Angoscia e malinconia come esperienze-limite. Tra Heidegger e Schelling

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Angoscia e malinconia come esperienze-limite. Tra Heidegger e Schelling 1. Dell'angoscia. -- Le molteplici forme dell'angoscia riscontrabili nella nostra esistenza (angoscia fisica o sociale) sembrano oggi sfuggire ad una filosofia che nutre sempre meno l'ambizione di offrire una teoria antropologica universalmente vincolante. Il che è, evidentemente, a sua volta fonte di angoscia: l'angoscia del non razionalizzabile, di quanto risulta irriducibile a teoria filosofica, di tutti quei fatti e stati d'animo la cui spiegazione non può che essere rimandata allo sviluppo della ricerca scientifico- naturalistica (sempre strutturalmente precario e comunque minacciato dalla crisi dei fondamenti che già in precedenza aveva investito il sapere filosofico). Sia chiaro una volta per tutte: l'angoscia di cui intendiamo qui brevemente parlare è uno stato d'animo inintenzionale, privo, a differenza della paura, di un oggetto e di una spaziotemporalità determinati. Se si scruta più attentamente la «situazione spirituale del nostro tempo», si vedrà con chiarezza che accanto all'angoscia per l'indifferenziabile struttura biologico-naturale e nel contempo socioculturale dell'angoscia (il potenziale biologico di angoscia è, infatti, difficilmente immaginabile in assenza di qualche coordinata storico-culturale, a volte addirittura di un riferimento preciso al contesto generazionale che ne viene qualificato, che è come dire che le tenebre che avvolgono l'uomo cambiano volta a volta di posto), va quindi segnalata - non da ultimo, comunque - l'angoscia suscitata dall'irrappresentabilità totale-filosofica dell'angoscia come fenomeno dell'esistenza umana; uno scacco filosofico non meno doloroso di quello, assai più generale, derivato dal crollo tanto del discorso assiologico quanto di una filosofia della storia come emancipazione. 1

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1. Dell'angoscia. -- Le molteplici forme dell'angosciariscontrabili nella nostra esistenza (angoscia fisica osociale) sembrano oggi sfuggire ad una filosofia chenutre sempre meno l'ambizione di offrire una teoriaantropologica universalmente vincolante. Il che è,evidentemente, a sua volta fonte di angoscia:l'angoscia del non razionalizzabile, di quanto risultairriducibile a teoria filosofica, di tutti quei fatti estati d'animo la cui spiegazione non può che essererimandata allo sviluppo della ricerca scientifico-naturalistica (sempre strutturalmente precario ecomunque minacciato dalla crisi dei fondamenti che giàin precedenza aveva investito il sapere filosofico).Sia chiaro una volta per tutte: l'angoscia di cuiintendiamo qui brevemente parlare è uno stato d'animoinintenzionale, privo, a differenza della paura, di unoggetto e di una spaziotemporalità determinati. Se si scruta più attentamente la «situazionespirituale del nostro tempo», si vedrà con chiarezzache accanto all'angoscia per l'indifferenziabilestruttura biologico-naturale e nel contemposocioculturale dell'angoscia (il potenziale biologicodi angoscia è, infatti, difficilmente immaginabile inassenza di qualche coordinata storico-culturale, avolte addirittura di un riferimento preciso al contestogenerazionale che ne viene qualificato, che è come direche le tenebre che avvolgono l'uomo cambiano volta avolta di posto), va quindi segnalata - non da ultimo,comunque - l'angoscia suscitatadall'irrappresentabilità totale-filosoficadell'angoscia come fenomeno dell'esistenza umana; unoscacco filosofico non meno doloroso di quello, assaipiù generale, derivato dal crollo tanto del discorsoassiologico quanto di una filosofia della storia comeemancipazione.

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E nel nostro secolo bisognerebbe comunque aggiungerel'angoscia causata dall'eccessiva pressione dellarealtà, cui da varie parti si è pensato l'uomo possaovviare mediante strategie «compensative» o di«rimozione». Questa è l'angoscia che deriva dal fattoche l'uomo, per definizione (da Herder a Gehlen) è unanimale biologicamente non specializzato, appare siapositivamente «aperto» al mondo sia espostoangosciosamente a quella stessa apertura; ciò adifferenza dell'animale, che, meno plastico, è tantovincolato ad un preciso mondo-ambiente che questo nonpuò mai essere nei suoi confronti una autentica fonted'angoscia. Ben più originariamente di quanto avvenganella società capitalista l'uomo è così soggetto ad unapressione di rendimento (nel mondo), ad una costante ea volte insopportabile spinta a trasformare l'esistenteper potervisi adattare. Ma se queste diverse determinazioni dell'angoscia(angoscia per eccessiva pressione della realtà, pereccessiva richiesta di prestazione-rendimentotrasformativo) possono magari anche precisarel'indeterminato concetto dell'angoscia integrandolostoricamente, è al più generale sentimento (metafisico-teologico) di angoscia per il mondo che vogliamorivolgere qui la nostra specifica attenzione. Delresto, non ci pare che, ad eccezione del linguaggiousato (effettivamente datato e fin troppo legato allaStimmung degli anni '3O e '40 o magari alla sociologiadel pericolo nucleare), l'angoscia descritta dallafilosofie dell'esistenza non colga più nel segno, nonsia più «sentita» (come si dice) dall'uomo di finesecolo; essa resta l'angoscia di cui ontologicamentevale la pena di occuparsi, senza limitarsi ad indagarnele ricadute sul piano tra ontologico e ontico(l'angoscia, ad esempio, derivata dall'impossibilità dicomprendere le superstrutture tecnologiche del nostrotempo, tanto razionali nel loro interno e nei loropassaggi da essere totalmente irrazionali nel loroinsieme e sul piano finalistico; ma si pensi anche alsenso di impotenza dell'uomo rispetto al rischio della

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totale tecnologizzazione dei suoi valori, o anche piùsemplicemente rispetto all'impossibilità di esserepadrone completamente dei processi teconologiciavviati) o addirittura su quello solo ontico (la pauranelle sue molteplici forme), magari accontentandosi poi(anche se non è poco sul piano psicologico) disostenere la necessità di convivere con l'angoscia,superandone solo i fastidiosi e inibenti esiticoncreti.

2. Appunti per una storia dell'angoscia. -- Ma prima ancoraoccorre chiarire sul piano storico-filosofico chequesto concetto di angoscia, con il necessariamenteconseguente stato di frustrazione, pare assentenell'antichità classica. (E già qui si profila unulteriore motivo di angoscia: se l'angoscia non è unastruttura eterna ma divenuta, chi ci assicura che ilsuo potenziale non vada progressivamente aumentando?tanto più in assenza della cara e vecchia fede nellesorti progressive...). Ad ogni buon conto, si può direche l'uomo antico poteva temere gli altri uomini, glidei, la natura (si pensi alla tragedia), una paura cheperò poteva essere almeno parzialmente vinta attraversoil comportamento etico e/o il sapere. In ogni caso maisembra presente nell'antichità l'angoscia verso ilmondo nella sua totalità, che anzi come cosmo eraconsiderato retto dal bene e dalla razionalità al puntodi essere a sua volta il criterio di verità e giustiziadel mondo umano. La cosmicità era pertanto un'oasi dicertezza e sicurezza. Le cose mutano radicalmente col pensiero cristiano(e con la Gnosi): se il mondo è «caduto» da Dio, non èsorprendente che appaia dominato dalle tenebre e daldemoniaco. Già il semplice essere-nel-mondo (e lacondanna divina del peccato ratifica tutto ciò nel modopiù immaginoso) porta con sé quell'angoscia imprecisataprima sostanzialmente ignota. Non è più neppure unostato eccezionale, ma qualcosa di cooriginario alnostro essere al mondo: difficile immaginare una

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trasformazione più radicale nella storia occidentaledelle idee. Tale angoscia del e dinanzi al mondo assumevarie forme: la credenza in potenze demoniache egeneralmente perturbanti, come nel medioevo e nelle sueforme artistiche; l'angoscia della morte edell'inferno, tanto irredimibile quanto è impossibileall'uomo trascendere veramente la condizione dideiezione che coincide con la sua esistenza terrena.Per tutto ciò si dà una sola consolazione: la fede inDio e più precisamente in un Dio redentore eprovvidente, il solo farmaco capace di riconvertire infelicità l'insuperabile tristezza adamitica. L'angoscia oggetto di queste brevi e schematicheconsiderazioni è allora possibile per la prima voltasolo quando si infrange il rapporto confidenziale colmondo caratteristico del mondo antico, e non sonod'altra parte neppure più disponibili (credibili) gliespedienti con i quali il cosiddetto pensiero primitivo(animismo, culto, magia) metteva ogni volta a tacere,umanizzando integralmente il mondo, l'angoscia che atratti trapelava nel tessuto sociale o nell'esperienzadel singolo. Sarà il mondo moderno (e massimamente ilsecolo dei Lumi) a garantire per così dire i succedaneidi questi espedienti primitivi, rirazionalizzando ilmondo come ordine regolare e appunto per questocomprensibile, e nel contempo schiudendo una fede permolto tempo incrollabile nel progresso come leggeimmanente alla storia. Se, hegelianamente, ciò che èreale è razionale, e ciò che è razionale è reale, lapaura è indubbiamente vinta dalla ragione. La teodiceaha compiuto la sua lunga carriera: non tanto Dio quantoil logos-ragione non concede alcuno spazio aun'angoscia dell'indeterminato. E' solo con il tardo XIX secolo che vengonoprecisandosi le condizioni per il «nostro» concetto diangoscia. Se nell'età moderna, nell'età dellascientificizzazione (necessariamente razionalistico-ottimistica), il cristianesimo, pur attestando lanegatività (anche in senso morale) del sentimentodell'angoscia lo ritiene superabile non meno

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dell'antichità greca - nel mondo greco ad opera dellaconoscenza (theoria come contemplazione disinteressata,metafisica in senso proprio), ora ad opera della fede -nella seconda metà del secolo scorso le cose cambianoin relazione naturalmente con la crisi - per esprimerciin modo necessariamente grossolano - dello statutolargamente illuministico-razionalistico della civiltàoccidentale: da un lato troviamo la positivizzazionedegli istinti e degli impulsi, riconosciuti più fortidella ragione e della spiritualità nonostante la loroindubbia inferiorità assiologica. E l'accettazionedella struttura istintuale-affettiva comportanaturalmente l'incertezza circa la razionalità delmondo, risultando ora esso dominato dall'accadereistintuale. I nomi sono fin troppo ovvi: Schopenhauer eNietzsche, il secondo Schelling, Kierkegaard, Eduardvon Hartmann e l'ultimo Scheler, ma anche Freudnaturalmente (si pensi al trauma della nascita oangoscia originaria).

3. L'angoscia e il niente -- Un luogo ormai classico delnostro secolo di approfondimento filosofico delproblema dell'angoscia è rappresentato, com'è noto,dall'opera di Heidegger. Saranno qui sufficienti pochicenni relative ad alcune pagine diSein und Zeit (§§ 40-41)e di Was ist Metaphysik. Per Heidegger l'angoscia è la definizione essenzialedell'esistenza umana. L'esserci è sempre «gettato»emotivamente nel mondo, e l'angoscia è la necessariaconseguenza di questo suo essere-nel-mondo (piùprecisamente, della sua deiezione nel mondo del Si enel mondo di cui ci si prende semplicemente «cura»).Laddove la paura è un retrocedere dinanzi ad un enteintramondano proveniente da un determinato ambiente,posto nella prossimità ed eventualmente evitabile osuperabile, l'angoscia non è mai rivolta ad un enteintramondano, è qualcosa di indeterminato, che escludefin da principio che sia possibile trovare appagamentoin qualcuno di questi enti: il minaccioso non è in

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nessun luogo, è già presso di noi senza avvicinarsi anoi secondo una certa direzione. E' il mondo come tale,la sua indeterminata possibilità, ciò davanti a cui siprova angoscia, tanto è vero che, quando sembracessata, si usa dire che «non era nulla»: appuntoperché nell'angoscia il mondo non può più offrirenulla, e lo stesso valga per il con-esserci deglialtri, l'esserci è isolato in quanto posto dinanzi alsuo essere-libero-per...L'esserci si trova, piùprecisamente, «spaesato», non si sente più a casapropria e perde la precedente intimità quotidiana,magari anche nella più comune e apparentemente serenadelle sue situazioni, dato che anche l'occasione piùfutile può favorire l'emergenza dell'angoscia. Anzi, ilrapporto tranquillizzato e intimo col mondo nonché lapaura di qualcosa non sono che modi dello spaesamento enon del suo contrario. L'originario è, perciò,l'angoscia spaesante, per quanto raramente essa simanifesti nella sua purezza, mentre la paura è soloun'angoscia deietta, inautentica e dissimulata a sestessa. L'esperienza dell'angoscia è per Heidegger qualcosadi positivo in quanto solo l'angoscia apre il mondocome mondo (e non come semplice somma di utilizzabili),riprende l'esserci dalla sua deiezione nel mondopubblico del Si, e lo consegna a se stesso, al suoessere libero per le possibilità esistentiveautentiche. Che è poi la Cura autentica in quanto Curadi se stesso e non come accade normalmente,deiettivamente, cura di qualcosa di altro da noistessi. Sinteticamente si potrebbe dire, allora, chel'impetuosa «carriera» filosofica dell'angoscia derivadal suo farsi tramite del passaggio dall'onticoall'ontologico, dall'inautentico all'autentico: essarivela il nulla in almeno due sensi: anzitutto perchènullifica il mondo e i suoi normali rapporti disignificatività e di appagamento; ma anche perchèquando la si supera, si avverte che non era nulla, cioèche era il nulla della banalità intramondana, lanullificazione del mondo effettivo e lo stagliarsi

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inspiegabile (donde e dove?) dell'essere-gettatodell'esserci. «Non era nulla», «non avevo nulla», sidice - appunto nel senso che il nulla era in quellostato d'animo effettivamente presente, certo non comeente e tanto meno come oggetto, bensì insieme e conl'ente, come segno della sua trascendibilità da partedell'esserci, altrimenti perso nell'ente. «L'uomo è illuogotenente del niente», dirà non a caso Heidegger. Ma il giovane Heidegger guarda soprattuttoall'angoscia della morte, perché chi non tollera diguardare in volto la morte, nascondendosela nellatranquillizzazione del Si (il «si muore» come pensierodel Si anonimo), fugge dinanzi al proprio poter-essere-se-stesso autentico, essendo la possibilità della mortela possibilità estrema e quindi la più propria,incondizionata e insuperabile, in quanto è l'unica amantenere il possibile nella condizione di merapossibilità. L'angoscia dinanzi alla morte, che hasuperato la neutralizzazione del Si, finalizzata atrasformare e banalizzare l'angoscia in paura, èangoscia davanti al poter-essere più proprio,incondizionato e insuperabile, e non semplice paura peril decesso, «non è affatto una tonalità emotiva di"depressione", contingente, casuale, alla mercédell'individuo [...] ma l'apertura dell'esserci al suoesistere come esser-gettato per la propria fine» (SuZ306). E' una situazione emotiva che tiene aperta lacostante e radicale minaccia che proviene dal piùproprio e isolato essere dell'esserci. L'essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia, autentica diversionedalla diversione inautentica e illusoria del «si» nellospaesamento della coscienza, che esige la decisioneanticipatrice. Che è quanto affermare l'inaggirabilità,per un'esistenza dominata dalla decisione autentica,del sentimento dell'angoscia.

4. Malinconia universale -- Ma forse più interessante,perché meno centrato sull'uomo, e tuttavia dipendenteda una reale e biografica malattia dello spirito (nesono segni peculiari l'accesa misantropia, la

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sofferenza per una serie di lutti, una accresciutasensibilità teosofica per i mali morali e fisici), dauna vera disperazione del filosofo, ci pare il tema,emerso nello Schelling dell'età di mezzo (dopo il1809), della tristezza e malinconia del mondo. Il tuttoruota intorno al tentativo di riontologizzare il maleintroiettandolo in dio (nel dio che diviene) come suaparte e possibilità pervertita (Weltalter); ma non menorilevante, come si è detto, è la ricaduta «personale»di questi temi, tra l'altro perfettamente omologa allaterza fase (o senilità) di un'epoca che, come laGoethezeit, era passata, ad esempio, dalla magia attivadi un Novalis alla magia prevalentemente passiva deltardo romanticismo (sonnambulismo, telepatia, attivitàonirica), dalla tragedia prometeica della libertà allatragedia sconsolata del destino - un'epoca, insomma,globalmente passata dall'entusiasmo ad una situazionedi depressione cosmica. Schelling non nasconde, ad esempio, la tentazionedel suicidio dopo la morte dell'amata Carolina, ilnetto rifiuto del mondo e della sua epoca, e intarsiaun po' tutti i suoi testi (che quasi non pubblicheràpiù dopo il 1809: altro segno inequivocabile di crisi)e le sue lettere con termini come «tristezza»,«malinconia», «nostalgia», «profondità», «bassezza».Una «depressione» in piena regola, si potrebbe direoggi, una depressione che attende ancora il suoanalista storico. Ma questo quadro storico-clinico èmalinconia e magari angoscia nel senso ontologicointeso da Heidegger, la scoperta densa di prospettivedi un «lato oscuro della natura», oppure sempliceipocondria e vittimismo? Leggiamo parte di una letteradel 1820 al fratello, che era medico: «E' da molte tempo che avrei dovuto scriverti. Perdona la miaindolenza, una sorta di incapacità che spesso mi tiene ancoraprigioniero. Non soffro di alcun male essenziale, ma la tristesensazione di non poter diventare del tutto sano offusca il miospirito e mi impedisce, insieme agli acciacchi fisici, persino disbrigare la corrispondenza, e tanto meno di lavorare a qualcosa dipiù impegnativo. Le spiacevoli condizioni atmosferiche, che sonoqui la causa di numerose malattie, è l'ostacolo maggiore alla mia

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guarigione. [...] Soffro anche di violentissimi raffreddoriaccompagnati da dolori al capo, a cui si accompagnano poi i solitidolori addominali. Sembra che non possa mai guarire, per lo menoin questo clima. [...] Forse tu riuscirai a capire quanto menodove risieda la causa del male, ciò che tutti i medici che finoraho consultato non hanno saputo indicare» (Plitt II 434-435). Davvero un descrizione convenzionale di «accessi di unaltrimenti del tutto sconosciuto umore ipocondriaco»(Plitt II 269), dichiarati non ancora del tutto vintinel 1821 (Plitt III 5), se non si riflettesse più afondo su quell'indizio d'indeterminazione clinica (chetroviamo già nove anni prima in una lettera aWindischmann, ove si parla di «parecchi acciacchifisici, sebbene io sia globalmente sano») (Plitt II269) e non vi si collegasse la più generale efilosofica impossibilità di ritornare all'ottimismodella filosofia dell'identità, una volta gettato unosguardo sull'Abgrund, o, che è lo stesso, sul «passato»come età del mondo imperscrutabile. Se la creazione èla contrazione di Dio, ciò che ne deriva non può cheessere inficiato fin nelle fondamenta, e nulla puòormai il poeta, in precedenza concepito come il «medicotrascendentale», il conciliatore nell'opera d'artedell'inconciliabile (assoluto e finito, universale eparticolare, conscio e inconscio, ecc.). Ma la visione ha tratti più precisi, che proveremoqui ad accennare. La realtà, per lo Schelling dellamaturità, precede inesorabilmente la ragione (etuttavia è già di per se stessa sapienza e scienza) enel movimento che la contraddistingue l'uomo si trovainserito senza potervisi opporre, ma con il solo doveredi comprenderlo. Resta vero, ma in un senso oraabissalmente drammatico, che lo spirito è la naturainvisibile, e la natura è lo spirito visibile, nè vienemai veramente meno l'idea dell'hen kai pan, ma ora sottoil segno della malinconia. La simpatia dell'uomo con lanatura e con la vita in generale è mediata qui propriodalla malinconia, in quanto anche queste hanno al lorointerno qualcosa di inferiore e tuttavia diindipendente. La malinconia universale è ora il

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trascendentale della propria: malinconica è la naturaumana (come ora meglio vedremo), non meno di quanto losia la natura esterna, il cui linguaggio diventavieppiù incomprensibile, revocando la perspicuità dellaprima rivelazione (o libro della natura). Dio stesso,se è vita e persona, soffre e diviene in quanto sirealizza attraverso polarità oppositive. Troviamoovunque la medesima configurazione gnostica interna aduna prospettiva dinamica: negativo è lo sviluppotrattenuto, il presagire qualcosa di più elevatorestando costretti a vincoli inferiori, l'esistenzaeffettiva di qualcosa che come contraddizione ubiqua,invece «non dovrebbe» esistere. La regolarità dellanatura appare ora intorbidata dal cieco caso, dallainsopprimibile tenebra, come si evince da espressioninon si sa se più filosofiche o poetiche: «noi possiamolamentarci, ma la natura soffre in silenzio e puòcomunicare con noi solo mediante segni e gesti. Qualesilenziosa malinconia pervade molti fiori nella rugiadadel mattino e nell'impallidire dei colori verso sera»(IX 29). Non tanto dunque nei suoi tremendi fenomeni dipotenza o grandezza ma in ciò che in essa è più normalee apparentemente leggiadro (ad es. nel profumo deifiori) (ibid.) e tuttavia testimonia l'universale edinspiegabile caducità, si attesta la simpatiamalinconica tra uomo e mondo naturale. Il che è delresto inevitabile dato che stava all'uomo, nella sualibertà, elevarsi insieme all'intera natura mediantel'oblio dell'inferiore e la direzione al superiore: uncompito di trasfigurazione invece momentaneamentefallito, essendosi l'uomo voltato nostalgicamenteall'indietro (al mondo esteriore) (IX 32). Di quiun'utilissima indicazione: il male fisico e psichiconon sembra essere altro che una questione divettorialità e di punto di vista oltre che dipertinenza temporale, se è vero che, come Schelling ciricorda, «ogni grado, che conduce verso l'alto, èbuono, mentre lo stesso grado, raggiunto nel corso di

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una caduta, è tremendo» (IX 33). «Chi non vuoleavanzare, regredisce» (IX 36). Negativo e fonte di inguaribile depressione èlasciarsi irretire dallo spettacolo del passato. «Laterra intera è un'unica grande rovina, in cui glianimali soggiornano come dei fantasmi e gli uomini comedegli spettri, e in cui molte forze e tesori nascostisono come imprigionati da forze invisibili edall'incantesimo di un mago» (IX 33). Ogni cosa sembrain attesa della parola che salva e guarisce,riconvertendo la vettorialità pervertita. Il fuoco chenormalmente muove ogni cosa dall'interno, nel casodell'arretramento diventa solo «un fuoco di tormento edi angoscia, che cerca uno sfogo da ogni lato» (IX 33),e che solo una nuova formula magica, un nuovo«talismano», evidentemente a disposizione dell'uomo (IX35) - cosa di cui il cristiano Schelling non «poteva» aben vedere dubitare - può placare, liberando altresì leforze che, come si è detto, nella natura giaccionoancora «represse». Il male, nel sensoindistinguibilmente fisico e morale, è sviluppobloccato, potenza inespressa, «perversione positiva»(VII 366), presente nella natura come traccia ericordo, ma fortemente attizzabile dalla volontà umana.C'è salute solo ove la serie ascensiva animo-spirito-anima con le implicazioni sovrapersonali che essacomporta non sia interrotta, ove cioè tutto cospiri alcontatto col divino (che si ha appunto nell'anima). Lamalattia dell'animo - depressione, malinconia -scaturisce in ultima analisi dal dominio dellanostalgia sul sentimento, come ora chiariremo piùattentamente. 5. Tempo e Schwermut -- E' in fondo solo nel brevecapitolo antropologico delle Stuttgarter Privatvorlesungen(1810) che Schelling abbozza una teoria dellamalinconia. Dopo aver distinto analiticamente le trepotenze dell'uomo (animo o lato reale, spirito o mediotra reale e ideale, anima o lato ideale spiritualmentetrasfigurato) e ripartito le prime due a loro volta in

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tre potenze interne e tra loro nello stesso rapportoinstaurato dalle tre generali potenze antropologiche,Schelling può assegnare per la prima volta in modosufficientemente preciso un «posto» anche allamalinconia.Schwermuth designa, in questo contesto, la«manifestazione più profonda» della Sehnsucht e delpresagire, cioè di «quanto vi è di più oscuro e perciòdi più profondo nella natura umana [...] che è, percosì dire, la forza di gravità interiore dell'animo»(VII 465). Nella sistematica delle lezioni lamalinconia è quindi l'eventuale stasi della potenzareale (la prima: la nostalgia, cui seguono l'appetito eil sentimento) della potenza reale (la prima: l'animo),il suo appesantirsi (si è visto il nesso tra Schwermuthe Schwerkraft des Gemüths) in conformità alla tradizioneconsolidata, che vuole collegata alla malinconia comepensatezza interna la rappresentazione di spazi ostiliche riducono o impediscono del tutto il movimento. E',come si anticipava, la malinconia il luogo del piùstretto legame tra uomo e natura, giusta la leggegenerale secondo cui lo spirituale nell'uomo vale comecompimento del naturale: «E' particolarmente attraversodi essa che si dà la simpatia degli uomini con lanatura. Anche ciò che vi è di più profondo nella naturaè malinconia (Schwermuth); anch'essa si rattrista per unbene perduto, e su ogni vita pesa un'indistruttibilemalinconia, perché essa ha sotto di sé qualcosa diindipendente da sé (ciò che è sopra di sé innalza, ciòche sta sotto di sé tira in basso)» (VII 465-466). E'l'immagine, già biblica (Isaia 11,6, 25,7; Romani8,19sgg;) assai cara ai romantici, del velo dimalinconia che ricopre l'intera natura, ma anche (IsaiaI, 5) del cuore pesante. Ma a noi interessa ora soloesaminare la torsione speculativa che il concetto dimalinconia trova in Schelling. Notiamo, anzitutto, l'analogia, sul piano del Gemütmalinconico, tra il fattore reale (ipseità, egoismo)per cui Dio si richiude in se stesso e l'uomo tantochiuso in se stesso da essere chiamato «tetro» (VII438); in secondo luogo, come la malinconia universale

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vada riportata alla caduta dell'uomo, che avrebbe potutoessere l'unità della natura, ciò che la preservadall'incessante conflitto che la scuote e che sfocia inspecie nell'insuperbirsi dell'inorganico (VII 466):avendo estrinsecato ciò che doveva restare solofondamento e avendo per ciò stesso diffusouniversalmente un elemento di mortale disgregazionedella coscienza, l'uomo (scegliamo a questo propositodapprima una pagina della tarda Philosophie der Offenbarung)ha generato

«questo mondo esterno e lacerato, che cioè non trova in nessunacoscienza presente o contenuta in se stesso un interno puntod'unità, e che, una volta venuta a mancare quell'interiorità a cuidoveva pervenire, è ora completamente abbandonato a un'assolutaesteriorità, nella quale il singolo ha perduto la sua posizione dimomento per apparire quindi solo accidentale e privo di senso.[...] Ponendo sé al posto di Dio, ha risvegliato nuovamente quelprincipio, [...] ha posto il mondo fuori di Dio, e quindipropriamente usurpato il mondo», un mondo che «in discordia con sestesso [...] ripete sempre solo se stesso in una tristeuniformità».

Ed ecco che ritorna, accanto alla maledizione della«ruota delle nascite», l'immagine del velo: «con questacatastrofe è stato gettato un velo su tutta lacreazione» (XIII 352), così che la terra in generale, enon solo - si potrebbe dire - le creaturetradizionalmente «saturnine», «non offre nient'altroche un orribile spettacolo di disgregazione organica»(VIII 17). Si tratta di quello stesso «velo ditristezza (Schwermuth) che si stende sulla naturaintera» quasi fosse una maledizione in attesa di unaformula magica trasfiguratrice, quella «profonda eindistruttibile malinconia (Melancholie) di ogni vita[...] tristezza (Traurigkeit) connessa ad ogni vitafinita», in quanto tale vita, a differenza di quantoaccade in Dio (che unisce a sé la Bedingung,subordinandosela), «non ha mai in suo potere lacondizione [...]; essa gli è data solo in prestito macome da lui indipendente» (VII 399).

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L'essere - come recita un'intensa pagina dellaDarstellung des philosophischen Empirismus (1836) - proprio inquanto relativamente non-essente e ineffettuale neiconfronti di Dio (in quanto è un «godere veramentedell'essere solo nel non-essere»; X 267), è «lasciatoin balia del divenire», consolato solo dalla promessadi farsi libero e consapevole, di «giungere alla gioiaattraverso il dolore e alla beatitudine attraverso lasofferenza. E' certamente una via di dolore(Schmerzensweg) che quell'essenza percorre [...]quell'essenza che vive nella natura e cheattraversandola la accantona, come testimonia ilmarchio di dolore impresso sul volto dell'intera naturae sul viso degli animali» (X 266). Di qui il malheur del'existence di cui parla d'Alembert (ma anche la sapienzaindiana) e che per Schelling va, in ultima analisi,ascritto a qualsiasi creatura non ancora giunta a«fondere la duplice gioia dell'essere e del non-essere»(X 267); un male dell'esistenza a cui la gettatezzaumana è del tutto rimessa, come una debolezza e unabrama che dev'essere consumata, «bruciata» nelladirezione verticale del Geist. La filosofia cerca laliberazione da questa infelicità esistenziale, daquesta tristezza e malinconia universale(indifferentemente: Schmerz,Unseligkeit, Unglück des Seins,Trauer, Schwermuth), laddove l'arte, in specie laplastica antica, ne nobilitava l'indiscutibile presenzanelle sue creazioni, pur senza mai scadere mai nel«triviale sentimentalismo» (X 268), anzi, sacralizzandoin tal modo la propria bellezza (XIII 512). Lo spiritoellenico, in particolare, si mostra profondamentepermeato da un «tratto profondamente tragico», da un«segreto dolore», ossia dalla coscienza, dovuta allapeculiare posizione di transizione tra una religionesensibile ed una spirituale futura, che «tutto questosplendore un giorno si dissolverà, che tutto questo belmondo dell'apparenza in avvenire sprofonderà e faràposto ad una chiarezza superiore e non ingannatrice».E' questa coscienza che «spiega quella malinconia(Schwermuth) che pervade quasi fosse un dolce veleno le

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opere più eccellenti degli Elleni, in specie quelledell'arte figurativa, nelle quali addirittura lamassima grazia e vitalità pare essere permeata daldolore dell'insuperabile finitezza della sua esistenzae sembra compiangere silenziosamente la propriacaducità» (XIII 511-512). La malinconia è e resta per Schelling una malattiadella fatticità umana e naturale, dal momento che«sebbene vi sia anche in Dio una condizione perlomenorelativamente indipendente, e quindi vi sia in luistesso una sorgente di tristezza, questa non giunge maia realizzarsi, ma serve soltanto all'eterna gioia deltrionfo (Überwindung)» (VII 399). Si noterà come lamalinconia, in tutti questi passi che andiamodisordinatamente citando, sia rinviata con maggioreinsistenza alla sfera pre-personale e pre-conscia (cioèprespirituale) dell'uomo, quindi ad un ambito, quelloche si potrebbe chiamare delle «perversioni naturali»,che è relativamente innocente, dal momento che il malefa la sua comparsa non a livello dell'animo né delcorpo ma soltanto con la seconda potenza, ossia con lospirito. Mentre è impossibile che l'anima, potenzaimpersonale-divina, si ammali, l'animo e lo spiritosono esposti a questa eventualità, vale a dire allapossibilità che la Folge delle potenze sia interrotta:«la salute dell'animo e dello spirito deriva dal fattoche questa serie sia ininterrotta, che ci sia, per cosìdire, una linea continua che va dall'anima fino allaparte più profonda dell'animo» (VII 469). In questoquadro, se la stupidità è l'interruzione della serie alivello dell'intelletto e la follia l'interruzione delpassaggio intelletto-anima, la malinconia consisterà,all'interno dell'animo, nella vittoria - patologica -della Sehnsucht sul sentimento o, che è lo stesso,nell'interruzione della serie a livello del sentimento(VII 469), laddove il giusto rapporto di subordinazionedi nostalgia e forza egoistica rispetto all'anima siconsacra invece nell'arte (VII 471), evidentemente,però e come s'è già visto, a sua volta sempreminacciata dalla degenerazione malinconica.

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Laddove l'«amore» pone termine al passato eall'eventuale malinconia che la sua abissalità generain noi, proiettandoci in avanti, laSehnsucht «rimanestabilmente attaccata al passato, è struggimento perl'iniziale essere tutt'uno e difetto d'amore fattivo»(WA I 85), e proprio per questo non permette a ciò cheesiste alcun vero compimento e superamento di sé, maanzi lo induce a quel processo circolare (Rad der Natur oRad der Geburt; cfr. ad es. VIII 230-231) che vive delcostante sfuggire di ciò che si cerca e che già, nelriferimento scritturale (Giacomo 3,6), era un leitmotivdella linea Böhme-Oetinger. Proprio a causa del suodesiderio (inautentico in quanto preliminare ad unadecisione-divisione fra le tre estasi temporali) l'uomofinisce infatti per annientare proprio quanto desidera(IX 235), ricadendo su di sé e su quella rotazione chesimboleggia (esemplarmente in Crono che divora i proprifigli) appunto la temporalità alienata e l'assenza diun vero inizio. Una patologia che - se ne deduce -minaccia anche lo spirito, in quanto «fiamma» che cercala propria materia (VII 466), e che si articolariflessivamente-egoisticamente come ricerca di séanziché, come vuole l'impersonalità della Seele,concedersi come amore. Pervertimento, inversione, interruzione della«normale» Potenzierung attraverso cui la volontà comeessere originario diviene Verstand (VII 350, 385; X 289,325, 385; XIII 300): questo è per Schelling lamalinconia, secondo un meccanismo che si può constatarein qualsiasi patologia e che consiste nell'indebitoattualizzarsi di un fondamento, nel perverso farsiessente di una Basis (oGrund o Natur); una base che,ancorché necessaria come luogo di manifestazione excontrario del polo opposto e superiore e dunque comefunzione dinamica, dovrebbe però restare relativamentenon-essente, non dovrebbe mai - cosa che Schellingesplicita a proposito della follia come basedell'intelletto (intelletto=follia regolata) - «venirealla ribalta» (VII 470), ma restare indietro come uncaput mortuum, così come in Dio il Grund non coincide mai

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effettivamente con Dio «assolutamente considerato» (VII357). Che in ogni sfera dell'essere sia peccato emalattia volgersi all'indietro trasformando così inessoterico ciò che deve rimanere esoterico, a meno chenon si tratti di un arretrare per meglio proseguire eper meglio vincere l'elemento contrastante (principiumluctae), è qualcosa che Schelling non si stanca diripetere: «qualsiasi regresso, fatta eccezione perquello che si realizza col progredire, è rovina edecadenza» (VIII 4) - un principio che, debitamenteriportato alla personalità del suo autore, spiegaalmeno in parte e forse più dell'indolenza, dellasbadataggine e dell'esclusiva attenzione teoretica alproprio presente malignamente diagnosticati da Jaspers,i repentini mutamenti del suo percorso filosofico.L'intero processo di Selbstoffenbarung di Dio ripete,ampliate, le tappe del mistero eleusino, tra ilrinchiudersi di Proserpina e il fuoriuscire di Jacco:«ogni dolore deriva solo dall'essere, e siccome tuttociò che vive deve prima rinchiudersi nell'essere e poierompere dall'oscurità del medesimo trasfigurandosi(VIII 335). Ma se l'arresto della Folge e il venir meno delladirezionalità temporale, nonché il mancato «prodursi»di un vero passato nell'uomo «che non è in grado diopporsi il proprio passato» (WA I 11), di aprirsiautenticamente al presente in modo da rendere veramentepassato quanto ha superato dentro di sé (VIII 259),genera la malinconia come nostalgia retrospettivaindotta dall'inibizione rotatoria, la suaradicalizzazione, nel segno della piena perdita di sestessi per quell'eccesso di retrospettività chedissolve persino l'elemento concreto in cui ci sidovrebbe perdere, va sotto il nome di «angoscia»(Angst). Il velo malinconico diviene qui un più asprovelo d'angoscia e di depressione: «tutto ciò chediviene può divenire solo nella depressione (Unmuth), ecosì come l'angoscia è il sentimento fondamentale[Grundempfindung=sentimento del fondamento?] di ognicreatura vivente, così tutto ciò che ha vita è

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concepito e generato solo nell'asprezza del conflitto[...] nella più violenta opposizione delle forze» (VIII322). Sbaglierebbe, inoltre, chi attribuisse questadepressione unicamente agli organismi, dato che «nonsono i prodotti della natura inorganica per la maggiorparte evidentemente figli dell'angoscia, del terrore,della disperazione persino?» (VIII 322). Veniamo alle conclusioni. Su ogni cosa che non siautotrascenda, nel senso della Potenzierung edell'interruzione direzionale del ruotare ossessivointorno al proprio asse, incombe dunque la depressione,che non è altro che l'indugiare su di un proprio séancora inautentico, il non «bruciare» le passioni invista della nascita della potenza superiore dellospirito. La volontà è sempre Urseyn, ma in quantotessuto del reale è ormai volontà caduta, irretita inun vortice che ha da tempo cessato di essereun'immagine positiva della simbolicità organica, peranticipare semmai gli angosciosi mulinelli di unBaudelaire o il Maelstrom di Poe. Una circolarità,indotta da un mancato farsi-passato, che Schellingstesso sperimenta dolorosamente su di sé e chesintetizza in una frase che varrebbe la pena dimeditare più a fondo, e che per certi versi costituireil punto di partenza di una più approfondita ricerca:«Il sentimento è una cosa magnifica quando rimane sulfondo e non invece quando viene alla luce, quando vuoletrasformarsi in un essere e dominare» (VII 414). 6. Conclusione -- Mi pare degno di considerazione chequesta interpretazione teosofica della malinconia oipocondria, proseguendo sotto mutate spoglie lastigmatizzazione (con molta più fascinazione, però)cristiano-medievale dell'acedia, ne faccia qualcosa chesarebbe insensato classificare solo tra i disturbinevrotici individuali, almeno altrettanto insensatoquanto è oggi ritenere la depressione un dato clinicoaccidentale. L'ipocondria, che come si è vistoSchelling lamenta esplicitamente, era nel XVII e XVIIIsecolo piuttosto l'esperienza vissuta della crisi del

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tempo, la tematizzazione del proprio corpo e la pienaconsapevolezza dell'avvenuta lacerazione tra l'uomonella sua dimensione scientificizzata e tecnologica ela natura che lo circonda, in definitiva lamedicalizzazione dell'angoscia trascendentale per lapropria imperfezione fisica, la perdita dell'omologiacol trascendente - qualcosa cui non a caso da più partisi opponeva, non solo escatologicamente ma anche sulpiano della filosofia della natura, la Geistleiblichkeit, ilcorpo glorioso-spirituale anticipato nell'al di quacome più adeguata immagine di Dio. Anche in questo caso si manifesta la tradizionaledottrina della doppiezza della malinconia saturnina (eaggiungiamo noi: della depressione), senza la qualesarebbe imposibile comprendere l'affinità elettiva,riconosciuta sin dai tempi di Aristotele, di malinconiae filosofia: Empedocle, Socrate e Platone appaiono giàad Aristotele tipiche figure malinconiche nelle quali idettagli patologici si trasfigurano, reinterpretati apartire dalla tipologia dell'eroico (il filosofo,pertanto, come eroe dell'essere umano), in connotatiesistenziali, in un vero e proprio ethos,contraddistinto dal fatto che nel filosofo diventapermanente lo squilibrio negli altri solo occasionale;il filosofo malinconico è, inoltre, perennementeaccompagnato dalla «notte» nel senso che, come in unsogno diurno, egli vede il non-presente, si senteindotto ad indagare la totalità dell'essere ed elevarea tale altezza l'intero genere umano, è insomma sempreaccompagnato dalla minaccia della notte/nulla (ivicompreso il fallimento di quella pretesa di totalità).Il filosofo come essere del limite, consapevole delsempre possibile rovesciarsi del tutto nel nulla, el'ironia che ne potrebbe derivare (derivazionestoricamente attestabile in ogni scetticismo sino al«pensiero debole») non è che l'altro voltodell'impotenza malinconica. Ma ciò ci porterebbe molto più lontano,all'intricata questione dei rapporti tra filosofia emalinconia. Quel che ci premeva mostrare nell'abbozzata

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contrapposizione tipologica tra l'angoscia di Heideggere la malinconia di Schelling è che, se il primo hariportato l'angoscia dalla psicologia all'ontologia,già ben prima di lui Schelling aveva riportato latristezza e la depressione, la malinconia el'ipocondria alla loro adeguata condizionetrascendentale, vale a dire alla strutturacosmoteandrica per potenze o età del mondo. Il chesupera anche il subdolo tentativo (anche in certamisura heideggeriano) tutto ancora antropocentrico diesaltare comunque l'umano attaverso il riconoscimentodella sua originaria condizione di angoscia, edischiude lo sguardo dello studioso della malinconiasull'essere in generale piuttosto che esclusivamentesull'essere dell'esserci. In gioco è, in fondo anche inSchelling, sempre la doppia faccia di Saturno, ilcosiddetto Grande Malefico: fonte di stupidità o diintelligenza, di inerzia o di genialità creativa, diinibizione o di profondità speculativa. Ancora unavolta una questione di vettorialità, il che però svelapiù che mai l'ossessione tutta moderna per lalinearità, il suo assurgere a farmaco universale; maall'o/o di una certa tradizione saturnina basta opporneun'altra - in un certo senso antimoderna -, eprecisamente quella del sia/sia. In termini ancheiconografici: laddove il complesso saturnino attesta lareazione di rifiuto a perdere ciò cui ci si èaggrappati nel corso della vita (il che riflette ilcannibalismo di Saturno/Cronos che divora i suoifigli), la falce che tradionalmente Saturno porta consé non può non indicare, accanto alla fecondità eall'acquisizione del grano (oro alchemico?),l'inevitabile porre termine ai periodi della propriavita, la capacità del distacco e della separazione daciò che ci perseguita. La malinconia-depressione cipare dunque un fulgido esempio dell'universale polaritào ambiguità dell'essere che costituisce probabilmenteil fulcro di molta filosofia della natura dell'etàromantica, per cui qualcosa è così ma anche eindissociabilmente in altro modo, e tutto sta nell'impedire

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a qualcosa di erompere, di trasformarsi da sfondo atema, di passare dalla circonferenza al centro. E sepoi quest'indicazione urtasse l'ansia disvelatrice eonnirazionalizzante da cui siamo come posseduti, serappresentasse qualcosa di eversivo rispettoall'urgenza di riconoscere dei diritti (di espressione,di manifestazione) anche a quanto di più oscuro eirrazionale si trova nel mondo, si potrebbe forserispondere non tanto con la teoria, quanto con l'ironiadi Cervantes - ironia, si badi bene, in fondonecessaria per quel malinconico ricorre che nonsopporti la fin troppo apologetica «dignità delladepressione» - quando fa dire a Sancho: «DistintoSignore, la tristezza non è fatta per le bestie bensìper gli uomini; soltanto quando gli uomini le vandietro oltre ogni misura diventano bestie».

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