprincipali caratteristiche: dai coloripop agli interventi grafici sulleinquadrature, dagli effetti di mon-taggio MTV all’uso del video, dall’al-terazione della velocità di scorri-mento delle immagini al gioco suipossibili narrativi.

Il film tailandese è, invece,un’opera al confine tra il thriller el’horror, ambientata a New Yorkpoche ore prima del Capodanno2012. Protagonisti della vicendasono tre giovani tailandesi chehanno tutti almeno uno scheletronascosto nell’armadio. A farglielotirar fuori ci penserà un diabolicospacciatore, di nome Jesus, o meglioHesus, che i tre hanno avuto lamalaugurata idea di invitare a casaloro. Giocando su un curioso rap-porto tra cristianesimo e buddismo,che in qualche modo favorisce ilcarattere “metafisico” della storia.Countdown confonde realtà e alluci-nazione, inducendo i personaggi delfilm – e con loro lo spettatore – acredere vero ciò che in realtà è soloimmaginato. Il finale della storia,tuttavia, rimescola ancora le carte,costringe a mettere di nuovo ingioco tutte le possibilità, e spinge asupporre che Hesus possa davvero

essere una sorta di Jesus in grado difare miracoli – anche se in versionepiuttosto maligna. Comunque sianoandati i fatti, una cosa è chiara: nes-suno può sottrarsi dal pagare le pro-prie colpe.

Herman Yau – uno dei grandiveterani del cinema di Honk Kong,anche se forse autore di un unicovero capolavoro, The Untold Story(1993) – ritorna ancora una voltasulla figura di Ip Man, maestro diarti marziali passato alla storiaanche per aver avuto come allievoBruce Lee. A tale leggendaria figura,il cinema di Hong Kong ha dedicatorecentemente diversi film, alcuni deiquali hanno raggiunto anche unacerta notorietà internazionale: duediretti da Wilson Ip (Ip Man, 2008,e Ip Man 2, 2010, entrambi disponi-bili in dvd anche in Italia), uno dallostesso Yau (The Legend Is Born: IpMan, 2010), e l’ultimo, da WongKar-wai (The Grandmaster, 2013).The Final Fight potrebbe difficil-mente essere considerato il miglioredella serie. Girato e costruito un po’troppo alla maniera di uno sceneg-giato televisivo, il film tenta unamediazione fra una ricostruzionedella vita privata di Ip (il rapportocon la moglie, quello assai casto conl’amante e quello col figlio), unrichiamo alla storia di Hong Kongdegli anni Cinquanta (la miseria, gliscioperi, la droga come piaga socia-le) e i luoghi canonici del cinema diarti marziali (a partire dall’esibizio-ne iniziale dello stesso Ip che riescea dare una dimostrazione delle sue

Far East 2013Gelsi, autori cinesi e commedie dal Giappone

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capacità, senza spostarsi da un faz-zoletto steso a terra).

Sebbene la Cina, ormai semprepiù vicina a diventare il primo mer-cato cinematografico del mondo,rincorra l’idea di poter essere con-correnziale al cinema spettacolarehollywoodiano scendendo sul suostesso campo e ottenendo comeunico risultato quello di realizzarefilm il cui miglior giudizio possibileè quello di dire che si tratta di unabuona imitazione (e poi che bisognoc’è di una Hollywood cinese?), pro-

prio da lì sono arrivati i film forsepiù interessanti del Festival. FengShui di Wang Jing, autore che simuove da tempo fra finzione e docu-mentario, è un dramma familiare aforti tinte ma che evita una facilecommozione attraverso uno stilequasi da reportage – con tanta mac-china a mano –, ellissi che omettonoeventi chiave del racconto, e perso-naggi complessi e irriducibili alladicotomia di bene e male. La storiaverte sul suicidio di un padre difamiglia, la cui responsabilità è in

parte da attribuire alla sua debolez-za, in parte all’atteggiamento vessa-torio della moglie. Questa, rimastasola col figlio e la nonna paterna,dedica al ragazzo tutta la sua esi-stenza, lavorando per diversi annicome facchino, in modo da poterglipagare gli studi. Ma il figlio, forsespinto dalla nonna – il film mantie-ne al proposito una certa reticenza –non riesce a perdonare alla madre lesue colpe a riguardo del suicidio delpadre. Dopo aver superato il test diammissione all’università, chiederàalla donna di andarsene e lasciarlosolo. Il film riconosce in ognuno deisuoi personaggi meriti e colpe,facendo così proprio il celebre prin-cipio di Renoir secondo cui il dram-ma della vita è che tutti hanno leloro ragioni.

L’altro film cinese di notevoleinteresse è stato Lethal Hostage diCheng Er, presentato in collabora-zione con l’Asian Film Festival diReggio Emilia e quasi del tuttoprivo di dialoghi. Anche qui, sotto lespoglie del thriller e del film d’azio-ne, si trova una storia, a suo mododi famiglia, che mette in gioco il rap-porto fra un padre, una figlia e ilmarito gangster di questa, che larapì da bambina dopo una sparato-ria, finendo poi, col passare deglianni, per innamorarsene. Girato inparte a Pechino e in parte al confinetra la Cina e la Birmania, dueambienti che il film tratta mettendo-ne in luce tristezza e desolazione,Lethal Hostage si organizza in quat-tro diversi capitoli, dando vita a unalabirintica struttura con un conti-nuo andirivieni fra presente e passa-to. La storia d’azione così si compli-ca forse un po’ troppo, ma ne guada-gna la costruzione dei caratteri e deiloro difficili rapporti. Il lavoro sultempo del film non si limita ai con-tinui flashback e flashfoward, maanche al suo indugiare (un po’ alla

Lethal Hostage

Comrade Kim Goes Flyng

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maniera dell’incipit di C’era unavolta il West) al gioco delle attese edegli sguardi, che oltre a Leoneguarda anche al miglior Johnnie To(ad esempio quello di Exiled).

La selezione giapponese, partitacome la più agguerrita e non pocosponsorizzata dallo stesso Festival, èstata esclusa dai favori del pubblico,ma ha comunque portato a Udinequalche film degno di interesse. Sututti le commedie A Story ofYonosuke di Okita Shûichi, See YouTomorrow, Everyone di NakamuraYoshihiro e Key of Life di UchidaKenji (mentre meno ispirato è sem-brato l’atteso It’s Me, It’s Me di MikiSatoshi). Il film di Okita è l’eccellen-te ritratto, ambientato nei primi anniOttanta, di uno studente arrivato aTokyo dalla campagna, la cui sagaceingenuità lo accompagna in una sto-ria di formazione destinata a conclu-dersi tragicamente (fatto che il filmanticipa a metà del suo intreccio).See You Tomorrow, Everyone siambienta in un danchi, ovvero unodi quei complessi residenziali popo-lari costruiti negli anni Sessanta ecomprensivi al loro interno anche diesercizi commerciali di vario genere,e segue per alcuni anni la vita quoti-diana di un ragazzo che decide dinon uscirne mai e condurre lì tutta lasua esistenza. Key of Life, dal cantosuo, narra la storia di un giovaneaspirante attore, disordinato e vota-to al fallimento, e di un killer perfe-zionista che il gioco del caso vuolesiano costretti a scambiarsi d’identi-tà. In It’s Me, It’s Me, ritroviamo iltema del gioco di identità, attraversola surreale storia di un ragazzo che siscopre circondato da sosia che rive-lano ognuno un aspetto ben precisodella sua personalità.

I quattro film sono la testimo-nianza della vitalità della comme-dia giapponese contemporanea (ungenere che non ha mai goduto fuori

dai confini del suo Paese una parti-colare attenzione) e continuano cosìuna tradizione i cui antecedentipossono esseri ritrovati nell’operadi Kawashima Yûzô e, più recente-mente, di Itami Jûzô. Nel complessol’odierna commedia giapponesesembra caratterizzarsi per una certaattenzione a personaggi che manife-stano una sorta di consapevoleemarginazione dalla società in cuivivono (come accade anche in moltifilm del bravo Yamashia Nobuhiroe, in una certa misura, anche diSono Sion), sono a tutti gli effettidegli straniati drop out che più chepiegarsi alle leggi del mondo, cerca-no di piegare queste alla loro stralu-nata logica. Di qui una certa pro-pensione per situazioni surreali, al

limite del verosimile (e a volte benoltre). Il fatto poi che si tratti di gio-vani protagonisti fa di molti di que-sti film una sorta di storia di forma-zione in cui la componente sessuale,spesso affrontata con una certa irri-verenza, gioca un ruolo fondamen-tale e, frequentemente, ben piùimportante di quella sentimentale(che non sempre assume il peso cheinvece ha nei modelli occidentali).Sempre in rapporto a tali modelli,la commedia giapponese, infine, sicaratterizza anche per una costru-zione dell’intreccio meno tesa e, alcontrario, più allentata, che tende acomprendere al suo interno se nonproprio dei tempi morti, certamen-te un certo numero di pause edigressioni.

A Story of Yonosuke

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In Cile ci sono aiuti statali per laproduzione di film, come sottolineaDominga Sotomayor Castillo, regi-sta di De jueves a domingo, presen-te a Bergamo per la sesta edizione diCinelatino, una rassegna promossada TenarisDalmine e organizzata daGAMeC, Fondazione Dalmine,Fundación Proa e Bergamo FilmMeeting, con il prezioso supportotecnico e logistico di Lab80 Film. Lagiovane autrice, classe 1985, ha unasolida formazione e ha già fondatouna sua casa di produzione. De jue-ves a domingo è il suo esordio nellungometraggio ed è la cronaca diuna breve vacanza di una famigliadi quattro elementi; un road movieche disegna una coppia in crisi, unrapporto ormai agli sgoccioli.Dominga Sotomayor Castillo sostie-

ne di aver voluto guardare il mondoattraverso gli occhi della ragazzinaprotagonista e forse non è un casoche tra le due ci sia una marcata ras-somiglianza. L’interesse del film ènella forma adottata, quasi un docu-fiction, dove le tensioni emergonotra le pieghe del racconto, nei gesti enei silenzi più che nelle parole.

Cileno è anche Violeta se fue alos cielos di Andrés Wood, uscito afine giugno nelle sale italiane; ilfilm narra la vita di Violeta Parra,cantante a suo tempo molto notaanche all’estero, morta suicida nel1967. Attraverso alcuni episodidella sua vita e grazie alla straordi-naria interpretazione dell’attriceFrancisca Gavilán, che assomiglia aVioleta in maniera inquietante, ilregista si avvicina con rispetto e

discrezione a una figura di donnadi perturbante complessità, vittimaspesso dei propri stati d’animo, dalcarattere non facile, ma che nontradisce mai le sue origini popolari,il suo attaccamento alla terra, il suodesiderio di dare voce agli umili eai diseredati.

A Bergamo era presente ancheNicolás Sorín, figlio di Carlos, auto-re che gli appassionati di cinema giàconoscono, uno che ha già nove filmall’attivo e che si era imposto nel1986 con La película del Rey e nel2004 con Bombón – El perro, uscitoda noi due anni dopo. Nicolás èmusicista e non lavora solo per ifilm del padre; ha raccontato come ilgenitore, quando fa un film, coinvol-ge praticamente tutta la famiglia,con la madre che tiene ben stretti i

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De jueves a domingo

Cinelatino a BergamoArturo Invernici

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cordoni della borsa. Días de pesca,l’ultima fatica di Carlos Sorín, èambientato in Patagonia e raccontail viaggio di un padre per incontrarela figlia che non vede più da tantianni. Ex tossicodipendente, l’uomosi inventa la passione della pesca pernascondere i veri motivi della suaimpresa, che si rivela quasi impossi-bile perché le ferite del passato sonotuttora profonde e aperte. In unaluce quasi irreale tutte le questionirimangono sospese, così come ledistanze sono ancora troppo grandiper essere colmate.

Dal Paraguay, dove i film prodottisi contano sulle dita di una mano,arriva un film singolare, 7 cajas, rea-lizzato da una coppia di registi, JuanCarlos Maneglia e Tana Schémbori,già attivi nella pubblicità e nella rea-lizzazione di videoclip e di miniserietelevisive. Il film è ambientato negliimmensi mercati di Asunción ed èun thriller dall’andamento concita-to, con momenti di puro divertisse-ment. È la storia di Víctor, un ragaz-zo di diciassette anni, che si trova atrasportare sette casse dal contenutomisterioso, affidategli da un ambi-guo macellaio. Il montatore del film,Juan Carlos Maneglia, anche lui pre-sente a Bergamo, spiega l’intenzio-nalità della scelta di un ritmo a voltedecisamente accelerato, come con-traltare a un’unità di luogo cheavrebbe rischiato di appesantire unfilm che è stato campione di incassinel suo Paese.

Tutto il mondo è paese, verrebbeda dire dopo aver visto la Demora diRodrigo Plá, una coproduzione uru-guaio-messicana e No quiero dormirsola della messicana NataliaBeristáin. Entrambi i film trattano iltema della vecchiaia: nel primo unamadre di tre figli deve accudireanche il padre, affetto da demenzasenile, e scopre di essere tropporicca per avere accesso ai benefici

previsti dalla legge; nel secondoAmanda, una giovane donna bene-stante e un po’ sbandata, è obbliga-ta a farsi carico della nonna in predaall’Alzheimer e alcolizzata. Se Lademora punta lo sguardo anchesugli aspetti sociali e sulle insor-montabili barriere burocratiche, ilfilm di Natalia Beristáin si cala inuna dimensione più intimista, lavo-rando sul ritrovarsi di due persone alungo rimaste distanti.

L’Argentina rimane il Paese con ilmaggior numero di opere prodotte;a Bergamo era rappresentato da Elúltimo Elvis di Armando Bo – figliod’arte, il padre Víctor è stato attoree produttore – tenera e malinconicastoria di uno sfigato fan e sosia diElvis Presley, che non riesce a conci-liare la propria, quasi patologicapassione, con le esigenze della suafamiglia. L’attore, John McInerny, ècosì nella vita e nel film interpretacon grande efficacia le canzoni delmito del rock.

La carrellata si conclude con ilcolombiano, ma con un po’ diMessico e di Francia, La Sirga di

William Vega. Ambientato sullecoste della laguna della Cocha, nelsudovest della Colombia, ha comeprotagonista Alicia, una giovanedonna in fuga dall’orrore della guer-ra che sta devastando il Paese. Lozio accetta di ospitarla e le offre unlavoro nella ristrutturazione di unostello in rovina chiamato La Sirga.Tutto sembra filare liscio fino all’ar-rivo del cugino, una persona ambi-gua e compromessa. I tempi sonodilatati, le superfici mutevoli dell’ac-qua sono specchi che restituisconoinquietudine e misteriose presenze.Un film teso, costruito sui rumoridel vento e dell’acqua, sugli sguardidi Alicia, che scopre a poco a pocouna realtà da cui è costretta dinuovo a fuggire.

Nell’insieme, la rassegna ha dinuovo rivelato una cinematografiavivace, sempre ricca di scoperte, conautori nuovi che si affacciano sullascena internazionale, all’interno direaltà produttive diverse, con opereche rivelano solide strutture narrati-ve e attenzione alle specificità terri-toriali.

No quiero dormir sola

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Il paradiso dei cinefili, così denomi-nato tra gli addetti ai lavori, ha chiusola sua ventisettesima edizione confer-mandosi uno degli eventi più presti-giosi nel panorama festivaliero inter-nazionale. Promosso dalla FondazioneCineteca di Bologna e diretto da Petervon Bagh con il coordinamento diGuy Borlée, il Festival “Il CinemaRitrovato” (Bologna, 29 giugno-6luglio 2013) ha radunato oltre duemi-la accreditati (tra registi, critici, stu-diosi, cinefili, organizzatori) prove-nienti da cinquanta Paesi, consolidan-do quella cultura della macchina deltempo e della macchina dello spazioche tutela il patrimonio cinematografi-co passando attraverso il recuperoprima, il restauro dopo e la conserva-zione infine di pellicole altrimenti rovi-nate o perdute o – in taluni casi – maiconosciute. Ampie e diversificate lesezioni a disposizione degli oltre set-tantamila spettatori presenti, dislocatetra le sale Mastroianni e Scorsese delCinema Lumière, le sale dei cinemaJolly e Arlecchino, la Sala Borsa delComune, la Biblioteca Renzo Renzi ela Sala Cervi e Piazzetta Pasolini.

La sezione principale e di maggiorrichiamo, “Ritrovati e Restaurati”, haconfermato la sua vocazione prodigio-sa, presentando agli spettatori imigliori restauri dell’anno e propo-nendo irresistibili visioni di operedestinate a nuova vita audiovisiva: daRoma città aperta a Badlands diMalick, da Hiroshima mon amour aJour de fête di Tati, da Falstaff diWelles a Dial M for Murder diHitchcock, da Plein soleil di Clément aIl gusto del sakè di Ozu, da I proscrit-ti di Sjöström a The Invisible Man di

James Whale, da La belle et la bête diCocteau a Il temerario di Ray, daRiccardo III di Olivier a Treni stretta-mente sorvegliati di Menzel e a LuckyLuciano di Rosi.

Alla presenza della figlia Joanna, ilFestival ha reso omaggio a BurtLancaster nel centenario della nascita,proponendo i restauri di Vera Cruz diAldrich e di Un uomo a nudo (TheSwimmer, 1968) di Frank Perry, vera epropria gemma sottovalutata in cuil’attore è «superbo, nella più grandeperformance della sua carriera» (scri-veva il compianto Roger Ebert).

Le ammirevoli “Lezioni di cinema”hanno proposto incontri e conversa-zioni eccellenti con Alexander Payne(che ha preso una settimana di ferieper trasformarsi nel più accanito deglispettatori, presente in sala dalla matti-na alla sera), con Serge Toubiana, conJean Douchet, con Agnès Varda, conJonathan Rosenbaum, con ThierryFrémaux, con Peter Becker e JonathanTurrel (fondatori di CriterionCollection), con Goffredo Fofi.Annullato invece l’atteso incontro conAnouk Aimée – icona dell’edizione2013 in virtù del restauro di L’amanteperduta (Model Shop, Jacques Demy1969) a cui è dedicato il manifesto.

Le sezioni collaterali hanno regalatoautentiche scoperte e rivelazioni.Sull’onda dell’emozione “Cinemalibe-ro” è stata senza dubbio la vetrina piùsuggestiva. Curato da Gian LucaFarinelli, il programma ha visto ilrecupero di Il diluvio (Ragbar, 1971),esordio di Bahram Beyzai, all’epoca ilfilm più popolare nella storia del cine-ma persiano e opera fondativa delnuovo cinema iraniano ma dal destino

iniquo; l’inedito Tell Me Lies. A Filmabout London (1968), lungometrag-gio di rara bellezza di Peter Brook congli allora membri della RoyalShakespeare Company impegnati travita e finzione a riflettere sul conflittoin corso in Vietnam; Afrique 50 (1950)e Avoir vingt ans dans les Aurès(1971), entrambi di René Vautier, filmcensurati sui genocidi consumati dallaFrancia nelle colonie africane; Lettre àla prison di Marc Scialom, operasostanzialmente mai nata siccomeabbandonata dal regista stesso subitodopo le riprese effettuate nel 1969 traMarsiglia e Tunisi e Parigi con la cine-presa prestatagli dall’amico ChrisMarker (per l’occasione è stato presen-tato il volume edito da Artdigiland chene ricostruisce la vicenda, Impasse ducinéma, curato da Silvia Tarquini); il«miracoloso» – scrisse all’epoca Bazin– La Pointe courte (1955), esordio diAgnès Varda nel lungometraggio nar-rativo con un giovanissimo PhilippeNoiret; ma la perla è stata la proiezio-ne del restauro di Il carrettiere (1963),cortometraggio d’esordio di OusmaneSembène, opera realista di somma bel-lezza e commozione.

Una sezione ha reso omaggio alcinema rurale di Ol’gaPreobrazenskaja – la prima registadonna russa, dapprima attrice allievadi Stanislavkij e poi inquilina dirim-pettaia di Dziga Vertov – e del suocompagno e coautore Ivan Pravov. Laselezione “L’emulsione conta”,anch’essa curata da MariannLewinsky, ha proposto invece settepellicole trasversali alla Nova vlnacecoslovacca degli anni Sessanta – sututte, Le margheritine (Sedmikrásky,Vera Chytilová 1966) – in cui l’utilizzodella pellicola Orwo prodotta a Lipsia,combinata con la pellicola a coloriEastmancolor e in bianco e neroKodak, produce(va) ardite sperimen-tazioni sul colore con conseguentieffetti lisergici tout-court sullo spetta-

Cinema ritrovatoAlberto Spatafora

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tore. Il Giappone parla! ha presentatotitoli esemplificativi del passaggio dalmuto al sonoro nel cinema giappone-se, tra musicanti e spadaccini, prose-guendo l’ideale recupero avviato nel2012. Bigger than Life ha invece sve-lato un ampio sguardo sulCinemaScope sorprendentementeeuropeo del ventennio 1950-1970: trai titoli restaurati, le visioni maestoseda I disperati di Sandor (1966 diMiklós Jancsó), da Beatrice Cenci(1956) di Riccardo Freda e da Lagrande guerra (1959) di Monicelli.

Con la sezione “Lettere da ChrisMarker” Peter von Bagh ha propostoalcune opere con cui il rivoluzionario esperimentatore francese, «prototipodell’uomo del Ventunesimo secolo»(come lo definì l’amico Alain Resnais),ha declinato in tutte le forme la varia-bile audiovisiva del medium cinema:saggi, film-ritratto, diari di viaggio,collage, reportage, riflessioni. Tra leproposte, il capolavoro assoluto Lajetée (1962) e Olympia 52 (1952) e Lejoli mai (1962).

I cultori mutisti hanno assistito inanteprima mondiale alla proiezione –nel formato originale 35mm – dei novefilm muti superstiti del periodo britan-nico di Hitchcock, i cui restauri costi-tuiscono il più complesso progetto maiintrapreso dal British Film Institute.Tra essi, l’esordio con The PleasureGarden (1926) e The Lodger (1926) eBlackmail (1929).

La vera grande retrospettiva del-l’edizione 2013 è stata dedicata adAllan Dwan, “nobile primitivo”, regi-sta statunitense che dal 1911 al 1961ha costellato la sua carriera di oltrequattrocento titoli spaziando tra igeneri e le innovazioni tecniche. Dagliesordi coevi a Griffith ai successi deglianni Venti modellati sui divi DouglasFairbanks (The Iron Mask, 1929) eGloria Swanson (Mandhanled, 1924),dai grandi affreschi intimisti degli anniTrenta e Quaranta a La campana ha

suonato (Silver Lode, 1954), conside-rato ancora oggi uno dei migliori filmantimaccartisti.

Ancora, una sezione ha reso omag-gio con “tenerezza e ironia” a VittorioDe Sica. Farinelli e Michela Zegnahanno selezionato nove titoli espres-sione del «genio generoso e plurale» diregista innovatore e di attore amma-liatore: da Il signor Max (1937) diCamerini a Teresa Venerdì (1941) e Ibambini ci guardano (1943), da Laporta del cielo (1945) a L’oro diNapoli (1954), da Il giudizio universa-le (1961) a Il generale Della Rovere(1959) di Rossellini. Il processo diFrine (episodio da Altri tempi, 1952) ePeccato che sia una canaglia (1954)hanno infine ricordato l’incontro traDe Sica e Alessandro Blasetti.

Il “Progetto Chaplin” – curato daCecilia Cenciarelli e da sempre in fieri– ha presentato in anteprima i dodicimediometraggi che Chaplin realizzòtra il 1916 e il 1917 per la MutualFilm. I loro restauri, fiore all’occhiellodel blasonato laboratorio L’ImmagineRitrovata, sono stati sostenuti da unparterre di nomi come MartinScorsese (The World CinemaFoundation), George Lucas (LucasFamily Foun-dation), George Harrison(Material World Charitable

Foundation), Michel Hazanavicius e –di nuovo – Alexander Payne, il qualeha prima adottato e poi tenuto a bat-tesimo la proiezione di L’evaso (TheAdventurer). L’edizione 2013 è statal’occasione per la Cineteca di Bolognadi porre il sigillo sul lavoro decennaledi catalogazione e digitalizzazionecompiuto sull’archivio di CharlesChaplin, affidatogli dagli eredi e giun-to ora a compimento, restituendo cosìal pubblico uno dei patrimoni cultura-li più preziosi al mondo.

L’ambizione necessaria di unFestival come quello di Bologna rivelala continua urgenza data sia dall’ine-sorabile deterioramento della pellicolafilmica sia dagli inarrestabili muta-menti tecnologici, che al tramontodella pellicola elevano il digitale a sup-porto di ripresa e di proiezione.Rientrata a Madison (Wisconsin),Kristin Thompson annota sul blog diDavid Bordwell la sua esperienza del-l’edizione 2013 del Festival inBologna: «Once more we thank the“Ritrovato” team – led by Peter vonBagh, Guy Borlée and Gian LucaFarinelli – for their visionary achieve-ments. They have changed our concep-tion of what a film festival can be, andthey have led us to a deeper and widerappreciation of the glories of cinema».

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31 LUGLIO 2013Una donna alla presidenza dell’Academy. Cheryl BooneIsaacs, già vice, è da trent’anni a questa parte la primaposta a capo dell’ente che assegna gli Oscar, e in assolutoil primo cittadino afroamericano a toccarne il vertice negliottant’anni intercorrenti dalla sua istituzione.

31 LUGLIO 2013Una sentenza del TAR del Lazio dispone il risarcimento, dalparte del ministero, di sei milioni di euro alla IIF (FulvioLucisano) e di quattro alla FilmAuro (Aurelio DeLaurentiis). Si tratta di saldi dei contributi percentuali sugliincassi dei film, che erano stati sospesi quando a capo delMiBAC era il poi dimissionario ma per sempre indimentica-bile Sandro Bondi. Il Ministero dovrà garantire le spettan-ze accumulate, per le due case, rispettivamente a Maschicontro femmine, Femmine contro maschi e Nessuno mi puògiudicare da una parte; Genitori e figli, agitare bene primadell’uso, Natale in Sudafrica, Manuale d’amore 3 e Amicimiei, come tutto ebbe inizio, dall’altra. Qualche sfrontatopotrebbe azzardare un «Arridatece er puzzone»…

6 AGOSTO 2013Con la proiezione del Decameron, si inaugura al BillyWilder Theatre di Los Angeles “Pure & Impure”, unaretrospettiva di Pier Paolo Pasolini patrocinata dal localeconsolato italiano per l’anno della cultura italiana negliUsa. Per un intero mese, fino all’8 settembre, si sussegui-ranno tutti i suoi lungometraggi (a eccezione di Uccellaccie uccellini) con l’aggiunta di La ricotta e dei Sopralluoghiin Palestina. Contemporaneamente, presso la galleriadell’Istituto Italiano di Cultura, la mostra “L’Oriente diPasolini. Il Fiore delle mille e una notte nelle fotografie diRoberto Villa” con più di cento pezzi esposti.

7 AGOSTO 2013«Come sia stato possibile che un film perduto di OrsonWelles sia finito a Pordenone, nascosto nel magazzino di

uno spedizioniere, resta un mistero a cui difficilmente sipotrà dare una soluzione. Ma il “film perduto” è statoritrovato e restaurato e sarà proiettato alla prossima edi-zione delle Giornate del cinema muto. Perché – dimenti-cavamo di dirlo – anche il film salvato è muto, nonostan-te sia stato fatto nel 1938, quando Hollywood avevaimparato da tempo a parlare. Chi non aveva voluto ilsonoro era stato lo stesso Welles» (Paolo Mereghetti,«Corriere della Sera»). «Finora si sapeva che l’unica copiadi Too Much Johnson era andata bruciata nel 1970 nel-l’incendio della villa del regista a Madrid. E fu lo stessoWelles a dire: “Era un bel film. Avevamo creato una copiada sogno a New York. L’ho guardato quattro anni fa e lastampa era in ottime condizioni. Sapete, non l’avevo maimontato. Pensavo di metterlo insieme per darlo a Joe

Cotten come regalo di Natale qualche anno fa, ma nonl’ho fatto» (Gianni Rondolino, «La Stampa»).

8 AGOSTO 2013Muore di cancro, dopo tre anni di inutile lotta contro lamalattia, corroborata dalla raccolta di circa sessantami-

Lost & found: Joseph Cotten, haroldlloydianamente abbarbicato su di una scaletta, in Too Much Johnson (1938) di Orson Welles, filmperduto, ritrovato e presentato a Pordenone.

le lune del cinemaa cura di Nuccio [email protected]

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la dollari tra amici e ammiratori per sostenere le impo-nenti spese mediche, a 74 anni a Los Angeles KarenBlack, nata a Park Ridge (Illinois) il 1° luglio 1939.Esordiente nel 1966 coll’altrettanto giovane Coppola diButtati Bernardo! – ma da lui scoperta in quanto attriceteatrale e allieva di Strasberg all’Actor’s Studio – ha

preso parte a una quarantina di film, tra i quali spicca-no, imponendola via via sempre più incisivamente all’at-tenzione, Easy Rider (1969, di Denis Hopper), Cinquepezzi facili (1970, di Bob Rafelson), Quattro tocchi dicampana (1971, di Lamont Johnson), Yellow 33 (1972,di Jack Nicholson), Una squillo scomoda per l’ispettoreNewman (1973, di Harvey Hart), Airport 75 (1974, diJack Smight), Il grande Gatsby (id., di Jack Clayton), Ilgiorno della locusta (1975, di John Schlesinger),Nashville e Jimmy Dean, Jimmy Dean (1975 e 1981, diRobert Altman), Complotto di famiglia (1976, di AlfredHitchcock). La forza e la suggestione della sua presenzasullo schermo hanno fatto capire agli spettatori di tuttoil mondo perché l’antica religione grecoromana raffigu-rasse Afrodite e Venere strabiche.

9 AGOSTO 2013A trent’anni dalla sua scomparsa, apre al pubblico aCittà del Messico la casa residenziale di Luis Bunûel:una normalissima palazzina bianca a tre piani, abitatadal Maestro nell’ultimo periodo della sua permanenzamessicana. L’operazione, frutto di un’intesa tra il gover-no locale e quello spagnolo, è tesa a disporre di uno spa-zio per workshops tra giovani cineasti dei due Paesi,mostre temporanee e iniziative culturali, durante il cui

svolgimento sarà visitabile. Si assicura che la dimora èrimasta nell’identica situazione in cui la lasciò don Luiscongedandosi dalla vita.

11 AGOSTO 2013Tom e Jerry censurati in blue ray. Un gruppo di appas-sionati e collezionisti londinesi denuncia che la Warneravrebbe proceduto a censurare la nuova edizione deiclassici di animazione rimasterizzati, eliminando tutte lescene “politicamente scorrette” dal punto di vista dell’in-tegrazione razziale. Ad esempio quella in cui il Gatto,fumando un sigaro, soffia il nero del fumo sul Topo,facendolo diventare di quel colore e quindi coinvolgen-dolo in una danza. Di timbro e orientamento diverso leproteste: «È inconcepibile tagliare quelle scene, perchésarebbe come dire che il pregiudizio non esiste e va can-cellato dalla faccia del mondo, mentre va conosciuto ecapito», ovvero «Sono film destinati soprattutto a colle-zionisti: smettetela di trattarci da bambini», o ancora «Dipoliticamente corretto potremmo morire». L’iniziativa“revisionista” verrebbe fatta risalire a Ted Turner, acqui-rente in blocco delle produzioni, e risalirebbe già aglianni Ottanta-Novanta.

11 AGOSTO 2013Muore a Trecastagni (Catania) a 75 anni dopo lungamalattia Lamberto Puggelli, nato a Milano nel 1938.Diplomato attore a vent’anni all’AccademiaFilodrammatici della sua città sotto la guida della gran-de Esperia Sperani, attore (già con Strehler nella ripre-sa 1961 del primo El nost Milan, 1956) si dà contem-poraneamente anche alla regìa teatrale, collaborandopure col Festival dei Due Mondi a Spoleto e specializ-zandosi in lirica (soprattutto alla Fenice) con una pro-gressione che lo porta rapidamente in giro non solo perl’Italia. Dal 1970 è di nuovo con Strehler, suo strettoassistente (dalla Santa Giovanna dei Macelli del 1970)e cofirmatario di regìe con lui (Referendum per Reder,Gruppo Teatro e Azione 1971; La condanna di Lucullo,sempre Brecht, alla Scala, 1973), passando poi alNuovo San Babila e al Teatro Uomo. Oltre ad alcunemessinscena pirandelliane (dalle Maschere nude del1970 al Così è se vi pare del 1975, dal non frequente-mente allestito La nuova colonia del 1992 a Questasera si recita a soggetto appena dopo), lavora alla Scalainscenando tra le altre opere di Donizetti, Verdi ePuccini. Molto aperto alla collaborazione con compa-gnie indipendenti, cooperative ed esperienze sperimen-tali, ha concluso la carriera come direttore dello Stabiledi Catania fino al 2007.

Un particolare gusto per l’arredamento: Karen Black, con il “socio d’affari” William Devane, in Complotto di famiglia (1976) di Alfred Hitchcock.

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14 AGOSTO 2013Il Victoria & Albert Museum di Londra, acquistato l’archi-vio personale di Vivien Leigh, si propone di esporne nelprossimo futuro al pubblico i “pezzi” di maggior richiamo,quali ad esempio le lettere a Winston Churchill e aElisabetta II. Il fondo, venduto dagli eredi della protago-nista di Via col vento, comprende anche l’epistolarioscambiato col consorte Laurence Olivier, copioni e sceneg-giature, che l’istituzione acquisente si propone di metterea disposizione anche on line.

14 AGOSTO 2013Muore in volo da Malindi a Nairobi, soccorso invano perun’edema polmonare all’epilogo di una lunga malattia, a79 anni, Luciano Martino, nato a Napoli il 22 dicembre1933. Nipote di Gennaro Righelli e Maria Jacobini, fratel-lo del regista Sergio, ha svolto per mezzo secolo un’inten-sa attività di produttore (oltre cento titoli dagli anniSessanta agli Ottanta per la sua Dania Film) e di registadi genere con sette film, non disdegnando neppure la sce-neggiatura (anche con Bolognini: La notte brava, 1959) el’interpretazione. «“Fammi fare il mio mestiere come soche si fa”: lo diceva con l’orgoglio del tycoon a EdwigeFenech, che fu la sua compagna per molti anni, imponen-dole titoli che proprio non le andavano, come Giovannonacoscialunga disonorata con onore o Quel gran pezzodell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. I registi della suascuderia hanno riempito le serate cinematografiche degliitaliani negli anni d’oro e poi sui canali televisivi privati»(Egle Santolini, «La Stampa»); «Era un artigiano capace dicolmare le sale con commedie scollacciate, in un mondo dierotismo casalingo il cui massimo della trasgressioneerano le docce di Edwige Fenech e i perizomi di NadiaCassini, i seni minuti della liceale Gloria Guida, le scolla-ture di Barbara Bouchet» (Arianna Finos, «laRepubblica»). Quentin Tarantino l’aveva ritenuto degno,col fratello, di retrospettive private nella sua villa di LosAngeles

15 AGOSTO 2013Armistizio concluso tra Hollywood e RepubblicaPopolare Cinese. Pare raggiunta l’intesa che varrà il ver-samento di duecento milioni di dollari: quanto dovuto inroyalties dal China Film Group ai produttori statunitensi(ci sono di mezzo film quali Skyfall o L’uomo d’acciaio).Il retroscena è complesso: China Film Group si era impe-gnato a girare ai produttori il venticinque per cento degliincassi realizzati dai trentaquattro film annui, stabiliticome massimo contingente permesso alla California dalprincipale mercato mondiale anche quanto a import di

spettacolo. Il disaccordo era intervenuto per il rifiuto degliamericani di corrispondere il due per cento di imposta suiprofitti: richiesta intervenuta dopo la stipula dell’accordoprecedente. Secondo i produttori, infatti, la richiesta inter-venuta in flagrante violazione degli accordi WTO, cui laRPP aveva aderito. Ora pare che la diplomazia del pingpong si sia estesa anche agli schermi del Sol Levante e aiconti delle majors.

16 AGOSTO 2013Si inaugura il Sarajevo Film Festival.Contemporaneamente, viene annunciata la costituzionedella Sarajevo Film Factory, che ha tra i propri fondatoriBela Tarr, a poca distanza dall’annuncio pubblico del suoabbandono della regìa.

17 AGOSTO 2013«Mi auguro che il MiBAC non abbia finanziato il film diDelbono-Senzani Sangue. E lascia esterrefatti la collabo-razione di Rai Cinema» (sen. Francesco Giro, PdL).

19 AGOSTO 2013Muore di infarto a 63 anni a Corfù, dove si trovava invacanza, Paolo Rosa, nato a Rimini nel settembre 1949.Milanese d’adozione fin da giovane, prima studente e poidocente all’Accademia di Brera, fonda nell’82, con il foto-grafo Fabio Cirifino e il grafico Leonardo Sangiorgi, loStudio Azzurro («Bottega d’arte contemporanea che nonha regole stabilite»). Al gruppo di ricerca e sperimentazio-ne artistica pluridisciplinare si aggiungerà tredici annidopo l’esperto di interattività Stefano Roveda. Il suo

Coltivare le lettere: Vivien Leigh allo scrittoio in Lady Hamilton (1941) di Alexander Korda.

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primo film è del 1979, Facce di festa. Già nel 1984 comegruppo sono a Venezia con l’indimenticabile Il nuotatore,“videoambiente“ attraverso monitors a palazzo Fortuny,cui fanno immediato seguito Vedute, Luci d’inganni,Storie di corse) seguiti a un decennio di distanza daTavoli, Coro, Totale della battaglia e Il soffio dell’angelo,fino all’ingresso nel circuito stesso del cinema in distribu-zione vero e proprio, prima col bell’episodio Dov’èYankel? (con Moni Ovadia e i suoi musicisti) in Miracoli.Storie di corti (1994: gli altri due di Soldini e Martone)poi col singolarissimo e stimolante “lungo” Il mnemonistanel 2000. Nel frattempo interagiva validamente con l’in-sieme un regista di teatro della forza di Giorgio BarberioCorsetti (L’osservatorio nucleare del Sig. Nanof e Prologoa diario segreto contraffato, 1985). Recentissime la gigan-tesca installazione per il padiglione italiano dell’Expo2010 in Cina, Sensitive City, e l’interattiva per il Vaticanodella Biennale in via di svolgimento (perché, a tutt’oggi,Studio Azzurro non risulta mai essere stato direttamenteinvitato alla manifestazione!). Rilevanti nel suo cinecurri-culum il contributo organizzativo e ideativo alla rassegna“Film-maker” e la fondazione della cooperativa di promo-zione del cinema indipendente “Indigena”, unitamente allostesso Soldini, Daniele Segre e Chicco Stella. Intervistacon Bruno Di Marino e doppio dvd Feltrinelli (2007) econversazione “postuma” con Fabio Francione («il manife-sto», 22 agosto).

19 AGOSTO 2013Nanni Moretti compie sessant’anni. Giovani maestri cre-scono.

20 AGOSTO 2013Secondo la «Bild». Horst Tappert, deceduto nel 2008 maimmortale come ispettore Derrick sui teleschermi dimezzo mondo, non vede crescere la propria integrità etico-politica dopo la morte. Già lo scorso anno era stata indi-viduata la sua adesione volontaria alle Waffen SS. Ma orasi sarebbe aggiunta la scoperta di una scatola occultata invita, e contenente documenti sulla sua militanza attivanella famigerata divisione “Totenkopf”: la baionetta d’or-dinanza, una svastica decorazione-premio militare, la pia-strina col numero di matricola (3409) e la documentazio-ne sul prendere parte ai raduni dei nostalgici veteranialmeno fino al 1971. Frugare nei cassetti dei defunti èdecisamente antipatico: ma talvolta chiarificatore.

20 AGOSTO 2013Muore a 87 anni a Detroit, per i postumi di un ictus chel’aveva colpito un mese prima, Elmore Leonard, nato a

New Orleans l’11 ottobre 1925. Scrittore tra i più affer-mati del dopoguerra, dopo ricche peripezie familiari e per-sonali si stabilisce a Detroit, che diverrà il teatro di moltesue narrazioni, laurendovisi nel 1950. Comincia poi apubblicare racconti e successivamente romanzi di ispira-zione western, lavorando in proprio come pubblicitariofino a che, sullo scorcio degli anni Sessanta, il successo gliconsente di dedicarsi allo scrivere a tempo pieno.Privilegiando un nuovo filone di ambientazione crimina-le, non senza sporadici ritorni al tema della Frontiera. Lecaratteristiche della sua fiorente narrativa, largamenteimpostata sull’arte del dialogo tra i personaggi, ne hafavorito un trapianto cinematografico di vastità con rariprecedenti («Tradurre Leonard in un’altra lingua è diffici-lissimo perché un idioma così profondamente americano,con dei dialoghi talmente scolpiti nella pietra, che qualun-que lingua diversa dall’inglese americano non può render-ne pienamente la voce e il tono tagliente»: MatteoPersivale, «Corriere della Sera»). Senza fare conto dellaproduzione per la tv, sono tratti da suoi libri o sono statida lui sceneggiati I tre banditi (Budd Boetticher, 1957);Quel treno per Yuma (Delmer Daves, id. e JamesMangold, 2007); Hombre (Martin Ritt, 1967); Io sonoperversa (Alex March, 1969); I contrabbandieri degli anniruggenti (Richard Quine, 1970); Io sono Valdez (EdwinSherin, 1971); Joe Kidd (John Sturges, 1972); A musoduro (Richard Fleischer, 1974); I guerrieri del vento (J.Lee Thompson, 1984) e 52 gioca o muori (JohnFrankenheimer, due anni dopo, dallo stesso romanzo…); Idelitti del rosario (Fred Walton, 1987); Scherzare col fuoco(Burt Reynolds, 1985); Oltre ogni rischio (Abel Ferrara,1989); Get Shorty (Barry Sonnenfeld, 1995); Touch (PaulSchrader, 1997); il capolavoro Jackie Brown (QuentinTarantino, id.); Out of Sight (Steven Soderbergh, 1998);Brivido biondo (George Armitage, 2004); Be Cool (GaryGray, 2005); Killshot (John Madden, 2009); Sparks(Joseph Gordon-Levitt, id.) e Fready Deaky (CharlesMatthau, 2010). Probabilmente non finirà qui.

21 AGOSTO 2013Muore a Roma, dov’era nato nel settembre 1930,Giancarlo Bornigia. Commerciante d’auto di professione,nel 1965 aveva aperto, in società con Crocetta eDiotallevi, il Piper Club a via Tagliamento. Lo stesso annoMina vi era stata diretta da Valerio Zurlini in alcuni caro-selli per la Barilla. Luogo d’irradiazione non soltanto diPatty Pravo e Renato Zero, ma palcoscenico di “storiche”esibizioni dei Who, che avevano fatto il loro ingresso comespettatori ma furono costretti a furor di pubblico a suona-re (26 febbraio 1966), di Jimi Hendrix (23 maggio 1968),

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dei Genesis (18 aprile 1972). La sua esistenza, per il cine-ma in tv, ha ospitato l’episodio Totò Ye Ye di TuttoTotò,il canto del cigno del principe De Curtis, e “ispirato” primail film per la tv di Carlo Vanzina dal suo stesso titolo(2007), poi la serie sempre omonima realizzata due annidopo da Francesco Vicario.

23 AGOSTO 2013Con la pubblicazione di Cinema italiano Duemila(LibereEdizioni) – quinto volume della serie avviata daCinema italiano Sessanta nel 2008 – si completa (per ilmomento) la ricca raccolta di recensioni che AlbertoPesce ha scritto per il «Giornale di Brescia» nell’arco dimezzo secolo. Un vero e proprio repertorio, acuto e godi-bilissimo, del nostro cinema, che prosegue sulle pagine delquotidiano lombardo, pur lamentando l’autore la minorestensione dei testi. E primato di continuità sulla stessatestata, conteso soltanto – oddio, nominandolo invano, maquesta è un’altra storia – da Gian Luigi Rondi, che pub-blica su «Il Tempo» di Roma dal 1947 a tutt’oggi, ma hariportato in volume solo una selezione delle sue fatiche. Àla prochaine, Alberto. [lopedeluna]

25 AGOSTO 2013Muore a 99 anni nella sua casa all’isola di Wight Gilbert“Gil” Taylor, nato a Bushey Heath (Hertfordshire) il 21aprile 1914. Di famiglia assai agiata, destinato agli studidi architettura, si avvìa al cinema contro il volere dei suoigià nell’adolescenza, facendo in tempo a lavorare con lamacchina da presa alla Gainsborough proprio mentre ilcinema dà l’addio al muto. Gavetta decennale anche inFrancia, ed esperienza bellica in aviazione, congedato

come ufficiale. Nel dopoguerra supera finalmente il ruolodi operatore quando Günther Krampf se lo affianca comeresponsabile della seconda unità in Fame Is the Spur diRoy Boulting: è il 1947. Coi gemelli Boulting (Roy e il fra-tello John) continuerà a collaborare sistematicamente finodai primi anni Cinquanta (fino all’estremo Soffici letti…dure battaglie, 1973) proseguendo, in chiave fortementeinnovativa, sia nel bianco e nero con J.L. Thompson(Penitenziario, braccio femminile, 1953; Gli uomini con-dannano, 1956; L’adultera, 1957; Birra ghiacciata adAlessandria, 1958) che, in parallelo, nel colore con CyrilFrankel (È meraviglioso essere giovani, 1956; No Timefor Tears, 1957; She Didn’t Say No, 1958). È l’avvio diquasi mezzo secolo di carriera in prima persona di chidiverrà un grande maestro internazionale della fotografia,che lo affiancherà ad autori e realizzatori quali RichardLester (It’s Trad, Dad!, 1962; Tutti per uno, 1963) ePolanski (Repulsion e Cul-de-Sac, 1965-66; Macbeth,1971). Ma l’attenzione mondiale gli era nel frattempoarrivata addosso grazie al Dottor Stranamore di Kubrick(1963), passando poi anche a Hitchcock (Frenzy, 1972),all’horror ad alta pretesa di Richard Donner e poi insequel di Don Taylor (Il presagio, 1976; La maledizione diDamien, 1978), per culminare nella pur problematica col-laborazione con George Lucas in Guerre stellari (1977).Firmerà ancora, tra gli altri, Meetings with RemarkableMen (Peter Brook, 1978), Dracula (Badham, 1979) eFlash Gordon (Hodges, 1980). A fine carriera, gli era statadedicata una puntata della serie tv britannica Behind theCamera (1999) e aveva ricevuto due significativi ricono-scimenti da parte dei colleghi della BSC, che aveva contri-buito a fondare (2001) e dell’ASC (2006).

La Federazione Italiana Cineforum (FIC) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La FIC organizza corsi, seminari e convegni, distribuiscefilm classici e inediti, fornisce consulenze, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum» e di altri prodotti editoriali di cultura cinematografica.

Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalità di adesione alla FIC ci si può rivolgere alla Segreteria – Sede operativa di Bergamo, tel. 035361361 (da lunedì a venerdì 9.30-13.00, mercoledì e giovedì 9.30-13.00, 15.00-18.30) o via e-mail [email protected]. I cineforum di nuova costituzio-ne possono richiedere gratuitamente, nel primo anno di associazione, due film distribuiti dalla FIC e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT - 24121 Bergamo,tel. 035 342239, fax 035 341255, [email protected]). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno la rivista «Cineforum».Tutti i cineforum affiliati ricevono la rivista «Cineforum», ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del listino della Lab80 Film, hanno la pos-sibilità di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema.

Il comitato centrale della FIC, per il triennio 2011-2014, è composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Chiara Boffelli (Bergamo), Gianluigi Bozza (presidente,Trento), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto, TN), Bruno Fornara (Omegna, VB), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), Cristina Lilli (Bergamo), RobertoMarchiori (Legnago, VR), Adriano Piccardi (Bergamo), Walter Pigato (Nove, VI), Jurij Razza (Robbiate, LC), Roberto Santagostino (Tortona, AL), AngeloSignorelli (vicepresidente, Bergamo), Enrico Zaninetti (segretario, Novara).

Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Dino Chiriatti (Roma), Roberto Figazzolo (Pavia), Pierpaolo Loffreda (Pesaro), Giuseppe Puglisi (Ragusa),Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco, TV), Claudio Scarpelli (Reggio Calabria), Tonino Turchi (Pesaro), Daniela Vincenzi (Bergamo), SergioZampogna (Bergamo).

I dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo.

SEGRETERIA FIC: [email protected] - www.cineforum-fic.com - tel. 035 361361 da lunedì a venerdì 9.30-13.00, mercoledì e giovedì 9.30-13.00, 15.00-18.30

FEDERAZIONE ITALIANA CINEFORUM

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Loach, Sang-soo, Scola, De Peretti, Oliviero, Amelio, Cantet

Speciale Venezia 70

Figure e capricci #3 · 50 anni del Gattopardo

Mostre e festival

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TRA I FILM DEL PROSSIMO NUMERO

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CineforumVia Pignolo, 12324121 BergamoAnno 53 - N. 8 ottobre 2013Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCBPoste Italiane S.p.a.

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