2015 Fratture post-coloniali. L'indipendenza della Tunisia e il declino della comunità di origine...

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33 Fratture post-coloniali L’indipendenza della Tunisia e il declino della comunità di origine italiana Antonio M. Morone Nella storia di lungo periodo del Mediterraneo le dinamiche della guerra e del conflitto si sono combinate con quelle dello scambio e della convivenza; a queste si possono ricondurre le vicende di vita di chi lasciò, per le ragioni più diverse, la peni- sola italiana alla volta della Tunisia a partire dall’inizio del XIX secolo. Il contributo dell’emigrazione italiana alla storia del paese arabo non fu semplicemente legato al lavoro e al commercio, ma passò anche per i teatri, l’opera e la stampa. Chi partì per la Tunisia finì per rimanervi tutta la vita o fece la spola tra i due paesi sulla spinta di un’occupazione stagionale. L’emigrazione degli italiani favorì un complesso pro- cesso di meticciamento culturale, oltre che biologico, tra le due rive del Mediterraneo, nell’ambito di un più ampio ciclo migratorio che portò a trasferirsi nella Tunisia beylicale migliaia di francesi, maltesi, ebrei ashkenaziti, greci e russi. Ancor prima di innescare una serie di cambiamenti politici, economici e sociali, queste migrazioni mutarono la demografia del paese e in particolare di Tunisi, dove a metà dell’Otto- cento «i non-musulmani si potevano stimare in un terzo della popolazione, facendone per diversi caratteri una città cosmopolita» 1 . Furono poi le dinamiche coloniali e post- coloniali a complicare e, nel lungo periodo, a rivoluzionare quel percorso che aveva progressivamente radicato gli italiani in Tunisia, al pari di altri gruppi alloctoni di origine europea. La storia della comunità di origine italiana in Tunisia è stata oggetto di numerosi studi, che hanno indagato in modo specifico l’arco cronologico che va dall’inizio del XIX secolo fino alla Seconda guerra mondiale. Il progressivo declino della co- munità durante gli anni Cinquanta e Sessanta resta invece poco studiato. Il saggio si propone allora di analizzare le ragioni politiche e le dinamiche sociali che porta- rono alla drastica diminuzione dei residenti italiani in Tunisia, nel quadro dell’in- dipendenza nazionale e delle relazioni su piani differenti ma interconnessi della 1 H. Kazdaghli, Apports et place des communautés dans l’histoire de la Tunisie moderne et contemporaine, «Actes de l’histoire de l’immigration», 2001, 1, p. 6. ARGOMENTI Contemporanea / a. XVIII, n. 1, gennaio-marzo 2015

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Fratture post-colonialiL’indipendenza della Tunisia e il declino della comunità di origine italiana

Antonio M. Morone

Nella storia di lungo periodo del Mediterraneo le dinamiche della guerra e del conflitto si sono combinate con quelle dello scambio e della convivenza; a queste si possono ricondurre le vicende di vita di chi lasciò, per le ragioni più diverse, la peni-sola italiana alla volta della Tunisia a partire dall’inizio del XIX secolo. Il contributo dell’emigrazione italiana alla storia del paese arabo non fu semplicemente legato al lavoro e al commercio, ma passò anche per i teatri, l’opera e la stampa. Chi partì per la Tunisia finì per rimanervi tutta la vita o fece la spola tra i due paesi sulla spinta di un’occupazione stagionale. L’emigrazione degli italiani favorì un complesso pro-cesso di meticciamento culturale, oltre che biologico, tra le due rive del Mediterraneo, nell’ambito di un più ampio ciclo migratorio che portò a trasferirsi nella Tunisia beylicale migliaia di francesi, maltesi, ebrei ashkenaziti, greci e russi. Ancor prima di innescare una serie di cambiamenti politici, economici e sociali, queste migrazioni mutarono la demografia del paese e in particolare di Tunisi, dove a metà dell’Otto-cento «i non-musulmani si potevano stimare in un terzo della popolazione, facendone per diversi caratteri una città cosmopolita»1. Furono poi le dinamiche coloniali e post-coloniali a complicare e, nel lungo periodo, a rivoluzionare quel percorso che aveva progressivamente radicato gli italiani in Tunisia, al pari di altri gruppi alloctoni di origine europea.

La storia della comunità di origine italiana in Tunisia è stata oggetto di numerosi studi, che hanno indagato in modo specifico l’arco cronologico che va dall’inizio del XIX secolo fino alla Seconda guerra mondiale. Il progressivo declino della co-munità durante gli anni Cinquanta e Sessanta resta invece poco studiato. Il saggio si propone allora di analizzare le ragioni politiche e le dinamiche sociali che porta-rono alla drastica diminuzione dei residenti italiani in Tunisia, nel quadro dell’in-dipendenza nazionale e delle relazioni su piani differenti ma interconnessi della

1 H. Kazdaghli, Apports et place des communautés dans l’histoire de la Tunisie moderne et contemporaine, «Actes de l’histoire de l’immigration», 2001, 1, p. 6.

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comunità italiana e della classe dirigente tunisina con la nuova Italia repubblicana. Non si tratta, dunque, di cercare semplicemente una risposta a come e quando si concluse un complesso ciclo storico legato alla presenza italiana ed europea in Tunisia, ma soprattutto di indagare dal punto di vista delle minoranze alloctone, e in particolare di quella di origine italiana, la pagina di storia tunisina e africana che portò alla costruzione dello stato-nazione tunisino. Tale prospettiva di studio, in primo luogo, supera la rigida dicotomia del rapporto tra colonizzatori e colo-nizzati, e restituisce un quadro analitico di maggiore complessità politica e sociale delle dinamiche storiche relative all’indipendenza tunisina. In secondo luogo, la stessa prospettiva mette in discussione quell’identità italiana che fu un riferimento costante nell’immaginario della comunità e che tuttavia scese continuamente a compromessi con un’appartenenza tunisina testimoniata sotto vari aspetti della vita quotidiana e lavorativa.

Definirsi nei termini di un’italianità che per molti non aveva un preciso conno-tato politico, ma rimandava piuttosto a una comune matrice culturale e linguistica, divenne sempre più una necessità strategica quando i mutamenti politici e sociali le-gati alla nascita della Repubblica tunisina misero in discussione uno spazio d’azione sociale e istituzionale che si dava per acquisito. Al momento dell’indipendenza na-zionale, proclamata il 20 marzo 1956 sotto la guida del partito Neo-Dustur, gli italiani di Tunisia reclamarono il diritto a restare nel paese sulla base di una storia diversa e sostanzialmente autonoma da quella del dominio coloniale francese. Dimentica-vano però che essere italiani al tempo del Protettorato francese aveva effettivamente significato vivere in uno status economico e sociale subordinato a quello dei coloniz-zatori francesi, ma pur sempre sovraordinato a quello dei sudditi tunisini. Dunque, dal punto di vista dei tunisini, gli italiani finivano pur sempre per essere parte di una storia intrinsecamente connessa al dominio coloniale francese, connotandosi come suoi intermediari, speciali e privilegiati. Non furono peraltro pochi gli italiani che, perseguendo una strategia di auto-promozione sociale, assecondarono la politica di naturalizzazione delle autorità francesi.

In molti degli studi oggi disponibili sulla storia della comunità di origine italiana in Tunisia l’enfasi è stata posta sul fenomeno migratorio in sé o sulla dimensione pre-valentemente italiana (o presunta tale) della comunità, con particolare riferimento ai legami e alle interazioni tra gli espatriati e la madrepatria. Per questo filone di studi è stato e rimane prioritario mettere in risalto il contributo che gli italiani hanno dato alla costruzione della Tunisia moderna, trascurando tuttavia le interazioni e gli scambi tra italiani e tunisini che sono invece al centro dell’analisi nel presente saggio. Per questo motivo l’ambito di riferimento è quello degli studi africani d’area, attra-verso il ricorso agli strumenti disciplinari della storia e dell’antropologia. La scelta è dunque quella di lasciare in secondo piano la prospettiva post-coloniale che negli ul-timi anni è stata applicata sempre più frequentemente al discorso coloniale e al caso

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italiano2. I Post-colonial Studies hanno infatti come termine di riferimento privilegiato i contesti delle ex madrepatrie più che quelli delle ex colonie, e studiano le continuità più che le fratture seguite alla fine del dominio coloniale. A un caso come quello della Tunisia si può applicare la categoria di indirect postcoloniality, che collega le eredità multiple, dirette e indirette, discese dal colonialismo italiano e dalle migrazioni degli italiani che si indirizzarono complessivamente tanto verso altri paesi quanto in colo-nia3. Un simile approccio arricchirebbe verosimilmente il dibattito scientifico ormai in corso avanzato sul postcoloniale italiano, che ha avuto negli ultimi anni il merito di «correggere forme di amnesia o progetti sospetti di revisionismo storico» in relazione al passato coloniale4, ma sposterebbe il fuoco dell’analisi dall’Africa all’Europa, ripro-ducendo in ultima analisi quella critica di fondo mossa alla prospettiva postcoloniale, ossia quella di «obliterare la storia dei popoli che vissero in quelle che divennero colonie»5. Nell’ambito degli studi africanistici si è oscillato tra il rigetto della prospet-tiva postcoloniale, sottolineando come lo studio del colonialismo avesse insistito sulla «specificità dell’Africa quale massimo esempio di altro negativo rispetto all’Europa»6, e il tentativo di accomodarla per superare invece quella concezione dell’Africa come eccezione, stemperandone la possibile deriva afrocentrica7. In entrambi i casi resta prioritario per gli studi di africanistica considerare la prospettiva dei colonizzati e dei loro discendenti per i quali il colonialismo fu «una relazione fondata intrinsecamente sulla soggezione», che iniziò con la conquista, passò per l’assoggettamento e finì con lo sfruttamento dei sudditi8. Il saggio si inserisce dunque nel filone di ricerca che negli ultimi anni ha studiato, attraverso sintesi storiche o presentando casi di studio specifici, la comunità di origine italiana quale parte integrante della società tunisina e della sua storia, in collegamento con i diversi referenti regionali e internazionali9.

2 Il riferimento in termini metodologici ai Post-colonial Studies è stato inserito in risposta a una serie di sollecitazioni emerse durante il processo di peer review di cui è stato oggetto l’articolo.3 T. Fiore, The Emigrant Post-«Colonia» in Contemporary Immigrant Italy, in C. Lombardi-Diop, C. Romeo (eds.), Postcolonial Italy. Challenging National Homogeneity, New York, Palgrave Macmillan, 2012, p. 71.4 S. Ponzanesi, The Postcolonial Turn in Italian Studies. European Perspectives, in C. Lombardi-Diop, C. Romeo (eds.), Postcolonial Italy, cit., p. 59. 5 F. Cooper, Postcolonial Studies and the Study of History, in A. Loomba et al., Postcolonial Studies and Beyond, Durham, Duke University Press, 2005, p. 403.6 P.T. Zeleza, Rethinking Africa’s Globalization, vol. 1, The Intellectual Challenges, Trenton, Africa World Pres, 2003, p. 248.7 Cfr. K.L. Korang, Useless Provocation or Meaningful Challenge? The «Posts» Versus African Studies, in P.T. Zeleza, The Study of Africa, vol. 1, Disciplinary and Interdisciplinary Encounters, Dakar, Codesria, 2006, pp. 443-466.8 A. Mbembe, De la postcolonie. Essai sur l’imagination politique dans l’Afrique contemporaine, Paris, Karthala, 2000, p. 267.9 M.I. Choate, Tunisia, Contested: Italian Nationalism, French Imperial Rule, and Migration in the Mediterranean Basin, «California Italian Studies Journal», 2010, 1; J.A. Clancy-Smith, Mediterranean. North Africa and Europe in an Age of Migration, c. 1800-1900, Berkeley, University of California Press, 2011; L. el Houssi, Italians in Tunisia: Between regional organisation, cultural adaptation and political division, 1860s-1940, «European Review of History», 2012, 1. In italiano, cfr. L. el Houssi, L’urlo contro il

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Il ricorso alle fonti orali si è dimostrato importante per la storia degli italiani di Tunisia durante un periodo, come quello degli anni Cinquanta e Sessanta del XX se-colo, per il quale i documenti d’archivio tunisini non sono ancora consultabili. Sono complessivamente 11 le interviste a italiani di Tunisia registrate nella primavera del 2009 tra Tunisi e Tortona, in provincia di Alessandria. Il campione è rappresentativo per provenienza sociale, istruzione e lavoro, mentre sconta il limite di concentrarsi dal punto di vista geografico su persone per gran parte nate e vissute a Tunisi, dove la presenza italiana fu in effetti quantitativamente molto rilevante, ma non certo la sola, come testimonia la significativa presenza italiana nelle altre principali città costiere della Tunisia. Chi mi ha affidato la propria storia di vita lo ha fatto parlando in ita-liano, anche quando il francese era lingua colloquiale e quotidiana, ponendo così fin dall’inizio l’accento sulla propria auto-rappresentazione dell’appartenenza italiana. Le interviste si sono svolte con grande spontaneità, trasporto e in un clima di amici-zia, come se gli intervistati stessero aspettando da anni l’arrivo di un altro italiano, non solo interessato alla loro storia, ma intenzionato anche a scriverla. Nel citare le trascrizioni di una storia che a detta di molti intervistati è stata dimenticata e rimossa, se non addirittura negata, ho cercato di dar conto sia dell’interazione tra intervista-tore e intervistato, sia dei diversi piani narrativi: tutti gli intervistati hanno vissuto a cavallo tra Italia e Tunisia, sviluppando spesso in termini dialettici l’appartenenza all’uno o all’altro contesto ed elaborando in termini più o meno critici il rapporto tra la memoria della loro storia di vita individuale e la storia raccontata nei libri. Se è vero che alla definizione di fonti orali possono essere ricondotte «sia le tradizioni orali, sia le storie di vita individuali, sia ogni altra testimonianza registrata su supporti magnetici o elettronici»10, allora le differenti interviste che costituiscono un filo rosso attraverso le pagine del saggio si possono considerare singolarmente come storie di vita individuale e nel loro complesso come testimonianze rivelatrici di un certo mito del lavoro italiano in Tunisia, che divenne un discorso paradigmatico della storia e dei presunti diritti italiani sul paese arabo.

Profili degli intervistati

Anna Paola I. nacque nel 1954 a Tunisi in una famiglia benestante di origine sici-liana che da più generazioni viveva nel paese. Il 18 settembre 1963 sbarcò a Napoli

regime. Gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre, Roma, Carocci, 2014; D. Melfa, Migrando a sud. Coloni italiani in Tunisia (1881-1939), Roma, Aracne, 2008; L. Davì, Italiane e italiani di Tunisia, in Tunisia, alla fine del XX secolo, tra storia e racconto, in F. Cresti, D. Melfa (a cura di), Da Maestrale e da Scirocco. Le migrazioni attraverso il Mediterraneo, Milano, Giuffrè, 2006; G. Gianturco, C. Zaccai, Italiani in Tunisia. Passato e presente di un’emigrazione, Milano, Guerini, 2004. Sulle memorie in particolare degli ebrei di Tunisia: L. Valensi, N. Wachtel (tradotta by B. Harshav), Jewish Memories, Berkeley, University of California Press, 1991.10 B. Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Roma, Carocci, 2013, p. 22.

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con i genitori e i fratelli. Dopo un breve soggiorno nel campo profughi di Aversa, ar-rivò in quello di Tortona, dove rimase per alcuni mesi in attesa che il padre trovasse un lavoro e potesse così affittare una casa fuori dal campo. Cresciuta in Italia, Anna Paola ancora oggi vive nei pressi di Tortona, dove ho registrato la sua intervista nella primavera del 2009. Tutti gli altri numerosi rami della sua famiglia, una volta lasciata la Tunisia, preferirono la Francia all’Italia.

Antonietta S. nacque in Sardegna nel 1916; a quattro anni giunse in Tunisia al seguito della madre che, rimasta vedova, decise di raggiungere il fratello. Dopo che la madre si sposò in seconde nozze con un minatore di origine sarda, Antonietta si ritrovò a passare gran parte della vita nelle montagne della Tunisia centrale. Ancora ragazzina, visitò la Sardegna e l’Italia settentrionale, ma non vi si fermò mai per un tempo superiore a quello di una vacanza. Una volta conseguita la licenza elementare, Antonietta finì a lavorare «dal medico come segretaria medicale», senza mai sposarsi. Nell’estate del 2011 Antonietta mi raccontò, insieme all’amico Giacomo T., la sua sto-ria di vita, mentre era ospite della casa di riposo Foyer de Rades, nei pressi di Tunisi.

Giacomo T. nacque nel 1926 a Tunisi: non ricorda esattamente quando la sua fami-glia vi arrivò dalla Sicilia, ma di certo all’inizio del XX secolo. Dopo aver frequentato le scuole elementari italiane e aver studiato alla scuola marittima, Giacomo, durante la Seconda guerra mondiale, si arruolò volontario nella Marina militare italiana con il ruolo di radiotelegrafista, perché «voleva fare carriera e magari un giorno reimpie-garsi nella marina commerciale». Finì invece a fare il sarto: come accennato pocanzi, ho raccolto la sua storia nell’estate del 2011 alla casa di riposo Foyer de Rades.

Daniele P. nacque nel 1928 a Tunisi da una famiglia con una lunga e radicata storia nel paese. Per ramo materno i suoi discendenti erano emigrati in Tunisia già nel XVIII secolo, mentre fu il nonno paterno a fondare nel XIX secolo una ditta di costruzioni della quale Daniele ereditò la gestione insieme al fratello. La sua famiglia fu protago-nista del processo di modernizzazione del beylicato, lavorando alla costruzione di al-cuni palazzi e opere pubbliche alle dirette dipendenze del Bey. Dopo gli studi condotti in parte nelle scuole italiane e in parte in quelle francesi, Daniele conseguì in Italia la laurea in Ingegneria, mentre il fratello studiò Economia e commercio. Nonostante le diverse misure di «tunisificazione», Daniele ha continuato a lavorare in Tunisia come imprenditore, tecnico e consulente fino a pochi anni fa. Sposato con una donna di ori-gine italiana laureata in Lingua e Letteratura francese, Daniele ha avuto due figli che oggi vivono tra la Tunisia e la Francia. Ho registrato la sua testimonianza nell’estate del 2011 presso la sua abitazione a La Goulette, Tunisi.

Elia Finzi nacque a Tunisi nel 1923 da una famiglia di ebrei di origine livornese che ebbe una parte importantissima tanto per la storia della comunità italiana, quanto più in generale per quella del paese. Vicina ai circoli degli esuli risorgimentali e anarchici che trovarono riparo a Tunisi nel corso del XIX secolo, la famiglia Finzi legò il suo nome all’omonima tipografia fondata nel 1829. Nel 1838 questa pubblicò

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il primo periodico in lingua italiana, «Il giornale di Tunisi e Cartagine», che venne subito soppresso dalle autorità beylicali. Nel 1881, con la proclamazione del Protetto-rato francese, venne sospesa la pubblicazione anche del «Corriere di Tunisi» (stam-pato dal 1859), ma nel 1956 la tipografia Finzi tornò a pubblicare la storica testata ed Elia ne assunse la direzione, mantenendola fino alla morte, avvenuta il 16 settembre 2012 – non molto tempo dopo l’intervista concessami nell’estate del 2011.

Ferruccio S. nacque a Tunisi nel 1937 da una famiglia che per linea paterna pro-veniva da Trapani, in Sicilia, e per quella materna dall’Emilia. Il padre lavorava nel commercio marittimo tra Sicilia e Tunisia, mentre il nonno materno era arrivato a Tunisi nel 1911 con tutta la famiglia passando dalla Libia, dove avrebbe dovuto tra-sferirsi per contribuire alla colonizzazione della costituenda colonia italiana. Dopo aver lavorato per tutta la vita come odontotecnico, Ferruccio vive oggi tra la Tunisia e l’Italia, mentre i due fratelli si sono trasferiti prima in Italia e poi definitivamente in Francia. Nell’estate del 2011 ho registrato la sua testimonianza nei pressi di Hamma-met, dove era ospite dell’amico Folco E.

Folco E. nacque a Tunisi nel 1933 da una famiglia di origine toscana emigrata in Tunisia per lato sia paterno sia materno a metà del XIX secolo. Dopo aver studiato all’Accademia militare di Modena, Folco ritornò in Tunisia e nel 1956 si sposò. Fece per lungo tempo l’agricoltore, dedicandosi alla produzione di vino nella regione del Cap Bon, ma a seguito delle nazionalizzazioni del 1964 si reinventò commerciante antiquario. Nell’estate del 2011 ho registrato la sua testimonianza presso la sua resi-denza di Hammamet, in compagnia di Ferruccio S.

Franca M. nacque nel 1924 a Tunisi da una famiglia di origine agrigentina che vi si era spostata prima del 1870. Dopo aver studiato alle scuole francesi, Franca lavorò come sarta d’arredamento, ma non si sposò mai e dopo la morte del fratello rimase a prendersi cura della madre e del padre anziani. L’intervista è stata registrata nell’e-state del 2011 presso la casa di riposo de La Goulette, nei pressi di Tunisi.

Giancarla B. si trasferì a Biserta, in Tunisia, nel 1938, quando era ancora una bam-bina, insieme alla madre e alla sorella. Qui la madre sposò in seconde nozze un pa-lombaro di origine greca che lavorava nei cantieri navali della città. Dopo la morte del patrigno, Giancarla si trasferì nel 1950 a Sfax, dove sposò Vincenzo, che possedeva un negozio di bilance. Nel 1968 lasciò la Tunisia insieme al marito e, dopo lo sbarco a Na-poli, si trasferì al campo profughi di Tortona. Dal 1972 lavora come procacciatore d’af-fari nella città piemontese, dove ho registrato la sua intervista nella primavera del 2009.

Maria G. nacque nel 1929 a Beja, nella Tunisia nord-orientale, da una famiglia di agricoltori di origine siciliana. Nel 1958, dopo la morte del marito, che lavorava come meccanico, Maria si prese cura della madre. A seguito dell’espropriazione dei terreni agli agricoltori italiani, nel 1964, si trasferì a Tunisi, dove ancora risiede. Oggi vive presso la casa di riposo de La Goulette, dove ho registrato la sua testimonianza nell’estate del 2011.

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Wanda S. nacque nel 1939 a La Marsa, nei pressi di Tunisi. Figlia di una famiglia di agricoltori di Palermo, frequentò le scuole francesi, ma non lavorò mai dopo il matrimonio con Salvatore. Anche la famiglia del marito proveniva dalla Sicilia, e precisamente dalla città di Noto. Ancora oggi Wanda e Salvatore vivono a La Marsa, dove ho registrato la loro testimonianza nell’estate del 2011.

Cambiamento politico e mutamento sociale nel secondo dopoguerra

Nel corso del tempo la comunità italiana si strutturò al suo interno in ragione dei diversi contesti di provenienza, delle successive ondate migratorie e dei rispettivi me-stieri o professioni. All’inizio del XIX secolo furono alcuni schiavi cristiani catturati lungo le coste della penisola italiana a stabilirsi in Tunisia dopo essere stati liberati11. Molti altri partirono invece negli anni a cavallo del Risorgimento, quando un’Italia in fase di unificazione rappresentava ancora un riferimento ideale, più che reale. A giudicare dalla stampa in lingua italiana in Tunisia, la comunità nella seconda metà del XIX secolo era composta da «un’élite di intellettuali e professionisti e una gran parte di proletari che vivevano quotidianamente in mezzo alla società tunisina, con-dividendone gioie e dolori nella lotta per un pezzo di pane»12. Se i primi ad arrivare erano stati professionisti e intellettuali, tra i quali diversi esuli risorgimentali, furono i siciliani, poveri e per la maggior parte cattolici, a costituire sul finire del secolo la parte più cospicua degli emigranti. Tunisi fu una delle destinazioni privilegiate ma non esclusiva, dal momento che «circa il 60% degli italiani viveva nelle cinque più grandi città tunisine, mentre solo il 18% erano agricoltori»13. Al di là di tutte queste specificità che permanevano sottotraccia, emerse con il trascorrere del tempo una proiezione unitaria della comunità nel rapporto con l’esterno. Gli italiani si inseri-rono in una società tunisina che può essere rappresentata nei termini di un mosaico sociale composito e non privo di contraddizioni, nel quale i diversi tasselli erano costituiti per gruppi delimitati da precisi confini identitari e al tempo stesso caratte-rizzati da appartenenze multiple.

Con il conseguimento dell’unità del Regno d’Italia, nel 1861, la questione tunisina e lo status della comunità di origine italiana «divennero cruciali» per la determina-zione della questione nazionale italiana, specie in considerazione di come «un’Ita-lia unita avrebbe definito se stessa e come avrebbe proiettato la sua influenza nel mondo»14. Durante gli anni Settanta del XIX secolo la nuova dirigenza italiana intese «l’espansione oltremare come esercizio eminentemente economico, di valorizzazione

11 A. Triulzi, Italian-Speaking Communities in Early Nineteenth Century Tunis, «Revue de l’Occident musulman et de la Méditerranée», 9, 1971, p. 154.12 M. Brondino, La stampa italiana in Tunisia. Storia e società, 1838-1956, Milano, Jaca Book, 1998, p. 144.13 L. el Houssi, Italians in Tunisia, cit., p. 173.14 M.I. Choate, Tunisia Contested, cit., pp. 1-2.

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e di insediamento di emigranti in cerca di lavoro» lungo l’arco sud del Mediterraneo. L’accensione del Protettorato francese sul beylicato husainide nel 1881 mise in di-scussione gli interessi italiani in Tunisia e in definitiva si risolse in una sconfitta per l’Italia15. Questa storia può essere letta anche nei termini di una competizione tra due comunità alloctone, quella francese e quella italiana, per il predominio politico ed economico sulla Tunisia. I francesi, che dopo il 1881 erano di fatto la minoranza poli-ticamente dominante nel paese, si trovarono per lungo tempo a competere sul piano economico e sociale con gli italiani, che tuttavia continuarono a essere in numero maggiore fino all’inizio della Seconda guerra mondiale. La politica francese fu diretta «all’integrazione degli elementi altri solo in misura della loro disposizione all’assi-milazione» e perciò i francesi si trovarono a rivaleggiare frequentemente con gli ap-partenenti ad altre minoranze che rimandavano a nazionalismi esclusivi – come nel caso degli italiani, ma anche dei maltesi e dei greci16. Les petits Blancs italiani, che si opposero a una naturalizzazione intesa a trasformarli da emigranti italiani in coloni francesi, finirono per essere inseriti come intermediari nel sistema coloniale, in una posizione interposta tra i cittadini francesi e i sudditi tunisini. Fu poi negli anni Venti e Trenta del XIX secolo che il fascismo, rinnovando strumentalmente le pretese co-loniali italiane sulla Tunisia, fornì un significativo appoggio politico agli italiani di Tunisia, ma finì anche per alimentare divisioni interne alla comunità tra coloro che nel rapporto con la madrepatria erano a favore del fascismo e coloro che invece vi si opponevano17.

La Seconda guerra mondiale segnò un importante tornante storico, contribuendo a innescare quei processi che nel 1956 portarono all’indipendenza del paese e più in generale misero in discussione il progetto di un Mediterraneo coloniale, nel quale proprio l’emigrazione dei coloni da nord verso sud aveva rappresentato un aspetto essenziale. La nascita della nuova Tunisia incise profondamente sia sulle logiche di competizione tra la minoranza francese e quella italiana, sia sull’interrelazione di entrambe le minoranze con il movimento nazionalista tunisino, che rappresentava la maggioranza arabofona insieme ad altre minoranze non europee. Per esempio la partecipazione dei berberi alla lotta d’indipendenza nazionale non fu motivata dall’a-spirazione a fondare uno stato a parte, ma, come altrove in Africa, mirava a ottenere all’interno dello stato «una legittimazione socio-culturale e politica i cui termini di riferimento primi non furono rappresentati dall’etnicità, ma da nozioni di valore, au-torità e appartenenza codificati dall’Islam nel cui ambito arabi, berberi e altre deno-minazioni acquisivano significato»18.

15 G.P. Calchi Novati, Cairoli, la sinistra storica e gli inizi della penetrazione in Africa: un caso di colonialismo controllato, «Africa», 1990, 3, p. 455.16 H. Kazdaghli, Apports et place des communautés, cit., p. 8.17 Cfr. L. el Houssi, L’urlo contro il regime, cit.18 J. McDougall, Histories of Heresy and Salvation: Arabs, Berbers, Community and the State, in K.E.

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La dichiarazione di guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, indusse le autorità fran-cesi a considerare gli italiani residenti nel Protettorato una minaccia per l’ordine po-litico e militare, al punto che oltre 25 mila di loro furono internati. Se nell’arco di poco più di un mese l’occupazione della Francia da parte della Germania nazista ebbe l’effetto indiretto di far riconquistare la libertà a gran parte degli italiani nel Protettorato, l’adesione delle autorità francesi di Tunisia alla Repubblica di Vichy si tradusse paradossalmente in una sconfitta per gli interessi italiani e degli italiani in Tunisia. Il rinnovato slancio politico del fascismo nei confronti di quella italianità della Tunisia propagandata per tutti gli anni Trenta non fu in grado di scongiurare i licenziamenti e gli arresti che continuarono a colpire molti italiani, in un clima generale in cui le autorità di Vichy fecero di tutto per «evitare di apparire come gli af-fossatori dell’impero»19. Fallì poi il tentativo di costituire un «libero governo» tunisino sotto l’influenza italiana, sfruttando strumentalmente la presenza in Italia del leader nazionalista Habib Bourguiba. Dopo essere stato liberato per mano dei nazisti dalle carceri francesi, il futuro presidente della Tunisia era stato infatti trasportato a Roma: nel celebre discorso trasmesso da Radio Bari, con grande abilità diplomatica, Bou-rguiba – come ricordò egli stesso – «mise in guardia il popolo tunisino contro le mire [dell’Asse] e dopo aver ringraziato quelle stesse potenze per averlo liberato» rimarcò che «il comportamento politico relativo alla questione tunisina non doveva essere influenzato né in bene né in male da quel che riguardava il trattamento ricevuto» da lui e dai suoi compagni. L’argomento decisivo sollevato da Bourguiba fu infatti che «solo il Bey era deputato a condurre la trattativa» per il futuro status della Tunisia20. Il leader nazionalista tunisino sapeva bene che l’Italia era pur sempre una potenza coloniale, oltre che fascista; conosceva le sue mire presenti e passate sulla Tunisia e non ignorava affatto quel che era stata la repressione criminale messa in atto dagli italiani contro la resistenza araba nella colonia di Libia.

La situazione in Tunisia mutò ancora una volta di segno con l’ingresso degli Alleati nella capitale, il 7 maggio 1943: furono migliaia gli italiani a essere rapidamente e nuovamente internati nei campi insieme ai militari presi prigionieri dopo la disfatta dell’Asse nel Nord Africa. La successiva caduta del fascismo e l’armistizio non cam-biarono la situazione, nemmeno per chi era stato antifascista: gli italiani continua-rono a essere utilizzati per i lavori di pubblica utilità, mentre la confisca dei loro beni assunse una forma giuridica definitiva con l’istituzione dell’autorità per la gestione dei «beni nemici», il 13 novembre 1943. La decisione del governo della Francia libera, nel 1944, di abrogare le Convenzioni di stabilimento del 1896, che permettevano ai

Hoffmann, S. Gilson Miller (eds.), Berbers and Others. Beyond Tribe and Nation in the Maghreb, Blooming-ton, Indian University Press, 2010, p. 17.19 R. Rainero, Les Italiens dans la Tunisie contemporaine, Paris, Publisud, 2002, p. 233.20 Riportato in D. Hopwood, Habib Bourguiba of Tunisia. The Tragedy of Longevity, Basingstoke, Macmillan, 1992, p. 59.

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cittadini italiani di risiedere e lavorare nel Protettorato, venne vissuta come una ri-torsione per la dichiarazione di guerra dell’Italia nel 1940. Il provvedimento finì per colpire duramente la borghesia di origine italiana che «cessò di beneficiare di uno status a parte e privilegiato»21. Il vuoto giuridico che ne conseguì fu colmato con un provvedimento dalla portata potenzialmente ancora più dirompente, secondo il quale gli italiani nati in Tunisia dopo il 10 maggio 1940 da genitori italiani, di cui uno al-meno nato in Tunisia, ricevevano automaticamente la cittadinanza francese, salvo poi poterla rigettare nel corso dell’anno che seguiva il raggiungimento della maggiore età. Nelle memorie di un giornalista italiano di Tunisia, che fu in quegli anni parti-colarmente attivo nella difesa degli interessi della comunità, si trattò di una sorta di «naturalizzazione forzata», che, insieme al sequestro di buona parte dei beni degli italiani, ebbe l’effetto di colpire «gli elementi rappresentativi dell’italianità in Tunisia e decapitare la colonia»22.

Il rapido calo numerico della comunità non avvenne solo a causa della progres-siva francesizzazione, ma anche perché molti italiani decisero di abbandonare la Tunisia, insieme ad altri che furono espulsi per essere ritenuti persone «nemiche della Francia». Nel 1946, dopo i primi rimpatri e le partenze dell’immediato dopo-guerra, erano ancora oltre 84 mila gli italiani di Tunisia, mentre dieci anni dopo, al momento dell’indipendenza, erano scesi a 66 mila23. Il governo italiano non protestò di fronte a queste espulsioni, in cambio dell’impegno del governo francese «a ne-goziare una [nuova] Convenzione di stabilimento fondata sui principi generali del diritto internazionale»24. Nonostante l’indignazione della stampa italiana per il trat-tamento riservato ai connazionali in Tunisia, l’interesse principale dell’Italia verso la «questione tunisina» era indiretto e scontava quello sovraordinato di ristabilire buoni rapporti con la Francia, oltre a una più generale revisione della politica in Africa. L’Italia infatti aveva formalmente rinunciato alle ex colonie con la firma del Trattato di pace di Parigi, il 15 febbraio 1947, dopo averle perse durante la guerra. Lungo un percorso tortuoso e niente affatto lineare, tra molte continuità e qualche rottura con il passato, la nuova dirigenza italiana post-fascista si preparava a tornare in Africa attraverso l’esperienza specialissima dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, che doveva servire gli interessi di una politica neo-atlantica intesa sempre più come neo-mediterranea25. Gli ex possedimenti africani e le diverse comunità di espatriati italiani nel Mediterraneo, che come nel caso della Tunisia erano stati in-tesi quali strumenti di una possibile penetrazione coloniale italiana, vennero messi

21 P. Sebag, Tunis. Histoire d’une ville, Paris, L’Harmattan, 1998, p. 518.22 N. Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia: dalle origini al 1970, Roma, Finzi, 1970, p. 141.23 Ibidem, pp. 145, 154.24 Comunicato diramato dai governi italiano e francese, 2 marzo 1945, riportato in R. Rainero, La rivendicazione fascista sulla Tunisia, Milano, Marzorati, 1978, p. 561.25 Cfr. A.M. Morone, L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Roma-Bari, Laterza, 2011.

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da parte in favore di una nuova politica di cooperazione con l’Africa, che rimosse la questione coloniale dalla storia e dalla memoria della Repubblica.

Un aperto sostegno alle rivendicazioni degli italiani in Tunisia non trovava più posto nella politica estera italiana, così come un eventuale appoggio alla politica fran-cese intesa a mantenere le proprie posizioni coloniali nel Protettorato. Per parte sua, la Francia in un primo momento continuò con la politica di intransigenza verso gli italiani, anche per avere a disposizione «prigionieri di guerra da utilizzare come mano d’opera a buon mercato [...] od ostaggi in un’eventuale negoziazione diplomatica»26; in un secondo momento tali posizioni vennero ammorbidite nella prospettiva di uti-lizzare gli italiani, più che nelle relazioni con l’Italia, per far fronte comune contro il movimento indipendentista tunisino. Gli italiani di Tunisia si sottrassero a tale dise-gno prima di tutto per aver vissuto in termini competitivi il rapporto con le autorità francesi: per un verso ottennero così «di essere rispettati» dai nazionalisti tunisini, mentre per l’altro i francesi non potevano che essere «seccatissimi di quella specie di tacita intesa italo-araba»27. Fu allora che la Francia accusò di ingratitudine l’Italia per il suo appoggio all’indipendenza della Tunisia e dell’Africa in generale, nonostante la diplomazia italiana – proprio per non urtare le sensibilità francesi – si fosse astenuta dall’avviare colloqui diretti con i nazionalisti tunisini.

La firma del Trattato di Parigi, nel 1947, assestò un ulteriore colpo alla tenuta della comunità perché a norma dell’articolo 79 le potenze vincitrici avevano la facoltà di incamerare «tutte le proprietà, diritti e interessi dell’Italia o di cittadini italiani» sul loro territorio nazionale e nelle dipendenze coloniali, come pagamento dei danni di guerra. Sarebbe eventualmente spettato all’Italia risarcire i propri cittadini28. Ironi-camente le disposizioni di legge che regolarono tali risarcimenti li limitarono ai soli espulsi e residenti in Italia, escludendo le migliaia di persone che avevano lasciato sì volontariamente la Tunisia, ma in un’ovvia situazione di contingenza e necessità. L’acquisizione dei beni italiani da parte delle autorità francesi, oltre a colpire i pa-trimoni dei singoli, portò alla requisizione di numerosi beni mobili e immobili di quelle istituzioni che avevano costituito nel corso del tempo i pilastri portanti della comunità. Vennero chiuse le scuole, la Camera di commercio italiana, la società di beneficenza, l’Istituto Dante Alighieri, l’Ospedale Garibaldi, l’Asilo Garibaldi, il Cir-colo artistico, la Sala operaia e l’Orfanotrofio Principe di Napoli. A un processo di progressiva pauperizzazione dei singoli si aggiunse dunque lo sfaldamento delle basi

26 R. Rainero, Les Italiens, cit., p. 250.27 Archivio storico-diplomatico del ministero degli Affari esteri (d’ora in poi: Asdmae), Affari politici (d’ora in poi: Ap) 1950-1957, b. 1110, f. 1954-1955, telespr. del console Marchiori n. 13515 da Tunisi a Roma e Parigi, 20 luglio 1954, riportato in D. Barbero, Politiche e processi di inclusione ed esclusione nella Tunisia indipendente: il caso della comunità italiana, Tesi di laurea magistrale in Studi dell’Africa e dell’Asia, Università di Pavia, a.a. 2010-2011.28 M. Lajili, La législation coloniale française en matière de domaine de l’État en Tunisie (1881-1956), Tunis, Institut Supérieur d�Histoire du Mouvement Nationale, 2010, pp. 264-265.

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sociali e istituzionali della comunità. Dopo la legge del 1940, che aveva concesso in automatico la cittadinanza francese ai figli degli italiani, fu in questo frangente che si ebbe un ulteriore «processo di assimilazione forzata» alla cultura francese. Questa tendenza riguardò soprattutto i giovani, che con la chiusura delle scuole italiane si trovarono obbligati a frequentare quelle francesi: andò così crescendo una genera-zione con «un’identità franco-italiana», per la quale l’uso della lingua italiana venne spesso limitato al privato e al familiare, mentre era riservato al francese il ruolo di lingua della dimensione pubblica e lavorativa29.

La chiusura delle scuole italiane non solo favorì direttamente l’uso del francese, ma ebbe anche l’effetto di alimentare un ritorno alle parlate dialettali. Per chi, come Franca, aveva frequentato le scuole francesi fin da piccola perché «le scuole italiane non c’erano più», la risposta spontanea alla mia domanda relativa a quale lingua co-nosceva oltre il francese era «la lingua siciliana», della quale l’italiano che utilizzava nell’intervista era spesso infarcito; mentre l’arabo non lo capiva, neppure il dialetto tunisino30. Un altro vecchio italiano di Tunisia, Giacomo, pur avendo studiato nelle scuole italiane per alcuni anni, oggi parla meglio il francese, mentre «l’arabo non entra proprio in testa, lo capisco un po’ ma è come se il cuore non riuscisse»31. È infine Antonietta, un’altra ospite di origine sarda della casa per anziani dove si trova Giacomo, che ironicamente si inserisce nel mio dialogo con lui sottolineando che il suo amico parla anche il siciliano; e alla battuta: «Ma tu non sei sarda, che ne sai del siciliano?», Antonietta ribatte che capisce «il siciliano più del sardo» per aver passato molto tempo tra amici italiani di Tunisia di origine siciliana32. Tra francese, italiano e dialetti, il ruolo riservato all’arabo-tunisino era assolutamente marginale, non solo perché era la lingua dei colonizzati, ma verosimilmente perché non veniva utilizzato quale mezzo di comunicazione nella propria rete di relazioni personali e lavorative, e la necessità di dovervi ricorrere era in generale limitata in considerazione della po-litica francese di scolarizzazione dei sudditi. Nell’intraprendere invece il processo di passaggio alla lingua francese, le generazioni più giovani furono sicuramente spinte da quella sorta di trauma misto al senso di colpa di aver perso la guerra, mentre le generazioni più anziane dimostrarono una certa riluttanza, o stanchezza, nel ricer-care e rivendicare una dimensione pubblica e politica del loro essere italiani. Questo ritiro nel privato e nel lavoro coincise con l’abdicazione da parte degli italiani a ogni possibile impegno sulla scena politica tunisina pre- e post-indipendenza.

Nel secondo dopoguerra la comunità di origine italiana divenne sempre più fran-cese, per lingua e cultura, ma anche per passaporto: tra il 1946 e il 1956 furono infatti

29 G. Gianturco, C. Zaccai, Italiani in Tunisia, cit., pp. 48-49.30 Intervista a Franca M., La Goulette, Tunisi, 20 luglio 2011.31 Intervista a Giacomo T., Tunisi, 4 agosto 2011.32 Intervista ad Antonietta S., Tunisi, 4 agosto 2011.

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quasi 14 mila le persone a prendere la cittadinanza francese33. Sulla base del racconto di vita di un vecchio italiano di Tunisia, la cui storia familiare si intreccia da oltre tre generazioni a quella del paese arabo, le famiglie italiane «acquisivano una doppia cultura fin dalla culla» e infatti Daniele, pur essendosi laureato in Ingegneria in Italia, dice di essere sempre stato per molti aspetti più legato al mondo e alla cultura fran-cese, tanto che i suoi figli vivono oggi tra Tunisi e Parigi. Era dunque per tanti versi normale che a un certo punto si decidesse di prendere la cittadinanza francese, ma per chi rimase italiano come Daniele fu «un ricatto la naturalizzazione di tutti coloro che erano impiegati in società o banche francesi e di tanti altri che avevano interessi correlati all’amministrazione francese: se volevi continuare ti dovevi fare francese o se non volevi andavi via come fece d’altronde mio suocero»34. Per molti si trattò in realtà di un’opportunità per migliorare il proprio status sociale: per coloro che non appartenevano all’élite intellettuale e borghese della comunità, e spesso in famiglia non parlavano l’italiano ma il dialetto della regione d’origine, andare alle scuole francesi significava imparare in ogni caso una lingua straniera, che poteva offrire opportunità di lavoro e di emancipazione maggiori rispetto all’italiano. Accadeva il contrario a coloro che ricoprivano una posizione di leadership all’interno della co-munità, poiché la diffusione del francese rischiava di minare le fondamenta sociali della loro posizione al vertice nei confronti degli strati più popolari della comunità, ancora prima che nel rapporto esterno con il potere politico francese.

Solo con l’inizio degli anni Cinquanta la comunità tornò a vivere un periodo di rela-tiva prosperità. Come testimonia una corrispondenza diplomatica inglese, gli italiani in Tunisia avevano ripreso «le loro attività economiche di agricoltori, commercianti e imprenditori», tanto che dopo aver lasciato il paese nel secondo dopoguerra «molti vi rientrarono»35. Si trattò tuttavia di un’effimera parentesi che si chiuse velocemente negli anni a venire. Ad aiutare la ripresa della comunità fu il dissequestro dei beni italiani ottenuto dal governo italiano nel 1951. Il 18 novembre dello stesso anno le au-torità francesi autorizzarono inoltre la costituzione della Società italiana d’assistenza (Sia), riedizione della vecchia società di beneficienza pre-bellica, che aveva il compito precipuo di «assistere i cittadini italiani bisognosi che si sono stabiliti in Tunisia o che sono di passaggio», grazie al tesseramento degli oltre 300 soci, alle donazioni e alle rendite provenienti dagli immobili di proprietà della Società stessa e in combi-nazione con l’attività di assistenza garantita dal Consolato generale d’Italia a Tunisi, che era stato riaperto nel 194836. Dai verbali della Sia traspare lo stato di grande biso-

33 Royaume de Tunis, Protectorat français, Présidence du Conseil, Service Tunisien des statistiques, Annuaire statistique de la Tunisie, Tunis, Imprimerie Sefan, voll. dal 1946 al 1956.34 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.35 The National Archives, London, Note on Italian property in Cyrenaica and Tunisia, attached to the con-fidential letter n. 1181/10/53 from J.W. Russell, British Embassy in Rome, to R. Allen, Fo, 22nd July 1953.36 Archivio della Società italiana di assistenza (d’ora in poi: Asia), custodito presso la sig.ra Anna

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gno materiale nel quale vivevano almeno 2 mila famiglie, a conferma di un quadro storico di sofferenza economica e dell’ampia stratificazione sociale della comunità37. Nel 1953 venne riaperto il centro italiano di cultura che prese il nome di Società culturale franco-italiana di Tunisia, con un comitato direttivo tripartito, franco-italo-tunisino, alla cui direzione fu chiamato l’ultimo presidente della ex Dante Alighieri, l’avvocato Ugo Moreno. Nel 1955 venne ricostituita anche la Camera per gli scambi commerciali italo-tunisini e infine il 3 febbraio 1956 tornò a essere pubblicato, nella storica stamperia Finzi, un periodico in lingua italiana, «Il Corriere di Tunisi», con l’intenzione di voltar pagina rispetto al passato recente: si voleva «sfatare» il luogo comune per il quale «si potevano assimilare tutti gli italiani a fascisti, nostalgici o residui anti-democratici» e infatti i promotori dell’iniziativa editoriale si presenta-vano come «democratici anti-fascisti e perciò non avevano nulla da vergognarsi per la loro italianità»38. Nella nuova stagione post-bellica, il processo di ristrutturazione della comunità di origine italiana dunque non si orientò solo verso il dialogo con le istituzioni francesi, ma nella prospettiva dell’indipendenza del paese interagì anche con le nascenti istituzioni tunisine, lungo un complicato percorso di ripensamento e ridefinizione delle fondamenta sociali e culturali della comunità.

L’indipendenza nazionale e le riforme istituzionali

Le convenzioni del 1955 che portarono alla definitiva concessione dell’indipen-denza l’anno successivo, pur proclamando la piena sovranità interna, riservavano alla Francia il diritto di intervenire a protezione del Bey contro ogni tentativo di riforma in chiave repubblicana. Inoltre la cooperazione franco-tunisina fu volta soprattutto a pro-teggere i beni francesi e dei francesi di Tunisia ai quali veniva di fatto accordato uno status di favore, che comprendeva il divieto di essere espropriati, la libertà di vivere e lavorare nel paese, nonché l’accesso nella regolamentazione delle controversie ai tribunali misti, organi tunisini ma di fatto sotto l’influenza europea. I dirigenti francesi «rifiutarono di immaginare che la costruzione di uno Stato moderno supponesse la rinuncia ai privilegi e alla dominazione indiretta»39. Al momento dell’indipendenza i disoccupati oscillavano tra i 350 mila e il mezzo milione di persone su una popola-zione attiva che si aggirava sul milione, forse un milione e 200 mila persone, e il 75% del totale complessivo dei tunisini, compresi vecchi e bambini, viveva sotto la soglia

Querci, Tunisi. Art. 2 dello Statut de la Société italienne de assistance en Tunisie, allegato al verbale del 18 novembre 1951.37 Asia, verbale del 18 novembre 1951.38 S. Finzi, Il «Corriere di Tunisi» (dal 1956 a oggi), in M. Brondino, La stampa italiana in Tunisia, cit., p. 156.39 S. el-Mechat, Les relations franco-tunisiennes. Historie d’une souveraineté arrachée 1955-1964, Paris, L’Harmattan, 2005, p. 246.

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della povertà40. L’economia era fortemente dipendente dal rapporto con l’ex madrepa-tria: «In ogni distretto produttivo, in ogni attività professionale vi era un piccolo settore moderno gestito da una minoranza di privilegiati soprattutto di origine straniera e un vasto settore tradizionale dove trovava una sistemazione la maggior parte della popolazione»41. È evidente allora come le relazioni post-indipendenza franco-tunisine vennero intese da parte tunisina al progressivo superamento di una simile situazione di dipendenza e trovarono nell’alleanza con gli Stati Uniti una sponda irrinunciabile: nonostante lo scoppio della crisi di Biserta avesse complicato non solo il rapporto con la Francia, ma anche quello con gli Usa, «l’anticomunismo di Bourguiba e la sua osti-lità alle iniziative politiche di Nasser furono le sue carte vincenti»42.

La scommessa era di perseguire «l’indipendenza economica e lo sviluppo», che si dimostrarono tuttavia «due obiettivi interdipendenti e contraddittori», cosicché il rafforzamento dell’unità politica si tramutò in un indebolimento del sistema econo-mico43. In una tale contingenza, il regime di Bourguiba riposava su una concezione monista di democrazia, in opposizione a quella plurale legata a una realtà composita fatta di differenti milieux sociali in reciproco confronto, dove l’esercizio della politica era organizzato intorno alla competizione tra partiti, programmi e progetti con una prospettiva di alternanza44. Il Neo-Dustur divenne ben presto partito unico e stato-apparato attorno al quale organizzare il consenso e tramite il quale procedere a quelle riforme che però si scontrarono con evidenti limiti: la legislazione di derivazione coloniale e la stessa forma dello stato-nazione ereditata dal modello europeo «non vennero rimesse in discussione», anzi, il nuovo governo indipendente fece perno sull’eredità del diritto e delle istituzioni coloniali «al fine di rilanciare l’economia e dotare lo Stato di istituzioni moderne», rinviando a tempi migliori una «più ampia riflessione sulle forme di continuità e di rottura» con il passato recente45. Il naziona-lismo tunisino, come altri movimenti nazionalisti in Africa, scontava l’incongruenza di una semplificazione ideologica opposta a quella degli ex colonizzatori: «Alcuni francesi credettero per lungo tempo che il problema nazionale si potesse ridurre alle attività di pochi agitatori che terrorizzavano una massa di gente tranquilla, così come certi nazionalisti pensavano che la partenza dei francesi sarebbe stata sufficiente a risolvere tutti i problemi»46.

Il primo provvedimento inteso a scardinare l’eredità politica del colonialismo fu la deposizione, il 25 giugno 1957, dell’ultimo Bey Lamine I, che, nonostante l’importante

40 T.L. Azaïez, Tunisie: changement politique et emploi (1956-1996), Paris, L’Harmattan, 2000, p. 57.41 Ibidem, p. 48.42 S. el-Mechat, Les relations franco-tunisiennes, cit., p. 201.43 W. Zartman, Government and Politics in Northern Africa, Wesport, Grenwood Press, 1977, p. 82.44 M. Kraiem, Etat et société dans la Tunisie Bourguibienne, Tunis, Mip Livre, 2011, p. 171.45 M. Lajili, La législation coloniale française, cit., p. 317.46 J.F. Martin, Histoire de la Tunisie contemporaine. De Ferry à Bourguiba 1881-1956, Paris, L’Harmattan, 2003, p. 234.

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ruolo svolto a favore dell’indipendenza, venne considerato come intrinsecamente compromesso con il passato regime francese e rappresentante di un conservatori-smo irrimediabilmente antitetico alle riforme socio-economiche promosse dal mo-vimento nazionalista. Con l’abolizione del beylicato husainide e l’approvazione della nuova Costituzione repubblicana nel 1959, si liquidavano infatti i privilegi anche del vecchio notabilato beylicale. La soppressione, il 1o luglio, dei tribunali francesi e il tra-sferimento delle loro competenze a quelli tunisini rappresentò così un ulteriore punto di svolta per l’affermazione di un ordinamento unico a livello nazionale. La nascita di un sistema di tribunali tunisini corrispose alla liquidazione dei diversi fori che du-rante il periodo coloniale avevano garantito quel sistema differenziale della giustizia e indirettamente avevano contribuito all’esercizio del dominio francese. La riforma dell’ordinamento giuridico di derivazione coloniale, abolendo il sistema duale fatto di corti europee e corti di diritto islamico, azzerò i privilegi dei cittadini stranieri ma indirettamente rivoluzionò anche la storia di più lungo periodo della Tunisia, scardinando lo status consolidato del notabilato musulmano. Nel processo di riforma vennero coinvolte anche le istituzioni della comunità ebraica, che, come nel caso di quelle musulmane, vennero sciolte con la progressiva affermazione dell’ordinamento nazionale. Per gli ebrei con nazionalità europee, molti dei quali italiani di origine livornese, che rappresentavano una comunità trasversale alla comunità ebraica e a quella italiana, si trattò di un’ulteriore penalizzazione in aggiunta a quelle già subite non tanto come ebrei, quanto come stranieri: con la soppressione degli ambiti di autonomia giuridica della comunità ebraica «la [sua] direzione venne riservata agli ebrei di nazionalità tunisina»47. Il postulato di una Tunisia per i tunisini, incarnato dal principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini, mise dunque in discussione non solo il quadro istituzionale di derivazione coloniale, ma anche i legami sociali, economici e culturali che ne costituivano il portato di più lungo periodo.

La tunisificazione e le riforme socio-economiche

Nelle speranze di molti appartenenti alla comunità di origine italiana, l’indipen-denza della Tunisia avrebbe dovuto rappresentare non solo la liberazione dei tunisini dal dominio francese, ma anche la fine di quelle misure imposte durante gli ultimi anni del Protettorato francese, che sotto più di un aspetto avevano penalizzato gli italiani. Un simile orientamento raccoglieva opinioni «favorevoli» anche tra quegli ita-liani nati e cresciuti in Tunisia che dal secondo dopoguerra risiedevano in Italia «per-ché le autorità francesi negavano loro il visto» per rientrare48. La speranza era che la

47 P. Sebag, Histoire des Juifs de Tunisie. Des origines à nos jours, Paris, L’Harmattan, 1991, p. 285.48 J.A. Russell, The Italian Community in Tunisia 1861-1961: A Viable Minority, Phd. Thesis, Columbia University, 1977, p. 411.

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fine del dominio francese potesse segnare l’inizio di una nuova collaborazione tra la minoranza italiana e i tunisini, come aveva lasciato intendere nell’anno dell’indipen-denza anche Habib Bourguiba, allora capo del governo e futuro presidente della Re-pubblica, rilasciando un’intervista al «Corriere di Tunisi»: «Non ignoro affatto quanto hanno fatto i vostri connazionali in Tunisia, conosco i pregi dei lavoratori italiani»49. Sulla scia di tale affermazione la comunità italiana prese prudentemente le distanze da quel clima di tensione politica che oppose i gruppi paramilitari francesi e le frange più estreme del nazionalismo tunisino, in un crescendo che nelle ultimissime fasi del processo di decolonizzazione portò il paese «sull’orlo della guerra civile»50.

L’accorato appello lanciato dalle colonne del « Corriere di Tunisi» dal direttore Elia Finzi, a oltre tre anni dall’indipendenza, sintetizzava bene la speranza di una possi-bile collaborazione tra tunisini, italiani di Tunisia e governo italiano una volta con-clusa la lotta contro gli ex colonizzatori:

Occorre costruire, creare lavoro in attesa del miglioramento della situazione economica lo-cale; abbiamo bisogno di scuole, di scuole artigianali serali, di centri culturali, di asili, di ospe-dali e di banche. Urge edificare e l’Italia non potrà trarne che vantaggi di vasta portata, perché ciò significherebbe aver fiducia nel giovane e dinamico governo tunisino e nel contempo gettar le fondamenta per gli sviluppi dei rapporti tra i due paesi, che si intendono impostare in tutti i settori, attraverso un ritmo ascensionale51.

Gli eventi presero tuttavia un’altra piega, come ricorda Daniele, testimone diretto di quella stagione per essere l’erede di una dinastia imprenditoriale italiana:

Io e mio fratello lavoravamo con mio padre, era il 1955, l’anno dell’autonomia interna. Mio padre fece un ragionamento che ci vide concordi: noi abbiamo vissuto e lavorato fino a oggi in un paese che era un Protettorato. Siamo riusciti a realizzare qualcosa. Dunque siamo arrivati a far fronte a tutte le difficoltà. Oggi in un Paese che diventa indipendente, dove siamo sempre vissuti, le cose non dovrebbero cambiare, anzi dovrebbero migliorare. Dovrebbero migliorare perché è un Paese indipendente che certamente cercherà di svilupparsi e cercherà di raggiun-gere gli scopi che molti vagheggiano. Allora papà propose per il nostro stabilimento industriale un piano quinquennale di investimenti per ammodernare il materiale e sviluppare la produ-zione. D’accordo. Tre anni dopo, son cominciate le tegole, e che tegole!52

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, il governo tunisino emanò una serie di provvedimenti legislativi che furono intesi a realizzare l’emanci-

49 «Il Corriere di Tunisi», 23 novembre 1956, riportato in S. Finzi, La condizione lavorativa degli italiani in Tunisia nel passaggio dal protettorato francese all’indipendenza tunisina, in Ead. (a cura di), Mestieri e professioni degli italiani di Tunisia, Tunisi, Finzi éditeur, 2003, p. 87.50 K.J. Perkins, A history of modern Tunisia, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, p. 129.51 E. Finzi, I nostri problemi, «Il Corriere di Tunisi», 19 luglio 1959. 52 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.

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pazione politica e sociale del paese, «tunisificando» l’amministrazione pubblica e ri-servando intere categorie professionali ai cittadini tunisini. L’indipendenza nazionale imponeva infatti alla nuova élite dirigente tunisina di procedere rapidamente a una riforma delle strutture economiche e sociali di derivazione coloniale che facevano di molti tunisini dei cittadini di seconda classe nell’accesso all’istruzione, al lavoro e ai servizi statali. L’inserimento di funzionari e tecnici tunisini nell’amministrazione dello stato passò dagli «oltre 12 mila dipendenti francesi», che al momento dell’indi-pendenza erano ancora in ruolo in molti uffici e servizi tecnici, a «qualche dozzina di esperti» nel 196053. Se per un verso una simile riforma completava nei progetti della dirigenza tunisina la decolonizzazione dello stato, per l’altro «trasformò la funzione pubblica in una fonte di reddito fisso» alla portata dei ceti medi urbani e conseguen-temente in uno dei principali strumenti di creazione del consenso attorno al partito unico54: l’amministrazione dello stato infatti passò rapidamente dalle 12 mila unità del 1956 alle oltre 80 mila del 1960, rispettivamente dal 5,7 al 18,8% della composi-zione totale della forza lavoro in area urbana su scala nazionale55. La tunisificazione dell’amministrazione ebbe dunque la funzione di arginare gli effetti negativi della de-colonizzazione sul versante dell’occupazione, insieme a una serie di cantieri ad alto impiego di mano d’opera che furono finanziati soprattutto grazie alla cooperazione con gli Stati Uniti e poi con l’Italia. Il risultato un po’ paradossale nel rapporto non con l’Italia ma con gli italiani di Tunisia fu che la prospettiva della collaborazione si rivelò impraticabile e allora molti residenti italiani lasciarono il paese.

La tunisificazione del mercato del lavoro iniziò con l’istituzione a norma della legge 5 novembre 1959 della Carte du travail, senza la quale gli stranieri non avevano il diritto di esercitare alcuna attività salariata. I primi a esserne colpiti furono i tassisti, specie francesi, che con altri europei, in particolare maltesi e italiani, possedevano circa un terzo delle licenze revocate nel giro di pochi giorni. Dopo i tassisti furono interessate dalla riforma altre figure professionali che conducevano attività per le quali non era richiesta un’alta specializzazione tecnica, come per esempio la gestione di immobili o le rappresentanze commerciali56. La tunisificazione del mercato del lavoro non poteva infatti che essere un processo graduale di sostituzione dei tunisini ai lavoratori di origine straniera, perché le competenze tecniche dei tunisini in molti campi erano inadeguate, se non del tutto assenti, tanto che alcuni vuoti lasciati dagli europei furono particolarmente difficili da colmare.

Nello stesso novembre 1959 venne inoltre vietata l’assunzione di lavoratori stra-nieri in qualità di apprendisti e lavoratori generici: il provvedimento in aggiunta al

53 M. Kraiem, Etat et société, cit., p. 187.54 H. Timoumi, La Tunisie (1956-1987), Tunis, Editions Cenatra, 2008, p. 43.55 Ibidem.56 M. Mozzati, Il problema della collettività italiana di Tunisia dopo la Seconda Guerra Mondiale, «Il Politico», 1963, 4, p. 941.

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problematico riconoscimento dei diplomi delle ex scuole italiane «escluse da un giorno all’altro dal mercato del lavoro» i figli degli italiani, accrescendo il fenomeno già ampiamente diffuso della disoccupazione all’interno della comunità57. Ricorda Daniele, ingegnere e imprenditore formatosi alla scuola italiana e francese, ancora oggi residente a Tunisi:

Quando la professione non era indispensabile si finiva per essere messi da parte. Io ero in-dispensabile perché tecnico e ingegnere; di mio fratello laureato in Economia e commercio se ne poteva invece fare a meno. Vi erano migliaia di meravigliosi artigiani italiani che erano di-ventati tali perché erano stati gli apprendisti del padre, il quale era stato apprendista del nonno. Con la proibizione dell’apprendistato anche a titolo gratuito ai non tunisini ci fu il fuggifuggi generale: hanno preferito rompere i loro macchinari e partire con la valigia di cartone. Soltanto coloro che erano troppo vecchi sono rimasti a lavorare fino a novant’anni58.

Un altro provvedimento chiave fu la legge del 30 agosto 1961, che introdusse la Carte de commerçant. In modo simile al provvedimento del 1959, la nuova legge vin-colava al possesso di una patente la possibilità di svolgere attività commerciali da parte dei cittadini stranieri, pena la chiusura e la nazionalizzazione dell’attività. La Carte venne concessa solamente a titolo provvisorio e revocabile perché per i lavo-ratori tunisini, si legge in un’analisi del Consolato italiano, «non era ammissibile che dove anch’essi erano capaci di lavorare continuassero invece a lavorare degli stra-nieri», cosicché la competizione per il lavoro che si andava innescando tra italiani e tunisini fece venir meno quell’elemento di «rispetto e umanità con il quale gli italiani si erano sempre interrelazionati con l’elemento arabo»59. In realtà si trattava piuttosto di mettere in discussione quella regola non scritta della società coloniale per la quale erano i tunisini a lavorare per gli europei e non viceversa. Un simile disagio emer-geva evidentemente da parte di chi, come Giancarla, negli anni Sessanta si trovò a «lavorare con i tunisini perché ve n’era bisogno e non si poteva guardare che fossero tunisini»60.

I provvedimenti di tunisificazione vennero considerati da alcuni italiani alla stre-gua di «un modo indiretto per spingerli ad andar via», come ricorda Ferruccio, che era odontotecnico e poté continuare a lavorare con l’ospedale, mentre i suoi due fratelli, Carlo e Ubaldo, che erano nel commercio, dovettero andarsene61. Indicativo ancora il racconto che Giancarla fa con riferimento al negozio di bilance del marito Vincenzo nella città di Sfax, a metà degli anni Sessanta:

57 G. Gianturco, C. Zaccai, Italiani in Tunisia, cit., p. 58.58 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.59 Asdmae, AP 1950-1957, b. 1110, f. 1955-1956, telespr. n. 7034/1293, da Tunisi a Roma e Parigi, 29 marzo 1956, riportato in D. Barbero, Politiche e processi di inclusione ed esclusione nella Tunisia indipendente, cit.60 Intervista a Giancarla B., Tortona, 22 aprile 2009.61 Intervista a Ferruccio S., Hammamet, 27 luglio 2011.

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Gli ispettori del lavoro vennero nel negozio di mio marito e gli dissero che doveva prendere tre ragazzi musulmani a lavorare con lui, ma Vincenzo non aveva abbastanza lavoro per as-sumerli. E loro ancora: «Lei deve prenderli, così il giorno che va via c’è chi la sostituisce». Mio marito rispose allora che a fine mese chiudeva e fu una scelta obbligata. Prima aveva avuto un permesso per lavorare di cinque anni poi tre poi infine uno62.

A pesare era sicuramente anche la discrezionalità dei provvedimenti che finirono per indulgere verso mestieri e persone altamente specializzate, mentre in altri casi la patente per lavorare e restare in Tunisia venne negata. Nel complesso i provvedimenti di tunisificazione colpirono duramente l’imprenditoria espressione della comunità di origine italiana, che secondo le stime prodotte nell’ottobre del 1959 dal ministero dell’Industria italiano contava 415 imprese industriali, 1.760 artigiane e 518 commer-ciali63. Gli italiani per la prima volta si trovarono di fatto equiparati ai loro maggiori competitori, i francesi, ma solo nel momento in cui si trattava di liquidarne status e beni.

La riforma a tappe forzate dello stato coloniale perseguiva un progetto di equità sociale che, nonostante tutti i limiti e i veri e propri fallimenti registrati a posteriori, negli anni dell’indipendenza venne considerato come un obiettivo politico irrinuncia-bile. Non si trattava allora di disconoscere l’importanza del lavoro degli italiani, che era stato invocato a fondamento della collaborazione con i tunisini dalle colonne del «Corriere di Tunisi», ma di inserirlo nel contesto della nuova Tunisia come pensava l’allora segretario generale del sindacato Union générale tunisienne du travail (Ugtt), Ahmed ben Salah, che nel 1956 aveva esortato «tutti i compagni italiani a partecipare con tutti i lavoratori [tunisini] alla costruzione del paese»64. Fu ritenuto inaccettabile lo status privilegiato dei lavoratori europei, che pur essendo diverso dagli uni agli altri per grado di istruzione, possibilità economiche e sociali, finiva sempre per essere percepito da parte tunisina come ingiustamente sovraordinato, anche da parte di quei tunisini che economicamente stavano meglio di alcuni italiani. Si rivelò in definitiva sbagliato quel teorema che insisteva sulla comune soggezione di italiani e tunisini al dominio francese, con il corollario che attraverso il lavoro si sarebbe realizzata l’integrazione degli italiani nella nuova Tunisia. Ancora nel 2011 il medesimo direttore del «Corriere di Tunisi», Elia Finzi, mi raccontava con molta enfasi come «le riforme successive all’in-dipendenza furono tutte disposizioni che in fondo non avevano fatto altro che copiare la precedente politica francese, quando si cercava di sradicare la presenza italiana», mentre gli italiani si sentivano «da tempo installati nel paese al pari dei nativi»65. L’er-

62 Intervista a Giancarla B., Tortona, 22 aprile 2009.63 N. Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, cit., p. 168.64 «Il Corriere di Tunisi», 23 novembre 1956, riportato in S. Finzi, La condizione lavorativa degli italiani, cit., p. 87.65 Intervista a Elia Finzi, Tunisi, 25 luglio 2011.

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rore di fondo risiedeva proprio nel fatto che gli italiani non erano alla pari dei «nativi». Vi era una tensione tra l’esigenza di riforme in chiave nazionale e la salvaguardia di una società differenziale alla quale i residenti italiani ed europei miravano attraverso il compromesso dell’indipendenza politica. A queste condizioni, le attività di lavoro de-gli italiani, con la loro supposta funzione positiva e fattiva, non assicurarono loro un posto nella nuova Tunisia indipendente, anzi fu proprio su tale base che essi vennero discriminati.

Per alcuni italiani che vissero in prima persona i traumi legati alle politiche di tunisificazione, la memoria del passato rimane fortemente legata a una glorifica-zione del lavoro che acquista i connotati di un vero e proprio mito fondante del loro essere italiani di Tunisia. Ferruccio, che ha lavorato come odontotecnico a Tunisi, ma parla anche in qualità di «storico per passione», riconduce la sua italianità «alla superiorità intellettuale, alla grandezza, al lavoro, alle grandi opere, alla creatività degli italiani che in un certo qual modo la storia di Tunisia testimonia». Ferruccio, che non ha mai militato in partiti politici, dice di «appartenere a una destra na-zionale, verde, bianco e rosso... pas d’equivoque... ho amici di tutte le parti, anche comunisti, e l’Italia a sfasciarla fu il fascismo durante la guerra»66. Si tratta di un’ap-partenenza che, al di là di una parte o di un progetto politico ben identificabile, lega direttamente l’italianità alla nazione e al territorio attraverso la pratica nobilitante del lavoro: in senso lato si procede così a un’appropriazione dello spazio tunisino e una sua riconfigurazione o ricostruzione metastorica nei termini di una Tunisia ita-liana. Una tale narrazione può essere ricondotta a quel più generale mito degli «ita-liani brava gente» che tanta parte ha avuto «nell’ostacolare una ricerca più attenta sui crimini commessi contro le popolazioni colonizzate, contro gli ebrei, e contro i civili nei territori occupati nel corso della seconda guerra mondiale»67. Nel caso degli italiani di Tunisia, il mito relativo al loro lavoro non li ha certo aiutati a pren-dere coscienza del fatto che nella prospettiva dei tunisini essi furono e continuano in parte ad essere assimilabili ai colonizzatori francesi, piuttosto che a qualcos’altro di radicalmente diverso.

La nazionalizzazione delle terre e la fine della comunità italiana

Un ultimo duro colpo agli interessi economici della comunità di origine italiana venne dalla legge del 12 maggio 1964, che legava il diritto di proprietà sulla terra alla cittadinanza tunisina. Per l’emanazione della legge che nazionalizzava le terre degli stranieri venne scelta una data simbolica a ricordo e in rivalsa di quel 12 maggio 1881, quando venne istituito il Protettorato francese sulla Tunisia. Si trattava, nella prospet-

66 Intervista a Ferruccio S., Hammamet, 27 luglio 2011.67 S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 273, 275.

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tiva del governo tunisino, di assestare «un colpo fatale agli intessi della Francia»68, ma a essere colpite furono anche le proprietà italiane il cui valore superava con buona probabilità i 25 miliardi di lire dell’epoca, sebbene vi fossero differenti stime al rialzo e al ribasso per motivi opposti69. La nazionalizzazione nel suo complesso provocò perdite economiche più ingenti per i proprietari francesi che detenevano i grandi latifondi e costituivano il vertice della piramide dei proprietari terrieri in Tunisia, ma il numero dei piccoli e medi proprietari italiani era complessivamente più grande di quello dei francesi70: secondo il Consolato italiano a Tunisi furono colpiti circa «100 capi famiglia, [...] trattasi di una cinquantina di grossi proprietari che superavano i cinquanta ettari, di circa 200 proprietari medi con appezzamenti tra i 15 e i 50 ettari e 750 piccoli proprietari ai quali andavano aggiunti gli affittuari»71. Folco, che negli anni Cinquanta faceva il vitivinicoltore, racconta:

La nazionalizzazione delle terre è stato un brutto colpo. Quando ebbi Bourguiba ospite nella mia azienda gli offrii un grappolo d’oro in omaggio dai viticoltori italiani del Cap Bon ed egli mi disse: «Spero che continuerete a servire di esempio ai vostri fratelli tunisini e camminare mano nella mano con i vostri fratelli e servire di esempio per il benessere del paese». Questo manco un anno dopo ci espropriava tutti.

Folco si reinventò allora commerciante antiquario e nonostante tutto, a differenza di tanti altri agricoltori di origine italiana, continuò a vivere e lavorare in Tunisia, dove si sente ancora oggi a casa, «non avendo più famiglia altrove»72.

Nella ricostruzione che Elia Finzi mi propose durante un’intervista rilasciatami nel 2011, le nazionalizzazioni per gli italiani furono un’ingiustizia a maggior ragione perché «i francesi erano dei latifondisti, mentre gli italiani avevano dei piccoli appez-zamenti che davano loro di che vivere»73. Confrontando una simile opinione con la stampa dell’epoca è invece evidente che la prospettiva era opposta per Bourguiba e il Neo-Dustur: i tunisini avevano la necessità «di riprendersi le loro terre per poter so-stenere i loro figli»74. In effetti a quel tempo anche lo stesso Finzi, firmando l’editoriale del 12 giugno 1965 sul «Corriere di Tunisi», guardava con un atteggiamento di grande comprensione ai provvedimenti emanati dal governo tunisino:

68 H. Timoumi, La Tunisie, cit., p. 57.69 N. Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, cit., p. 170. 70 Gli acri nazionalizzati furono complessivamente 400 mila, di cui 150 mila erano di proprietà di persone fisiche francesi, 147 mila di persone giuridiche francesi, 45 mila di coltivatori italiani e 15 mila di maltesi. Cfr. C.H. Moore, Tunisia Since Independence. The Dynamics of One-Party Government, Berkeley, University of California Press, 1965, p. 206. 71 Asdmae, Telegrammi 1964, vol. 67, n. 13370, da Tunisi a Roma, 18 maggio 1964, riportato in D. Barbero, Politiche e processi di inclusione ed esclusione nella Tunisia indipendente, cit.72 Intervista a Folco E., Hammamet, 27 luglio 2011.73 Intervista a Elia Finzi, Tunisi, 25 luglio 2011.74 «Al-Amal», 14 maggio 1964.

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La Tunisia è un paese nuovo che deve dotarsi di strutture nuove e così vuole sbarazzarsi e spolverare le tante strutture economiche inadeguate nella maggior parte dei casi da un lungo periodo di dipendenza per servire da completamento ad un’economia colonialista... Cosa do-vevano fare i dirigenti della Repubblica? Quello che hanno fatto75.

La nazionalizzazione era intesa da parte tunisina a trasformare rapidamente i beni fondiari in proprietà private che avrebbero dovuto essere commercializzate e immesse sul mercato, così da renderle fruibili a nuovi proprietari tunisini. La libe-razione delle terre voleva rappresentare allo stesso tempo la fine di quel lungo pro-cesso di decolonizzazione e l’inizio di una politica di sviluppo attraverso l’economia di piano che, sotto l’emblema della lotta alle ultime vestigia coloniali, perseguiva anche un’esigenza di riforma tutta interna al mercato e alla società tunisina. Insieme alla nazionalizzazione delle terre degli stranieri venne infatti nazionalizzato anche un gran numero di terre incolte di proprietari tunisini, «per la maggior parte commer-cianti e professionisti che erano raramente presenti nelle loro proprietà»76. Le varie riforme intraprese dopo l’indipendenza perseguirono dunque non solo la trasforma-zione delle istituzioni di epoca coloniale, ma anche la modernizzazione di quelle pre-coloniali che durante l’occupazione straniera erano state per gran parte cooptate nel sistema amministrativo e produttivo francese. I risultati nel medio periodo furono tuttavia deludenti e le cooperative agricole create e gestite in modo centralizzato dal governo tunisino finirono presto in passivo. La successiva rinuncia all’economia di piano, e in particolare lo smantellamento del sistema cooperativo, portò poi nel lungo periodo al ritorno a una concentrazione delle terre, poiché «i contadini che lascia-rono le cooperative non avevano più i mezzi per coltivare i loro terreni e l’unica possibilità divenne allora quella di darle in affitto o cederle definitivamente ai grandi proprietari»77.

Gli echi delle nazionalizzazioni si fecero sentire anche in Italia, dove tuttavia pre-valse ancora una volta quell’impostazione di politica estera per la quale la priorità non era la difesa degli interessi residui della comunità di origine italiana, ma il buon corso delle relazioni politiche e commerciali con la nuova Tunisia. Le riforme eco-nomiche inaugurate da Bourguiba, oltre ad affermare la sovranità nazionale, dove-vano anche far fronte al drammatico ritiro dell’aiuto tecnico-economico deciso dalla Francia nel 1957 e protrattosi poi fino al 1968, in ritorsione per l’appoggio tunisino al Fronte di liberazione nazionale algerino (Fln). Le buone relazioni con l’Italia, insieme a quelle con gli Stati Uniti, rappresentavano per la Tunisia un tentativo di surrogare alla dipendenza da Parigi. Per l’Italia la cooperazione con la Tunisia assu-meva la prospettiva di un importante strumento nel quadro della politica mediterra-

75 Riportato in S. Finzi, Il «Corriere di Tunisi», cit., pp. 159-160.76 T.L. Azaïez, Tunisie, cit., p. 61.77 Ibidem, p. 72.

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nea e del più generale ritorno in Africa dopo la liquidazione delle colonie. La firma nel 1958 dell’accordo italo-tunisino che liberalizzava l’interscambio commerciale tra i due paesi e superava il monopolio esercitato dai francesi attraverso il dominio coloniale seguiva solo di un anno la firma dell’accordo di assistenza tecnica ed eco-nomica della Tunisia con gli Stati Uniti. Infine, gli accordi Fanfani-Bourguiba del 1962 aprirono all’industria italiana importanti spazi nella costruzione della nuova Tunisia indipendente, compreso lo sfruttamento del petrolio sahariano. In un simile quadro non poteva allora che essere al ribasso l’accordo siglato tra l’Italia e la Tuni-sia nel 1967 per la definizione dei risarcimenti che la Tunisia, a norma della stessa legge del 12 maggio 1964, si impegnava a pagare ai proprietari italiani espropriati. Il governo tunisino convenne su un risarcimento di 9 miliardi di lire, da trasferire in più soluzioni al governo italiano in cambio dell’apertura di una linea di credito e di aiuto economico-finanziario di 10 miliardi di lire a sostegno del commercio e degli scambi bilaterali: il risarcimento dei proprietari diventava così «un problema esclu-sivamente italiano», per di più in contropartita degli aiuti allo sviluppo promessi da Roma78.

In modo simile a quanto discusso a riguardo delle memorie degli italiani di Tunisia relative alle diverse misure di tunisificazione del mercato del lavoro, anche nel caso delle nazionalizzazioni delle terre emerge chiaramente una difficoltà, tra gli italiani di Tunisia, a prendere atto della realtà storica degli eventi. Per un verso il fallimento del progetto cooperativo tunisino acquista i connotati di una rivincita postuma in consonanza con una lettura positiva e stereotipata del lavoro degli italiani.

Con la nazionalizzazione – dice Folco, ex agricoltore nel Cap Bon – alla fine ci hanno perso i tunisini per aver dato i vigneti in mano a gente che non sapeva occuparsene o impiegati statali; io mi alzavo a mezzanotte per andare a buttare lo zolfo, al momento di curare le vigne, loro non s’alzavano e così fatto sta che la produzione in ettolitri si è più che dimezzata79.

Gli arabi – ricorda Anna Paola, parrucchiera a Tortona – non sapevano fare la vendemmia, non si sapevano gestire, un po’ inebriati da quella ricchezza acquisita tutta d’un tratto, distrus-sero in poco tempo l’azienda80.

Molte terre non produssero praticamente più nulla dalla metà degli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta – afferma Daniele, imprenditore – quando tornarono a essere date in affitto a stranieri con contratti a lungo termine perché per la legge rimaneva il divieto per uno straniero di possedere la terra81.

78 N. Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, cit., p. 177.79 Intervista a Folco E., Hammamet, 27 luglio 2011.80 Intervista ad Anna Paola I., Tortona, 22 aprile 2009.81 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.

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Si tratta di testimonianze che complessivamente offrono una ricostruzione meta-storica dei tunisini, atavicamente opposti a una modernità del lavoro e delle tecniche considerate patrimonio esclusivo degli italiani e, per estensione, dell’Occidente. Non si tiene invece conto della realtà dei fatti e di come, accanto agli innegabili problemi tecnici e alla scarsa professionalizzazione dei lavoratori, la riforma agraria venne sistematicamente criticata da tutti gli oppositori del suo maggior promotore, Salah ben Youssef, principale antagonista di Bourguiba: la riforma rappresentò in effetti un terreno di scontro tra le due correnti interne al movimento nazionale tunisino. Molti furono pronti a cogliere il «momento più opportuno per denunciare l’impresa» senza considerare la situazione di particolare difficoltà a causa della «successione eccezio-nale di più anni di siccità» e fu forse proprio la decisione di Bourguiba nel marzo 1968 di estendere d’un tratto la gestione cooperativa a gran parte del comparto produttivo a mettere in crisi il sistema stesso82. D’altra parte, l’«infantilismo» sociale dei tunisini si collega alle presunte colpe di una madrepatria che non fece nulla a protezione degli interessi degli italiani in Tunisia.

Ricorda Giacomo che, arrivato dalla Sicilia a Tunisi, non si era tirato indietro di fronte alla chiamata alle armi per la patria e si era arruolato volontario nella Marina militare italiana durante la Seconda guerra mondiale: «A quel tempo il governo ita-liano non si interessava di noi e neppure l’Ambasciata d’Italia si interessava anche se vi era una grande amicizia con loro»83. Non è dunque difficile comprendere quel sentimento di abbandono, a tratti rancoroso, coltivato nelle memorie di molti italiani di Tunisia verso un’Italia tanto amata e idealizzata che poi, alla prova dei fatti, si di-mostrava assente: anche in questo caso era e rimane difficile per gli ultimi italiani di Tunisia prendere atto di quello scarto tra le buone relazioni bilaterali italo-tunisine e i loro interessi di derivazione coloniale.

Chi parte

Le diverse misure di tunisificazione e nazionalizzazione innescarono una serie di ondate migratorie che fecero precipitare il numero degli italiani residenti in Tunisia a 10 mila nel 1969 e a 9 mila l’anno successivo84. In alcuni casi il carattere transnazio-nale delle famiglie che legava gli italiani di Tunisia a parentele in Italia o in Francia facilitò la ricollocazione per chi già da tempo viveva e conduceva affari fra Tunisia, Italia o Francia e magari si era preparato per tempo a lasciare il paese. Per molti altri però la partenza fu un vero e proprio shock, tanto più che per molte persone nate in Tunisia, figli di prima, seconda o addirittura terza generazione, l’Italia rappresentava

82 M. Kraiem, Etat et société, cit., p. 197.83 Intervista a Giacomo T., Tunisi, 4 agosto 2011.84 J.A. Clancy-Smith, Mediterranean, cit., p. 40. Un numero inferiore, 6.800, è riportato in P. Sebag, Tunis, cit., p. 612.

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una patria ideale, conosciuta spesso indirettamente o, per quei pochi facoltosi che ne avevano la possibilità, visitata durante le vacanze estive. Ricorda Daniele, che ancora oggi vive a Tunisi, come per molti italiani di Tunisia «si diceva impropriamente “il rimpatrio” in un paese che non si conosce nemmeno, di cui si parla la lingua, ma del quale non si condivideva la mentalità!»85. Non furono infatti pochi coloro che preferi-rono la Francia all’Italia. Secondo «un sondaggio molto approssimativo» condotto dal Consolato italiano a Tunisi nei primi mesi del 1959, furono circa 7 mila le famiglie (21 mila persone di cui almeno un terzo indigenti) che, con figli nati dopo il 1940, partirono per la Francia86. Secondo altri calcoli, sul totale degli italiani che comples-sivamente lasciarono il paese, almeno il 23% si diresse in Francia87.

Nell’alternativa possibile tra la madrepatria italiana e quella acquisita francese, la risposta al perché scegliere l’una o l’altra emerge in modo problematico, a tratti con-traddittorio, nelle memorie degli italiani di Tunisia. Per coloro che partirono o furono espulsi nel secondo dopoguerra l’Italia fu una scelta pressoché obbligata in quanto era ancora presente il ricordo e gli effetti pratici legati alla guerra, alle incarcerazioni e al sequestro dei beni che avevano contrapposto gli italiani ai francesi. Negli anni Cinquanta e Sessanta la situazione era invece differente e la decisione dei tanti che partirono per la Francia fu sicuramente l’esito scontato di un lungo processo di assi-milation française, in combinazione con considerazioni di tipo molto più contingente, come poteva essere una prospettiva di assistenza e inserimento lavorativo relativa-mente migliore. Coloro che partirono invece alla volta dell’Italia finirono spesso nei campi profughi per poche settimane o per parecchi anni, ma in ogni caso non furono molti quelli che riuscirono a ricollocarsi autonomamente grazie magari all’aiuto di parenti o amici. Ad anni di distanza chi visse quei momenti li ricorda particolarmente difficili, come è il caso di Anna Paola, arrivata ancora bambina nel campo di Tortona, dove finì anche Giancarla nel 1968.

Con la scuola dovetti ricominciare da capo – ricorda Anna Paola. In Tunisia avevamo preso tanto dalla cultura francese, mentre a Tortona se parlavo francese con mia madre tutti mi face-vano osservazioni perché non capivano. Io capivo l’italiano, ma non tutto, mentre sia per stu-diare e lavorare era indispensabile parlarlo bene. La gente non capiva bene, anzi avranno forse pensato che eravamo tornati perché là non stavamo bene. Eravamo considerati come persone di una razza ambigua. Ci chiedevano – ma ti hanno battezzata? La sensazione era che gli altri non fossero molto convinti che tu eri italiano. Poi dicevano che quelli come noi portavano via il lavoro agli altri, che costavano al governo, insomma un po’ dei parassiti88.

85 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.86 Asdmae, Telegrammi 1959, vol. 61, n. 21139, dal Consolato di Tunisi a Roma, 31 luglio 1959, riportato in D. Barbero, Politiche e processi di inclusione ed esclusione nella Tunisia indipendente, cit.87 R. Rainero, Rapatriés et réfugiés italiens: un grand problème historique méconnu, in J.L. Miège, C. Dubois (dir.), L’Europe retrouvée. Les migrations de la décolonisation, Paris, L’Harmattan, 1994, p. 31.88 Intervista ad Anna Paola I., Tortona, 22 aprile 2009.

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All’arrivo in città – racconta Giancarla – giravo con il dizionario di italiano perché non sapevo bene la lingua. Poi imparai anche seguendo i figli a scuola. Tra i tortonesi c’era molta ipocrisia verso il campo: avremmo dovuto avere le coperte di lino e invece facevano sparire tutto; c’è gente che si arricchì. Il sindaco poteva scegliere se ospitare militari o profughi e scelse i profughi perché così sarebbero arrivati i sussidi dal governo e ci sarebbe stata manodopera a basso costo. Solo dopo l’arrivo ci siamo sentiti italiani perché ce lo ricordavano spesso e ci siamo fatti anche onore: molte erano persone in gamba89.

È evidente lo sconcerto di chi, ritenendosi italiano, si trovò a fare i conti con un’Ita-lia che era molto diversa da quella immaginata o appresa sui libri di scuola. Proprio l’incapacità di esprimersi correttamente in italiano, avendo al contrario un’ottima conoscenza del francese, rivela l’inconsistenza di un’italianità spesso rivendicata come elemento fondante di una comunità italiana che per i cambiamenti e le trasfor-mazioni sperimentate nel corso degli anni era diventata sempre più una comunità di origine italiana. La problematicità della reciproca distanza tra italiani d’Italia e italiani di Tunisia è un dato ampiamente condiviso tra gli italiani di Tunisia, sia da parte di coloro che decisero di trasferirsi in Italia, sia da parte di chi, come l’impren-ditore Daniele, vivendo a Tunisi e viaggiando spesso in Italia, mi raccontava: «Dopo 15 giorni in Italia mi ritrovavo straniero e non avevo altra premura che di andarmene via, poiché quando discutevo con degli italiani d’Italia non ci si capiva dal momento che, pur parlando la stessa lingua, si dava un valore differente alle parole»90.

Passare dalla Tunisia all’Italia significò sperimentare non solo un processo di im-poverimento economico, ma anche un percorso di forte cambiamento sociale e cul-turale: coloro che godevano di uno status privilegiato e speciale all’interno della so-cietà coloniale proprio per essere italiani si trovarono d’improvviso in Italia a essere semplici italiani come tanti altri, o, nei casi peggiori, finirono per essere assimilati a emigranti qualsiasi e spesso rappresentati attraverso stereotipi negativi. Eppure la conclusione di Giancarla era che lasciare la Tunisia finiva in prospettiva per essere inevitabile: «Anche se non vi fossero state tutte quelle misure discriminatorie a danno degli stranieri, col tempo saremmo comunque partiti per i figli perché non c’era fu-turo per loro in Tunisia». Allora, nella scelta tra Italia e Francia, ben sapendo che in ogni caso si sarebbe trattato di ricominciare la vita da capo, l’Italia offriva una sicu-rezza maggiore: «In fondo in Italia eravamo a casa nostra, se fossimo andati in Fran-cia chi ci garantiva che poi non ci avrebbero cacciati ancora una volta?»91. Si partiva dunque, come anche Anna Paola, non perché in Tunisia non si stava bene, ma piut-tosto perché quel tipo di benessere era sempre meno compatibile con i mutamenti legati all’indipendenza tunisina. La scelta era più tattica che ideale e si riassumeva

89 Intervista a Giancarla B., Tortona, 22 aprile 2009. 90 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.91 Ibidem.

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nel compromesso di rinunciare ai privilegi sociali ed economici per godere in Italia di una tranquillità garantita da un diverso quadro politico. L’esigenza di ricollocarsi in una società nuova obbligò dunque gli italiani di Tunisia a ripensare la propria appartenenza composita italo-franco-tunisina in ragione del paese di destinazione: Italia o Francia. La rinuncia a quel tipo di appartenenza transnazionale fu spesso un percorso doloroso dal punto di vista del disagio psicologico, ancor prima che delle difficoltà materiali.

Chi resta

Nonostante il numero complessivo degli italiani residenti in Tunisia scese pro-gressivamente nel corso degli anni Sessanta e ancora di più diminuì nel corso dei due decenni successivi, il radicamento degli italiani risultava ancora significativo secondo i dati del censimento generale della popolazione del 1966. La percentuale di stranieri residenti «da sempre» nel paese, su quella di quanti arrivarono dopo l’indipendenza, superava nel caso degli italiani il 62%, mentre per i francesi si fer-mava al 43. Gli italiani rappresentavano infatti la minoranza in termini assoluti con l’età media più alta (45,4 anni) in ragione della loro presenza di lungo corso92. Tuttavia la minoranza italiana che scelse di restare in Tunisia perse quella dimen-sione culturale e sociale comunitaria, finendo per essere composta sempre più da singoli individui che coltivavano la memoria di una comunità che nella realtà stava scomparendo. In tal senso andavano le conclusioni anche dell’analisi dei dati del censimento del 1966, che suggerivano come si trattasse di «persone che avevano sempre vissuto in Tunisia e avevano preferito restare a “casa loro” nel loro paese natale»93. La scelta di rimanere in Tunisia venne perseguita per vie apparentemente alternative, difendendo il proprio status sociale sia per mezzo del passaporto ita-liano, sia prendendo quello tunisino. Ai molti che decisero di rimanere italiani in Tunisia, il passaporto italiano assicurò risorse materiali e simboliche autonome e supplementari, come nel caso del sussidio erogato ai più bisognosi dall’ambasciata o dalla Sia: nonostante il numero delle famiglie assistite fosse sceso a 300 nel 196894, buona parte del bilancio della Sia veniva ancora impiegato per «le spese mediche e i contributi alimentari»95. È il caso di Maria che, rimasta sola senza marito e senza una famiglia ad aiutarla, vive oggi ospite di una casa di riposo a La Goulette, nei pressi di Tunisi.

92 Institut National de la Statistique, Recensement général de la population et des logements du 3 Mai 1966, vol. I, Tunis, Imprimerie Ugtt, 1973, p. 252. 93 Ibidem.94 Asia, verbale del 7 ottobre 1968.95 Asia, esercizio di gestione 1969.

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Dopo che tutti i miei parenti morsero, chiesi all’Ambasciata se almeno mi davano una pen-sione perché ho 82 anni e non posso ire a lavorare, che sugnu malata. Meglio una pensione qua che se parto per l’Italia là costa più caro. Purtroppo mi pagano solamente la retta e quando sono malata le medicine e il dottore96.

Per altri non era solo questione di indigenza, ma anche della mancanza di legami e parentele. Come ricorda ai nostri giorni Antonietta, un’anziana signora di fami-glia sarda che visse a lungo nella campagna tunisina senza mai sposarsi: «Io stavo tranquilla qui e dove sarei potuta andare? Non avevo nessuno dal quale andare e non era dunque il caso di partire»97. L’assenza di parenti in Italia si rivelò il motivo limitante per il quale anche Franca, discendente di una famiglia emigrata in Tunisia da più generazioni, risponde negativamente alla domanda circa un possibile tra-sferimento in Italia: «Sono sola, non ho nessuno in Italia, cosa devo andare a fare? Non ho fratelli, non ho sorelle, non ho nessuno. Sono sola, quando una persona è sola, è sola»98.

Per altri ancora si trattava di assicurarsi, grazie al passaporto italiano, una libertà di movimento attraverso i confini internazionali: non furono infatti pochi coloro che elessero la Tunisia come loro residenza principale, spendendo poi una parte impor-tante della loro vita privata e lavorativa in Italia, in Francia o altrove, proprio a testi-monianza di quanto, al di là di ogni professione di italianità, la realtà era quella di una forte appartenenza transnazionale degli ultimi discendenti della comunità storica di origine italiana. Folco, italiano di una famiglia emigrata dalla Toscana già a metà del XIX secolo, alla domanda se aveva mai pensato di trasferirsi in Italia risponde con decisione: «Ma io sono in Italia, vado e vengo continuamente da anni. Abito spesso a Ostia e ogni tanto vado in Toscana, vado a destra e a sinistra a trovare tutti gli amici»; per poi sottolineare però di starsene per buona parte dell’anno ad Hammamet, a un’ora di macchina a sud di Tunisi.

Al contrario, optare per la cittadinanza tunisina, voleva di fatto dire mettersi al ri-paro dalle diverse misure di tunisificazione e inserirsi in un contesto normativo che favoriva ampiamente il cambio di nazionalità. La legge sulla cittadinanza approvata nel 1963, infatti, «riproponeva la stessa politica francese sulle naturalizzazioni»99: è cittadino tunisino chi nasce in Tunisia da genitori nati in Tunisia, ossia il caso di molti italiani. Resta difficile dire quanti furono gli italiani che scelsero questa strada, dal momento che le statistiche ufficiali non riportano un dato scorporato per gli italiani, ma rivelano solo il dato aggregato relativo ai passaggi di cittadinanza, che effettiva-

96 Intervista a Maria G., La Goulette, Tunisi, 20 luglio 2011.97 Intervista ad Antonietta S., Tunisi, 4 agosto 2011.98 Intervista a Franca M., La Goulette, Tunisi, 20 luglio 2011.99 G. Gianturco, C. Zaccai, Italiani in Tunisia, cit., p. 60.

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mente in corrispondenza degli anni cruciali delle riforme politiche ed economiche rivelano picchi nell’ordine delle cinquecento o mille unità all’anno100.

Sicuramente per chi rimase italiano il cambio di cittadinanza altrui venne vissuto, e ancora oggi è così, come un tradimento di quell’italianità, culturale e linguistica, alla quale veniva collegato il lavoro italiano e per estensione la religione cristiana. Commenta Daniele, uno degli esponenti dell’élite della comunità italiana nel secondo dopoguerra:

Non ho preso la nazionalità tunisina primo, per il ricordo delle nostre lotte contro la politica di naturalizzazione francese, per non cedere all’imposizione. Secondo perché la Costituzione tunisina dice che la Tunisia è un paese musulmano la cui religione è l’Islam: in quel modo sarei sempre stato un cittadino di seconda classe. Terzo vi era il fatto che malgrado le gravosissime difficoltà che avevamo nell’esercizio professionale io ero molto meglio piazzato di coloro che si erano naturalizzati, i quali furono sempre trattati con disprezzo perché naturalizzati per interesse e unicamente per interesse101.

Chi scelse invece di farsi tunisino fu Jean-Claude Tardi: figlio di una famiglia di origine siciliana e cresciuto in una scuola francese a Parigi, Jean-Claude cambiò il suo nome in Hatem, insieme alla cittadinanza tunisina, per «salvare tutto, la nostra incolumità e la proprietà», dal provvedimento di nazionalizzazione del 1964102.

Il parallelo con il periodo coloniale è implicito. Durante gli anni del Protettorato francese la naturalizzazione di tanti italiani avvenne sulla base dell’incontro tra una pressione politica da parte francese e gli evidenti vantaggi che il cambio di nazionalità poteva portare a tanti italiani emigrati in Tunisia. Una situazione simile si riprodusse al momento dell’indipendenza nel rapporto questa volta con il nuovo potere politico tunisino. Nel ricordare entrambe queste fasi storiche, emerge una volta in più nelle memorie degli italiani di Tunisia una narrazione costruita a posteriori, edulcorata e confortante, con il fine di legittimare la scelta di chi rimase italiano. Le sole ra-gioni possibili per spiegare le naturalizzazioni diventavano così le pressioni prima dei francesi e poi dei tunisini alle quali alcuni italiani per debolezza cedettero, mentre altri resistettero a dispetto di tutto e di tutti. Se tuttavia era vero che chi, come Jean-Claude, divenne tunisino lo fece per «interesse», come sostiene Daniele, e/o magari per un sentimento di sincero attaccamento al paese dove viveva da tutta una vita, è altrettanto vero che chi rimase italiano, come lo stesso Daniele, fondò la sua scelta

100 République Tunisienne, Secrétariat d’état à la présidence, Direction du Plan, Service des Statistiques, Annuaire Statistique de la Tunisie, Imprimerie du Nord Tunis, dal 1957 continua come République Tunisienne, Premier Ministre, Institut National de la Statistique, Annuaire Statistique de la Tunisie, Imprimerie Officielle de la République Tunisienne, Tunis dal 1968.101 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.102 Intervista a Jean-Claude Tardi, riportata in E. Tartamella, Emigranti anomali. Italiani in Tunisia tra Otto e Novecento, Priulla-Palermo, Maroda, 2011, p. 249.

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pur sempre sulla base di un interesse, seppur di segno diverso. Sono le stesse parole di Daniele a indicare come, al di là di quell’ideale di lotta per l’italianità della Tunisia, le altre ragioni erano tattiche: il calcolo che sul versante economico la sua professione continuava a garantirgli un «piazzamento migliore» rispetto a ogni ipotesi collegata al cambio di cittadinanza, e la convinzione che l’uguaglianza di tutti i cittadini sancita dalla Costituzione tunisina non valeva per i cristiani.

Nel racconto di Daniele la religione è sempre stata «un problema» nel rapporto con i tunisini:

Tradizionalmente in Tunisia si praticava l’Islam di scuola malikita, moderato, aperto, molto conciliante, che purtroppo è stato praticamente neutralizzato da un’introduzione massiccia del wahabbismo saudita, che è la forma più retrograda che ci sia nell’Islam. Negli anni Cinquanta il problema era minore perché nella borghesia vi erano molti musulmani laici per i quali la re-ligione non doveva indirizzare la vita quotidiana delle persone. Poi con l’alfabetizzazione delle masse e il loro elevarsi sociale anche il wahabbismo si è diffuso conseguentemente perché queste masse hanno acquistato istruzione, ma non cultura – e quella è la cosa pericolosa – sono manipolabili, sono influenzabili, e poi non son capaci di riflettere e di ragionare103.

Si tratta di una narrazione che, in modo simile al discorso sul lavoro degli italiani e le nazionalizzazioni, replica alcuni degli stereotipi di epoca coloniale nel rapporto tra la presupposta civiltà degli europei e una socialità astorica e irrazionale dei tunisini. L’epoca di Bourguiba, quando il principio di laicità era uno dei cardini dell’azione di governo in una Repubblica che pur costituzionalmente riconosceva l’Islam religione di stato, diventa il paradigma positivo di una storia che anche per Ferruccio, un al-tro italiano di Tunisia, aveva intrapreso una parabola significativamente diversa da quando «i tunisini erano tornati all’islamismo che ancora oggi è un problema»104. La preoccupazione per un presente irrimediabilmente peggiore del passato ritorna anche nel racconto di Giacomo, che vive in una casa di riposo gestita da religiose cat-toliche e discute della piega islamista presa dalla transizione tunisina alla democrazia nella primavera del 2011: «Con gli islamisti si finisce ad avere un governo arabo e razzista e noi siamo fregati, siamo in pericolo; comandano loro e c’est fini! Noi siamo europei e finisce che ci danno dei calci nel sedere e ci dicono... “andate via!”»105. Nei racconti degli italiani di Tunisia l’Islam viene dunque considerato tanto nel passato quanto nel presente come una costante nel rapporto dialettico tra italiani e tunisini, e in particolare come un ostacolo difficilmente superabile nella prospettiva di un reale inserimento nella società tunisina o addirittura come possibile causa della loro partenza dalla Tunisia nel prossimo futuro. In definitiva, mantenere la cittadinanza

103 Intervista a Daniele P., La Goulette, Tunisi, 29 luglio 2011.104 Intervista a Ferruccio S., Hammamet, 27 luglio 2011.105 Intervista a Giacomo T., 4 agosto 2011.

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italiana o prendere quella tunisina era una scelta tattica, accuratamente ponderata, in modo non dissimile dalla decisione che portò altri italiani di Tunisia a partire per l’Italia o la Francia.

Negli anni Novanta si compì forse l’ultimo atto di quella lunga parabola decre-scente della comunità storica di origine italiana, quando fu possibile acquisire la cit-tadinanza tunisina senza più dover rinunciare a quella italiana. Molti degli ultimi italiani di Tunisia compirono allora quel passo, come Wanda e Salvatore, una coppia di italiani di Tunisi che ha trascorso tutta la vita a La Marsa:

Un conto era prendere il passaporto tunisino per avere tutti e due, quello tunisino e quello italiano: ma nel 1977 mi avevano detto: «No, devi rinunciare alla tua nazionalità e prendere la tunisina». Allora dissi di no, perché avere due nazionalità va bene, ma rinunciare alla mia no, mentre adesso si può fare106.

Proprio la constatazione che un simile passo non ha prodotto particolari traumi rivela per un verso il carattere interessato, più che ideale, delle scelte pregresse, e per l’altro il lungo processo di interiorizzazione di un’appartenenza tunisina, al di là di tutte le dichiarazioni intorno all’italianità.

A partire dagli anni Novanta si andò infine consolidando una nuova presenza ita-liana in Tunisia, fatta di professionisti, imprenditori e tecnici attirati dalle opportunità di lavoro create dalle privatizzazioni promosse da Zine el-Abidine Ben Ali, che nel 1987 aveva preso il posto di Bourguiba alla guida del paese e del partito. Per questi nuovi italiani è improprio parlare di emigrazione o di comunità di espatriati, ma proprio la loro presenza nel paese finisce per mettere ulteriormente in discussione l’italianità dei vecchi italiani di Tunisia. Come commenta Elia Finzi circa i nuovi ita-liani dalla sua scrivania al «Corriere di Tunisi»:

Si tratta di una nuova generazione molto più aleatoria perché non ha lo stesso spirito di presenza, non risiede qui; si può dire che siano dei turisti che vengono qui per raggiungere il massimo dei soldi e poi vanno via, tutti i fine settimana tornano in Italia, non hanno la volontà di impiantarsi e allevare una famiglia107.

Il contrasto tra vecchi e nuovi è rivelatore, al pari dell’acquisizione della doppia cittadinanza, di quanto per i vecchi italiani risiedere in Tunisia volesse dire in ultima istanza farsi tunisini, in rapporto però a una Tunisia che non era quella militante e nazionalista uscita dalla decolonizzazione, ma piuttosto quella cosmopolita ottocen-tesca aperta ad apporti culturali diversi e prima di tutto italiani. Una volta in più quel che resta difficile da elaborare per molti è proprio la frattura coloniale che pose fine a

106 Intervista a Wanda S., La Marsa, 22 luglio 2011.107 Intervista a Elia Finzi, Tunisi, 25 luglio 2011.

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una tale apertura multiculturale, e direttamente o indirettamente pose gli emigranti italiani su un piano prossimo a quello dei colonizzatori francesi.

Italiani e tunisini?

Le differenti traiettorie delle migrazioni degli italiani che lasciarono la Tunisia a partire dall’immediato secondo dopoguerra rivelano il carattere composito della comunità di origine italiana che si strutturò e ristrutturò nel corso del tempo attra-verso appartenenze, e in prospettiva cittadinanze, multiple. I protagonisti di questa storia plurigenerazionale testimoniano un paradigma transnazionale italo-franco-tunisino della comunità che mette in discussione la coincidenza perfetta tra stato e nazione. Rapportandosi al nazionalismo tunisino al momento dell’indipendenza del paese dove avevano trascorso la maggior parte della loro vita, oppure al nazio-nalismo italiano e francese quando lasciarono la Tunisia per trasferirsi in «patrie» diverse, gli italiani di Tunisia furono costretti a ripensare la propria appartenenza e a confrontarsi con identità forti e potenzialmente univoche. La scelta tra le diverse alternative possibili, partire per l’Italia o la Francia oppure restare in Tunisia, ancora come italiani o prendendo il passaporto tunisino, fu in definitiva presa sulla base di strategie individuali o familiari motivate da ragioni e considerazioni di ordine politico ed economico, più che ideale. Sia per coloro che partirono sperimentando il trauma del distacco e poi il rapporto con gli italiani d’Italia o i francesi, sia per coloro che restarono in Tunisia affrontando le riforme istituzionali ed economiche, l’esito era spesso quello di scoprirsi paradossalmente un po’ più tunisini, persino più di quel che gli intervistati sono disposti a pensare o ad ammettere. Proprio il duro, spesso doloroso, scontro con una realtà in rapido mutamento portò diversi italiani di Tunisia a rifugiarsi nelle memorie confortanti e auto-assolutorie di un discorso che fondava il mito della Tunisia italiana sul lavoro degli italiani, per un verso rimuovendo la storia dei rapporti e delle interazioni tra italiani e tunisini e per l’altro prendendo le distanze dal passato del dominio coloniale francese, così da legittimare la continuazione della presenza italiana nel paese. Si negava in tal modo quel ruolo specialissimo di inter-mediari del potere coloniale ricoperto dagli italiani durante il Protettorato francese e si finiva per rifuggire la realtà della lotta condotta dai tunisini per l’emancipazione sociale ed economica che metteva in discussione lo status privilegiato tanto dei fran-cesi quanto degli italiani. Da qui la nostalgia per un passato incommensurabilmente migliore di ogni possibile presente, che è poi la vera radice di quel «mal d’Africa» di cui alcuni degli intervistati si dicono sofferenti.

Se nelle memorie degli italiani ha resistito per lungo tempo il mito di una Tuni-sia italiana, il progetto politico di una Tunisia tunisina fece invece giustizia di quel potenziale conflitto di lealtà delle minoranze verso stati-nazione diversi, così temuto dai nazionalisti europei tanto quanto da quelli che lottarono per l’indipendenza delle

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colonie. Il mosaico storico della Tunisia dei secoli XIX e XX, fatto di un «cosmopoliti-smo sociale, culturale e politico», fu scardinato dall’indipendenza che, «restituendo il paese ai suoi legittimi proprietari, lo raffigura in una nazione omogenea e moderna, spogliata di quelle componenti non-musulmane e non-tunisine»108. Gli spazi lasciati liberi dalla partenza degli italiani e degli altri europei vennero in parte occupati dalle masse rurali che in quei medesimi anni sperimentarono un importante processo di inurbamento. La tunisificazione dello spazio urbano non mutò solo radicalmente il panorama di interi quartieri, facendo dei tunisini il termine primo di riferimento per connotare i nuovi residenti di città in rapida crescita, ma finì anche per cambiare lo stesso panorama storico-sociale dell’immigrazione in Tunisia, riconducendolo a una dimensione prevalentemente interna, o in ogni caso araba e africana. Le riforme politiche ed economiche varate dalla nuova classe dirigente tunisina non avevano solo l’aspirazione di colpire gli intessi consolidati degli ex colonizzatori e degli altri europei, ma puntavano anche a riformare la società liquidando i privilegi del nota-bilato tunisino legato alla dinastia regnante. Tuttavia la costruzione di una Tunisia per i tunisini non fu immune da una crescente sperequazione e conflittualità sociale. Furono i decenni successivi a dimostrare come quell’appiattimento unificante che stava alla base dell’idea di nazione arabo-tunisina promossa da Bourguiba fosse per molti, troppi versi, una forzatura e a rimettere in discussione gli assetti politici e so-ciali usciti dall’indipendenza.

108 L. Valensi, La mosaïque tunisienne: fragments retrouvés, in J. Alexandropoulos, P. Cabanel (dir.), La Tunisie mosaïque. Diasporas, cosmopolitisme, archéologies de l’identité, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2000, p. 29.