L’arcidiocesi di Manfredonia e l’episcopato di Pasquale Gagliardi Relazione al Convegno di Studi
La Capitanata nel decennio della stimmatizzazione di Padre Pio (1910-1920)
San Severo - Sala “Mario Fanelli” del Convento dei Cappuccini - 6 febbraio 2010
Ritengo che il riferimento ad un episodio di cronaca possa rendere più
chiara la presentazione dell’argomento. Nel maggio del 1919, nella Chiesa
Madre di Vieste, con l’autorizzazione dell’allora ispettorato ai monumenti
nazionali, per alcuni interventi di restauro, la statua della madonna fu rimossa
dalla nicchia e collocata in una delle cappelle laterali, mentre l’oro votivo fu
custodito in un’apposita cassa. Tali “movimenti” diffusero fra la popolazione
l’opinione che la statua e gli ex voto sarebbero stati «trafugati» dall’arcivescovo
di Manfredonia e Vieste, Pasquale Gagliardi che, in quegli stessi giorni, si
trovava in paese per la predicazione del mese mariano. La sera del 15 maggio
«una turba di giovanetti e donne dapprima, e di uomini subito dopo» si
presentò in chiesa, mentre «l’Arcivescovo stà sul pergamo», chiedendo «ad alta
voce conto della Madonna, impreca e minaccia di morte tutto il Clero e
Monsignore in specie». Nonostante il tentativo di spiegare alla «turba» i reali
motivi degli spostamenti, «la folla, composta di almeno 600 persone, non cessa
dall’urlare, imprecare, minacciar di morte l’Arcivescovo», arrivando a colpirlo.
Trasferito in un’abitazione privata
sita a circa venti metri dalla sagrestia […] la folla assedia il rifugio, fa
impeto per entrarvi colluttando violentissimamente […] l’Arcivescovo […]
preferisce affrontare la folla e parlarle; ma è subito colpito. […] Nel vederlo
stramazzare la folla ha un momento di sorpresa e di tregua dalla selvaggia
ira; del quale si usufruisce per far ricoverare l’Arcivescovo nel suo palazzo
distante circa quaranta metri. […] Dopo circa due ore di furore la folla si
disperde.1
La sentenza pronunciata dal Tribunale di Lucera il 3 agosto 1921 rivela che
la perizia medico-legale accertò «giorni trenta» di convalescenza per il presule
sipontino, mentre il processo penale condannò alla galera i principali
responsabili dei disordini.2
Una lettura asettica dell’episodio finirebbe per evidenziare l’ingenuità
dimostrata dal clero locale nel non preparare o nell’avvisare probabilmente in
ritardo i fedeli del pur temporaneo spostamento della statua per motivi di
restauro durante il mese di maggio, tradizionalmente legato alle più popolari
funzioni mariane. Un’analisi antropologica individuerebbe nell’episodio del 15
maggio 1919 a Vieste un esempio tipico del fanatismo che ha caratterizzato e, in
1 5749-5751. 2 5751 e 5774.
2
alcuni casi, continua a caratterizzare, le modalità di vivere il sacro nel
Mezzogiorno. Dal punto di vista storico, l’episodio può certamente essere
considerato come la testimonianza di un qualcosa di più profondo in grado di
svelare ben più antiche ragioni.
È innegabile che le vicende storiche dell’arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-
San Giovanni Rotondo siano state, almeno in parte, condizionate anche sia da
quella che è la sua posizione geografica sia dalla sua articolata conformazione
topografica. Alla promiscuità - ed uso il termine nella sua accezione più
positiva - delle vicende politiche, economiche e commerciali che, fin dai tempi
dell’antica Daunia, fecero prima della sede vescovile di Siponto il fulcro della
diffusione del cristianesimo nell’intera area garganica - si pensi al vescovo
Lorenzo Maiorano - quindi di Manfredonia con il suo frequentatissimo porto
sull’Adriatico, sponda di approdo e di proiezione verso i Balcani e l’Oriente, fa
eco la triplice identità marittima, montuosa e pianeggiante del territorio con i
suoi numerosi percorsi di fede e di devozione che individuarono, nella grotta
micaelica e nel santuario di San Matteo i luoghi di destinazione più frequentati
dai pellegrini nell’altomedioevo e in età moderna. A quei tradizionali luoghi di
fede - testimonianze dell’incontro ma anche dello scontro fra le diverse culture
che nei secoli attraversano il Gargano - si affianca, dal 1916, il “fenomeno”
Padre Pio.
In quell’anno la cattedra episcopale di Manfredonia apparteneva
all’arcivescovo Pasquale Gagliardi che, nel 1917 avrebbe celebrato il ventesimo
anniversario di episcopato nella sede sipontina. Gagliardi era nato a Tricarico,
nella provincia materana, il 7 dicembre 1859. Compiuti gli studi minori nel
seminario della cittadina d’origine, nel 1878 si era trasferito a Roma, alunno
dell’Almo Collegio Capranica e studente di filosofia e teologia della Pontificia
Università Gregoriana dei gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1883, aveva insegnato
le «sacre discipline» prima nel seminario minore di Tricarico, poi nel seminario
maggiore di Benevento, ricoprendo anche diversi incarichi diocesani e
regionali. Il 19 aprile 1897 Leone XIII lo designò arcivescovo di Manfredonia e
amministratore perpetuo di Vieste. Consacrato a Roma, nella cappella del
Capranica il 25 aprile successivo dal cardinale Vincenzo Vannutelli, Gagliardi
compì il solenne ingresso, all’età di trentotto anni, nella diocesi di destinazione
il 7 novembre 1897.3
Manfredonia era stata una delle diocesi meridionali che, in occasione
dell’Unità d’Italia, aveva manifestato il suo antico legame con il regno
borbonico. Anche il vescovo Vincenzo Taglialatela (1854-1869) aveva aderito
all’opposizione di alcuni rappresentanti dell’episcopato meridionale nei
confronti delle nuove autorità statali e aveva firmato, nel 1863, l’atto di protesta
3 Cfr. AGOSTINO DA SAN MARCO IN LAMIS, p. 77, nota 1.
3
contro la secolarizzazione dei seminari, lasciando, per questo motivo, la sede di
Manfredonia scoperta fino alla nomina del nuovo vescovo che sarebbe giunto
solo nel 1880. L’opposizione dell’episcopato meridionale alla nuova situazione
nazionale rappresentò il sintomo di una realtà che, nonostante le mutate
circostanze storiche, avvertiva la difficoltà a superare il regalismo borbonico, a
conferma del ruolo svolto dalla Chiesa partenopea all’interno
dell’organizzazione ecclesiastica meridionale, e quindi della distanza ecclesiale
di questa dalla pastorale romana e dal magistero papale.
L’impatto con la realtà ecclesiale di Manfredonia, per Gagliardi, non fu
certamente molto positivo. Lui era un vescovo “romano”. Nato in una diocesi
del Mezzogiorno, si era formato a Roma, nel Capranica e nella Gregoriana, nei
luoghi cioè preposti alla formazione della “classe dirigente” della Chiesa di
inizio Novecento. Una “classe dirigente” che, in quel periodo, respirava le
norme del Sillabo (1864), i principi del Concilio Vaticano I (1869), la dottrina
sociale della Chiesa inaugurata dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891) e che,
in Italia, doveva fare i conti con la cosiddetta “questione romana”. Testimone
della “romanità” confezionata in Vaticano nella seconda metà del XIX secolo,
nell’arcidiocesi sipontina Gagliardi cercò di contrapporre ad una presenza
ecclesiale ad intra - “da sagrestia” - una “romanità” che invece fosse proiettata
ad extra. In un contesto di Chiesa legato alla difesa delle consuetudini e delle
tradizioni tipiche dell’antico Regno delle Due Sicilie - nel 1899 i vescovi del
beneventano avrebbero definito quella del Mezzogiorno come una realtà
ecclesiale caratterizzata da «mancanza di spirito papale, la mobilità del
carattere, l’ignoranza del suo vero oggetto, e la grande diffusione dei giornali
liberali anche fra gli ecclesiastici»4 - il nuovo arcivescovo tentò di applicare un
concetto di Chiesa in grado di realizzare una presenza ecclesiale più incisiva
nella società. Alle tradizionali modalità di vivere la religione, fatte non solo di
tridui e novene, ma anche di un’accentuata fisicità, dove il vedere e il toccare
costituivano strumenti di non secondaria rilevanza per il rapporto personale e
comunitario con il sacro - anche soltanto il non vedere più al suo posto l’effigie
della madonna, il 15 maggio 1919, aveva provocato a Vieste il ferimento
dell’arcivescovo - Gagliardi doveva contrapporre una pastorale attenta al
magistero papale e alle disposizioni vaticane, certamente non cancellando il
preesistente, ma introducendo l’innovazione pur nella continuità. Fin dalla sua
prima lettera pastorale, infatti, è possibile individuare la sintonia che, con
Gagliardi, accomunò il magistero della Sede Apostolica e le diverse iniziative
messe in atto nella diocesi sipontina. In un periodo durante il quale Leone XIII
aveva ribadito che solo riconoscendo l’assoluta sovranità di Cristo, vivente
nell’eucaristia grazie alla mediazione ecclesiastica, la società - minacciata dal
4 ASDAS, Verbale della riunione della Conferenza Episcopale Beneventana, 22-24 maggio 1899, p. 9.
4
pericolo socialista - poteva trovare pace e benessere, Gagliardi esortò i diocesani
a coltivare la devozione al «SS. Cuore di Gesù»,5 realizzando negli anni
successivi una cappella del SS. Sacramento nella chiesa metropolitana di
Manfredonia, il restauro della cattedrale di Vieste, l’erezione dell’Apostolato
della Preghiera, dei Santi Tabernacoli, della Pia Unione delle Figlie di Maria.6
Nel suo progetto pastorale anche il pellegrinaggio organizzato a Roma in
occasione dell’Anno Santo del 1900 costituì un’occasione non soltanto per
andare a “vedere” il Papa e “sfiorare” le reliquie dei primi martiri della fede,
quanto soprattutto un momento per trasmettere ai suoi diocesani - cresciuti in
un contesto che non conosceva la figura del pontefice - il senso ecclesiale
dell’«Apostolica Benedizione del Sommo Pontefice Leone XIII, allora
gloriosamente regnante».7
Per Gagliardi si trattò di mettere in atto “strategie” pastorali che fossero in
grado di conciliare la devozione popolare con i principi derivanti dal più
recente magistero papale. Come avvenne nel 1904 quando la lettera pastorale
pubblicata nel cinquantesimo anniversario della proclamazione del dogma
dell’Immacolata Concezione8 costituì la premessa per diffondere i principi sul
«vero culto a Maria SS.» pubblicati poi nel 1911, fra i quali si legge:
Se finora mal L’onoraste, e furono vane le pompe delle feste per Lei, e vano
per ciò il ricorso al suo patrocinio, cominciate d’ora in poi ad onorarLa
convenientemente. Siano l’esterne feste una emanazione, o rivelazione
degli interni atti del vostro ossequio e del vostro amore alla Madonna.
Sceverate da ogni superstizione e da ogni profanazione, ordinatele e
offritele a Lei, perché vi riconcili a Gesù Cristo, se ne siete lontani, e vi
abbia sempre avvinti a Lui.9
O come si verificò nel 1908 quando, in occasione del cinquantesimo di
ordinazione sacerdotale dell’allora pontefice Pio X, che coincise con il
venticinquesimo anniversario della sua ordinazione presbiterale, Gagliardi
esortò il suo clero ad un maggiore impegno10 perché, come scrisse nel 1912,
«molti oggidì non ascoltano più, o ascoltano solo raramente nei giorni festivi la
Santa Messa, non rari essendo quelli che, fin sotto gli occhi nostri, lavorano
anche in essi da mane a sera come, ed anche più di quello che lavorasi nei dì
feriali».11
5 1897, p. 10. Cfr. anche P. GAGLIARDI, 1901. 6 1899, p. 12. 7 1924, p. 3. 8 1904. 9 1911, pp. 11-12. 10 1908, pp. 8-9. 11 1912, p. 5.
5
Gagliardi mirò a rinnovare il concetto di «vita cristiana», non più fatta
soltanto di appuntamenti liturgici ciclici e rituali, ma invitando ognuno a porsi
su una via che «stretta e faticosa che sia - scrisse nella quaresima del 1914 - è
sufficiente ed accessibile a tutti che vogliano percorrerla con la fiaccola della
Fede, sotto l’usbergo della Speranza e soprattutto accesi e rianimati della
inestinguibile fiamma della Carità».12 Erano affermazioni che, superando il
tradizionale devozionismo motivavano la consapevolezza della propria
appartenenza alla Chiesa con il riferimento a principi teologici. In tale riforma,
un ambito particolare fu quello dei giovani, per i quali Gagliardi si prodigò
attraverso la fondazione delle sezioni dell’Azione Cattolica Italiana, dando
nuova linfa ai ricreatori cattolici già esistenti e promuovendone di nuovi, come
avvenne a Vico del Gargano nel 1915. E se Benedetto XV, dopo lo scoppio del
primo conflitto mondiale, aveva disposto che in tutte le diocesi di Europa si
celebrassero «apposite funzioni»13 per la pace, l’arcivescovo Gagliardi nella
arcidiocesi sipontina nella quaresima del 1917 organizzò, tra le altre iniziative,
anche la raccolta delle «volontarie offerte dei fedeli» da trasmettere alla
«benemerita Unione Popolare Cattolica, in riparazione contro le bestemmie e
per l’Opera Nazionale degli orfani di guerra».14 Il suo impegno a favore delle
giovani generazioni lo portò ad essere, nel 1918, tra i promotori - insieme a
Salvatore Bella, altro vescovo “romano” alla guida in quegli anni della chiesa
foggiana - del primo Convegno dei Cattolici di Capitanata presieduto da don
Luigi Sturzo, che si tenne nella chiesa di San Domenico del capoluogo dauno il
9 e 10 aprile 1918. Nella lettera pastorale del 1919, redatta qualche mese dopo la
conclusione di quel convegno, riferendosi ai centri per il catechismo e ai
ricreatori, Gagliardi scrisse:
è vero che avevamo già prima e da oltre quattro lustri di queste opera fra
noi, ed in alcuni luoghi fiorenti tuttora, come la Congregazione Catechistica
a Manfredonia ed a S. Giovanni Rotondo ed il Ricreatorio Festivo a Vico
Garganico; ma occorre ne sorgano in tutte le parrocchie nostre e che siano
ovunque fiorentissime.15
Quelle affermazioni assumono tutta la loro rilevanza se si considera che, in
quegli anni la Capitanata registrava un violento processo di politicizzazione
messo in atto dal socialismo prima e dal fascismo poi allo scopo di colpire la
Chiesa e i suoi rappresentanti:
Parlando di Catechismi e di Ricreatori per l’Azione Cattolica - scrisse nel
1919 - il pregiudizio potrebbe sorgere in mente ad alcuni, anche buoni
12 1914, p. 16. 13 1915, p. 9. 14 1917, p. 14. 15 1919, p. 5.
6
cattolici in buonissima fede: la malignazione fu e sarà sempre de’ nemici di
Dio e d’ogni opera santa e salutare. Potrebbero pensare i primi
ingenuamente, quello che malignamente si afferma ed a torto si sostiene da’
secondi, che le opere per l’Azione Cattolica, o che sono preparate, come le
due nostre, a promuoverla, o intese a caldeggiarla come tutte le altre, siano
piuttosto azioni ed opere politiche, se non anche sovversive e peggio.16
Si collocò in tale contesto il sinodo diocesano del 1922, celebrato in
occasione del venticinquesimo anniversario di episcopato dell’arcivescovo.
All’arciprete di San Giovanni Rotondo che gli scrisse una lettera di
congratulazioni per l’esito positivo di quell’iniziativa, Gagliardi rispose:
«Grazie delle felicitazioni per il Sinodo, piaciuto anche fuori e a Roma
specialmente. Tutti l’hanno giudicato eccellente, grazie a Dio. Il S. Padre mi
disse testualmente: Bravo, lo leggerò tutto».17 Anche in quegli anni Gagliardi fu
un vescovo “romano”, schierandosi accanto a quei vertici vaticani che avevano
individuato in Benito Mussolini il nuovo «uomo della Provvidenza» capace, con
i Patti Lateranensi del 1929, di restituire «Dio all’Italia e l’Italia a Dio». Una
scelta, quella del Gagliardi, che gli provocò non poche accuse di filofascismo.
Ma le accuse all’arcivescovo non giunsero solamente per i suoi
pronunciamenti a favore del regime, quanto soprattutto per i suoi indirizzi
pastorali, soprattutto da parte di quel clero conservatore che si mostrava
intollerante delle iniziative ispirate dalla “romanità”. L’archivio della Sacra
Congregazione dei Vescovi conserva la documentazione dei ricorsi a firma di
sacerdoti nei confronti dell’arcivescovo Gagliardi già a partire dal 1913.18 A
questo proposito, il 3 settembre 1923, Gagliardi comunicò la sua amarezza ad
Ignazio da Ielsi, guardiano del convento di San Giovanni Rotondo, quando
nonostante il suo diniego - «la sconsigliai» - il clero secolare della cittadina
garganica aveva dato corso ad una iniziativa che l’arcivescovo non considerava
opportuna. Si trattava, per Gagliardi, di un’ulteriore prova della consolidata
abitudine di quel clero a procedere «senz’essere mai interrogato».19 Quel clero
mostrava, con quegli atteggiamenti, la sua “distanza” dalle direttive episcopali,
a differenza, però, dei frati cappuccini con i quali, anche dopo il dono delle
stimmate a padre Pio - 20 settembre 1918 - almeno in una prima fase,
l’arcivescovo mantenne buoni rapporti. Scriveva Gagliardi al padre provinciale
il 6 dicembre 1919: «mi è grato poterLe assicurare che ora tutto procede bene a
S. Giovanni, in pieno accordo con tutti».20
16 Ivi, p. 11. 17 5033. 18 7507. 19 5040. 20 5030.
7
La notizia della stimmatizzazione di padre Pio21 aveva però attirato a San
Giovanni Rotondo l’attenzione dei vertici del Sant’Uffizio, del Ministro
Generale dei Cappuccini e della stessa Provincia monastica. Un’inchiesta fu
anche avviata dalla Prefettura di Foggia nel 1919. È importante sottolineare che
i rapporti tra Gagliardi e padre Pio furono compromessi quando, accanto a
questi, si posero poteri esterni ed estranei alla locale realtà ecclesiastica. Negli
Anni Venti, infatti, uno “scandalo” coinvolse alcuni rappresentanti del clero
secolare di San Giovanni Rotondo, facendo rimbalzare il nome della cittadina -
già nota per la presenza del frate delle stimmate - all’attenzione dell’opinione
pubblica non soltanto a livello locale, fra le pagine de La Tribuna, ma anche fra
le diverse testate nazionali come Il Popolo e Il Giornale d’Italia. La questione,
infatti, interessò anche il Tribunale civile22 e contribuì ad accentuare l’attenzione
dei vertici vaticani sulla cittadina. A padre Lorenzo da San Marco in Lamis,
guardiano del convento di San Giovanni Rotondo, nel 1922, l’arcivescovo
Gagliardi scriveva che «troppe opere sono sorte in questi ultimi quattro anni in
S. Giovanni Rotondo a discapito delle fondamentali ed essenziali raccomandate
e prescritte».23 Il “clamore” suscitato dal dono delle stimmate cominciava a
prospettare una diversità di vedute tra potere civile e potere ecclesiale, se il
primo leggeva in quel dono la possibilità di una certa notorietà per la cittadina
garganica, e il secondo, sull’argomento, poneva il freno della prudenza. Anche
perché, il 31 maggio 1923, le autorità vaticane promulgando il decreto con il
quale dichiaravano il «non constat de supernaturalitate», avevano imposto
alcune ristrettezze al frate delle stimmate.
Il 30 giugno 1923, infatti, era lo stesso Gagliardi a comunicare all’arciprete
di San Giovanni Rotondo: «Ho risposto a codesto Signor Sindaco, che né voi, né
il Vicario e né io abbiamo mai avuto interesse di vedere o provocare
l’allontanamento del P. Pio da costà. […] Se pure il P. Pio fosse stato da Dio
adornato di carismi straordinari, non se ne doveva mai fare propaganda».24 La
posizione della Curia nei confronti di Padre Pio fu ulteriormente evidenziata
dall’arcivescovo nella missiva inviata il 18 agosto sempre all’arciprete: «se Dio
vuole che il P. Pio resti, rimanga pure, ma non a perpetrare lo sfruttamento
della buona fede altrui e la demoralizzazione del paese».25 Non tutti, in effetti, si
erano mostrati obbedienti alle restrizioni imposte dalla prudenza ecclesiale, e
diversi furono i sacerdoti di San Giovanni Rotondo che finirono per essere
definiti dall’arcivescovo «ribelli».26
21 Cfr. ALESSANDRO DA RIPABOTTONI, pp. 86 -103. 22 5056. 23 5031. 24 5035-5036. 25 5038. 26 Cfr. 5041-5042.
8
Non si può escludere che il clamore sollevato dal frate stimmatizzato fosse
sfruttato anche da figure “estranee” alla locale realtà ecclesiastica per scopi che
avevano poco a che fare con l’ambito spirituale e che lo stesso Gagliardi,
vescovo “romano”, non poteva certamente tollerare. In una lettera del 18 aprile
1926, indirizzata al cardinale Raffaele Merry del Val, Segretario del Sant’Uffizio,
si legge: «Le spedisco anche una copia stampata di una seconda vita e miracoli
di [Padre Pio], che va diffusa in prossimità dei nuovi pellegrinaggi ai vicini
Santuari di Foggia, S. Marco in Lamis, Monte S. Angelo, dai soliti propagandisti
e sfruttatori locali».27 All’interno dei percorsi tradizionali attraversati dai
pellegrini che si recavano sul Gargano, la cittadina di San Giovanni Rotondo -
secondo Gagliardi che avvertiva il Sottoprefetto di San Severo - risultava
preoccupante per la presenza «di un preteso santo, sorretto principalmente dal
Signor Sindaco».28 A questo proposito, il 9 giugno 1926, l’arcivescovo chiese
all’arciprete di San Giovanni Rotondo di redigere una «dettagliata relazione di
tutto ciò che accade costà, da ormai otto anni» - da far firmare ai membri del
Capitolo e del clero «meglio se otterrete si sottoscrivessero anche dei secolari
ben pensanti» - e di farla pervenire al Prefetto della Provincia convinto che «ora
è tempo di insistere perché termini amministrativamente questa gazzarra
sacrilega e vergognosa».29 Il 13 giugno, i capitolari della collegiata di San
Giovanni Rotondo attestarono la propria solidarietà all’arcivescovo assicurando
che «saremo tutti ossequienti agli ordini suoi e a quelli delle Superiori autorità
Ecclesiastiche sul contegno da tenere di fronte al fenomeno P. Pio», avvertendo
però che «in seguito a questo contegno che abbiamo assunto e alla divulgazione
degli ordini superiori che siamo tenuti a fare in mezzo al popolo si è scatenata
un’altra campagna violenta contro di noi a base di calunnie e di minacce e
dobbiamo deplorare che le autorità civili, col prendere parte a dimostrazioni
pubbliche in favore di P. Pio e con apprezzamenti non sereni sull’operato del
clero divulgati a voce e anche recentemente, per mezzo della stampa, riescono a
rendere più accanita la lotta contro di noi e a rendere più animosi i nostri
nemici».30
Assunta personalmente la gestione della «faccenda»,31 il 9 luglio 1926,
Gagliardi, rispondendo al prefetto della Sacra Congregazione del Concilio, che
gli aveva trasmesso notizia del ricorso fatto pervenire a Roma da alcuni dei
canonici di San Giovanni Rotondo, giustificò i dissidi che ormai dividevano il
clero locale affermando che «il movente è P. Pio, che si vuol sempre sfruttare
sacrilegamente da molti e molti di S. Giovanni Rotondo, a capo il Sindaco e un
27 7554-7555. 28 7515. 29 5049. 30 5109. 31 5050.
9
tale […] d’ignota patria e nome».32 Per quel vescovo «più grave punizione
meritavano i Canonici […] ripetutamente preammoniti invano di osservare le
dichiarazioni e Moniti del Santo Uffizio e miei, in oltraggio ai quali ardirono fin
di recarsi, come altri secolari, a far omaggio al P. Pio».33 E aggiungeva: «La fobia
si potrebbe ritorcere ai ricorrenti, che spudoratamente dichiararono a molti,
alcuni anche a me, di non credere alla santità e ai miracoli del P. Pio che
divulgano sempre, per far danari».34
Il ricorso dei capitolari alla congregazione vaticana era stato motivato anche
dalla prolungata assenza del Gagliardi da San Giovanni Rotondo, che aveva
determinato la necessità di recarsi dal vescovo di Foggia per l’amministrazione
della cresima. È a questo proposito che emerge una frase di Gagliardi molto
significativa, rivelatrice del suo essere vescovo “romano” anche nella gestione
del “fenomeno Padre Pio”: «Non vado a S. Giovanni Rotondo dacché S. Santità
Pio XI, in privata Udienza, me l’ordinò per prudenza».35 Intanto, nel 1927, con
due lettere inviate alla congregazione romana, cinquanta sacerdoti di
Manfredonia e Vieste si schieravano in difesa dell’arcivescovo «contro i codardi,
irriconoscenti, denigratori, e gli sfruttatori di San Giovanni Rotondo».36
Alla fine del maggio 1928, i contrasti che ormai dividevano il clero
diocesano motivarono la visita apostolica a San Giovanni Rotondo, avviata da
Giuseppe Bruno, sottosegretario della Sacra Congregazione del Concilio, e
conclusa da Felice Bevilacqua del Vicariato di Roma. Gli atti della visita
evidenziarono il ruolo non secondario svolto da un forestiero laico, descritto
come «un tipo strano e niente di buono; concubino; già condannato dal
Tribunale penale di Torino […] per falso in atto pubblico e truffa. Ora è in
combutta con alcuni preti di Manfredonia e di San Giovanni Rotondo per
demolire la persona di Mons. Gagliardi». Fra quelle stesse pagine, il visitatore
annotò: «In generale si ritiene P. Pio un buon religioso, ma esaltato e pervertito
dal contorno». Con una lettera del 6 giugno 1928 inviata al visitatore, don
Giuseppe Di Gioia del clero di San Giovanni Rotondo lodava la figura di padre
Pio per l’esempio di pietà «per come celebra e confessa; molto caritatevole: è
mio confessore e amico».37 Al termine della visita, Bruno suggerì anche alcuni
provvedimenti considerati utili per risanare la situazione, tra i quali l’invito al
Gagliardi - che considerava «ossequiente e devoto alla S. Sede» - di rinunciare
alla sede di Manfredonia e Vieste.
A Roma, la situazione dell’arcidiocesi di Manfredonia, del suo arcivescovo e
del frate delle stimmate fu al centro di un incontro al quale presero parte alcuni
32 5051. 33 5052. 34 5052-5053. 35 5052. 36 7516. 37 7515.
10
membri - Perosi, Sbarretti, Merry del Val, Baggiani, Sincero, Cerretti, Lauri - del
collegio cardinalizio. I pareri furono vari, ma «pur prescindendo dalla maggiore
o minore colpevolezza di Mons. Gagliardi, i Padri Cardinali sono concordi nel
dire che il miglior partito sia d’invitare Mons. Gagliardi a dare le dimissioni».
La determinazione fu comunicata dal card. Perosi. Il vescovo Gagliardi rispose
il 4 luglio 1929 affermando che «da figlio obbediente sono pronto ad eseguire i
suoi ordini. Chiedo di permettermi di condurre, per l’ultima volta, ai piedi del
S. Padre il pellegrinaggio diocesano già indetto per settembre p.v.». Il 12 luglio
il cardinale Perosi rispose a Gagliardi che «Il S. Padre ha molto gradito la sua
lettera del 4 luglio corrente. In segno di particolare benevolenza le concede la
richiesta dilazione. Scriva la rinuncia ufficiale datandola il primo ottobre p.v.».
La Sacra Congregazione del Concilio, con rescritto del 28 agosto 1929, inflisse
varie pene canoniche a sette sacerdoti dell’arcidiocesi, mentre il 1° ottobre 1929
Gagliardi presentò alla Santa Sede le dimissioni da Arcivescovo di
Manfredonia.
Secondo la pur ridotta documentazione a disposizione, un dato appare
inconfutabile: l’esistenza, tra Gagliardi e Padre Pio, di una strumentalizzazione
che, perché filtrata da figure “estranee”, finì per comprometterne i rapporti. La
limitatezza della documentazione, infatti, riflette l’impossibilità a pronunciare
un giudizio definitivo su quel rapporto. Non mancano, però, tracce che
motivano la necessità di ulteriori approfondimenti. Se alcuni fonti concordano
nell’affermare che «Mons. Gagliardi, che aveva studiato a Roma, […] tenne un
atteggiamento piuttosto riservato alle prime voci delle stimmate di P. Pio, per
assumere poi un atteggiamento decisamente negativo»,38 altre voci riportano
che nel 1920 - l’anno della visita di padre Agostino Gemelli - in una delle stanze
del convento di San Giovanni Rotondo «arrivò Padre Pio che s’inginocchiò per
baciare l’anello dell’Arcivescovo seduto. Mentre l’Arcivescovo porgeva la mano
destra a Padre Pio, io vidi l’Arcivescovo chinarsi e baciare la mano del Padre,
coperta dalla manipola»,39 mentre nel pomeriggio «L’arcivescovo si accostò a
Padre Pio per parlargli: io mi scostai alquanto, ma ascoltai queste precise parole
che l’Arcivescovo rivolse sottovoce a Padre Pio: «Padre, pregate assai per una
mia nipotina malata». Il Padre fece cenno di sì col capo e s’inginocchiò per
baciare il Sacro Anello dell’Arcivescovo».40
L’interpretazione di una certa letteratura, supportata da relativa
documentazione, ha letto in Gagliardi uno dei più grandi “nemici” di Padre
Pio. Dopo le sue dimissioni, si legge in un documento, «l’Arcivescovo fu
mandato a riposo tra i suoi familiari a Tricarico, dove visse ancora molti anni -
38 2639. 39 AGOSTINO DA SAN MARCO IN LAMIS, p. 266. 40 AGOSTINO DA SAN MARCO IN LAMIS, p. 267.
11
[sarebbe morto l’11 dicembre 1941 - nda] - ma pare che non abbia mai cambiato
idea sul conto di Padre Pio.41
La copia publica del processo di canonizzazione riporta testimonianze che
attestano che «S. E. Mons. Gagliardi ha pronunziato contro P. Pio le seguenti
parole: “P. Pio è un diavolo, è indispensabile venga carcerato per farla finita,
quelle piaghe se le ha procurate lui e lo hanno asserito diversi medici, è un
diavolo, lo farò incarcerare».42 Ed ancora: «ho avuto occasione di parlare con
sua Eccellenza Monsignor Gagliardi: […] ha detto che P. Pio è uno indemoniato
che sa fare dello spiritismo».43 Affermazioni che contrastano con quanto
riportano altri: «Mi disse che da parte di Mons. Gagliardi era giunta una
riservata a P. Pio, nella quale l’arcivescovo faceva cenno delle sue difficoltà […],
pregando di venire in aiuto. P. Pio informato da P. Raffele, diede subito ordine
di venire incontro all’Arcivescovo. Penso che questo particolare stia a
testimoniare il mutato giudizio di Mons. Gagliardi nei riguardi di P. Pio».44
Non si può negare che al vescovo Gagliardi, in quella situazione, spettò il
compito di dover mediare tra la “romanità” vaticana e la realtà garganica.
Gagliardi fu figlio e testimone autentico della Chiesa “romana” del suo tempo.
Restano però molti dubbi sull’effettiva avversità dell’arcivescovo nei confronti
del frate che, certamente, il segreto che copre gran parte delle sue carte non
aiuta certo a sfatare. È possibile ipotizzare che l’atteggiamento “romano”
assunto dal Gagliardi nei confronti di Padre Pio fosse motivato dal tentativo di
arginare una religiosità fatta di miracolistico e di spettacolare. In effetti non fu
certamente facile gestire una situazione che registrava la concomitanza - o lo
scontro - tra il vecchio e il nuovo.
Questa relazione non vuole essere una giustificazione dell’operato di
Gagliardi, quanto soprattutto il tentativo di evidenziare la necessità di avviare
una ricerca più approfondita con l’unico scopo di capire il perché poi, nel
tempo, si siano sviluppati giudizi ed opinioni contrastanti su due figure che,
pur nella loro complessità, comunque appaiono molto trasparenti. Non vi è,
cioè, nessuna volontà di riabilitare o di condannare nessuno, quanto invece la
volontà di sottolineare che, probabilmente, sul rapporto tra Gagliardi e Padre
Pio non ancora tutto è stato detto. La molteplicità dei temi offerti alla riflessione
da quel rapporto sollecita infatti nuovi approfondimenti con un unico scopo:
quello di capire ulteriormente le diverse modalità di vivere il sacro in un contesto
“interessante” quale fu quello garganico nei primi decenni del Novecento.
Angelo Giuseppe Dibisceglia
41 AGOSTINO DA SAN MARCO IN LAMIS, p. 267. 42 5673. 43 5674-5675. 44 2642.
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