Charles Moulin. Un'impressione critica - ArcheoMolise V, 16 - Luglio-Settembre 2013

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DONATO A GAMBATESA: UNO SPECULUM PRINCIPIS DI MANIERA ROMANA di Roberta Venditto CIRIACO BRUNETTI DI ORATINO di Valentina Marino LA PITTURA «IN FRAMMENTI» A S. VINCENZO AL VOLTURNO di Serena La Mantia e Pasquale Raimo a cura di Dora Catalano e Roberta Venditto PITTURA IN MOLISE: LUOGHI E PERSONAGGI CHARLES MOULIN. UN’IMPRESSIONE CRITICA di Tommaso Evangelista INTERVISTA AD ACHILLE PACE di Vincenzo Merola PIETRO SAJA di Dante Gentile Lorusso N°16 - Anno V Luglio / Settembre 2013 ISSN: 2036-3028 Poste Italiane s.p.a. – Spedizione in Abbonamento Postale –70% - S1/CB ©

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Donato a Gambatesa: uno speculum principis Di maniera romana

di Roberta Venditto

CiriaCo brunetti Di oratino

di Valentina Marino

La pittura «in frammenti» as. VinCenzo aL VoLturno

di Serena La Mantia e Pasquale Raimo

a cura di Dora Catalano e Roberta Venditto

pittura in moLise: LuoGhi e personaGGi

CharLes mouLin. un’impressione CritiCa

di Tommaso Evangelista

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di Vincenzo Merola

pietro saja

di Dante Gentile Lorusso

N°16 - Anno VLuglio / Settembre 2013IS

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INDICE

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pag. 32

pag. 20

pag. 8

di Tommaso Evangelista

di Vincenzo Merola

di Dante Gentile Lorusso

di Valentina Marino

di Roberta Venditto

di Serena La Mantia e Pasquale Raimo

Charles Moulin. un’iMpressione CritiCa

il filo e il labirinto. intervista ad aChille paCe

pietro saja(Sessano del Molise 1779-Napoli 1833)

CiriaCo brunetti di oratinoPittore 'alla moda' del Settecento molisano, tra gusto rococò ed evoluzione neoclassica

donato a GaMbatesa: uno speculum principis di Maniera roMana

la pittura «in fraMMenti» a s. vinCenzo al volturno tra siMbolo e narrazione

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luglio/settembre2013

Numero

16

stampa

grafica isernina86170 Isernia - ItalyVia Santo Spirito 14/16

iN CopertiNaDettaglio del Volto di Cristo, ricostruzione degli affreschi, Laboratorio di San Vincenzo al Volturno (foto: S. La Mantia) e Achille Pace, "Itinerario disperso n.2", particolare, filo e tempera su tela, 1990 (foto: A.Pace)

Registrazione del Tribunale di Isernia n. 72/2009 A.C.N.C.; n. 112 Cron.; n. 1/09 Reg. Stampa del 18 febbraio 2009

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Dora Catalano tommaso evangelistaDante gentile lorussoserena la mantia Valentina marinoVincenzo merolapasquale raimoroberta Venditto

preMessa

Roberta Venditto

a parola più frequentemente usata negli ultimi anni è 'crisi' quasi come un mantra che si vuole smettere di pronunciare ma del quale in fondo non si riesce a fare a meno. Di volta in volta la si ritrova nei discorsi più disparati, spaziando dall‘economia, al lavoro, ai rapporti sociali ed alla politica.Di crisi culturale si sente parlare invece molto meno, come se questa, in percentuale irrilevante rispetto alle altre, non toccasse la totalità della popolazione e del vivere quotidiano, come se la crisi di valori che ha invaso l‘economia, la società e la politica non siano diretta

conseguenza della scarsa importanza data alla cultura in ogni sua forma.Ci sono luoghi dove però la crisi culturale non è storia di oggi ma profondamente radicata e fedele compagna di uno sviluppo mai avvenuto; luoghi da sempre considerati periferici, anonima cerniera fra più distinte e riconoscibili realtà. Il Molise è uno di questi luoghi, ancora incapace di far sbocciare quel seme del cambiamento che pure, etimologicamente, la crisi porta con sè.ArcheoMolise prova a coltivare questo seme con una scommessa editoriale giunta al suo primo lustro, un progetto di promozione e divulgazione che per questo numero monografico si dedica alla pittura molisana, altro tassello fondamentale del frammentario ma ricco patrimonio culturale di questa terra.Lo storico dell‘arte Émile Bertaux, definiva quella molisana un art local dans le pays des montagnes, relegandola a rude espressione di un altrettanto rude popolo. Tanti studi, a distanza di un secolo, hanno demolito questo pregiudizio riuscendo a collocare le espressioni artistiche del Molise in una più complessa rete di rapporti. Quello che ci auguriamo è che questi studi compiano un passo ulteriore, uscendo dal localismo e diffondendosi ben oltre i nostri amati paesi di montagna.

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introduzione

Dora Catalano

imarrà deluso chi pensa di trovare in questo numero di ArcheoMolise, o in queste mie note introduttive, un profilo della storia dell’arte nella nostra regione, una sorta di manuale da cui pigramente ricavare nozioni di sintesi a copertura di un vasto arco cronologico. Sarebbe stato un cattivo servizio per il lettore, ma soprattutto un cattivo servizio per la storia della cultura del Molise, in una materia che ancora oggi più che di compendi necessita di esplorazioni, di momenti di analisi critica, di ricerche sulle fonti e di una lettura puntuale dei singoli segmenti storici

calati nella loro cornice sociale e culturale. Ed assumono, infatti, la forma di esplorazioni i contributi qui raccolti, tutti dedicati all’esame di esperienze pittoriche lungo un arco cronologico ampio, che dall’alto medioevo giunge alla estrema contemporaneità. Perché la pittura? Non certo in base ad una logica di ‘primato’ tra le arti, ma solo per evitare dispersioni e creare un percorso più serrato, magari lasciando spazio a nuovi numeri tematici sulle architetture della regione, sulla scultura o sulle troppo spesso dimenticate arti decorative.Il denominatore comune delle esperienze che abbiamo voluto raccontare è da individuarsi nel loro carattere di ‘apertura’. Il territorio molisano (ancora troppo spesso considerato come appendice periferica di quanto elaborato altrove) ad un esame privo di pregiudizi si mostra meno debole di quanto ci si voglia far credere. Ed è più forte proprio quando riesce ad aprirsi agli scambi con l’esterno e a collocarsi in una trama di relazioni di più ampia portata.Il tempo medievale è qui rappresentato dalle decorazioni pittoriche di S. Vincenzo al Volturno, il cui ruolo centrale nel sistema di produzione della cultura tra IX e XII secolo si va sempre più precisando a seguito dei ritrovamenti dagli scavi e dello studio dei materiali. Due immagini di datazione diversa ‘recuperate’ dalla ricomposizione che ci obbligano a raffronti di lunga gittata: la prima non può che essere letta se non nel contesto europeo della rinascenza carolingia, la seconda è testimonianza tra le più preziose di quella ‘riforma’ a cui l’abate Desiderio di Montecassino ha legato il suo nome, che prima che riforma pittorica è stata riforma della chiesa stessa.Le decorazioni pittoriche del castello di Gambatesa sono state oggetto di studi, anche recenti,

che ne hanno indagato i rapporti con la cultura romana della metà del XVI secolo. Il contributo in questo volume ne ha tratto spunto per rileggerle in una diversa prospettiva e raccontarci così delle modalità di autorappresentazione di una società feudale che si affaccia nell’età moderna. Vincenzo de Capua ed il suo pittore, il misterioso Donato, hanno trasformato le pareti del castello molisano (oggi forse defilato, ma strategico allora nel sistema territoriale dei De Capua tra Campobasso e la costa pugliese) in un manifesto della virtus politica del principe e della sua raffinata cultura antiquaria.Il Settecento à la page di Ciriaco Brunetti ci porta in una stagione in cui Napoli può vantare un primato europeo nelle arti ed attrae artisti e colti viaggiatori anche dai più lontani paesi del nord. Nella Napoli borbonica dell’ ‘accademia’ di Francesco Solimena si forma Ciriaco Brunetti, che sceglie di ritornare nelle sue terre d’origine per divulgare quella lingua di dimensione internazionale presso una società locale vivace e in forte trasformazione che non vuol perdere il treno della modernità.Nato quando ancora Brunetti dispiegava sulle volte di chiese e palazzi i suoi capricci rococò, Pietro Saja ci introduce in un’altra stagione, che vede l’artista originario di Agnone, prendere la via per Napoli, per vivere in pieno nel periodo murattiano il momento eroico dell’affermarsi della cultura neoclassica in Italia meridionale, dialogare con Canova e contribuire con l’insegnamento, presso la rinnovata Accademia di Belle Arti, alla profonda riforma degli studi artistici.Per un artista che va, un’artista che arriva, un francese che proviene proprio dagli studi accademici e che vive a Parigi una stagione di profondi cambiamenti nel passaggio tra XIX e XX secolo, ma che sceglierà infine l’isolamento delle montagne delle Mainarde per condurre una sua personalissima e difficilmente etichettabile ricerca del bello.A chiusura la voce di un artista che si racconta e che ci racconta di quel momento, troppo spesso ignorato, in cui Termoli diviene grazie ad Achille Pace e forse inconsapevolmente uno dei ‘cantieri’ di costruzione della migliore stagione dell’arte italiana del XX secolo.Si è scelto dunque di offrire una rappresentazione della storia della pittura in Molise attraverso alcuni quadri scenici, di indagare alcuni momenti che abbiamo ritenuto esemplificativi. Ne è scaturita una rappresentazione in più atti, ognuno con il suo luogo ed il suo tempo. Se lo spettacolo ha incontrato il favore del pubblico, fatecelo sapere.

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Ogni ambiente scavato ha in verità svelato abbondanti quantità di frammenti d’affresco o pitture ancora in situ (ad es. il ciclo della cosid-detta cripta di Giosué sotto la basilica maior) permettendo così di comprendere che all’in-terno del monastero le pareti di ogni edificio, dal più rappresentativo al più ordinario, era-no sicuramente e totalmente ricoperte da tali decorazioni (La Mantia 2010). L’alta qualità di queste pitture le rende un imprescindibile modello di confronto per lo studio della pittu-ra altomedievale italiana ed europea tra l’VIII e l’XI sec. Si focalizzerà qui l’attenzione su due distinte ricomposizioni pittoriche volturnen-

si: una croce gemmata e la scena dell’Incredu-lità di Tommaso, risalenti, rispettivamente, al IX e all’XI secolo.

la croce gemmata

Nel 2001 venne recuperato nello scavo vol-turnense un gruppo omogeneo di frammenti d’intonaco dipinto la cui ricomposizione in sabbiera ha consentito, anche se in maniera parziale e lacunosa, la restituzione dell’im-magine di una croce latina gemmata (Raimo 2005). Dato che l’area in cui furono rinvenuti i resti d’intonaco dipinto (ambiente WA, US

di Serena La Mantia e Pasquale Raimo

il sito archeologico di san Vincenzo al Volturno ha restituito il più grande numero di intonaci dipinti medievali dell’intera europa. prima dell’avvio degli scavi sistematici

nell’area, negli anni ‘80 del secolo scorso, le uniche testimonianze della cultura pittorica volturnense erano il ciclo della Cripta di epifanio (De’ maffei 1985 e pubblicazioni precedenti), le miniature del Chronicon vulturnense e quelle del Frammento sabatini, esemplari espressioni di un passato artistico che si credeva perduto per sempre.

La pittura«in frammenti»a S. Vincenzo al Volturno tra simbolo e narrazione

fig. 10 Castel s. Vincenzo, laboratorio degli affreschi. ricomposizione della figura di un

abate (da Catalano & Raimo 2004).

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tombe (ad es. la cosiddetta ‘tomba di Talarico’) collocate nell’atrio antistante la basilica maior del San Vincenzo Maggiore in linea con quanto accadeva in altri coevi contesti italiani ed eu-ropei, come ad esempio la tomba della badessa Ariperga nella chiesa dell’ex-monastero di S. Felice a Pavia di fine VIII sec. (Segagni 2000). A S. Vincenzo al Volturno altrettanto diffuse furono le rappresentazioni crucigere nell’am-bito della produzione scultorea e tra le tante testimonianze si citano due significativi esem-pi. Il primo è una frammentaria lastra tombale (fig. 5) risalente al IX sec. su cui è scolpita una grossa croce dai bracci patenti (probabilmente del tipo latino) con un alloggiamento fiorito al centro che forse doveva fungere da incastona-tura per una pietra colorata, mentre sui rispet-tivi bracci è incisa un’epigrafe leggibile solo in parte. Il secondo esempio riguarda uno tra i più antichi frammenti scultorei altomedievali rinvenuti a S. Vincenzo al Volturno: si tratta di una lastra scolpita di VIII secolo che esibisce il rilievo di una croce, mutila nella parte infe-riore, la cui estremità dei bracci si biforca con terminazione a ricciolo. Questa particolare tipologia di croce detta fiorita, poiché i brac-ci rievocano la forma di un tralcio fitomorfo, era diffusissima in Italia centrosettentrionale per tutto il periodo altomedievale, infatti se ne individuano esempi coevi anche nella vicina regione abruzzese, come a S. Pietro ad Ora-torium, vicino Capestrano, e a S. Benedetto in Perillis.

Dal punto di vista interpretativo, la croce gemmata ha un contenuto iconologico molto

rivelano, invece, motivi decorativi e tavolozza cromatica completamente diversi.

La figura simbolica della croce è un tema de-corativo ricorrente a S. Vincenzo al Volturno. Infatti, una simile raffigurazione è riprodotta sul paliotto e sul retro dell’altare in muratu-ra (fig. 4), datato all’VIII sec. della cosiddetta ‘Chiesa sud’ (Hodges & Mitchell 1996, Sassetti & Catalano 2005) identificata quale primiti-va chiesa del cenobio (fig. 1). Qui le tre croci gemmate dipinte, tra le più antiche testimo-nianze pittoriche dell’abbazia, sono anch’esse suddivise in riquadri bordati da una fitta serie di perle, contenenti la sequenza alternata di gemme ovali e di un motivo quadrangolare. Altre croci dipinte sono individuabili in alcune

centro un clipeo di colore rosso, probabile ri-produzione di una pietra preziosa (fig. 2). Per il patibulum e per il lato superiore dello stipes lo schema compositivo doveva originariamen-te prevedere una doppia successione di riqua-dri, mentre per la parte inferiore dello stipes è verosimile che tale successione si ripetesse tre volte. In virtù di quanto descritto, è stata pro-posta un’ipotetica restituzione grafica della croce (fig. 3) in base alla quale essa risultereb-be larga all’incirca 80 cm e alta 120 cm (Rai-mo 2005). Solo alcuni dei frammenti pittorici dell’US 3149 sono associabili alla croce gem-mata, mentre non esiste alcuna relazione con i resti d’intonaco dipinto rinvenuti nella stessa unità stratigrafica e in quelle più prossime che

3149) è posizionata a ridosso di un loggiato (Marazzi et al. 2002), essa risulta contenere in parte anche il materiale crollato dal versante più settentrionale del corridoio sovrastante, della cui originaria decorazione pittorica (fig. 1) questi frammenti potrebbero essere ciò che rimane. La ricomposizione permette di indi-viduare il corpo centrale di una grande cro-ce latina i cui bracci, dal delicato colore rosa, risultano suddivisi in riquadri delimitati da una decorazione a perle, ognuno campito da una grossa ed ovale gemma bicroma, azzurro-rossa per il braccio verticale e rosso-ocra per quello orizzontale (figg. 2-3). All’incrocio dei due bracci è raffigurata un’altra croce, di tipo greco, patente e di colore dorato, che mostra al

Nell'altra pagina:fig. 1 Planimetria generale dello scavo di S. Vincenzo al Volturno(rielaborazione grafica: P. Raimo, da Marazzi et al. 2002).

In questa pagina:fig. 2 Castel S. Vincenzo, laboratorio degli affreschi. Ricomposizione della croce gemmata volturnense(da Raimo 2005).

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sua resurrezione, da strumento di tortura di-ventò veicolo di conquista della vita eterna, di trionfo sulla morte e su chi tale supplizio ave-va predisposto. La versione gemmata, preziosa ed incorruttibile emblema della Passione, as-sunse in quest’ottica il valore di metafora della vittoria finale della fede nel nome del vero Dio e di chi tale fede difendeva. Il modello da cui deriverebbero tutte le rappresentazioni di cro-ce gemmata, e quindi anche di quelle voltur-nensi, sarebbe identificabile nel monumentale

al cristianesimo (resta comunque difficile capire se effettivamente egli si convertì al credo cristiano) ma, soprattutto, la sistematica diffusione nell’impero dell’immagine del Chri-smon, parte integrante di un complesso e stra-tegico programma imperiale di propaganda iconografica che, attraverso l’esaltazione di tale simbolo, aveva una valenza principalmen-te politica. Tuttavia la croce si trasformò per i cristiani in signum salutis o signum Christi per cui, attraverso la passione di Cristo e la

peratore Costantino (312-337). In alcune fonti antiche (Lattanzio, Eusebio di Cesarea) è nar-rato l’episodio del sogno, o visione mistica, che Costantino ebbe prima della decisiva battaglia contro Massenzio sul Ponte Milvio: un angelo che impugnava un labaro recante l’immagine della croce gli avrebbe preannunciato attra-verso tale signum Christi la vittoria sul rivale (vicenda tradizionalmente nota per la frase «…in hoc signo vinces»). Questo determinò non solo il definitivo avvicinamento del sovrano

importante in quanto simboleggia l’immagine trionfale del Cristo risorto. Nel nostro caso, la presenza di un’ulteriore croce gemmata al centro dei bracci, dove era solitamente collo-cato il volto di Cristo, la mano destra di Dio (dextera Dei) o l’immagine dell’Agnello misti-co, ci fa intuire il duplice valore simbolico con cui fu concepita questa croce volturnense. La nascita del motivo iconografico del crocifisso gemmato è riferito ad un episodio, diviso tra leggenda e realtà, che vede protagonista l’im-

In basso:fig. 3 Ipotesi ricostruttiva della croce gemmata volturnense(elaborazione grafica: P. Raimo).

A destra:fig. 4 Ipotesi ricostruttiva dell'altare dipinto della Chiesa sud (da Hodges & Mitchell 1996).

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IX sec.) attribuibile ad un artista pienamente calato nella temperie culturale della «rina-scenza carolingia» così vicina al tema della croce. In definitiva, la nostra croce gemma-ta sembra ben inserirsi nel clima di rinascita con la ripresa di modelli dell’arte paleocristia-na che l’arte carolingia evidenziò fin dai suoi esordi, rinascita che ereditò dalla fase finale della cultura artistica longobarda, la cosiddet-ta «rinascenza liutprandea». Ma se in queste pitture volturnensi di IX secolo si prediligono scelte iconografiche di tipo simbolico, su ben altro presupposto, come si vedrà qui di segui-to, si baseranno alcune pitture di XI secolo

in Classe a Ravenna, di metà VI sec.; l’affresco nel Battistero delle catacombe di Ponziano a Roma, di metà VI sec.; la cosiddetta Lastra di Sigualdo a Cividale del Friuli, di metà VIII sec.).

Pur essendo evidenti le affinità della cro-ce dell’unità stratigrafica 3149 con le pitture dell’altare della ‘Chiesa sud’, il confronto evi-denzia comunque delle differenze dal punto di vista stilistico. La croce ricomposta mostra un’esecuzione ed una gamma cromatica più scintillante e preziosa rispetto all’altare dipin-to, elemento questo che può farla scivolare ad una fase cronologica di poco successiva (inizio

esemplare che Costantino avrebbe fatto erige-re sul monte Golgota (Casartelli Novelli 1996) ma di tale croce nessuna fonte antica riporta la descrizione.

Ritornando al nostro affresco, sia la croce gemmata che la piccola croce greca patente al suo interno sono senza dubbio la trasposi-zione in termini pittorici di uno dei tanti tipici oggetti d’oreficeria a cui il pittore volturnense si ispirò, così come dimostrano i diversi esem-plari prodotti nelle varie forme d’arte dall’età tardo antica fino all’epoca carolingia (ad es.: i mosaici absidali di Santa Pudenziana a Roma, di fine IV - inizio V sec. e di Sant’Apollinare

Nell'altra pagina:fig. 5 Castel S. Vincenzo, deposito archeologico. Lastra frammentaria con croce dai bracci incisi con epigrafe (da Raimo 2005).

In questa pagina:fig. 6 Castel S. Vincenzo, laboratorio degli affreschi. Ricomposizione della scena dell'Incredulità di Tommaso (da La Mantia 2010).

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poiché coperti dai sopraluce della sottostante porta a cassettoni lignei, serrata da un gran-de chiavistello, secondo un’originale variante iconografica della scena narrativa come quella di Cimitile (seconda metà IX sec.), di Sant’An-gelo in Formis (ultimo quarto dell’XI sec.) o dell’Exultet 3 di Troia (metà del XII sec.), che prevede Tommaso e Cristo raffigurati «die-tro le porte» ad indicare che Gesù, quando apparve a Tommaso, «...venne a porte chiuse» (Gv 20,26). Spostando i confronti dall’ambito miniaturistico nuovamente a quello pittorico, l’orizzonte delle testimonianze ad affresco, sopravvissute in area campano-molisana in-torno alla prima metà dell’XI sec., è pressoché nullo e poche di esse si trovano all’interno di grotte. Risulta quindi assai difficile intessere degli accostamenti tra una pittura a caratte-re privato e quella progettata per una grande basilica. Tuttavia alcuni cicli pittorici rupestri, datati pressappoco tra la seconda metà del X e gli inizi dell’XI secolo, forniscono comunque interessanti spunti di riflessione.

Si inizia questa rassegna con le pitture del I strato della Grotta dei Santi presso Calvi, re-lazionabili alle miniature del Pontificale Cas. 724 (B I 13) 1 e del Benedizionale Cas. 724 (B I 13) 2 della Bibl. Casanatense di Roma, accosta-mento già proposto da Hans Belting la cui da-tazione è stata collocata alla seconda metà del X sec. (Belting 1968). I santi che si stagliano su fondali blu con il cielo ad onde (qui con l’o-cra chiaro alternato all’ocra scuro), sono spes-so inquadrati da colonne e mostrano gli stessi stereotipi fisiognomici e pittorici dell’Incre-dulità: i volti dall’incarnato chiaro presentano tutti le sopracciglia unite al setto nasale con la doppia linea nero-rossa, gote rosee, capelli a calotta, bocche da pierrot (sul labbro superio-re mostrano la stessa M schiacciata presente

una prima lettura sono incomprensibili e che ci lasciano perplessi stimolandoci a chiedere cosa vogliano comunicare.

È stato questo il caso dell'Incredulità di Tom-maso (fig. 6), ricomposizione che, per contesto archeologico, quantità di frammenti e conte-nuti iconografici, risulta più complessa rispet-to alla croce analizzata in precedenza.

Nel grande pannello d’affresco, composto da circa 200 frammenti provenienti dall’u-nità stratigrafica 584 (fig. 1), è rappresentato l’episodio neotestamentario dell’Incredulità di Tommaso (Gv 20, 24-29) proveniente dalla basilica maior (La Mantia 2010). La scena, de-limitata da una fascia decorativa a campiture giallo-rosse e croci bianche su dischi rossi, è ambientata in un’effimera scenografia archi-tettonica costituita da due colonne viola sor-montate da capitelli rosa che sorreggono uno splendido arco policromo impreziosito da motivi rossi a forma di S. In basso è Tommaso, intimorito e desideroso di conoscere la verità, effigiato come un giovane imberbe dai capelli a calotta, avvolto da un pallio ocra e vestito da una tunica celeste: l’apostolo tende il braccio verso Cristo per toccare la piaga del Suo costa-to con l’indice teso. Il Cristo risorto, maestoso e sereno, ha lunghi capelli ricadenti sul collo, sottili baffi ed una barba ispida; esso si erge sino a sfiorare, con il nimbo crucigero entro cui campeggia la scritta REX, il cielo su cui sci-volano nubi blu, mentre il suo moto ascensio-nale viene enfatizzato dalle pieghe viola che cadono diritte lungo il pallio verde chiaro su cui compare la gammadia H. Cristo indica con la mano sinistra il punto in cui Tommaso dovrà porre il dito, mentre leva in alto la mano destra per benedirlo alla greca. I protagonisti, realiz-zati con un vivace linearismo che sottolinea e cadenza ogni forma, esaltando la brillantez-za della tavolozza cromatica rispetto alla tri-cromia del fondale verde-blu-verde, hanno il volto bagnato da lumeggiature a ventaglio. Gli orli dei loro paludamenti appaiono invisibili,

tempo ha negato l’essenza comunicativa e l’e-sistenza materiale, vuol dire fare un salto nel buio ed augurarsi innanzitutto che l’intuito e la personale sensibilità indichino la giusta via da seguire. Trovare il bandolo della matassa tra migliaia e migliaia di frammenti che esigo-no di tornare a mostrarsi, costringe l’operato-re ad avere non solo flessibilità intellettiva ma memoria visiva e coraggio immaginativo. Si può parlare di coraggio immaginativo perché avere tra le mani i frammenti di un volto i cui occhi puntano un qualcuno che non possiamo vedere, solo perché materialmente annullato, significa costringere la propria logica a formu-lare ipotesi ricostruttive che alla fine possono risultare veritiere nel momento in cui sono supportate dalla sistematica ricerca iconogra-fica. Per cui, risalire al prototipo iconografico equivale a risolvere l’enigma dell’immagine che si sta ricomponendo e non è raro incappa-re nella rappresentazione di immagini che ad

anch’esse rinvenute in frammenti nello scavo di S. Vincenzo al Volturno.

P.R. l’incredulità di tommaso

Le pregevoli ricomposizioni condotte a San Vincenzo sono il prodotto di una sfida che definire utopica sembrerebbe restrittivo. Nes-suna fonte dell’epoca, prima fra tutte il Chro-nicon vulturnense, narra o descrive quali sog-getti queste pitture rappresentassero, né tanto meno come queste fossero disposte lungo le pareti degli edifici monastici, quindi non è pos-sibile avvalersi di alcuna guida, sia essa grafica o documentaria, come invece accaduto in al-tri contesti (ad esempio per gli affreschi della basilica di San Francesco ad Assisi, ricompo-sti dopo il terremoto del 1997). Rintracciare la connessione tra un frammento e l’altro e rida-re così la vita ad immagini cui il trascorrere del

Nell'altra pagina:fig. 7 Castel S. Vincenzo, laboratorio degli affreschi. Ricomposizione della scena dell'Incredulità di Tommaso, dettaglio di Tommaso (foto: S. La Mantia).

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chi complessi frammentari ricomposti, si può ipotizzare un’organizzazione delle pitture su due registri dove le scene neotestamentarie, come l’Incredulità, potevano essere sovrap-poste alle scene della passio di S. Vincenzo e intramezzate dai busti degli Abati, anch’essi in parte ricomposti (fig. 10). Il dinamismo delle scene evangeliche, che è la storia onnipresente di Cristo, si contrapponeva di certo alle icone degli Abati, la cui staticità rimanda invece al passato secolare dell’abbazia e anticipava la sofferenza del martire eponimo.

Quando, tra la fine dell’XI e l’inizio del XII sec., la basilica maior divenne la ‘cava’ per la costruzione del San Vincenzo Nuovo, l’Incre-dulità e le altre scene vennero staccate dalle pareti a colpi di piccone e poi gettate nell’am-biente CD (fig. 1). Il manto colorato della basi-lica è adesso disteso dentro le cassette e atten-de di rifulgere ancora una volta.

S.L.M.

blu del nimbo è similmente riproposto in un'altra ricomposizione volturnense raffigu-rante in questo caso il Pantokrator (Catalano & Raimo 2004).

Dai confronti tra l’affresco dell’Incredulità e le pitture di ambito beneventano di seconda metà X - inizi dell’XI sec., si evince una forte tendenza all’utilizzo di un formulario pittorico uniforme, specialmente nelle testimonianze pittoriche della provincia di Caserta, che si ri-trovano uguali anche nell’affresco volturnen-se. Verosimilmente, la datazione dell’Incredu-lità, la cui complessa iconografia si colloca tra l’affresco di Cimitile e quello di Sant’Angelo, va ascritta non oltre il primo ventennio dell’XI sec.; essa rappresenta, insieme agli altri fram-menti della unità stratigrafica 584, la prima campagna pittorica avviata dall’abate Ilario (1011-1044) nell’ ottoniana basilica maior in cui dovette essere previsto il rifacimento della na-vata centrale. L’Incredulità, essendo una delle ultime scene del Nuovo Testamento, doveva di certo essere collocata su una delle pareti del-la navata centrale della chiesa e per l’esattez-za sulla sinistra, nei pressi dell’abside, come a Sant’Angelo in Formis. Un pannello di queste dimensioni, la cui funzione è principalmente narrativa, può essere motivato dalla necessità di dotare le nuove pareti della basilica maior, da poco restaurata, di pitture ‘didattiche’. Sul-le pareti della navata centrale dovevano es-servi, infatti, storie veterotestamentarie con-trapposte a quelle neotestamentarie. Dai po-

in Tommaso e nel Cristo risorto) e si ritrova lo stesso modo di disegnare gli occhi con una vir-gola allungata così come le orecchie seguono la stessa forma di una goccia d’acqua. Le mani sono anche qui legnose ed allungate, mentre i panneggi presentano un’articolazione simi-le delle pieghe e delle lumeggiature viste nei paludamenti dell’apostolo e del Cristo risorto. Gli stessi moduli stilistici riappaiono nel II strato pittorico della Grotta, datato all’XI sec., e negli arcangeli di Rongolise del pieno X sec. (Piazza 2006). Ritroviamo le stesse peculiari-tà formali della Grotta di Calvi, negli affreschi della Grotta di San Michele ad Olevano sul Tu-sciano, datati tra la fine del X e gli inizi dell’XI sec., anch’essi assimilati alla stessa temperie artistica dei già citati Benedizionale e Pontifi-cale, ma anche del Vat. Lat. 9820; inoltre è si-gnificativo ricordare che questa grotta era una dipendenza del monastero volturnense. In queste pitture vediamo ancora le lumeggiature a ventaglio sui panneggi, le maniche a campa-na con gruppi di due-tre pieghe verticali sulla parte superiore e tre orizzontali sulla parte inferiore, mentre l’andamento dei panneggi aspira maggiormente a definire la volumetria dei corpi, aspetto che non è dato riscontrare né a San Vincenzo, né a Calvi. Il volto del Cri-sto della «Traditio legis et clavium» distesa sul fondale verde-blu, sembra possedere, nella tipologia del ritratto, una certa comunanza estetica con il Cristo risorto dell’Incredulità, mentre il decoro a cerchietti bianchi sul bordo

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Glossario dei nomi, dei termini e degli acronimi

Goisué Abate volturnense (792-817)

Talarico Abate volturnense (817-824)

Epifanio Abate volturnense (824-842)

Ilario Abate volturnense (1011-1044)

Stipes Braccio verticale della croce

Patibulum Braccio orizzontale della croce

Croce patenteCroce dai bracci con estremità svasata

Croce grecaCroce dai bracci di uguale lunghezza

Croce latinaCroce con il braccio verticale inferiore più lungo

Croce fioritaCroce dai bracci con le estremità fitomorfizzate

Chrismon Monogramma di Cristo Chi-Rho

Gammadia Lettere simboliche

US Unità Stratigrafica

SVm San Vincenzo minore

SVM San Vincenzo Maggiore

In questa pagina:fig. 9 Castel S. Vincenzo, laboratorio degli affreschi. Ricomposizione del martirio di S. Vincenzo (da Catalano & Raimo 2004).

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Ci parlano del committente dell’opera, il duca Vincenzo di Capua (fig.1 Vincentius pri-mus Dux Termular Domus capuae il liberator/ donatus minimu discipulor pinsit.) ma soprat-tutto sono a firma del pittore che la eseguì, Donato Decumbertino (fig. 2 Donatus omnia elaboravit), sottolineando anche l’anno di con-sclusione dei lavori, il 1550 (fig. 3 Io Donato Pintore Decumbertino pinsi a die mensi X agu-sti nell anno del cinquanta).

Dei dipinti di Gambatesa conosciamo dun-que il nome dell’artista, quello del committen-te ed abbiamo una data certa, un evento assai raro per la storiografia artistica molisana, sem-pre impigliata nell’impossibilità di ricostruire, su basi certe, la sua genesi ed evoluzione. Se da un lato, però, finalmente ci si trova di fronte a così fondate certezze, dall’altro sono rimaste avvolte nel mistero sia l’interpretazione icono-

grafica dei temi sia la precisa collocazione di questa vicenda artistica.

Sembra che il pittore si sia divertito a dispie-gare sulle mura del rinnovato castello di Gam-batesa, immagini metaforiche ed allusioni che, a distanza di secoli, non riusciamo più a rico-noscere facilmente. Anche le fonti documen-tarie, lacunose e frammentarie, non ci aiutano a ricostruire l’avvenimento di questa decora-zione monumentale né tantomeno il profilo dell’aristocratico che le commissionò.

Per conoscere meglio la figura del commit-tente Vincenzo de Capua e del suo pittore Do-nato Decumbertino, quindi, l’unica possibilità resta quella dell’interpretazione delle pitture.

In queste pagine ci concentreremo sui soli affreschi del salone di rappresentanza del ca-stello, che per via dei soggetti è solitamente in-dicato come Salone delle Virtù, fulcro del ciclo

di Roberta Venditto

Fra gli affreschi del castello di gambatesa, tre iscrizioni campeggiano quali testimonianze dirette ed imprescindibili appigli su questo raro esempio di pittura

rinascimentale in molise.

Donato a Gambatesa:uno speculum principis di maniera romana

Fig. 1 Donato Decumbertino, affreschi del Castello Di Capua a gambatesa, salone delle

Virtù, particolare della parete ovest(foto: D. D'Alessandro).

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Entro un architrave dipinto è ancora una don-na, probabile allusione alla Prosperità. Anche su questa parete si apre una veduta naturale, con in primo piano un albero e sullo sfondo un paesaggio lacustre. In alto, sull’apertura della porta, un busto di statua antica sporge dalla finta nicchia realizzata appositamente (fig. 7). L’ultima parete, quella est, presenta ancora un quadro con paesaggio montuoso ed albero in primo piano ed una figura femminile che l’i-scrizione identifica con la Prudenza.

Un ciclo pittorico così complesso è, come ab-biamo detto, un unicum nella terra molisana e resta anche uno dei pochissimi casi conserva-tisi, risalenti a questo periodo, in tutto il vice-regno spagnolo. Le stanze dipinte da Donato si pongono in una fase intermedia, sintesi di due momenti: quello della dimora nobile cittadina in cui il tema delle Virtù è molto usuale e quel-lo della villa di campagna, dove trovano spazio le favole mitologiche tratte dalle metamorfosi di Ovidio. A Gambatesa (anche nella Sala del Pergolato, in quella del Canneto e nella Sala delle Maschere), le ampie aperture dei paesag-gi o le vedute, sono inquadrate in finti apparati architettonici o in illusionistici loggiati, i festo-ni, i finti marmi e vari altri richiami al periodo classico, fanno da cornice alle monumentali fi-gure delle Virtù, vero fulcro del Salone di rap-presentanza.

La vicenda della decorazione del castello molisano, secondo l’opinione ormai accredita-ta degli studiosi, deve la sua precoce realizza-zione all’importante rapporto allievo-maestro che Donato Decumbertino dovette avere con Giorgio Vasari.

Il maestro aretino si era cimentato in diverse imprese decorative, prima fra tutte la realizza-zione degli apparati effimeri che accompagna-vano il tour dell’imperatore Carlo V nelle varie città italiane per la celebrazione della sua inco-ronazione. Si trattava di pannelli sui quali era-no raffigurate virtù e scene che ben potessero accogliere l’imperatore nella celebrazione dei

pittorico e sicuramente summa dei messaggi che committente e pittore vollero lasciare in questo luogo (si rimanda alla lettura del testo di Ferrara citato in bibliografia per l’approfon-dimento iconografico ed artistico di tutti i sog-getti affrescati nel castello).

Sulla parete ovest del salone troviamo l’i-scrizione che ricorda Vincenzo, primo duca di Termoli e signore di Capua, il restauro ha però rivelato un diverso incipit per la stessa iscri-zione che ricordava, ancora una volta, il pittore Donato. Sembra che l’iscrizione sia stata cor-retta a lavoro quasi ultimato ed il duca dovette evidentemente rivendicare per sé il posto d’o-nore nella sala, l’indisciplina del pittore venne invece punita con la frase che poi poté aggiun-gere alla fine del nuovo testo, definendosi il minore dei discepoli.

Se l’epigrafe può essere testimonianza di un rapporto fra committente e pittore segnato da qualche incomprensione, le immagini raccon-tano comunque di un incontro fecondo e pro-ficuo per entrambi. Entrando nella sala dalla porta principale, la parete ovest è organizzata con al centro un grande quadro che ha come soggetto un labirinto in primo piano con un vulcano in eruzione e delle navi sullo sfondo, accanto ad esso dovevano esserci due figure al-legoriche di Virtù, solo una parzialmente con-servata, probabilmente la Fede caratterizzata dagli attributi del libro e del calice (fig. 4 e 5).

La parete sud è quella conservata meglio: su un finto basamento di marmo si ergono entro nicchie due figure possenti di donne che le iscrizioni identificano nelle due personifica-zioni della Fortezza e della Carità. Fra le due è un quadro riportato con un’immagine dei fori imperiali e due gru in primo piano, simbolo di vigilanza. Ai lati, due clipei con imperatori romani: Domiziano alla destra della Fortezza, Traiano alla sinistra della Carità (fig. 6). La pa-rete nord ospita nella parte alta altre due virtù, in posizione semisdraiata, probabilmente si tratta, in base agli attributi, di Pace e Giustizia.

A destra:Fig. 3 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Sala delle Maschere, particolare dell'iscrizione(foto: da francovalente.it)

In basso:Fig. 2 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete sud(foto: D. D'Alessandro).

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amministrare al meglio i suoi averi. Si trattava di consigli di ordine morale ma anche pratico che soprattutto nel medioevo legavano l’azione del principe alla religiosità e lo vedevano come un tramite fra Dio e gli uomini. Nell’umanesi-mo questo profondo rapporto con la fede in parte si perde ed al centro delle doti dell’uomo di governo vengono poste le virtù civili della giustizia e della capacità di mantenere la pace, ispirandosi prevalentemente ad esempi anti-chi. Facevano poi da monito in questi scritti, l’elenco delle virtù che il principe doveva pos-sedere, spesso virtù legate alla mondanità ma in alcuni casi legate anche alla sfera religiosa, come la carità e la fede.

Dal De clementia di Seneca, passando per l’Institutio principis christiani di Erasmo da Rotterdam al Principe di Machiavelli, questo genere letterario aveva avuto una grande for-tuna tanto da arrivare, proprio alla metà del XVI secolo, ad essere trasposto in immagini all’interno delle dimore dei nobili che usa-vano tali figurazioni per raccontare se stessi, celebrandosi nella propria immagine riflessa, fatta di virtù ed esempi antichi, contemplando e riflettendo sul giusto atteggiamento da per-seguire ispirandosi ai miti del passato.

Perché il Duca di Termoli abbia scelto pro-prio Gambatesa per il suo speculum è solo ipotizzabile: Gambatesa si trovava in un luogo strategico per i possedimenti della famiglia Di Capua, a ridosso del tratturo Castel di Sangro-Lucera, snodo commerciale ma ancor di più luogo di rappresentanza, dimora di campagna, a stretto contatto con la realtà agricola che ave-va fatto incrementare le ricchezze del duca e luogo deputato anche allo svago ed alla con-templazione.

Donato quindi studia il ciclo da realizzare

Nell'altra pagina:Fig. 4 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete ovest, Labirinto(foto: D. D'Alessandro)

suoi fasti. Queste strutture effimere rappre-sentarono una grande palestra di elaborazione dei temi che poi troveranno una canonizza-zione nelle opere monumentali. Vasari, giun-to a Napoli nel 1545, doveva aver riutilizzato gli schemi iconografici di quegli apparati per decorare sia la chiesa di San Giovanni a Car-bonara sia soprattutto la volta del refettorio di Monteoliveto. Sempre nella città partenopea poteva aver fatto proseliti, selezionando una folta schiera di allievi da portare con sé a Roma dove era stato chiamato da papa Paolo III Far-nese. Fra gli allievi napoletani poteva esserci anche il nostro Donato, probabilmente appro-dato nella capitale del regno per seguire la pro-pria vocazione artistica. Le origini del pittore andrebbero rintracciate nel Salento, terra alla quale si legherebbe il cognome Decubertino, che potrebbe essere sciolto in “da Copertino”

cittadina in provincia di Lecce, terra dove ol-tretutto è possibile ritrovare anche similitudi-ni con la base formale della sua pittura, soprat-tutto se si confrontano i dipinti di Gambatesa con qualche esempio di Gianserio Straffella.

Giunto a Roma e in seguito all’incontro con Giorgio Vasari, Donato poté certamente am-pliare la propria cultura artistica osservando dal vivo le decorazioni raffaellesche, i cantieri dei palazzi romani ma soprattutto partecipan-do di persona alla campale impresa della deco-razione della Sala dei Cento Giorni in Palazzo della Cancelleria condotta da Vasari e dalla sua bottega nell’anno 1547.

Nella città eterna Donato ebbe modo di in-crementare anche la propria conoscenza anti-quaria, di studiare dal vero grottesche e altre decorazioni pittoriche delle architetture ed anche conoscere gli studi dei fiamminghi che

negli stessi anni producevano raccolte di dise-gni delle rovine romane e vedute della campa-gna circostante.

Anche Vincenzo de Capua, committente dell’opera, doveva avere importanti legami con la Roma papale, forse più di quanto fin ora ipo-tizzato. Indubbiamente il centro gravitaziona-le delle famiglie feudali molisane era stato e continuava ad essere Napoli, città di origine di molte di queste; alla metà del Cinquecento, però, il lignaggio si misurava anche attraverso i rapporti con le cariche ecclesiastiche e con il ruolo che queste potevano avere alla corte pa-pale. A Vincenzo era stato concesso il titolo di governatore degli Abruzzi grazie all’intervento del cardinale Pietro Pacheo e, dalle poche fonti documentali che ancora si conservano su que-sto duca, sappiamo che il fratello di Vincenzo partecipò al Concilio di Trento e che il figlio divenne arcivescovo di Napoli. Anche Vincen-zo de Capua poteva quindi, a buon titolo, far parte di quella schiera di piccoli feudatari che prosperavano grazie anche alla corte papale. Il faro politico ed artistico di questi nobili era indubbiamente Roma.

Donato e Vincenzo, conosciutisi probabil-mente proprio a Roma, ed accomunati dalla provenienza dal sud Italia e dalla conoscenza della realtà napoletana, ancora poco incline a sfruttare le nuove concezioni pittoriche roma-ne, dovettero sposare l’idea di creare un ciclo pittorico innovativo, al passo coi tempi, che desse lustro ad entrambi.

Scelsero di seguire le mode più recenti e di inserirsi in quel filone celebrativo/decorativo che avrà molta fortuna di lì in poi e che trasfor-merà le pareti delle dimore nobiliari in veri e propri specula principis.

Lo speculum principis, nato come genere let-terario in età classica, era perlopiù un trattato politico nel quale si voleva dare un’immagine, come in uno specchio appunto, del buon go-vernatore, elencando tutti i comportamenti e le doti che un principe doveva possedere per

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ordine morale teso a sottolineare la sottomis-sione alla divinità e la trasposizione degli inse-gnamenti degli antichi anche nell’era moderna con un richiamo sottile anche alla cristianità. Le stesse allusioni si ritrovano nella ‘Sala del Pergolato’ dove lo scontro fra galee turche e cristiane insieme al paesaggio con l’eremo in lontananza e gli stessi tralci della vite con i grappoli carichi, tornano ancora ad alludere alla vittoria della fede ed all’importanza del-la meditazione e dell’isolamento per ricavare dalla fede buoni frutti.

É il salone di rappresentanza il fulcro della composizione e della celebrazione delle carat-teristiche che un principe dovrebbe possede-re. L’ambiente offre molti spunti di riflessione sulle qualità di un buon governatore. Oltre alle salde immagini delle virtù che campeggiano

l’allusione alla presenza della divinità nella vita degli uomini e lo sfoggio di cultura clas-sica che il committente presenta come prima descrizione di se stesso. La ‘Sala del Camino’ celebrava probabilmente le doti militari della famiglia di Capua attraverso clipei con busti di guerrieri; sulle pareti delle altre stanze trovia-mo per lo più paesaggi, immagini bucoliche di campagne ma anche scorci di città dell’epoca, nello specifico è nella Sala delle Maschere che due vedute di campagna si affiancano a due vedute cittadine in cui si riconoscono nella prima, la basilica di San Pietro in costruzione e, nella seconda lacunosa, un palazzo romano (o probabilmente Porta del Popolo a Roma). In questa piccola sala i riferimenti vanno ben ol-tre le immagini rappresentate, infatti ci si trova di fronte ad un vero e proprio compendio di

per il duca Vincenzo puntando sulle qualità del buon governatore ma anche studiando la conformazione delle stanze del castello, non semplici da decorare dovendo assolvere la funzione di sale di rappresentanza e di otium essendo nate invece come ambienti angusti di un maniero difensivo.

Il piano nobile del castello viene interamen-te affrescato ed anche se alcuni brani dei di-pinti non si sono conservati si può affermare con certezza che ogni sala avesse il suo riferi-mento morale, simbolico ed allegorico. L’atrio d’ingresso ad esempio, conserva nella volta a crociera di destra alcune scene degli amori di Zeus, qui oltre a trovare nei festoni di frutta che inquadrano le scene un chiaro riferimen-to agli affreschi di Raffaello alla Farnesina, è possibile cogliere attraverso i miti antichi

Nell'altra pagina:Fig. 5 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete ovest, Fede(foto: D. D'Alessandro).

In alto:Fig. 6 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete sud(foto: D. D'Alessandro).

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dal caos cittadino per ritirarsi nella meditazio-ne bucolica. Il labirinto simboleggia il percor-so di isolamento che porta alla nobilitazione di sé: solo attraverso una esclusione temporanea dal mondo si può arrivare ad una meditazione costruttiva.

Impreziosito dai finti marmi, dalle finte ten-de, dal busto di statua dipinto e dai quadri che sostituiscono una collezione antiquaria, il sa-lone di rappresentanza ci presenta la visione di un nobile che medita sul proprio governo e lo celebra auspicandosi di porsi in continuità con l’età classica ma facendo affidamento sulla chiesa, insomma è la rappresentazione di un aristocratico colto che fonda la propria pra-tica di governo intorno a due cardini, cultura

ra e magnanimità nei confronti del prossimo, il quadro riportato con l’immagine dei fori im-periali vuole alludere alla continuità fra l’età antica e quella moderna, le gru infatti vegliano sia sui ruderi di una civiltà ormai conclusa sia sulle nuove costruzioni e si nota che sui resti degli edifici antichi sono rinati nuovi edifici, principalmente chiese (fig. 9).

Le virtù, Pace e Giustizia, Prudenza (fig. 10) e Fede, sono gli altri capisaldi del buon gover-no ma nel salone principale non ci si dimentica anche della funzione della residenza di campa-gna e del suo utilizzo da parte del duca quale luogo di riposo e meditazione, lo scorcio con il vulcano in eruzione sullo sfondo ed il labirinto in primo piano, infatti, allude proprio alla fuga

quale monito per l’osservatore, anche il ri-chiamo alla Roma antica nei paesaggi e nelle immagini degli imperatori vuole legare il buon governo all’esempio dei fasti romani. La scelta degli imperatori non è casuale: Domiziano era l’emblema del buon amministratore, duran-te il suo principato Roma si era arricchita di opere pubbliche ed i confini dell’impero era-no stati consolidati, allo stesso modo Traiano aveva regalato all’impero un periodo partico-larmente favorevole ed alcune delle sue scel-te amministrative, come l’istituzione della lex alimetaria, avevano decisamente migliorato le condizioni della popolazione (fig.8). Se quindi i riferimenti classici tendono a sottolineare il profondo legame fra buon governo, agricoltu-

In queste pagine:Fig. 7 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete nord(foto: D. D'Alessandro).

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ed agricoltura, un duca che fra i propri pos-sedimenti sceglie un castello difensivo come roccaforte dei propri pensieri, residenza di campagna dove ritirarsi a meditare ma anche un feudatario che si presenta ai suoi ospiti con uno speculum pittorico davvero moderno, ag-giornato ed anzi precursore dei tempi.

Quanto poi ci sia veramente del duca Vin-cenzo nelle decorazioni di Gambatesa è diffi-cile da dire, possiamo ben ipotizzare che abbia scelto e studiato col suo pittore la messa in sce-na dei simboli che dovessero rappresentarlo. A mio avviso però, più verosimilmente, il vero protagonista delle decorazioni di Gambatesa fu Donato che giunto nel borgo molisano, dopo aver ricevuto qualche indicazione dal duca, si lasciò prendere la mano e creò una serie di decorazioni fastose e congruenti che celebras-sero le sue capacità pittoriche e la bravura nel riproporre le più aggiornate ‘invenzioni’ che in quegli stessi anni si affermavano nella Roma Papale. Celebrò se stesso riversando le proprie doti artistiche all’interno dello specchio di un principe che, come ci racconta l’iscrizione, se non avesse corretto in extremis l’irriverenza del proprio pittore, nel suo speculum non sa-rebbe stato neppure citato.

Si ringrazia per le fotografie la gentile concessione

della Soprintendenza BSAE del Molise

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In questa pagina:Fig. 8 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete sud, Traiano(foto: D. D'Alessandro).

Nell'altra pagina, in alto: Fig. 9 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete sud, Veduta dei fori imperiali(foto: D. D'Alessandro).

Nell'altra pagina, in basso:Fig. 10 Donato Decumbertino, Affreschi del Castello Di Capua a Gambatesa, Salone delle Virtù, particolare della parete est, Prudenza(foto: D. D'Alessandro).

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Ciriaco brunetti, Riposo durante la fuga in Egitto, mirabello sannitico, chiesa s. rocco (foto: V. marino).

vette tuttavia contribuire anche il fervore cul-turale della città natia, testimoniato tra gli altri dall’illustre letterato Giuseppe Maria Galanti (1743-1806).

Tra il 1982 e il 1983 Dante Gentile Lorusso rintracciò una cospicua raccolta di disegni e stampe del XVII e XVIII secolo, scissa in due nuclei di proprietà delle famiglie Iannandrea e Tirabasso, ma unitariamente appartenuta ai pittori oratinesi Giacomo (1851-1935) e Nicola Giuliani (1875-1938). La collezione, acquistata

Discendente di una famiglia che vantava numerosi e valenti artisti, tra i quali l’operoso Benedetto Brunetti (?-1698), Ciriaco nacque a Oratino dall’indoratore Agostino (1697-1764) e da Lucrezia Falocco, sorella del pittore Niccolò (1691-1773). Si formò probabilmente a Napoli per intercessione dello zio materno, che nel-la capitale fu discepolo e fedele collaboratore di Francesco Solimena (1657-1747). All’eccelso maestro rimandano d’altronde talune puntuali citazioni del Brunetti, alla cui formazione do-

di Valentina Marino

la pittura del settecento molisano visse dell’intenso e proficuo scambio con la capitale del regno meridionale: da Napoli giunsero e a Napoli si rivolsero gli

artisti che operarono nel nostro territorio. tra i più attivi pittori nostrani, di cultura per l’appunto napoletana, va annoverato l’oratinese Ciriaco brunetti (1723-1802), la cui fama è stata lungamente e sfortunatamente compromessa sia dalla dilagante popolarità critica di un altro pittore molisano a lui contemporaneo, paolo gamba (1712-1782) di ripabottoni, sia dalla perdita delle sue opere di committenza più prestigiosa, che facilmente ne avrebbero consegnato ai posteri un più riconoscimento .

CiriacoBrunetti diOratinoPittore 'alla moda' del Settecento molisano, tra gusto rococò ed evoluzione neoclassica

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nel 1991 dallo Stato italiano su istanza della Soprintendenza del Molise, suscitò l’interesse degli studiosi e convogliò l’attenzione verso un territorio sconosciuto al mondo accademi-co, testimoniandone il dinamismo e la qualità della produzione artistica.

La firma del pittore e decoratore Ciriaco Bru-netti, talvolta sintetizzata dal monogramma «CB», campeggia sul numero più consistente del materiale, segnandone l’apice qualitativo. Aggiornato sugli ultimi sviluppi del gusto arti-stico, i suoi bozzetti sono caratterizzati da una piacevole ed elegante vena rococò, poi evolu-ta verso forme neoclassiche. Gli studi di nudo esprimono la vitalità dell’azione attraverso uno schizzo agitato e violentemente chiaroscurato, mentre le decorazioni rocaille si distendono in una fitta trapunta mistilinea di elementi vege-tali e geometrici di sapore vagamente archeo-logico, partecipi della grande eco che gli scavi di Ercolano e Pompei, sistematicamente avviati nel 1738, ebbero sull’immaginario tanto degli artisti quanto dei committenti, con l’imprescin-dibile conseguenza della riscoperta e imitazio-ne dell’antico.

Rispetto alla sua progettazione grafica, la cui più antica testimonianza è datata 1737, poco co-nosciamo della produzione pittorica. Si deve purtroppo rilevare l’irrimediabile perdita di alcuni lavori che sopravvivono attraverso i soli studi preparatori, nei quali la fiera mano dell’artista registra notizie sull’avvenuta messa in opera. È il caso dei fastosi trionfi di putti e sa-tiri, elementi architettonici e vegetali, tendaggi e altri motivi eterogenei progettati per le deco-razioni dei soffitti del palazzo arcivescovile di Bojano nel 1772 e della loggia del palazzo baro-nale di Cameli (oggi Sant’Elena Sannita), rife-ribile all’ottavo decennio del secolo. Una con-

In queste pagine:Ciriaco Brunetti, Progetto per decorazione di soffitto, Soprintendenza BSAE del Molise, Collezione Giuliani (foto: D. Catalano).

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venzione stipulata nel 1797 documenta inoltre che, a pochi anni dalla morte, Ciriaco fu ancora attivo, in collaborazione con Donato Pizzuti di Carpinone, per la chiesa di S. Giacomo a Roc-camandolfi, impegnato nella realizzazione di tre quadri su tela e nell’ornamento del soffitto, della “muraglia” e dell’organo.

Altre mirabili imprese del pittore sopravvivo-no invece in brevi lacerti, come la decorazione prospettica con elementi architettonici, scudi e busti in grisaille del soffitto tavolato nella loggia

In queste pagine:Ciriaco Brunetti, Riposo durante la Fuga in Egitto, Soprintendenza BSAE del Molise, Collezione Giuliani (foto: D. Gentile Lorusso).

del Palazzo Ducale di Oratino, commissionata dal colto mecenate Giuseppe Giordano (1744-1813) presumibilmente appena dopo la succes-sione del 1762, proseguendo nel progetto di tra-sformazione della fortezza in dimora gentilizia avviato tra il 1714 e il 1725 dallo zio Gennaro Girolamo Giordano (o Gennaro Giordano Vi-taliano Moccia) (?-1733).

Ugualmente lacunose sono le pitture della chiesa di S. Maria di Loreto in Oratino, rovina-te dalle ridipinture ottocentesche, dai (recupe-

rabili) danneggiamenti arrecati dal cedimento della volta agli inizi del secolo scorso e soprat-tutto dai lavori condotti fra gli anni Cinquanta e Sessanta del medesimo secolo, con distru-zioni e pesanti ridipinture. I giochi di prospet-tiva ruotavano attorno a tre grandi riquadri in trompe-l’œil posti al centro delle volte, dei quali sopravvive solamente la Traslazione della Santa Casa di Loreto nella navata maggiore. Un cartiglio posto nell’intradosso della finestra in controfacciata data all’anno 1757 l’intervento decorativo della navata centrale, frutto della collaborazione fra Ciriaco e il fratello Stanislao (1733-?), mentre uno studio preparatorio e l’i-scrizione visibile in una delle vecchie fotografie scattate agli inizi del Novecento da Bonifacio Grandillo (1879-1960) fissa al 1790 il compi-mento delle volte laterali.

Fra i primi lavori noti del Brunetti sono da se-gnalarsi alcune decorazioni per bussole e casse di organi, in cooperazione con il concittadino indoratore Modesto Pallante. I due furono at-tivi intorno al 1752 nella chiesa di S. Francesco a Larino e successivamente nella conterranea chiesa di S. Stefano, i cui ornamenti della ba-laustra d’organo, imperniati su simbologie mor-tuarie, esibiscono una maggiore inventiva e si-curezza d’esecuzione. Il sodalizio si ripropose nella chiesa di S. Maria delle Rose di Bonefro, testimoniato da un documento d’archivio del 1765.

Al giovane Ciriaco sono state ricondotte due tele della chiesa di S. Rocco in Mirabello Sannitico, il Trionfo del SS. Sacramento, l’An-gelo Custode e S. Pasquale Baylon e il Riposo durante la fuga in Egitto. Atti notarili ne han-no posto la datazione nel decennio tra il 1746 (nella convenzione stipulata in tale anno tra la Confraternita di S. Rocco e la Congregazione del SS. Rosario per la condivisione dell’utiliz-zo della cappella è citato un unico dipinto, da identificarsi nella Madonna del Rosario con i Santi Rocco, Domenico e Rosa firmata «JOAN P(…)I» e datata «1745») e il 1756 (nell’inventa-

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con motivo a fogliame al centro delle due volte a crociera, costruite con tecnica a carusiello, all’interno di una cappella signorile in un’abi-tazione privata di Cercemaggiore. L’ambiente è trasversalmente diviso da un arco, decorato da motivi in stucco in stile rococò e sorreggente uno scudo araldico: nella metà di sinistra, in alto una croce di Sant’Andrea reca nei campi una stella a sei punte e tre gigli, mentre in basso è raffigurato un cane su campo rosso; nella par-te destra è un volatile su tre monti. Disgraziata-mente andata perduta in un’irruzione a scopo di furto, la parte sommitale dell’arme doveva recare un cappello prelatizio a tesa larga con sei fiocchi per lato che, di colore verde oppure nero, indicava il titolo di arciprete del commit-tente, rintracciato dallo studioso Stefano Van-nozzi nella figura di Don Paolo Tucci (1699-1781), figlio del notaio Francesco Biagio Tucci e di Francesca Gualterio di Sepino. Di non facile lettura a causa della forte alterazione cromatica dovuta ad annerimenti e ridipinture, gli stucchi e le pitture possono essere ricondotti alla mano del giovane artista oratinese e datati poco oltre la metà del XVIII secolo. Non è d’altronde su-perfluo accennare alla frequentazione della cit-tadina anche da parte del padre Agostino, che nel 1739 fu latore di un prestito concesso dal Procuratore del locale Clero e nel 1752 ricevette

rio delle suppellettili della cappella, stilato al fine di scongiurare future controversie per la proprietà degli oggetti, si attesta la presenza anche delle tele di nostro interesse). Una bru-sca ripartizione dei piani, ombre profonde e alcune durezze di tratto sono qualità proprie di entrambe le opere, sebbene la prima dimostri una più modesta scelta d’impianto compositi-vo, in cui la figura dell’arcangelo è l’elemento maggiormente meditato del gruppo che il San-tissimo Sacramento, centro focale dell’azione, fatica a tenere insieme. L’altra opera ha invece trovato riscontro in due disegni della raccolta Giuliani siglati «CB», ovvero una sanguigna con lo Studio per il volto di S. Giuseppe e un acque-rello con il Riposo durante la Fuga in Egitto. Lo schema di quest’ultimo è nuovamente ripropo-sto con varianti, aggiunte e ribaltamenti in altre due opere, con conseguenti difficoltà nella rico-struzione di una precisa sequenza cronologica.

Il Riposo durante la fuga in Egitto nella chie-sa di S. Maria di Loreto a Oratino, dipinto in monocromo azzurro intenso con cornice a ro-caille all’interno della lunetta destra della volta a crociera dietro l’altare, è da annoverarsi tra i pochi brani originali superstiti della campagna decorativa conclusa nel 1757.

L’altro Riposo durante la Fuga in Egitto e una Crocifissione campeggiano in cornici in stucco

il compenso di un ducato per il lavoro di pittura del paliotto d’altare e d’indoratura delle corni-ci per la cappella del Pio Spedale nella chiesa matrice di Cercemaggiore.

Per la chiesa di S. Maria della Croce a Vin-chiaturo Ciriaco Brunetti eseguì i dossali del coro, reimpiegati nella struttura del 1855 dopo essere fortunosamente scampati al terremoto del 1805. Alle tavolette del Cristo con i dodici apostoli, dipinte intorno al 1760, vanno infatti rapportati tre disegni della Collezione Giuliani, due dei quali da riferirsi a Ciriaco (S. Pietro e Santi Matteo, Giacomo e Tommaso) e uno a Nic-colò Falocco (Santi Simeone, Andrea e Taddeo). Quest’ultimo diede forse il suo apporto all’im-presa durante la fase di progettazione. Le sacre figure, con i rispettivi attributi, campeggiano solitariamente sospinte in primissimo piano, su uno sfondo semplice e unitario. La gamma dei colori è brillante e il tocco delle pennellate è ra-pido, con effetti di ruvidezza. L’iscrizione esibi-ta nelle pagine del libro di San Paolo dice: «Af-firmans quo/niam hic est / CHRISTUS», seguita da un’ultima riga di più difficile decifrazione, sciolta da Vannozzi in: «Act(a) a(postolorum)

9». Si riporta dunque la citazione biblica (con il rispettivo libro e capitolo di riferimento) in cui San Paolo, appena convertito al Cristianesimo, inizia a predicare «testimoniando che (Gesù) è il Cristo» (At 9, 22).

Vicini alle tavolette vinchiaturesi, per l’im-pianto iconografico e per la pennellata che carica di forte intensità espressiva i volti degli apostoli, sono i due bellissimi ovali brunettiani della chiesa di S. Nicola di Bari a Lucito, recanti le figure a mezzo busto di S. Paolo e S. Pietro, collocabili nel settimo decennio del XVIII se-colo.

A Ciriaco è da attribuirsi La Madonna inter-cede presso Cristo per una carestia nella chiesa conventuale di S. Maria di Loreto a Toro, la cui parte superiore è puntualmente desun-

Nell'altra pagina:Ciriaco Brunetti, Riposo durante la fuga in Egitto, Oratino, chiesa S. Maria di Loreto(foto: D. Gentile Lorusso).

In questa pagina:Ciriaco Brunetti, Riposo durante la Fuga in Egitto, Cercemaggiore, abitazione privata(foto: V. Marino).

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del SS. Sacramento di Oratino e nell’ambito di lavori di restauro della locale chiesa di S. Ma-ria Assunta, fu indagata la volta dell’ambien-te, rinvenendo nel 1990 uno dei tre affreschi che la decoravano. L’Assunzione della Vergine, cui devono ricondursi due disegni preparato-ri della raccolta Giuliani, reca la firma di Ci-riaco e la data 15 dicembre 1791 (la precisione cronologica è interpretabile quale omaggio al figlio Beniamino, che fu sepolto nel cimitero parrocchiale dopo la prematura scomparsa del 15 dicembre 1788). L’affresco, liberato dalle nu-merose ridipinture, suggerisce l’idea di verti-calismo e sfondamento prospettico attraverso un impilamento degli elementi architettonici dipinti in scorcio, con citazioni di opere del Solimena.

Gli ultimi lavori di Ciriaco comprenderebbe-ro la decorazione della volta del Palazzo Ducale di Larino che, divisa in quattro sezioni da para-ste che si dipanano dal grande cerchio centrale e basata su delicati ed eleganti arabeschi vege-tali, trova riscontro in alcuni disegni dell’ultimo decennio del secolo.

Problematica è invece l’attribuzione al Bru-netti del Ritratto del Duca di Oratino Gennaro Giordano Vitaliano Moccia, apparso sul mercato antiquario di Napoli negli anni Ottanta del se-colo scorso e contenente un cartiglio coi titoli dell’effigiato e l’anno 1720. La data è stata in-terpretata quale riferimento al conseguimento del titolo di Duca (il diploma ufficiale fu infatti concesso da Carlo VI il 10 agosto 1720), men-tre l’opera è stata datata post 1738 poiché de-riverebbe dal Ritratto di Ferdinando Vincenzo Spinelli principe di Tarsia, in abito di Cavaliere dell’Ordine di S. Gennaro di Francesco Solime-na. Si potrebbe presumere dunque una commit-tenza postuma del nipote Giuseppe Giordano che, contrariamente al disinteresse mostrato dal padre Antonio (1695-1762) per il feudo di Oratino, stabilì la propria residenza nel borgo, promuovendo le arti e creando nel proprio pa-lazzo una ricca quadreria. È tuttavia difficile

ta dal Solimena; per il Battista e la Vergine si conservano inoltre alcuni studi preparatori. Il Cristo tiene tra le mani una spada (ex voto) accogliendo la richiesta della Madre, patroci-nata dai Santi Giovanni e Lucia, di far cessare una disastrosa calamità, da identificarsi nella carestia che nel 1764 dilagò in tutto il Regno di Napoli e si abbatté duramente sulla comunità locale. Ai piedi delle mura cittadine delineate sull’orizzonte, che rimandano al paesaggio cit-tadino dei dipinti cercesi, s’individuano infatti alcuni monatti che portano via cadaveri. L’ope-ra è ancora una volta caratterizzata dalla netta divisione dei piani e da ombre profonde, che solcano le pieghe dei panneggi e contrastano con la luminosa scelta cromatica.

Il S. Nicola di Bari, in collezione privata a Ora-tino ma forse proveniente da un’antica chiesa locale dedicata al Santo, è comparabile ad altre opere del Brunetti. Il giovinetto Adeodato ri-manda alla Santa Lucia della tela torese, mentre l’energico San Nicola si relaziona bene con gli apostoli di Vinchiaturo. Si ripresentano inoltre sia lo schema compositivo a cinque fuochi sia le presenze angeliche facenti capolino tra le nubi delle tele di Mirabello, datandosi tra il sesto e il settimo decennio del Settecento.

L’autografia della Madonna di Loreto, pro-veniente dalla chiesa di S. Martino a Campo-dipietra ma custodita presso il deposito della Soprintendenza nel complesso di S. Maria del-le Monache d’Isernia, trova evidente conferma nella fedele riproposizione degli angeli del di-segno La Trinità di Falocco. La tela, caratteriz-zata dall’elegante movimento rotatorio attorno al pesante parallelepipedo della Santa Casa, è da riferirsi al periodo tra il settimo e l’ottavo decennio del secolo.

Sulla base di un pagamento per la cappella

Nell'altra pagina:Ciriaco Brunetti, Immacolata Concezione (foglio di taccuino), Soprintendenza BSAE del Molise, Collezione Giuliani (foto: D. Catalano).

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comprendere la motivazione per la quale nel dipinto si adotti un così anonimo contesto, ge-neralmente tipico delle opere seriali di bottega e suggeritore di una paternità piuttosto napo-letana. Inoltre, la tradizione orale che riferisce della presenza del ritratto di uno dei Duchi all’interno della chiesa di S. Maria di Loreto a Oratino, alienato indebitamente assieme ad al-tri quadri intorno al 1960, sembrerebbe stridere con l’ufficialità dell'effigie, adatta piuttosto ad un salotto o uno studiolo.

Altre possibili opere del pittore sono state individuate nel tondo del S. Gaetano Thiene della chiesa del SS. Salvatore di Toro e nella Crocifissione di S. Pietro in collezione privata a Oratino, dipinti che sembrerebbero tuttavia di esecuzione qualitativamente meno elevata.

Infine, la Madonna del Carmine con le ani-me del Purgatorio della chiesa di S. Maria delle Grazie di Salcito (già chiesa del Purgatorio), pur riportando in basso a sinistra «Cyriacus / Brunetti T(er)rae / Orateni P(inxit) / A. D. 1777 (o 1779 ?)», è stata stilisticamente ricondotta piuttosto al fratello Stanislao Brunetti. L’affol-lata e quasi caotica composizione, caratteriz-zata da una secca e fitta ombreggiatura e da un più greve tratto pittorico, è difatti accostabile ai disegni siglati «SB» e in modo particolare a una sanguigna con l’Eterno Padre. Si potrebbe dun-que pensare a un intervento di Stanislao in un lavoro commissionato al più popolare Ciriaco, oppure alla cessione dell'apposizione della fir-ma a quest’ultimo, in applicazione di una sorta di ‘metodo’ di bottega.

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Galanti, G M 1781, Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado di Molise, con saggio storico sulla costituzione del Regno, Società letteraria e tipografica, Napoli, cap. I pp. 80-81, cap. III p. 33.

Gentile Lorusso, D 2002, Uomini Virtuosi. Il “caso” Oratino nella geografia culturale molisana, Limiti Inchiusi, Campobasso.

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Nell'altra pagina, in alto:Ciriaco Brunetti, S. Pietro, Lucito, chiesa S. Nicola di Bari (foto: V. Marino).

Nell'altra pagina, in basso:Ciriaco Brunetti, La Madonna intercede presso Cristo per una carestia, particolare, Toro, chiesa S. Maria di Loreto(foto: V. Marino).

In questa pagina:Ciriaco Brunetti, S. Paolo, Vinchiaturo, chiesa S. Maria della Croce(foto: V. Marino).

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di Dante Gentile Lorusso

sullo scorcio del XViii secolo comincia a muovere i primi passi il pittore pietro saja, nato a sessano del molise nel 1779, che frequenta l’accademia di belle arti di

Napoli fra il 1789 e il 1799 sotto la guida del tischbein. ascenzo marinelli riferisce che saja alla «fine del secolo antecedente si trovava in roma, era valente in ogni sorta di pittura ad olio, ed ebbe l’alto onore di essere iscritto alla celebre accademia di s. luca» (marinelli 1988, p. 91).

Pietro Saja(Sessano del Molise 1779-Napoli 1833)

pietro saja, Vestale sepolta viva, 1803, roma, accademia Nazionale di san luca(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

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Di origine agnonese, la famiglia Saja, in-sieme a quelle dei Campato, Camperchioli, Cacciavillani, Desiato e Marinelli, risulta tra le dinastie che nei secoli hanno lavorato alla fonderia di campane, contribuendo a rendere il centro alto molisano famoso anche fuori dai confini nazionali (Pierro 1924, pp. 239-241). Nel 1799, durante il suo ultimo anno d’Accade-mia, Pietro Saja vince un pensionato di studio e si trasferisce a Roma, dove soggiorna fino al 1804. Un documento della Real Segreteria e Ministero di Stato di Casa Reale del 13 luglio 1826 fa riferimento alla sua domanda, accol-ta positivamente, per la restituzione dei saggi eseguiti alla fine del Settecento per accedere al pensionato a Roma (ASNa, Min. Int. II inv. “Antichità e belle arti”, b. 2061, fasc. 217):

Sire

D. Pietro Saja Professore del Reale Istituto

di Belle Arti espone che nel 1795 fece il suo

quadro d’invenzione in Napoli per essere

pensionato a Roma, ed in Roma poi fece la

prima copia, e che tanto il quadro quanto

la prima copia suddetta si trovano ora am-

massati nella polvere tra le cose inutili nel

magazzino dell’Istituto.

Il 21 gennaio 1803 Carlo Ramette, corrispon-dente nella città eterna della corte napoletana, scriveva al Priore Seratti (p. 11):

Eccellenza, lunedì scorso venne in questo

Real Palazzo Farnese il celebre scultore Ca-

nova, espressamente per osservare i lavori

del Regio pensionato pittore D. Pietro Saja,

e ne restò assai soddisfatto onde mi ha fat-

to molti elogi di lui assicurandomi che è un

giovane di somma abilità, molto applicato,

e che è per fare gran profitto e progressi, e

siccome mi fu dato commissione quando

venne a Roma dal Signor Giuseppe Zurlo

d’invigilare sulla di lui condotta, ed appli-

cazione; così mi fo un dovere di partecipare

tutto ciò alla E. V. per sua intelligenza, e con

profondo ossequio di rassegnarmi.

Una prova che mostra ancora insicurezze,

rispetto al linguaggio neoclassico, è costituita dal quadro più antico finora documentato: si tratta della Madonna con anime purganti, della chiesa del Rosario di Palazzo di Napoli, firma-to e datato 1792. L’opera, risolta con uno sche-ma iconografico molto tradizionale, mostra es-senzialmente l’adesione a moduli figurativi di artisti della vecchia generazione (Cioffi 1974).

Diverso invece il riferimento culturale che si riscontra in una iconografia di difficile in-terpretazione, che probabilmente rappresenta la celebrazione del rientro in Napoli di Fer-dinando IV nel 1799. Il disegno, conservato nella Galleria Nazionale di Scozia ad Edim-burgo, reca la firma «Pietro Suja [sic] inventò e l’iscrizione Idea di un quadro per mettere in composizione i ritratti di S.M. il Re (D.G.) S.A.R. il Principe D. Leopoldo, e S.A.R. la Principessa D.Ma Clementina rappresentando un’Udienza particolare del Re». L’artista dimostra un pre-ciso segnale di aggiornamento del linguaggio figurativo con molti presupposti dell’arte ne-oclassica. Un confronto stilistico e tematico va proposto con Un udienza (o omaggio?) di Fer-dinando IV, foglio appartenente alla Società Napoletana di Storia Patria di Napoli (Muzii 1997).

Nel 1803, nominato accademico di merito dell’Accademia di San Luca, dona alla stessa antica istituzione il dipinto della Vestale sepol-ta viva, che Antonio Canova aveva personal-mente ammirato a Palazzo Farnese. Il dipinto, oggi esposto nella biblioteca dell’Accademia, è

così descritto nell’inventario (AASL, vol. 56, p. 14, ricordato in Cioffi 1974, p. 28):

Interno d’una cella, illuminata da una luce

dorata che viene da un’apertura a sinistra.

Su di un letto con coltre rossa è seduta la

vestale vestita di bianco col capo velato dal

manto, in atto di meditazione. Alla sua si-

nistra e a destra dello spettatore sono una

grande anfora e un grosso pane.

I pregi del dipinto, certamente ispirato al Canova, vanno ricercati sia nella realizzazio-ne che nella ricchezza di echi culturali; infatti, la testa della vestale sembra un richiamo che oscilla tra una copia romana di un’Afrodite attica e il profilo caratteristico di una moneta siracusana. La giovane sacerdotessa, destinata ad essere sepolta viva, è posta in un ambien-te particolarmente buio, ma nonostante la penombra sulle pareti si scorge il disegno dei mattoni, grazie ad un’illuminazione che pro-viene da un’unica fonte posta nella sinistra dell’opera, che investe parte del volto e del corpo della vestale.

Il ritorno a Napoli del pittore molisano av-viene nel 1805, anno in cui porta a termine la Pietà e la Colonia di San Leucio per l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria delle Grazie alla Vaccheria, colonia borbonica nei pressi di San Leucio. La tela raffigura un grup-po di angeli intenti a reggere un quadro con la Vergine che abbraccia il Cristo deposto, il quale, si sa dai documenti, era la copia di un dipinto del Cinquecento, molto considerato

Nell'altra pagina:Pietro Saja, La celebrazione del rientro in Napoli di Ferdinando IV nel 1799, Edimburgo, Galleria Nazionale di Scozia(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

A sinistra:Pietro Saja, Andromaca piange la morte di Ettore, Londra, Christie’s(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

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da Ferdinando IV per la particolare devozione del quale era fatto oggetto. L’opera, dal carat-tere decisamente macchinoso per la fusione di moduli neoclassici e per alcuni esiti addirittu-ra manieristici, rivela però, nella parte inferio-re, una veduta del borgo di San Leucio inserito in un paesaggio idealizzato con riferimenti, forse, ai progetti razionalistici degli architetti al servizio del sovrano.

Saja, che si definisce ‘pittore di storia’, è de-scritto come l’unico artista del tempo in grado di rivaleggiare con il già citato Jean-Baptiste Wicar, nominato nel 1806 da Giuseppe Bona-parte, su suggerimento del Canova, Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Non a caso, Wicar usa contro di lui parole feroci e cerca sempre di ostacolare in tutti i modi il suo ritorno a Napoli; ostilità e disprezzo che si colgono in una lettera che il francese indirizza da Portici il 6 giugno 1808 al suo amico pittore Francesco Giangiacomo, per descrivere il qua-dro della Vestale (Caracciolo & Toscano 2007, p. 262).

Durante il decennio francese Saja opera al di fuori delle commissioni pubbliche, per tornare in auge dopo la restaurazione con dipinti cele-brativi della monarchia borbonica, adottando un neoclassicismo alla moda del tutto depura-to da tensioni ideali e civili.

Vaghe risultano le notizie intorno alla prima mostra voluta da Gioacchino e Carolina Mu-rat, inaugurata il 6 gennaio 1809, nelle sale al piano terra del Real Museo, sotto la direzione di Wicar (Borzelli 1901, vol. X, f. I, p. 25).

Della mostra stranamente non rimane al-cuna guida stampata, ma solo una relazione inviata da Wicar al ministro dell’Interno. Ol-tre ad una serie di pittori decisamente poco importanti, erano intervenuti tutti i migliori

A sinistra:Pietro Saja, Morte di Ettore, Napoli, Palazzo Reale, in sottoconsegna alla Fondazione Teatro San Carlo(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

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artisti del regno, che parteciparono però con opere poco rappresentative.

L’occasione fu invece particolarmente pro-pizia per Pietro Saja che espose un San Fran-cesco Saverio, un disegno raffigurante Alessan-dro nella tenda di Dario, oltre ad una stampa in disegno con Priamo che domanda ad Achille il cadavere d’Ettore, e due cartoni con La morte di Virginia e Il pianto della famiglia d’Ettore, studio preparatorio per il dipinto che in quel momento era già in fase di elaborazione.

La vasta composizione raffigurante la Morte di Ettore (ASNa, Min. Int., II inv., b. 974, 5, anni 1809-1811. Cfr. anche ASNa, C.R.A., III inv., se-rie Inventari, b. 2: ‘9 maggio 1810, quadro di Pietro Saja, di palmi 15 per 12, per Palazzo Re-ale di Napoli’. Cfr. Scognamiglio 2008, pp. 110, 227, note 142-143), esposta nel Teatro San Car-lo di Napoli, firmata e datata 1810, è caratteriz-zata dalla struggente figura di Andromaca e da una serie di personaggi in posa scultorea posti intorno al corpo ormai privo di vita dell’eroe greco. Lo stesso soggetto è raffigurato nel dise-gno Andromaca piange la morte di Ettore, che la Christie’s di Londra ha posto in vendita il 5 luglio 1994 (Lot. 63), un foglio firmato e datato 1798 ispirato alla classicità con un certo grafi-smo scenografico.

Questo dipinto, insieme a un cartone con Priamo ai piedi di Achille, venne esposto nel Real Palazzo degli Studi di Napoli, e Dome-nico Simeone Oliva ne trasse ispirazione per scrivere due sonetti (Simeone Oliva 1810, p. 2).

Della stessa opera Priamo ai piedi di Achille, realizzata su tela, dà testimonianza una lettera che Ferdinando De Luca, professore di mate-matica al Real Collegio Militare, invia a Saja, il quale la pubblica nell’introduzione del suo Saggio analitico, di cui parleremo più avanti. Vi si legge: «Io mi congratulo dunque sincera-mente con voi, vedendovi ora imprimere su di una tela il profondo dolore di Priamo innan-zi l’esangue vittima del furore di Achille […]» (Saja 1823, p. 4).

In questa pagina, in alto:Pietro Saja, Pietà e la Colonia di San Leucio, 1805, Vaccheria di San Leucio (Ce), chiesa di Santa Maria delle Grazie(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

In questa pagina, in basso:Pietro Saja, Vestale sepolta viva, Caserta Palazzo Reale(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

Il tema della Vestale, per la sua carica for-temente emotiva, aveva appassionato gli arti-sti proprio in quella temperie culturale: basti pensare ad un dipinto di J.B. Peytavin, Il sup-plizio di una vestale, del Musée des Beaux Arts di Chambery, esposto nel 1801 al Salon di Pari-gi, o a Gaspare Spontini, compositore marchi-giano che completa gli studi al conservatorio della Pietà del Turchini a Napoli, e intorno al 1803 inizia a musicare la sua Vestale che verrà rappresentata per la prima volta nella capitale francese nel 1807 (Susino 1997, p. 433). É utile segnalare una terza versione della Vestale at-tribuita al pittore molisano, conservata presso la Carlton Hobbs Collection di New York.

Nella stessa Reggia si conserva la Gloria dei Borboni, un’opera che il Saja realizza nel 1816 per celebrare, dopo il decennio francese, il ri-torno della casa regnante a cui il pittore ha di-mostrato sempre grandissima fedeltà. La mo-numentale composizione allegorica, raffigura-ta da una giovane donna seduta, circondata da bandiere, da un medaglione con il ritratto di profilo di Ferdinando I, da rotoli di carta con scritte inneggianti alla gloria della famiglia reale, presenta sullo sfondo la veduta del gol-fo con il Vesuvio fumante e la flotta reale (Di Maio 1997).

L’esecuzione del dipinto, approvato con il titolo Vaticinio di Cassandra da Gioacchino Murat il 14 febbraio 1811 (ASNa, Minist. Int., I inv., b. 979, fasc. 2), dopo la presentazione pub-blica del cartone avvenuta nello studio del pit-tore, pubblicizzata dall’uscita di un opuscolo a stampa anonimo intitolato Idea di un quadro antico, è databile intorno al mese di settem-bre del 1810. La pubblicazione aveva lo scopo di spiegare l’articolata iconografia pensata da Saja, che intendeva esaltare nello stesso tem-po Napoleone e Murat, in una magnificazione simbolica e allegorica (Per la lunga e detta-gliata descrizione della relazione si rimanda a Scognamiglio 2008, p. 111). Certamente il molisano in quegli anni dovette raggiungere

Il quadro con la Morte di Ettore era conser-vato negli appartamenti reali insieme ad una seconda versione della Vestale sepolta viva, probabilmente coeva a quella indicata pre-cedentemente, esposta nel Palazzo Reale di Caserta. L’artista aveva dipinto questa ultima tela come saggio di pensionato, inviandola alla corte napoletana dopo i quattro anni di studio romano. In questa versione, rispetto a quella dell’Accademia di San Luca, si nota un muta-mento sensibile nei fini espressivi; infatti, Saja risolve il dipinto con una tecnica quasi scul-torea, in cui tutto è realizzato come una sorta di involucro marmoreo, sotto il quale scorre la desolazione patetica della fanciulla sepolta viva. Tutto il dipinto è costruito in funzione della rappresentazione del sentimento di ab-bandono e di drammatica desolazione espres-so dalla vestale.

Riconducibile alla Vestale sepolta viva della residenza reale di Caserta, portata a termine nel primo lustro del secolo, risulta il disegno con la raffigurazione di Rea Silvia sepolta viva, appartenente alla collezione della Società di Storia Patria di Napoli, in cui la figura della giovane donna si presenta raccolta su se stessa in atteggiamento disperato: una prova grafica immediatamente leggibile per la gravitazione verso il linguaggio scultoreo del Canova. Le Vestali erano sacerdotesse romane della dea Vesta, corrispondente alla greca Estia, respon-sabili nel tempio del Foro di custodire il fuo-co tenendolo sempre acceso, come simbolo di eternità dell’Urbe, perché secondo la leggenda era stato acceso per la prima volta da Romolo. Dovevano rimanere vergini e per distinguer-si dalle altre donne portavano una speciale acconciatura dei capelli e un velo bianco, as-sicurato al petto mediante una fibbia. Il pon-tefice massimo, che vigilava sull’osservanza della verginità, aveva il potere di condannarle a morte facendole seppellire vive, se avessero trasgredito al loro impegno, in una fossa dotata di un giaciglio, di una lanterna e di poco cibo.

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sizione di varj corpi mirabili che nel bozzetto si presentano» (Scognamiglio 2008; nella nota n. 167 si fa riferimento alla descrizione del bozzetto ritrovato presso l’Archivio di Stato di Napoli, Minist. Int., b. 975, fasc. 4, foglio 121, 9 dicembre 1812).

Dopo ripetuti appelli, il pittore decise di ri-nunciare, supplicando che gli venissero resti-tuiti sia il bozzetto dipinto che altri due dise-gni. Trascorre soltanto un mese e con perse-veranza avanza una nuova richiesta: dipingere una grande tela che rappresenti «…l’anniver-sario della nascita delle LL. MM.» (ASNa, Minist. Int., I inv., b. 975, fasc. 4). Infatti, Gio-acchino e Carolina erano nati entrambi nello stesso giorno, quindi si tratta anche in questo caso di un’opera di carattere celebrativo, che però non ottenne l’esito auspicato, tanto che, dopo varie suppliche, gli fu accordata esclusi-vamente una gratificazione corrispondente al

un certo grado di notorietà se Pietro Napoli Si-gnorelli, professore emerito di Critica e Diplo-matica nella Regia Università di Bologna, lo cita nel suo libro del 1811 nel capitolo dedicato alle Arti, Feste, Spettacoli: «Intorno alla pittu-ra si è distinto come si è accennato, Giuseppe Cammarano […]. Si conoscono di Pietro Saja alcuni quadri ad olio che danno del di lui va-lore vantaggiose speranze» (Napoli Signorelli 1811, p. 2432).

Sappiamo che resterà soltanto uno studio preparatorio la Battaglia seguita in Russia il dì 7 settembre, lavoro per cui più volte l’arti-sta aveva chiesto la realizzazione in grande, ma il soggetto non riuscì a trovare i favori del presidente dell’Accademia che il 2 gennaio del 1813 lo sottopose alla visione del sovrano: «S. M. prima di risolversi nella sua esecuzione, af-finché la medesima possa esser contenta per tutto ciò, che riguarda la località , e la dispo-

vazione dè monumenti antichi tanto pubbli-

ci che privati, tanto profani, che ecclesiastici

esistenti in Napoli, e nel Regno.

Nel 1823, assistente di Giuseppe Camma-rano nell’insegnamento del nudo presso l’Ac-cademia di Belle Arti, Saja porta a termine un Saggio analitico e teorico per ristabilire nel disegno di figura una misura unica e costante, per mezzo della quale si conosca facilmente il rapporto delle diverse parti del corpo umano tra loro, e collo stesso corpo, un testo che dedi-ca agli allievi del Reale Collegio Militare (Saja 1823).

Il saggio, che comprende quattro tavole inci-se da Luigi Morghen, riveste una certa impor-tanza perché si inquadra perfettamente nella storia delle ricerche di razionalizzazione e di astrazione che si vanno affermando soprattut-to a partire dalla seconda fase del neoclassici-smo.

Nella sua singolare teoria, il saggio non si presentava come un’astruseria nella produzio-ne dei trattati artistici del tempo, perciò il pit-tore trova l’approvazione di molti contempo-ranei, come Ferdinando De Luca, professore di matematica al Real Collegio Militare, Gio-vanni Finati, direttore del Museo Borbonico, Vincenzo Flauti, soprintendente della Reale Biblioteca, e Antonio Niccolini direttore del Real Istituto di Belle Arti che in una nota dell’8 ottobre 1823 afferma (Saja 1823, p. 10):

Ho ricevuto, letto, ed ammirato il di Lei sag-

gio analitico e teoretico sul disegno di Fi-

gura pubblicato a vantaggio della Gioventù

studiosa. La ringrazio dell’onore che mi ha

fatto inviandomelo, e mi riserbo alla prima

adunanza accademica a renderle un qual-

che contrassegno della sincera stima che le

professo, e che è ben dovuta al di Lei merito,

ed allo zelo per le belle arti, del quale Ella è

lavoro di esecuzione del bozzetto.Termina così per Saja, senza particolari ri-

conoscimenti, la parentesi murattiana; egli non riuscirà in fondo ad ottenere gratificazio-ni neppure dal governo borbonico, sicché tra-monta definitivamente il suo sogno di conqui-stare il ruolo di principale pittore di storia del regno, in evidente comparazione con la carica ricoperta da David e da Andrea Appiani per Napoleone. La sua attività, da questo momen-to in poi, rimarrà praticamente confinata in un ambito quasi prettamente didattico, anche se è documentato un altro tentativo, sicuramente l’ultimo, per la realizzazione di un quadro rap-presentante L’entrata solenne di Sua Maestà il giorno 15 maggio 1821 (ASNa, Min. Int. II inv., b. 1972).

Molto importante è l’impegno profuso da Saja nell’insegnamento accademico, testimo-niato dalla pubblicazione di opuscoli come: Belle arti: notizie necessarie alla Commissione di pubblica istruzione del Parlamento nazio-nale, Napoli 1820, che contiene alcune idee di Costanzo Angelini per promuovere le arti liberali, oltre a sue osservazioni; Al Parlamen-to Nazionale – progetto per un’accademia na-zionale di belle arti. Del Pittore d’Istoria Pietro Saja Napolitano, Membro dell’Accademia di S. Luca in Roma, Professore di Pittura in Napoli nelle Regie Scuole del Disegno, e Professore di disegno di figura nel Reale Collegio Militare, stampato a Napoli da Gabriele Mosino e pre-sentato nel 1820. Nel primo articolo del capi-tolo I Dello stabilimento di un Accademia na-zionale di belle Arti, e di un Consiglio di seniori, loro elezioni, ed obblighi, si legge a p. 7:

L’Accademia nazionale delle belle Arti do-

vrà aver per oggetto, 1° di professare, d’in-

segnare, e di promuovere le Arti belle: 2° di

onorare il merito di coloro che vi si distin-

guono coll’esercizio, o con iscritti, coronan-

do le opere loro, e riunendoli nel suo seno:

3° di dirigere i moderni pubblici edificj, e le

loro restaurazioni: 4° di vagliare alla conser-

Nell'altra pagina:Pietro Saja, attribuito, Vestale sepolta viva, New York, Carlton Hobbs Collection(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

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costantemente animato, come le di Lei Ope-

re, ed sopra lodato Saggio analitico ne fanno

indubitata testimonianza.

Necessariamente va aggiunto che il lavoro teorico del molisano non fu sottoscritto da Costanzo Angelini, sicuramente l’artista prin-cipale del neoclassico napoletano, il quale, an-che rinnovandogli una sincera stima, «giudicò falso quel metodo di disegnar col compasso».

L’attaccamento del Saja alla tradizione è te-stimoniato da due cartoni raffiguranti La for-za della religione e Il potere del trono (Catalo-go delle Opere di Belle Arti esposte nel Palagio del Real Museo Borbonico il dì 4 ottobre 1826,

In basso:Pietro Saja, Gloria dei Borboni, 1816, Caserta, Palazzo Reale(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

Nell'altra pagina, in alto:Pietro Saja, Rea Silvia sepolta viva, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria(foto: archivio privato D.G. Lorusso).

Nell'altra pagina, in basso:Pietro Saja, Studi, Napoli, Biblioteca Nazionale(da Saja 1823).

Napoli 1826, p. 24, n. 127 e p. 24, n. 129), che espone alla prima Mostra Borbonica tenuta a Napoli nel 1826. Pietro Saja muore a Napoli nel luglio del 1833.

In una lettera del 30 aprile 1835 indirizza-ta al Direttore del Real Istituto di Belle Arti, è indicata una richiesta inoltrata dalla vedova di Saja, Teresa Derix, la quale implora un sus-sidio non potendo conseguire la pensione ve-dovile, perché alla morte del marito mancava-no cinque mesi per il raggiungimento di venti anni di servizio come professore dell’Istituto (ASABAN, Serie professori, sottoserie fascico-li personali, b. 1, fasc. 7).

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Saja, P 1823, Saggio analitico e teoretico per istabilire nel disegno di figura una misura unica e costante, per mezzo della quale si conosca facilmente il rapporto delle diverse parti del corpo umano tra loro e collo stesso corpo, Principio Fondamentale il diametro del globo dell’occhio nudo misura la maschera, e questa l’intero corpo. La dimostrazione di questo principio dipende dalla seguente analisi della testa umana, Napoli.

Scognamiglio, O 2008, I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat. Storia di una collezione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

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Susino, S 1997, ‘Pietro Saja’, in AA. VV. 1997.

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di Tommaso Evangelista

la figura del pittore francese Charles moulin giunto sulle montagne di Castelnuovo a Volturno agli inizi del Novecento è sempre stata circondata da un alone mitico che

ha inficiato una delineazione puntuale della sua ricerca pittorica. Nella sua opera arte e vita spesso coincidono e si scontrano. Questa volta si è voluti partire dall’arte e non dalla vita per un’analisi dei lavori, alla ricerca di piccole impressioni critiche sulle quali ragionare.

Charles MoulinUn’impressione critica

Charles moulin, Il riposo, pastello, palazzo pistilli Campobasso

(da Izzi Rufo 1998).

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Tra i personaggi più affascinanti e singolari della storia dell’arte molisana del Novecento c’è di sicuro Charles Moulin (Lille 1869 - Iser-nia 1960) la cui vicenda ha assunto col tempo le connotazioni del mito. Gli abitanti di Ca-stelnuovo a Volturno, il paese ai piedi delle Mainarde dove visse per quasi cinquant’anni, lo chiamavano, storpiando la pronuncia france-se, M’ssiù Mulà, e lo credevano un mago; acca-deva addirittura che alcune anziane signore si segnassero al suo passaggio, quasi lo vedessero come un santo. In effetti la lunga barba grigia, l’aspetto dimesso, la corporatura minuta e gli occhi magnetici rimanevano impressi nelle persone. Nel corso degli anni intanto fiorivano racconti sul suo conto, come quello che lo vo-leva amico di un orso; ‚Orso delle Mainarde‘, oltre ad essere uno dei suoi tanti soprannomi, serviva a descriverlo come l‘uomo che parlava con i serpenti, anche se di certo la sua vita sin-golare aiutava l’immaginario collettivo a creare fantasie. Moulin era amato e rispettato anche per l‘aurea di intellettualità che lo circondava e tutti gli riconoscevano una cultura superiore e l‘appellativo di professore perché si esprimeva

tramite concetti profondi e spunti filosofici.Il problema storiografico e critico che oggi

si presenta risiede nel fatto che la sua figura è sempre stata vista in relazione al mito e rara-mente ai più significativi avvenimenti in campo artistico, per cui manca a tutt’oggi uno studio che analizzi la sua arte e la sua produzione con le metodologie proprie della storia dell’arte. Bi-sogna premettere che le notizie e i documenti sono quasi completamente assenti, se escludia-mo le succinte cartelle presenti nell’archivio dell’Accademia di Villa Medici a Roma, che mol-te date sono approssimative e nate da raccon-ti, spesso di seconda mano, e che diversi suoi scritti di carattere teorico sono andati perduti. La bibliografia quindi è ristretta, per non dire mancante, mentre le sue opere sono pressoché tutte confluite in collezioni private e i pochi lavori visionabili in luoghi pubblici (come i tre paesaggi di Castelnuovo bombardata presenti nel comune di Rocchetta a Volturno e l’autori-tratto esposto a palazzo Pistilli di Campobasso proveniente dalla collezione Eliseo), per quanto di assoluta qualità, non possono aiutarci a sta-bilire la sua formazione artistica. Manca anche

uno studio approfondito delle sue opere; Sabino d’Acunto, nel catalogo della mostra dedicata al pittore (l’unica, ad oggi), organizzata dall’ENAL per il centenario della sua nascita nel lontano 1969, scrive di come questi «portò il lirismo tonale degli impressionisti e un purismo tutto soggettivo che lo riallacciava al filone d’oro del-la tradizione classica della pittura francese […]. Un neoclassico un romantico un purista un im-pressionista, Charles Moulin? Né una né altre di queste cose o tutte insieme, forse». L’analisi, per quanto affascinante, risulta di certo incompleta e fuorviante poiché Moulin ebbe una precisa personalità artistica che portò avanti e sviluppò nel corso della carriera. Se gli accenni al pittore presenti nei testi di Lino Mastropaolo si ridu-cono al semplice ricordo, dobbiamo arrivare alla ricerca di Massimo Bignardi, pubblicata nel 2000 nel volume Viaggiatori in Molise per trovare una definizione più consona del pitto-re. Bignardi, senza esporsi troppo e dopo aver delineato brevemente la formazione del pit-tore, si sbilancia nell’accostare la sua pittura a quella dei simbolisti. Oggi, alla luce di personali ricerche ancora in fase di delineazione, posso

sbilanciarmi nel definire finalmente Charles Moulin come un simbolista, nei contenuti e nelle raffigurazioni, alla ricerca però della re-altà oggettiva della luce; non tanto quindi uno sperimentatore della forma ma un pittore alla scoperta delle leggi autentiche del colore. «Io non vivo d’arte, vivo per l’arte» soleva ripetere, perché il suo scopo non è stato mai quello di seguire le mode accademiche del suo tempo ma di osservare e analizzare la realtà fenomenica fatta di luce nel tentativo di ricavare norme ma soprattutto bellezza oggettiva e materiale. Del resto la sua enigmatica, 'eremitica' esistenza te-stimonia proprio tale investigazione ossessiva: poiché per vedere occorre sapere, c’è bisogno di un distacco dal mondo e dalla mondanità per recuperare nella Natura, intesa come maestra di vita, la scaturigine della visione. Non un ab-bandono della civiltà, come quello che scelse Gauguin per ritrovare nella società primitiva della Polinesia l’autenticità selvaggia della vita, e quindi delle forme, bensì un isolamento rifles-sivo che aprisse alla bellezza che commuove e incanta, senza mediazioni che non fossero quelle della vista. E poiché la luce è tra le prin-cipali manifestazioni artistiche e, dai tempi di Plotino, si lega all’Intelletto creatore, ecco che vi è una forte componente simbolica anche nel modo in cui viene presentata la realtà, e non solo nelle tematiche adoperate, desunte in par-ticolare da un’atemporale visione arcaica greca. Ma se la luce, come effetto delle forme materiali nell’immateriale, è da intendere nelle opere di Moulin in chiave simbolica, lo è parimenti in chiave realistica in quanto concepita e studiata con spirito oggettivo e scientifico. Simbolo e re-altà, quindi, in particolare nelle opere realizzate

Nell'altra pagina:Charles Moulin, Scena Bucolica, pastello(da Izzi Rufo 1998).

A sinistra:Charles Moulin, Autoritratto, 1956, pastello, collezione Eliseo, Provincia di Campobasso(foto: Soprintendenza BSAE Molise).

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gura umana, M’ssiù Mulà ha osservato la Natura per risalire alle leggi dell’armonia e dei colori: «Si devono sposare i colori e l’intensità di luce, il matrimonio deve dare la felicità». Un altro singolare episodio raccontato dalle cronache ri-porta ad un vitale, esclusivo rapporto del pittore con la vista e la visione. Nel 1919 Moulin, dopo un periodo di viaggi tra Parigi, Lille, Anticoli Corrado e Castelnuovo, si trasferisce definiti-vamente nel villaggio molisano costruendosi un rifugio su Monte Marrone, una delle vette della catena delle Mainarde che sovrasta il piccolo centro. In questo rifugio, posto a circa 1800 metri, l’artista risiederà soprattutto nei perio-di estivi per diversi anni svolgendo una vita da eremita a stretto contatto con la Natura. Solo, in questo rifugio formato da tronchi e sassi, ha modo di dedicarsi completamente alle ricerche sulla luce e nel corso degli anni la sua tavolozza si va man mano schiarendo mentre i contor-ni svaniscono acquisendo una connotazione quasi immateriale. Un giorno nel rifugio cade un fulmine che brucia molti dipinti e disegni e il pittore, miracolosamente scampatone, ha come una visione, tanto che racconterà come in quel momento ebbe modo di osservare tutti i colori dell’iride. Immagino come nel lampo di un fulmine che cade a pochi centimetri si possa osservare un qualcosa che si avvicina molto alla purezza assoluta della luce, e che realmente i colori dell’iride percepiti possano avere un legame con l’origine, quasi con l’Idea stessa di colore. Ebbene, per un teorico della luce com’era Moulin aver vissuto un evento si-mile non poteva che essere un’epifania. Aveva osservato la realtà autentica della luce e la ricer-cò ossessivamente per il resto della propria esi-stenza, sperimentando e ricercando nel colore e sui suoi effetti tanto che, come riportano molte fonti, realizzava contemporaneamente più pae-saggi che portava avanti anche per mesi, poiché gli effetti che voleva dare alle vedute, colte in determinate ore e condizioni, non potevano che ripetersi per pochi attimi durante il giorno.

dopo il suo secondo – e definitivo – soggiorno a Castelnuovo, vengono a collimare sul limite di un piano visivo sempre più trasfigurato dall’os-sessiva ricerca della Verità e del Bello. L’approc-cio di Moulin alla Natura, quindi, per quanto metaforico, risiede sopratutto in un rapporto ossessivo col dato reale. Esplicativi trovo a tal riguardo due pastelli, uno in collezione priva-ta l’altro in un museo francese, datati agli anni Cinquanta, che raffigurano il volto di Cristo. Una scritta sotto uno dei volti, «SELON SON LINCEUL CONSERVE A TURIN», ci informa di come quel volto enigmatico, mistico e dolce allo stesso tempo, derivi dal volto della Sindo-ne conservata a Torino. Nella delineazione del volto di Cristo l’artista, che mai si era accosta-to a tematiche religiose, si ispira direttamente alla fonte originaria che realmente ha accolto le sembianze del Figlio di Dio; si ispira quindi a quel dato di Verità oggettiva dal quale biso-gna partire per ogni ricerca. Se Michelangelo, artista molto amato da Moulin, nel corso della sua vita studiò in maniera insistente il corpo per risalire, come e più dei greci, alle leggi della fi-

In basso:Charles Moulin, Volto di Cristo, pastello, coll. Privata 1957 (da Izzi Rufo 1998).

gusto documentato dai lavori realizzati durante i quattro anni romani, nei quali l’artista recupe-ra anche il sapore neogotico del polittico. Roma, naturalmente, oltre che Michelangelo è soprat-tutto la classicità che l’artista cerca di stempe-rare nel simbolo. Questa predisposizione per la trasfigurazione delle scene in episodi 'antichi' emergerà prepotentemente durante i soggiorni ad Anticoli Corrado e la definitiva sistemazione a Castelnuovo. Qui l’artista comincerà a dipin-gere aspetti della vita umana da tramutare in concetti universali, quali l’amore, la morte, il destino, la vita, ma tutti personificati da figure vestite all’antica. La ricerca di una perduta età dell’oro, ritrovata come engramma nella sem-plicità delle montagne molisane, diventa il tema principale di tali lavori dove figure autentiche di contadini sono raffigurate con pose, moven-ze e vestiari classici. È l’antico che torna come simbolo universale. Nel corso del tempo tale visione si stempererà sempre di più mentre l’ar-tista darà la priorità alle vedute e ai paesaggi nei quali cogliere luminosità e bellezza. Gli ultimi decenni, invece, sono caratterizzati da splen-didi ritratti. Il pittore, ormai anziano e caduto in difficoltà economiche, soleva girare tra gli abitanti di Castelnuovo dipingendo volti; e tali volti, che hanno tutta la vitalità e la genuinità di un passato autentico ormai in disfacimento, sono forse il testamento più intimo e personale lasciato al Molise dall’ 'Orso delle Mainarde'.

Va fatto qualche cenno anche alla sua tecni-ca pittorica. Da un’iniziale predisposizione per la pittura ad olio passa ben presto al pastello e all’acquerello, lavorando con colori che apposi-tamente ricavava da prodotti naturali. L‘amore per la produzione di colori naturali nasce sia grazie alla partecipazione a un seminario di restauro in Accademia a Parigi dove si trova a restaurare opere ad olio ingiallite dal tempo e ormai spente nei colori, sia dalla visione delle opere settecentesche di Rosalba Carriera, i cui pastelli mantenevano intatta la loro luminosità. La scelta del pastello, nel quale egli fu grandis-simo maestro, va proprio nella direzione della ricerca della verità e della bellezza della luce, del tentativo di fissare impressioni che rimanes-sero stabili e non corrose dal tempo.

Un discorso a parte, invece, meritano le tema-tiche presenti nei lavori. Charles Moulin rice-ve una solida formazione accademica all’Ecole des Beaux-Arts di Parigi e segue i corsi di Ga-briel Ferrier, professore di anatomia, di Olivier Merson, di Joseph-Nicolas Robert-Fleury, già direttore dell’Ecole e dell’Accademia di Fran-cia a Roma, e, soprattutto, di William-Adolphe Bouguereau, massimo esponente della pittura cosiddetta pompier. Allo studio della pittura di storia accosta però anche tematiche simboliste in quanto frequenta i corsi di Gustave Moreau. Nel 1896, a completamento del corso di studi, Moulin partecipa al Prix de Rome – la famosa borsa di studio conferita per concorso agli artisti più meritevoli che dava la possibilità di amplia-re le proprie conoscenze artistiche studiando quattro anni all’Accademia di Francia a Roma – e lo vince con un’opera sul tema di 'Apollo e Marsia'. L’opera sintetizza magistralmente le due scuole di pensiero che convivevano all’E-cole des Beaux Arts de Paris, ovvero la solida pittura di stampo classicista e quella impron-tata sullo spirito simbolista del colore e della costruzione delle forme. Moulin è ricordato a Villa Medici tra gli artisti che più di altri intro-dussero, tra i pensionnaires, il gusto simbolista,

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di Vincenzo Merola

achille pace è nato a termoli nel 1923 e si è trasferito a roma dodici anni più tardi: nella Capitale si è formato artisticamente assorbendo da un lato le

suggestioni espressioniste della scuola di via Cavour e dall’altro l’insegnamento di giulio turcato, che insieme agli artisti del 'gruppo Forma' interpretava la pittura come «fatto mentale». a queste contrapposte influenze si somma l’osservazione del lavoro degli espressionisti tedeschi e soprattutto di Klee nel lungo soggiorno svizzero a metà degli anni Cinquanta. sono di questo periodo le prime mostre personali a lugano, arau, ascona e locarno.

Il filo e il labirintoIntervista ad Achille Pace

achille pace, "Verso il bianco", 1978, filo e tempera su tela(foto: A.Pace).

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Una volta rientrato in Italia, la sua ricerca è incoraggiata da Giulio Carlo Argan: a partire dal 1960 rigore operativo e semplicità della materia si fondono nell’opera di Pace per dare vita a quella tecnica fondata sull’utilizzo del filo di cotone che diventerà il suo segno distin-tivo.

Il 1960 è anche l’anno in cui inizia il lungo

percorso come direttore e animatore del Pre-mio Termoli: grazie all’impegno profuso ha saputo donare alla sua regione una manifesta-zione d’arte contemporanea capace di porta-re il Molise fuori dal tradizionale isolamento, in un costruttivo dialogo con la cultura ita-liana ed europea. La sua instancabile attività di consulente e di operatore non si è limitata

all’organizzazione delle mostre annuali, ma ha condotto nel tempo alla costruzione della Gal-leria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Termoli e di una pregevole collezione che, tra premi acquisto e donazioni, vanta un patri-monio di circa cinquecento opere in grado di testimoniare gli sviluppi della ricerca artistica in Italia nell’ultimo cinquantennio.

Nel 1962, durante i lavori del Premio Ter-moli, su invito di Argan e di Palma Bucarelli, Pace pone le basi per la formazione di quello che sarà il ‘Gruppo Uno’, coinvolgendo prima Frascà e Santoro e in seguito, a Roma, Biggi, Carrino e Uncini. Il gruppo di artisti appena formato persegue il superamento delle cor-renti informali, per rifondare il linguaggio visivo in termini razionali. Per due volte Pace è stato invitato a partecipare alla Biennale di Venezia e una terza volta al progetto specia-le della Biennale dal titolo Il tempo del Museo Venezia, nel 1980. Ha esposto in diverse edi-zioni della Quadriennale di Roma. Sue opere sono entrate a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, della Galleria Civica di Torino, del Castello di Rivoli, dell’Ente Quadriennale di Roma e di numerose altre sedi civiche e museali.

Il suo ruolo di fondatore, direttore artistico,

mediatore e coordinatore di contributi intel-

lettuali di altissimo livello è stato centrale

per la nascita e la crescita del Premio Termo-

li. Quali criteri ha seguito, nei primi anni di

vita del Premio, per strutturare una chiara

prospettiva di sviluppo e come ha coinvolto

alcuni tra i critici e le personalità artistiche

più influenti del dopoguerra?

Quando nel 1960 fui invitato dall’allora sin-

daco Girolamo La Penna e dal presidente

dell’ente di soggiorno Ennio De Gregorio a

prendermi cura della manifestazione d’arte

annuale di Termoli, trovai una condizione

socio culturale locale tutt’altro che avanza-

ta. Mi avvicinai al Premio mosso dall’idea

di dare slancio e impulso alla cultura loca-

le. Volevo mettere un po’ d’ordine e inserire

Termoli in un processo storico, dal momen-

to che le problematiche dell’arte contem-

poranea, così come la crisi del pensiero tra-

dizionale, non erano affatto avvertite nella

cittadina molisana. Tutto lo svolgimento

dell’arte astratta fino all’informale è un pro-

cesso storico e il mio indirizzo culturale, fin

da subito, fu improntato ad uno storicismo

evolutivo. In tal senso pensai che lo stru-

mento più efficace fosse una serie di mostre

in grado di esplorare le tendenze più avan-

zate dell’arte del tempo. Ho organizzato la

prima mostra con la migliore critica e con

la più prestigiosa arte italiana. Personalità

come Argan, Bucarelli, Ponente e tanti altri

che ho coinvolto a Termoli avevano poco a

che fare con il clima culturale locale. La pri-

ma mostra, nel 1960 (quinta in ordine crono-

logico, se si considerano le mostre fatte nei

quattro anni precedenti), fu un successo dal

punto di vista critico, ma la cittadinanza non

era ancora pronta e non capì l’importanza né

dei tagli di Fontana, né delle combustioni di

Burri, né di altre opere prestigiose. Fu co-

stituito addirittura un comitato che doveva

decretare la mia estromissione dal ‘Termoli’,

perché tacciato di raggiro nei confronti dei

cittadini inconsapevoli. Solo più tardi si re-

sero conto che non avevo raggirato nessuno.

Anche le istituzioni sembravano non condi-

videre certe mie proposte di acquisizioni. In

occasione del Decennale, nel 1965, proposi

di acquisire un quadro delle combustioni di

Burri con una cifra irrisoria, ma la proposta

fu scartata tassativamente dall’allora sinda-

co, che non ebbe il coraggio di proporre ai

suoi cittadini una ‘carta bruciata’!

Nell'altra pagina:Achille Pace, "Verticali imperfette", 1980, filo e tempera su tela(foto: A.Pace).

66 67

dal coinvolgimento nelle mostre degli arti-

sti promotori di questo nuovo linguaggio,

che presentavano opere nuove, con nuove

istanze pittoriche. Determinante è stata la

possibilità di arricchire con le loro opere la

raccolta della Galleria, che oggi testimonia

tutta la storia del Premio Termoli.

Se dovesse scegliere alcune delle opere più

La sua formazione e l’evoluzione della sua

poetica hanno attraversato almeno cinque de-

cenni di storia italiana dialogando con il con-

testo culturale internazionale: dall’informale

al post-informale, dal concettuale alla mini-

mal art, dalla seconda Scuola Romana all’a-

vanguardia romana degli anni Sessanta. In

che modo la sua personale ricerca e la costan-

te attenzione alle più aggiornate tendenze si

riflettono sulla storia del Premio Termoli?

Credo che lei abbia già dato anche la ri-

sposta alla sua domanda. Se la mia ricerca

e la mia conoscenza dell’arte contempora-

nea hanno avuto delle ricadute sul Premio

Termoli, ciò è stato reso possibile dal mio

attraversamento consapevole e cosciente di

tutte le fasi di sviluppo delle ricerche d’arte,

nel momento in cui fu necessario ricorrere

a nuovi linguaggi. Il 1960 chiude un’epoca

che aveva dimostrato che la razionalità non

era stata una soluzione valida per evitare il

grande conflitto. Ho attraversato l’informale

con tutta la precarietà esistenziale, il senso

di smarrimento e di disorientamento che

la guerra aveva lasciato. Ho subito avverti-

to la necessità di uscire da una condizione

esistenziale senza certezze e di trovare uno

sbocco verso una mia identità. Ho quindi

lottato con me stesso per riuscire finalmente

ad individuare un mezzo che mi consentisse

di esprimermi in termini di maggior ordine

e maggior rigore, pur conservando intatta

l’impronta esistenziale del mio operare. Il

percorso del mio ‘filo’ è sempre un atto di

esistenza, affidato ad un procedimento in

azione, momento per momento, e non a un

progetto predefinito. La mia pittura non è la

classica metafora del reale. Essa è affidata

all’idea di ‘concetto’, che sostituisce la rap-

presentazione fisica degli oggetti con una

proposta di coinvolgimento mentale del fru-

itore. Il riflesso sul Premio Termoli è dato

significative tra quelle della collezione della

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contempo-

ranea di Termoli, in grado di sintetizzarne in

maniera rappresentativa il valore, quali indi-

cherebbe? Come giudica la recente iniziativa

di restauro promossa su iniziativa della So-

printendenza e quali altre strategie potrebbe-

ro essere messe in campo per valorizzare la

collezione?

In queste pagine:Achille Pace, "Itinerario Incontro", 1989 - Filo e tempera su tela(foto: A.Pace).

68 69

Le sue opere evocano l’immagine del labirinto

e il mito di Teseo e Arianna. Il filo è dunque

allusione simbolica a un itinerario o a un per-

corso da seguire per orientarsi nella comples-

sità del reale?

Ritengo che il mio ‘filo’ sia molto di più. Nel

1960 ne ho chiarito bene tutte le valenze

simboliche nella mia dichiarazione di poe-

tica che recita: «Il filo, oltre che essere realtà

oggettiva, è anche carico di significati sim-

bolici. Essendo il filo un oggetto, è dunque

fuori di noi ma ha anche in noi, nel nostro

inconscio, profonde radici che ci fanno es-

sere, in definitiva, quello che siamo». In oc-

casione dell’omaggio al mio lavoro, inserito

nella manifestazione Autumn Contamina-

tion, tenuta a Campobasso dal 24 novembre

2011 al 4 dicembre dello stesso anno, negli

spazi della AxA Palladino Company, il cri-

tico molisano Tommaso Evangelista ha for-

mulato uno scritto che mi ha colpito per la

particolare acutezza e sensibilità di lettura

della mia opera: «La caratteristica princi-

pale dei lavori di Pace è l’uso del filo come

traccia soggettiva e minimale che cerca di

sovvertire le investigazioni analitiche più

rigorose dell’arte concettuale per affermare

un ordine del simbolico inteso quale spazio

ipotetico di confronto tra segno e materia. Il

filo, come elemento cardine di una sintassi

personale, non è solo traccia che si sostitui-

sce allo scorrere del pennello, ma anche me-

tafora del gesto e, per traslato, del pensiero.

[…] Le conformazioni labirintiche ottenute

su un piano pittorico altamente suggestivo

nelle gradazioni cromatiche si giovano di

una serie di figure retoriche (di ritmo, di co-

struzione, di significato, di pensiero) esalta-

ne profonda di Mafai per i miei ‘fili’. Volle

anche lui sperimentare i nuovi linguaggi

e, nell’attraversamento dell’Informale che

insistentemente dibattevamo, abbandonò

le sue ‘textures’ per realizzare opere in cui

evidente era l’attenzione ai lavori che stavo

facendo già dalla fine degli anni Cinquanta.

Il restauro è bene che vada eseguito. Certo,

mi sarei aspettato che i protagonisti dell’ini-

ziativa avessero coinvolto anche me, sia nel-

la scelta delle opere bisognose di intervento,

che come partecipante alla conferenza in-

detta nei locali del Comune di Termoli nel

maggio del 2012 per annunciare le operazio-

ni di restauro. Non ho partecipato a questa

conferenza solo perché, inspiegabilmente,

non mi era stata neppure comunicata. Sono

abbastanza indulgente da non colpevolizza-

re nessuno per questo episodio. In fondo, i

promotori dell’iniziativa sono troppo giova-

ni e non erano ancora nati quando io già mi

sacrificavo per dare a Termoli, il mio paese,

un bene prezioso: la possibilità di raccoglie-

re tante opere di prestigio.

Grazie ai suoi sforzi straordinari è riuscito a

dare vita a una rassegna di valore internazio-

nale in una cittadina periferica come Termoli.

È possibile fare cultura in provincia ottenendo

risultati paragonabili a quelli dei più grandi e

vitali centri artistici?

Brevemente dico che è possibile. Certamen-

te non tutto avviene per caso. Fondamentale

è un’idea originaria di fondare qualcosa che

abbia fini qualitativi di miglioramento cul-

turale. E questo ancora non è sufficiente se

non si dispone dell’elemento principale: una

visione chiara delle problematiche artisti-

che e socio culturali del momento, la volon-

tà, la consapevolezza, l’onestà, lo spirito di

sacrificio, la disponibilità a donare tutto se

stesso ad un’impresa che poi, alla fine, di-

venti una grande storia.

dere loro di partecipare alla mostra di Ter-

moli e di donare un’opera per cominciare a

costituire la raccolta della Galleria Civica

(una galleria inesistente al momento: le mo-

stre venivano fatte nei saloni del Palazzo del

Comune).

Per capire l’importanza delle opere che gli

artisti mi lasciavano per la collezione, basti

pensare che la raccolta della Galleria Civica

è fra le poche dell’Italia centro-meridionale

a possedere una così ampia testimonianza

della storia artistica degli anni Sessanta e

Settanta. Due sono le opere di Gastone No-

velli del 1960 che fanno parte della pregevo-

le collezione della Galleria Civica di Termo-

li. Se devo indicare qualche nome di rilievo

al quale attribuire valore di qualità e anche

di mercato, non posso non citare le opere

dei grandi amici artisti come Giulio Turca-

to, Edgardo Mannucci, Virgilio Guidi, Anto-

nio Calderara, Mario Schifano, Tano Festa,

Franco Angeli, Carla Accardi, Remo Brin-

disi, Sergio Lombardo, gli artisti del Grup-

po Uno al completo, Salvatore Emblema e

talmente tanti ancora che non è possibile

elencarli qui. Nel 1965, in occasione del de-

cennale delle mostre di Termoli, sono riusci-

to ad avere da Giuseppe Capogrossi un gran

numero di sue opere con cui ho realizzato

una tra le più importanti mostre omaggio a

Termoli. È per un doveroso tributo di affet-

to, di rispetto e grande stima che voglio sot-

tolineare il mio sodalizio con Mario Mafai.

In occasione della XII edizione del Premio

Termoli a lui ho voluto dedicare una mostra

omaggio nel 1967, in ricordo di un’amicizia

cominciata alla fine degli anni Quaranta, dai

giorni della Scuola Romana alla sua scom-

parsa nel 1965. Interessante a questo pro-

posito la vicendevole influenza avvertita tra

noi: il mio interesse, nei primi anni del no-

stro rapporto, per il tonalismo del Mafai dei

fiori appassiti e del sentimento di sofferta

umanità e, molti anni più tardi, un’attrazio-

Cesare Vivaldi descrive, nello scritto sul

catalogo della mia mostra del 1960 alla gal-

leria L’Incontro di Roma, l’ambito artistico

nel quale mi sono trovato ad operare. E fa

i nomi degli artisti che orbitavano nell’area

delle nuove avanguardie, tutti giovanissi-

mi, come me. Vivaldi scrive: «Nel processo

di superamento dell’Informale […] i pittori

romani sono senza dubbio all’avanguardia.

[…] Vicino a Burri porremo Scialoia, un pit-

tore di prima grandezza ancora da scoprire e

tutti i molti giovani: Dorazio, Perilli, Novelli,

Nuvolo, Marotta, Rotella, Scarpitta, Sanfilip-

po, Accardi, Cascella, lo spoletino Raspi e i

giovanissimi: Angeli, Uncini, Lo Savio, Fe-

sta, Cunellis e parecchi altri. Un panorama

unitario eppure variatissimo in cui ora Pace

inserisce la sua ricerca che è molto vicina a

quella degli altri pur essendo indubbiamen-

te ben sua ed originale». Questi artisti erano

i miei amici, ai quali mi rivolgevo per chie-

Nell'altra pagina:Achille Pace, "Itinerario sospeso", 1990, Filo, stoffa e tempera su tela(foto: A.Pace).

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te dalle pause e dalle fratture. L’artista, quin-

di, con la sua (cre)azione non fa che esaltare

i residui di una caduta dell’arte nella traccia

che da ‘accidente’ diventa orma veritativa

semplice ed elementare: la traccia (persona-

le) immobile unita al concetto temporale di

scia porta alla formazione di linee/itinerari

che non sono nient’altro che estreme ridu-

zioni dell’oggetto-mondo pensato».

Nel testo critico per la sua personale a Spoleto

del 1977, Vanni Scheiwiller individuava nella

sua poetica una netta concordanza di temi

con l’Arte Povera. Se il segno, sostanziato dal-

la materia, è strumento espressivo d’identità,

allora la povertà del mezzo nel suo lavoro non

è forse stato un argomento troppo poco inve-

stigato?

Sono lieto che lei mi ponga questa doman-

da. In effetti sarebbe sufficiente rispondere

senza neppure commentare nulla, ma sem-

plicemente mostrando una qualsiasi delle

mie opere a partire dal 1956. Essa si com-

menterebbe da sola. La povertà del mezzo

usato e la ristrettezza dell’intervento segni-

co sulla superficie della tela, consistente in

un campo neutro, di solito monocromo di un

tono variabile dal grigio al nero fumo, inse-

risce la tipologia delle mie opere nel filone

dell’arte minimal e dell’arte povera, anche se

quest’ultimo aspetto viene poco evidenziato

dalla critica militante attuale che preferisce

attribuirmi il ruolo di ‘poeta del filo’. Credo

che il critico d’arte che con maggior convin-

zione abbia interpretato la mia pittura come

espressione di ‘arte povera’ sia stato proprio

Vanni Scheiwiller, che nello scritto da lei

citato afferma: «La poetica di Pace anticipa

senza clamore i concettuali, la minimal, l’ar-

Nell'altra pagina:Achille Pace, "Omaggio a Mirò", 2000, Filo, tempera e smalti su tela(foto: A.Pace).

te povera e, in genere, il post-informale come

recupero del controllo, del rigore e della lo-

gica esistenziale nei confronti di un irrazio-

nale esistenziale informale». Anche Silvana

Sinisi ha voluto evidenziare la povertà del

mezzo usato nel mio lavoro, descrivendo il

processo creativo che è alla base della mia

poetica minimale. Ma il rappresentante del-

la critica d’arte storica che ha saputo espri-

mere il giudizio sul mio lavoro per me più

significativo, è senza dubbio Giulio Carlo

Argan. È indicativa la sintesi concettuale

con la quale, in poche parole, ha descritto la

mia essenza artistica nella presentazione al

catalogo della mostra del Gruppo Uno alla

Galleria Quadrante di Firenze, nel 1963: «I

sinuosi ma esatti percorsi del filo nei campi

opachi e deserti dei quadri di Pace tessono

lo spazio da uno a infinito». E ancora, due

concetti sintetici che sono due pietre milia-

ri, con i quali definisce la mia pittura come:

«Minimi di quantità, massimi di qualità».

Anche in questi due termini c’è implicito

tutto il concetto di arte povera.

Ogni mia opera testimonia un bisogno inti-

mo di espressione d’arte all’unisono con la

mia sensibilità. Ho voluto scegliere un mez-

zo umile, povero, ma ricco di natura, di ri-

cerca e di sperimentazione del nuovo. È così

che il mio filo sarebbe diventato la mia poe-

tica. Il filo come scelta di materia che doveva

tradursi in segno: ‘segno-materia’. La tecni-

ca richiede controllo, momento per momen-

to nel suo farsi spazio-forma. Lo spazio deve

essere la nostra viva presenza, la quantità,

qualità e valore. Basterebbe mostrare alcu-

ni stralci critici e i giudizi che in passato i

rappresentanti più accreditati della critica

storica hanno espresso sul mio lavoro per

evidenziare la completa sintonia ed analogia

con la tendenza poverista. Oggi l’arte povera

è promossa dal suo critico più riconosciuto,

che è Germano Celant. Se ci soffermiamo

un momento a indagare tra le premesse so-

stanziali richieste agli artisti del suo gruppo,

si può vedere che tutte si ritrovano, ma con

un decennio di anticipo, nelle opere che ho

iniziato già dal 1956. La povertà del mezzo è

sempre stata una mia costante. Fin dagli ini-

zi del mio percorso artistico ho privilegiato

materiali poveri, semplici, naturali. Ho usato

semplice terra, raccolta nei campi, legni tro-

vati casualmente, stoffe senza valore, come

juta e tela di cotone, da cui estraevo i fili che

utilizzavo per creare immagini e creare i rit-

mi di tempo e di spazio. Ciò accadeva già alla

fine degli anni Cinquanta, ancor prima che

si cominciasse a parlare di arte povera, cor-

rente nella quale mi sono automaticamente

trovato coinvolto, non per seguire una moda

ma perché rispondente esattamente alla mia

poetica e alla mia spiritualità. Certo resta in-

comprensibile come in tanti anni non ci sia

stata una consapevolezza, un coinvolgimen-

to che inserisse il mio lavoro nel contesto

di una tendenza che è l’emblema della mia

poetica. Né si può pensare che il mio nome

sia tanto sconosciuto da giustificare certe

‘distrazioni’. Io mi aspetto sempre, in verità,

che un varco si possa aprire.

72 73

La mia esperienza di operatore e artista si

è mossa sempre attraverso la riflessione

sulla storia dell’arte e la realtà esistenziale

che personalmente mi attiene. A tal riguar-

do, ho sempre cercato la possibilità di far

corrispondere le mie capacità alla storia,

senza mai trascurare di essere spontaneo,

autentico e libero. Mi ha informato il pen-

siero esistenziale, fenomenologico. Ho

scelto il filo come continuità spazio tem-

porale. Quello che nel pensiero esistenzia-

le è ‘caduta’, come nel caso di Pollock, nel

mio caso è controllo, come superamento

dell’informale, senza rinnegare quanto di

esistenziale ha espresso nella fenomenolo-

gia dell’arte moderna. Sul piano formale le

componenti fenomenologiche e razionali

sono contraddizioni creative tipiche della

cultura del nostro tempo, dovute alla caduta

delle strutture europee e al grande conflit-

La razionalità stringente del suo approccio

alla pittura implica in qualche modo un su-

peramento dello spontaneismo informale di

matrice espressionista e surrealista, che in-

terpretava il gesto artistico come immediata

rappresentazione di istinti, passioni e conflit-

ti. L’arte non è dunque solo sentimento, ma

anche ragione?

I miei itinerari vogliono rappresentare un

viaggiare nel mondo della conoscenza in

uno spazio libero con alcuni punti di riferi-

mento, esatti, ma senza limiti. Nel fare arte

la presenza fisica e spirituale dell’artista

deve essere forte e libera, senza riserve. Ho

scelto il filo di cotone come mezzo che po-

tesse sostituire il segno tracciato dalla mano

con la matita: le vecchie modalità espressive

non reggevano più.

Qual è stato il traguardo più importante rag-

giunto in oltre cinquant’anni di attività arti-

stica? Ha qualche rimpianto, oppure qualche

desiderio ancora da realizzare?

Il traguardo più importante per me è stato

quello di formare la mia identità creativa:

la conquista della mia ‘poetica’, che mi ha

ripagato del lavoro di tanti anni di ricerca.

Avevo diciotto anni quando ho conosciuto

Giulio Turcato. Il mio primo incontro con lui

è avvenuto nel 1941, quando mi invitò a po-

sare per lui come chitarrista, a seguito di un

concorso musicale. Durante le varie sedute

parlavamo di arte e di cultura artistica. Re-

sosi conto della mia sensibilità pittorica, mi

invitava a considerare volta per volta il lavo-

ro che stava realizzando e mi chiedeva con-

ferma sulla giustezza dei toni di colore e del

to mondiale. L’artista vuole rappresentare

il suo interiore turbamento tra pensiero lo-

gico e atto esistenziale. Questa sospensione

dell’essere tra ragione ed esistenza è ancora

valida oggi e ben si addice alla sensibilità ed

intelligenza creativa di molti artisti. Io sono

spontaneamente portato all’esistenzialità

del nostro tempo. La razionalità non risolve

il concetto di superamento ma si sovrappo-

ne in maniera contraddittoria all’informale.

Tutte le tecniche oggi sono valide, purché

esprimano lo stato di vaga esistenza della re-

altà e di disorientamento del nostro tempo.

Il pensiero esistenziale è umiltà e coraggio

della propria coscienza. Non c’è creatività se

l’artista non produce prima un ‘vuoto’. Solo

in questa condizione di spirito, la parola, il

segno e l’immagine sono ‘veri’. Nel linguag-

gio dell’arte, per dire la parola ‘giusta’ devi

trovarti nella condizione ‘giusta’. All’inizio

della Commedia, Dante si è trovato nel vuo-

to e ‘smarrito’. Dopo, la parola è stata quella

giusta. Anche Dante ha dovuto pescare nel

suo inconscio.

Nell'altra pagina:Achille Pace (foto: M.Bellante).

In questa pagina:Il Premio Termoli nel 1961, (foto: M.Bellante).

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segno. Mi ascoltava con attenzione, pronto a

correggere l’opera sulla base dei miei giudi-

zi, che sempre condivideva. Il quadro per il

quale avevo posato, Il suonatore di chitarra,

venne esposto alla galleria Il Secolo di Via

Veneto, qui a Roma. Il mio rapporto con Tur-

cato è durato fino alla sua scomparsa.

Insieme alle opere con il filo, il mio principa-

le interesse era quello di un impegno verso

la ricerca del ‘segno’, ispirato alle teorie di

Kandinsky, di Miró, di Leonardo, che aveva

coniugato scienza e arte, e di Paul Klee. La

mia ricerca sul segno ha portato avanti i pre-

supposti avanzati dall’artista svizzero, le cui

idee mi hanno profondamente influenzato.

A Klee ho voluto dedicare, oltre ai saggi sulla

sua lezione, anche l’ideazione di un balletto

intitolato Incontro con Paul Klee, realizza-

to per la prima volta alla Sala Borromini di

Roma nel 1985.

Un traguardo per la mia carriera sono sta-

te le partecipazioni alle Biennali, alle Qua-

driennali, le mie presenze in musei impor-

tanti, l’onore di far parte oggi come membro

accademico onorario dell’Accademia Ponti-

ficia dei Virtuosi al Pantheon (conferitomi

dal Pontefice Giovanni XXIII) e, non ultimo,

l’incarico di Sovrintendente Onorario della

Galleria Civica di Termoli. Non ho rimpianti.

La vita mi ha ripagato sufficientemente del

mio lavoro, continuo e anche faticoso, che mi

è costato rinunce pesanti ma che è stato ge-

neroso di grandi soddisfazioni. Uno tra i più

importanti obiettivi ancora da raggiungere è

la realizzazione a Termoli di una pinacoteca

comunale istituzionalizzata e funzionale che

possa ospitare una mostra permanente del-

la sua prestigiosa raccolta. Ne va del futuro

stesso del Premio.

Dall'alto:Ritratto di Achille Pace (web).

La Galleria Civica di Termoli, (foto: A.Pace).

Luca Pace, Ritratto di Achille Pace, 2001 (foto M.Bellante).