252) E' sotto terra la tradizione di Bano. Archeologia e storia di un monastero femminile

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Timbro

Quaderni dell’Istituto di Storia della Cultura Materiale

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È sotto terra la tradizione di Bano

Archeologia e storia di un monastero femminile

a cura di

Enrico Giannichedda

con contributi di

Daniele Calcagno, Giorgio Casanova, Deneb T. Cesana, Alberto Crosetto, Giovanni Donato, Mauro Gaggero, Luca Gianazza, Enrico Giannichedda, Simone G. Lerma, Paola Piana Toniolo,

Valeria Polonio, Caterina Pittera, Gianni Repetto, Edilio Riccardini, Clara Sestilli

All’Insegna del Giglio

In copertina: Chiave in arenaria di portale ad arco con alcuni mattoni decorati.

ISSN 2039-0688ISBN 978-88-7814-559-7© 2012 All’Insegna del Giglio s.a.s.Stampato a Firenze nel novembre 2012Tipografia Nuova Grafica Fiorentina

Referenze fotografiche:Le carte del fondo d’Andrade sono di proprietà di GAM – Galleria d’Arte Moderna Torino, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, fondo d’Andrade (Aschieri 1980, scansioni da negativo b/n) (autorizzazione 6 novembre 2012). Le immagini del contributo di G. Casanova sono di proprietà dell’Archivio di Stato di Genova (autorizzazione n. 20/12, 7 agosto 2012).

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Presentazione

Gli esiti degli scavi archeologici di Bano, sulle propaggini del Monte Colma, tra Tagliolo e Lerma, hanno reso il giusto merito a chi ha da sempre sostenuto il grande valore storico e di memoria che la nostra montagna, “povera e di confine”, racchiude nel proprio grembo.

Grazie agli scavi effettuati da gruppi di studenti volontari di varie Università, sotto la dire-zione scientifica di Enrico Giannichedda, sono stati portati alla luce i resti dell’antico monastero cistercense di Bano, risalente al XII secolo e testimonianza di una parte importante della storia del nostro territorio. Nella struttura religiosa passarono parte della loro vita, specialmente nel corso del XIII secolo, monache appartenenti a famiglie nobiliari o importanti del genovesato. Attorno alle religiose ruotava un universo variegato, composto da conversi, laici, contadini salariati impegnati a lavorare le proprietà fondiarie del cenobio.

Scoprire ciò che è avvenuto nel passato significa valorizzare il presente, dargli un lustro diverso, significa far parlare luoghi e cose. La conoscenza della nostra storia locale, oltre a con-tribuire in modo importante al rispetto per l’ambiente e alla formazione dell’identità, ci rimanda ad una dimensione più ampia della civiltà e produce la consapevolezza di come strutture o eventi più generali si riflettano su di una comunità.

Un grande plauso all’Associazione Amici della Colma che ha sostenuto con intelligente caparbietà il programma di scavi, a partire dalla proposta, per proseguire poi con l’accordo che ha coinvolto l’Associazione stessa con l’Ente Parco, la Comunità Montana e il Comune di Tagliolo Monferrato.

Il desiderio di conoscenza, la passione per l’approfondimento e l’aspirazione alla corretta divulgazione degli eventi che hanno caratterizzato la nostra storia, sono stati i fattori dominanti di tutte le varie fasi di studio: pianificazione, programmazione delle opere, realizzazione degli scavi e diffusione dei risultati, così come la successiva proposta di restauro e conservazione, messi in atto sotto l’abile regia di Clara Sestilli, Edilio Riccardini, Marco Gaglione e con il contributo di Gianni Repetto, Alessandro Laguzzi e Sereno Tassistro. Fondamentali sono stati anche la sensibile disponibilità dei proprietari del sito, sigg.ri Gaggero e la straordinaria competenza, partecipazione e paziente disponibilità di Enrico Giannichedda.

Questo volume vuole rappresentare una preziosa sintesi di tutti questi elementi e si evidenzia come un importante tassello per gli esperti del settore, ma anche per tutti quanti si appassionano al nostro territorio e, in genere, allo studio dei percorsi e dei luoghi di Fede in una terra di particolare interesse storico e naturalistico.

Serena GarbarinoAssessore alla cultura

Franca RepettoSindaco di Tagliolo Monferrato

Il sito archeologico di Bano, per le sue peculiarità storico-culturali, riveste un’importanza centrale nel territorio del Parco naturale delle Capanne di Marcarolo, pur essendo ubicato ai margini nord-occidentali dell’Area protetta.

Basti ricordare le origini di tale struttura: attestata per la prima volta nel 1203, come monastero femminile, conobbe il suo periodo migliore sul finire del XIII secolo, quando era popolata da suore che provenivano dalle più potenti famiglie genovesi del tempo.

La necessità di attuare interventi di recupero e riqualificazione dell’area su cui sorgeva nei secoli XIII-XIV il monastero cistercense intitolato a “Santa Maria di Bano”, si è concretizzata per l’Ente Parco con la sottoscrizione dell’Accordo di programma con il Comune di Tagliolo Monferrato il 14 settembre 2002.

In questa data finisce un primo percorso, volto a definire i contenuti e gli attori dell’Ac-cordo operativo, e ne inizia un altro, più ambizioso e impegnativo, per ridare lustro alle vestigia dell’antico monastero.

L’Accordo è servito, inoltre, all’Ente Parco per reperire dalla Regione Piemonte importanti fondi e risorse economiche necessarie ad attuare parte del progetto.

Molto lavoro è stato fatto: indagini, sondaggi, scavi, studi, analisi, riflessioni e pubblica-zioni. Sono stati rinvenuti interessanti reperti, che speriamo possano un giorno essere ammirati in loco contribuendo alla valorizzazione di questa parte di Appennino piemontese.

Per tali ragioni vanno sostenuti tutti gli sforzi volti al raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo: il recupero e la riqualificazione del sito.

In questa ottica la pubblicazione che abbiamo tra le mani è benvenuta, è un importante traguardo, intermedio però, non di arrivo, che fa il punto sulle esperienze e sulle nozioni fin qui acquisite durante gli anni di ricerca e le diverse campagne di scavo.

Andrea De GiovanniDirettore del Parco naturale delle Capanne di Marcarolo

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“È tutta sotto terra la tradizione di Bano”Carlin Ravera, classe 1911 (da Sestilli 2000, p. 35)

Introduzione

Della passata esistenza di un monastero sul Monte Colma, in località Bano in comune di Tagliolo Monferrato, non è stata mai persa la memoria nonostante l’abbandono in età medie-vale. A ricordarlo erano i ruderi affioranti, per i dotti anche alcuni documenti d’archivio e, più in generale, a partire dall’Ottocento, i numerosi cenni in opere storiche locali e in più ampie sintesi relative alla diffusione dei monasteri medievali nell’Appennino Ligure Piemontese. Oltre a ciò, nel corso dei secoli, la memoria storica riferita a un luogo di culto abbandonato è stata mantenuta viva per la particolarità della Colma. Una montagna che ha fatto da confine fra gli insediamenti della valle Stura, che storicamente sono da sempre stati nell’orbita genovese, e la bassa val d’Orba rivolta verso la pianura alessandrina. Il carattere dei luoghi, la loro stessa ricono-sciuta particolarità, in un contesto che geomorfologicamente non la giustificherebbe perché simili montagne appenniniche si hanno tutto intorno, è stata alimentata, dal monastero, dal persistere del suo ricordo più o meno travisato, e a cui si sono aggiunti i resoconti di altre vicende storiche più recenti. In tal modo, la Colma è diventato, per molti, un luogo con un’aura particolare1.

Oggi i ruderi riferibili al monastero medievale di Santa Maria di Bano si trovano in una zona divenuta di rilevante interesse naturalistico. Per questo motivo da più anni è in corso di elaborazione un progetto che prevede di rendere fruibile l’area del monastero inserendola in un percorso di visita e dotandola dei necessari supporti informativi. Per tale motivo l’Istituto di Storia della Cultura Materiale di Genova (ISCuM), nel 2000, su sollecitazione dell’associazione Amici della Colma e supportato dal Comune di Tagliolo Monferrato e dall’Ente di Gestione del Parco delle Capanne di Marcarolo, ha ritenuto di avviare un’indagine, il cui primo passo è stato volto alla valutazione del potenziale archeologico del sito.

A tale proposito, si deve ricordare che l’importanza del monastero di Bano era già stata richiamata all’attenzione di storici, amministratori e popolazione, in una mostra documentaria dal titolo Ruderi silenziosi, testimonianze eloquenti: Albarola, Bano, Benedicta. Percorsi di ricerca ed ipotesi di conservazione organizzata a Tagliolo M. nel settembre 1999 grazie al concorso di molte persone raccolte intorno agli Amici della Colma (Pistarino, Riccardini 2000). Anche a seguito di tale iniziativa, la ricognizione delle fonti documentarie ha confermato l’esistenza nel sito di un importante monastero femminile ricordato, per la prima volta, nel 1203 ed intitolato a Santa Maria di Bano. Un monastero che conobbe il suo periodo migliore nel XIII secolo quando era popolato da oltre quaranta monache di cui alcune appartenenti alle potenti famiglie genovesi Spinola, de Mari, Lercari, Di Negro, della Volta. Nel corso del XV secolo, similmente ad altre istituzioni monastiche dell’area appenninica, il complesso soffrì una crisi profonda che portò le suore a trasferirsi a Genova e nel 1469 il monastero fu definitivamente abbandonato. Nella stessa area le fonti successive ricordano un’azienda agricola gestita dagli Spinola di Lerma.

Per quanto attiene, invece, alla sopravvivenza in loco di resti di natura archeologica, in molti scritti, più avanti citati, si riportava la notizia del rinvenimento di reperti. E fin da una prima ricognizione era evidente l’affiorare, in almeno parte del sito, di strutture murarie non

1 Nel presente contributo in più punti si sottolineerà che si parla di un territorio di confine e, al proposito, non è casuale che un convegno storico organizzato nel 2006 da Paola Piana Toniolo (2007) si intitolava proprio Tagliolo e dintorni nei secoli. Uomini ed istituzioni in una terra di confine.

riconducibili a cascine di età moderna, ma neppure databili con semplici osservazioni di super-ficie. Forte era, difatti, la possibilità che su murature e fondazioni medievali vi fossero riprese da attribuire a periodi distinti. In realtà, tutte le strutture murarie identificate a Bano sono poi risultate pienamente medievali e, fin dall’avvio degli studi, le ricognizioni hanno confermato il potenziale del sito, la cui conformazione faceva presumere l’esistenza di stratificazioni in posto riconducibili alla vita nel monastero. Inoltre, grazie anche a fonti orali, era evidente il pericolo che si perdessero materiali e informazioni a seguito dell’affioramento non controllato di reperti e strutture, in coincidenza con piccoli movimenti franosi, crolli, lavori forestali e di manutenzione delle strade vicinali, veri e propri scassi attuati da clandestini.

A quel punto, l’intelligente azione di stimolo condotta dagli Amici della Colma, in partico-lare dai coniugi Franco Caneva e Anna Maria Pratolongo, unita alla positiva valutazione del sito, portava all’elaborazione di un progetto di ricerca con basi relativamente solide. In primis, lo scavo archeologico non era pensato fine a se stesso, ma mirato a un progetto di recupero, già patrocinato dagli Enti locali, nell’ambito di un parco naturalistico al cui interno era possibile collocare l’in-dagine conoscitiva e la valorizzazione delle testimonianze archeologiche e storiche. Dal punto di vista storiografico era inoltre di grande interesse poter indagare, per la prima volta, un sito le cui vicende apparivano per molti aspetti esemplari e, in parte, simili ad altre note dalle fonti, ma di cui all’epoca difettava, almeno nello specifico ambito territoriale, qualsiasi informazione di natura archeologica raccolta con metodo e pertinente alla reale consistenza delle strutture insediative, al loro utilizzo, allo sfruttamento delle risorse, alla produzione artigianale e all’inserimento del monastero nei coevi circuiti commerciali. Infine, dal punto di vista metodologico, l’intervento era giustificato dal ritenere che, senza attività di scavo, sarebbe stato impossibile giungere, non solo alle informazioni sopra menzionate, ma perfino alla datazione delle strutture affioranti.

I risultati dello scavo possono essere riassunti con poche affermazioni e saranno comunque ripresi, più ampiamente, nelle Conclusioni, dopo avere analiticamente presentato i dati raccolti sul campo. Il più importante risultato è l’individuazione di più edifici pertinenti al monastero medievale e interpretabili in un caso come refettorio con cucina e negli altri come ambienti d’uso. Fra questi edifici si trovava un cortile con funzione di chiostro avente, sul lato del refettorio, un porticato e una vasca per l’acqua. Il tutto realizzato con pietre locali, mattoni cotti sul posto e usati per contornare porte e finestre ma anche per realizzare colonne sormontate da capitelli d’arenaria. L’edificazione di questa parte del complesso è risultata databile a fine Duecento e l’abbandono va collocato nella prima metà del XV secolo. Successivamente, l’area non fu più abitata e un importante dissesto del versante modificò la conformazione dei luoghi. Nulla invece si può dire relativamente alle zone non scavate dove trovavano posto altri edifici monastici, la chiesa, il sepolcreto. L’intero complesso era chiuso da un muro di recinzione alto quasi quattro metri e conservato in lunghezza per circa 150 m.

I manufatti raccolti, oltre a datare il periodo d’uso del sito ed escludere frequentazioni posteriori informano di una dotazione materiale di pregio: ceramiche d’importazione, non solo da Liguria e Toscana, ma dall’intero Mediterraneo, un gran numero di bicchieri di vetro, coltelli con decoro in argento forse prodotti in Francia. Molte, però, le ceramiche con graffite le iniziali dei nomi delle monache e altrettante quelle con fori di riparazione. Le prime, ad indiziare l’intenzione di “segnare” come proprie quelle stoviglie che la vita monastica obbligava a conservare in spazi comuni; i fori di riparazione, invece, a comprovare le difficoltà di approvvigionarsi sul mercato di stoviglie nuove. Altri reperti, fra cui pochi ma significativi oggetti metallici, informano di attività quotidiane (dalla macellazione di animali al vestire), di pratiche artigianali (filatura, lavorazione della pietra) e agricole (di cui sono prova zappe e, forse, pianelle usate per ferrare i bovini impegnati nel lavoro dei campi).

I manufatti architettonici informano invece di un legame con altre aree in cui il cotto decorato era maggiormente diffuso e con Genova da cui giungeva il sapere caratteristico delle

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maestranze impegnate nei grandi cantieri urbani. Forse ancora più importante di alcune pietre scolpite, fra cui una chiave d’arco e un’epigrafe, è però avere accertato che il monastero era “bian-co”, e non solo perché questo era il colore degli abiti delle monache, ma perché completamente ricoperto da un intonaco biancastro. Infine, avere riconosciuto l’organizzazione degli spazi, i caratteri degli edifici e le associazioni di materiali in uso ha avuto come risultato di riportare Bano a un po’ del suo splendore. Restituendogli un po’ di storia e attribuendogli un ruolo significativo fra i siti che, nell’Appennino ligure piemontese, sono di particolare importanza archeologica.

Nel presente volume, oltre alla relazione di scavo, alla discussione dei reperti e al tenta-tivo di dare valore storico ai dati ricavati dallo studio della stratificazione, delle strutture e di manufatti ed ecofatti (carboni e ossa animali), si è dato spazio ad altri contributi che aiutano a contestualizzare al meglio le informazioni provenienti dallo scavo e dallo studio dei reperti. Ai saggi di numerosi specialisti si sono, però, anteposti anche i Punti di vista di persone che, a vario titolo, hanno contribuito a questo lavoro o lo hanno reso possibile. Si tratta di scritti brevi, ricchi di suggestioni e opinioni ma non per questo meno importanti. Scritti che, in qualche misura, hanno a che fare con la politica dei beni culturali.

Fra i saggi che arricchiscono il volume, il contributo di Valeria Polonio ha il pregio di collocare il monastero di Bano nel suo tempo, con particolare attenzione alle motivazioni che sospinsero verso l’esperienza monastica. L’effervescenza di fondazioni del XII secolo è quindi vista come con-seguenza di una fede che si concretizzava, inizialmente in modo spontaneistico, nella caritas verso i bisognosi ed era sorretta dall’atteggiamento sensibile di molti laici. Per reggere alle difficoltà le comunità spontanee si fecero poi monastero e nell’area alle spalle di Genova il monachesimo cister-cense femminile divenne eccezionalmente importante almeno fine agli ultimi decenni del Trecento.

Edilio Riccardini, in due contributi particolarmente corposi, rilegge le fonti sgombrando il campo da ipotesi ormai insostenibili per riconoscere che, pur dovendosi tenere conto dell’azione degli ambienti signorili rurali, la fondazione del monastero dipese sostanzialmente da Genova e dalla sua politica di espansione nell’oltregiogo. Il ruolo attivo del monastero nelle vicende locali è inoltre ben reso dal richiamare contratti e lasciti testamentari che, per quanto già noti, sono, soprattutto per il XIII secolo, utili prove di vitalità economica.

Paola Piana Toniolo affronta invece un periodo in cui il monachesimo femminile era meno apprezzato e le monache di Bano dovettero affrontare problemi di varia natura: economici, di sicurezza, logistici. Successivamente all’abbandono, le visite pastorali raccontano non più di un monastero, ma di una chiesa in cui saltuariamente si celebrava la Messa e di cascine private. Giovanni Donato contestualizza invece i mattoni decorati rinvenuti a Bano confrontandoli con quelli presenti in altri edifici medievali e accenna alle prassi edilizie consolidate nei monasteri cistercensi, al contemporaneo utilizzo di pietra e terracotta, al carattere urbano delle costruzioni.

Le carte topografiche conservate all’Archivio di Stato di Genova sono la fonte utilizzata da Giorgio Casanova per ricavarne toponimi, relazioni spaziali, caratteri del territorio naturale e antropizzato, così come era percepito dai topografi di età moderna. E qui si trovano Costa, Rile, Monte, Croce, Cassine, Colma, Argini, Vigna e, ovviamente, Monastero; tutti di Bano, ma soprattutto in alcune carte si può leggere, proprio alla luce delle ricerche archeologiche, quale era il percorso della cinta muraria e la divisione dell’antico complesso in due parti: quella poi fatta oggetto degli scavi e quella che nei secoli successivi all’abbandono è, invece, sempre stata abitata. Alberto Cro-setto, descrivendo gli scavi nell’hospitale trecentesco di S. Antonio di Ovada richiama l’attenzione sulla rete stradale medievale che convergeva in Ovada e sull’importanza dei luoghi di accoglienza distribuiti sul territorio. Infine, Daniele Calcagno propone un Regesto dei documenti che, almeno parzialmente, contribuisce a ricostruire l’archivio del monastero. Proprio a tale Regesto, organizzato cronologicamente, si fa implicito rinvio ogniqualvolta nel volume si accenna ai documenti medievali.

Ringraziamenti

Al termine di un lavoro condotto in un terreno privato, in regime di concessione mini-steriale, in un’area protetta, molti ringraziamenti sono dovuti e, alcuni, sono particolarmente sentiti. I primi da ringraziare sono ovviamente Mauro Gaggero, la moglie Jocelyne Guinchard, le figlie Enora e Maela, proprietari del terreno in cui abbiamo scavato. Hanno saputo, abitando un luogo denso di storia, guardare al futuro e pensare alla collettività, senza alcun tornaconto e con semplicità. Una tale generosità è merce rara e quindi, a loro, va il grazie più vivo.

Un grazie anche a chi ha vinto la mia ritrosia ad avventurarmi in un’impresa difficile che sapevo avrebbe contato su pochi mezzi: primi fra tutti gli Amici della Colma, Franco Caneva, Anna Maria Pratolongo, Edilio Riccardini, Clara Sestilli. A loro si deve il coinvol-gimento degli enti locali, dal Comune di Tagliolo all’Ente di gestione del Parco Capanne di Marcarolo. Un grazie all’on.le Lino Rava, sindaco quando abbiamo iniziato i lavori, a Franca Repetto, succedutagli alla guida del Comune, e a Serena Garbarino che ancora oggi operano, in una situazione economica oggettivamente difficile, per trovare una soluzione ai problemi di conservazione del sito e della memoria. Sostegno, non solo economico, oltre che dal Comune si è avuto, in modo particolare, dal Parco che, negli anni dello scavo, aveva come Presidente Gianni Repetto. Insieme a loro vanno però ricordati i dipendenti dei medesimi enti che han-no operato, spesso aldilà di quanto strettamente gli competeva, per facilitare in ogni modo il lavoro. Nell’impossibilità di ricordarli singolarmente, due nomi per tutti: Cristina Rossi e Sereno Tassistro.

Il lavoro di scavo ha potuto inizialmente avvalersi di una planimetria del sito predispo-sta dagli architetti Michele Dellaria e Dorino Massucco ed è stato successivamente portato a termine da studenti e laureati, in archeologia, architettura e storia, provenienti in gran parte dalle Università di Genova, Cattolica di Milano, Lecce. Nel dirigerli ho potuto contare sulla competenza, e l’amicizia, di Lucia Ferrari e Sonia Ghersi che ringrazio sapendo quanto è co-stato, ad entrambe, non poter prendere parte, per motivi personali, a questa pubblicazione. La descrizione dello scavo, tranne gli errori che restano a mio carico, è in gran parte frutto del loro lavoro sul campo.

Infine, un ringraziamento ai funzionari della Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte e del museo antichità egizie, Alberto Crosetto e Marica Venturino Gambari, che, nello svolgimento del proprio lavoro, oltre a garantire l’ovvio rispetto delle regole, sono stati di sostegno spingendo a guardare, aldilà dello scavo, verso una prospettiva di conservazione e valorizzazione. Ribadito il ringraziamento ai giovani archeologi impegnati sullo scavo, desidero ringraziare i molti specialisti che hanno collaborato alla riuscita del lavoro. Ricordo in particolare il Prof. Ermanno A. Arslan per le prime indicazioni sui tipi monetali rinvenuti, Giuseppina Bertolotto di Docilia snc per il restauro di importanti reperti, Chiara Davite per molti sug-gerimenti operativi, Paolo Ramagli per preziosi consigli sui tipi ceramici e, ovviamente, tutti coloro che studiando le fonti ed i materiali hanno consentito di ricostruire, almeno in parte, la storia del monastero di Bano e contestualizzarla nelle vicende più generali di cui fu partecipe.

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Punti di vista

Perché mettere un “pezzo” di proprietà privata a disposizione della ricerca?

Non credo ci siano ragioni universali, etiche o morali. Mia moglie ed io crediamo, ma temo siamo sempre in meno, che la Storia ci possa indicare le ragioni di cosa, ora, sta accadendo e ci indichi una prospettiva di ciò che ragionevolmente accadrà, come dire, in modo analitico, che quanti più punti abbiamo a disposizione per costruire una linea tanto più sarà attendibile la sua l’estrapolazione, cioè la funzione matematica che ci verrà disponibile.

Ciò che è scritto non è sempre la verità. Quello che leggiamo scritto oggi o tempo fa ne-cessita sempre di confronti e di oggettività che confermino i fatti descritti. Quanto più tempo è passato da un fatto, tanto è più difficile dire: – si è così. L’archeologia è un mezzo per confermare la presunta certezza di quanto scritto tempo fa.

Quando l’ex-sindaco di Tagliolo, on. Lino Rava, ci propose il progetto di Bano, non esi-tammo un attimo nel partecipare a questa avventura intellettuale. C’erano anche altre ragioni: abbiamo sentito questo invito come un dovere civile e un modestissimo contributo nello scrivere la storia. Bano ha regalato molto alla nostra famiglia, ma quello straordinario “spettacolo” di ragazze e ragazzi, chini, entusiasti, felici di quanto facevano, resterà sempre nel nostro cuore, molto più di ogni possibile rappresentazione teatrale perché non recitata, ma vissuta. Sicuramente gli scavi di Santa Maria di Banno resteranno anche nella loro memoria come ogni cosa fatta con entusiasmo.

Dopo tanto entusiasmo e piacere è triste constatare che per ragioni evidentemente econo-miche tutto si sia fermato. Mia moglie ed io sentiamo un complesso di colpa nel vedere quelle pavimentazioni, quella bella vasca, riportate alla luce dopo secoli, che si stanno distruggendo (gli aceri che crescono negli interstizi, i cinghiali, il gelo ecc.).

Rivedo quel pavimento appena ritornato al presente e Lucia che mi dice – Fermo! – con l’espressione di chi pensa – ma ti rendi conto che stai per camminare sul pavimento del convento: Scusa Lucia, hai ragione. Lucia se vedessi il tuo pavimento!

La crisi economica che stiamo attraversando sarà lunga e ci suggerisce di ricoprire quanto è tornato alla luce, ripristinando il prato antecedente gli scavi (tagliare l’erba, contenere l’avan-zamento del bosco sarà più facile ed economico). La bella e ricca terra di Bano potrà custodire le “pietre” di Santa Maria come ha fatto per secoli. Sicuramente l’accurato lavoro di Enrico Giannichedda e compagni permetterà in un futuro più favorevole la ripresa dei lavori di ricerca.

Rimangono certamente temi aperti: il degrado delle opere non protette dalla salutare terra di Bano e per cui sarebbe auspicabile un restauro di consolidamento; la degna collocazione dei ritrovamenti archeologici, che sia anche un riconoscimento a chi (persone ed istituzioni) ha collaborato al progetto.

Tanto lavoro e interesse su Bano possono essere vanificati; questo ha suggerito a Jocelyne (mia moglie) e a me un progetto certamente ambizioso, un Archivio di Bano e faccio appello a chi legge a partecipare. Un Archivio di Bano non a Bano. Questo progetto vuole essere la raccolta di scritti, testimonianze, foto, atti e “chi più ne ha più ne metta” su Bano dalle origini ad oggi, comprese naturalmente le testimonianze del periodo dell’occupazione. La forma finale dell’Archivio di Bano non è ancora definita. Probabilmente sarà su un supporto digitale o un sito internet, ma è ben accetto ogni genere di suggerimenti.

Credo che tutti noi dobbiamo un grazie a quanti hanno lavorato per Bano, da Francesco Gasparolo che nel 1912 ha richiamato l’interesse sul sito, e ne ha evidenziato il valore, fino ai miei più cari, quei fantastici ragazze e ragazzi che hanno scavato a Bano.

Mauro Gaggero

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Investire in cultura

Quando nel 2001 divenni presidente del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo trovai a bilancio un finanziamento che l’Amministrazione precedente aveva richiesto per un primo intervento sull’area archeologica di Bano. Ciò mi rallegrò perché voleva dire che chi aveva amministrato il Parco fino ad allora aveva ben chiaro quale doveva essere la funzione dell’Ente: salvaguardare il patrimonio naturalistico della nostra montagna, ma contemporane-amente recuperare e valorizzare l’esperienza antropica che l’aveva caratterizzata nei secoli, dai primi insediamenti in epoca medievale al più recente passato di sfruttamento rurale a cascine sparse a conduzione mezzadrile entrato in crisi e pressoché sparito nella seconda metà del secolo scorso. Che poi l’attenzione fosse stata rivolta a Bano e alla storia del suo monastero era ancora più encomiabile, perché non era facile neanche in quegli anni un po’ più “grassi” dimostrare attenzione verso qualcosa che non c’era più, ovvero di cui sopravvivevano poche vestigia oltre tutto in completa rovina. Che senso ha spendere soldi per riportare alla luce quattro pietre? Era questa una delle domande ricorrenti da parte di coloro che ritengono che la memoria sia colpevole, se non talora disonorevole, nostalgia e che perseguirla sia una perdita di tempo e di risorse. Ebbene, per fortuna gli Amministratori di allora non la pensavano così e ritennero opportuno finanziare una campagna di scavi archeologici che l’Amministrazione da me pre-sieduta reiterò anche negli anni successivi. Quale è stato il risultato? Credo che il risultato, al di là dello specifico archeologico che non sta a me giudicare, sia stato di duplice natura: da un lato le campagne di scavo protrattesi negli anni hanno consentito a decine di giovani aspiranti archeologi della nostra zona e anche “foresti” di interagire su un sito fino ad allora inesplorato, di affinare le proprie competenze e di confrontarsi sul campo tra di loro e con i responsabili scientifici del progetto, nonché di sentirsi protagonisti del recupero di una parte importante della memoria di un territorio; d’altro canto Bano, così come la Benedicta, è una delle chiavi di volta per comprendere la storia della colonizzazione della nostra montagna e avere un quadro più preciso della qualità dell’insediamento non poteva che migliorare la “lettura” di quel periodo storico e stimolare nuovi percorsi di ricerca.

Un esito, dunque, di carattere squisitamente storico-culturale, un importante contributo al rafforzamento di un’identità locale che sopravvive soltanto se si conoscono in modo sempre più approfondito le “emergenze” che l’hanno segnata. Un’acquisizione, tuttavia, assolutamente immateriale, priva di per sé di risvolti economici, e quindi che corre il rischio di essere messa in discussione in momenti, come quello che stiamo vivendo, in cui ciò che conta è fare cassa. Quante volte sentiamo ripetere da politici e amministratori di livello nazionale e locale che la cultura non rende! E che tristezza pensare di essere nelle mani di persone che non riescono a comprendere che è l’economia in generale che non rende se non ha dietro un progetto culturale degno di questo nome e se non ha il coraggio di indirizzare risorse per salvaguardare e incre-mentare ulteriormente la cultura di un paese. E questo vale ancora di più nei momenti di crisi, perché solo un popolo percorso da fermenti culturali è in grado di trovare le energie necessarie per superare solidaristicamente le difficoltà.

Spero, dunque, che il progetto Bano vada avanti, che gli Amministratori locali sappiano sacrificare altre voci di bilancio per continuare la ricerca e la valorizzazione dei suoi risultati, anche pratici, come luogo di visita fisica, turistico-culturale come si dice oggi, ben consapevoli che ciò che renderanno Bano e altre emergenze storiche del nostro territorio non sarà mai ascrivibile nel libro mastro di nessuna azienda, ma soltanto nella coscienza morale e civile di un popolo che voglia ancora chiamarsi tale.

Gianni Repetto

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Quale futuro per i manufatti antichi?

La pubblicazione di uno scavo, per quanto piccolo, costituisce un punto di arrivo e ob-bliga a fare il bilancio fra ciò che è stato investito e ciò che è ritornato. A Bano, lavorando con studenti e volontari sono stati spesi per vitto alloggio spese vive e rimborsi, meno di ventimila euro (quattro campagne). A fronte di queste uscite, si sono ottenuti diversi beni immateriali e materiali. Fra i primi, le conoscenze acquisite e messe in comune; fra i secondi le testimonian-ze di un monastero che non potranno più essere definite genericamente ruderi, ma refettorio, cortile, chiostro. Uno spazio che da privato è divenuto pubblico, da indefinito a definito. E, a caratterizzare quel contesto, anche beni materiali che nessuno poteva immaginare esistessero in tale quantità e qualità. Pietre lavorate, iscrizioni, vasellame, utensili.

Allo stato attuale, il sottoscritto è l’unico ad avere toccato con mano e considerato in quanto fonte di informazione, ogni reperto rinvenuto a Bano: dal coltello decorato in argento ai frammenti di ossa indeterminabili. E sono anche l’unico, o quasi, ad avere percorso ogni angolo del sito. Questo, ovviamente, non è un merito, ma è ciò che ogni archeologo deve fare per cercare di capire il senso storico di ciò che ha davanti. Non da solo ma con tutti i collaboratori possibili e sapendo, fatto importante, che licenziare una pubblicazione relativa allo scavo significa dare l’idea che il lavoro sia finito. Non è vero. Licenziare una pubblicazione significa condividere un’esperienza e attrezzarsi per altri compiti.

Proprio pensando al futuro necessita essere consapevoli che, nei prossimi venti o trenta anni, la politica nazionale mirerà alla riduzione del deficit di bilancio e, per quanto riguarda i beni culturali, le parole calde dell’estate 2012 (PIL, spread, spending review) significano che non ci saranno risorse per conservare un sito come Bano. Tantomeno per valorizzarlo nei modi caratteristici dei decenni passati: la definizione di un’area archeologica, percorsi di visita, un piccolo antiquarium. In una logica anche solo regionale Bano e i suoi reperti appaiono giusta-mente minori.

Nel prossimo futuro gli oggetti ritrovati a Bano, se non succede qualcosa, sono perciò destinati al chiuso di un magazzino e credo di non sbagliare sostenendo che nessuno di coloro che oggi sono interessati alle ricerche li rivedrà mai più. Forse a vedere la luce in qualche mostra temporanea saranno solo singoli oggetti, ma non a Tagliolo. Questo, lo dico per esperienza ma-turata altrove, è ciò che avviene quasi sempre. Eppure si potrebbe prendere atto della situazione storica che stiamo vivendo e decidere che, anche in assenza di un museo tradizionale, qualche decina di reperti è utile siano esposti, in ambito locale, per educare, incuriosire, istruire. Reperti che, sia chiaro, sono privi di un valore commerciale e che le moderne tecnologie garantirebbero anche se collocati nelle scuole, nel palazzo comunale o, addirittura, in una vetrina murata in una piazza del paese. Certamente non sono queste le situazioni ottimali per conservare, valorizzare e divulgare, ma sono sempre meglio di un magazzino. Questa è una soluzione che si potrebbe ricercare, qui e ora, sotto la guida degli organi competenti e applicando la stessa filosofia anche alla salvaguardia del sito. Ad esempio, ricoprendone gran parte e lasciando crescere l’erba, ma rendendolo comunque visitabile a chi si muova con rispetto del bosco, del paesaggio, delle testimonianze materiali. Oppure, si possono attendere tempi migliori che forse verranno, ma che probabilmente noi non faremo a tempo a vedere. E si noti un fatto: quando ho scritto di avere personalmente toccato con mano ogni singolo oggetto, il motivo era evidenziare che, se anche nutrissi un malsano e feticistico interesse per quegli oggetti, è stato ampiamente appagato. E, comunque, continuo a credere che i reperti, così come le statue nelle piazze e le epigrafi nei castelli, non possono essere sostituiti, per molti ovvi motivi, con copie, fotografie, pannelli.

Enrico Giannichedda

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Le leggende del Monte Colma

Negli anni Settanta iniziavo a conoscere il territorio dell’Ovadese e nella ricerca di notizie sui luoghi che mi apprestavo a visitare, mi avevano indirizzato alla Signora Marie Ighina, già collaboratrice della Sovrintendenza del Piemonte. La sua casa era in penombra, come avvolta dall’atmosfera silente di una biblioteca, e la voce della signora era ferma e sommessa mentre mi indicava pubblicazioni e raccolte. Scoprivo riviste come l’ovadese Urbs, A chervella di Ros-siglione, Novi Nostra, testi su Ovada e dintorni, e una rete di ricercatori, soprattutto genovesi, che studiavano questi territori a lungo soggetti alla Superba. Mi passavano nella mente e negli occhi le carovane che attraverso l’Appennino, per secoli, avevano portato olio, grano, vino, castagne, legname, nei continui scambi materiali e umani che avevano legato Genova e Ovada alla pianura piemontese e lombarda.

Negli anni Ottanta, sentendo i racconti dei vecchi abitanti del Monte Colma (i muntagné d’la furca), luogo dal quale ero partita per le esplorazioni, ho iniziato il percorso affascinante della scrittura sulla base della memoria orale: i muntagné d’la furca mi parlavano dei briganti “buoni” che rubavano per dare ai poveri, delle antiche miniere e della ricerca dell’oro del Piota, di fontane dell’acqua e dell’olio che scendevano dal Monte Colma al monastero di Bano, delle Badesse come regine, dei paradisi di caccia in quei luoghi ancora incontaminati, delle donne che – coltivatrici o operaie nelle industrie tessili di inizio Novecento – vivevano isolate nei bo-schi e in fabbriche che raggiungevano in una-due ore di cammino e dove rimanevano anche per quindici giorni di seguito. Per non parlare delle giovani aristocratiche o benestanti della società genovese che finivano in convento per volere paterno, teso a sistemare le figlie non primogenite e a dotarle di beni materiali a perenne memoria del nome di famiglia. Ascoltavo degli episodi di guerra sui monti e dell’incendio di Bano, della scoperta di sotterranei con un ossario: registravo tutto e poi ho riversato i loro discorsi in pubblicazioni che oggi scopro citate anche in questo volume. Mi aveva anche affascinato una bella mostra con antiche carte su Tagliolo, che aveva dato avvio a un rapporto più ampio con il territorio e i suoi abitanti.

Negli anni Novanta con un gruppo di amici abbiamo costituito l’Associazione Amici della Colma e il materiale delle interviste è confluito insieme a fotografie antiche e nuove in mostre, conferenze e libri. Nel 1997, con Emilo Podestà uno studioso di storia dell’entroterra ligure, abbiamo organizzato un convegno al Castello Pinelli Gentile, sul monastero di Bano, e abbiamo chiesto un intervento pubblico di salvaguardia. Da allora siamo riusciti a coinvolgere Comune, Provincia, Ente di Gestione del Parco Capanne di Marcarolo, Sovrintendenza Archeologica del Piemonte, archeologi, architetti, storici, uniti nel progetto di riportare alla luce ciò che era sepolto sotto terra. Sono stati fatti scavi, visite guidate ai resti, si è provveduto a catalogare e ricoverare in sedi protette gli oggetti rinvenuti, anche se provvisoriamente.

Sopra il terreno del monastero oggi volano alte le poiane e i nostri sogni di vedere accolti, progetti e opere che restituiscano, a noi tutti, questo bene comune del patrimonio storico.

Clara Sestilli Associazione Amici della Colma

Indice

Presentazioni, S. Garbarino, F. Repetto, A. De Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . 5

Introduzione, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Punti di vista

Perché mettere un “pezzo” di proprietà privata a disposizione della ricerca?, M. Gaggero . . 11 Investire in cultura, G. Repetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12 Quale futuro per i manufatti antichi?, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . 13 Le leggende del Monte Colma, C. Sestilli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14

Parte prima. Il contesto e le fonti

1. Un monastero tra i boschi dell’Appennino, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . 172. Una dinamica spiritualità. Laiche e monache tra Liguria e Piemonte, V. Polonio . . . . . 263. Santa Maria di Bano. Una rilettura delle fonti (prima metà XIII secolo), E. Riccardini . . . 384. Il culmine di una lunga parabola. Santa Maria di Bano verso la fine del XIII secolo, E. Riccardini .665. Qualche considerazione sulle terrecotte decorate di Bano, G. Donato . . . . . . . . . . 776. Bano: la lunga agonia, P. Piana Toniolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 817. Bano nella cartografia dei secoli XVII e XVIII, G. Casanova . . . . . . . . . . . . . 928. Sulla strada per Bano: l’hospitale trecentesco di S. Antonio di Ovada, A. Crosetto . . . . 979. Riflessioni preliminari a una ricostruzione del perduto archivio del monastero, D. Calcagno . 102

Tavole a colori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127

Parte seconda. Le evidenze archeologiche

1. Archeologia dei monasteri, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1472. Le strutture di Bano nelle fonti storiche, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . 1513. Lo scavo archeologico, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161 3.1 Prima del monastero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 3.2 Costruzione e vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 3.3 Gestione delle acque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190 3.4 Abbandono e dissesto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1984. I manufatti d’uso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 202 4.1 Vasellame ceramico, E. Giannichedda, C. Pittera . . . . . . . . . . . . . . 206 4.2 Contenitori in pietra, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 4.3 Vetri, S.G. Lerma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237

4.4 Metalli, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 4.5 Monete, L. Gianazza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 247 4.6 Fusaiole e piccoli reperti, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . 2505. Resti faunistici, D.T. Cesana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2526. Materiali architettonici, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257 6.1 Materiali lapidei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257 6.2 Laterizi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 6.3 Mattoni decorati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 260

Conclusioni, E. Giannichedda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 263

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277