Una lettura italiana di Rafael Sánchez Ferlosio, scrittore

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Rafael Sánchez Ferlosio, scrittore a cura di Danilo Manera Una lettura italiana di

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Rafael Sánchez Ferlosio, scrittorea cura di Danilo Manera

Una lettura italiana di

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CATALOGO ITALIANO

A cura diDanilo ManeraLe immagini non contenute nel catalogo originale dellamostra, la scelta degli scritti che non vi figurano e latraduzione degli inediti sono di Danilo Manera.

Si ringrazianogli editori, le riviste, i critici e i traduttori italiani men-zionati in queste pagine e nella bibliografia finale peraver cortesemente concesso la riproduzione di testi daloro pubblicati o tradotti.

Progetto grafico e impaginazioneRodolfo L. Gil Brotóns

Con la collaborazione diComune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali,Biblioteche di RomaMinistero per i Beni e le Attività CulturaliDipartimento per i Beni Archivistici e LibrariDirezione Generale per i Beni Librari e gli IstitutiCulturali

CREDITI MOSTRAQuesto libro è stato preparato per l¹esposizione a Roma, città nataledell¹Autore, presso la Biblioteca Casanatense, della mostra ³RafaelSánchez Ferlosio, escritor. Premio Cervantes 2004², prodotta dalVicerrectorado de Extensión Cultural y Universitaria dell¹Universitàdi Alcalá, sotto la direzione della prorettore María Dolores Cabañas.

CuratoriManuel Blanco e Tomás Pollán

Bibliografia di Rafael Sánchez FerlosioMaría del Carmen Díez Hoyo

Scelta dei testiTomás Pollán e Gonzalo Hidalgo Bayal

FotografieArchivio personale Sánchez Ferlosio, Pototo, Artec,Alejandro Pradera, Istituto Cervantes di Roma, Comune diMolina de Aragón, Enrique Mónaco

AllestimentoManuel Blanco

Realizzazione graficaCarlos Horcajo, Artec

Stampa digitale e pannelliFotosíntesis

Elementi di montaggioExmoarte

RingraziamentiDemetria Chamorro. Roberto Turégano. Biblioteca Nacionalde Madrid. Biblioteca Hispánica de la Agencia Española deCooperación Internacional. Biblioteca de la UniversidadCarlos III de Madrid. Familia Reher. Hemeroteca Municipalde Madrid. Instituto Cervantes de Roma. Ayuntamiento deMolina de Aragón. Zhejiang University Library. Prof. JiasunHe. Casa Puebla.

Editado por el Servicio de Publicaciones de la Universidad de Alcalá

I.S.B.N.: 84-88754-24-8

Deposito Legal:

Rafael Sánchez Ferlosio, scrittorea cura di Danilo Manera

Una lettura italiana di

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R afael Sánchez Ferlosio, figlio di padre spagnolo e

madre italiana, è nato il 4 dicembre 1927 a Roma,

sulla sponda sinistra del Tevere, nella spianata

detta Campo di Marte, e vi ha trascorso l'infanzia e gli anni della

Guerra Civile Spagnola. Ha frequentato le scuole superiori nel-

l'istituto di San José a Villafranca de los Barros, retto da gesuiti. Lì,

all'età di quattordici anni, ha individuato il proprio ideale di vita

nel testo di letteratura spagnola di Guillermo Díaz-Plaja, e precisa-

mente nella frase in cui l'autore, descrivendo il principe Juan

Manuel, diceva letteralmente: «Aveva il volto non lacerato e ricu-

cito per gli scontri con la lancia, bensì pallido e smagrito a causa

dello studio». Tuttavia, è stato sempre troppo pigro per arrivare a

impallidire e smagrirsi in misura degna del modello emulato, e non

è andato oltre la maturità come massimo titolo di studio. Avendo

intrapreso tutto per autonoma inclinazione, libero interesse o per-

sonale e spontanea curiosità, non si reputa professionista di nulla.

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madre de la patria [La figlia della guerra e la madre della patria],Non olet [Non puzza] e El geco [Il geco]. Ha ricevuto la laureahonoris causa dall'Università degli Studi di Roma e dallaUniversidad Autónoma de Madrid. Nel 2003 gli è stato assegnatoil Premio di giornalismo Mariano de Cavia e il PremioExtremadura alla migliore traiettoria d'autore iberoamericano. Nel2004 è stato insignito del Premio Cervantes, consegnato il 23 apri-le 2005.

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N el 1951 ha pubblicato il suo primo libro, Industriasy andanzas de Alfanhuí [Imprese e vagabondaggidi Alfanhuí]. Nel 1956 ha ottenuto il Premio Nadal

e il Premio Nacional de la Crítica con El Jarama [Il Jarama]. Lasua opera narrativa è proseguita nel 1983 con El escudo de Jotán[Lo stemma di Khotan] e nel 1986 con El testimonio de Yarfoz [Latestimonianza di Yarfoz]. Tra le sue pubblicazioni saggistiche: Lassemanas del jardín [Le settimane del giardino], Mientras no cam-bien los dioses, nada ha cambiado [Finché non cambiano gli dèi,nulla è cambiato], Campo de Marte, La homilía del ratón[L'omelia del topo], Ensayos y artículos I y II [Saggi e articoli I eII] e Vendrán más años malos y nos harán más ciegos [Verrannoaltri anni brutti a renderci più ciechi], che ha vinto i premiNacional de Ensayo e Ciutat de Barcelona nel 1994. In preceden-za erano stati assegnati all'autore i premi Francisco Cerecedo digiornalismo nel 1983 e Comunidad de Madrid nel 1991 per unavita dedicata alle lettere. I suoi volumi più recenti sono El alma yla vergüenza [L'anima e la vergogna], La hija de la guerra y la

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Ma lui, accecato forse dall'affetto o per via dell'invenzione che eraa tratti divertente, non ha saputo scorgerlo nell'Alfanhuí, dove nonmancano esempi devastanti di «bella pagina», come il capitolo XV.Ho fatto allora quel che poi avrei maggiormente detestato: qualco-sa a metà tra Azorín e Miró. Il che mi suggerisce adesso di divide-re, in modo un po' astratto, tre fasi di scrittura, ovvero: dapprimasono caduto nella «prosa», cioè la «bella pagina» (l'Alfanhuí); poiho voluto divertirmi con il parlato (El Jarama), e infine, dopomolti anni di grammatica, ho trovato la lingua (rappresentata nontanto dall'ultimo romanzo, quanto piuttosto dagli scritti non lette-rari).

[La forja de un plumífero, «Archipiélago» 31, 1997]

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C alcolo che avrò scritto in vita mia, fino ad oggi,circa 200 o 300 volte di più di quel che ho pubbli-cato; per questo il mio motto - ricavato dal prover-

bio secondo il quale «non c'è maestrino che non abbia il suo libric-cino» - è sempre stato: «Meglio un maestrino in meno che unlibriccino in più». Forse è un alibi per la mia insicurezza o, conmaggiore probabilità, è che, essendo irrimediabilmente ancoratonell'Ancien Régime e scrivendo ancora con l'antiquato desiderio diaver ragione e convincere qualcuno di qualcosa che mi sembrivero, tanto il dubbio di fronte a qualsiasi «aver ragione» come loscoramento di non riuscire a convincere mai nessuno di alcunchémi spingono sempre meno a pubblicare, benché continui a scrive-re e scrivere eternamente.

(Tappe letterarie) Mio padre, pensando soprattutto al culto perlo stile di certi autori italiani, era solito dire che il peggio che possacapitare a uno scrittore è diventare autore di «belle pagine».Ciononostante, è stato proprio quello il mio primo grande errore.

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P oi mi spiegò com'era il suo flauto. Disse che era l'op-

posto degli altri e che bisognava suonarlo in mezzo a

un gran frastuono perché, al contrario di quanto

accade con i flauti comuni, dove il suono canta su un fondo di

silenzio, con questo il rumore faceva da fondo e il silenzio dava la

melodia. Lui lo suonava in mezzo alle grandi tempeste, tra tuoni e

rovesci violenti, e ne uscivano note di silenzio, tenui e leggere,

come fili di nebbia. E niente gli faceva più paura.

La padrona raccontò anche la storia di suo padre. Venivano da

Cuenca. Lì lei aveva conosciuto suo marito. Il padre era contadino

e possedeva delle terre. Un pomeriggio si addormentò mentre

arava con i buoi. E dato che non voltava l'aratro, i buoi prosegui-

rono, uscendo dal campo. Anche l'uomo continuava ad avanzare,

con la stegola in mano. Si dirigevano verso ponente e non si fer-

marono nemmeno di notte. Passarono guadi e valichi montani

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D opo aver scritto El Jarama - tra l'ottobre del 54 eil marzo del 55 -, ho preso la Teoria del linguag-gio di Karl Bühler e mi sono immerso nella gram-

matica e nell'anfetamina. Quando un membro del clero provoca unqualche scandalo, la discretissima Chiesa Cattolica, esperta in talifrangenti critici, lo toglie rapidamente dalla circolazione, e a chinota la sua assenza e chiede di lui, viene indefettibilmente rispo-sto: «Ah, il padre Ramoneda si è ritirato per dedicarsi ad alti studiecclesiastici». Io non ho avuto bisogno di nessun vescovo che mimandasse in ritiro, anzi, mi è bastato l'immenso genio di KarlBühler e l'irresistibile suggestione teorica ed espositiva della suaopera - e forse un po' d'orrore o ripugnanza per il grottesco ruolodi letterato che, dopo il successo di El Jarama, incombeva sullamia testa come un corvo in picchiata - per sparire dalla circolazio-ne e consacrarmi ad «alti (o bassi) studi grammaticali» per 15 anni.

Accademicamente ero molto indisciplinato; avevo comincia-to con Bühler e mi addentravo già nella grammatica storica del

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senza che l'uomo si svegliasse. Seguirono tutto il corso del Tajo earrivarono in Portogallo. L'uomo non si svegliava. Alcuni videropassare quel contadino che arava con i propri buoi un solo solco,lungo e diritto, superando fiumi e montagne. Nessuno osò svegliar-lo. Un mattino raggiunse il mare. Attraversò la spiaggia e i buoientrarono in mare. Frangevano le onde con il petto. Quando sentìl'acqua bagnargli il ventre, l'uomo si svegliò. Arrestò i buoi e smisedi arare. In un villaggio vicino domandò dove si trovava e vendet-te i buoi e l'aratro. Poi prese il denaro e tornò a casa seguendo aritroso il solco che aveva tracciato. Quello stesso giorno fece testa-mento e morì circondato da tutti i suoi familiari.

[Imprese e vagabondaggi di Alfanhuí, cap. V della Prima parte e cap. VIdella Seconda parte, Theoria, Roma 1991]

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(Teoria della musa.) La musa nongiunge mai a mettere inmovimento la penna o il

pennello, ma sopraggiunge soltanto - se vuole o può farlo - quan-do l'una o l'altro già si stanno muovendo. Voglio dire che prendesempre più forza e fiducia in me l'impressione che tutto quanto tro-viamo di veramente felice in un'opera letteraria non sia mai prodot-to di invenzione ed elaborazione deliberata, bensì fiore e balenioistantaneo di un accidente sopraggiunto. Splende con l'aura inimi-tabile che mi piace comparare a quella propria del genitum, nonfactum, come dice del Verbo il Credo di Nicea.

Non guadagniamo nulla dal fatto che niente s'erediti e nientesi contagi, se tutto si imita. Lo sviluppo dell'eugenica e della pro-filassi viene neutralizzato e sorpassato dalla terribile auge dellamimesi.

Quando l'umorismo diventa un genere significa che ha decisodi separarsi rispettosamente dalle cose serie, affinché queste pos-

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greco e del latino o nei lavori di Gelb e Goldstein sulle afasie, daiquali ho fatto il salto a studiare la «psicologia della Gestalt», unvero paradiso per un consumatore di anfetamine con rudimenti digrammatica scolastica.

[La forja de un plumífero, «Archipiélago» 31, 1997]

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zione che Dio ha sempre ragione può far sì che gli uomini accetti-no idee mostruose come quella dell'inferno. Provando pena nono-stante il verdetto divino, Dante ci conferma, suo malgrado, che gliuomini sono, comunque, sempre migliori delle loro convinzioni,ossia dei loro dèi.

(Kafka.) Il suo sguardo sembrava essersi formato e aver impa-rato a vedere dietro i vetri della finestra, vedendo, ma senza senti-re, laggiù in strada, l'affannato, teso, frettoloso parlare gli uni congli altri degli uomini, tra continue risistemazioni delle sciarpe,fermi sul marciapiede e sempre come sul punto di separarsi o con-gedarsi, ma di nuovo trattenuti dalla necessità di aggiungere anco-ra una parola. Attento senza posa a quel gesticolare che la non udi-bilità delle parole lasciava isolato e silenzioso, andò scoprendo permezzo di infiniti sintomi o indizi il segreto più triste e più pateticodel gesto: fino a che punto cioè confuti sempre, in qualche modo,le parole che sottolinea e accompagna, volendo invece confermar-le e credendo perfino di farlo.

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sano esercitare senza imbarazzo la loro petulante tirannia. Quindi,la pretesa ribellione dell'umorismo contro le cose serie risulta piut-tosto un patto segreto di complicità.

(Alla maniera di Ramón Gómez de la Serna.) Soltanto l'inse-gna della stazione dice davvero il nome della città: le altre sonocitazioni, più o meno fedeli, di quest'unico documento originale.

(Sentimento e convinzione.) Certo io piangea, poggiato ad unde' rocchi / del duro scoglio, sì che la mia scorta / mi disse: «Ancorse' tu delli altri sciocchi? / Qui vive la pietà, quand'è ben morta: /chi è più scellerato di colui / che al giudicio divin passïon porta?»(La Divina Commedia, Inf. XX, 25-30). È un errore pensare cheoccorrano pessimi sentimenti per accettare o perpetrare le cose piùorrende; basta il convincimento d'avere ragione. Anzi, forse mai ilsentimento ha saputo essere tanto inumano come può arrivare adesserlo la convinzione. Così, solo la stolta e obbligatoria convin-

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(Parole-forza.) Non c'è ragione senza parole, ma senza di loronon ci può essere nemmeno fanatismo. Nella parola si manifesta lasalute della ragione, ma, a sua volta, il fanatismo appare semprecome una malattia della parola, una specie di infiammazione asso-lutista dei significati. Ogni predilezione per una parola in sé, almargine di un contesto, è un temibile sintomo di predisposizione alfanatismo.

(Impronte fossili.) O gatto che stanotte hai lasciato le tue ormesul cemento fresco del marciapiede; per una così gentile testimo-nianza del tuo passaggio, ti auguro un'eternità lunga quanto quelladel dinosauro che stampò le sue peste sul fango fresco di milionid'anni fa.

[Relitti, Garzanti, Milano 1994]

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I nvano il buon Collodi s'ostinerà a dirci che il bambinoin carne e ossa, il bambino perbene che compare nelfinale del suo libro è ancora Pinocchio… L'autore

mente: quel bambino non è Pinocchio, ci mancherebbe!, è un vilesostituto, un impostore. La musa non ha consentito che riesca e sicompia il grossolano sopruso pedagogico d'una simile metamorfo-si: nessuno se la beve. C'è stata solo la più rozza delle sostituzioni,il più abborracciato dei trafugamenti. Se fuori dal dominio dell'ar-te la pedagogia ottiene molto spesso l'appianamento, uniformazio-ne e integrazione di ciò che non è come vuole il mondo, l'arte harifiutato di farsi complice della discriminazione, segregazione,espulsione o distruzione del bambino differente, implicita in que-sta abortita metamorfosi. Facendola fallire nel modo più strepito-so, le sue leggi si sono ribellate all'imposizione e all'imposturadella pedagogia, e Pinocchio continua ad essere accettato, accolto,celebrato e amato tra di noi in tutta la sua differenza e singolarità,in tutta la sua autentica identità di vero bambino di legno.

[La freccia nell'arco, Edizioni Linea d'Ombra, Milano 1992]

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ancorché sgradevole, curiosità zoologica. «Noi non pretenderem-mo mai», diceva Juan de Mairena, «di educare le masse. Le massevadano a farsi benedire! Noi ci rivolgiamo all'uomo, che è l'unicoche ci interessa.» A immagine e somiglianza di quelle masse di cuiparlava Mairena è formata la nozione di Umanità, la cui estinzio-ne o sparizione oggi tanto si paventa; in definitiva se le massesono, come è stato brillantemente detto, un'invenzione della mitra-gliatrice, si può dire che l'Umanità è, a sua volta, un'invenzionedella bomba termonucleare. Io che, col passar del tempo, perdisgrazia, vado diventando più malalingua del discreto Mairena,non posso fare a meno di parafrasare, riscaldata, la sua moderatainvettiva per applicarla all'Umanità, con pari sentimenti:l'Umanità, la specie, che vadano pure a farsi friggere.

[Dall'articolo La Humanidad y la humanidad, uscito su «El País» del 23agosto 1982, raccolto nel volume La homilía del ratón del 1986, e in italiano

in La freccia nell'arco, Edizioni Linea d'Ombra, Milano 1992]

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M a quale miglior prova che il futuro è già scritto

di quella fornita dal giornale di ogni mattina?

Come potrebbero altrimenti accadere tutti i

giorni esattamente 32 pagine di cose? Un meccanismo tanto tena-

ce e indefettibile non può essere che qualcosa di molto premedita-

to: è inconcepibile come improvvisazione. Per questo, solo il gior-

no in cui esca un giornale con, poniamo, tre pagine e tredici dicias-

settesimi di pagina in bianco oppure due pagine e otto undicesimi

di pagina in più comincerò a pensare che sia forse possibile, nono-

stante tutto, poter parlare, in un certo senso, dell'esistenza, in qual-

che modo, di un futuro.

Un'Umanità che sopravvive e si perpetua sempre a costo di

compiere o far patire inumanità ogni volta più atroci e di rendere

gli uomini sempre più inumani, non vedo come la si possa voler

conservare per meriti diversi da quello di essere una interessante,

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N el 1970 ho portato a termine la traduzione di Lesenfants sauvages, di Lucien Malson - che miaveva interessato perché conteneva due testi di

Jean Itard (del 1801 e del 1806) su Victor de l'Aveyron, misera-mente traditi da Truffaut in un film in cui fu regista e attore -, coni miei commenti, che occupavano la metà delle 400 pagine dellibro, ragion per cui Malson e il suo editore si arrabbiarono e,minacciando querela, fecero ritirare l'edizione. Considero ancoraquelle note come il mio miglior prodotto.

[La forja de un plumífero, «Archipiélago» 31, 1997]

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(Il recidivo) Il lupo, vecchio, sdentato, canuto, spe-

lacchiato, rinsecchito, malato, stanco un giorno

di vivere e patire la fame, sentì giunta l'ora di

reclinare finalmente il capo in grembo al Creatore. Notte e giorno

camminò per paraggi impervi e sempre più fuori mano, giogaie

sempre più dirupate, pendii sempre più scoscesi e vertiginosi, fin

dove il tremendo rugghiare della bufera tra le aguzze creste di

ghiaccio, entrando in una spessa cupola di nebbia, si trasformava

all'improvviso, come una voce soffocata nell'ovatta, nel bianco

silenzio della Vetta Eterna. Lì, appena alzò gli occhi e intravide -

con lo sguardo appannato sia per la vecchiaia, sia per il rigore della

tormenta di vento e neve da poco attraversata, sia infine per le

lacrime miste di autocommiserazione e gratitudine - le dorate

porte della Beatitudine, udì la voce cristallina e penetrante dell'uf-

ficiale di guardia, che gli si rivolgeva con queste parole: «Come osi

anche solo avvicinarti a queste santissime porte, con le fauci anco-

ra insanguinate dai tuoi ultimi cruenti pasti, assassino?»

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per un altro intero turno di estati e inverni, finché, doppiamente

estenuato e ansioso di requie dopo questa quasi ripetizione di una

già precedentemente lunga esistenza, di nuovo gli parve giunto il

momento in cui meritava di reclinare finalmente il capo in grembo

al Creatore. La salita alla Vetta Eterna, che era stata già assai dura

la prima volta, gli sarebbe risultata ora infinitamente più ardua, se

il calo di vigore fisico causato da quel sovraccarico di vecchiaia

aggiuntiva non fosse stato in qualche modo compensato dal corri-

spondente aumento del desiderio di riposo e beatitudine. In ogni

caso, ce la fece a raggiungere nuovamente la Vetta Eterna, anche

se la vista gli era divenuta tanto insicura, che quasi non era ancora

nemmeno riuscito a distinguere le porte del Paradiso, quando

risuonò l'attesa voce del cherubino di guardia: «Eccoti qui un'altra

volta, deciso a oltraggiare, con la tua sola presenza dinanzi a que-

ste porte, la dignità di coloro che per i loro meriti si sono resi degni

di varcarle e godere dell'Eterna Beatitudine! Pretendi dunque d'es-

sere ugualmente meritevole di richiederla? Tanto torni ad ardire tu,

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Annichilito di fronte a una simile accoglienza e oppresso da

un'insopportabile afflizione, il lupo volse le spalle e, ripercorrendo

a ritroso il cammino che gli era costato tanto sforzo, tornò alla terra

dov'era cresciuto, alla sua tana e ai luoghi che era solito frequenta-

re, salvo che da quel momento in poi si prese ben guardia, non già

di sgozzare pecore o agnelli, che questo la perdita dei canini glie-

lo impediva già da tempo, ma persino di ripassare carogne o rosic-

chiare i rimasugli delle carcasse lasciate da altri più giovani e con

zanne migliori. Ora, determinato ad astenersi dal toccare qualsiasi

cosa che avesse lontanamente a che vedere con la carne, dovette

mettersi a gironzolare furtivamente attorno a paesi e cascinali,

ingegnandosi a rubacchiare provviste e merende. I molari, che

ancora conservava, benché gli ballonzolassero ormai quasi tutti

negli alveoli, gli permettevano di rosicchiare il pane; pagnotte fre-

sche le rare volte che la sorte era benigna, ma al più spesso tozzi

di pane secco. Rimase così sulla terra a vivere e soffrire la fame

sotto questa nuova legge, nella vasta e folta macchia dov'era nato,

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rò giunta per lui l'ora di reclinare finalmente il capo in grembo alCreatore.

Partì invisibile e lieve come un'ombra e aveva, in effetti, ilcolore dell'ombra, tranne in pochi punti in cui la rogna non gliaveva fatto perdere il pelo. Dove lo conservava, gli brillava com-pletamente bianco, come se tutto il resto del suo corpo si fosseandato trasformando in rogna, in ombra, in nulla, per lasciar cam-peggiare in modo più vivo, in quel pelo candido, soltanto il richia-mo delle nevi, l'inestinto anelito alla Vetta Eterna. Ma, se già neidue viaggi precedenti la scalata era stata eccessivamente difficol-tosa per un lupo anziano, si potrà facilmente intuire con quale stre-nuo sforzo si mise per la terza volta in cammino. Considerando cheall'originaria e, per così dire, naturale vecchiaia del primo viaggiose n'erano aggiunte una seconda e addirittura una terza, si com-prenderà a prezzo di quali sovrumane fatiche riuscì anche questavolta ad arrivare. Avanzando mitemente, dolcemente, umilmente,riconobbe ormai solo più a tentoni le porte della Beatitudine; pog-

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predatore di forni, assaltatore di dispense, saccheggiatore dimadie? Vattene! Fila subito via di qui, con l'abilità che hai d'altrocanto sempre mostrato nello svignartela senza farti fermare datagliole, steccati, cani o schioppi!»

Chi potrebbe soppesare la desolazione, l'amarezza, l'abbando-no, la miseria, la fame, la debolezza, le infermità, la rogna, che peraltri più lunghi e più sventurati anni si susseguirono! Eppure appe-na osava ormai brucare con le gengive senza denti l'arricciatofestone delle lattughe, o pulire con la punta della lingua la scirop-posa goccia che pendeva dal culo dei fichi sul ramo o leccaremagari, una ad una, le macchie circolari lasciate dalle forme dicacio sulle assi degli scaffali di un magazzino vuoto. Le sue zampenon avevano peso nel calpestare il suolo, come quelle di un'ombra,perché la magrezza lo aveva reso tanto leggero, che ormai nientepoteva morire per la sola pressione dei suoi passi. E alla fine tornòa concludersi un nuovo e prolungato giro di anni e, com'era forseinevitabile, sorse per la terza volta il giorno in cui il lupo conside-

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dalla corporazione dei pastori - contro il lupo, la cui figura ha finito perdivenire il paradigma universale del cattivo», perché, al contrario, «cometutti gli altri canidi, e in contrapposizione, ad esempio, ai felini, è unodegli animali più dolci e più capaci d'amore verso i suoi simili e dissimi-li di tutti quelli catalogati nei registri della zoologia» e a riprova basta ilfatto eclatante che «nell'elenco dei casi noti di bambini adottati, allevatied educati da animali, è proprio il lupo a ricoprire con schiacciante mag-gioranza su ogni altro animale il ruolo di adottante», fin dall'episodioleggendario della lupa capitolina con Romolo e Remo. In estrema sinte-si, le osservazioni che l'autore fa sulle vicende dei bambini selvatici e suitentativi di «rieducarli» lo portano a formulare questa tesi: gli sforzi diItard (che pure Ferlosio ammira e di cui loda tanto l'impegno quanto lacapacità di descriverlo) su Victor de l'Aveyron, come altri analoghi, sonodestinati al naufragio perché questi bambini non sono privi di qualunqueformazione, ma ne hanno un'altra, diversa da quella umana; non si trat-ta soltanto di far recuperare loro il tempo perduto, ci si scontra con unessere dotato di un suo organico destino non umano (ma non per questomostruoso), che si ribella a deporre. L'idea ferlosiana della distanza chemedia tra natura e umanità assume qui le vesti di una ipotesi dell' «inde-terminazione natale», cioè la mancanza di una natura umana prefissata:«l'uomo nasce indeterminato, nel senso che viene rimandata a dopo lanascita la sua necessaria determinazione (necessaria non nel senso dellanecessità di questa o quella determinazione concreta, ma nel senso dellanecessità di acquisire una determinazione qualsiasi), che è pertanto affi-

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giò lo sterno sulla soglia, piegò e abbassò le anche, allungò inavanti le zampe, stendendole uguali e parallele davanti al petto, eriposò finalmente su di esse la testa. Immediatamente, propriocome sospettava, sentì dalla voce metallica del cherubino di guar-dia le parole esatte che aveva temuto di udire: «Bene, con la tuastessa ostinazione hai voluto che finissimo per arrivare a una situa-zione che avrebbe ben potuto e dovuto essere evitata e che è perentrambe le parti ugualmente spiacevole. Lo sapevi bene o lo indo-vinavi la prima volta; ne ricevesti una chiara conferma la seconda;e a dispetto di tutto ti sei intestardito a voler tornare una terza! Esia, dunque! L'hai voluto tu! Adesso te ne andrai come le altrevolte, ma per non tornare mai più. Questa volta non è in quantoassassino. Non è nemmeno in quanto ladro. Ora è in quanto lupo».

Nel volume Memoria e Informe sobre Victor de l'Aveyron (Alianza,Madrid 1982), Rafael Sánchez Ferlosio scrive che non è giustificata la«millenaria propaganda diffamatoria - promossa inizialmente senz'altro

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unitario e impenetrabile». La sua determinazione esistenziale era ormaitanto stretta quanto ampia era stata la sua indeterminazione natale. Lacontroprova è fornita, secondo Ferlosio, da casi come quello di Anna diPennsylvania, che rimase prigioniera in una stanza, stesa su un lettino,fino all'età di sei anni, prolungando la propria indeterminazione natalesenza precisarla. Ebbene, nonostante l'ipotrofia muscolare agli arti infe-riori, questa bambina privata di convivenza sociale, ma non di tutelaumana, impiegò molto meno di Kamala per imparare a camminare e potéessere educata a parlare, a differenza di Victor de l'Aveyron. È che, men-tre per Anna si può parlare, dice Ferlosio, di assenza di formazione,Kamala e Victor si fecero adulti e indipendenti nei boschi: entrambierano, per così dire, occupati da un essere compiuto che si sarebbe dovu-to sloggiare per sostituirlo con un uomo, avevano cioè sviluppato un«vero e proprio apparato esistenziale, ossia una condizione». La situazio-ne dei bambini autenticamente selvatici si deve quindi interpretare, con-clude Ferlosio, non come fanno Itard e Malson, i quali finiscono pervedere nel bambino selvatico nient'altro che un semplice non-uomo,bensì «presumendo la presenza positiva di un'altra educazione e un'al-tra condizione che, lungi dall'avere il carattere puramente transitorio diaccidentali ripieghi d'emergenza, verrebbero a costituire una coagulazio-ne dell'essere, un accordo biologico tanto radicale e profondo quantoquello della stessa condizione umana» (Danilo Manera).

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data, in gran misura, all'azione dell'ambiente e dell'esistenza». Ferlosioprende le mosse dalla critica a un'affermazione di Malson, secondo cuila locomozione quadrupede iniziale della bimba-lupo Kamala (la quale,catturata in India nell'ottobre 1920, con l'apparente età di 8 anni e mezzo,arrivò nel febbraio 1922 a reggersi sulle ginocchia, un anno e mezzo piùtardi si teneva in piedi e nel gennaio 1926 cominció a camminare, ben-ché fino alla morte, avvenuta nel novembre 1929, il suo stile nella corsarimanesse lupino) «n'était due qu'à une absence d'apprentissage normal».Ora, Ferlosio si chiede come si possa «disprezzare e mettere fuori giocoil fatto di una positiva educazione da lupo tanto profonda e raffinatacome sembra fosse quella di Kamala fino all'estremo di valutare pratica-mente la sua condizione esistenziale - e ancor più in riferimento a unapratica tanto vitale e generale come il moto - sulla base del solo presup-posto negativo dell'assenza d'una educazione da uomo [...] senza conce-dere alcun valore alla circostanza capitale che quest'assenza non rappre-senta una mera negazione, bensì si trova in correlazione diretta di alter-nanza o scambio con la presenza di una educazione da lupo». Kamala difatto impiegò un tempo enormemente lungo ad acquisire l'andatura bipe-de umana, perché in lei non esistevano funzioni astratte o facoltà vacan-ti, come la locomozione o lo sviluppo motore, aperte e versatili, bensì«una totalità esistenziale, una bambina fatta lupo [...], una sintetica econcreta configurazione di vita, rispetto alla quale la presunta funzionelocomotoria non esisteva come una pratica speciale, separabile o prescin-dibile, ma si realizzava invece come momento integrato in un insieme

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I l presente testo, intitolato La testimonianza di Yarfoz,

racconto biografico scritto da un oscuro idraulico,

Yarfoz, sul suo amato e ammirato amico, il principe

Nebride, fu inserito da colui che la critica moderna riconosce oggi

come primo e principale autore della monumentale opera storio-

grafica (La) Storia delle guerre barcialee, Ogai il Vecchio, come

appendice al libro II, per l'interesse che, secondo quanto egli stes-

so dichiara nella breve introduzione, ha rinvenuto nel manoscritto.

Occasionalmente, quando si rendeva necessario per chiarire appie-

no il testo e il futuro destino di alcuni dei personaggi citati, abbia-

mo ritenuto opportuno includere, fra parentesi quadre e in corsivo,

alcuni brevi riferimenti all'opera generale da cui quest'appendice è

stata estrapolata, tutti estratti dal testo dell'autore oggi identificato

come Ogai il Vecchio, eccetto uno, che la critica attribuisce a un

altro eccellente storiografo fra i quattro che sono stati riconosciuti

dietro quello che per secoli si è erroneamente creduto l'unico auto-

re dell'intera opera, detto semplicemente Ogai. Si ritiene che que-

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st'altro sagace storiografo, del quale, eccezionalmente, includere-mo una breve osservazione, abbia introdotto le sue sempre intelli-genti interpolazioni circa 95 anni dopo la morte di Ogai il Vecchio.I critici lo chiamano familiarmente - senza la minima intenzionedispregiativa, né alcun discredito per il suo nome - il Falso Ogai.

l'editore, Rafael Sánchez Ferlosio

«È bene che ci si aprano le vie dell'incertezza, perché se nondobbiamo agire, non è detto che la certezza sia preferibile, e sedovessimo farlo, essa sarà, comunque, tanto inevitabile da nonoffrire alcuna garanzia di non essere qualcosa di artificiosamenteimprovvisato; dunque, meglio non incitare previamente il pensieroa sottomettersi a un impegno che gli atti renderanno, ad ognimodo, necessario e, di conseguenza, mai convincente.»

[La testimonianza di Yarfoz, Biblioteca del Vascello, Roma 1994]

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«E se sarai buono - mi dice in sogno l'arcangelocon il mio nome - un giorno ti restituirò la tuascimitarra, il tuo caffettano celeste, il tuo

gran mantello di pelliccia, i tuoi carovanieri e tutti i tuoi cammel-li, e ti metterò di nuovo sulla Via della Seta, eternamente, sullastrada di Khotan.»

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ne, che consente loro di ritenersi nati l'uno per l'altro? Invece di

riconoscersi artefici del proprio amore, creatori originari del bene

che in quell'amore hanno trovato, preferiscono supporre al di sopra

di sé la forza superiore ed esterna di un destino; tale destino gli

procura l'anticipazione dell'accaduto nei suoi piani, l' «era scritto»

che legittima quanto si compie. Forse ogni presente particolarmen-

te fortunato risulterebbe temibile per l'uomo, se dovesse percepir-

lo come un oggi spontaneo, come acqua che sgorga in questo stes-

so istante dalla sua sorgente primordiale, come qualcosa che non

fosse in alcun modo ripetizione, ritorno o prosecuzione di nulla,

bensì godesse, in maniera assoluta, della mera natura di inizio. La

richiesta di legittimazione, che si presenta in modi così diversi,

risponde alla necessità di proteggersi contro l'insostenibile appari-

zione di una specie tanto abbagliante di miracolo. Già soltanto il

calendario, che legittima i giorni venturi annotandoli e iscrivendo-

li anticipatamente, è un sicuro abortivo contro ogni possibile nasci-

ta d'un oggi insperato. Le date se ne stanno in agguato nel calenda-

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P ersonalmente, non considero la presenza di divinità o

l'idea di una vita ultraterrena come elementi essen-

ziali di ciò che intendo per atteggiamento religioso o

religiosità. Il confucianesimo, invece, offre i caratteri che conside-

ro essenziali. Da precedenti letture, avevo colto già da tempo uno

di questi tratti, che mi sembrava soltanto la più bella definizione

del santo, ma che vedo pienamente inserito nel «rifiuto del princi-

pio di realtà come criterio atto a giudicare sul bene e il male del

mondo», caratteristica essenziale della religiosità, ossia di quella

speciale ostinazione dello spirito contro il mondo dato, che si

appoggia sull'empio principio di legittimazione del «così è, così è

stato e così sarà per sempre».

La necessità di legittimazione è una peste che contagia anche

i tessuti più insospettati: quanti innamorati non cadono nella tenta-

zione di legittimare il proprio amore ricorrendo alla predestinazio-

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sostiene (come quella della gitana dello stornello) a dispetto d'ogniprobabilità o possibilità, quando cioè, lasciato da parte ogni calco-lo, è solo fedeltà senza condizioni. Se noi uomini siamo o nonsiamo condannati all'ergastolo è un dato che non influisce sull'ani-ma religiosa per quel che si riferisce a discernere il bene e il maledel mondo; l'ineluttabilità delle catene non le renderebbe affattomigliori, come la mancanza di ali non ci rende il volare meno desi-derabile. Quindi il dato importante per gitane e gitani non è lalegittimazione sulla base di un ieri effettivamente esistito o di undomani possibile, bensì l'incoercibile e inalterabile ostinazione concui l'idea del bene resiste ad ogni esperienza del reale. La religio-sità è questa ostinazione.

[O Religione o Storia, in La freccia nell'arco, Edizioni Linea d'Ombra,Milano 1992]

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rio, come gatti accanto alle tane dei topi, per ammazzare i giorniappena fanno capolino.

Una strofa andalusa dice così: «All'inferriata della prigione /viene a vedermi questa gitana; / ho una condanna a vita / e nonperde la speranza». Personalmente, pur senza il minimo pregiudi-zio né preconcetto teorico, sentire sulle labbra di un altro la parolasperanza, che non uso mai, mi ha sempre inevitabilmente dato unsuono come di moneta falsa; mi è sempre sembrato un volontari-smo dei sentimenti che ripone nei fatti l'aspettativa d'un orizzontepiù radioso che permetta loro di cullarsi nelle tenebre del presente.Dopo ogni nuovo e aggravato ripetersi della catastrofe, si torna adoffrire il balsamo della speranza come a voler inibire ancora unavolta le forze della disperazione. Ma anche a considerarla unavirtù, sulla speranza pesa sempre un equivoco: quello di sapere sesi mantiene in bilico sulla fiamma della purezza di cuore o se, inve-ce, rimanda alla fiducia nel mondo e nelle cose; in ogni caso,potrebbe meritare stima di virtù soltanto quando si alimenta e si

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N ello studio madrileno della calle Agustín de Rojas,ormai a soli 200 metri dalla dimora familiare, hoiniziato a raccogliere tutti i materiali non letterari

che compongono i due tomi di Saggi e articoli, con più o meno unterzo di scritti pubblicati in volume, un altro terzo di testi usciti inquotidiani e riviste e un ultimo terzo di inediti; poi ho preparato,con «relitti» inediti o comparsi sporadicamente sulla stampa, alcu-ni più di 30 anni fa, il libretto Verranno altri anni brutti a render-ci più ciechi.

[La forja de un plumífero, «Archipiélago» 31, 1997]

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S iamo babilonesi; che non ci prenda più la tentazionedi innalzare una torre insieme. Piuttosto: lasciamocifinalmente perdere, una buona volta, gli uni gli altri,

da bravi fratelli!

Invano, a nord, a sud, a est e ad ovest percorrerai il bosco sinoa notte. S'imbatte nell'albero solo chi, come il Buddha, va a seder-si alla sua ombra per sempre.

Il presente si mette nelle mani del futuro come una vedovaignorante e fiduciosa si mette nelle mani di un assicuratore astutoe disonesto.

La nazione debole ricorre ad argomenti pragmatici per ripa-rarsi all'ombra della nazione forte, ma questa, da parte sua, fa

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(Variante fattuale dell'argomento di Sant'Anselmo.)L'esistenza di Dio è come la qualità di quel dentifricio americanoil cui slogan pubblicitario era «Tre milioni di americani non si pos-sono sbagliare!». In effetti, a un dio con tre milioni di fedeli nongli resta che esistere; e se sono particolarmente fanatici glienebastano meno.

(Televisione.) La simpatia è una variante ilare, artificiosa, adu-latrice, impudica, aggressiva e fatua della maleducazione.

(In-bile, 1.) Nessuno riesce a mettermi tanto spavento comequelli che amano dire con raccapricciante gratificazione: «È unprocesso as-so-lu-ta-men-te ir-re-ver-si-bi-le». Tutta questa seriedi parole che cominciano con in e finiscono con bile, irreversibile,imprescindibile, inalienabile, inamovibile, immarcescibile, irri-

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appello ad argomenti morali per imporre la sua egemonia sullaprima.

La voce più misera diventa sempre la più autoritaria: non riu-scendo ad essere compresa, deve rassegnarsi ad essere solo obbe-dita.

Tuttavia..., oh, tuttavia, sembra talora di scorgere qua e là, sot-tili, sparse, fievoli, incerte tracce del fatto che ci sia stato, ci siapotuto essere, o per lo meno abbia voluto esserci qualche volta unmondo.

(Per speculum et in enigmate.) Tutto mi appare ormai cosìimmaginario, che non può perdere nulla essendo finto, come nullapuò guadagnare essendo reale.

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un punto di vista sociale, chi è realmente l'invaso e chi l'invasore?

Basta passare davanti a un'edicola per rendersi conto dell'impudi-

cizia e della sfrontatezza con cui la vita privata ha preso d'assalto i

mezzi di comunicazione e conquistato e occupato con le sue osce-

ne truppe l'interesse del pubblico. E per maggior beffa, tutti appro-

vano che la legge persegua la divulgazione di affari intimi contro

la volontà dei diretti interessati, ma innalzerebbero grida al cielo se

s'azzardasse a porre restrizioni alla divulgazione di questioni simi-

li, non già per rispetto della privacy individuale, bensì a decoro e

beneficio della vita pubblica. La lente di una mentalità privatizza-

ta ha invertito l'immagine stessa del fenomeno, dato che la verità

vista socialmente è che la vita pubblica è l'aggredito e la vita pri-

vata l'aggressore.

(Morale di perfezione e morale d'identità.) Secondo la mora-

le di perfezione, il movimento della bontà cambia il soggetto e in

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nunciabile, inesorabile, ineluttabile, eccetera, non so che specie di

livida oscurità cerchino radunare tutt'intorno all'orizzonte, renden-

do l'atmosfera sulfurea a forza di minaccioso malanimo! Si direb-

be, in verità, che tutte vogliano dire alla fine una stessa cosa, come

se fossero nate tutte da un'unica parola, moltiplicatasi poi fino a

diventare un esercito per accerchiarci e terrorizzarci.

(Immagine invertita.) Mi scandalizzo ogni volta che sento

parlare di rispetto dell'intimità e di diritto alla vita privata. È il

colmo! Evidentemente, si giudica un peccato della vita pubblica

l'indiscrezione che scova ed espone alla vergogna della strada per-

sino la più remota zona protetta del privato. L'individualismo

dominante ha lesionato lo sguardo stesso, che è solo più capace di

adottare il punto di vista privato, compatendo la gran diva spiata e

perseguitata dall'ostinato teleobiettivo delle riviste rosa fin dentro

alle sue più segrete quotidianità. Considerando invece le cose da

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PASTORELLA (1972)

Nasca il bimbo negativo,mai, nessuno, niente, no.Se risorge l'arroganzadella forza e del valore,bimbo debole e codardo bimbo notte e diserzione.Nasca il bimbo negativo,mai, nessuno, niente, no.Se risplendono i fucilidella bianca affermazione,bimbo buio, bimbo inerme,bimbo nebbia ed evasione.Nasca il bimbo negativo,mai, nessuno, niente, no.

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ognuna delle sue opere lo fa essere altro, nuovo, migliore e diffe-rente ogni volta. Essere buono significherà quindi smettere disomigliare a se stesso, almeno un poco ogni giorno. Di conseguen-za, già il mero continuare ad essere identico a se stesso è esserepeggiore di se stesso. E compiacersi di questo, è abiezione.

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mai, nessuno, niente, no.Se la logica decidesulla verità e l'errore,bimbo vero, bimbo falso,nodo di contraddizione.Nasca il bimbo negativo,mai, nessuno, niente, no.Se tra la carne ed il verbofu impossibile l'amore,bimbo mai, bimbo nessuno, bimbo nulla, bimbo no.

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Se il dottore raccomanda

la salute e l'allegrezza,

bimbo triste, bimbo infermo,

senza infanzia o giovinezza.

Nasca il bimbo negativo,

mai, nessuno, niente, no.

Se nel nesso della carne

fu spezzata la parola,

bimbo bimbo, bimbo bimba,

bimbo luna, bimbo sole.

Nasca il bimbo negativo,

mai, nessuno, niente, no.

Se per luce di giustizia

ogni colpa si rischiara,

bimbo buono, ma cattivo

va' spargendo confusione.

Nasca il bimbo negativo,

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La Spagna possiede una capacità saggistica che si è sempre risve-gliata in momenti particolarmente drammatici delle sua storia, a partire,per esempio, dalla famosa generazione del '98. Per quanto nuova e quasisperimentalistica sia la prosa di Ferlosio, è impossibile non ritrovarviaccenti che ricordano quelli del famoso testo di Antonio Machado, Juande Mairena (Angela Bianchini).

Il pensiero ferlosiano è radicalmente laico, rivolto alla dimensionepubblica e recalcitrante nei confronti dei pregiudizi imposti, dei modelliprefabbricati (gnoseologici, pedagogici, politici e giuridici) e di ogniforma di predestinazione, fatalismo, determinismo o manicheismo. Tra ibersagli polemici più frequenti dei suoi saggi e articoli ci sono dunque ilculto del Progresso cui vengono assoggettate singole e irripetibili viteumane, i sordidi furori d'autoaffermazione e d'egemonia che covanonella superbia delle armi e nell'onore delle bandiere, il «totalitarismo dia-cronico» delle concezioni universalistiche della Storia in cui la violenzadel dominio assurge a legittimazione, gli stravolgimenti ritualizzati delgiornalismo, lo sport competitivo e dunque non più gioco lietamenteozioso, l'opinione di massa più sensibile agli scandali che agli abusi, latelevisione istupidente e fagocitata dalla pubblicità, il principio liberal-capitalista della non responsabilità del fabbricante rispetto al prodottocon la conseguente indifferenza e innocenza delle merci, il vicolo cieco

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Ecco la modesta ipotesi che propongo: la maggior parte dell'operasaggistica di Sánchez Ferlosio è il prolongamento, sviluppo e modulazio-ne della contrapposizione tra conoscenza (significazione) e adattamento(assimilazione) e i bracci e le ramificazioni della rete fluviale ferlosianasi alimentano delle acque provenienti da questo alveo principale. Tuttauna serie di contrapposizioni ricorrenti negli scritti ferlosiani: religione /storia, morale di perfezione / morale d'identità, istruzione / educazione,fatti / dati, beni / valori, ecc. rimandano a questa contrapposizione ante-riore e più profonda. […] Non trovo azzeccato caratterizzare la forma diragionare di Ferlosio solo come un «pensiero contro», una permanentevocazione negativa. Certamente in Ferlosio c'è una negazione ricorrente,ma non è la sua ultima parola. C'è una negazione perché ne esiste in pre-cedenza un'altra, cosificata come inerzia, che l'autore cerca a sua volta dinegare. Le cose, i fatti, i beni, l'accadere vengono annientati nella loroalterità, imprevedibilità e gratuità dalle mistificazioni e manipolazionidegli ideologemi dell'armonia universale, dell'unità di senso narrativa,della razionalità storica, e così via. La negazione di queste negazioni nontende, come in Hegel, a una sintesi finale armoniosa e riconciliata, bensìsoltanto a liberare i fatti, i beni e i comportamenti, aiutandoli a strappa-re le cuciture dei vestiti di Procuste in cui sono insaccati perché possanoandare in giro sciolti. Per ardua e impegnativa che risulti l'impresa, èquesto l'orizzonte azzurro dell'alcione in cui, nonostante tutto, si attendecontro ogni speranza e contro il calendario dei giorni ripetuti «la nascitadi un oggi insperato» (Tomás Pollán).

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Ma, proprio come i suoi più primitivi antenati, continua a venerare comedivinità, rendendo loro atterrito culto e offrendo sacrifici apotropaici, isuoi più impenetrabili e mortali nemici. Adora così come madre l'inuma-na bestia della Natura e come maestra la cruenta bestia della Storia»(Giovanni Rizzoni).

Sánchez Ferlosio è nato disincantato e al contempo con un'immen-sa capacità di stupirsi, e con gli anni non ha perso né la fatalità dei suoidisincanti né l'entusiasmo dei suoi stupori, e per questo ha potuto costrui-re un'opera così stupefacente e disincantata, genuina e inesauribile. […]Uno dei relitti di Ferlosio dice: «Sulla groppa dell'alto muro dell'ortocoronato da cocci di bottiglia camminava stasera un gattino, senzatagliarsi.» Il fatto che l'abbia intitolato Paesaggio per Demetria, suamoglie, ci permette di pensare a un vero e proprio autoritratto, a una per-sona innocente che è riuscita a passare incolume tra vetri acuminati,senza ferirsi in alto, e senza precipitare in basso. È come una metaforadel suo stesso modo di pensare, della sua esistenza spaiata, così simile aquella dei gatti, imprevedibili, liberi e fieri. Ferlosio, gatto anche lui, sitrova in questo mondo, ma gli appartiene a malapena. Conviene legger-lo sempre, perché, sebbene in lui sembri prevalere la tensione verso lalogica, quasi sempre indovina dove gli altri cercano di dedurre, vedendodove nessuno vedeva (Andrés Trapiello).

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dei dilemmi, la Giustizia giustiziera che prefigura e persegue la punizio-ne ad ogni costo e, in modo particolarmente duro, il pragmatismo, chetrasforma la resa in capacità di salire sul carro del vincitore e permetteall'abiezione di pavoneggiarsi come virtù e raziocinio, condannando ogniindocile orgoglio nei confronti della realtà e ogni sentimento di vergognae disonore per il fatto di doverla sopportare (Danilo Manera).

Se la critica di Ferlosio non fa riferimento ad un'etica (nel senso diun sistema compiuto), trae tuttavia alimento da un ben determinatoethos, un atteggiamento assai definito con cui si guarda alla cultura e allasocietà. Lo si potrebbe definire un ethos di irriconciliazione rispetto alletragiche antinomie che ci propone l'esperienza quotidiana del mondo.Forse per questo, se vi è un'opera alla quale i Relitti ferlosiani possonoessere paragonati, verrebbe da fare riferimento ai Pensieri di Leopardi,non solo per l'estremo rigore della forma che sostiene il filo della rifles-sione, ma soprattutto per l'assunto filosofico fondamentale da cui questasembra generata: la considerazione della natura e della storia come duepotenze virtualmente alleate nell'annichilimento dell'individuo e delleopere dello spirito, almeno sino al giorno in cui si continuerà ad acco-gliere una concezione che spaccia la giustizia per natura e che convalidala natura coma giustizia: «In mezzo a due grandi bestie, una più ferocedell'altra, la Natura e la Storia, si accalca, sgomenta, la progenie umana.

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Qualunque cosa scriva, da oltre cinquant'anni questo autore eccen-trico e originale si batte contro l'efficacia con la dispersione delle suemolte vocazioni. Il suo pensiero, mai allineato, si mantiene libero perchésempre irrisolto. Chi non ha bisogno di prevedere in vista di uno scoponon teme l'inesauribile originalità del linguaggio, che sposta continua-mente le frontiere del senso. Immaginare quel che non è dato, far fluttua-re i significati: ecco la potenziale minaccia per i valori costituiti su iden-tificazioni o rappresentazioni anticipate. […] Benché abbia smesso(forse) di scrivere romanzi, Sánchez Ferlosio conserva la prospettivaerratica e compassionevole di chi non accetta che la vita si riduca a unaqualche forma di astrazione, pronta per essere strumentalizzata. Propriocome il suo indisciplinato e industrioso Alfanhuí, con metafisico amoreper tutto quanto eccede l'opinione comune, Sánchez Ferlosio sente altri-menti, scopre per caso e passa oltre (Elide Pittarello).

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(Origini) Guardatevi dalle verità. Non c'è malafede nei lorovolti sorridenti, ma hanno scordato che devono il regno, lo scettroe la corona a un'antica vittoria della forza.

(De ueritate, 2) La verità è la statua di sale del conoscere chesi ferma; la pioggia la scioglierebbe presto se gli occhi della pauranon si incaponissero a vederla fatta di pietra.

(Sì o no?) Mi dà i brividi la prospettiva che arrivi a istaurarsinei tribunali il sistema delle giurie che, a differenza dei sondaggid'opinione, ha la temibile aggravante di non ammettere altre opzio-ni oltre «sì» e «no», escludendo «non sa» e «non risponde».

(Anti-Beccaria: «proporzionalità») L'offesa nella sentenza,l'albereta nel catasto: cose rotonde ficcate in recipienti quadrati!

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(F ondale) Il tempo dei sogni non ha futuro; ècome il cielo delle scenografie teatrali: un eter-no presente prodigioso, ma al contempo infini-

tamente malinconico perché indovina che sarebbe il cielo dellafelicità, se non fosse dipinto.

(Alonsanfàn) La verità della patria la cantano gli inni: sonotutte canzoni di guerra.

(De consuetudine, 1) Dobbiamo resistere con tutte le nostreforze ad abituarci a qualsiasi cosa; l'abitudine è una nana che tra-sforma l'attenzione in distrazione e la veglia in siesta.

(De consuetudine, 2) Dietro nessuno schermo si nascondonotante cose come dietro l'abitudine.

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(Per Rosa Rossi) Ieri sera ho sentito una forte emozione al

leggere, citate in un libro, queste parole di Teresa d'Avila: «Negli

anni che ho vissuto ho visto tanti cambiamenti che non so vivere».

Il povero picaro di quei tempi credeva che nella mutevole confu-

sione, nel rumoroso, agitato e ingiusto controsenso di quanto lo

circondava, imparava a vivere, acquisiva quel che oggi si chiama

«esperienza del mondo». Similmente a lui, il marginale del XX

secolo che impara ad arrangiarsi e riesce, sia pur in modo precario,

a «cavarsela» in un dato ambiente, quando dichiara che «la strada

gli ha insegnato tutto quel che sa della vita», scambia per esperien-

za ciò che - proprio come il «savoir vivre» della sua controfigura,

il borghese agiato - non è altro che una resa davanti alla «logica

delle cose», ovvero crudo adattamento, che risulta l'esatto contra-

rio dell'esperienza, giacché adattarsi e abituare lo sguardo al

«mondo com'è» significa, al contempo, renderlo cieco e incapace

di vedere «com'è il mondo». Con il suo «non so vivere», Teresa

d'Avila esprime lo straniamento dal mondo e dalla vita, il senso di

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(Collasso) La trama rimase ferma e sopraggiunse la felicità.

(Retroattività: glossa a Walter Benjamin) Il destino è un'in-

venzione della sventura, come il peccato è un'invenzione del casti-

go e il giudice è un'invenzione del boia.

(Due galline cieche) La Fortuna e la Giustizia vengono dipin-

te con gli occhi bendati: la prima perché non veda la malvagità del

fortunato, la seconda perché non veda la bellezza del malvagio.

(San Michele) L'irosa e spietata buona coscienza dell'angelo

vendicatore stracolmo di ragione rivela fino a che punto si è sba-

gliato Dostoevskij. È quando c'è Dio che tutto è permesso.

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L'idea centrale di Non olet (il titolo deriva da un aneddoto delperiodo imperiale, secondo il quale, quando Vespasiano fece annusare aTito la prima riscossione delle tasse sulle latrine pubbliche, questi disse:«Non puzza» e l'imperatore replicò: «Eppure è prodotto dell'urina») èche nel 1927 si verificò un' «inversione copernicana del sistema econo-mico planetario», il cui enunciato sarebbe il seguente: «non si producepiù per soddisfare i bisogni - oppure i lussi o i capricci - dei consumato-ri, ma per soddisfare gli interessi della produzione». Ferlosio, seguendoJeremy Rifkin, colloca lo snodo nel 1927, proprio l'anno in cui morìThorstein Veblen (alla cui Teoria della classe agiata rimanda spessoFerlosio) e in cui Edward Cowdrick proclamò il «Nuovo Vangelo econo-mico del consumo». I meccanismi ideologici che hanno contribuito a talerivoluzione e le conseguenze che ne derivano sono i punti a cui Ferlosioapplica il suo ragionamento, la sua erudizione e la sua esperienza.Possiamo in sintesi ridurli a tre: i prodotti, il lavoro e il consumo. Inprimo luogo (prodotti) c'è il «principio dell'innocenza e indifferenza diogni merce per il solo fatto di essere merce», che è la traduzione econo-mica del «non olet» di Vespasiano, principio grazie al quale «l'egemoniadella realtà economica ha finito per convertire la Produzione in un fineche si giustifica da sé e che non ha motivo di dare alcuna spiegazione disé o della propria ineluttabile crescita». In secondo luogo (lavoro), vienel' «esaltazione e il culto del lavoro in sé e per sé», su cui concordano cri-stiani, liberali e marxisti a partire dalla «considerazione ontologica del

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estraneità, di distanza e di vulnerabile nudità rispetto a un datoambiente, sentimento d'intemperie che costituisce il terreno vuotosensibile e ricettivo nei confronti dell'esperienza. Oggi, come nelXVI sec., in ogni «saper vivere», tanto dei servi come dei padronidella strada, c'è oggettivamente come una sorta di coagulo ostrut-tore, di indissolubile trombo circolatorio di stupidità o depravazio-ne.

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(A pocrifo del Battista.) «Ma tu, Giovanni, non sei

il messia», pensava Erode sulla sommità della

torre; «Tu l'hai detto, Erode, non lo sono», gli

rispondeva Giovanni dal profondo della sua prigione. «Bada,

Giovanni, che tu non sei il messia», mormorava Erode tra il chiac-

chiericcio dei commensali; «Infatti, Erode, non lo sono», gli sus-

surrava Giovanni tra lo stridio delle sue catene. «Tu, Giovanni, non

sei il messia», ripeté Erode per la terza volta; la testa tagliata, sul

vassoio d'oro, non gli rispose più.

(Tu sola!) Il coniglio, bruno e grigio, si rifugia sotto il cespu-

glio, bruno e grigio, del timo; il lupo, febbre d'ombra e di sterpaia,

ombra e sterpi ha come tana. Non è tanto perché permettano loro

di mimetizzarsi, quanto perché gli offrono ospitalità. L'anima nera

solo in un luogo oscuro e una voce cupa trova compagnia. Tu sola,

condannata a durevole lealtà verso gli uomini, a rinnovato discre-

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lavoro» (Marcuse) fino alla «capitolazione senza condizioni» delPontefice Romano, il quale ha trasformato la maledizione del Genesi in«benediziooone». Tale idea sfocia nella proclamazione della non respon-sabilità morale del lavoratore stipendiato, equivalente alla storica nonresponsabilità morale del soldato, al fine di soddisfare pienamente esenza obiezioni gli interessi della produzione o dei prìncipi. Infine (con-sumo), «non si producono più solamente i prodotti, ma al tempo stessoanche i consumatori», idea che ha dato adito all' «industria di produzio-ne del consumatore», impresa «specializzata esclusivamente nella pro-duzione di consumatori per le imprese produttrici di prodotti», ovvero lapubblicità industriale che non solo riduce l'uomo «al mero ruolo di per-sonaggio all'interno dalla trama della produzione» ma oltretutto, affinchénon restino nemmeno qui obiezioni, iscrive l'istinto al consumo nellanatura umana, certifica la «purezza e inoffensività patologica e patogenadell'ambiente circostante» e registra l'emopatia o patologia del consumocome malattia dell'individuo, ossia promulga urbi et orbi la non respon-sabilità morale del consumatore (Gonzalo Hidalgo Bayal).

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(L'equità.) Un grande signore disse a Confucio: «Nel nostro

regno impera l'equità: siamo compassionevoli con le vittime e

spietati con i delinquenti». Confucio replicò: «Nel mio regno

siamo ugualmente compassionevoli con le vittime e con i delin-

quenti; anche questo merita il nome di equità».

(Dove la bestia è morta.) Il tratto di carreggiata abbandonato

dopo il raddrizzamento di una curva pericolosa ci rivela per con-

trasto negativo tutta l'aggressività latente e permanente, tutta l'in-

quietudine della tensione violenta e minacciosa virtualmente pre-

sente, anche quando non spunta un veicolo da nessun lato, sulla

strada in attività. Solo nel sorprendente e piacevole riposo di que-

sto tratto l'anima del viandante arriva a misurare, per comparazio-

ne col ricordo, fino a che punto viene sottoposta a impedimento,

allarme e apprensione sulla strada in uso, e obbligata a tendere i

suoi dispositivi e antenne captapericoli ogni volta che si accinge ad

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dito e perpetua solitudine; tu, proscritta come complice anticipatadel male venturo che la tua bocca annuncia ai suoi propri artefici;tu sola, ormai, sei calda e fraterna ombra ospitale per i figli dellacittà perduta; tu sola, figlia di Priamo, Cassandra!

(Novissima Sixtina.) Ho scoperto perché Dio non compare nétra i membri della direzione, né tra i professori, né ovviamente,tanto meno, tra gli alunni nella grande fotografia collettiva di fineanno scolastico della Storia Universale: è che lui era il fotografo.

(Parole creatrici.) Innocenti, in ultima istanza, di tanta stupi-dità, tanta bruttura, tanti odi e tante sofferenze, gli uomini finironoper mettere qualcuno lassù in alto, per avere chi maledire e controchi agitare il pugno verso il cielo, nell'ora della disperazione. Tantoo più che della lode, Dio è una creazione della bestemmia.

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quanto prima in cammino,

perché ogni dolore, ogni crudeltà

ruggiva e incombeva intorno.

La mia voce arsa e severa

sapeva solo crepitare aspramente,

come una canna agitata dal vento.

E da te li mandai!

Affinché vedessero come luce nei tuoi occhi

quanto nei miei era stato tenebra;

affinché in miele gli cambiassero le tue parole

quanto nelle mie era stato amarezza;

affinché nel piacere delle loro carni tu adempiessi

quanto nelle mie era stato rinuncia.

Posta già la scure alla radice dell'albero

della mia vita, rinchiuso nella mia ultima prigione,

per te di nuovo saltai di gioia,

come di gioia per te avevo saltato un giorno,

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attraversarla. Il tratto di carreggiata abbandonato, con filini d'erba

che nascono nelle crepe dell'asfalto spaccato, ci sorride con tutta la

letizia di una tranquillità e una pace recuperate per sempre, come

una folata di redenzione.

Solstizio d'estate

Venni alla luce nella notte più corta,

agnello fuori tempo che destinano

a terminare i rinsecchiti

resti di un pascolo condannato alla polvere

e a morire sgozzato d'inverno,

senza conoscere la verde primavera.

Il mio cordone fu tagliato e annodato

in fretta e distrattamente, come la cintola

di un messaggero che deve mettersi

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L e due grandi categorie di personaggi della letteratu-ra (e forse anche della vita) derivano dalla contrap-posizione tradizionale tra carattere e destino.

Personaggi di carattere sono gli archetipi, generalmente comici,puramente epifanici, che non nascono, né crescono né muoiono,ma si ripetono sempre in situazioni in cui confermano il propriocarattere, come Charlot, i protagonisti delle storielle settimanalidei fumetti o, nella vita, lo scemo di Coria, il nano di Vallecas e glialtri mostri o buffoni della corte di Filippo IV dipinti da Velázquez.Questi ultimi assolvevano senza dubbio per l'anima del malinconi-co re la funzione di alleviare, con il ripetersi di un eterno presente(quello del loro immutabile carattere), la percezione di un tenebro-so, precipitante e travagliato destino che si abbatteva sul loro reprigioniero degli artigli di Richelieu. I personaggi di destino sonogli eroi, epici o tragici, pienamente attuati, che nascono o inizianoo partono e muoiono o finiscono o tornano nel corso di una peri-pezia in cui si compie il loro destino. I personaggi di carattererespirano nel disteso «adesso» del tempo consuntivo; i personaggi

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rinchiuso nel ventre di mia madre!Perché mi tradisti? Perché entrastiin città in mezzo agli osanna, lasciandoti salutare come figlio di David?Perché poggiasti pietra su pietra edificando una dimora in questo mondo, tu che sapevi mostrare tutta l'allegriadei gigli di campo?

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Ci troviamo qui di fronte a una situazione metalinguistica incui Don Chisciotte racconta a se stesso esattamente quel che staaccadendo, come se lo leggesse molto tempo dopo in un testoimmaginario. La pagina, soprascritta come in un palinsesto, vive inun doppio «adesso»: mentre nel racconto immaginario DonChisciotte si vede rappresentato come un personaggio di destino,nel racconto che ci presenta Don Chisciotte che immagina se stes-so, anticipatamente, come personaggio della sua vera storia, DonChisciotte appare come personaggio di carattere.

Nonostante quest'ambivalenza, e addirittura sulla spinta e amotivo di essa, se c'è mai stato al mondo un personaggio di carat-tere nel senso più pieno ed esclusivo che si possa immaginare, èsenz'altro Don Chisciotte. La geniale trovata di Cervantes sta pre-cisamente in questo: nell'aver concepito un personaggio di caratte-re il cui carattere però consisteva proprio nel credersi, nel voleressere o nel comportarsi come un personaggio di destino, di cui sisarebbe potuto un giorno narrare l'epopea. E ancor di più, mi azzar-

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di destino corrono senza tregua attraverso il convulso tratto fugacetra il ieri e il domani del tempo acquisitivo.

Fin dalla sua prima uscita, Don Chisciotte legge con l'imma-ginazione e «come in profezia» ciò che di quello stesso momentodirà la narrazione delle sue imprese:

Strada facendo, quindi, il nostro cavaliere nuovo fiammante, cam-minando parlava tra sé e diceva: - Chissà che nei tempi futuri, quando venga alla luce la veridica sto-ria delle mie celebri gesta, l'erudito che la comporrà non scriva,allorché giungerà a narrare questa mia prima uscita di mattina pre-sto, così: «Il rubicondo Apollo aveva appena disteso per la faccia dell'ampiae vasta terra le fila dorate dei suoi bei capelli, e da pochissimo i pic-coli e variopinti uccelletti avevano salutato con la dolce e mellifluaarmonia delle loro melodiose voci l'apparire della rosata aurora, laquale, lasciando il morbido letto del geloso marito, si mostrava aimortali dalle porte e dai balconi del mancego orizzonte, quando ilfamoso cavaliere Don Chisciotte della Mancia, lasciate le oziosepiume, salì sul suo famoso destriero Ronzinante, e prese a cavalca-re per l'antica e celebrata campagna di Montiel» (Capitolo II).

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L a vecchia sede dell'Università di Roma, dove miononno materno, Romolo Ferlosio, si laureò inLegge, aveva per patrono Sant'Ivo, la cui chiesa fu

coronata dal Borromini con la meravigliosa Chiocciolettta, chevedevo molto da vicino dalla terrazza della casa romana in cuisono nato.

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derò a dire che quel personaggio di carattere, facendosi personag-gio di destino e affrontandone e patendone tutte le dolorose conse-guenze, fu come il Cristo dei cavalieri erranti che, scendendo nel-l'inferno della cavalleria, riscattò quei condannati dalla maledizio-ne eterna del destino.

[Frammento del discorso pronunciato da Rafael Sánchez Ferlosio nelricevere il Premio Cervantes]

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(Il Teatro Marcello, nella città di Roma.) Il curioso

conglomerato di costruzioni in cui, lungo quasi

due millenni, si era andato trasformando il

Teatro Marcello e che, in aperto contrasto con gli enormi cambia-

menti sofferti nella sua funzione e fisionomia, conservava ancora

quel nome primitivo - senz'altra modifica che la traduzione dal lati-

no al romanesco - provocava in me fin da bambino una profonda

suggestione. Sporgendo appena dalla superficie della facciata più

volte intonacata e ridipinta di un palazzo (forse barocco, stando al

poco che riesco ormai a ricavare dai confusi cliché della mia

memoria), o affacciandosi tra le discontinuità che più in basso

offriva la scomposta irregolarità di un emiciclo di case addossate,

più o meno antiche, apparivano qua e là, consunti, scheggiati,

anneriti, ma ancora stabilmente fissi nella disposizione originaria,

i blocchi di pietra del teatro romano. I maestri costruttori di tutte

quelle opere successive non sembravano essersi posti il problema

di allinearle l'una all'altra e tanto meno dovettero fermarsi a tenta-

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fondato la scelta di quel sito. I conti, non i piani - il calcolo econo-mico, e non già una valutazione genuinamente architettonica dellediverse opzioni edilizie - erano stati l'origine e il criterio di quelparziale, benché vistoso, aggiustamento tecnico, di quella transa-zione o compromesso tra la scura fabbrica imperiale e le doratemura papaline.

Ma non era comunque necessario veder ridotta - sulla basedell'osservazione precedente - a fattori tanto contingenti persinoquella limitata conconrdanza che il palazzo, a differenza delle casee forse per via delle sue dimensioni più ambiziose, si era vistoobbligato a rispettare, perché balzasse già agli occhi di per sé, benpiù categoricamente, l'estrema e inquietante divergenza esistentetra le pietre del teatro e il volto delle parassitarie costruzioni poste-riori. Queste si limitavano, in effetti, ad addossare o far aderire inun modo qualsiasi i loro corpi alle rovine, non secondo possibilisuggerimenti dati dalla disposizione dei blocchi di pietra, bensìsecondo la convenienza di piani edilizi del tutto indipendenti ed

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re anche solo di concepire il pensiero di metterle d'accordo, inquanto a struttura o materiali, con la già esangue fabbrica dell'an-tica rovina.

È vero che il palazzo (la cui facciata, occupando gli ordinisuperiori del teatro, seguiva il tamburo delle arcate, a filo con lafaccia esterna dei blocchi di pietra, mentre le case, più sotto, sistaccavano, quale più quale meno, da quel fronte, protendendosiverso la strada) suggeriva allo sguardo almeno un certo moderatoimpegno a concertare la sua pianta con quella dell'ossatura che losorreggeva. Ma bisogna interpretare correttamente quest'impres-sione, sottolineando che tale peraltro esigua concordanza con lastruttura della rovina era dovuta unicamente a un'esigenza pragma-tica (aliena ed esterna, di conseguenza, alle leggi proprie dell'archi-tettura): quella di attenersi a una previsione di bilancio, sfruttandoil potenziale architettonico già disponibile nell'armatura romanapreesistente fino all'alto livello di rendimento capace di soddisfarela riduzione di spese su cui il progetto stesso aveva senza dubbio

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M a ora mi sopraggiunge un'ultima domanda: per-

ché, a dispetto dello schiacciante trionfo odier-

no della tecnocrazia, e di fronte ai saperi positi-

vi, utili, e per altro molto più remunerati, inclusa la stessa sociolo-

gia in quanto strumento di controllo sociale, continuano ad essere

i saperi cosiddetti «umanistici» (parola che, sia detto tra noi, per-

sonalmente aborro) quelli che, pur se ridotti a questa oziosa fun-

zione puramente ornamentale, ricevono a palazzo o nei salotti

della buona società - non fosse che con consapevole o inconsape-

vole ipocrisia - i più alti tributi di ammirazione e di prestigio?

Ebbene, la mia congettura è che - anche se forse ormai disgrazia-

tamente con un certo ritardo di percezione storica - sopravvive la

convinzione che sono proprio questi saperi - pur se oggi mantenu-

ti nell'impotenza e nell'oziosità - gli unici dai quali potrebbe arri-

vare al Sistema, o da cui almeno esso crede gli possa arrivare,

qualcosa da temere, gli unici che contengono, o per lo meno con-

tenevano, la minaccia del «più-in-là-del-limite», e insomma gli

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eteronomi, estranei a qualunque altra pretesa nei confronti del tea-tro che non fosse quella di trarre vantaggio dalla sua robustezza, epertanto equivalenti, in questo, a quelli di chi getta le fondamentadella propria casa sulla viva roccia o la edifica appoggiata a unarupe. E certamente le reliquie dell'annerita struttura di pietra dove-vano apparire come roccia viva di contro all'ocra rossiccio e rama-to di case e palazzo. E vera e propria natura diventavano agli occhidi chi le contemplava, non diversamente da ciò che accade a chi,scandagliando le profondità dell'anima, dopo aver trapassato escartato quanto ritiene costruzione sovrapposta dalla cultura, crededi toccare infine la roccia viva della natura, poiché anche questapiù profonda e temprata resistenza, che la sonda non riesce a pene-trare, non è che la rovina fossile di un'altra, più remota cultura, inapparenza estinta, ma ancora saldamente eretta nell'ombra.

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(Weg von hier, das ist mein Ziel.) Miopadre mi raccontò una volta unafavola cinese che è per me -

volendo nascondere pudicamente dietro la stereotipata espressioneinglese a buon mercato una dichiarazione tanto enfaticamente sog-gettiva - the most wonderful tale I ever heard, ma non giunse a dir-mene la fonte o l'epoca, e in seguito non ne ho più saputo nulla pernessun altro canale:

L'imperatore della Cina amava immensamente la sua unicafiglia e temendo di darla in matrimonio a un uomo che la facessesoffrire, ordinò ai suoi mandarini che percorressero tutto l'imperoe trovassero il giovane che avesse il volto della perfetta santità.Alla fine, tra tutti gli aspiranti portati a corte dalle più remoteregioni della Cina, fu scelto colui che finì per sposare la figlia del-l'imperatore. Egli non deluse le aspettative e seppe in effetti rendersempre felice la moglie, vivendo con lei in amore e rettitudine finoalla fine dei suoi giorni. Ma mentre veniva avvolto nel lenzuolo

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unici che in una parola, a somiglianza del bambino della favolaantica, sarebbero capaci di gridare: «L'imperatore è nudo».

Nel ringraziare infine il Magnifico Rettore, il corpo accademi-co e e tutti voi, vorrei aggiungere che, per la memoria dei mieinonni e in nome di mia madre e dei miei parenti italiani, e di tantiricordi allegri o tristi che mi legano a questa città dove son nato, sevoi questa laurea me la date honoris causa, permettetemi, senzascapito di questo onore, che io la prenda amoris causa.

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rale, perché la santità non nasce dall'interno, come frutto sponta-

neo della natura, ma è indotta e formata da fuori, in quanto opera

dello spirito. L'immagine della perfetta santità non sarà mai in un

giovane altro che una maschera posticcia - cioè un modello artefat-

to - e la santità stessa dovrà essere pertanto affettazione, finzione,

invenzione, alienazione. La maschera d'oro della perfetta santità

non fu all'inizio altro che il pegno della promessa con cui l'anima

rispondeva alla chiamata dello spirito, il soffio esterno che sveglia

e sollecita la natura affinché, liberandosi dalla sua inerte servitù,

elevandosi al di sopra di se stessa, incarni sotto la guida dello spi-

rito la figura vivente della santità. Unicamente quando tutta una

vita di perfezione e di virtù avrà saputo adempiere la promessa

della maschera, la natura medesima avrà reso vere, rispetto a se

stessa, le fattezze posticce, e il sembiante di carne avrà colmato e

imitato dal di dentro fino all'ultima crespa il volto dello spirito,

fino a raggiungere l'identità completa. Per questo soltanto nell'ora

della morte si può trovare il volto della perfetta santità non solo

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funebre e adornato per la sepoltura, un cortigiano notò col polpa-strello, sulla tempia del defunto, l'orlo di una sottilissima masche-ra d'oro che gli copriva il volto. «Ha prevaricato!» gridò il manda-rino strappando nel contempo di colpo la maschera, per rendermanifesta la tremenda e sacrilega impostura; ma quale non fu lostupore e l'ammirazione di tutti i presenti al vedere che il sembian-te che allora si mostrò ai loro occhi aveva i lineamenti assoluta-mente identici a quelli della maschera.

Una storia immortale come questa sarà sempre capace didispiegare, ogni volta che viene raccontata, un intero ventaglio diinterpretazioni diverse, tutte ugualmente legittime, e la sua ultimaluce filosofica e morale si ottiene forse soltanto confrontandole econciliandole tutte; diamo quindi per scontato che quella qui espo-sta e commentata, per quel che può valere, non vuole essere nien-t'altro che una delle tante, senza pregiudizio alcuno della validitàdi qualunque altra: nessun sembiante umano può raffigurare nellesue fattezze «il volto della perfetta santità» come un aspetto natu-

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che in molte più storie o leggende di vocazione o conversione di

quante si possano attribuire al caso o alla statistica ricorrano fatti,

azioni o figure in cui viene suscitato, indicato o citato un esterno.

Tali sono, ad esempio, l'altezza celeste da cui Saulo sente venire la

voce sulla via di Damasco, o l'intemperie totale verso cui

Francesco d'Assisi dirige i suoi passi con la più assoluta nudità

come unico avere, o il deserto verso cui s'incamminano quelli che

ascoltano la voce di colui che grida nel deserto, o il weg-von-hier

del cavaliere kafkiano, che cela un Buddha nel petto, o il grande

esterno verso cui si spalancano da sole le porte del palazzo e della

città davanti al cavallo del principe Gautama; dove qualcuno

risponde al soffio dello spirito c'è sempre un fuori, un esterno,

un'intemperie enfaticamente additata, e non come ambito statico,

ma come orizzonte di un partire o come lontananza da cui venia-

mo chiamati. L'esterno sarà forse sentito come luogo dello spirito,

in contrapposizione a una natura la cui introversione e servitù si

configura e rappresenta in forma d'interno? Il movimento verso la

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come maschera, ma anche come sembiante naturale, giacché lafavola ci insegna nel contempo che la santità non giace come undeposito nell'essere, ma vive come un respiro nell'agire.

[…] In un brevissimo racconto, intitolato La partenza -rispetto al quale albergo personalmente la piena convinzione chesia una splendida parafrasi del racconto della vocazione di Buddha-, Kafka mette sulle labbra di chi parte la seguente risposta alladomanda su quale sia la sua meta: Weg von hier, das ist mein Ziel(«Via di qua, ecco la mia meta»). Lo spirito chiama da fuori, dalontano, e forse il luogo dove vuol attrarre i chiamati, essendo unautentico esterno e contrapponendosi al luogo della natura, che èuno spazio dato, determinato e conosciuto, si lascia definire soltan-to per via negativa. Sotto le più diverse fisionomie concrete, ognigrande morale si è sempre caratterizzata per il fatto di fondare lapropria possibilità e compendiare il proprio impulso e significatonella condizione di soggetto proteiforme e perfettibile che contrad-distingue l'uomo. È facile immaginare quale sentimento faccia sì

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B reve bibliografia italiana di Rafael SánchezFerlosio

Il Jarama, trad. di Raffaella Solmi, Torino, Einaudi, 1963.

Tibi dabo. I morti del Challenger. Una burla, trad. di DaniloManera, «L'Indice», n.7, luglio 1987.

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Tre frammenti, trad. di Danilo Manera, «Astragalo», n.22,maggio 1990.

Imprese e vagabondaggi di Alfanhuí, cura e trad. di DaniloManera, Roma, Theoria, 1991.

Armi e miraggi, trad. di Danilo Manera, «Linea d'Ombra»,n.63, settembre 1991.

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santità sembra aver sempre avuto un aspetto di partenza; chi èchiamato dallo spirito risponde sempre mettendosi in cammino,ma senza una meta positiva; è già in cammino e non sa ancora seva; quello che invece sa perfettamente è che se ne va; il riferimen-to al luogo da cui se ne va è sempre dominante nel determinare ilmovimento di risposta alla chiamata, e spesso si sovraccarica eaccentua con drammatici tratti di attiva negazione, come quandoFrancesco, il figlio di Pietro di Bernardone, sottolinea la sua par-tenza spogliandosi, prima di varcare le porte della città di Assisi,delle ultime vesti che coprivano il suo corpo. Più che di andare daqualche parte, e meno ancora di arrivare, si tratta di partire.L'impulso dello spirito si compie nella partenza, e chi parte ha giàrisposto alla chiamata; la santità perfetta è ancora distante quantouna vita intera, ma il pellegrino stringe già nella destra, saldamen-te impugnato, il bastone luminoso del libero arbitrio.

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Il recidivo, «Corriere della Sera» - Supplemento «Sette»,n.26, luglio 1992.

Relitti, cura e trad. di Danilo Manera, Milano, Garzanti, 1994.

L'anima e la vergogna, trad. di Danilo Manera, «Micromega»,n.4 (1994), pp. 95-128.

La testimonianza di Yarfoz, trad. di Manuela Zanirato, a curadi Danilo Manera, Roma, Biblioteca del Vascello, 1994.

Mori e cristiani, trad. di Saverio Esposito, «Lo Straniero»,n.29, novembre 2002.

Fuoco dell'inferno, trad. di Antonella Romano,«Avvenimenti», n.15, 16-22 aprile 2004.

Relitti, trad. di Danilo Manera, «Diario», n.16, aprile 2004.

Giochi e sport, trad. di Marilisa Santarone e MartinaSommariva, «Crocevia», n.3/4, autunno-inverno 2004.

101R A F A E L S Á N C H E Z F E R L O S I O , S C R I T T O R E

Elogio del lupo, a cura di Danilo Manera, trad. di Tonina Pabae Danilo Manera, Roma, Biblioteca del Vascello, 1992 e StampaAlternativa 2001.

Weg von hier, das ist mein Ziel e Da «O religione o storia»,trad. di Danilo Manera, «L'Indice», n.1, gennaio 1992.

Quaderno cinese, trad. di Danilo Manera e Manuela Zanirato,«Micromega», n.5, 1992, pp. 11-29.

Un rudere e i suoi volti, «Il Messaggero», 31 marzo 1992.

La freccia nell'arco, a cura di Danilo Manera, trad. di IrinaBajini, Viola Lapiccirella, Rosa Rossi, Marco Cipolloni e DaniloManera, Milano, Edizioni Linea d'Ombra, 1992 [contiene: Quandola freccia è nell'arco deve partire, O Religione o Storia, SulPinocchio, Armi e miraggi, L'Umanità e l'umanità, Tibi dabo, Lacoscienza debole si lava col sangue, Un mondo intransitivo,Coazione apologetica e marketing di stato e Sulla ritualizzazionedella cultura].

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Il 3 aprile 1992 l'Università degli Studi «La Sapienza» diRoma gli ha conferito la Laura honoris causa nell'aula magna dellaFacoltà di Magistero, con elogio pronunciato da Rosa Rossi.

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Uno scritto sulla guerra. Guerra tra parti e guerra escatolo-gica, trad. di Antonella Romano, Grazia Testa, Ilaria Tordino e

Danilo Manera, Roma, Istituto Cervantes, 2004.

Tra le interviste a Rafael Sánchez Ferlosio pubblicate in Italia

ricordiamo quella di Danilo Manera, Meglio uomini pubblici cheuomini politici. Incontro con Rafael Sánchez Ferlosio, «Linea

d'Ombra», n.68 del 1992, quella di Grazia Cherchi, Terra corrotta,

«L'Unità» del 9 marzo 1992, e quella di Gioacchino De Chirico,

Ferlosio alla ricerca dei relitti dell'umanità, «L'Unità» dell'11

ottobre 1994.

Tra le presenze di Rafael Sánchez Ferlosio in Italia, ricordia-

mo i convegni internazionali «Nord Sud Est Ovest. Noi e gli altri»

a Milano il 3 marzo 1992 e «La scoperta dell'America e la cultura

italiana», a Genova l'8 aprile 1992, nonché gli incontri presso la

Casa delle Letterature di Roma il 27 aprile 2004 e l'Istituto

Cervantes di Milano il 28 aprile 2004.

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Libro finito di stampare nella primavera del 2005,in occasione dell'inaugurazione della mostra

Rafael Sánchez Ferlosio, escritor,presso la Biblioteca Casanatense

di Roma, il 22 giugno2005

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