Tipologia delle fonti ed esiti drammaturgici del balletto "Giselle"

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RIVISTA DI LETTERATURA TEATRALE 6 · 2013 PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMXIII estratto

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RIVISTA

DI LETTERATURA

TEATRALE

6 · 2013

PISA · ROMA

FABRIZIO SERRA EDITORE

MMXIII

estratto

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*Si invitano gli autori ad attenersi, nel predisporre i materiali da consegnare alla Redazione e alla Casaeditrice, alle norme specificate nel volume Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali,

Pisa · Roma, Serra, 20092 (ordini a: [email protected]).Il capitolo Norme redazionali, estratto dalle Regole, cit., è consultabile Online alla pagina

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TIPOLOGIA DELLE FONTI ED ESITI DRAMMATURGICI

DEL BALLETTO GISELLE*

Maria VenusoUniversità degli Studi di Napoli « Federico II »

M olto poco si ragiona sulla drammaturgia del balletto 1 in termini seriamente scienti-

fici, come ancora poco si analizza un genere teatrale ‘muto’, la cui ‘voce’ è rappresen-tata da una partitura musicale, la quale traduce, a sua volta, un testo spesso desunto da una fonte letteraria, come fu d’uopo nell’ambito del teatro musicale romantico.

2 Lo studio delle fonti dirette e indirette e la loro influenza sulla drammaturgia del balletto romantico, con particolare riferimento a Giselle, ou les Wilis, balletto in due atti andato in scena il 28 giugno del 1841 all’Opéra di Parigi, su musica di Adolphe-Charles Adam e coreografia di Jean Coralli e Jules Perrot, apre la strada a un ampio e articolato discorso, che prende le mosse dalla lette-ratura romantica della prima metà dell’Ottocento, terreno oltremodo fertile dal quale sono germogliati capolavori indiscussi.

Ben lontana dalle tendenze della danza moderna, in cui il fattore ‘musica’ non è sempre così intimamente legato al gesto − anzi, ne è talvolta palesemente scisso, come insegna Merce Cunningham

3 − il balletto romantico è, per eccellenza, l’arte muta che, attraverso il gesto, riproduce visivamente quanto percepito dall’orecchio dello spettatore. La pantomina e i passi scenici, sapientemente costruiti sulla musica e con la musica, riproducono, battuta dopo battuta, una partitura, esplicitandone la drammaturgia e rendendola più facilmente percepibile anche a un pubblico di non specialisti. Qualora si ammettano sentimenti dell’ani-mo umano così profondi da non poter essere descritti con la parola, l’arte indeterminata della musica, unitamente all’immediatezza e alla spontaneità del gesto, possiedono il pregio di introdurre con più felice esito lo spettatore nel contesto della finzione scenica.

* Con il presente contributo, estratto dalla tesi di Master di ii livello in Letteratura, scrittura e critica teatrale, coordi-nato dal prof. P. Sabbatino, dal titolo Incidenza delle fonti dirette e indirette nella drammaturgia del balletto Giselle, discussa presso l’Università degli Studi di Napoli « Federico II », si è voluto dare spazio ad alcune problematiche in genere poco considerate dagli studiosi. Il più sentito e doveroso ringraziamento va alla relatrice, la prof.ssa M. Mayrhofer, per la cura e l’entusiasmo non comuni, con cui ha seguito il lavoro della sottoscritta.

1 Sull’opportuna distinzione tra danza e balletto, lo storico Alberto Testa così chiarisce i due termini : « La danza è una delle quattro forme d’arte principali. Il suo posto sta nel centro fra le altre tre, precisamente tra poesia musica e arti figurative (o del segno). Il balletto è una forma del teatro e in questo caso quella in cui il linguaggio principale è la danza che si realizza in cooperazione con le arti sorelle. Caso analogo dunque all’opera lirica, che è altrettanto una forma del teatro ma in cui il linguaggio principale è costituito dalla musica con il concorso della parola, della sceno-grafia e, qualche volta, in funzione marginale, spesso solo decorativa, della danza » (cfr. A. Testa, Storia della danza e del balletto, Roma, Gremese, 20053, p. 11).

2 Il generale disprezzo della cultura accademica italiana per l’arte della danza risiede tradizionalmente nell’idea di caducità che essa suggerisce, nell’effimero di un’emozione che non può ripetersi identica una seconda volta, impe-dendo a questa forma d’arte di essere fissata secondo un codice scritto comprensibile a molti. In epoca moderna, con l’avvento del cinema e della televisione, la mera registrazione delle sequenze di passi non è stata tuttavia in grado di riprodurre l’atmosfera che si genera, sempre diversa ad ogni recita, in teatro. L’ancor più esigua diffusione della no-tazione utilizzata per tramandare i balletti, messa a punto dal ballerino e maestro russo Vladimir Ivanoviĉ Stepanov, con la pubblicazione nel 1892, a Parigi, del volume Alphabet des mouvements du corps humain, ispirato ai principi della notazione musicale, si è rivelato importante strumento di ricostruzione coreologica.

3 Si vedano sull’argomento J. Klosty, Merce Cunningham, New York, Saturday Review Press, 1974 ; J. Lesschaeve, Il Danzatore e la Danza/colloqui con Jacqueline Lesschaeve, vers. it. a cura di F. Concina Bouvet, Torino, EdT, 1990.

«rivista di letteratura teatrale» · 6 · 2013

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In questa sede ci si soffermerà, con una sintetica disamina a volo d’uccello, sulla dramma-turgia di Giselle : dal testo alla danza attraverso la partitura musicale, cercando di individuare quali temi presenti nelle fonti abbiano condizionato in modo decisivo l’opera nel suo com-plesso. Nel balletto la parola non solo esiste, ma diventa poesia in quanto veicolata dalla mu-sica ; la danza racconta una storia, una trama o semplicemente un’idea, come ben dimostra il neoclassicismo astratto di George Balanchine, nel corso del xx secolo.

1 Il balletto romantico (con particolare riferimento alle creazioni degli anni venti-quaranta

del xix secolo) nasce, alla stregua del melodramma, da un testo spesso letterario, traducen-done le situazioni che hanno particolare evidenza drammatica in successioni di pantomima, di solito utilizzata per descrivere il procedere dell’azione, e di danza vera e propria, in cui l’azione rimane statica nella ‘contemplazione dell’affetto’, specie nei duetti d’amore, con regolare ripartizione dei virtuosismi.

Nella Francia di Luigi Filippo, per ogni nuovo ballet-pantomime 2 veniva creata una al-

trettanto nuova partitura musicale, così come il libretto, che era finalizzato a descriverne minuziosamente la trama, scena per scena, analogamente a quanto avveniva per l’opera. Théophile Gautier annotava, in proposito, sulle pagine de « La Presse » del 23 ottobre 1848,

3 la differenza tra l’importanza della scelta del soggetto in Francia rispetto all’Italia o l’Inghil-terra : i Francesi non si accontentavano del semplice insieme di poesia, scenografia, musica e danza, bensì esigevano un tema, uno sviluppo logico-drammatico con una conclusione mo-rale nettamente definita. Questa attitudine, che aveva saputo produrre una delle letterature più drammatiche e razionali al mondo, era alla radice di siffatte esigenze.

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Molti dei libretti e delle partiture erano elaborati da compositori versati in entrambi i generi teatrali, i più noti dei quali, al tempo, erano Adolphe-Charles Adam

5 e Ferdinand Hérold,

6 noti soprattutto per balletto e opéra comique. 7 Fra i librettisti, Eugène Scribe e Ju-

les Henry Vernoi de Saint-Georges Georges avevano realizzato più di venti opere e balletti all’Opéra, durante la Monarchia di luglio. Nel decennio che intercorre fra il 1830 e il 1840 il

1 Si segnalano in merito T. Goth, Balanchine ballerino, coreografo e maestro, « Sipario », vii, 74, 1952, pp. 5-7 ; H. Ko-gler, Balanchine und das moderne Ballet, Hannover, Friedrich, 1964 ; R. Bucke, J. Taras, George Balanchine Ballet Master, New York, Random House, 1988 ; R. Lee, S. Schorer, Suky Schorer e la tecnica Balanchine, Roma, Gremese, 2009.

2 La giustapposizione dei due termini denota la duplice natura della rappresentazione ballettistica nel xix secolo, nella quale si fondono i virtuosismi tecnici e la gestualità finalizzata alla esplicazione della trama. Si tratta di una prerogativa tipicamente ottocentesca, in quanto nel Novecento si ridurrà al minimo la presenza di pantomima nei balletti (rimarrà, sia pure molto limitata, nel cosiddetto ‘repertorio classico’), sostituendo all’azione mimata quella esclusivamnete danzata. Un esempio su tutti: Les Sylphides, su musica di F. Chopin e coreografia di M. Fokine, andato in scena il 4 giugno del 1909 al Theâtre du Chatelet di Parigi, con il nome di Chopiniana. Qui il coreografo, a sostegno della sua tesi, secondo cui la mimica tradizionale avrebbe rallentato il procedere dell’azione, mise su un allestimento che ricostruisse l’atmosfera sognante del poeta e delle silfidi esclusivamente attraverso la danza (cfr. in merito M. Palleschi, http ://www.balletto.net/giornale.php ?articolo=401 e Idem, http ://www.balletto.net/giornale.php ?arti-colo=96).

3 « La Presse », 23 ottobre 1848, in trad. inglese di I. Guest, Gautien on dance, London, Dance Books 1986, p. 204.4 Cfr. M. Smith, Ballet and Opera in the Age of Giselle, Princeton, Princeton University Press, 2000, pp. 3 sgg. 5 Fu probabilmente per la sua forte personalità, oltre che per il suo talento, che Adam ottenne ben nove balletti,

più di ogni altro compositore del suo tempo. Egli ne fece la sua attività grazie anche alle giuste amicizie, ottenen-do la sua prima commissione, La Fille du Danube, nel 1836, tramite la conoscenza di Eugene Desmares, amante di Maria Taglioni. Dal tempo di Giselle Adam conseguì il rispetto dovuto per essere accolto con ampio plauso nel-le produzioni del teatro (cfr. in merito A. Pougin, Adolphe Adam. Sa vie, sa carrière, ses mémoires artistiques, Paris, Charpentier, 1877, citato in S. Jordan, The Role of the Ballet Composer at the Paris Opéra : 1820-1850, « Dance Chronicle », iv, 34, 1981, p. 384). Il potere di Adam, raro per un compositore di balletti, fu tale che riuscì finanche a modificare la scena finale del balletto, in cui Giselle, invece di tornare nel sepolcro, veniva condotta da Albrecht su un letto di fiori, che l’avrebbero lentamente ricoperta.

6 Cinque furono le partiture di balletto presentate all’Opéra, tutte fra il 1827 e il 1829 ; Hérold morì nel 1833, prima che Adam iniziasse a scrivere per l’Opéra.

7 È l’opéra comique, con il rifiuto dei temi della mitologia e della storia greco-romana, a rappresentare l’antecedente preromantico del teatro di danza (cfr. M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, Roma, Ar-mando, 2004, p. 104).

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Massimo parigino figurava come una delle più importanti scene dei maggiori teatri europei e il contratto del direttore prevedeva la produzione obbligatoria di lavori, sia di genere operi-stico (grand e petit opéra, con o senza balletto), sia di ballet-pantomime. Com’è ben noto, ogni performance includeva entrambi i generi : alla fine di un’opera rappresentata per intero veniva apposto un divertissement di danze,

1 mentre la versione ridotta di un’opera o una più breve venivano eseguite all’inizio o alla fine di ogni recita di un ballet-pantomine integrale. I com-positori, chiamati a portare in scena queste trame, spesso complicate, lavoravano a stretto contatto con il maestro di ballo e con i danzatori, indipendentemente dal fatto che la partitu-ra fosse originale o riutilizzasse materiale preesistente. Una collaborazione tanto stretta con il coreografo condizionava necessariamente la libertà del compositore, sì da determinare, in questi casi, una dipendenza quasi servile.

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Elemento comune di non secondaria importanza, la musica figura come denominatore fondamentale per la coesione dello sviluppo drammatico della vicenda. La musica ‘dramma-tica’, ossia quella riservata alle parti salienti della narrazione, intensificava il significato della pantomima attraverso l’uso di temi popolari o melodie note, cambiando frequentemente misura, chiave e tempo, al fine di riflettere l’azione e il mutamento delle espressioni dei per-sonaggi. La musica per la danza accompagnava invece i divertissements dell’opera come del ballet-pantomime e stabiliva un appropriato carattere alle danze, spesso di coloritura ‘naziona-le’.

3 Essa tendeva a cadere regolarmente in otto battute e a rimanere in una sola chiave, così come veniva per lo più utilizzato un solo tempo e un solo metro per segmenti più lunghi, rispetto alla musica della pantomima.

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Da un punto di vista più strettamente drammaturgico, va sottolineato quanto già sinteti-

1 L’inserimento dei divertissements − ossia parti integralmente danzate, infarcite di virtuosismi tecnici − costituiva uno dei punti fondamentali di affinità tra opera e balletto ed era finalizzato a far procedere l’azione drammatica nelle scene di feste di paese, celebrazioni di matrimonio, balli in maschera o di intrattenimento. I danzatori era-no impiegati regolarmente nelle opere, mentre i cantanti, se non comparivano nei balletti, avevano ugualmente modo di collaborare in diversi modi ; il tenore Adolphe Nourrit, ad es., scrisse il libretto per i balletti La Sylphide, La Tempête, L’Ile des pirates. Questa sorta di appartenenza ad una stessa « famiglia » − come la definisce Marian Smith nella monografia sul balletto e l’opera nell’età di Luigi Filippo − rappresenta il punto di partenza per lo studio delle relazioni intercorrenti fra i due generi, in questo particolare ambiente e periodo storico. Negli anni qui presi in considerazione ci si riferiva ancora al passato, in cui balletto e opera non erano stati ancora irrimediabilmente separati. A cagione di ciò il pubblico non aveva difficoltà nell’associare i due tipi di spettacolo, entrambi provvisti di una partitura musicale, di una trama-libretto con dei personaggi principali e altri secondari, oltre all’impiego di un corpo di ballo o di un coro (cfr. Smith, Ballet and Opera, cit., pp. 19 sgg.). Le tipologie di movimento dei cantanti sulla scena rievocavano quelle proprie dei danzatori : la gestualità rientrava nel medesimo blocco di movimenti, come si evince dai libretti e da varie annotazioni sulle partiture, da litografie, disegni e riviste d’epoca. Entrambi portavano al centro del palcoscenico l’esecuzione dei loro numeri principali (duetti, arie/variazioni e passi a due) ; così il corpo di ballo, l’equivalente del coro nel grand opéra francese, agiva sul palcoscenico disposto in figurazioni simmetriche e geometriche, per lo più su linee parallele collocate in fondo o ai lati del palcoscenico – cfr. Eadem, Ballet, Opera and Staging Practices at the Paris Opéra, in La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Atti del Congresso di Studi (Parma, Teatro Regio-Conservatorio di Musica « A. Boito », 28-30 settembre 1994), Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1996, pp. 172-318, citato in Eadem, Ballet and Opera, cit., p. 45, nota 37 –. Molto utile, in merito, la tavola che la Smith realizza per un confronto dei personaggi minori nei ballet-pantomimes e nei grand opéra francesi, per la quale si veda ivi, pp. 47-49, tav. 2.

2 L’utilizzo di clichés per parti fisse del balletto era considerato un fattore molto limitante per la creatività artistica e, oltre alla minore retribuzione prevista rispetto alle partiture di opera, l’essenza stessa del balletto romantico, ossia la glorificazione della ballerina, era vista come un qualcosa di assolutamente non musicale, per cui gli stessi compositori non ritenevano di dover sciupare le proprie idee nella realizzazione di balletti. Cfr. in proposito Jordan, The Role of the Ballet Composer, cit., p. 377.

3 È importante annotare, in proposito, la rilevanza che assunsero, fin dall’epoca rinascimentale, le suites di danze caratterizzate da ritmi identificativi delle culture nazionali. Esse trovavano il proprio corrispettivo già nelle suite stru-mentali (basti pensare a Bach, Händel e altri), nelle quali trasmigrarono, differenziandosi ritmicamente e assumendo di volta in volta le denominazioni dei Paesi di origine. Dalla musica strumentale si riversarono, poi, nuovamente nella danza, con le medesime finalità di caratterizzazione nazionale (sarabanda, minuetto, mazurka, polonaise, ecc.), costituendo una sezione irrinunciabile nei balletti di Marius Petipa, dal 1870 Maître de ballet dei teatri imperiali di San Pietroburgo. 4 Cfr. in proposito Smith, Ballet and Opera, cit., p. 6.

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camente detto a proposito della presenza di un libretto specifico per entrambi i generi, con la differenza che, nel balletto, il testo di riferimento per la trama veniva redatto in prosa e generalmente senza un discorso diretto, fatta eccezione per alcuni momenti fondamentali, mentre nell’opera lo spettatore ha a tutt’oggi la possibilità di seguire parola per parola i versi intonati o declamati dai cantanti, comprendendo con maggiore facilità le sfumature neces-sarie, che potevano andar perse a causa della deformazione dovuta al canto.

Dato questo particolare, potrebbe sembrare che il balletto sia meno legato al testo di origine, rispetto a quanto non lo sia la rappresentazione di un dramma in musica. In realtà, proprio il ballet-pantomime degli anni 1830-1840 si configurava (e si configura ancora oggi) come un genere teatrale dipendente dalla parola scritta molto più di quanto si immagini, benché ciò appaia lontano dalla comune visione del balletto nella letteratura critica − an-che d’epoca − di ‘arte ineffabile’, così apostrofata dallo stesso Gautier : « l’unico ed eterno tema della danza è la danza stessa ».

1 Le tre tipologie di linguaggio ‘di parola’ che accom-pagnano il balletto, ossia i segni apposti sulla scena, il libretto e i ‘recitativi strumentali’ rendono possibile l’esplicazione di un concetto o di un carattere attraverso una comuni-cazione silenziosa.

2 In questo modo gli strumenti dipingono la fisionomia del discorso di un particolare personaggio : un oboe, ad es., può indicare una scenografia pastorale (La Tentation, 1832).

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Altro artificio carico di potenzialità espressiva, a disposizione del compositore era l’air par-lant, ovvero un estratto di parole accompagnate dalla musica, spesso una sola frase o anche qualcosa in meno, mutuata da un’opera o da un motivo popolare. Questa pratica, in voga sulle scene parigine già poco dopo l’avvento del ballet d’action, rimase di largo impiego nelle partiture per la danza fino al 1840, al fine di innescare determinati riferimenti nella mente dello spettatore, per esplicitare meglio un qualcosa di difficile comprensione.

4 In concomitanza con le ‘arie parlanti’ è riscontrabile nelle partiture di balletto la presenza

di un sorprendente numero di soli virtuosistici scritti per i componenti dell’orchestra ; questo di certo implicava una deviazione dell’attenzione da quello che accadeva in scena. L’ultimo pas di Giselle, ad es., è sostenuto da un solo della viola.

1 Cfr. ivi, p. 96, nota 1. 2 I ‘recitativi strumentali’, in particolare, erano un artificio già in uso nelle partiture del ballet d’action del xviii

secolo e continuarono ad accompagnare le conversazioni dei personaggi fino alla terza-quarta decade del secolo successivo. David Charlton ha sottolineato quanto il recitativo abbia trovato la propria strada negli altri tipi di musica strumentale del tardo xviii e inizio xix secolo, compresa la musica da concerto, nella quale il suo potenziale espressivo può essere veramente forte (cfr. D. Charlton, Instrumental Recitative : A Study in − Morphology and Context, 1700 - 1808, Comparative Criticism – A Yearbook, 4, London, Cambridge University Press, 1982, citato in Smith, Ballet and Opera, cit., p. 101).

3 Ballet-opéra rappresentato alla Académie royale de Musique di Parigi il 20 giugno del 1832, su musica di Halévy per la parte operistica e per quella ballettistica dello stesso Halévy e di Casimir Gide. Cantanti e danzatori ricoprivano i ruoli principali (così come era avvenuto nel terzo atto di Robert le diable, in cui i ruoli principali erano ricoperti, nel primo allestimento, dal tenore Adolphe Nourrit e dalla danzatrice Maria Taglioni). Cfr. ivi, p. 124.

4 Non pochi sono gli esempi di air parlant nei balletti dell’epoca, in cui esse, pur non garantendo una coerenza unitaria alla partitura, certo aiutavano il dispiegamento dell’azione. Nel primo atto de La Fille mal gardee, Hérold (1828), per l’entrata di Lise in punta di piedi, riprende il coro del rossiniano Barbiere di Siviglia « Piano, pianissimo » ; Alexandre Monfort prende in prestito la musica del secondo atto del Moïse di Rossini per le preghiere del popolo nella scena dell’eclissi in Chatte métamorphosé en femme (1832), mentre Wenzel Robert Graf von Gallenberg (Vienna, 1783-1839) addirittura l’apertura del Tuba mirum del Requiem di Mozart per una scena di Breézilia (1835), in cui il prota-gonista scopre un gruppo di giovani fanciulle nella foresta, ognuna sulla sua amaca. Ancora, J. M Schneitzhoeffer cita le variazioni di Paganini Le Streghe per la scena delle streghe nella Sylphide (1832), così come, nello stesso balletto, per l’ultima scena, in cui la Silfide è sul punto di morire fra le braccia di James, fa intonare all’orchestra « Che farò senza Euridice » dall’Orfeo ed Euridice di Gluck. Nel balletto La Somnambule (1827) di Hérold-Aumer, all’orchestra è affidata la frase di apertura dal « Che sarà ? » dalla Cenerentola di Rossini, nel momento in cui la sonnambula Teresa entra nella camera del signore (cfr. Smith, Ballet and Opera, cit., pp. 102 sgg. – in queste pagine la studiosa offre al lettore una utile tavola sinottica relativa ai prestiti dell’opera al balletto, con particolare riferimento alle partiture comprese tra il 1777 e il 1845 – e Jordan, The Role, cit., pp. 378 sgg.

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Dalla metà degli anni ’40 del xix secolo, tuttavia, la critica iniziava ad esprimere non po-che riserve sul ricorso ai prestiti, non solo per la mancanza di originalità e la conseguente diminuzione del valore artistico di una partitura, ma anche per il fatto che la comprensione immediata delle ‘arie parlanti’ non era poi così scontata da parte del grande pubblico. La conoscenza dei motivi d’opera da parte degli spettatori doveva ridursi a un numero ristretto di frequentatori, per cui la finalità primaria di questo espediente risultava minata in parten-za. Di conseguenza, si rendeva spesso necessario compensare l’air parlant con il motto theme, ovvero un tema esplicativo del profilo di un personaggio o del significato stesso dell’opera, in maniera tale che la mente del pubblico venisse automaticamente rimandata a persone situazioni o emozioni specifiche portate in scena in un determinato momento.

Così, nel balletto di Adam, il nome di Giselle è associato a un motivo che torna ciclica-mente nelle situazioni che ne rammentano la presenza. Il motto theme raggiunge un supe-riore livello di concisione drammatica, rispetto all’air parlant, in quanto quest’ultima funge, all’interno del balletto, esclusivamente da elemento di congiunzione.

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Con Giselle anche la letteratura per balletto entra a pieno nel fantastico mondo dell’este-tica romantica, con tutti gli ingredienti già noti a poeti, pittori e musicisti fin dalla fine del Settecento. Oltre ad essere un vero capolavoro coreografico di metà secolo, esso si configura come la prima grande partitura destinata alla danza, in un’epoca che, in campo musicale, aveva dato al balletto molto più in termini quantitativi che qualitativi. Giselle rappresenta il punto di arrivo più completo del genere romantico, nell’ambito dell’arte coreutica : esso non solo ha avuto grandissima fortuna, ma esprime compiutamente le caratteristiche peculiari della letteratura e della danza francese del tempo, divenendo uno dei testimoni più longevi delle inquietudini di un’epoca. La sua importanza fu percepita già dai contemporanei ; nel tempo è stato continuamente ripreso, riveduto, vivificato, assurto a epifania di un genere. Si tratta infatti di un’opera che, pur non essendo un ‘manifesto’, riassume e perfeziona, con il proprio linguaggio coreografico e attraverso la propria architettura, le problematiche del ballet blanc.

Il successo di Giselle è il risultato di un libretto felicemente costruito per uno spettacolo in cui le riuscite invenzioni relative alle scene e ai costumi colpiscono al pari delle felici scelte coreografiche. Sul versante della semiotica, è possibile verificare come l’ambientazione e la solida costruzione del primo atto contribuiscano a determinare la riuscita del balletto, che naturalmente sfocia, nel secondo atto, nel notturno lunare il cui splendore rifulge nel bianco dei tutù. Quel blanc troublant già intuito e proposto da La Sylphide,

2 ma qui, come scrive Elena Cervellati, « quasi convertito in norma, di fronte al quale il racconto e le letture interpretative sembravano slittare in secondo piano ».

3

L’idea da cui il balletto nacque fu, com’è ben noto, frutto dell’intuizione di Théophile Gautier

4 dalla leggenda slava delle Villi, dopo la lettura del libro De l’Allemagne dell’amico

1 Per Ivor Guest il primo esempio di motto theme è da ricercare nella Manon Lescaut di Halévy (1830). Cfr. Guest, The Romantic Ballet in Paris, p. 97, citato in Jordan, op. cit., p. 383, nota 31.

2 Balletto in due atti rappresentato per la prima volta il 10 marzo 1832, con coreografia di Filippo Taglioni, musica di Jean Madeleine Marie Schneitzhoeffer, scenografie di Pierre Ciceri e costumi di Eugéne Lamy, che seppe stupire con l’innovazione del suo bianco tutu, mentre il libretto diede il via a una serie di balletti ispirati allo stesso modello (cfr. in merito E. Aschengreen, La Sylphide : un balletto dedicato a un sognatore e alle sue aspirazioni, programma di sala del Teatro alla Scala, stagione 2005-2006, pp. 23 sgg.).

3 E. Cervellati, Da Giselle (Parigi, 1841) a Gisella (Bologna, 1843). Traduzione e ricezione di un capolavoro in una città italiana dell’Ottocento, in L’Italia e la danza. Storie e rappresentazioni, stili e tecniche tra teatro, tradizioni popolari e società, in Atti del convegno L’Italia e la danza. Storie e rappresentazioni, stili e tecniche tra teatro, tradizioni popolari e società (Roma, 13-15 ottobre 2006), Roma, Aracne, 2008, pp. 161-162.

4 Il rapporto di Gautier con la danza si può brevemente riassumere nel ‘culto della ballerina’ che egli incoraggiò a sostegno del proprio temperamento estetico, che vedeva nella danza la rivelazione e l’esaltazione della bellezza femminile. Uno dei concetti base della nuova estetica era divenuto quello della donna-silfide, ossia dell’immaterialità femminile, l’ewigweibliches goethiano o eterno femminino, che dominava la letteratura romantica. Di qui l’importanza

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Heinrich Heine, quando esso appar-ve pubblicato in lingua francese nelle pagine del giornale parigino « Europe Littéraire ».

1 Il poeta fu colpito dalla suggestiva ambientazione che fungeva da cornice alla presenza, sulle monta-gne dello Hartz, in Austria, di spiriti di giovani donne morte prima del matri-monio, incapaci di trovare riposo nei sepolcri. Inizialmente ispirato da una poesia tratta da Les Orientales di Victor Hugo, Fantômes, nella quale è ricordata una fanciulla spagnola uccisa dal freddo dell’alba, all’uscita da un ballo, Gau-tier avrebbe voluto trasporre il poema di Hugo in una versione mimata, con un primo atto ambientato in un salone pronto a ricevere gli ospiti di un grande ballo. Qui le Villi, attirate dall’idea del-la danza, avrebbero compiuto una bre-ve apparizione, mentre la loro regina, toccando il pavimento, avrebbe fatto in modo che chiunque vi avesse messo pie-de sarebbe stato preso da un desiderio irrefrenabile di ballare. Giselle, a causa dell’incantesimo e per distogliere l’inna-morato dalle altre dame, accaldata dalla

danza come la fanciulla di Hugo, sarebbe morta al ritorno dal ballo per un’infreddatura. Tut-tavia la mancanza di azione era saltata immediatamente all’occhio di Gautier, il quale dové all’incontro fortunoso con l’amico Jules Henry Vernoy de Saint Georges la collaborazione che avrebbe permesso la nascita del primo atto del balletto, come noi lo conosciamo.

2

Il libretto si presenta al lettore in forma narrativa, con qualche battuta dialogica collocata nei punti chiave.

3 Nella versione originale, Giselle compiva il primo ingresso in scena già pre-saga di quanto sarebbe avvenuto, per via di un sogno premonitore in cui le si annunciavano sia l’esistenza di una rivale, sia le nobili origini del finto contadino Loys/Albrecht.

Sulla morte della fanciulla, in particolare, gli stessi librettisti offrivano due versioni diver-genti della storia : nella prima Giselle si suicidava con la spada del suo amato, mentre nella seconda il suo cuore non reggeva al tradimento e la fanciulla moriva di disperazione. Vernoy de Saint-Georges, preferendo evitare il suicidio per motivi sia estetici sia morali, faceva af-ferrare la spada appena in tempo da Berthe, la madre della fanciulla. Gautier, invece, vedeva

acquisita dalla danzatrice, più della danza stessa, assurta a simbolo sovrannaturale, idealizzazione pura che nel mondo del balletto trovava il suo terreno più fertile, poiché considerato dai romantici come il mezzo più adatto allo sviluppo dei loro temi favoriti (cfr. Cipriani, op. cit., pp. 12, 29 sgg., 38-41, 199 sgg.).

1 La storia di Giselle ricorda una poesia di J. Keats, La Belle Dame Sans Merci, la cui principale ispirazione erano le leggende soprannaturali del Medioevo (cfr. ivi, p. 63, nota 2).

2 Gautier collaborò all’ideazione del primo atto, ma la riduzione a sceneggiatura di balletto fu interamente a cura di Saint Georges, che intervenne pesantemente nella composizione del libretto, specialmente da un punto di vista tecnico, avendo egli già lavorato anche per due balletti di successo di J. Mazillier, La Gipsy (1839) e Le diable amoureux (1840). Cfr. ivi, pp. 64-65.

3 Th. Gautier, Giselle, Théâtre de l’Opera de Paris, Michel Frères Libraires, le 28 juin 1841.

Fig. 1. Yvette Chauviré in un ritratto.

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nella morte di Giselle il suicidio di un’innocente e il crimine maschile, come aveva spiegato nella Lettera ad Heine,

1 pubblicata pochi giorni dopo la prima rappresentazione del balletto. 2

Sul secondo atto l’autore si era soffermato con particolare attenzione, definendolo la « tradu-zione, la più esatta possibile », dello scritto di Heine e descrivendolo meticolosamente e con fervido entusiasmo in tutti i personaggi e in tutte le scene, con precisi riferimenti alla danza e agli interpreti principali, al valore della partitura musicale e della scenografia.

La dimensione narrativo-drammatico-tecnica del testo gautieriano, pensato per la sua immediata trasposizione scenica, si esplica nella commistione di descrizioni, dialoghi e indi-cazioni pratiche. Il primo atto è tradizionalmente collocato in un contesto medievale, dal sa-pore fiabesco, in consonanza con le preferenze storiche del Romanticismo. L’ambientazione scenica agreste e ‘villereccia’, fin dalla fine del Settecento, era divenuta tradizionale, grazie alla Fille mal gardée di Dauberval.

3 La natura, non più necessario oggetto di mimesi, trova nuovo e più ampio spazio in una collocazione ideale differente ; non cornice alle vicende di dèi ed eroi, tanto care al mondo arcadico e al più polveroso classicismo settecentesco, bensì vivo sfondo (idilliaco e non) alle umane vicende e passioni, conglobante nelle sue forze vio-lente i turbamenti dell’animo umano.

Le novità già introdotte con La Sylphide di Filippo Taglioni costituivano l’approdo degli sviluppi nel campo della scenografia, delle luci e della mise en scène, che si erano verificati nel teatro francese agli inizi del xix secolo. Il gusto per l’orrore e il realismo esotico, che popola-vano le periferie dei teatri di boulevadrs, avevano anticipato il movimento romantico ancora prima della sua definitiva affermazione.

4 L’interno della casa scozzese di James, con la cer-chia di amici in abito tradizionale, il volo della Silfide attraverso il camino e la sua visibilità al solo protagonista avevano già offerto un riuscitissimo intreccio di elemento soprannaturale e ‘caratteristico’. Per la prima volta il pubblico, inoltre, aveva assistito a una conclusione tragica in un balletto.

5

Veicolo esclusivo dell’ascesa verso il mondo degli spettri è nuovamente la donna. Ere-dità del riscoperto Medioevo, oltre al folklore e alla ricerca della più genuina identità di ciascun popolo, le protagoniste femminili invadono la letteratura e ispirano le arti.

6 Con l’affermazione del romanzo gotico e l’invasione di elementi ‘oscuri’, il ramo che non devia verso l’orrido del romanzo nero vede congiunti elementi del Romanticismo più sentimentale − ossia la storia d’amore (a lieto fine o meno) − e il paranormale, l’amo-re perduto e i conflitti interiori. Il confluire di questi stati d’animo lacerati dalla passio-ne e dal dubbio, in un contesto spesso arretrato storicamente e, specie nei momenti di maggiore tensione drammatica, ambientato in un paesaggio notturno in cui l’oscurità permettesse la rivelazione dei sentimenti più profondi, rendeva leggende miti e saghe nordiche gli scenari prediletti in Francia per balletto, analogamente a quanto accadeva per

1 « La Presse », 5 juillet 1841, trad. di I. Guest, in Gautier on Dance, cit., pp. 97-98, citato in Cipriani, op. cit., pp. 55-62. 2 Sulla questione della morte di Giselle si veda M. Smith, Who killed Giselle ?, « Dance Chronicle », xiii, 1, 1990, pp.

68-81.3 Si tratta del balletto più antico ancora oggi in repertorio presso le principali compagnie. Ballet-pantomime in due

atti e tre quadri, esso andò in scena il 1° luglio del 1789 al Grand Theâtre di Bordeaux col titolo Ballet de la paille, ou Il n’y a qu’un pas du mal au bien, libretto e coreografia di Jean Dauberval, su una mistione di canzoni e arie popolari arran-giate da un ignoto compositore. Fu ripreso con il titolo La Fille mal gardée il 30 aprile del 1791, al Pantheon Theater di Londra. Il 17 novembre del 1828 il balletto debuttò all’Opèra di Parigi, utilizzando invece la partitura musicale di Luis Joseph Ferdinand Hérold, per la revisione di Jean Pierre Aumer (allievo di Dauberval). Nel 1864 Peter Ludwig Hertel ne riscrisse la musica per una nuova versione coreografata da Filippo Taglioni, andata in scena il 7 novembre all’Opera di Stato di Berlino. Si veda in merito M. Palleschi, http ://www.balletto.net/giornale.php ?articolo=78.

4 E. Aschengreen, La Sylphide : un balletto dedicato a un sognatore e alle sue aspirazioni, programma di sala del Teatro alla Scala, stagione 2005-2006, pp. 23 sgg. 5 Cfr. Cipriani, op. cit., pp. 20-21.

6 Il cliché della fragile fanciulla nelle vesti di protagonista aveva guadagnato il primo piano già in Pamela, o la virtù premiata di S. Richardson, romanzo in due volumi che vide la luce tra la fine del 1739 e l’inizio del 1740 e riscosse immediatamente un grande successo, inaugurando una fiorente stagione di eroine.

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l’opera in Germania. E questo non è un particolare sconosciuto. Se i romanzi di Walter Scott hanno il merito di aver schiuso le porte all’interesse per il nuovo mondo delle lan-de scozzesi, dei castelli, degli spettri e delle leggende, nel panorama letterario e teatrale europeo tutta la letteratura dei libretti d’opera e di balletto non poteva certo prescindere da questi elementi storico-favolistici. Sia consentito, a chi scrive, l’accostamento − quasi un ossimoro − di questi due aggettivi, ambedue fondamentali nella stesura dei libretti del tempo. Per il nostro Paese ne è un fulgido esempio l’impiego del romanzo storico La sposa di Lammermoor del 1819, ambientato nella Scozia della regina Anna (1702-1714) e basato su vicende realmente accadute, in cui è narrata la storia d’amore tra Lucy Ashton e Edgar Ravenswood, nemico della sua famiglia. Esso diviene, con opportune modifiche, opera lirica su libretto di Salvatore Cammarano e musica di Gaetano Donizetti, rappresentata al Teatro San Carlo di Napoli nel 1835. Ivi non manca l’elemento soprannaturale, tuttavia opportunamente stemperato secondo il gusto italiano, da parte del librettista dell’opera, che ridusse la presenza dello spettro alla sola menzione.

Amore contrastato, psicologia femminile indecisa e mutevole, disuguaglianze sociali, sen-timenti repressi, morte e riconciliazione nell’aldilà sono temi che conferiscono forza e sug-gestione infallibili. Eros e Thanatos, fin dai tempi del mito, sono legati in un binomio inscin-dibile e quasi necessario nella messa in scena delle passioni più forti e indissolubili, soggette ai mutevoli capricci del fato.

Il quadro d’Oltralpe, tuttavia, delineava al meglio questa tipologia di gusto. L’Italia, per tradizione, mal si prestava all’acquisizione dell’elemento fantastico, nell’opera come nel bal-letto. Se la Francia della danza aveva scoperto il mondo lunare con La Sylphide di Taglioni, nel Grand opéra di Meyerbeer Robert le Diable (1831) il balletto delle monache morte, pallidi fantasmi erranti al chiaro di luna nel chiostro in rovina e vestite delle loro bianche tuniche, fu accolto con frenetici applausi. Interprete del ruolo principale fu lo scrittore e cantante Adol-phe Nourrit, affiancato dalla grande Maria Taglioni nelle vesti della fantomatica Monaca. Lo stesso Nourrit rimase profondamente affascinato dal nuovo e straordinario modo di danzare della Taglioni. Il suo stile immateriale, già abbozzato da Geneviève Gosselin,

1 sdegnava sia la voluttuosa sensualità sia il virtuosismo acrobatico, a vantaggio di una tipologia di movimen-to dall’eleganza slanciata e pudica, unite a una casta modestia che risultava gradita alle madri di famiglia e fungeva da modello per le figlie.

2 Ben undici anni prima dei suddetti trionfi francesi, la Germania si era già definita come area geografica di pertinenza assoluta per l’ele-mento fantastico nell’opera. Nazione-guida nell’ambito dell’elemento fantastico sulle scene, il terreno dell’opera tedesca si rivelava ugualmente fertile per l’innesto di elementi di colore locale su quello del balletto francese, che dominò il secolo, per poi confluire e trasferire de-finitivamente la propria gloria, attraverso il marsigliese Marius Petipa, nella Russia degli zar, alla quale passerà lo scettro di nazione regina del balletto classico.

Prototipo dell’opera romantica, Der Freischütz (Il franco cacciatore) di Carl Maria von We-ber, rappresentato a Berlino nel 1821, fu definita « opera romantica » fin dal frontespizio. Il libretto, redatto da Johann Friedrich Kind, aveva desunto la trama da un’antica leggenda tedesca tramandata fin dagli inizi del Settecento. Di ascendenza precipuamente comique il ri-corso al ‘colore locale’, realizzato attraverso la ripresa di modelli folklorici montani, oltre alla eclettica varietà nell’impiego dei mezzi espressivi, come emerge dall’accostamento dei due personaggi femminili principali che contrastano e si compensano al contempo : Ännchen, che agisce « come una soubrette da opera comica del Settecento », accanto ad Agathe, prima

1 Geneviève Gosselin (1791-1818) fu la prima danzatrice dell’Opéra che, nella sua breve carriera, era stata in grado di restare in perfetto equilibrio sulle punte (cfr. M. F. Cristout, Nascita e rinascita di un capolavoro leggendario, La Sylphide di Taglioni rivisitata da Lacotte, programma di sala del Teatro alla Scala, stagione 2005-2006, La Sylphide, p. 19, nota 4).

2 Ivi, pp. 5 sgg.

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donna da opera seria italiana. 1 Weber

seppe unificare questi elementi confe-rendo all’insieme un colore davvero te-desco e romantico : canti e danze squisi-tamente popolari (cori dei cacciatori e delle fanciulle, valzer tedesco nel primo atto),

2 nonché la vivida e terrificante presenza della natura, l’ambientazio-ne spesso notturna, le oscure presenze soprannaturali dal cui fascino malefico occorre redimersi. Il sottotitolo romanti-sche Oper apposto al Freischütz condensa contenuti e significati emblematici di un capolavoro profondamente innovativo nel panorama operistico e musicale eu-ropeo, con la notevole assunzione di un soggetto mutuato da una leggenda po-polare,

3 benché fosse soprattutto, come scrive Gianni Ruffin, « l’elemento mu-sicale, unitamente alla sua pregnanza drammaturgica, a dare a molti la sensa-zione che il cosiddetto e annoso proble-ma dell’opera tedesca avesse finalmente trovato una soluzione ».

4

Contrariamente alla Sylphide e, in parte, in consonanza con l’esito di Gi-selle, oltre ai significati reconditi e al simbolismo delle ambientazioni, nel Freischütz la forza dell’amore è una po-tenza che tutto può, anche sulle forze demoniache, laddove l’esito tragico del balletto di Taglioni appariva un riflesso del più cupo pessimismo esistenziale. In effetti la figura di Agathe doveva servire a Max per sconfiggere il male (presente sotto forma di inquietudini e di presenze), per cui la consonanza con La Sylphide cessa, laddove può iniziare quello con Giselle.

Balletto francese dalle ascendenze germaniche, esso esprime attraverso la partitura mu-

1 Cfr. G. Ruffin, Der Freischütz in breve, programma di sala del Teatro La Fenice di Venezia, stagione 2004-2005, Der Freischütz, p. 82.

2 Un inevitabile confronto va fatto con il valzer che connota drammaturgicamente il personaggio di Giselle nel i atto del balletto.

3 Weber era venuto a conoscenza della leggenda già nel 1810, grazie alla lettura del Gespenterbuch di J. A. Apel, F. Laun (cfr. in merito Ruffin, op. cit., p. 81). Sul compositore, si vedano inoltre : L. Siegel, Wagner and the Romanticism of E. T. A. Hoffmann, « The Musical Quarterly », 4, October 1965, pp. 597-613 ; T. Wiesegrund Adorno, Il mondo figurato del ‘Freischütz’, « Lo Spettatore musicale », dicembre 1970, p. 13 ; H. F. Valentin, E. T. A. Hoffmann und Carl Maria von Weber oder : Von Mozart zu Wagner, « Acta Mozartiana », xxiii, 1976, pp. 25-30 ; N. Miller, Für und wider die Wolfsschlucht. E. T. A. Hoffmann, Die Freischütz Premiere und das romantische Singspiel, in Festschrift Rudolf Elvers zum 60. Geburtstag, Tutzing, Schneider, 1985 ; M. C. Tusa, Euryanthe and Carl Maria von Weber dramaturgy of German opera, Oxford, Cla-rendon Press, 1991 ; J. Reiber, Friedrich Kind : Versuch einer Wurdigung, « Weber-Studien », 1, 1993, pp. 224-236 ; M. F. Do-erner, German Romantic Opera ? A Critical Rappraisal of Undine and Der Freischütz, « Opera Quarterly », 10, 2, Winter 1993-1994, pp. 10-26 ; P. Mercer-Taylor, Unification and tonal absolution in Der Freischütz, « Music & Letters », 78, 2, May 1997, pp. 220-232 : in part. 232 ; L. Finscher, Weber’s Freischütz : Conceptions and Misconceptions, in Idem, Geschichte und Geschichten. Ausgewählte Aufsätze zur Musikhistorie, Mainz am Rhein, Schott Musik International, 2003 ; E. Fava, Ondine, vampiri e cavalieri. L’opera romantica tedesca, Torino, EdT, 2006, pp. 101-136. 4 Ruffin, op. cit., p. 81.

Fig. 2. Maria Taglioni.

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sicale una drammaturgia efficacissima. Prodigioso si rivelò ai contemporanei l’equilibrio tra virtuosismo e assunto drammaturgico, rispondente al gusto dell’epoca, così come lo era l’astratta purezza della danza, nella lirica perfor-mance del corpo di ballo femminile del primo atto. Fedele ai canoni del roman-ticismo, il secondo atto del balletto pal-pita dell’aspirazione allo spirituale, al soprannaturale, al magico.

Il compositore parigino Adolphe Charles Adam, forte di precedenti e -sperienze nel campo del balletto e dell’opera, compose la musica in due o tre mesi, stando alle date riportate sul manoscritto e non due o tre settimane, come erroneamente si riteneva, in base ad una risposta del compositore, eviden-temente provocatoria, a proposito delle critiche mosse alla sua celerità creativa.

1 La prima cosa che colpisce, all’ascolto, è la relativa semplicità del linguaggio. Adam aveva scritto Giselle tenendo bene a mente il soggetto articolato intorno a

una ragazza semplice, ingannata da un duca innamorato ed egoista. La sincerità e l’innocen-za, nonché la fragilità fisica, dovevano essere trasposte in musica e divenire immediatamen-te percepibili al grande pubblico. La partitura di Adam ‘parla’ di Giselle rispecchiandone perfettamente il carattere : leggero, trasparente, aggraziato, di una ingenuità, non casuale, che riflette quella della protagonista. Finanche nella descrizione sonora delle Villi, le anime morte cui è dato di vivere solo nel mistero della notte e di svanire nel regno delle ombre ai primi raggi di luce, il compositore seppe mostrarsi « Maestro di leggerezze e trasparenze timbriche, piuttosto che evocatore di sulfuree atmosfere stregonesche ».

2 E sono queste « leg-gerezze e trasparenze » che permettono alla coreografia di interpretare la parola o la poesia con spontaneità e naturalezza, senza incappare in quelle forzature che avrebbero potuto incupire oltre misura lo scenario.

Alcuni degli aspetti più interessanti della musica di Giselle sono la velocità e l’efficacia nar-rativa, nonché la coerenza e l’abilità con cui Adam ha ripreso alcuni temi fondamentali del balletto, calandoli in un nuovo contesto drammatico.

La breve ma efficace ouverture che apre il balletto denota un inizio in medias res, rispetto alla tragedia che si annuncia già nelle prime battute. L’allegro con fuoco e l’organico utilizzato proiettano immediatamente l’uditore nel vorticoso circolo delle Villi, sottolineato con cre-scente ostilità dagli archi e confermato dagli ottoni, che annunciano con timbri inquietanti il mondo dell’aldilà, in cui sprofonderanno i protagonisti.

3 È l’incalzare delle infernali creature

1 Cfr. Smith, Ballet and opera, cit., p. 173, note 15 e 16, con relativi riferimenti bibliografici.2 F. Sartorelli, A proposito di Giselle, Note a margine della musica di Adam, in www.fabiosartorelli.net/materiale%20

didattico/.../Note%20su%20Giselle.pdf, p. 2.3 Mi sembra doveroso un brevissimo richiamo al Preludio del Lago dei cigni, altra pietra miliare del balletto classico

ottocentesco, su libretto di Vladimir Petrovic Begicev, direttore dei teatri imperiali di Mosca, basato su un’antica fiaba tedesca, Der geraubte Schleier (Il velo rubato), e sul racconto di Johann Karl August Musäus. Primo dei tre balletti di

Fig. 3. Adolphe-Charles Adam.

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che subito scuote l’orecchio dell’uditore e lo conduce, suo malgrado, nell’atmosfera del se-condo atto, vera ‘novità’ del balletto. Presto, però, le fosche tinte

1 si stemperano nel placido andante che dipinge la scena idilliaca del mattino campestre, nel quale il risveglio della natura solleva il sipario sulla vicenda che sta per essere portata in scena (alternanza delle tonalità in sol minore/la-utilizzo delle tonalità ‘agresti’ di sol e fa maggiore). Con l’entrata di Hilarion, il geloso pretendente della fanciulla, la musica diviene nuovamente drammatica, s’incupisce. L’irruenza e la gelosia che lo caratterizzano sono chiaramente percepibili nel mutamento di tonalità (da maggiore a minore) che lo connota, ne descrive i sentimenti e preannuncia allo spettatore la negatività che accompagnerà il suo agire, in tutto l’arco del primo atto.

Come nota Fabio Sartorelli, l’inizio del balletto, con l’avvento in scena del duca Albrecht travestito da Loys e affiancato dal suo fedele scudiero, appare già particolarmente signifi-cativo sia sotto il profilo della velocità, sia dell’efficacia narrativa. Nelle prime venti battute (della durata di pochi secondi) è rivelato già molto del personaggio : le quattro in fortissimo dichiarano in maniera sonora che in scena non c’è un contadino ma un duca. Nelle suc-cessive quattro la musica è invece sospettosa, quasi sinistra, nel momento in cui l’uomo si premura di non essere visto mentre ripone via il corno e la spada. Alle battute 9 e 10, laddove Adam annota « poco più lento e piano », sembrerebbe aprirsi uno spiraglio di sentimento autentico nel personaggio, in un tenero pensiero rivolto alla fanciulla, prima di ordinale allo scudiero Wilfrid di nascondere i segni della sua reale identità nella capanna lì vicino (batt. 11 sgg.). Sebbene velocità ed efficacia narrativa non siano percepibili con la stessa intensità in tutto il corpus del balletto, questi momenti possiedono una notevole forza drammaturgica. Poco prima dell’ingresso di Giselle, il finto Loys bussa alla porta della fanciulla nasconden-dosi subito dopo. Con molta semplicità la musica illustra queste azioni, alle quali aggiunge un tocco di suspense prima che Giselle faccia la sua prima comparsa in scena. Essa segue il procedere dell’azione, assumendo un funzione dinamica e realistica.

2 Un realismo tanto più necessario, se si pensa a quanto immateriale sarà il secondo atto, sì da generare un contrasto, tutto romantico, fra realtà e sogno, amore e morte, felicità e dolore.

Lo status di contadina della fanciulla non è mai perso di vista dal compositore : l’allegro ma non troppo che segna il suo ingresso in scena, in 6/8, rapido e leggero, è un perfetto ritratto sonoro della sua tenera ingenuità. Qui il compositore avrebbe potuto optare per un ‘pezzo chiuso’, un numero riservato alla protagonista, che sarebbe terminato in maniera netta, sì da concedere spazio agli applausi normalmente riservati all’ingresso della prima donna. Il pezzo invece non termina, bensì confluisce dapprima nel commovente incontro con Loys e, di lì a poco, nella ingannevole dichiarazione d’amore. Ingresso emozione e dichiarazione co-stituiscono un momento unitario, come unica è la scena del libretto, così che la drammatur-gia della narrazione non venga interrotta, conservando la sua forza emotiva, e la narrazione proceda senza interruzioni. Si tratta di un particolare degno di rilievo, benché la semplicità dia quasi per scontato l’esito : condurre opportunamente il pubblico sull’azione, quindi sui protagonisti, e non sugli interpreti, come spesso accadeva e accade ancora. Il commovente moto di sentimenti che ne deriva, alla fine del secondo atto, inizia in questo momento e con questi espedienti finalizzati a evitare qualsivoglia distrazione, come se si trattasse della let-tura di un testo scritto, in cui la concentrazione del fruitore è tutta rivolta al dipanarsi della vicenda.

Čajkovskij, fu composto tra il 1875 e il 1876. In questa introduzione musicale al primo atto, le tinte lugubri si evincono immediatamente nella tonalità di morte (si minore) che in Čajkovskij segnerà le parti salienti del dramma ballettisti-co, presentandosi finanche nei momenti gioiosi (cfr. il Passo a due finale de Lo Schiaccianoci), quale spettro perenne del dolore che affligge l’anima dall’artista, anche nei momenti d’amore.

1 Non vi è definizione migliore di quella verdiana di « tinta », per descrivere questa introduzione, e non solo, attra-verso il clima dato dagli elementi timbrici, ritmici, armonici. 2 Cfr. Sartorelli, op. cit., pp. 1-4.

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La dichiarazione di Albrecht richiama un vero e proprio duetto di natura operistica. Una semifrase acuta, affidata a un violino solo, e un’altra più bassa, affidata invece a un clarinetto, che rappresentano rispettivamente il farsi avanti di lui e il timido ritrarsi di lei. La musica di Adam è l’affresco di un amore innocente, da parte di Giselle, fatto di dolci sguardi e di una tenerezza quasi infantile. Gli strumenti musicali impegnati nella descrizione dell’azione diventano vera e propria ‘voce’ dei personaggi ; la parola non appare conditio sine qua non, per l’esplicazione di un affetto che la sola musica, accompagnata dal gesto, è perfettamente in grado di figurare.

Poco oltre, dopo l’ingresso in scena dei vendemmiatori, sottolineato dalla presenza di un vero e proprio contrassegno di musica contadina, la quinta vuota della zampogna, Giselle si libra sulle note di un valzer semplice, leggero e trasparente che esalta la caratterizzazione del personaggio. Coerentemente con questo disegno, i due protagonisti danzano in un pas de deux in cui il carattere della musica evidenzia il mondo villereccio della ragazza : anche qui le quinte vuote e la coreografia traducono in gesti la iniziale riluttanza al ballo da parte del duca, indotto dall’amata che gli insegna i passi dell’allegra danza paesana. Una volta sciolto ogni imbarazzo, Albrecht si esibisce in una variazione su ritmo binario, la cui musica contri-buisce a camuffare la sua identità, adattandosi alla situazione.

È importante sottolineare come il primo atto, fino al momento della fatale rivelazione, sia segnato da una serenità generale, con opportuni momenti di richiamo, in cui un attento osservatore intuisce l’imminente cambiamento di ‘colore’ : l’evocazione delle Villi, da parte della madre di Giselle, e l’entra in scena di Hilarion. Non a caso sono questi i pochi momenti in cui la tonalità, quasi sempre maggiore e solare, vira verso una più cupa tinta minore.

1 Il racconto di Berthe è una di quelle scene pantomimiche in cui la musica diviene ‘parlante’ ; l’atmosfera si oscura all’improvviso, il monito è terribile e l’evocazione delle demoniache creature infonde terrore in tutte le fanciulle, meno che in Giselle.

La scena pantomimica per antonomasia del balletto è quella della follia, altro topos del teatro musicale ottocentesco.

2 Cavallo di battaglia delle più prestigiose interpre-

1 Ibidem.2 Si veda in merito S. Hibberd, ‘Dormez donc, mes chers amours’ : Herlod’s La Somnambule (1827) and dream phe-

nomena on the Parisian lyric stage, « Cambridge Opera Journal », 16, 2, July 2004, pp. 107-132. Prendendo le mosse dalla fonte dell’opera di V. Bellini, La sonnambula (1831), il ballet-pantomime La Somnambule di F. Hérold, generalmente ricordato oggi in funzione dell’opera e che ispirò tutta una serie di popolari vaudevilles sul tema, la Hibberd illustra la forza e l’attrazione voyeuristica per i fenomeni di trance, negli anni finali della Restaurazione borbonica in Francia. La studiosa procede con un’analisi delle relazioni fra sonnambulismo, mesmerismo, follia e soprannaturale, introdu-cendo in primo luogo importanti sfumature sulla spesso generalizzata natura delle scene di trance nel teatro del xix secolo, opponendo un modello alternativo a quello dell’eroina fuori di senno dell’opera italiana. La Hibberd illustra le pratiche musicali specifiche della tarda Restaurazione a Parigi, che costituirono un momento cruciale nell’estetica e conseguentemente contribuirono al successo delle eroine sonnambule. Un panorama di allusioni visive e musicali concentrate attorno a queste figure che, relazionate con le folli protagoniste dell’opera italiana, denotano una specifi-ca personalità, con le relative implicazioni sociali. A partire da Nina, la protagonista dell’opera di Dalayrac Nina, ou la folle par amour (1786), sopravvissuta nel repertorio dell’Opéra nel balletto, basato sulla stessa trama, di Louis-Luc Loi-seau de Persuis (1813), numerose figure femminili sconvolte dalla follia dominano le scene dei teatri parigini. In questo frangente fanno la loro comparsa in teatro le due eroine folli per antonomasia del repertorio shakespeariano : Lady Macbeth, la cui scena di sonnambulismo costituiva il punto culminante della tragédie lyrique di H. Chelard, Macbeth, andata in scena all’Opéra, e Ofelia, interpretata da Harriet Smithson nelle recite dell’Hamlet all’Odéon (e l’esplosione del sonnambulismo sulle scene si deve − com’è noto − al Macbeth di W. Shakespeare, con il camminare dormendo di Lady Macbeth che apre il quinto atto della tragedia). Ma lo spettacolo che accolse maggior successo fu il summenzionato ballet-pantomime La Somnambule, ou l’arrivé d’un nouveau seigneur, su libretto di E. Scribe e coreografia di J. P. Aumer, mu-sica di Hérold, rappresentato per la prima volta il 19 settembre del 1827 all’Opéra, che infervorò il pubblico di un grande entusiasmo (cfr. Smith, Ballet and opera, cit., p. 109, nota 2). Per ben otto mesi le scene parigine furono costantemente popolate da donne in trance, folli e sonnambule, tutte presentate nella stessa mise, ovvero in bianca vestaglia, a piedi nudi, con i capelli sciolti e gli occhi sgranati. C’è da dire, comunque, che l’opera lirica aveva accolto il fenomeno già prima, in chiave comica o semiseria, per poi farlo sfociare in chiave drammatica. Nel 1797 Luigi Piccinni (1764-1827), figlio del celebre Niccolò, compose un’opera buffa dal titolo La Sonnambula. Nel 1800, in occasione del carnevale, il Teatro San Benedetto di Venezia presentò La Sonnambula, farsa giocosa su musica di Ferdinando Paer (1771-1839),

tipologia delle fonti ed esiti drammaturgici del balletto giselle 119

ti, 1 essa combina una serie di elementi

che la rendono il momento più commo-vente di tutto il balletto, imprimendosi nella mente dello spettatore con verità e crudeltà, come distruzione psicologica della donna.

Il contemporaneo utilizzo di motivi reminiscenza coreutici e musicali spinge lo spettatore a ripercorrere quanto già visto e udito, rendendolo partecipe del-la sofferenza come non si era mai veri-ficato prima, nel mondo del balletto. I temi ripresi sono diversi ed è possibile enumerarli singolarmente. Tra questi il motivo del violento smascheramento di Albrecht da parte di Hilarion e la dispe-razione di Giselle. Il primo ripropone il momento di scontro fra il guardacaccia e il duca, dopo la scena della dichiarazione d’amore fra i due giovani protagonisti ; l’irruenza della incursione del villano ge-loso e l’inizio di un duello, che fortunata-mente non si compirà. Segue l’accenno deformato al motivo d’amore − quello del primo incontro, s’intende −. Alla deformazione della musica fa riscontro quella della danza e della mimica. I gesti di Giselle ripercorrono i momenti più belli, che svaniscono presto, ponendo la fanciulla dinanzi alla sua tragedia. Colpisce il tema della dichiarazione d’amore ripresa alla lettera, così come era stata presentata la prima volta. In genere i compositori non riprendevano in maniera letterale i temi già esposti in precedenza, ma li modificavano finalizzando il cambiamento all’idea del ‘ricor-do’. Con grande sottigliezza psicologica, Adam non lo modifica, perché in quel momento Gi-selle non ricorda ma rivive ogni momento con la stessa intensità del passato.

2 Dopo una breve

libretto di Giuseppe Maria Foppa. Alla Scala di Milano nel 1805 Giulio Viganò mise in scena La finta sonnambula, ‘ballo comico’ rappresentato come intermezzo all’opera buffa Lao stravagante e il dissipatore, ancora una volta su libretto del Foppa e musica di Francesco Basily o Basili. Grande successo nel 1824, sempre sul palcoscenico scaligero, per il me-lodramma semiserio di Michele Carafa su libretto di F. Romani, Il Sonnambulo, mentre quattro anni dopo la messa in scena del balletto di Hérold-Aumer, veniva rappresentata al Teatro Carcano di Milano la prima della Sonnambula di V. Bellini, su libretto del Romani, il 6 marzo del 1831. Nel contesto storico parigino del 1820 la rappresentazione teatrale del sonnambulismo evocava tuttavia specifiche associazioni, come il confronto con i coevi lavori letterari e con gli esperimenti scientifici. Il balletto di Hérold e quanto da esso scaturito inglobavano alcune delle idee circolanti nel 1827 sul tema dell’immoralità, il mesmerismo e le ambigue relazioni fra inconscio e soprannaturale. Tutto questo aveva la possibilità di essere illustrato allo spettatore desideroso di partecipare a questo clima, attraverso il potere narrativo della musica dei teatri parigini, in cui erano d’uopo i riferimenti allusivi e i motivi familiari, oltre all’utilizzo di clichés musicali, come si è già detto a proposito del balletto dell’epoca (cfr. G. Guandalini, Sonnambulismo e rappresentazione, programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambule, p. 39).

1 Carla Fracci può a ben ragione essere considerata la più grande Giselle del nostro tempo. Definita la Taglioni del xx secolo per l’aereità dello stile, dotata di una non comune intensità drammatica, ha fatto della scena della follia la sua più grande interpretazione. Il tremore delle sue mani e le lacrime che in scena hanno rigato il suo volto hanno reso visibile, con la più grande verità, ogni intenzione della partitura di Adam.

2 Giselle non è, come la Silfide, uno spirito fin dall’inizio del balletto, ma donna in carne e ossa che si trasforma in Villi. È pertanto in grado di mantenere l’esperienza della vita reale, sublimatasi con la morte, e la sua danza non è solo mezzo espressivo di una pura apparizione lirica, bensì contenuto stesso dell’azione, mediazione tra due stadi dell’essere, il terreno e l’ultramondano (cfr. Cipriani, op. cit., pp. 104 sgg.).

Fig. 4. Margot Fontayne nella scena della follia.

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parentesi in cui la trama sonora sembra sfaldarsi, ricompare il motivo, sem-pre deformato in un’atmosfera, questa volta sognante, del Passo a due della vendemmia infranto da brevi guizzi di follia. La drammatica conclusione in mi minore segna la fine della celeberrima scena, che all’epoca della prima vantava una sequenza pantomimica ben più ar-ticolata, poi notevolmente ridotta nelle ricostruzioni posteriori.

Nel secondo atto la pantomima si ri-duce quasi del tutto, per lasciare spazio al lirismo della danza e della musica. Quest’ultima si concede di ‘parlare’ solo a inizio atto, quando dà voce allo spirito di Giselle, al momento della sua prima apparizione ad Albrecht. In una scena precedente lo spirito della fanciulla, evo-cato da Myrtha, regina delle Villi, irrom-pe in una danza che esprime, con la sua energia, un grande desiderio di vivere e di amare. La musica di Adam dipinge tut-to questo affidando l’impeto vorticoso della liberazione dal sepolcro – tipico del-le Villi – ai violini primi, che traducono il mutamento della giovane da essere uma-no in pallido fantasma. Non sono più i fiati del primo atto, bensì gli archi a dare il benvenuto a Giselle nel nuovo mondo

fatto di danze notturne. Ancora una volta un impatto forte, un richiamo alle forze infernali di cui la fanciulla fa parte, suo malgrado.

La mesta entrata di Albrecht nell’oscurità del bosco ricorda atmosfere belliniane : si pensi alla scena ultima del secondo atto della La Sonnambula, in cui Amina, altrettanto mesta per la perdita dell’amore di Elvino, intona la malinconica aria Ah, non credea mirarti. La languida melodia sostenuta dall’oboe avvolge la figura del duca ingannatore di un’aura ben differente, rispetto a quella dell’ultima scena del primo atto. Si può cogliere già in questo un presagio di sincero pentimento, prima ancora che Giselle compia il suo estremo gesto d’amore, sal-vandolo dalla furia delle donne-vampiro. Un lungo lamento che commuove lo spirito della ragazza, voce del rimorso per un atto di violenza ai danni di un’innocente.

Nel celeberrimo blanc pas de deux, in cui la nuova arrivata nel mondo delle Villi è imposto di danzare con Albrecht fino allo sfinimento dell’uomo, è possibile ritrovare la cosiddetta ‘aria parlante’, nella quale il solo virtuosistico della viola avrebbe potuto implicare una distra-zione dal procedimento drammaturgico vero e proprio.

1 L’attenzione del pubblico è focaliz-zata sull’epilogo della vicenda e il caldo cromatismo della viola impedisce ogni distrazione,

1 In merito all’importanza dello svolgimento drammaturgico in Giselle, va notato come, rispetto ad altri balletti, non vi siano qui i consueti ringraziamenti dei danzatori al termine delle variazioni o dei Pas de deux, proprio al fine di non distogliere l’attenzione del pubblico dalla vicenda narrata, rompendo il legame tra una scena e l’altra. In questo, il ballet-pantomime di introspezione psicologica può ben ergersi alla pari con le altre tipologie di arte teatrale.

Fig. 5. Carla Fracci in una memorabile interpretazione di Giselle al Teatro di San Carlo di Napoli (1982).

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sottolineando il grande potenziale seduttivo dell’ultima danza di Giselle che, suo malgrado, deve attirare a sé l’amato.

Lo spirito della fanciulla diventata donna attraverso la propria trasfigurazione in spettro, nel suo ultimo e struggente contatto con l’amato, rivive pienamente i momenti più belli. Il tema della dichiarazione d’amore del primo atto ricompare, qui, per ben due volte : la prima in forma sognante, la seconda come valzer, nell’ultima variazione di Giselle, in una sorta di ‘componimento circolare’, proprio come in un’opera poetica. L’identificazione della protago-nista coincide in maniera assoluta con il tema della dichiarazione amorosa, quella illusione che aveva colorato l’esistenza di una povera contadina, fragile come i petali della margherita bugiarda.

1 Quest’ultima ripresa musicale sancisce, per il pubblico, la certezza che Albrecht sarà salvo. Il canto d’amore si trasforma in danza e indica all’uomo una via di salvezza ; la forza misteriosa e incrollabile dell’amore lo sorreggerà durante il suo ultimo, ipnotico e circolare ballo. Evidenti, anche nel secondo atto, i rimandi al melodramma italiano, al suo clima ro-mantico e appassionato che esprime l’esaltazione del cuore. Ed è il sentimento amoroso che ispira Giselle, insieme alle tematiche del sogno, del tradimento, dell’espiazione, della follia.

All’osservazione delle rappresentazioni più moderne, il balletto di Adam è letto ancor più alla stregua di un’opera. I suoi personaggi si trovano coinvolti in dialoghi e monologhi di natura sentimentale e contemplativa, analogamente a quanto si verifica nei recitativi e nelle scene drammatiche del melodramma. Questo aspetto è oggi pressoché scomparso dal balletto, in quanto determinate sezioni, quando non sono state trasfigurate in numeri dan-zati, sono relegate a piccole scene della durata di pochi minuti, ben lontane dalla gestualità danzante di intensa valenza teatrale che ne aveva caratterizzato la creazione.

La coreografia di Giselle reca la firma di due importanti nomi legati al balletto romantico francese : Jean Coralli

2 e Jules Perrot. 3 Maestro di ballo all’Opéra era, all’epoca, Coralli, il cui

nome figurava da solo nelle locandine del teatro, in occasione della prima del 28 giugno 1841. Perrot, già danzatore di successo, maestro nonché compagno di Carlotta Grisi,

4 la leggenda-ria prima interprete del balletto, realizzò di fatto la maggior parte dei passaggi coreografici della compagna/protagonista e i ruoli solistici. Egli plasmò il linguaggio accademico della danza a fini narrativi, ridusse le parti pantomimiche, unì finemente danza e pantomima, curando la verità interiore dei personaggi e indirizzando il pas d’action noverriano (in forma evoluta) verso le successive stilizzazioni di Marius Petipa.

5

1 Strappando nascostamente un petalo alla margherita che Giselle sfoglia, il duca Albrecht compie il suo primo inganno ai danni della fanciullesca credulità della ragazza.

2 Jean Coralli (Parigi, 1779-1854), di origini bolognesi e coreografo attivo a Milano, Vienna, Lisbona, Marsiglia e Parigi, come maestro di ballo presso il Teatro di Porte Saint Martin (contrariamente all’Opéra, i teatri di boulevard favorivano le innovazioni prediligendo spettacoli d’effetto). Dal 1831 lavorò all’Opéra con Fanny Essler, per il balletto Le Diable Boîteux, in occasione del quale creò per lei la Cachucha, danza spagnola trasposta in versione accademica, che caratterizzò lo stile focoso della Essler e aprì le porte all’inserimento di danze di carattere nei balletti di Coralli.

3 Jules Perrot (Lione, 1810-Parami, 1892), allievo di Auguste Vestris, danzatore, coreografo e maestro di ballo. La sua carriera divenne presto internazionale e all’Opéra danzò al fianco di Carlotta Grisi, sua compagna di vita.

4 Carlotta Grisi fu la danzatrice italiana passata alla storia per aver creato il ruolo di Giselle. Nata a Visinada, un pa-esino dell’alta Istria, nel 1821, dimostrò fin dalla prima infanzia una spiccata attitudine per la danza e, già all’età di sette anni, calcò il palcoscenico milanese impegnata in un ruolo da solista. Formatasi con il maestro francese Guyet, danzò a Napoli, Venezia, Vienna e in Inghilterra, dove mise in bella mostra il suo talento per il canto. Il grande soprano Maria Malibran l’avrebbe voluta cantante, consigliandole di abbandonare la danza, ma la Grisi preferì esprimere la propria arte attraverso la levità dei suoi passi, continuando a regalare momenti di ‘bel canto’ ai soli amici. Theophile Gautier, innamoratissimo di lei, ne descrisse il sorriso « alla Leonardo da Vinci, con più tenerezza e meno ironia » ; la definì fau-vette (‘capinera’), per le sue ali e la sua voce melodiosa. Per lo scrittore rappresentava la bellezza femminile fragile ed effimera, fonte perenne di amore. Le cronache dell’epoca la raffiguravano di media statura, sottile, dal piede minuto e dall’incarnato fresco e puro. Compagna del Maestro e coreografo Perrot, la Grisi seppe essere brillante nel primo atto, eterea nel secondo, come lo sarebbe stata Maria Taglioni (con la quale Perrot aveva lavorato per quattro anni, attingen-do moltissimo dallo stile ‘aereo’ della grande étoile). Cfr. A. Testa, Storia della danza e del balletto, cit., pp. 70-73.

5 Questi interventi massicci sull’impianto coreografico di Giselle ci sono noti dalle memorie di August Bournon-

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Le parti d’insieme sono tradizional-mente attribuite alla mano di Coralli, come già scrivevano lo stesso Adam, nelle sue memorie, e Gautier, nella recensione alla prima rappresentazio-ne, a proposito delle danze delle Villi. Caratteristiche prevalenti del suo sti-le coreutico erano la prevalenza delle parti pantomimiche e l’uso sapiente e spettacolare delle masse, per cui gli si attribuivano tutte le parti mimate del primo atto e il sogno premonitore di Giselle, oggi scomparso. Altre lunghe scene, successivamente omesse, sono attribuite a Coralli, tra cui soprattut-to il finale, in cui Wilfrid (lo scudiero) conduceva Bathilde (la nobile fidanza-ta di Albrecht) e il suo seguito presso la radura, nella speranza di portare via il duca ; intanto Giselle aleggiava sulla tomba, dove, secondo la prima idea del coreografo, combaciante con la ver-sione odierna, veniva attirata dal suo destino. Albrecht − su suggerimento di Adam − tentava di allontanarla, ma inevitabilmente il terreno sottostan-te si ricopriva di erba e di fiori fino a formare un nuovo sepolcro per la fan-

ciulla, che non avrebbe più potuto eludere il Fato. Mentre veniva inghiottita dalla terra, Giselle indicava al suo amato la figura spaventata di Bathilde, accomiatandosi definitiva-mente dalla vita.

1 L’uomo interpretava questo gesto come un ordine sacro e, nel tornare alla sua promessa sposa, sveniva (o moriva ?) tra le braccia dei compagni, che lo portavano via su una barella.

Volendo sezionare l’anatomia della partitura coreografica, si può notare un registro li-mitato di passi e figure accademiche, il che consente a tutt’oggi di concentrare l’attenzione sull’espressività dell’azione, sull’interpretazione dei personaggi, sia da parte dei danzatori sia del pubblico. Come per la musica, ciò è reso possibile grazie alla semplicità dell’impianto e all’utilizzo di Leitmotive coreutici, come illustra il Beaumont,

2 a proposito del tema della gioia : il piacere della danza è espresso da Giselle attraverso una serie di ballonés (il termine indica una sospensione in aria, in questo caso eseguito con ritmo incalzante), piqués (denota un ancoraggio della punta sul pavimento, con spostamento nello spazio) e pas de basque (qui uno scambio delle gambe en l’air, con rapido sviluppo della seconda gamba sull’accento for-te) in una sequenza che ricorre nella danza della vendemmia, nel dialogo con la madre, nella descrizione della sua gioia di danzare fatta a Bathilde, in coppia con Albrecht nel valzer dei

ville, che aveva assistito alle prove del balletto (e non alla prima rappresentazione ufficiale) come ospite degli amici Perrot e Grisi a Parigi (cfr. in proposito Cipriani, op. cit., p. 70).

1 La vegetazione che porta a compimento il destino di Giselle esprime il motivo, tipicamente romantico, dell’asso-nanza della natura e del paesaggio con lo stato d’animo dell’individuo.

2 Si veda in merito la monografia di C. W. Beaumont, The Ballet called Giselle, London, Dance Books, 1996.

Fig. 6. Litografia di Carlotta Grisi.

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contadini, mentre ritorna, rallentata distorta e singhiozzante, nella scena della follia, in cui il suo corpo ricorda meccanicamente i momenti più felici.

La scenografia originale si presentava molto diversa da quella odierna ed è naturale che così fosse, poiché il gusto e la moda cambiano in relazione all’estetica e la danza ha subìto, in questo, mutamenti più che radicali (basti pensare alla struttura fisica delle danzatrici o alle linee della tecnica). Come per La Silphyde, anche per Giselle, alla prima produzione, erano presenti accorgimenti scenici di grande effetto, come il volo delle Villi alate, reso possibile da macchinari somiglianti a grandi altalene che, dalle quinte, facevano oscillare la ballerina dall’alto ; funi d’acciaio che sorreggevano gli spiriti facendoli volare da una parte all’altra del palcoscenico ; botole che si aprivano tra i rami dei salici e così via. Lo stesso Perrot inventò diverse macchine che davano luogo a simili effetti (alcune così pericolose da essere tagliate in partenza), grazie all’esperienza e all’interesse maturati nella sua precedente carriera presso il teatri di boulevard, dove si era affermato il melodramma e lo spettacolo ‘a effetto’, con-trariamente alla posizione conservatrice dell’Opéra. Nella versione originale la natura che circondava i personaggi era molto rigogliosa. La scenografia di Pierre Ciceri, osannato per l’uso dell’illuminazione a gas, da poco introdotta nei teatri, e autore del décor per Robert le diable, raffigurava un foltissimo bosco, alberi imponenti dai rami carichi di foglie, lo stagno, le ninfee e il chiarore lunare. La tomba di Giselle quasi scompariva in mezzo a tanta vege-tazione, che creava una macchia esotica e misteriosa, secondo il gusto romantico.

1 Oggi la scenografia ha perso questo connotato tropicale. Nel xx secolo Alexander Benois proponeva a Sergej Diagilev alberi privi di foglie, una vegetazione scarna, lo stagno passava in secondo piano, quando non fu addirittura eliminato, scomparivano le ninfee e acquisiva maggiore visibilità il sepolcro. L’atmosfera, sempre misteriosa, era così diventata molto più sinistra, senza alcuna connotazione esotica.

2 L’interrelazione scena/drammaturgia determina la ‘posizione’ di ciascun personaggio,

in accordo con una scenografia dapprima campestre e successivamente ‘oscura’. La solarità del primo atto colora di toni caldi Giselle, gioiosa e vispa forosetta pudicamente innamo-rata di un improbabile contadino, per poi precipitare con grande contrasto, nel corso del secondo atto, nella glacialità di un pallido fantasma, sia pure stemperata dal sentimento d’amore. Lo stesso Albrecht crea il proprio personaggio con credibilissima seduzione, su uno sfondo idilliaco che sostiene a meraviglia la tessitura dell’inganno (volontario o meno, questo non conta), per divenire poi sincero penitente sullo sfondo della foresta, nera come la morte che ha strappato alla vita le fanciulle trasformate in Villi nel fiore della giovinez-

1 Un aspetto di non poca rilevanza emerge dalla considerazione di balletto e opera nell’ottica romantica : un proce-dimento osmotico relativo a interazioni di trame, contenuti musicali, inserti di professionisti, scenografie e costumi. Questi ultimi erano spesso riutilizzati fra opere e balletti, non solo per affinità di storie e ambientazioni, ma anche per motivazioni di carattere economico, in un contesto nel quale veniva prodotta dalla sartoria teatrale una gran mole di abbigliamento per imponenti messe in scena, i cui personaggi erano per lo più dei tipi fissi. Ad es. i costumi dei nobili signori del Gustavo III furono riutilizzati per Le diable boiteux, quelli di demoni e scheletri adoperati ne La Tentation vennero impiegati nell’ultimo atto del Don Giovanni, gli abiti dei contadini del Guillaume Tell andarono per La fille du Danube, mentre l’abbigliamento dei pellegrini de L’Orgie fu adoperato per Robert le diable (cfr. Smith, Ballet and Opera, cit., p. 45 e relative note).

2 Anche i costumi avrebbero dovuto risentire, inizialmente, del gusto per l’esotico tipico del romanticismo, in quanto la prima idea di Gautier, presto superata ma ancora presente nel testo del libretto, era di presentare le Villi come creature provenienti da tutte le parti del mondo con le danze dei loro paesi, accomunate dallo stesso destino di morte. Sylvie Guillem, nella sua versione coreografica del 1998, ha ripreso l’originale concetto di seduttività, come vuole il testo di Heine), presentandole in abito da sposa e richiamando, in alcuni costumi, le fogge orientali della pri-ma intenzione romantica. Negli allestimenti di stampo tradizionale Giselle è solitamente in azzurro, nel primo atto, mentre un vaporoso e candido tutù, lungo fino alle caviglie, con o senza alette, veste la ragazza trasformata in Villi. Nelle recite dell’American Ballet Theatre degli anni sessanta e settanta il tutù delle Villi appare notevolmente accorciato, fin sotto il ginocchio. Benché il libretto non cali la storia in nessun periodo specifico, il costumista della prima, Paul Lomier, aveva ambientato il costume nel Medioevo, probabilmente anche per ragioni economiche, al fine di riutiliz-zare costumi di scena di produzioni precedenti o di integrarli con quelli di opere di ambientazione medievale.

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za. Le solari contadinelle che danzano alla festa della vendemmia divengono le lunari donne – vampiro che popolano la notte. La foresta, simbolo maschile, annulla ogni uomo che vi si imbatte e si trasforma nel regno di queste donne che si fanno vendetta da sé, utilizzando la stessa arma che le aveva sottratte alla vita e all’amore : la danza.

Temi, motivi e idealità del balletto romantico confluiscono magistralmen-te in Giselle, le cui fonti, come si è visto, contengono in nuce potenzialità espressi-ve idonee a testare lo spirito del tempo. La fenomenologia del soprannaturale entra nella coreografia influenzandone gli esiti drammatici, che approdano a numeri di ballo a solo e d’insieme. Alla stregua di opere eloquenti come Lucia, Sonnambula e altre, Giselle riflette la Welt-anschauung romantica con non minore evidenza.

La realtà riprodotta (in maniera arti-ficiosa) si riflette in un registro coreuti-co di ‘aereità’, finalizzato a scavalcare la pura tecnica, utilizzandola quale mezzo necessario e imprescindibile per il con-seguimento di raffinati virtuosismi. La forza evocativa della musica e il muto

linguaggio del gesto, la più che felice convergenza di una mente poetica, di un compositore ar-guto e di una geniale coreografia fanno di Giselle una pietra miliare del repertorio ottocentesco, sulla quale ci si augura di poter approfondire ulteriormente lo studio. Un primo approccio ha già messo in luce aspetti rilevanti di un mondo ineffabile ; una drammaturgia che, se nel me-lodramma ha la possibilità di usufruire dell’ausilio della parola, nel balletto si concretizza nella valenza semantica del gesto, che nella musica trova il suo più efficace sostegno emotivo.

Sommario

Il presente contributo offre un’analisi della drammaturgia del più noto balletto romantico del reperto-rio classico ottocentesco, Giselle, ou les Wilis, in due atti, andato in scena il 28 giugno del 1841 all’Opéra di Parigi, su musica di Adolphe-Charles Adam e coreografia di Jean Coralli e Jules Perrot. Dalle fonti letterarie del libretto, una disamina a volo d’uccello sulla transcodificazione della parola scritta in danza attraverso la partitura musicale, al fine di individuare quali temi, presenti nelle fonti, abbiano condizionato in modo decisivo l’opera nel suo complesso. Una riflessione sui principali clichés che, nell’età di Luigi Filippo, costituivano il comune denominatore di due generi di spettacolo teatrale affini, visto l’utilizzo del linguaggio musicale e di quello gestuale da parte di entrambi, ossia melo-dramma e ballet-pantomime.

Abstract

The present work offers an examination about the dramaturgy of the most well-known romantic ballet of the nineteenth’s century classic repertory, Giselle, ou les Wilis, a ballet in two acts gone on

Fig. 7. Yvette Chauviré in una arabesque del secondo atto.

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stage on 28 June 1841 at the Paris Opera House, by the music of Adolphe-Charles Adam and choreo-graphy by Jean Coralli e Jules Perrot. From the literary sources of the libretto, an observation about the transcode of the written text in dance, through the score, to single out which themes conditioned the work as a whole, through the principal clichés which, in the age of Louis-Philip, were the common denominator of opera and ballet-pantomime, two theatrical typologies joined by the musical and sign language.

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stampato e r ilegato nellatipogr afia di agnano, agnano p i sano (p i sa) .

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Dicembre 2013

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SOMMARIO

Cristiana Anna Addesso, « Portano i latron pieni i lor saini » : elementi della teatralità aragonese nella produzione egloghistica e farsesca di Serafino Aquilano e Antonio Ricco 9

Konrad Eisenbichler, Theatre and Identity in a Florentine Confraternity 23Angela Leonardi, La parola illusionista. Costruzione e decostruzione dell’io di Otello 33Stefano Manferlotti, Tre corone per Macbeth: Shakespeare, Ionesco, Testori 49Valeria G. A. Tavazzi, Le commedie sulle gare teatrali 63Gianni Cicali, I ‘viaggi teatrali’ di una Lady del Settecento 77Maria Venuso, Tipologia delle fonti ed esiti drammaturgici del balletto Giselle 107Giovanni Maddaloni, Eduardo Scarpetta riscrive Francesco Cerlone: da Il finto medico

a Nu zio Ciuccio e nu nepote scemo 127Edoardo Sant’Elia, Mangiare o non mangiare : se questo è il problema. La Napoli di Scar-

petta, «fra la miseria vera e la falsa nobiltà!» 139Domenico Giorgio, Felice Sciosciammocca mio padre di Maria Scarpetta 149Paola Quarenghi, L’America ci aiuterà ? Eduardo tra Piano Marshall e Guerra Fredda 157Antonella Ottai, Una finestra sul cortile. Eduardo e il Piano Marshall 169Cinzia Conti, La voce nella tempesta. L’adattamento teatrale di Fenoglio tra romanzo e

grande schermo 177