Soglie, Anno XV, n. 3 - Dicembre 2013 (completo)

84
Soglie RIVISTA QUADRIMESTRALE DI POESIA E CRITICA LETTERARIA Anno XV, n. 3 - Dicembre 2013 Soglie S N S Soglie Nuova Serie ISSN 2283-3218

Transcript of Soglie, Anno XV, n. 3 - Dicembre 2013 (completo)

Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

Anno XV, n. 3 - Dicembre 2013

Soglie A

NN

O X

V, N. 3, D

ICEM

BRE 2013

SNSSoglie Nuova Serie ISSN 2283-3218

SNS

Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

comitato direttivo

Alberto Armellin, Giancarlo Bachini, Fausto Ciompi, Sauro Damiani, Pierangiolo Fabrini, Marzia Minutelli, Helle Nyberg, Elena Salibra.

redazione

Alberto Armellin [con la collaborazione di Lionella Carpita].

comitato scientifico/international advisory Board

Miguel Casado (Toledo)Robert Hampson (Royal Holloway, University of London)

Michael H. Hoffmann (University of Florida)Chris Mann (Rhodes University)

Jean-Michel Maulpoix (Université de Paris Ouest-Nanterre-La Défense)Carles Miralles (Universidad de Barcelona)

Franco Musarra (Katholieke Universiteit Leuven) Jesús María Ponce Cárdenas (Universidad Complutense de Madrid)

Jean-François Puff (Université Jean Monnet, Saint Etienne) Clara Rowland (Universidade de Lisboa)

Ulla Schroeder (Radboud Universiteit Nijmegen)Emmanuela Tandello (Christ Church, University of Oxford)

Giona Tuccini (University of Cape Town)Alexis Ziras (Atene)

Soglie è una rivista blind peer reviewed a cura di studiosi di Università italiane e straniere. Pubblica testi poetici inediti, saggi, articoli, recensioni e interviste concernenti la poesia, specialmente contemporanea, scritta in tutte le lingue.

edizione online: www. torrossa.it.

La rivista è indicizzata dai seguenti organismi:Database e cataloghi internazionali: MLA International Bibliography, OCLC e Deutsche Bibliotek.Discovery Services: Summon Proquest e Primo Central di ExLibris, Ebsco Discovery Services. Link Resolvers: AtoZ, Serials Solutions, SFX.

ISSN 2283-3218

Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

TesTi poeTiciFreschi di stampa: Due nuove poesie di Saffo a cura di Crescenzio Sangiglio 3Alison croggon, Far fronte all’impossibile, con un’intervista a cura di Marzia Dati 9Daniela ATTAnAsio, Incapacità di far fruttare il silenzio 21Mario Graziano pArri, Nell’ora che trema 25

sAggi Marzia MinuTelli, “effimera ghirlanda” di una poetessa dimenticata: dodici liriche di Rina Pellegri 29

recensioni e noTe 57Michela lAndi, L’ora presente di Yves BonnefoyLeandro piAnTini, Quando avrò tempo. Poesie 2010-2012 di Anna Maria CarpiFlavio peTTinAri, C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007 di Nina CassianSilvia MoroTTi, Inizio Fine di Daniele PicciniDamiano MoscATelli, Ablativo di Enrico Testagiancarlo BAchini, Sauro dAMiAni, Note sui libri ricevuti (U. De Robertis, A. Ferrini Policardo, L. Frisa, A. Amorelli, E. Montini)

poesie ricevuTe 79Premio di Poesia ‘Antica Badia di S. Savino’, XXXV edizione: P. Lombardi, A. Taioli, R. Vettorello

Nuova serie

Anno XV, n. 3 - Dicembre 2013

Soglie, anno XV, n. 3 3

Freschi di stampa

Due nuove poesie di Saffo

a cura di Crescenzio Sangiglio

La fortuna ha voluto che il proprietario collezionista di un papiro antico con-tenente dei versi in caratteri greci – successivamente datato dal II-III sec. d.C. – si rivolgesse a Dirk Obbink, docente a Oxford ed esperto di fama mondiale in papirologia, per chiedergli lumi su quel testo chiaramente per lui per nulla comprensibile.

La sorpresa del Dr. Obbink fu di certo enorme riscontrando sul papiro nientemeno che due sinora ignote poesie di Saffo, la prima delle quali appa-rentemente intera.

Ottenuta l’autorizzazione a pubblicarle, lo studioso britannico non ha mancato di farne una prima comunicazione ufficiale nelle pagine della presti-giosa Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik (ZPE) 189 (2014) dal titolo “Preliminary Version: Two New Poems by Sappho” – appunto le poesie che qui vengono presentate in prima versione italiana.

Si sa che la produzione poetica di Saffo comprendeva nove libri: era quin-di assai copiosa e soprattutto notissima. Ciò malgrado sinora una sola com-posizione ci è pervenuta quasi intera, tutte le rimanenti risultando frammenti più o meno estesi.

La fama di Saffo dal VI sec. a.C. fino ai primi secoli ellenistici rimase intatta. A Lesbo una moneta portava la sua effigie, a Siracusa e a Pergamo avevano eretto statue in suo onore. “Decima Musa” viene nominata da Plato-ne, mentre Anacreonte la definisce ηδυμελής (dolce, melodiosa), Giuliano e Antipatro la chiamano “Omero al femminile” e Strabone “mirabile creatura”. Orazio, infine, non esita ad affermare, nella sua seconda Ode, che “perfino i morti nell’Ade ascoltano i suoi canti con ammirazione e sacro silenzio”!

Il papiro in questione è – secondo le dichiarazioni di Albert Henrichs, do-cente ad Harvard – quello a tutt’oggi pervenuto meglio conservato, così che solo poche lettere nel testo della prima poesia è stato necessario ricostruire (la seconda, invece, è purtroppo costituita da parole e sillabe sparse, difficil-mente restaurabili).

4 Soglie, anno XV, n. 3

Saffo

Nella prima poesia si fa cenno a due uomini, Charasso (Χάραξος) e Làri-cho (Λάριχος), molto probabilmente, secondo fonti antiche, due fratelli di Saffo, ma fors’anche no, visto che i loro nomi, almeno uno di essi, non com-paiono in altri testi della poetessa. Charasso sembra essere un commerciante che ritorna in patria con la nave piena di mercanzia acquistata, mentre per Làricho, fratello minore, l’augurio e la speranza di Saffo è che ben presto egli assuma le proprie responsabilità di uomo maturo risparmiando finalmente alla famiglia dispiaceri e noie.

Ufficiosamente quindi alla poesia il Dr. Obbink ha attribuito il titolo I due fratelli. Di conseguenza è da presumere che tale composizione facesse parte del primo Libro di poesie i cui contenuti attengono a tematiche familiari, bio-grafiche e cultuali.

La prima poesia è separata con un rigo orizzontale dalla seconda, estre-mamente frammentata, che sembrerebbe essere un’ode ad Afrodite alla quale Saffo fa presente l’impossibilità di mantenersi sereni quando si sta nella con-tinua attesa di ritrovare la persona amata, uomo o donna, non appare specifi-cato.

Naturalmente le due poesie sono scritte nella tipica strofe della poetessa di Lesbo, la strofe saffica, e ovviamente in dialetto eolico. Peraltro si ritiene che il papiro testè scoperto appartenga al complesso del Papiro Ossirinco rinve-nuto nella antica omonima cittadina egizia e costituito da migliaia di papiri la maggior parte dei quali ancora inesplorati e giacenti a Oxford. D’altronde, lo scopritore delle nuove poesie di Saffo è il direttore dell’Oxyrynchus Papyrus Project in corso di sviluppo presso appunto l’Università di Oxford.

Non è pertanto da escludere che sull’abbrivio della nuova scoperta ulte-riori tesori poetici antichi possano vedere la luce nel più prossimo futuro.

crescenzio sAngiglio

Soglie, anno XV, n. 3 5

Due poesie inedite

6 Soglie, anno XV, n. 3

Soglie, anno XV, n. 3 7

ΑΛΛΑÏ ΘΡΥΛΗCΘΑ ΧΑΡΑΞΟΝ ΕΛΘΗΝ

Circolano voci mi stai dicendo che Charassopoco manca che arrivi con la nave piena.Tutto nelle mani di Zeus sta e degli dèi rispondo.Non dir nulla quindi.

Preferirei invece che tu mi esorti a pregarpiù spesso la regina Eracosì che in salvo Charasso conducain salvo la nave

e ci trovi sani e salvi: per tutto il restosi occupi la benevolenza degli dèigiacché alla furia della tempesta succedela bonaccia:

e bene avventurati rendono e beaticoloro che i sovrani dell’Olimpovogliono liberare dagli spiritidelle sventure.

Per quanto ci riguarda se Làrichomette la testa a posto e prestodiventa uomo da un bel cruccioci libererà.

ΠΩ {C} ΚΕ ΔΗ ΤΙC ΟΥ ΘΑΜΕΩC ΑCΑΙΤΟ

Come non perder la ragioneo mia regina Cipride chi l’amatacreatura ancora attendevicino a sé.

Traduzioni di Crescenzio Sangiglio.

Soglie, anno XV, n. 3 9

Alison croggon

Far fronte all’impossibile

a cura di Marzia Dati

Alison croggon nasce a Carlton in Sud Africa nel 1962, si trasferisce con la fa-miglia prima in Inghilterra nel 1966 e successivamente in Australia nel 1969. È cresciuta vicino a Ballarat, nello stato di Victoria, per poi trasferirsi a Melbourne,

dove risiede attualmente. La produzione della Croggon spazia dalla poesia alla narrativa, al teatro, ai libret-

ti d’opera, alla critica teatrale e letteraria. Il suo primo romanzo, Navigatio (1996) ha avuto come seguito una serie di romanzi fantasy di successo: The Books of Pellinor (2002–2008). Scrive critica teatrale per The Australian Newspaper di Melbourne, e gestisce un blog di critica teatrale, Theatre Notes.

Negli anni Novanta ha lavorato per varie riviste di poesia: Overland Extra (1992), Modern Writing (1992-1994) e Voices (1996). Ha fondato la rivista letteraria online Masthead, di cui è ancor oggi direttrice.

La prima raccolta di poesie della Croggon, This is the Stone, è stata pubblicata nel 1991 insieme alla raccolta della poetessa, anch’essa australiana, Fiona Perry, Pharoahs Returning. This is the Stone si è posta fin da subito all’attenzione della critica tanto da vincere sia il FAW Anne Elder Poetry Award che l’ASAL Mary Gil-more Award. Successivamente ha pubblicato altre otto raccolte di poesie.

Nel 2000 ha avuto il prestigioso incarico di Australian Council Writer-in-Resi-dence al Pembroke College presso l’Università di Cambridge. La sua ultima raccol-ta di poesie è Theatre, uscita nel 2008. L’hanno preceduta i seguenti volumi: This is the Stone, Ringwood, Vic Penguin (1991), The Blue Gate, Fitzroy North, Vic Black Pepper (1997), Mnemosyne, Bray, Ireland Wild Honey Press (2001), Attempts at Be-ing, Applecross, WA Salt Publishing (2002), The Common Flesh: New & Selected Poems, Todmorden, UK Arc Publications (2003), November Burning, Newtown, NSW Vagabond Press (2004), Ash, Los Angeles, USA Cusp Books (2006), Theatre, Cambridge, UK Salt Publishing (2008).

10 Soglie, anno XV, n. 3

Seduction Poem I want the slew of muscle, a less cerebral meeting place; no word but your male shout, the shirred unpublic face and honest skin crying to me, yes, the mouthless, eyeless tenderness crying to be let in.

Unbutton all your weight, like a bird flying the night’s starred nakedness: put down your grammatical tongue, undress your correct and social skin: come white and absurd all your language one word crying to be let in.

Da The Common Flesh Limbo

I am waiting for what emerges from the white edges of catastrophe

that last bleeding note

bearing this fragment in my body is a joy beyond the dark strength of my heart

and yet I choose this labour

harder every time

Da The Blue Gate

Alison Croggon

Soglie, anno XV, n. 3 11

Poesia della seduzione

Voglio una torsione di muscoli, un luogod’incontro meno cerebrale; nessuna parolama il tuo urlo virile, l’increspato voltoprivato e la pelle onestache piange per me, sì, la dolcezza senza bocca, senza occhiche piange per essere ammessa.

Sbottona tutto il tuo peso, come un uccelloche cavalca la nudità della notte stellata:deponi la tua lingua grammaticale, spogliatidella tua educata pelle sociale:diventa bianco e assurdotutto il tuo idioma una parolache implora di essere ammessa.

Limbo

Sono in attesadi ciò che emergedagli spigoli bianchidella catastrofe

quell’ultimo segno sanguinante

che genera questo frammentonel mio corpoè una gioia al di là dell’oscuraforza del mio cuore

eppure io scelgoquesto travaglio

più difficile ogni volta

Far fronte all’impossibile

12 Soglie, anno XV, n. 3

Fugue

poetry remembers everything that exhaustion strews across a wasteland where people walk in old shoes with their love darkening in sad baskets of flesh

once I sat on a train and watched the clouds set fire to a city of blank windows

once a little girl whispered me a song and I saw that my gaze was the garden she plays in

I don’t want to leave forgetting all these gifts granted to my secret and undeserving heart

there is a hand which opens and a hand shutting there is a name and a garden of weeds

there is a snake which sings a dream of flame springing from cold ashes

there is a knife which trembles through the joyous waters of each mute tongue

Da The Common Flesh

Alison Croggon

Soglie, anno XV, n. 3 13

Fuga

la poesia ricordaquello che l’esaurimentosparge attraverso una terra desolatadove la gente cammina con scarpe vecchiecon l’amore che si fa scurodentro tristi cesti di carne

una volta ero seduta in trenoe osservavo le nuvole appiccare fuocoa una città dalle finestre vuote

una volta una ragazzinami sussurrò una canzonee capii che il mio sguardoera il giardino in cui lei gioca

non voglio partiredimenticando tutti questi doniconcessi al mio segreto e immeritevole cuore

c’è una mano che si apree una mano che si chiudec’è un nomee un giardino di erbacce

c’è un serpente che canta un sogno di fiammache sorge da fredde ceneri

c’è un coltello che tremaattraverso le acque gioiosedi ogni lingua muta

Far fronte all’impossibile

14 Soglie, anno XV, n. 3

Alison Croggon

Illness Shadows move where thrushes pick a few grains. The sky pours ambiguous benediction. A derelict

fence sags under years of vines. I am young still, in this light that claws

furrows across the long rebellious grass, this unhealed edge of song.

Here, where a doubt may lodge its cancer, here the masked surgeon freezes and tweaks. Little damage

shows: a scar, a wan non-committal smile, a shaven head shivering in the rain.

Da Attempts at Being

Soglie, anno XV, n. 3 15

Far fronte all’impossibile

Malattia

Le ombre si muovono dove i tordi beccano alcuni chicchi. Il cielo riversaambigua benedizione. Uno steccato

abbandonato s’inclina sotto annidi viti. Io sono ancoragiovane, in questa luce che graffia

solchi attraverso l’altaerba ribelle, questo lembo non sanatodi canzone.

Qui, dove un dubbio può albergare il suo cancro, qui il chirurgo con la mascherinasi blocca e dà un colpo secco. Un piccolo danno

si manifesta: una ferita, un sorrisoesangue e vago, una testarasata tremante nella pioggia.

Traduzioni di Marzia Dati.

16 Soglie, anno XV, n. 3

Alison Croggon: la bellezza non è sufficiente

Qual è il suo progetto poetico all’interno della poesia australiana contem-poranea?

Non ho un progetto poetico. Ho sempre scritto poesia perché sentivo la necessità di farlo. La pubblicazione, o tutto quello che ne può derivare, con i vari sottoprodotti, m’interessa assai meno. Non sono neanche certa di essere una ‘poetessa australiana’. Ho trascorso qui la maggior parte della mia vita e quindi dovrei essere australiana, ma non vivo la mia ‘australianità’ come un fattore determinante. Sono un’immigrata inglese e ancora oggi, dopo tanti anni, ho un passaporto britannico, il che è quanto meno indice di una certa indecisione. Per la mia poesia conta di più l’essere donna. Il genere ha sem-pre un ruolo importante nei miei testi: che funzioni da maschera, da spunto interrogativo o da motivo di rappresentazione.

Dovendo definire i miei antecedenti poetici, del resto, sono stata parti-colarmente influenzata dalla poesia romantica inglese ed europea, declinata attraverso vari modernismi, da Rilke a Vallejo, fino a Muriel Rukeyser. È un paradosso. Non ho mai pensato di essere australiana, eppure, come molti im-migrati, sento di non poter essere nient’altro. Il mio linguaggio poetico trae origine da questa faglia.

La poesia australiana contemporanea si è guadagnata una notevole consi-derazione nel panorama internazionale. Quali sono le principali tendenze attuali?

È sempre arduo definire un fenomeno culturale in base al criterio della nazionalità e la poesia australiana non fa eccezione. Sotto molti aspetti la poesia ‘australiana’ è un’invenzione, in quanto comprende una notevole va-rietà di autori che scrivono in modi diversi e con le più varie finalità, ai quali è semplicemente toccato di vivere nello stesso continente.

È invece lecito fare un discorso relativo al rilievo poetico. Solo quando ho trascorso sei mesi come writer in residence all’Università di Cambridge, sono riuscita a guardarmi indietro da una certa distanza e a capire che proprio gli australiani attualmente scrivono la poesia più interessante in lingua inglese. Penso che l’aspetto più importante della poesia australiana sia l’assenza del fardello della tradizione. Questa carenza può essere un problema, ma allo stesso tempo garantisce ai poeti la straordinaria opportunità di mettersi in cer-ca delle proprie radici, che possono derivare da modelli asiatici, nord e sud-

Soglie, anno XV, n. 3 17

Far fronte all’impossibile

americani o europei, per non parlare naturalmente dell’influenza esercitata dalla cultura aborigena. Senza dubbio la cultura inglese ha avuto un’influenza enorme, per l’ovvia ragione che la maggior parte dei poeti in Australia parla inglese, ma considerato che siamo un paese costituito sia da successive onda-te immigratorie sia dalla cultura con la più antica continuità al mondo, forse è meglio parlare di inglesismi.

Altro problema saliente è del resto proprio quello della lingua. Molti poeti in Australia sono consapevoli che la lingua da loro usata non è un descrittore neutro ma uno degli strumenti della colonizzazione. Molta poesia, inclusa la mia, è fortemente interessata alla ‘lingua di genere’ in tutti i suoi aspetti. Esistono molti notevoli poeti donne in Australia, forse perché abbiamo avu-to delle voci femminili importanti come modelli, da Judith Wright a Gwen Harwood e Oodgeroo Noonuccal. A differenza di altra poesia in lingua ingle-se, le più importanti scrittrici in versi all’interno del canone non sono zitelle, come Emily Dickinson, Stevie Smith o Elizabeth Bishop, ma poetesse che celebrano la letteratura di genere.

Secondo buona parte dei critici, la poesia australiana può essere descritta nei termini dell’opposizione fra rurale e urbano, città e campagna. In questo senso, privilegiare la ‘poesia pastorale’ non ha forse impedito alla poesia australiana di aprirsi maggiormente all’esterno?

La distinzione fra poesia rurale e poesia urbana ha qualche legittimità, ma non ci aiuta a capire la poesia più importante scritta in Australia. Ritengo semmai che la poesia australiana sia permeata di un romanticismo, in gran parte inconscio, che agisce negli autori più significativi, oltre che nella mag-gior parte della poesia del XX secolo. Oltre alle citate Harwood, Noonuccal e Wright, la poesia australiana contemporanea ha prodotto talenti straordinari come Francis Webb e Randolph Stow, per limitarsi a qualche nome; poeti che meriterebbero di essere conosciuti di più all’estero. A livello internazionale, d’altra parte, la cultura in lingua inglese tende ad essere dominata dalla Gran Bretagna e dall’America. Come altre culture in lingua inglese, l’indiana e la canadese ad esempio, siamo visti come i cugini poveri. E questo elemento può essere sia positivo che negativo. Ho sempre preferito i margini, hanno ecologie più varie.

Quanto alla cosiddetta ‘poesia pastorale’, non sono sicura di cosa si inten-da con questa etichetta. John Kinsella, uno dei nostri poeti più noti all’estero, esplora un territorio che chiama ‘l’anti-pastorale’, che mette in discussione i concetto di ‘pastorale’ da un punto di vista politico. La poesia australiana ha una storia lunga, spesso trascurata, di impegno civile, che continua ancora

18 Soglie, anno XV, n. 3

Alison Croggon

oggi. Ad esempio, per tornare all’idea di ‘pastorale’, per molti poeti il rap-porto con l’ambiente è oggi sentito in forme particolarmente problematiche a causa degli stravolgimenti climatici, che stanno interessando l’Australia in forme iperboliche. L’Australia è un continente arido, con sistemi ecologici as-sai fragili. Abbiamo il tasso più alto di estinzione di specie animali al mondo, soprattutto a causa dello sviluppo economico, ma con evidenti accelerazioni imposte dal surriscaldamento globale. Il rapporto con la terra – e con la patria – è ancora più complesso per i poeti indigeni, che non condividono la nozione europea di ‘proprietà’.

A proposito di poesia politica, nell’Ode a Walt Whitman (1997), lei scrive: “I bambini arrostiscono nelle fiamme di questo secolo terribile”. A cosa riman-da questa immagine estremamente cruda?

Quella è una delle osservazioni letterali, e probabilmente semplicistiche, che mi capita di fare nelle mie poesie. Esprime l’impotenza dinanzi alla defla-grazione mortale che sta interessando il nostro pianeta. Ho scritto quei versi quando i miei bambini erano piccoli: circostanza che mi ha indotto a una riflessione su come stiamo distruggendo il nostro futuro.

Non so quale ruolo si possa attribuire alla poesia oggi. È un dibattito che intrattengo continuamente con me stessa. Recentemente ho scritto il libretto per un’opera lirica su Vladimir Majakovskij e mi sono imbattuta in una frase che il poeta disse a Viktor Šklovskj: “La poesia è fatta per”. Non sono convin-ta di dover scrivere ancora poesie, sebbene ami leggere la poesia altrui. Ma se dovessi individuare il ‘per che cosa’ della mia poesia, il suo ‘in vista di’, direi forse: ‘per far fronte all’impossibile’.

Un aspetto assai diverso della sua poesia, è quello che alcuni critici hanno definito ‘intimista’…

Non mi riconosco del tutto in questa definizione. La mia è una poesia che cerca di avere sentimento, ma è sempre un sentimento che nasce come rea-zione al mondo in cui vivo. Il sé è poroso e multiforme. Non ho mai scritto poesia a carattere confessionale, anche se a volte i miei testi vengono frain-tesi in quel senso. Nel mio lavoro domina la problematica dei sommovimenti climatici. Certo, la poesia ha ovvie ricadute sulla vita dell’io. Credo che la bellezza, nel suo significato vero, possa persino essere salvifica a livello indi-viduale. Se fosse valutata al di sopra del denaro, salverebbe il mondo, come diceva Dostoevskij. Ma, nel nostro mondo, la bellezza non è uno strumento sufficiente.

Soglie, anno XV, n. 3 19

Far fronte all’impossibile

La sua raccolta poetica più recente s’intitola Theatre (Teatro), ma ha effet-tivamente scritto anche per il teatro. Qual è la relazione tra poesia e teatro?

La relazione, naturalmente, sta nel linguaggio. Il teatro è un’arte intrin-secamente metaforica e, come la poesia, il suo linguaggio ha una relazione diretta con la parola e il corpo. Penso sia questo il motivo per cui la trovo affascinante. La pagina poetica, d’altra parte, è un’annotazione che il lettore segue, proprio come i ballerini seguono i simboli coreografici o i musicisti seguono lo spartito.

Soglie, anno XV, n. 3 21

Daniela Attanasio

Incapacità di far fruttare il silenzio

Daniela ATTAnAsio, romana, ha pubbli-cato i libri di poesia: La cura delle cose (1993), Sotto il sole (1999, Premio Da-rio Bellezza, Premio Unione Scrittori Italiani), Del mio e dell’altrui amore

(2005, Premio Camaiore). Nel 2012 è uscito per i tipi di Aragno Il ritorno all’isola (Premio Sandro Penna) e nel 2013 Di questo mondo, che le è valso la terna del Pre-mio Viareggio-Repaci 2013. Sue poesie sono presenti nell’Almanacco dello Spec-chio Mondadori (2009) e nell’Antologia Nuovi Poeti Italiani 6 (2012). Inoltre ha tradotto nel 1989, Love Poems, di Anne Sexton per il volume antologico La doppia immagine (Editore Sciascia). Dal 2007 cura la manifestazione annuale Teramopo-esia, rassegna sulla poesia moderna e contemporanea. Come critico collabora con quotidiani e riviste letterarie.

Pubblichiamo qui di seguito la sezione inedita dal titolo Incapacità di far fruttare il silenzio. Si mettono a fuoco cinque modi di cogliere il silenzio, di sperimentarne il senso e di mostrare la propria incapacità a catturarne il frutto. Prevale il bianco di sentieri innevati di Villa Ada o la ricostruzione di un mito che rappresenta il rischio da correre per far fruttare il silenzio; c’è poi chi di questo silenzio non si accorge o lo rifiuta oppure vuole uscirne. Il non rumore muove un fluire del ritmo che d’un tratto s’arresta per una pausa o per un anello che non tiene. La poetessa in queste poesie lavora sulle parole che sono una scoperta per lei e per il lettore e sui personaggi sfu-mati quanto basta.

elenA sAliBrA

22 Soglie, anno XV, n. 3

Daniela Attanasio

Cammina sui sentieri bianchi di Villa Adapreceduto dal suo grosso cane neroe camminando sente i piedi affondare nell’acqua della terra come due foglie scure e malsane con il grosso cane che lo precede sul sentiero della Villagli accade di osservare ciò che resta impigliato alla rete dei rami dove tra verde e verde scivola la luce di due occhi nel silenzio del cielo che si oscura.

*Dal finestrino aperto della macchina dai un euro di mancia al lavavetri e un euro e venti per il giornale. A Santa Maria Maggiore pendono le campane, il taxi bianco è un delfino in vasca la piazza ribolle di amore crudo e festante…

Non c’è un modo nuovo di vivere o morire ma di sentire il vento che ti cammina sulla faccia le gocce che dagli occhi scendono sui nostri sorrisi o le macchie di sole che gocciano sulle pareti di casa. Riscrivere le braccia come un nostalgico mito, per esempio, è il rischio da correre per far fruttare il silenzio:“le sue braccia leggere di muscoli e carne, svenevoli come giunchi di mare…” ecc. ecc.

*Il peso della terra lo tiene con la testa piegata in basso non vuole né bere né mangiareseduto sulla sua poltrona stringe ai braccioli due mani dure

allora perché, mi chiedo, non libera quelle mani strette a pugno, perché non scalcia con una risata di ribrezzo la ruvida abitudine di non vedere –perché non fa fruttare il silenzio?

Soglie, anno XV, n. 3 23

Incapacità di far fruttare il silenzio

*Guarda come risalta l’ombra del violoncello sulla pedanala forma lirica della cassa, la legatura esausta delle sue corde non vedi?

Cammini con il passo di chi ha l’abitudine alla corsa e non si ferma a guardare.Un’idea dopo l’altra i piedi remano al ritmo della marcia – più velocepiù lenta –, il giorno è immobile sul cosmo del marciapiededove tu vedi all’altezza degli occhi la donna che ti passa accantoin trasparenza, un po’ corpo un po’ abbaglio, il passo inconsapevole sul bordo bianco di marmo, la fronte illividita dal freddo dietro lo sguardo indifeso dei sonnambuli le mani che dormono come ali reclinate nelle tasche. Questo lo vedi? come la chiami una donna così? se parla, lo sai di cosa parla e dove vive il suo idioma? e sai a che prezzo si accuccia nel suo letargico silenzio? La donna è passata –di lei restano: le fibre secche dell’albero piantato in pozze di cemento / il cielo stagnato in globi d’acqua / una strada di sogno nel frastuono che cresce.

*Sdraiata con la faccia sul cuscinovede l’oscurità della sua intelligenzadove le figure si confondono poi s’illimpidiscono

gli spazi in luce sono quelli delle grandi piazze dove la gente si muove, si perde e attende conduce la vita comune delle opere e dei fatti, si attarda.

Lo sguardo buio della sognante stringe il fuoco su un uomo che camminandobrucia la febbre di un lutto non guarito

lo sguardo buio della sognantesi ferma sull’uomo che mentre camminacerca una via di fuga da quellasolitudine di sogno che non gli basta.

Soglie, anno XV, n. 3 25

Mario Graziano Parri

Nell’ora che trema

Mario Graziano pArri, bolognese di na-scita, vive tra Firenze e Tirli in Marem-ma. Poeta, scrittore e critico letterario di-rige dal 1996 il quadrimestrale di poesia, arte e cultura Caffè Michelangiolo, che si rivela particolarmente attento ai giovani studiosi, ai classici della letteratura anche straniera e al cinema. I suoi primi libri di versi (Vigilia d’armi, Ali di vetro, Poesia del silenzio), usciti tra il ’57 e il ’67, mo-

strano già una particolare raffinatezza e sobrietà del dettato poetico. Tali caratteristiche si rivelano ancor più decise nelle raccolte successive: Se parla la spiga d’estate (pre-mio Dino Campana 1981), Questa è la rosa e qui danza (premio Pisa 1982), Codice occidentale, 1983, La notte precedente il nostro futuro (premio Circe-Sabaudia 1985) e, dopo un lungo silenzio, Stella di guardia (premio Giuseppe Giusti 2001) in cui sono raccolti testi dal 1996 al 2000. Nel 2008 è uscita Di gloria e di polvere. Poesie 1957-2007, raccolta antologica comprendente anche testi inediti che ci permette di seguire il suo intero percorso lirico, fatto di meditazione, di racconto di una vita, di scavo dentro l’essenza delle cose.

Autore di una pièce (Addio, figliol prodigo, 1975 - Radiodue 1983) e di saggi su rivista e in volume (Blixen, Campana, Giuliotti, Grandes, Greer, Holz, Jelinek, Sanminiatelli, Zahavi), ha scritto racconti (Santi all’inferno, Il Cenacolo 1960) e due romanzi (La signora del gioco, Cesati 1984 e Magenta Petrel, Mondadori 1990). Una fiction, Effleurage, è uscita presso la Gehenna Press di Boston nel 1989. Nel 2013 ha pubblicato da Aragno La cena è alle otto, un originale libro-mosaico su quindici storie di donne che si intrecciano con echi e ritorni dei personaggi.

Qui di seguito pubblichiamo due inediti. In riva al Sile gioca sul rapporto tra poesia e metapoesia con quel “verso buttato giù sul retro dei minerva”, che si rivela un improvviso flash per il tu interlocutore e provoca una meditazione e una sosta nel giro della memoria. Una storia allora affiora, asseconda il fluire della corrente mentre “la chiatta ritrova la sua scia”, pur in uno spaesamento dei punti di vista. Per lui per lei inizia in medias res e mostra una tenuta sintattica solida che insegue le volute del ritmo e le blocca in rime improvvise, vere colonne portanti del discorso. Si tratta di un racconto in versi con un tu e un egli che si alternano in una vicenda d’amore dove quel “chissà”, isolato nella seconda parte del testo, concentra in sé tutta l’incertezza di una possibile risoluzione.

elenA sAliBrA

26 Soglie, anno XV, n. 3

Mario Graziano Parri

In riva al Sile

Quei due versi buttati giù sul retrodei minerva, improvvisa scintillaper questo cuore che troppo prestoavvampa, una frase un’immagine utile più tardi o è qualcosa che batte e ribatte alla memoria?

Una sosta nel premeditato giro à reboursil tuo o solo un pretesto? Il passatonon muore e nemmeno passa. Ritirato nell’ombra dei saliciin quell’errare del settembreuna voce ti sorprende, un cantoriporta una storia, la credevi lasciatain un libro di fretta richiuso e inveceecco, si fa largo e cade ancheil confabulare del vento come se tuttonon fosse che attesa d’ascolto.

Il messaggio esige una rispostama non ti vengono parole, là oltre il fiumela ragazza si affaccia a una finestrache non è quella che tu guardie sul filo della corrente la chiatta ritrova la sua scia.

[settembre 2013]

Soglie, anno XV, n. 3 27

Nell’ora che trema

Per lei, per lui

Potresti dirlo un avanzo di favola questo feeling mai andato a segno. Il biglietto(perché non ci vediamo?... uno di questi giorni passidal mio ufficio) era stato una scossa, leiti aveva dato una mano in passato, una questionedi pratiche ferme in un cassetto. Al dunque peròmai più in là dello spuntino in pausa pranzo. Il suo corpoaveva un certo piglio, come un proponimento di sé. Aspettava forse l’input, il fiore spavaldo gettato ai piedi e tu intanto spiavi un appiglio magari dallo scollo che si allenta lo sgusciare di un seno della tinta finedel giglio, un segnale insomma da ambedue incrociato a trasgredire l’impacciato iter e che sotto un pergolato d’amorevi traesse nell’ora che trema di tenerezzaa cui ci si abbandona perché da quel punto in là colorato avrebbe i giorni che il domani invece ha perduto...

chissà

in sottintesi pensieri, schermati i suoi nel guizzo degli occhi (azzurrite o verde-malachite?... probabilmente castani) dove la fantasia del poteva essere è il tratto nostalgico della vita, e i tuoi con la malinconia di un inadempiuto sogno che avanti fugge e nello stesso tempoarretra. Perché niente può accadere che non sia ormai accaduto.

[novembre 2013]

Soglie, anno XV, n. 3 29

Marzia Minutelli

“effimera ghirlanda” di una poetessa dimenticata:dodici liriche di Rina Pellegri

Profilo minimo della “PellegRina”

Rina Pellegri nasce ad Àrcola, nell’estremo Levante ligu-re, nel 1903, a un anno appena dalla tragedia familiare che ne inciderà indelebilmente l’esistenza: la morte simultanea, per meningite, di tre dei suoi cinque fratelli (Rina, Flavio e Ugo), della “più pianta” dei quali la bimba viene salutata dalla madre, che gliene impone il nome, come prodigiosa reincarnazione; ciò che precocemente alimenta nella secon-da Rina un oscuro senso di imperfezione che la porterà per sempre a sentirsi la metà “dispersa” di un’entità ultraterrena. Maestra elementare dal 1927 nel borgo fluviomarino di Bocca di Magra più tardi illustrato dai soggiorni estivi di segnalati esponenti dell’intellettualità in-ternazionale, nel 1937, per intervento del Ministro dell’Educazione nazionale Bottai, che da tempo ne apprezzava militanza fascista e talento poetico (del 1928 la stampa della silloge d’esordio – presto disconosciuta – Frulli d’ala, del 1933 quella di Musiche d’acque e dell’anno successivo quella di Fiori sulla sabbia), è comandata a Roma presso la Direzione generale per la propaganda del Ministero per la Cultura popolare, dove, sotto l’egida di Francesco Guerri, abbraccia la causa dell’“isola persa”, dando in luce, nel 1939, i Vespri còrsi. Nella capitale consolida una già avviata attività di pubblicista, moltiplicando le collaborazioni, con articoli di varia, recensioni e novelle di consumo, alle terze pagine di quotidiani e periodici (soprattutto Il giornale d’Italia e il suo supplemento domenicale La voce d’Italia, Il Piccolo, poi Il giornale di Sicilia) e redigendo testi per l’EIAR. Soppresso nel 1944 il dicastero, dopo un periodo di ozio coatto e di ristrettezze economiche, viene integrata nel dopoguerra nel neoistituito Sottosegretariato per la stampa e lo spettacolo. Il travaglio spiri-tuale di quegli anni rovinosi, ulteriormente funestati da un aborto spontaneo e dalla scomparsa dell’amatissima madre (1943) e del fratello Gino (1949), ne rinsalda la fede religiosa, originando la raccolta di rime Àncore e vele (1950). Tra il 1952 e il 1953 cura trasmissioni radiofoniche culturali per la RAI, e, ratificato l’inconcutibile lealismo sabaudo con l’iscrizione al PNM, consacra nel 1956 all’amico senatore Raffaele Paolucci di Valmaggiore, già presidente

30 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

dell’Unione monarchica italiana e ora del Consiglio nazionale del partito, la monografia Il vessillifero della bianca croce, seguita negli anni successivi da interventi (perlopiù rievocazioni di personaggi di casa Savoia) apparsi sulle colonne dell’organo monarchico Il corriere della nazione e, dal 1960, sul setti-manale di azione politica La rivolta nazionale. Una sempre più acuta nostalgia del paese nativo le ispira le prose memoriali Richiamo da una stella (1959) e, insanabilmente incrinatosi il rapporto con il rumenista Raoul Lucidi, spo-sato nel 1942, la spinge a legarsi d’amitié amoureuse al conterraneo Antonio Del Santo, ispettore a riposo del Ministero del Tesoro e cultore di antiquaria e poesia. Frutto di quel sodalizio d’arte e di vita è, nel 1965 (l’anno stesso delle seconde nozze), la plaquette lirica Canto a due. Nel 1966 i coniugi lasciano de-finitivamente Roma per la Lunigiana, dividendosi tra Sarzana, dove risiedono, e la finitima Àrcola, sede di lunghe permanenze estive. Il rimpatrio coincide per Rina con un periodo di rinnovato fervore: torna al giornalismo letterario, colla-borando con svariate testate regionali (Liguria, Arte Stampa, Ponente d’Italia); pubblica Le predilette, una selezione-rivisitazione della propria produzione in versi (1969), sùbito tradotta in Francia; riceve l’omaggio di un volume critico collettaneo intitolato alla sua figura di scrittrice (1970). Poi l’estrema sciagura: l’antivigilia di Natale del 1971 il marito muore travolto da un’auto, mentre è in bozze Miracolo d’amore a rate, l’ultimo suo libro di narrativa, che esce co-munque all’inizio dell’anno successivo. Trasferitasi alla Spezia, la Pellegri si spegne, dopo breve malattia, nel 1975.

L’eclissi

Comprensibilmente ignorata, come del resto ogni altra presenza muliebre – con una fioca e parziale eccezione per Amelia Rosselli e Antonia Pozzi –, nelle antologie liriche più autorevoli e fortunate del nostro Novecento (Sanguine-ti, Mengaldo e Ossola-Segre), rigorosamente declinanti al maschile il canone poetico da deversare ai supini florilegi di destinazione scolastica,1 la Pellegri

1 Il riferimento è, naturalmente, ai due volumi einaudiani degli “Struzzi” Poesia italia-na del Novecento, a cura di E. Sanguineti, Torino, 1969, non contemplanti alcuna donna; al “Meridiano” Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, che annovera la Rosselli, e al “Tascabile” in due tomi Antologia della poesia italiana. Novecento, diretta da C. Segre e C. Ossola, Torino, Einaudi, 1999, in cui, oltre all’autrice di Documento, viene compresa la Pozzi. La più generosa selezione di rimatrici coeve (otto) mi risulta essere offerta da un altro “Meridiano”, Poeti del secondo Novecento. 1945-1995, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano, Mondadori, 1996 (nuova edizione arricchita in 2 voll.: “Oscar”, 2004). Per una recensio accurata, ma di necessità incompleta, delle miscella-nee liriche pubblicate nel XX secolo nella penisola rimando a N. Scaffai, “Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia italiana (1903-2005)”, in Paragrafo, I, 2006, pp. 75-98.

Soglie, anno XV, n. 3 31

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

manca altresì all’appello, per tacere dei meno noti,2 nei tre principali repertorî italiani espressamente dedicati alle scrittrici in versi del secolo breve: il frugale apripista Poetesse del Novecento, ultimo titolo del catalogo All’insegna del Pe-sce d’Oro imbandito nel 1951 dal milanese Giovanni Scheiwiller, con la regia occulta di Montale e di Maria Luisa Spaziani, prima di passare il testimone al figlio; La poesia femminile del ’900, procurato da Gaetano Salveti nel 1964 per le Edizioni del Sestante di Padova, che, rispetto al precedente, oltre a quello di una più lauta cernita documentaria, ha l’ulteriore merito – tutt’altro che irrisorio per l’epoca e, duole dirlo, ancora di questi tempi in cui si fa un gran parlare, con risibile trivialissimo neologismo, di “quote rosa” – di riconoscere l’incongruità della categorializzazione, postulante un’implicita gerarchia di qualità artistica su base biologica (“Una antologia della poesia femminile è senza dubbio un non-senso, una erronea interpretazione non solo del valore della poesia, ma della stessa natura umana” [p. 7]), e, patentemente informato all’engagement postsessantottino – uscì infatti presso i tipi romani del Savelli, referente eletti-vo della sinistra extraparlamentare –, Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi, allestito nel 1976 da Biancamaria Frabotta con una nota critica di Dacia Maraini. A fortiori esclusa dal rotariano regesto, di respiro addirittura ecumenico, delle ospiti accolte nella crestomazia mondadoriana dal titolo, equivoco e inflazionato se altri mai, L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento, licenziata per le industrie congiunte di Paola Mastrocola e di Guido Davico Bonino nella collana degli “Oscar” nel 1996 (e ivi riproposta nel 2010, in versione aumentata), l’autrice arcolana si cercherebbe invano anche nei ginecei cartacei nazionali allargati ad altri settori d’attività culturale,3 con l’unica segnalata eccezione, a quanto mi consta, di

2 Cfr. almeno Poesie d’amore. L’assenza, il desiderio. Le piu importanti poetesse italia-ne contemporanee presentate da trentasei critici, a cura di F. Pansa e M. Bucchich, Roma, Newton Compton, 1986; Donne in poesia. Incontri con le poetesse italiane, a cura di M.P. Quintavalla, Milano, Centro Azione Milano Donne-Comune di Milano, 1988 (seconda serie: Udine, Campanotto, 1992); Le donne della poesia. Oltre il femminile, a cura di D. Cara, Ca-stelbolognese, Laboratorio delle arti, 1991; Tanto gentile. Antologia di poesia al femmminile, a cura di D. Attubato, Potenza-Milano, Il salice, 1991.

3 Non figura, ad esempio, in Il “Chi è?” delle donne italiane. 1945-1982, a cura di M. Ceratto e A. Girotti, Milano, Mondadori, 1982; in Autrici Italiane. Catalogo ragionato dei libri di narrativa, poesia, saggistica. 1945-1985, a cura di M. De Leo, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri [Istituto poligrafico e Zecca dello Stato], 1986; in Atlante della letteratura al femminile: l’anima dell’altra metà del cielo, a cura di E. Pigozzi e S. De Pretis, Colognola ai Colli, Demetra, 1998; in Italiane, a cura di E. Roccella e L. Scaraffia, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri [Istituto poligrafico e Zecca dello Stato], 2004, 3 voll., né – trascuranza più sintomatica – in Donne nella letteratura italiana: narratrici liguri del Novecento, a cura di P.A. Zannoni, presentazione di L. Basso, Genova, SAGEP, 1985.

32 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

un paio di datate compilazioni a opera dell’editore milanese Mario Gastaldi: il “panorama della letteratura femminile contemporanea” Donne luce d’Italia, nella “nuova edizione aggiornata a tutto il 1936”, e il Dizionario delle scrittrici contemporanee, redatto nel 1957 in collaborazione con Carmen Scano.4 Una voce, insomma, irrimediabilmente tacitata quella della “rondinella di Bocca di Magra” – giusta il lezioso ma non impertinente appellativo di cui per tempo la fregiarono gli estimatori di Liguria e di Toscana – o meglio – come l’interessata stessa usava designarsi concrezionando, a sempre irundinea ma più disamena significazione di un estenuante destino viatorio, i costituenti del suo nominativo – della “PellegRina”;5 eppure la poetessa affidava le sue sillogi a case editrici provinciali ma non necessariamente di retroguardia, dai cui torchi esitavano nel contempo opere destinate a più durevole fama (come la genovese Emiliano degli Orfini, che nel 1938 teneva a battesimo gli esordî lirici di Giorgio Caproni, o i Quaderni della rivista senese Ausonia, vergati dalle bastantemente quotate penne di Corrado Govoni, Lionello Fiumi, Auro d’Alba, Elpidio Jenco, Giulio Cogni, Claudio Allori, Giuseppe Villaroel), e coltivava contatti e frequentazioni con un’articolata schiera di letterati della penisola tra i quali, oltre alle personalità appena elencate, Aldo Capasso, Vincenzo Cardarelli, Ettore Cozzani, Francesco Flora, Giuseppe Lipparini, Ada Negri, Edvige Pesce Gorini, Pietro Pancrazi, Ettore Serra, Trilussa, che in buon numero la onorarono di benevoli apprezzamenti. Certo sul suo oscu-ramento nei decennî seguenti il secondo conflitto ebbero un cospicuo peso

4 Il primo dei due prospetti uscì nel 1936 (19301) presso la casa Quaderni di poesia diretta dal Gastaldi (il medaglione della Pellegri è alle pp. 739-740, la foto sopra riprodotta nella tavola lxxii), il secondo – in realtà la iv edizione ampliata dell’opera precedente –, con il parentetico sottotitolo Arte, Lettere, Scienze, presso lo stesso curatore-editore (a p. 153 è una telegrafica informazione sulla poetessa, nella tavola 34 una sua foto). Alla scrittrice vengono anche riservati un esiguo spazio nell’Enciclopedia biografica e bibliografica “italiana” diret-ta da A. Ribera, s. vi, Poetesse e scrittrici, a cura di M. Bandini Buti, II, Roma, Tosi, 1942, pp. 120 (ritratto) e 121; appena una menzione in L. fiuMi, Giunta a Parnaso. Saggi e note su poeti del secolo XX, Bergamo, La Nuova Italia Letteraria, 1954, p. 198, e qualche cenno in S. verdino, “La cultura tra le due guerre”, in La letteratura ligure. Il Novecento, Genova, Costa & Nolan, 1988, I, p. 346 (cfr. pure, ibidem, “Bibliografia”, II, p. 414).

5 Arduo stabilire la paternità – svariati furono infatti gli elzeviristi e i recensori di scritti pellegriani che lo adottarono, corredandolo o meno di specificazione topografica – del primo agnomen; su quello autoimposto (esiste anche un pregevole ex libris dell’incisore Giulio Cìsari, riprodotto nell’occhiello delle Predilette, ritraente una rondine in volo, che lo riporta) agisce evidente la memoria dell’eponima, romanticamente segnata da irrequietezza e malin-conia, della ballata grossiana Rondinella pellegrina, un testo che, sforbiciato dal romanzo Marco Visconti, conobbe, variamente musicato, un’autonoma larghissima popolarità durante il Risorgimento.

Soglie, anno XV, n. 3 33

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

non solo e non tanto la pregressa ossequienza al regime, condivisa con la stragrande parte dell’establishment intellettuale indigeno (dell’infanda espe-rienza irredentistica dei Vespri còrsi era stata la titolare medesima a preoccu-parsi a tempo debito di occultare i vestigi), sibbene soprattutto i suoi pervicaci trasporti filomonarchici (il consapevole passo falso del “ritratto psicologico” del tetragono alfiere del trono Raffaele Paolucci) che, se a occhi posteri ne evidenziano la coerenza vergine di codardo oltraggio, all’epoca le preclu-devano, quale fautrice dell’anacronistico ideale di un’élite in declino, molte strade di largo e proficuo transito. In misura ancora maggiore, tuttavia, delle posizioni passatiste in politica, la Pellegri pagò il fio del suo conservatorismo poetico, risolutamente impermeabile ai tanti “ismi” imperanti in quegli anni: assicurata fin dai primi esperimenti a quello che un altro irriducibile arretrato, quantunque di ben diversa statura artistica, definì “il filo d’oro della tradi-zione italiana”6 nel tentativo di conciliare magistero classico e autenticità ispirativa, la rimatrice venne infatti involta nella damnatio memoriae toccata al movimento letterario nelle cui scelte estetiche e ideologiche credette di po-tersi riconoscere, che, minoritario e marginale nella considerazione della cri-tica ufficiale e nella connessa macchina reclamistica già all’atto della nascita negli immediati dintorni bellici, appare oggi vieppiù negletto da svogliati ad-detti ai lavori che, senza darsi pena di procedere al dissodamento di incolti eventualmente ingrati, persistono a torpidamente convogliare i loro esercizî in solchi esegetici già scavati a sufficienza. Mi riferisco, naturalmente, a quel “realismo lirico” di cui la pratica compositiva pellegriana venne salutata dal Capasso – teorico e capofila, con lo Jenco e il Fiumi, dell’indirizzo, nonché direttore dell’omonimo periodico – come un esempio emblematico; a quella “terza corrente” (l’“ausonismo” di Luigi Fiorentino, profilato all’orizzonte di Àncore e vele, non ne rappresenta che una variante, appena anticipata, parti-colarmente pugnace)7 le cui umanistiche istanze di limpido equilibrio tra res e verba, lungi da speciose esibizioni di modernità, finirono inesorabilmente

6 u. Saba, “Ai miei lettori”, prefazione all’edizione del 1921 del Canzoniere (in id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2001, p. 1129).

7 Ausonia inaugurò le pubblicazioni nel 1946 (nel primo numero dell’anno successivo si legge il “manifesto” programmatico dell’“ausonismo”), mentre la Lettera aperta ai poeti italiani sul realismo nella lirica, ossia la dichiarzione di poetica che diede decisivo avvio al movimento propugnato da Capasso e compagni, fu resa nota nell’Agosto del 1949 sulle rivi-ste Pagine nuove di Roma e Il sentiero dell’arte di Pesaro; seguirono quindi la fondazione, nel 1951-1952, del bimestrale napoletano Realtà, di cui Fiumi fu, con Renato Cannavale, l’ideatore e il principale animatore, e, nel 1953, quella del bimestrale fiorentino-milanese Realismo lirico, organo riconosciuto della corrente.

34 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

compresse tra le tanto più civilmente impegnate proposte neorealiste, orienta-te su forme epico-cronachistiche di rappresentazione corale di cruda prosaici-tà, e l’autoreferenziale trobar clus dell’epigonato ermetico, con i riconosciuti paradigmi del quale – la “lirica pura” del primo Ungaretti e l’essenzialismo montaliano degli Ossi – i cosiddetti “capassiani” furono nondimeno dichiara-tamente solidali per soluzioni espressive (basti riflettere alla predilezione per la parola prosciugata e la stilizzazione del segno, mai tuttavia disgiunta da un’intenzione di trasparenza e di concinnità che rinvia alla lezione giappone-se dei tanka e degli haikai, assiduo oggetto di studio e di traduzione da parte degli apostoli della tendenza). Ma temperamento di poeta è innegabilmente, nel pur esile spessore, Rina Pellegri e sembra doveroso guardare oggi alle sue rime sine ira et studio, perché “da lontano” – per lasciare la parola alla diretta interessata – “son più giusti i rapporti delle cose”,8 decantati dalle polemiche e dai settarismi del contingente. È appunto in tale ottica prospettica di serena equanimità che viene offerta alla considerazione dei lettori questa “effimera ghirlanda” di versi, secondo l’autrice stessa ebbe con fin troppo esatta profe-zia a qualificare le Predilette nell’esergo alla senile autoantologia. L’itinerario creativo della poetessa si documenta cronologicamente, trascegliendo i titoli – per forza di cose contatissimi – parsi, al giudizio fatalmente soggettivo della sottoscritta, meglio rappresentativi delle sue sei sillogi liriche (donde l’omissione di campioni da quella bolsa epitome di storia isolana che sono i Vespri còrsi). Ogni testo è preceduto da un cappello introduttivo e da un ragguaglio metrico e corredato da note esplicative e filologico-critiche nell’intento di restituire quell’esperienza artistica al precipuo contesto biografico e alla temperie letteraria e, più latamente, storico-culturale da cui prese forma.9

8 Cfr., infra, Voglio che il tempo passi…, vv. 10-11.9 I versi e le prose di Rina Pellegri sono qui riprodotti di sulle seguenti edizioni, indicate nel

commento mediante una sigla: Frulli d’ala. Rime, Aulla, Tipografia F.lli Mori, 1928 (FA); Mu-siche d’acque, Genova, Emiliano degli Orfini, 1933 (MA); Fiori sulla sabbia, Como, Cavalleri, 1934 (FS); Vespri còrsi, con presentazione di F. Guerri, Livorno, Edizioni di Corsica antica e moderna [Officine grafiche Chiappini], 1939 (VC); Àncore e vele, Siena, Quaderni di Ausonia, 1950 (AV); Richiamo da una stella, con presentazione di F. Sapori, Sarzana, Carpena, 1959 (RS); r. Pellegri-A. del Santo, Canto a due, Sarzana, Carpena, 1965 (CD); Le predilette, Sa-vona, Editrice Liguria [Sabatelli], 1969 (Pr); Miracolo d’amore a rate, ivi, 1972 (MAR). L’usus scribendi autoriale è stato, naturalmente, rispettato anche nelle sue peculiarità grafiche, diacriti-che e interpuntive, così come le convenzioni tipografiche delle varie stampe, da cui mi sono di-scostata solo per l’uso degli accenti acuti e gravi, adeguati alle consuetudini ortofoniche vigenti (ché, perché e poiché in luogo di chè, perchè e poichè; né in luogo di nè; sé in luogo di sè, etc.).

Soglie, anno XV, n. 3 35

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

Da Frulli d’ala (1928)

Congedo

Conforme al titolo della raccolta (pascoliano, almeno in potenza, atteso il figurare del pur cristallizzato sintagma “frulli d’ale” nel secondo dei quattro madrigali dell’Amorosa giornata [v. 13] di Poesie varie), che, nella dimensione ornitosimbolica caratteristica dell’immaginario pellegriano, ne denuncia a chiare lettere la natura conativa, l’io lirico confessa, in linea con il componimento d’apertura, Timida prova, la propria perdurante inadeguatezza artistica, e lo fa con un omaggio sbarazzino che suona di confidente augurio: una strofetta di canto popolare evocante fin dall’intestazione lo stornello posto a suggello di Rime e ritmi (“Fior tricolore,/ tramontano le stelle in mezzo al mare/ e si spengono i canti entro il mio core”). A onta dell’esibito “maestro d’elezione” concittadino Ettore Cozzani, Carducci rappresenta, infatti, assieme al poeta di San Mauro (svariate le cadenze di stornello intarsiate nei versi di quest’ultimo, da Sera d’Ottobre di Myricae [v. 8] alla Vendemmia dei Nuovi poemetti [I, vv. 7-9, 16-18, 25-27, 35-37], dal Sogno di Rosetta di Odi ed inni [vv. 79-83, 106] a Castanea dei Carmina [vv. 44-56, 84-94]), il più operante nume tutelare dell’apprendista rimatrice, in ragione anche della natura eminentemente agreste della sua musa. Metro: lo schema è quello, già carducciano, più vulgato tra quanti previsti per lo stornello: a un verso d’apertura di lunghezza variabile – solitamente, come qui, un quinario – contenente l’invocazione a un fiore (da cui l’alternativo nome di fiore imposto alla forma poetica) fanno séguito due endecasillabi, il secondo dei quali rimante con il verso iniziale (da segnalare la rima al mezzo bello-quello tra i vv. 2 e 3).

Fiore di moravoglio donarti il canto mio più belloche è quello che non ho cantato ancora.

La Spezia, 19 Maggio 1928.

1 Fiore di mora: patente rinvio intratestuale all’explicit della lirica Sera, nella medesima silloge: “da i campi, all’aere intona una fanciulla:/ Fior di giaggiolo...”, a sua volta supinamente echeggiante la chiusa della saffica pascoliana Sera d’Ottobre: “nei campi intuona una fanciulla al vento:/ Fiore di spina! ...” (un’eventuale suggestione vicaria si individuerà, ancora in Myricae, nel frammento di canto marchigiano ospitato nell’ultima quartina del madrigale Lavandare).

Da Musiche d’acque (1933)

Musiche d’acque

Testo eponimo della raccolta, ne enuncia in limine la tematica essenziale: il “dono” (v. 8) compensativo del canto, generato da una compressa angoscia esistenziale, consente solo – per la sua facoltà di trasfigurare la desolata realtà circostante – di “perdonare alla vita”

36 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

(v. 11). Compare qui un’equazione esemplare della mitologia naturalistica pellegriana: il “ghiacciaio” dell’incipit, che dimoia in ruscelli sonori, funge da correlativo al chiuso “travaglio” (v. 4) del cuore del poeta, da cui pure rampolla una superstite vena melica (similitudine senz’altro convertita in metafora ai vv. 13-14 dell’ultimo pezzo della silloge, denominato appunto Congedo alle Musiche d’acque: “Versi, musiche d’acque,/ scendeste dai ghiacciai”). Alla concezione del componimento concorrono quantomeno due patroni, che rappresentano gli auctores alla cui ombra si ripara la seconda stagione lirica dell’autrice: il Pascoli di Myricae con Viole d’inverno (cfr. i vv. 13-20: “Ah!... ma, poeta, non ancor nel pio/ tuo cuore è l’onda che discioglie il gelo?/ non è la polla, calda nell’oblio/ freddo del cielo?/ Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura,/ se l’odio altrui ti spoglia e ti desola,/ spunta, al tepor dell’anima tua pura,/ qualche vïola”) e, soprattutto, lo Jenco di Acquemarine con Assolo (cfr. i vv. 5-8: “vorrei che, dai silenzi del mio sogno,/ puro fluisse e solitario il canto,/ come vena di sgelo che dirocci/ dai ghiacci bianchi agli stellati blu”).

È questo il solo titolo della Pellegri ad aver conosciuto l’onore di un generoso stralcio entro un profilo storico-critico della poesia ligustica contemporanea – non figura però nella tarda autoantologia di Pr –: i due primi movimenti si leggono infatti in S.verdino, op. cit., p. 346.

Metro: tre strofe, composte la prima e la seconda rispettivamente di tre e di quattro (il terzo è sdrucciolo) settenarî, l’ultima di tre endecasillabi e un settenario (schema: abcabdcEFGf [tra il v. 1 e il v. 4 si dà una quasi rima a enfatizzare il nesso tra i due poli del paragone]). Compatto e suggestivo l’ordito di assonanze e consonanze (notevoli la sequenza di rime al mezzo imperfette dei vv. 6-7: deserti-verdi-palmeti e la rima inclusiva dono-perdono tra i vv. 8 e 11, di capitale rilievo semantico).

Come il fermo ghiacciaiocola in musiche vivetra stupore di greti,

si svena il mio travaglioin fluir di sorgive 5che i deserti smiracoladi verdi di palmeti.

Per questo dono di dolcezza grande, di tutta l’amarezza che ho inghiottitae che m’aveva raggrumato il cuore, 10io perdono alla vita.

1-3 Come ... greti: la strofe introduce il primo termine della comparazione su cui è costruita la lirica: il ghiacciaio che a primavera si scioglie (cola), aumentando la portata e dunque la rumorosità dei torrenti (le analogiche musiche vive) da esso alimentati. Si rilevi, nella nota antropomorfica dello stupore dei greti, meravigliati dall’improvvisa abbondanza d’acqua, il ricorso all’espediente retorico, di inequivocabile gusto decadente-pascoliano, della nominalizzazione dell’aggettivo (identico procedimento al v. 7: “verdi di palmeti”).

4-5 si ... sorgive: luoghi paralleli in Preghiera di FS, vv. 1-3: “[...] lo sai/ da quale grumo duro si dirocci/ questa mia vena”, e – più prossimo anche lessicalmente – in Porto nella redazione di AV, vv. 6-7: “Un affluir di melodie mi prende,/ sale a svenare il cuore”.

Soglie, anno XV, n. 3 37

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

4 si svena: ‘si effonde’ (conforme al senso estensivo del verbo: ‘far sgorgare una vena acquifera dal sottosuolo’). Sensuoso mot-clé circonfuso da misticheggianti armoniche cateriniane, irraggiamenti barocchi (Marino, Lubrano), librettistici e foscoliano-dannunziani, nell’impiego metaforico del quale è comunque patente il suggello dello Jenco (cfr. il “cielo/ svenato” dell’explicit di Abbracci, nei Poemi della primalba), svenare punteggia l’intero tessuto poetico pellegriano a partire da questa silloge, dove ritorna in Stupore, vv. 10-11: “Svenato di musiche/ il cuore” (in FS occorre nell’Ospite notturna: “e si svena ogni foglia del suo verde” [v. 5], in Sensualità terrestre: “si svena [il cielo] ad irrorarla [la terra]” [v. 5] e in Vele: “Un’anima è di voi [le vele]/ ciascuna,/ nei tramonti di sangue:/ che si svena di tinte sopra l’onde” [vv. 7-10]; in AV nei versi di Porto riprodotti nella nota precedente, in Castità lunare [v. 4, identico al v. 5 dell’Ospite notturna] e in Creazione: “E quando […] tutto/ il cuore s’è svenato [...]” [vv. 18-19]; in CD in Colloquio all’incontro: “e svenavano il cuore dolci pianti”, “fu lo svenarsi/ in me, musiche d’acque, di ignorate/ polle sorgive [...]” [vv. 22 e 37-39]; in Pr in Porto [vv. 8-9, identici ai vv. 6-7 di Porto di AV], in Creazione [vv. 18-20, poco diversi dai vv. 18-19 di Creazione di AV] e nella Poesia: “Un fiato lieve, come/ un respiro di fiori, mi disvena/ grumo d’attesa in consolato pianto” [vv. 15-17]). travaglio: ‘pena’ (è parola ‘tecnica’ della nostra tradizione poetica a indicare il “male di vivere”: cfr., ad es., la “travagliosa” “vita” leopardiana di Alla luna, vv. 8-9, o appunto la montaliana “vita e il suo travaglio” di uno degli Ossi più precoci: Meriggiare pallido e assorto, v. 15).

5 sorgive: ‘sorgenti’ (qui a indicare le scaturigini del canto). Ancora un lemma mutuato dal vocabolario jenchiano (“aggelata sorgiva” è in Verginità di Essenze, v. 6), di cui l’autrice si vale, con assai minor moderazione del suo “maestro”, sia come sostantivo che come aggettivo (cfr. in questa raccolta “le melodie sorgive” di “Ecce ancilla...”, v. 5; in FS “il pullulare/ d’una sorgiva” di Dopo, vv. 4-5; la “sorgiva pura” di Estiva, v. 10, e le “innumeri sorgive” di Resurrezione, v. 8; in CD le già citate “polle sorgive” di Colloquio all’incontro).

6-7 che ... palmeti: è qui espresso il motivo, di matrice eminentemente pascoliana (cfr., nella sezione miricea delle Gioie del poeta, Il mago, Il miracolo e Contrasto), della poesia come strumento di consolatoria trasfigurazione del reale. L’immagine del deserto viene immediatamente evocata anche dal titolo della terza raccolta della Pellegri, Fiori sulla sabbia (definiti proprio “ciuffi di deserto” nella dedica ai genitori), il cui testo eponimo si configura come una – poco riuscita – variazione sul tema di questo.

6 smiracola: ‘sbalordisce’. Il raro toscanismo, anch’esso trafugato dall’estroso lessico del primo Jenco (cfr. la “coda smiracolata di pavonessa bianca” dell’alba al v. 13 di Rugiada, nei Poemi della primalba), è qui usufruito con modico spostamento di significato – propriamente equivale a ‘strabiliare per cose banali’ – e arditamente sottolineato dalla collocazione in clausola proparossitona, in pendant con lo stupore del v. 3: come i greti, anche i deserti sono investiti di sentimenti umani, incantandosi al subitaneo frondeggiare di fantastiche oasi (gli allitteranti “DI verDI DI palmeTI” del verso seguente).

9 inghiottita: vieto l’impiego metaforico del verbo: ‘sopportata’ (topica la compresenza antitetica – che la rima comunque vale ad attenuare – di amarezza e dolcezza [v. 8]).

10 e ... cuore: cfr. in Congedo alle musiche d’acque, v. 20: “un cuore raggrumato dalla pena”. raggrumato: ‘indurito’ (si dice anche dell’azione del ghiaccio). Il vocabolo ricompare nel passo della prosa memoriale RS in cui la Pellegri descrive in terza persona, quasi parafrasando questi versi, la genesi della sua vocazione: “L’orizzonte incomparabile [quello della foce del Magra] riuscì a sgelare i raggrumati ghiacciai della sua inconscia vena di poesia, e le “Musiche d’acque” diedero l’avvio al suo sempre insoddisfatto bisogno di canto” (p. 100). Motivi e stilemi del presente testo torneranno, a distanza di oltre trent’anni, nel componimento-consuntivo Colloquio all’incontro di CD (cfr i vv. 19-22: “un fiato lieve come/ un respiro di fiori, ammorbidiva/ l’arido grumo di mia dura pena/ e svenavano il cuore dolci pianti” [poi rifluiti e variati nei vv. 15-17 della Poesia di Pr riportati nella nota al v. 4], e i vv. 37-39: “fu lo svenarsi/ in me, musiche d’acque, di ignorate/ polle sorgive [...]” [“grumo di pena” è sintagma jenchiano di Uomo, in Cenere azzurra, vv. 2 e 7]).

38 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

Preghiera

È questa, da non confondere con gli insipidi versi omonimi di FS, una delle cose più fresche e aggraziate – di una grazia che verrebbe da definire saffica – della raccolta e, probabilmente, dell’intero corpus lirico pellegriano (di tale, relativa, eccellenza era conscia l’autrice, che nondimeno, includendo il componimento nella senile crestomazia di Pr, lo rimaneggiò a segno da snaturarlo). Il motivo, paganeggiante solo in potenza, della compenetrazione del poeta con la sostanza vegetale (le successive metamorfosi in “fiore” [v. 1], in “frutto” [v. 5] e in “foglia” [v. 7] sono, la prima, distesa nell’intera strofe incipitaria, le altre due concentrate nella seconda) si fonde con armoniosa semplicità, esaltata dall’umiltà dei referenti, con quello tutto cristiano della preghiera – precisamente una preghiera di domanda –, di cui il testo riproduce anche la strutturazione anaforica (da segnalare che la triplice invocazione al Signore [vv. 1, 5 e 7], variata all’ultima occorrenza da un possessivo che ne marca la trepida carica affettiva, scompare nella redazione del ’69, destituendo di senso il titolo stesso della lirica). Metro: due quartine di endecasillabi, su schema ABCB (nella prima le assonanze tra falciare e biade al v. 3 e tra celeste ed esse al v. 4 sortiscono due rime al mezzo imperfette; nella seconda analogo fenomeno produce la consonanza melagrano [v. 5]-corona [v. 6]). La compagine formale, assai sapiente e controllata, si segnala per effetti melodici di insolita ricchezza.

Se son fiore, o Signor, fate che siafiordaliso in un folto oro di messe,sì che al falciare delle estreme biade,m’arrovesci celeste insieme ad esse.

Se son frutto, o Signor, del melagrano 5datemi la corona; ma se il suolomi vuol foglia che cada, o mio Signore,donate grazia al mio supremo volo.

2 fiordaliso: il fiore, debitamente contemplato nell’enciclopedico erbario pascoliano (“[...] e il fioraliso, ch’ha lo stelo/ sottile, porta il fiore suo più grande” [Il fiore, vv. 7-8, in Piccolo Vangelo delle Poesie varie]), è con ogni evidenza eletto in virtù della sua origine campestre, della modesta bellezza con cui punteggia le distese del grano maturo (l’analogico folto oro di messe, con la già rilevata nominalizzazione dell’aggettivo). Alla sua scelta, tuttavia, avrà forse concorso la memoria virgiliana di cui alla nota seguente. 3-4 sì ... esse: palmare la letteratissima suggestione del trapasso di Eurialo nel IX libro dell’Eneide (di cui la Pellegri doveva senz’altro ricordare anche l’imitazione ariostesca di Orlando furioso, XVIII, 153, relativa all’uccisione di Dardinello): “[...] inque umeros cervix conlapsa recumbit:/ purpureus veluti cum flos succisus aratro/ languescit moriens lassove papavera collo/ demisere caput, pluvia cum forte gravantur” (vv. 434-437). Proprio questo secondo paragone con il papavero, remoto situazionalmente, può avere ispirato l’identificazione con un fiore allignante tra il frumento (la similitudine giovane spirante-papavero, tra l’altro, figura pure nell’Iliade, VIII, 303-308 [morte di Gorgizìone] e, incrementata di viole e di gigli, nelle Metamorfosi ovidiane, X, vv. 189-195 [morte di Giacinto]). 3 estreme biade: ‘ultime messi’. 4 m’arrovesci … esse: la vividezza impressionistica dell’immagine – espunta, si badi, dalla

Soglie, anno XV, n. 3 39

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

ritestura di Pr – risulta dall’ardita inserzione, non richiesta dal senso e perciò eminentemente evocativa, della macchia cromatica (cfr. l’oro del v. 2), che il protratto gioco allitterativo mira a sua volta a esaltare (“M’arrovESci cElEStE iNSiEME ad ESSE”). 5-6 del ... corona: la scelta cade sul frutto di un’altra umile pianta – il melograno è tipico arbusto da recinzione contadina –, cui la tradizione letteraria ha nondimeno talora conferito patenti di nobiltà (da avvertire che già nelle età più remote svariate dee, a partire dalla Grande Madre, venivano effigiate con una melagrana in mano, ancipite emblema di fecondità e di morte, come pure, in epoca cristiana, la stessa Vergine): al “verde melograno/ da’ bei vermigli fior” dell’orto carducciano di Pianto antico (Rime nuove, XLII, v. 3) e alle domesticissime “siepi di melograno” del Pascoli (Patria, v. 13, in Myricae) fanno infatti riscontro l’aulico balausto di Vincenzo Monti (“Ecco schiuder dal seno i bei rubini,/ a Minerva e a Giunon pianta gradita/ e a Cerere cagion d’alto disdegno,/ il coronato melagrano” [Feroniade, I, vv. 202-205]) o quello sensualmente antropomorfo del D’Annunzio delle Laudi (cfr. il Ditirambo IV di Alcyone, vv. 136-141: “Oh giardino di spessi/ aromi, carco di cera e di miele,/ […]/ ove s’udia scoppiar la melagrana/ come un riso che scrosci e quasi mosto/ si liquefaccia in una bocca d’oro!”). La predilezione pellegriana per tale essenza, già affermata nel capitolo ternario Ciò ch’io amo di FA (“Amo questo mio fragile alberello/ di melagrano [...]” [vv. 19-20]), vedrà enunciate le sue – alquanto incongrue – ragioni in una lirica di FS, Il mio melagrano appunto. 6 corona: al monile il frutto è tradizionalmente assimilato per la forma dell’apice del suo esocarpo, costituito dai resti del calice florale (cfr., ad es., i versi montiani riportati nella nota precedente). 6-7 ma ... cada: l’immagine, come già quella del fiordaliso falciato, fissa la creatura vegetale nel momento del transito. Quest’ultimo voto si conforma con ogni evidenza a quello espresso da Ada Negri in Pensiero d’autunno, nella raccolta Vespertina (1930): “Fammi uguale, Signore, a quelle foglie/ moribonde [...]/ [...]/ Fa ch’io mi stacchi dal più alto ramo/ di mia vita, così, senza lamento” (vv. 1-2, 10-11; ma cfr. già i vv. 16-30 di Pioggia d’autunno, nelle giovanili Tempeste).

8 donate ... volo: la nota delicatamente femminile dell’auspicio finale consuona con quella che sigillava – sia pure con esiti di molto inferiori – un precedente testo di MA, Rugiada: “Signo-re, Iddio,/ se la mia notte/ un’alba avrà,/ del buio pianto/ fatemi bella come questo fiore,/ per chi mi guarderà”. Per il motivo dell’impareggiata leggiadria delle foglie cadenti cfr., infra, Foglie sul sagrato, vv. 6-8 e nota al v. 8.

“Talitha, Qumi”

Liminare alla sezione Incontri con l’esterno e primo elemento di un dittico (il secondo è La morte del cuore), il componimento assimila l’apertura all’“esterno” dell’anima del poeta, prodigiosamente riemersa da abissi di prostrazione, alla resurrezione a opera di Gesù dell’adolescente figlia di Giàiro narrata nei Vangeli sinottici. Tentando di coniugare la rarefatta dizione nipponizzante di apprendistato jenchiano, ma anche fiumiano e capassiano, con la lezione frammentistica del primo Ungaretti, non per nulla dedicatario del pezzo conclusivo della serie, il testo sembra plausibilmente ricercare una nuova innocenza anche nella parola, che rinuncia ad articolarsi in costruzioni complesse di periodo per esperire un linguaggio aurorale: la poesia è la prima voce salita “dal profondo” (v. 2) e pronunciata dalla rediviva, e la sua attonita verginità riflette il subitaneo ritrovarsi dell’io; ritmo e sintassi si frangono perciò in versicoli intensi, dalla sillabazione rallentata (ridondante, tuttavia, la dieresi a contrassegnare, ai vv. 1 e 4, nessi vocalici in iato), dove il termine può accamparsi isolato, a creare una patetica risonanza. Il denominatore del torpore immemore accosta la lirica a quelle dedicate al momento

40 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

del risveglio da Sandro Penna (La vita... è ricordarsi di un risveglio..., Nel sonno incerto sogno ancora un poco... e, soprattutto, Io vivere vorrei addormentato...), ma la prima raccolta a stampa del poeta perugino data al ’39: se non si vorrà accedere all’inverificabile ipotesi che la Pellegri abbia conosciuto a Roma, dove egli si trasferì fin dal ’29, il giovane ragioniere, gli juvenilia del quale rimontano al ’27, si dovrà pensare a coincidenze spontanee del sentire. Altro avanzabile – e stavolta flagrante – termine di paragone è lo Sbarbaro, peraltro modello dichiarato della rimatrice, di Svegliandomi il mattino, a volte provo... (Pianissimo era apparso nelle edizioni fiorentine della Voce fin dal ’14), i cui vv. 5-8 richiamano manifestamente, seppure nel contesto antipodale di un disgustato rifiuto della vita, la situazione qui descritta: “Il risveglio m’è allora un altro nascere;/ ché la mente lavata dall’oblio/ e ritornata vergine nel sonno/ s’affaccia all’esistenza curiosa”. Metro: versi liberi (ma saldando il primo al secondo si otterrebbe una doppia sequenza ottonario + settenario). Si notino le rime profondo-mondo, assonanti con rïaffioro, che rima imperfettamente con rumori, a sua volta legato per assonanza a occhi, e la consonanza trasognati-stupita. Esalta il gioco delle corrispondenze foniche il propagarsi per tutta la partitura del suono tremulo della -R-, a restituire la trepidazione della nuova nascita.

Rïaffiorodal profondocon occhi trasognati,e rïavverto stupitai rumori del mondo. 5

1-2 Rïaffioro dal profondo: a chiarire questi versi è il titolo aramaico della poesia, che campeggia pure in epigrafe alla sezione, mutuato da Mc 5, 41: “Et tenens manum puellae [Iesus] ait illi: Talitha, cumi; quod est interpretatum: Puella, tibi dico, surge”; nella lirica gemella La morte del cuore viene precisato che a richiamare la creatura alla vita è stato appunto il “grido taumaturgico” divino (v. 1). Il nucleo genetico del testo è comune a quello di Rinascita di FA (cfr. i vv. 5-6: “Il mio cuore fasciava, un plumbeo manto/ mortal d’oblio, ed ora in Tutto vivo”), di Io ti chiedo perdono o Primavera… in questa stessa raccolta (cfr., in particolare, i vv. 18- 26: “Sei giunta in tempo:/ hai da un pesco sgrondata/ rosea, sul sonno grigio/ che mi aggelava in un sopor di morte/ una, di cigli, lieve nevicata./ La meraviglia rosea m’ha incantata/ tra sonno e veglia…/ … un trillo d’oro sopra il capo, poi/ del tutto m’ha svegliata. Ed ho sorriso…”) e della Morte di FS (cfr., in particolare, i vv. 35-37: “Un attimo: ché parmi riaffiorare/ da profonde, gelate lontananze,/ e torpide [....]”, e quindi i vv. 1-5 di Morte come amore in Pr); ma il medesimo tema si riproporrà ancora, in termini omologhi, all’altezza di CD, in Destino di miracolo: “[...] riaffiorare/ da ciechi abissi,/ da lontananze buie/ tornare, da silenzi/ d’angoscie [...]” (vv. 16-20). Da segnalare che Dal profondo è intitolata una silloge di rime (1910) della Negri, nelle cui opera poetica peraltro il sintagma cade assai di frequente. 3 trasognati: la voce, ritornante con buona frequenza nei testi – anche prosastici – pellegriani (nelle sole MA se ne registrano cinque occorrenze, tra aggettivali e verbali), detiene un inequivocabile valore connotativo, sempre enunciando l’attitudine sospesa di “angelo esiliato” (Glicini, v. 11), l’“implacata nostalgia di cielo” (Il nido gelido, v. 7) dell’io lirico (proprio “occhioni trasognati/ ancor di Paradiso” sgrana sul mondo la bimba del componimento omonimo [vv. 4-5]). Una sorta di duplicato di “Talitha, qumi”, Dopo di FS, si apre appunto con le parole “Dopo: trasognamento/ d’essere ancora viva”. 5 i ... mondo: cfr. il limbale sonno della sopracitata poesia-distico penniana: “Io vivere vorrei addormentato,/ entro il dolce rumore della vita”.

Soglie, anno XV, n. 3 41

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

Ritratto di Ofelia d’Alba

Questi versi vennero composti per la scomparsa prematura della figlia di Auro d’Alba, suicidatasi poco più che diciottenne la notte tra il 22 e il 23 Marzo 1932. L’evento, stanti la fama e l’influenza godute all’epoca dal padre della giovane, intellettuale di punta del regime e console generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, produsse un’eccezionale eco nel mondo non solo culturale della penisola: alle attestazioni di cordoglio del duce e di Pio XI giornalisti di rango e oscuri gazzettieri, alti prelati e statisti, critici ed editori, poeti e romanzieri di varia caratura fecero a gara ad associare le proprie, in un profluvio di epicedî in versi e in prosa comparsi sulle principali testate nazionali o indirizzati epistolarmente al genitore nei giorni immediatamente seguenti il decesso. I “tributi” vergati dalle penne più autorevoli (quali, tra le oltre duecento, quelle di Corrado Alvaro, Grazia Deledda, Ada Negri, Aldo Palazzeschi, Salvatore Quasimodo, Clemente Rebora, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti) vennero, “nel primo anniversario del transito”, incollanati, per volere dello stesso d’Alba e per cura di Olindo Giacobbe, in un tombeau tirato in cinquecento esemplari non venali presso la Stamperia di Roma: Ofelia d’Alba. MCMXIII-MCMXXXII. Esclusa dal pomerio degli eminenti ospiti, la Pellegri, che in quel torno di tempo esperiva ogni via per farsi spazio nella cerchia dei letterati fascisti collaboranti alla terza pagina della “Gazzetta del popolo”, si produsse comunque in un autonomo atto d’ossequio, ispirandosi, secondo precisato in una nota posta in calce a MA, a un dipinto di Carmine Palmieri effigiante la defunta – occasione che, forse preterintenzionalmente, arieggia quella del canto leopardiano Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima – riprodotto in una tavola fuori testo del “libro azzurro” (così, dal colore della copertina, veniva designato il volumetto per Ofelia). Dell’intempestività dell’omaggio si incaricava di chiedere indirettamente venia al dedicatario l’autodesignazione contenuta in un passo della sopracitata nota: “Al Padre grande e sventurato, la rievocazione della sua Diletta da parte di un’ultima giunta nella Poesia, vada come devoto tentativo di conforto”. Svariati sono gli scritti del funebre florilegio che sembrano vantare qualche credito sulla lirica che ci occupa, in particolare il componimento anepigrafo ungarettiano, incluso in quello stesso anno in Sentimento del tempo con il titolo Memoria di Ofelia d’Alba, recante a sua volta in esergo i primi due versi della Premessa di Auro. Se il motivo dell’insostenibile angoscia procurata alla fanciulla dalla precoce coscienza della precarietà del vivere risulta comune a quel testo come a svariati altri della miscellanea, del tutto nuova, e – di là dall’abuso di aposiopesi – poeticamente efficace, è l’attribuzione alla moritura di un moto di pietas filiale che la trattiene un attimo titubante sulla soglia dell’aldilà. Notevole e assolutamente originale appare poi l’implicita immedesimazione della scrivente con la protagonista (eloquente, in tal senso, la predetta citazione dalbiana): Ofelia, sensitiva creatura dal nome predestinante, si configura quale alter ego della più matura Rina, ossessa da quello stesso cupio dissolvi come aspirazione all’immutabile perfezione del divino che documentano svariate liriche pellegriane (tali, sempre in MA, Io ti chiedo perdono o Primavera... e, in FS, Destino d’onde).

42 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

Metro: sequenza libera di versi di varia misura, con prevalenza di endecasillabi. Assai serrato, seppure non riconducibile a uno schema definito, il gioco delle rime (vv. 4 e 6, 5 e 8 [in rima imperfetta con il v. 2]) e delle assonanze (vv. 3 e 7; primi emistichî dei vv. 1, 5 e 7).

– Di che è morta? – È morta di poesia.

ad Auro d’Alba.*

Ti porti la mano alla gola,come volessi liberar dal chiuso,l’anima che al suo regno è ormai vicina.Ma di tuo Padre vedi il buio schianto...Sosti... reclini il viso, 5e sembra se ne velino di pianto,gli occhi che han nostalgiadi Paradiso...

* Auro d’Alba: pseudonimo di Umberto Bottone, poeta e narratore di prolifica vena nato a Schiavi d’Abruzzo nel 1888 e morto a Roma nel 1965. Dopo un’adolescenziale frequentazione del cenacolo crepuscolare raccolto intorno al Corazzini, aderì (1913) al movimento futurista con il nom de plûme che mantenne anche in sèguito, per accostarsi quindi all’“avanguardismo” del Fiumi: dal 1915 al 1917 collaborò infatti alla Diana di Gherardo Marone, animando nel contempo le romane Cronache letterarie. Reduce pluridecorato della grande guerra, fu tra i primi seguaci di Mussolini e ricoprì cariche via via sempre più ragguardevoli durante il ventennio, dando corso nel contempo a una fitta attività di pubblicista sulle più note riviste dell’epoca. Il trauma per la scomparsa della figlia acuì una preesistente crisi esistenziale, determinando quella conversione religiosa che dettò la maggior parte della sua produzione posteriore, di intonazione spiritualistica e misticheggiante. Cantore ufficiale della milizia nell’impresa d’Etiopia, dopo il secondo conflitto collaborò a fogli cattolici (in particolare all’Osservatore romano della Domenica), seguitando fino agli ultimi anni a comporre rime e prose. Tra le sue molte opere si segnalano le sillogi di versi Lumi d’argento (1905), Corde ai fianchi (1910), Baionette (1915), Le canzoni della guerra (1916), Cosmopolite (1920), Il paradiso della mia tristezza (1927), Ofelia (1934), Duce (1940), Riù (1949), I tetti hanno freddo (1954), complessivamente raccolte nel 1961 nel volume Poesie; le “sintesi teatrali” I carri e Il cambio; la raccolta di novelle Capelli sul cuscino (1921); i romanzi Tempo perduto (1924), Nostalgie d’amore (1925) e Nostra famiglia (1930); le meditazioni in forma di dialogo La tortura della grazia (1932); gli aforismi Tonici (1938), e il libro di memorie Formato tessera (1956). Per una più dettagliata informazione sullo scrittore cfr. almeno L. fiuMi, Parnaso amico. Saggi su alcuni poeti italiani del secolo ventesimo, Genova, Emiliano degli Orfini, 1942, pp. 209-230; A. toSto De caro, “Auro d’Alba poeta del dolore trasfigurato”, in Città di vita, XIV, 1959, pp. 591-599; V. PaSSeri Pignoni, “Cinquant’anni di poesia di Auro d’Alba”, ibidem, XVII, 1962, pp. 541-547; E. rizzotti RauS, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, XIII, 1971, pp. 482-484, s.v. Bottone, Umberto; G. viazzi, “Auro d’Alba”, in I poeti del Futurismo. 1909-1944, a cura dello stesso, Milano, Longanesi, 1978, pp. 225-226. Sul volume collettaneo Ofelia d’Alba è da rinviare a G. radin, “Memoria d’Ofelia d’Alba. Per la storia di una poesia e di un libro”, in Lettere Italiane, LIX, 2007, pp. 413-448. 1 gola: sul particolare anatomico si sofferma più volte il d’Alba nel “libro azzurro”, sempre a significare metaforicamente la “sete” di poesia della figlia (cfr. “gola piena di canti” nella Premessa, “e la gola zampilla nei giardini/ dell’universo ignoto/ creato sol per gli Angioli e gli

Soglie, anno XV, n. 3 43

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

Eroi” ai vv. 18-20 della lirica conclusiva del volume: L’ultima canzone, “tutti i nidi in gola” e “… e ti risento tutta nella vena/ che ti batteva in gola” nelle didascalie di foto ritraenti Ofelia riprodotte in tavole fuori testo). 2 dal chiuso: ‘dallo spazio angusto in cui è costretta’ (inequivocabile la reminiscenza dantesca: non solo il sintagma – a indicare invero il recinto degli ovini – cade, in una celebre similitudine purgatoriale [III, v. 79], nell’identica posizione ritmicamente demarcativa di clausola di endecasillabo, ma il verso che lo contiene è aperto dal medesimo vocabolo: “come le pecorelle escon del chiuso”). Altrettanto inconsueto, in contesto similare, lo stilema “anima chiusa” di Tentativi (cfr. la nota seguente). 3 al suo regno: non sconcerti, trattandosi di una suicida, questa menzione della patria eterna, per giunta ribadita nell’explicit: privarsi della vita, respinto ogni illusorio allettamento mondano, onde affrettare la ricongiunzione al proprio Fattore e placare finalmente la brama di assoluto che ci consuma nell’esilio terreno non rappresenta, nell’alquanto eterodossa concezione cristiana della Pellegri, una colpa capitale, bensì una sorta di ineludibile esigenza morale (cfr., ad es., sempre in MA: “L’unisono perfetto/ l’anima chiusa mai non troverà.../ al di fuori del bozzolo/ in te l’aspetto,/ morte, mia libertà!” [Tentativi, vv. 10-14]). Da segnalare, d’altronde, che nel volume collettaneo per Ofelia sono molti (primi su tutti Corrado Pavolini, Philéas Lebesgue e Corrado Govoni) coloro che compiacentemente interpretano la volontaria dipartita della ragazza, promossa senz’altro ad “Angelo dei Poeti”, come un’impellenza di ritorno alla dimora celeste, con il viatico, peraltro, dello stesso pontefice, che alla benedizione di un’immagine della defunta accompagnò il sibillino effato, debitamente campeggiante nell’occhiello dell’Introduzione al tombeau, “Non chiamata da Dio a Lui si volse”. 4 Padre: si noti l’enfatico uso – qui proprio ungarettiano – della maiuscola, adottato anche nella cerimoniosa dedica riportata nel cappello introduttivo (ove pure sono Diletta e Poesia). buio schianto: ‘cupo strazio’ (“torbo schianto” è quello dei proprî “singhiozzi” nell’incipit di una lirica precedente, Il perché, definito invece “buio pianto” al v. 12 del quarto testo della silloge, Rugiada [il termine schianto, a designare l’inconsolato dolore per la perdita dell’amata, l’“Amara” Ofelia appunto, occorre al v. 45 dello jenchiano Compianto per il transito di un usignolo, in Cenere azzurra]; e cfr. pure, in FA, lo “schianto che non ha parole” del v. 18 di Comune attesa). Automatica la memoria – ma temerarissimo ipotizzare uno cheval de retour – del “continuo schianto” di Ungaretti per la morte appunto, nel ’39, del figlio bambino (Giorno dopo giorno, 8). 5 Sosti … viso: forse opera qui una remota suggestione dell’epicedio di Carlo Baccari: “Con ciglia socchiuse, più viva,/ più lieve, nel mio pensiero,/ ti volgi con un sorriso;/ poi varchi, tacita e sola,/ i campi d’asfodelo,/ piccola bella fuggitiva”. 6-7 sembra ... occhi: in Alla giovinezza, una pagina avanti nella raccolta, gli “occhi velati/ di pianto” impediscono al poeta di vedere, “nella corsa folle” degli anni, le semplici meraviglie della natura (cfr. i vv. 14-16).

7-8 gli ... Paradiso: proprio ai “begli occhi sazi nelle chiuse palpebre/ ormai prive di peso, [...] immortali” (vv. 3-4) si rivolge direttamente Ungaretti nella sua Memoria, ma il tema degli occhi dell’estinta (“occhi di un altro mondo” nella definizione del padre, che proprio a didascalia del ritratto di Palmieri appone i seguenti versi: “… non c’era forse/ il colore dell’anima negli occhi?/ non il presentimento/ dell’al di là, quel senso indefinito/ che cercavi d’esprimere…”) accomuna, tale un Leitmotiv, svariati tra i contributi raccolti nel “libro azzurro” (cfr. i testi di Aldo Capasso, Sibilla Aleramo, Diego Valeri, Luciano Folgore, Lorenzo Gigli, Maria Borgese). La “nostalgia di Paradiso” appartiene a una cospicua costellazione di espressioni caratteristiche delle prime tre raccolte pellegriane (in FA: “[...] del mio vano sogno/ la cupa nostalgia” [Santa Croce, vv. 23-24]; in MA: “questa fame di cielo,/ questa, di paradiso nostalgia” [Le nove beatitudini, vv. 7-8], “trop-po desìo di cielo [...]” [Glicini, v. 6], “[...] mi sento/ esule sitibonda/ d’una patria di luce” [Io sono stata forse in Paradiso..., vv. 10-12], “[...] gli occhioni trasognati/ ancor di Paradiso” [Bimba, vv. 4-5], “quest’implacata nostalgia di cielo” [Il nido gelido, v. 7]; in FS: “tende ansioso al cielo [“ogni albero”]/ prigione della terra che lo umilia” [Alberi, vv. 3-4], “quel tuo pianto d’esilio si disperde” [Il salice, v. 7], “Dell’infinito, vigile, al cancello/ l’anima piange lacrime d’esilio” [La

44 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

guardia, vv. 9-10], “per consolarmi di lasciar l’azzurro/ per un mondo ignorato.... // Or vivo, ma passata/ non m’è, la nostalgìa” [Ci vollero tre morti...., vv. 10-13, ma si veda l’intera lirica], “I poeti che errano dispersi/ con cupe nostalgie di Paradiso” [Contatti, vv. 12-13], “Sono te, Eva, ed ho perduto in terra/ il Paradiso” [A Eva, vv. 1-2], “O bimbo abbandonato/ dagli occhioni sgo-menti, dove a tratti/ il Paradiso affiora” [L’amore, vv. 7-9]; e cfr. pure i vv. 7-9 del carme in morte di Gabriele D’Annunzio, inedito in volume, Per il trapasso di un arcangelo [...]: “Tutto volesti, tutto osasti, come/ nulla ti consolasse/ d’aver perduta la celeste via” [Il Piccolo, 4 Aprile 1938]).

Da Fiori sulla sabbia (1934)

Il coro

Vivace quadretto vespertino, tra i più naturali e ‘veduti’ della Pellegri – a onta delle insistite trasposizioni analogiche e di qualche soverchia virtuosità parnassiana (in particolare, i preziosismi minerali già cari a certo barocco) –, percorso da un insolito fremito di gioia sommessa. Conforme al fiabesco titolo della sezione che accoglie il testo, Il regno di smeraldo, al pur concretamente individuato décor naturale (si tratta del boschetto contornante la cascina dei nonni materni in contrada Gòrzeda ad Àrcola) è riconosciuta una dimensione di verziere incantato, della cui edenica armonia il poeta partecipa senza turbarla, nell’estasi momentanea di una totale mimesi. Seraficamente gabellata per una delle Primizie di un futuro raccolto, la lirica torna in Pr rielaborata nel solo finale (l’inusuale leggerezza del trattamento subito dà motivo di ritenerla una tra le pochissime rime giovanili cui la sessantaseienne autrice riconosceva – a buon diritto – una perdurante validità). Metro: impasto di endecasillabi e settenarî liberamente combinati, introdotto da un quinario sdrucciolo. A esaltare la consistenza ‘musicale’ della composizione provvede il reticolo delle rime (vv. 3 e 6, 8 e 10) e assonanze (vv. 2, 3 e 6; 4, 7 e 9 [interna]; 1 e 10 [interna]), che ne fanno un organismo sonoro di leggiadra compattezza timbrica.

Fremono i vertici– le vedette dell’anima del bosco –all’arrivo canoro.S’avventano agli stalli di smeraldoi passeri, le lodole, i fringuelli, 5per l’imminente coro.Pria di posarsi, snodano in un nastrodi voli, l’armonia che han prigioniera.Tra poco ingemmeranno di rubiniil velo della Sera. 10

1-2 Fremono … bosco: omologa prosopopea, poco oltre nella silloge, nella Visione del bosco, v. 2: “ergersi attento di frementi vette”; i vertici designano infatti, pascolianamente, le cime degli alberi (cfr., sempre in questa raccolta, L’ospite notturna, v. 4; Primaverile, v. 5, e Non radice sed vertice, vv. 6-7), ipostatizzate in vedette in grazia appunto della loro posizione eminente.

Soglie, anno XV, n. 3 45

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

3 arrivo canoro: brillante sinestesia: la subitanea apparizione allo sguardo della frotta alata fa tutt’uno con la percezione uditiva del suo assordante cinguettio.4 stalli di smeraldo: ‘rami fronzuti’ (definiti figuratamente stalli perché ospitanti i componenti del coro [v. 6]; smeraldo fa pendant di acceso, dissonante cromatismo con i – metaforici – rubini del v. 9). Nella redazione del Pino (terzo elemento della suite La reggia di FS) consegnata a Pr ai vv. 6-7 l’albero sarà definito “verde cattedrale,/ colonnata di tronchi”. 5 i ... fringuelli: enumerazione asindetica di pennuti tutti contemplati nel bestiario pascoliano (da cui la forma popolare lodole, propria anche a Jenco, di contro alle allodole dell’autunnale riscrittura di Pr [v. 5]). Si apprezzi, in questo verso e nel precedente, la serie allitterativa delle liquide a mimare, insieme con le -I-, l’aggraziata fluidità dei voli d’atterraggio: “aGLI staLLI dI smeraLdo/ I passerI, Le LodoLe, I frIngueLLI”. 7-8 Pria ... prigioniera: nel passaggio a Pr i versi si frantumano, si intensifica il gioco anastrofico e viene introdotta un’ulteriore notazione (di cui francamente non si coglie la necessità): “Snodano, prima/ di posarsi, in un nastro/ di voli, l’armonia che han prigioniera:/ larghi giri a placarsi” (vv. 7-10). Mimano il sinuoso sdipanarsi nel cielo di quei volteggi festosi – l’analogico nastro – una raffinata tramatura di nasali e vibranti sonore, accompagnate dalla vocale -A- (“PRiA di posARsi, sNodANo iN uN NAstRo/ di voli, l’ARmoNiA che hAN pRigioNieRA”), e l’enjambement.

9-10 Tra ... Sera: l’ardita trasposizione analogica ingemmeranno di rubini = ‘abbelliranno di un ricamo di note melodiose’ a esaltare la preziosità del canto degli uccelli (il significato qui assunto dal termine rubino, per quanto inattestato, mi pare incontrovertibile) ravviva il letteratis-simo stilema – con la maiuscola a connotare la stereotipa personificazione – il velo della Sera (variato in “Il velo del buio silenzio” nell’incipit dell’Assiuolo, poco avanti nella raccolta). Nella redazione del ’69 l’immagine appare così rimodellata: “ché tutte voci aduni un picchiettìo/ breve, di scaglie d’astri” (vv. 11-12), dove la sinestesia, di per sé pregevole, risulta però trafugata al Pa-scoli di Myricae (cfr. la seconda terzina di Nozze: “Egli [il Rosignolo] cantò: la cobbola giuliva/ parve un picchierellar trito di stelle/ nel ciel di sera, che ne tintinniva”).

Voglio che il tempo passi...

Affidandosi al registro gnomico-riflessivo, alquanto desueto nei versi pellegriani, la lirica svolge una meditazione sul tempo (al topos delle cui capacità terapeutiche si aggancia un richiamo al motivo dantesco della presbiopia-prescienza dei dannati enunciato da Farinata: “Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,/ le cose”, disse, “che ne son lontano” [Inf., X, vv. 100-101; cfr., qui sotto, la nota ai vv. 4-13]), all’origine della quale – ciò che tuttavia viene rivelato solo in cauda – sta la sofferta esperienza d’amore che sottende la seconda e la terza silloge dell’autrice. La martellante anafora (vv. 1, 10, 14) dell’espressione imperativa che denomina il componimento lo articola in tre parti di lunghezza diseguale: nelle due prime il discorso è condotto in termini e con argomentazioni più generali, mentre nella terza se ne precisa il carattere strettamente privato. Compendiariamente reintitolata Tempo, la poesia torna in AV e in Pr in due redazioni quasi identiche tra loro, ma più brevi e assai remote dal testo primitivo (in particolare, irrelata dall’occasione autobiografica che l’aveva suscitata, la speculazione convoglia in un risaputo elogio delle virtù cicatrizzanti della senilità: “E il gran dolore che la giovinezza/ travolse, si dissolve come cirro/ in luce meridiana./ Serenità dei vecchi,/ sapienza di vita!/ Così succo di frutto a poco a poco,/ trascolora l’asprezza/ nella soavità bionda del miele/ e si placa addolcito alla sua terra” [vv. 8-16 della versione di Pr, da cui quella di AV si discosta per minimi particolari]).

46 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

Metro: endecasillabi sciolti con inserti, a cadenze irregolari, di misure più brevi (settenarî [quello del v. 6 è sdrucciolo], quinarî e un trisillabo in chiusa) che hanno valore di versi incompiuti, di monconi; frequente la dissociazione di ritmo e sintassi (cfr., in particolare, le spezzature tra i vv. 1-2, 8-9, 14-15, 16-17) ad assecondare il tono ragionativo, quasi prosastico del componimento. Pur presenti, rime (è derivativa, e quindi ricca, quella tra i vv. 7 e 13), paronomasie e assonanze, anche a mezzo il verso, appaiono meno numerose del solito, quasi l’urgenza del pensiero le rendesse inessenziali.

Voglio che il tempo passi, anche se scavarughe sul volto,e sbrina argento sui capelli neri.Ben lieve è questo male, se si pensaalla limpidità che le visioni 5nella distanza acquistano.Solo l’aria lontana si fa azzurra,e solo gli orizzontisfumano in tinte tenui o glorïose.Voglio che il tempo passi: da lontano 10son più giusti i rapporti delle cose;l’aria le fasciad’impalpabili bende e le inazzurra.Voglio che il tempo passi, che atrofizzii nervi dolorosi, 15che la materia, e questa nostalgiastrana, di lui,riposi....

3 sbrina argento: il fenomeno dell’incanutimento senile è condensato in un sintagma metaforico che a un vocabolo istituzionalizzato in accezione tricologica almeno dal XIV secolo quale argento (cfr., ad es., l’endecasillabo petrarchesco “e i capei d’oro fin farsi d’argento” di Rvf, XII, v. 5 [si vedano pure, in CD, il v. 2 di Primato e il v. 24 di Colloquio all’incontro]) ne affianca un altro il cui uso traslato è invece arditamente originale: sbrinare (rimpiazzato dal più anodino spolvera in Tempo di AV, v. 3) non è infatti contemplato nei lessici nel senso di ‘versare, lasciar cadere’. Possibile un ricordo dei vv. 2-3 della cantilena di Ceccardo Quando ci rivedremo, inclusa nei Sonetti e poemi: “il tempo avrà nevicato/ sul nostro capo, o amore”. 4-13 se ... inazzurra: la porzione centrale del componimento è giocata su di un’intenzionale, insistita confusione tra distanza spaziale e distanza temporale che sembra voler ricondurre le due nozioni all’unità ideale del cronotopo (si noti la perfetta anfibologia della considerazione espressa ai vv. 10-11). Per un illuminante luogo parallelo cfr. RS, p. 29: “Solo il tempo fissa la giusta misura ai limiti delle cose e sono le distanze che proporzionano i rapporti delle medesime, allo stesso modo che soltanto il distacco elimina nel ricordo le scorie, inevitabili in ogni contatto tra uomini e uomini e tra questi e le cose. Forse è per ciò che – dicono – i moribondi sono veggenti del futuro e infallibili interpreti del passato: la vita si snoda nel suo contorno netto, solo dinanzi ad occhi di anime che stanno per disincarnarsi”. 7 azzurra: l’azzurro è infatti il colore del cielo sereno. 9 tenui o glorïose: ‘delicate o sfolgoranti’. L’allusione è naturalmente alle colorazioni assunte dall’orizzonte nelle albe e nei tramonti (si noti l’inconsueto uso, enfatizzato dalla dieresi,

Soglie, anno XV, n. 3 47

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

dell’aggettivo glorioso in accezione figurata). In entrambe le redazioni seriori del testo sopravvive soltanto il riferimento vespertino: cfr., rispettivamente ai vv. 9 e 7, “e gli orizzonti son di gloria accesi”. 12-13 le ... inazzurra: ‘ne addolscisce i contorni velandoli di una sfumatura azzurrina’ (analogo significato metaforico il verbo fasciare assume, sempre in FS, nell’incipit di Nuvoloso: “Tutto si sfuma in armonia di grigi/ e si fascia di nebbia e di silenzio”; per un similare impiego traslato del termine bende soccorre l’Egloga montaliana degli Ossi, vv. 28-32: “S’è ricomposta la fase che pende/ dal cielo, riescono bende/ leggere fuori...;/ il fitto dei fagiuoli/ n’è scancellato e involto”; e cfr. pure i vv. 73-76 del Tramonto cozzaniano nel Poema del Mare [Parte IV: L’amore, I] e il v. 5 di Divagazioni autunnali in Mùssole [1920] di Lionello Fiumi). 14 atrofizzi: ‘ottunda’ (l’utilizzo figurato del denominale è attestato nei lessici a partire dal Verga). 16 la materia: il vocabolo fa parte di una costellazione semantica connotante il corpo – in topica antitesi allo spirito – quale sede delle mere necessità fisiologiche, degli interessi terreni e delle passioni sensuali (cfr., in MA, “la creta/ che m’avvolge” [Alla luce, vv. 2-3]; “L’argilla pesa che mi fascia” [La tomba spoglia, v. 1]; “e la loro materia è tanto opaca” [Le nove beatitudini, v. 60]; “il mio bozzolo”, “nella muraglia/ della materia bruta”, “al di fuori del bozzolo” [Tentativi, vv. 1, 6-7, 12]; “la creta nostra tutta consumata”, “e il porto ove ora approdo e mi riposo,/ ma che la mia materia ancor mi vela” [Porto, vv. 15, 18-19]). Alla base di tali metafore stanno a tutta evidenza gli jenchiani “grumo di argilla pesa” (di cui l’io poetante aspira a liberarsi per “affiorare/ alla superficie dell’Infinito” nel Congedo ai Poemi della primalba [vv. 5-7]) e “materia sorda” (v. 15 della lirica Nella terra dei miei di Acquemarine).

16-17 questa ... lui: il motivo del rimpianto dell’amore perduto ispira la poesia Ricordo, più avanti nella raccolta.

Da Àncore e vele (1950)

Àncore e vele

A testo eponimo e introduttivo della silloge si colloca un breve pezzo di gusto manieristico tutto giocato su agudezas concettuali e virtuosismi tecnici, ma costruito con apprezzabile perizia formale e senz’altro riuscito nella sua epigrammatica concentrazione. È un apologo volto a illustrare – verosimilmente sulla scorta mitica dell’Ulisse sabiano di Mediterranee, apparse a stampa appena quattro anni prima – l’ambivalente natura del poeta, dimidiato tra bisogno di quiete e di ripiegamento nostalgico e impulso a continuare a protendersi nell’avventura esistenziale per tentare di attingerne il senso ultimo, e perciò assimilato ora all’“àncora” (l’anelito alla pace nel raccoglimento del porto), ora alla “vela” (l’inesausta ansia conoscitiva, l’élan vital che spinge verso il largo della ricerca). Ben degno di denominare la raccolta – curiosamente l’unica a spirare fin dal titolo un’aura marinara, implicito omaggio filiale al ricordo di Tito Pellegri, progettatore di navi presso l’Arsenale spezzino –, il componimento ne prefigura i due filoni costitutivi: poesie a carattere introspettivo e memoriale e poesie di ispirazione gnomica e religiosa. Metro: quartina di ‘classici’ endecasillabi seguiti da un ulteriore endecasillabo a guisa di congedo, il cui ritmo fortemente scandito asseconda la balenante sentenziosità dell’enunciato. La potente tensione dinamica sottolineata dal fittissimo ordito di rime al mezzo e imperfette, di assonanze (anche interne) e di paronomasie, di ripetizioni e di allitterazioni sfocia nella rima baciata tra i due ultimi versi, a rendere più incisivo l’aforisma che condensa ed esalta la metafora di base.

48 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

Sogno d’àncora placa vela stanca.Forse, domani, all’àncora prigione,sogno di vela riderà, che, tesal’anima guidi che l’ardore inciela.

E l’àncora è consorte della vela. 5

1 Sogno d’àncora: ‘Speranza di riposo’ (la metafora è specularmente ribaltata, in anafora, al v. 3). Si noti come la cadenza proverbiosa dell’attacco (assenza di articoli, bisticcio àncora/ stanca) conferisca alla breve lirica un tono di adagio. Nell’explicit di Morte e vita, poco oltre nella silloge, “obliosa cala” è definito il “pensiero di morte” (“E se poi vita intensa mi conduce/ ancora, stanca, all’obliosa cala/ del pensiero di morte, mi riposo/ come se veramente chiusa fossi/ in una bara in fondo a un mare spento”). vela stanca: in una “patita vela” (v. 5) desiderosa di approdare definitivamente nel “porto sicuro” (v. 8) già si identificava Jenco in Vela amica di Essenze. 2 prigione: ‘prigioniera del fondale, ormeggiata’ (il vocabolo deriva per metonimia tale significato, dell’uso antico e letterario [figura pure al v. 24 di Nuvole e al v. 17 di Porto in MA, al v. 4 di Alberi in FS e al v. 29 di Colloquio all’incontro in CD], dal suo senso primo di ‘edificio di pena’). 3 sogno di vela: ‘brama di vivere’ (cfr. “il non domato spirito/ e della vita il doloroso amore” che “al largo/ sospinge ancora” il Saba-Ulisse dell’omonima lirica, vv. 11-13, e, nel cozzaniano Poema del Mare, i vv. 82-84 di Mistero [Parte II: La vita, VI]: “[...] non oso/ sfidare io, uomo, il cupo ondante abisso/ col cuore a un sogno come a stella fisso?”, e vedi pure, ivi, il testo sùbito seguente, La vela appunto, primo movimento del Poema del Vento). riderà: ‘sorriderà, arriderà’. tesa: ‘spiegata’ (riferito a vela; si apprezzi il significato ritmico delle inversioni in quest’unità metrica e nella seguente). 4 inciela: ‘tende verso l’alto, spinge alla conquista di una meta più elevata’ (ancora un termine aulico [denominale da cielo, con in- illativo] di attestazione già predantesca – ma la poetessa ha di certo in mente l’occorrenza di Par., III, vv. 97-98: “Perfetta vita e alto merto inciela/ donna più su [...]” –, caro anche al Pascoli, al D’Annunzio e al Cozzani nella forma riflessiva incielarsi. Con uso transitivo, e non, come qui, assoluto, il verbo ricorre due volte, e in ambo i casi nel verso d’explicit, in CD: “[...] quest’ultimo vortice di voli/ che inciela l’orizzonte di mia vita” [Esortazione], “l’aria che inciela i liguri miei pini” [Canto a bocca chiusa]).

5 consorte: un’altra voce dotta, impiegata, giusta l’etimo latino, nel senso di ‘partecipe dello stesso destino, unita da un legame inscindibile’.

Elegia di Marzo

Con Donata e Atto di grazie la poesia compone un trittico rievocativo, Tre baci su una tomba, dedicato dall’autrice alla memoria della madre Marina Paola Bertagna, spentasi di quasi settantacinque anni a Roma, nella casa della figlia fresca di nozze, il 29 Marzo 1943. L’intenzionale semplicità del dettato (di cui sono prova esibita le solo all’apparenza ingenue ripetizioni terminologiche, di fatto riconducibili a uno degli istituti della retorica classica più sfruttati a fini emozionali quale l’iterazione o palilogia [cfr., qui sotto, le note ai vv. 2, 3 e 9]) denuncia un’evidente volontà regressiva nel mondo feltrato dell’infanzia, consule, naturalmente, il Pascoli retrospettivo e lacrimogeno dei tanti “colloquî” intrattenuti, in ricorrenze anniversarie o meno, con l’ombra dell’estinta genitrice (di ascendenza miricea è per l’appunto la “lacrima ferma” negli occhi della defunta su cui stacca la lirica [cfr. la nota al v. 11]). Nondimeno, la sincerità commossa dell’ispirazione,

Soglie, anno XV, n. 3 49

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

la gentilezza del tocco e la calibrata dosatura degli effetti patetici segnalano questo pezzo ‘all’antica’ come una degli esiti più convincenti dell’intera raccolta. Insigne campione di pietas filiale, l’Elegia non poteva mancare di venir riproposta, accanto alle due consorelle, nel florilegio di Pr, invariata – salvo per minuzie interpuntive – a eccezione del finale, che una malaugurata remora moralistica consigliò all’autrice di snaturare (cfr. in merito la nota al v. 12). Metro: sequenza di endecasillabi correlati da un incalzante, ma liberissimo, gioco di rime (perfette o meno), paronomasie, consonanze e assonanze sia in fine che all’interno del verso, a conferire al discorso cadenze narrativo-melodiche di cantilena.

Era l’alba e saliva primavera,ma tu sapevi che di là dormivoe andasti via pian piano: non sapeviandartene, se c’ero, e non potevi– oh troppo stanca! – rimanere ancora. 5 Fu l’ultima tua ninna, ninna nannache mi cantasti in te perché dormissi,perché non ti vedessi andare via.Eri già andata quando ti rividi;ed io non vidi mai più bella cosa 10che una lacrima ferma nei tuoi occhi:e fu il tuo dono per la figlia sposa.

1 Era l’alba: identico attacco in Corsica di VC. saliva: la stagione, come nelle liriche giovanili (cfr. ad es., in MA, Io ti chiedo perdono o Primavera...), appare personificata. 2 sapevi: il vocabolo, ripreso in epanadiplosi nella clausola del verso successivo, con cui viene pertanto a istituire una rima al mezzo identica, si contrappone al potevi del v. 4, al quale pure è legato da omeottoto e da rapporto rimico (per altri moti ostinati di parole tematiche cfr. la nota successiva e quella al v. 9). 3 andasti via: l’eufemistico sintagma è preso in una cospicua serie polittotica con l’andartene dell’incipit del verso seguente (cui a propria volta si oppone il rimanere del v. 5), l’andare via del v. 8 e l’Eri […] andata del v. 9. In Pascoli il verbo chiave del congedo estremo dalla madre è il sinonimo partire (cfr. in Myricae: “partire, o madre, come sei partita!” [Colloquio, III, v. 22], e nei Canti di Castelvecchio: “bionda così com’era/ quando da noi partì” [Mia madre, vv. 33-34]). 3-4 non sapevi andartene: si noti come l’enjambement, scardinando la compagine metrica dell’endecasillabo, sottolinei lo sforzo necessario alla separazione. 4 non potevi: per il sintagma cfr. i vv. 25-26 (ma ricorre anche al v. 55) del sopracitato III sonetto del Colloquio di Myricae: “Dovevi, o madre pia, dirlo a Dio padre,/ che non potevi; e ti lasciasse [...]”. 5 oh troppo stanca: nell’inciso è il velato riferimento – squisitamente biografico a onta dell’alonatura pascoliana – all’affezione cardiaca che funestava l’esistenza di Paolina fin dal 1902 e, aggravatasi con gli anni, procurava alla donna, negli ultimi tempi, sofferenze insostenibili. Così la figlia ricorda lo strazio dei giorni estremi in un passo di RS, p. 52: “Le notti d’incubo per il cuore ammalato, trascorse seduta sul letto per l’impossibilità al respiro nella posizione supina, erano silenziose; unico segno al mattino, i fiordalisi degli occhi, spenti di fulgore, tra un alone violaceo. Ma la dolce bocca sorrideva agli sposi, a Roma, negli ultimi mesi di sua vita: – Non ho null’altro da offrire! –”; e cfr. pure i vv. 4-7 di Atto di grazie: “E la forza mi nasce/ se rivedo il suo volto macerato/ ogni alba e sorridente/ dopo notti d’affanno”. 6-8 Fu ... via: per una puntuale esposizione in prosa di questi versi cfr. ancora RS, p. 53: “Pregavi di morire sola, senza me accanto; l’ultimo altruismo di chi non voleva mai far soffrire

50 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

alcuno per causa propria. Te ne andasti pian piano, da sola in un’alba di primavera, durante un mio lieve sonno nella stanza accanto. Sono certa che cantasti in te la più suadente ninna nanna perché continuassi a dormire e non ti vedessi andare via”. Funzionale l’effetto di intensificazione patetica sortito dall’epizeusi del v. 6: “ninna, ninna nanna” (e al v. 3, ma si tratta di espressione cristallizzata, “pian piano”) e dalla ripetizione di “perché” ai vv. 7-8. 6-7 Fu ... dormissi: di una materna “canzon che […] cullava” Rina bambina sono riportati tre endecasillabi in Implorazione, vv. 13-16, di MA. 7 in te: ‘tra te e te’ (lo stesso sintagma è nel brano riprodotto, supra, nella nota ai vv. 6-8). 9 rividi: in antitesi al non ti vedessi del verso precedente e ripreso e variato al verso successivo in vidi, con cui instaura una rima derivativa e un’anadiplosi (notevole anche il polittoto delle voci verbali). 10 ed ... cosa: circonfondono il verso reminiscenze molteplici e vaghe, in specie boiardesco-ariostesche: se infatti gli stilemi più bella cosa/ cosa più bella conoscono, com’è ovvio, numerosissime occorrenze letterarie, tanto poetiche quanto prosastiche (dal Boccaccio a Lorenzo, dal Bembo al Tasso al Marino giù giù fino al Fogazzaro), più cogente è l’associazione di essi al verbo vedere o simili entro uno schema endecasillabico (cfr. in merito almeno boiardo, Amorum libri III, 82, v. 69, e Orlando innamorato, I, XVII, 2, v. 8, e XXVII, 59, v. 2; arioSto, Rime, XXX, v. 2). L’unico precedente a recare la iunctura più bella cosa in fine di verso è tuttavia l’incipit di un rispetto polizianeo: “Costei per certo è la più bella cosa/ che ’n tutto ’l mondo mai vedesse ’l sole” (X). 11 una ... occhi: benché il suggestivo primo piano finale su questo pianto incoato rimandi palesemente al secondo sonetto genetliaco di Myricae, dove a un’immagine analoga è riservata per l’appunto la posizione explicitaria (“quella che ti [alla madre] bagnò nell’agonia/ non terminata lagrima le ciglia” [Anniversario - 31 di dicembre 1890]), e a onta del fatto che i singhiozzi pretombali seducessero la poetessa fin dal tempo di FS (cfr. i vv. 54-55 della Morte: “E se un’ultima lacrima ribelle/ mi rimanga sul ciglio; oh, tu, perdona!”), il dato di base è reale, stando almeno alla tarda testimonianza di RS, p. 53: “C’era una lacrima rappresa nell’incavo dei tuoi occhi spenti. L’ultima debolezza della forte Paolinetta? O intravedesti il mio destino nella folgorazione dell’ultimo istante?”.

12 e ... sposa: Rina si era maritata nove mesi prima con il romano Raoul Lucidi, fratello del glottologo Mario. Come anticipato nel cappello introduttivo, questa clausola – che pure costitui-sce l’acme emotiva della composizione – venne malamente censurata all’epoca dell’allestimento dell’autoantologia di Pr con l’evidente scopo di occultare ogni traccia dell’esistenza di un matri-monio al cui annullamento aveva da pochi anni provveduto la Sacra Rota. Tale l’inerte distico sostitutivo dei vv. 11-12: “oh, ferma nei tuoi occhi,/ perla di pianto!” (prossimo, tra l’altro, all’ex-plicit di un frammento jenchiano di Cenere azzurra in morte dell’amata, Fra ceri e gigli il letto del tuo primo sonno era un bianco altare: “tra le palpebre basse,/ oh, il pianto/ di una lacrima!...”).

Foglie sul sagrato

Si ripropone qui il tema naturalistico, già svolto in Autunnale di FS, della caduta stagionale delle foglie. Ritraendosi come sullo sfondo e lasciando parlare le cose, con linee fresche e garbate, per quanto convenzionali, il poeta schizza nei primi quattordici versi un quadretto paesano soffuso di delicata mestizia che riconduce alle atmosfere di una lirica di tanti anni addietro: Sera di FA. Soltanto nel distico di clausola l’io lirico si accampa in primo piano a formulare un auspicio (“Vorrei che la Poesia...”) la cui connessione con la prima parte del componimento appare tuttavia poco perspicua. Tenui, ma sintomatici di quell’ossessione scarnificatoria contagiata alla Pellegri da Elpidio Jenco, gli interventi operati sul testo per includerlo in Pr: a farne le spese (come documentano, qui sotto, le note ai vv. 7, 9-10 e 12-13) sono dettagli non sempre spregevoli o inerti.

Soglie, anno XV, n. 3 51

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

Metro: strofe endecasillabica inaugurata da due settenarî (il primo è sdrucciolo) seguita da una coppia di endecasillabi. Rimano perfettamente soltanto i vv. 14 e 16 – al v. 14 si dà anche rima al mezzo –, ma compatto, seppure irregolare, è il tessuto delle assonanze (anche interne al verso), delle paronomasie e di più liberi accostamenti fonici. La fluidità conferita al dettato dal frequente ricorso agli enjambements (vv. 1-2, 4-5, 7-8, 9-10, 10-11, 12-13) acquista peculiare rilievo espressivo, evocando gli aerei volteggi delle foglie cadenti.

Sagrato a sera: cadonodai platani le foglie,ad una ad una, e il vento le mulina.Si rendono alla terra in obbedienzaall’alterna vicenda della vita, 5tanto più belle quanto più morenti,quanto più il verde, loro sangue, cedealla raggiante ruggine di morte.Servono da tappeto al giro tondodi bambini che vociano; e il bastone 10del vecchio le rimuove a passo a passo.Sfreccian voli di passeri dintornoal campanile e incanta i cieli l’Ave,dolce a chi spera, dolce a chi dispera.

Vorrei che la Poesia da me scendesse 15come una foglia su un sagrato, a sera.

2 platani: la specificità dell’essenza arborea, così come il riferimento al “campanile” del v. 13, induce a ritenere che la Pellegri immaginasse a teatro di questa scena vespertina la piazzuola antistante il ‘suo’ tempio arcolano: la parrocchiale di San Nicolò in cui venne battezzata. Una convincente riprova è offerta da RS, pp. 166-167 (ma si veda pure, sempre in AV, la quarta strofe di Arcola), dove, in una trepida rievocazione del luogo in questione, trovano posto tutti gli ingredienti della lirica: “dei vecchi” “seduti sul muretto che fiancheggia la canonica” (cfr. il “vecchio” del v. 11), “alcuni bimbi che vociano giocando” (cfr. il “giro tondo/ di bambini che vociano” dei vv. 9-10), “le ore dal campanile” (cfr. “l’Ave” del v. 13), le “chiome di platani, lassù, incoronati di voli” (cfr. i “voli di passeri” del v. 12). Del resto, già nella – pur primaverile – Sera di FA, vv. 5-6 e 10, erano fissate queste immagini: “Sul sagrato, due vecchi assorti, a fianco/ de la chiesuola godono l’aprile”, “di passeri garrenti in alto è un volo”. 3 le mulina: ‘le sospinge turbinosamente’. Denominale da mulino, è verbo canonico a designare il vorticoso moto rotatorio impresso dal vento alle foglie: cfr., tra gli svariati esempî poetici adducibili: “[...] m’abbandono/ come la foglia che mulina il vento” (G. giuSti, A Gino Capponi, v. 18) e, con la particella pronominale, “se come foglia in turbin si mulina” (C. rebora, [Fra il caldo velo del sonno], v. 54, nei Frammenti lirici); anche situazionalmente prossimo il seguente passo del sonetto pascoliano I gattici (nella sezione Tristezze di Myricae), vv. 5-6: “Questo vento/ che queste foglie gialle ora mulina”. 4 Si rendono: ‘Ritornano’ (si noti l’impiego, letterario e desueto, del verbo come riflessivo [cfr. il francese se rendre]). 4-5 in ... vita: nella sottomissione, in adempienza al ritmo stagionale, all’assiduo ciclo di

52 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

nascita-morte che costituisce la realtà profonda dell’esistenza universale traspare una nota di umana rassegnazione. 6 morenti: in figura etimologica con morte del v. 8. 7 il ... sangue: indicherà, meglio che ‘la linfa’, ‘la clorofilla’, chimicamente affine all’emoglobina dei vertebrati (cfr., in FS, L’ospite notturna, vv. 5-7). Il greve inciso loro sangue è opportunamente espunto nella redazione di Pr. cede: ‘lascia il posto’ (l’uso figurato del verbo è canonico da Dante in poi). 8 raggiante ... morte: la sfavillante colorazione bruno-rossastra assunta dalle foglie prima di seccare (cfr. l’“oro rugginoso” dell’incipit di Tersa zona deserta, ossia della versione di Autunnale consegnata a Pr) è contemplata come una sorta di estremo riscatto: l’allitterazione di -R- e -G- varrà proprio a sottolineare la trionfalità di quell’ultimo fulgore. 9-10 Servono ... vociano: il particolare bozzettistico viene così alleggerito nella stesura di Pr, vv. 9-10: “Tappeto al giro tondo/ di bambini [...]” (per l’immagine del tappeto cfr. Autunnale, vv. 1-2). 11 a ... passo: la lentezza del gesto senile riflette quella dello staccarsi delle foglie “ad una ad una” (v. 3). 12-13 Sfreccian ... Ave: nella redazione seriore i due endecasillabi si riducono, con esiti di dubbia efficacia, a un solo settenario: “Sfrecciano voli: è l’Ave” (v. 12). Per la puntualizzazione cronologica introdotta dal suono delle campane cfr. La culla di Pr, vv. 3-4: “scendono [...]/ soavi avemarie”. 14 dolce ... dispera: la cesura bipartisce il verso in stichi logicamente opposti: si avverta tuttavia come la costruzione in isocolo, la ripetizione di dolce e, soprattutto, la rima derivativa – e dunque ricca – che lega i due vocaboli spera/ dispera concorrano ad attutirne l’antitesi.

15-16 Vorrei ... sera: conforme ai vv. 6-8 (cfr. la precedente nota al v. 8), il poeta esprime l’au-gurio che i suoi versi possano attingere la bellezza perfetta e struggente di una foglia in autunno (notevole l’effetto onomatopeico prodotto dall’allitterazione di suoni sibilanti: “[…] la PoeSia da me SCendeSSe/ come una foglia Sul Sagrato a Sera”). Questa, almeno, mi pare l’interpretazione più convincente della similitudine, anche se, a tenore dei vv. 7-8 della giovanile Preghiera (vedi supra) e dell’explicit del Canto del cigno, sempre in MA (“Ed ora, perché canto?/ Forse per non morire,/ o forse ormai la fredda dea mi tocca/ e come al cigno prossimo alla morte,/ dal cuor presàgo l’armonia trabocca”), non è forse da escludere una qualche anacronistica arrière-pensée di marca cimiterial-crepuscolare.

15 la Poesia: ‘l’ispirazione poetica’ (la maiuscola antonomastica viene eliminata, come pure l’articolo, nella versione di Pr). scendesse: ‘promanasse’.

Da Canto a due (1965)

Canto a due

Come tutte le precedenti sillogi liriche dell’autrice (non quindi l’eterogenea FA né gli epicheggianti VC), anche questa è introdotta da un componimento che la denomina e ne delinea il contenuto: opera essenzialmente pellegriana è infatti CD, sovrastando l’assai più potente “voce” femminile quella, gentile ma fievole, di Antonio Del Santo, i cui stessi otto “a soli” risentono a tutta evidenza l’influenza degli altrettanti intonati dalla compagna (e, in generale, del di lei mondo fantastico), sì che la plaquette, più che per l’originalità della consistenza amebea, si segnala per la suggestione delle ‘arie’ in cui la poetessa ferma momenti, figure e immagini del suo percorso artistico e umano a intelaiatura dell’attuale “ora/ di grazia” (Esortazione, vv. 1-2), funzionalizzandoli cioè al compimento di un

Soglie, anno XV, n. 3 53

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

“destino di miracolo” (tale il titolo della quarta lirica). Il tema del “canto”, insieme “gioioso stupore” e “inno di grazie” – come già anticipa la didascalica Premessa –, stringe questa raccoltina in un cerchio perfetto, dal liminare testo eponimo qui presentato, attraverso i richiami disseminati entro i varî componimenti, fino all’explicitario Canto a bocca chiusa, che, sempre per voce della Pellegri (è in effetti l’adattamento di una poesia di AV, già germinalmente contenuta in Fiore d’inverno di FA), mette fine alla melodia: “Il canto non si spegne:/ prosegue a bocca chiusa./ Uscì quel tanto – oltre pudore – all’anima, che più non conteneva./ Non si disperda al vento l’inesausto/ inno di grazie,/ reduce vena a noi dentro si annidi/ e il cuore affranchi” (vv. 1-8). Il motivo dell’innamoramento senile, topica iperbole nella lirica nostrana almeno fin dal trecentista Sennuccio Del Bene (sua l’ossimorica autodefinizione “giovinetto vecchierello”), viene in questi versi declinato sul doppio registro, non meno convenzionale, dell’intimo gaudio proprio e dell’incomprensione altrui; ma quanto c’è di logoro nella tematica appare irraggiato da un’effusione di malinconia che le conferisce un respiro elegiaco; riscattato da una freschezza e da una sincerità di accenti che si traducono in delicata sobrietà di lingua e di stile. Identico, salvo un’unica modifica interpuntiva, il componimento rifluisce in Pr, dove reca il nuovo titolo di Canto sommesso e l’indispensabile dedica “ad Antonio”. Metro: strofe di settenarî con intercalati tre endecasillabi e due quinarî. Rime (spesso identiche), quasi rime, paronomasie, assonanze e consonanze legano tra loro i vocaboli – indifferentemente al mezzo, all’interno o in clausola di verso – in un serratissimo ordito musicale, di cui i frequenti enjambements (cfr., in particolare, i vv. 2-3, 5-6, 7-8) esaltano la valenza patetica.

Piano... che non ci sentachi è sordo ad un richiamodi fiore oltre stagione,chi non sa perdonarea chi si porta giovinezza oltre 5 i limiti segnati,dopo rubato a talismano, un ramodi pesco in fioreda profumarne il verno.Cantiamo piano, 10che non senta la morte– può essere nei pressi –questo canto di vita, coraggioso.

1 Piano: sottintendi: ‘cantiamo’ (cfr. il v. 10; in Pr, ho detto, la poesia verrà ribattezzata Canto sommesso [si veda pure la sopracitata Premessa, p. 11: “Tenendoci per mano, abbiamo intonato insieme questo canto sommesso”]). Il motivo del canto di coppia come metafora del tripudio di un affetto ricambiato già figurava in Canto fermo di FS, vv. 14-16: “[...] l’armonia/ dei miei canti sgranati insieme ad uno/ che venne meco un tratto della via”. che ... senta: il sintagma è ripreso e variato al v. 11. 2 chi: la triplice anafora del pronome (cfr. i vv. 4 e 5) concorre, assieme all’iterazione degli elementi lessicali di cui nella nota precedente, ad assimilare questo testo volutamente dimesso a una filastrocca di scongiuro.

54 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

2-3 sordo ... fiore: la sinestesia, alquanto faticosa, è ereditata da una poesia giovanile, Le nove beatitudini di FS, vv. 21-23: “sordi/ al tìnnulo richiamo/ d’un convolvolo [...]”. 3 oltre stagione: ‘fuori stagione’ (la preposizione è ripetuta al v. 5). Cfr., più avanti nella silloge, la “primavera oltre stagione” di Esortazione, v. 13 (lo stilema ritorna nella Premessa a Pr, p. 10), l’“intramontata primavera” di Tu, convolvolo, v. 8, e la “tardiva fioritura” di Tu, fiore di spino, v. 19 (entrambe liriche di Del Santo). 4-6 chi ... segnati: è qui forse una lontana risonanza – si tratta comunque di motivo codificato – dei vv. 4-5 della canzone Amor, tu sai ch’i’ son col capo cano di Sennuccio: “Tu [Amor] mi farai tenere un vecchio vano/ e molte genti mi farai nemiche”. 5 si porta giovinezza: ‘si sente ancora giovane’ (l’impiego del medio portarsi denota l’intensa partecipazione emotiva del soggetto all’azione). 5-6 oltre ... segnati: lo scavalcamento sintattico dell’estremità del verso, la cui ‘lunga’ misura endecasillabica già fa esorbitare tra i contigui settenarî, è evidente restituzione formale di tale temerario sconfinamento anagrafico (segnati vale qui ‘consentiti, stabiliti dalla comune opinione’). 7 dopo rubato: espressione fortemente ellittica (sottintendi: ‘che noi due abbiamo’). a talismano: ‘affinché ci serva da portafortuna’. 7-8 un ... fiore: emblema primaverile per excellentiam (cfr., in MA, Io ti chiedo perdono o Pri-mavera..., vv. 19-23, e il testo intitolato appunto Pesco in fiore) e come tale eletto a “talismano” per il nuovo amore: patente l’allusione all’antica tradizione del “maggio”, il ramo fiorito che a Calen-dimaggio i giovani ponevano sulla porta delle fidanzate quale pegno d’affetto. Per Del Santo, nella sopracitata lirica Tu, fiore di spino, vv. 4-6, saranno invece i “rami brinati di stelline bianche/ del biancospino in fiore” a simboleggiare la “fugace primavera” vissuta dal maturo innamorato. L’im-magine è verosimilmente di suggestione fiumiana: cfr. infatti i vv. 8-9 di Rigerminare, nella silloge E la vita si ostina (1961), in cui l’amico poeta canta il proprio affetto senile per Beatrice Magnani, da poco sua sposa: “Felicità, ch’era ormai rama vizza/ ecco rigerminava” (e vedi pure, ivi, l’explicit di Fuochi d’autunno). 9 verno: forma aferetica, arcaica e poetica (anche jenchiana), di inverno spesso impiegata dalla Pellegri; qui naturalmente designa per traslato l’età provetta dei due sposi. 11-12 che ... pressi: si può forse avvertire un che di forzato in questa misura scaramantica (l’autrice all’epoca di questi versi non era ancora sessantaduenne, appena più avanzato d’età il secondo marito), nondimeno l’improvvisa scomparsa di Del Santo nel 1971, a sei anni dall’unione con la poetessa, tinge retrospettivamente l’inciso di un alone profetico. Il tema del “cammin corto”, su cui è incentrata la lirica successiva del libretto, rappresenta del resto il più toccante Leitmotiv di CD. 13 canto: la figura etimologica istituita con il Cantiamo del v. 10, l’accento ritmico e l’allitterazione con il seguente coraggioso pongono il termine in speciale rilievo, a ribadire il vittorioso volontarismo di quell’amore “oltre stagione”.

Da Le predilette (1969)

Tu sei ferma nel tempo ed io cammino...

Rivolgendosi alla madre scomparsa, l’autrice esprime il desiderio di restare su questa terra per l’esatto numero di anni che a essa fu dato trascorrervi, così che possa trovare perfetto compimento quella sorta di “trascendentale” compenetrazione fra le due creature asseverata in RS: “Quella madre [...] sentii sempre quale vaso comunicante immediato di tutte le mie sensazioni, [...] poiché noi due in contatto formavamo un’unità inscindibile. Il legame fra me e mia madre fu di natura trascendentale: io fui per lei la viva e la morta, la

Soglie, anno XV, n. 3 55

“effimera ghirlanda”: Rina Pellegri

speranza e il rimpianto, la gioia e la disperazione; ella per me fu il miracolo vivente della forza dell’amore materno che seppe ricrearmi dalla morte [...]. Tra me e lei le leggi del tempo sono capovolte. Oppure mi ha portata con sé, poiché, se doveva ritrovare l’altra Rina, non l’avrebbe, senza di me, ritrovata intera, allo stesso modo che di qui sentiva me incompiuta. Fuori del tempo, io e lei, poiché io fui figlia soprattutto del suo spirito” (pp. 43-44; gli stessi concetti, in identica formulazione, sono ribaditi in MAR, p. 68). Fondandosi, come già Voglio che il tempo passi...., su una percezione, per così dire, spaziale del tempo, il testo si struttura attorno a due campi semantici (“ferma”, “fermami”, “limite preciso”, “stesso miliare”; “cammino”, “ti avrò raggiunta”, “vado oltre”, “mi volgerei”) facenti capo agli antitetici poli tematici della stasi e del moto, così da conferire al discorso poetico una marcata articolazione dicotomica. Metro: conforme all’assetto prosodico complessivo di Pr, assai più libero che per l’addietro, la lirica alterna disinvoltamente misure di varia lunghezza, dall’endecasillabo (prioritario) al settenario, al quinario e al quadrisillabo, vera e propria rarità nell’usus pellegriano. Sempre in ottemperanza ai criterî dell’ultima maniera dell’autrice, la rima è del tutto assente e limitata la presenza di assonanze (vv. 1 e 8; 1 [interna], 7 e 10; 4 e 9 [interna]) e consonanze, quasi che la dizione concentrante e il pacato andamento colloquiale del componimento – si faccia caso agli svariati enjambements (vv. 4-5, 8-9, 9-10) – le rendessero superflue.

A mia Madre morta*

Tu sei ferma nel tempo ed io cammino.Ieri madre,oggi quasi sorella.Quando ti avrò raggiuntanel tempo, tu perdona 5s’io vado oltre.Sempre mi volgerei da allora, indietro.Fermami tu al limite precisodella misura di tua vita: ciclischiusi a stesso miliare, sull’eterno. 10

* Madre: per l’uso della maiuscola cfr., supra, la nota al v. 4 di Ritratto d’Ofelia d’Alba. 1 Tu ... cammino: l’endecasillabo, nella sua scabra perentorietà, introduce l’opposizione tematica su cui verte il testo: la morte ha fissato la madre in una perenne senilità, mentre la figlia, presa ancora nel flusso vitale, soggiace al trascorrere delle stagioni. In Tersa zona deserta, sempre nell’autoantologia, “fermo nel tempo” è il “bosco” metaforico dell’anima (v. 14). 3 oggi quasi sorella: al momento della composizione di questa lirica la scrivente contava quasi sessantasei anni; la madre era scomparsa a poco meno di settantacinque: pertanto la differenza di età tra Paolina e Rina equivaleva a quella che può intercorrere tra due sorelle (ancora un’antitesi [“Ieri”-”oggi”] in due versi paralleli). 7 Sempre ... indietro: la poetessa sembra nutrire il timore di non poter più contare, una volta varcato il confine cronologico dell’esistenza della madre, sulla protettiva presenza dello spirito di costei a farle da guida, trovandosi assolutamente sola per un cammino sconosciuto. Palmare l’eco dell’accorata raccomandazione rivolta da Ada Negri, arretrante “nella crescente ombra”, alla figlia nell’explicit di Voto, in Dal profondo: “volgiti solo, qualche volta, indietro”.

56 Soglie, anno XV, n. 3

Marzia Minutelli

8-9 Fermami ... vita: per tangenze lessicali-semantiche cfr., nella redazione di Mani consegnata a Pr (quella di FS era profondamente diversa), i vv. 11-15: “[...] vigili mani,/ ferme al traguardo/ di vita, per la figlia,/ a consolarle di calore umano/ l’ingresso nella notte”. Ancora una volta la Pellegri dimostra doti di preveggenza non comuni: il suo auspicio funerario può infatti ritenersi pressoché esaudito, avendola colta la morte all’età di settantadue anni. 10 miliare: ‘pietra miliare’ – l’uso sostantivale dell’aggettivo che suggella la metafora viatoria è anche del D’Annunzio e dello Jenco (cade per l’appunto in un componimento della Vigna rossa di argomento affine, Preghiera) – e quindi ‘punto d’arrivo’.

Abstract

This paper offers to the attention of the reader a selection of twelve poems from collections published during forty years by Rina Pellegri, an unjustly forgotten Italian poet of the last century. A biographical sketch of the author and a historico-critical note that contextualizes Pellegri’s artistic experience introduce the small anthology. Each poem is preceded by critical and metrical observations and accompanied by precise explanatory notes.

Parole chiave

Rina Pellegri - Poesia ligure - Novecento

Soglie, anno XV, n. 3 57

Recensioni e note

Yves Bonnefoy, L’ora presente. Poesia. Milano, Mondadori, “Lo specchio”, 2013.

A breve distanza dall’uscita dell’edizione originale (Paris, Mercure de France, 2011) giunge la versione italiana, curata da Fabio Scotto, de L’heure présente di Yves Bonnefoy in una collana oramai storica. L’ora presente – che un sottotito-lo cataloga benevolmente sotto il genere “poesia” – testimonia della sempre, e più che mai, vivida vena di un nostro eminente contemporaneo, la cui esperien-za di scrittura valica le classificazioni dei generi: ne attesta, ancora una volta, questa raccolta, dove vige la complementarità tra “prosa poetica” e “poesia in prosa”. Chi, infatti, crede ad oggi di poter marciare solo avanti, secondo quella teleologia progressiva che fu appannaggio esclusivo dell’Occidente, o di dover retrocedere a comando come il verso, scandendo il passo, richiede? Ad una du-plice vocazione, insieme prospettiva e retrospettiva, nostalgica e lucida, si deve piuttosto l’esitazione, l’oscillazione baluginante dell’ “ora presente”, attraverso cui Yves Bonnefoy riconferma il principio e il fine della sua ricerca poetica: tale che il valore espresso nel titolo di una sezione (“L’ora presente”, p. 125 sq.) si estende, valendo metonimicamente per l’intenzione che la anima, all’in-tera raccolta. E se Bonnefoy sembra oggi tessere un dialogo più serrato con la tradizione è per richiamarla, attraverso la forza vivificatrice della memoria, ad un qui e ora, nostra sola eternità. Tale presentificazione – in un’epoca che sembra concedere, con certi isterilimenti neo-oggettivisti, ad una presa d’atto: la piattezza del presente alla fine della storia – restituisce alla estenuata ora in cui viviamo una eclatante viridità. Emblematico, della parola presentificatrice e del suo balenare, l’ossimoro che iscrive sotto il segno del paradosso la sezione iniziale, “Raturer outre” (“Cancellare oltre”).1 In questa contradictio in adiectio deve forse leggersi, in una, la denegazione del concettualismo storicista (che ci condanna, giunti alla fase inerziale del pensiero teleologico, al palinsesto delle idee), e l’accettazione piena di un confine: una liminarità astorica che, fattasi luogo franco della memoria collettiva, accoglie, sempreverde e intatta, la voce dell’esperienza dell’essere al mondo al momento in cui decade l’illusorio piedi-

1 Questa sezione è già apparsa in Francia come raccolta autonoma. Y. Bonnefoy, Raturer outre, Paris, Galilée, 2010.

58 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

stallo antropocentrico: “Un’illusione, la forma/ Che si dispiega, un sogno/ Che abbraccia la forma, e cadrà/ Con essa, spezzata,/ Spossessata di se stessa, a quei confini,/ Laggiù, della nostra notte di qui,/ L’ora presente” (L’ora presente, I, p. 127). La propensione di Yves Bonnefoy all’“inachevable”2 (valga, per tutte le felici metafore della “désécriture libératrice”, la facciata del tempio malatestia-no già evocata nel Tombeau de L.-B. Alberti in cui i numeri, esentati dalla loro funzione costruttiva e positiva rivivono, in forma di suono, una loro sensuali-tà giocosa)3 si riconferma nell’arrestarsi provvisorio della voce poematica al suo stato preliminare di “ébauche”. Nel Primo abbozzo di una messa in scena di “Amleto” (p. 102 sq.) è proprio l’abbozzo che consente, violando la soglia tra spazio della finzione teatrale e spazio della prima percezione del reale, ad Amleto di “vivere ancora”. Come un personaggio in cerca d’autore Amleto attraversa, protetto da provvisorie virgolette (che fungono da cornice teatrale) l’esperienza onirica della riscrittura a partire da una circostanza reale: la tradu-zione di Shakespeare che tanto ha segnato l’esperienza poetica di Bonnefoy. Così, “Amleto” in montagna, che segue il Primo abbozzo nell’immaginazione e nel libro (p.112 sq. ) è, insieme, una nuova rappresentazione e una ri-creazione (rinascita) del personaggio, che non cessa mai di rivivere sotto nuove spoglie e in nuovi spazi: “E il pubblico, non appena varcata la biglietteria, una piccola garitta all’inizio di un sentiero sotto una larga falesia, dovrà quindi spostarsi di continuo. In verità perché? È forse perché le varie scene della tragedia sono state disseminate, senza preoccuparsi della cronologia, in altrettanti luoghi della montagna?” (pp. 114-115). I generi si valicano, insomma, come montagne, alla ricerca di nuove esperienze iniziatiche, e la traduzione (da intendersi in senso lato come atto ermeneutico) è, come ci ha detto Benjamin, il ponte.

Non, dunque, di un palinsesto come stratificazione di istanti sedimenta-ti di memoria storica possiamo parlare a proposito di questa raccolta; bensì di una memoria volatile ma vigile, volta a riportare in vita, ad ogni passo (ad ogni ora) un trascorso insieme interiore ed anteriore. Il libro, denegatore della sua stessa idea di sequenzialità e di positività, è argento vivo che “non la smette di rialzarsi” (L’idea d’un libro, p. 41): e ciò proprio a partire dalla sezione inaugurale, che fa della citazione e dell’autocitazione il punto di par-tenza e di approdo di una voce mai depositatasi, e anzi alla ricerca costante del proprio “andare ancora” (Andare, andare ancora, p. 173: significativa la modalità iterativa e insieme itinerante…). E la memoria, esperienza pri-

2 Id., L’Inachevable. Entretiens sur la poésie 1990-2010, Paris, Albin Michel, 2010.3 Id., Tombeau de L.-B. Alberti, in La longue chaîne de l’ancre, Paris, Mercure de France,

2008, p. 111.

Soglie, anno XV, n. 3 59

Recensioni e note

maria perpetuamente intrattenuta, è come lo scoccare di una nuova ora che, annullando la precedente, non accumula – non stratifica – il tempo, bensì lo inaugura, come testimonia uno degli avverbi più cari a Bonnefoy, “encore” (Ancora una fotografia, p. 11; Ancora Amore e Psiche, p. 85). Senza dimen-ticare l’etimo di questo avverbio (hanc horam), che sembra voler rimestare, come già Rimbaud, acque morte, facendo turbinare profondi strati melmosi che opacizzano il passato sino a far baluginare la superficie acquea della coscienza alla luce abbacinante dell’oggi. L’“andare ancora” come paradosso temporale (dolore puntuale, sempre rinnovato nel suo scoccare, e sempre ac-colto come un dono) è attestato, in primo luogo, dal richiamo in eco di alcuni temi – ma meglio si parlerebbe di frammenti mnestici – dell’esperienza poeti-ca precedente (L’écharpe rouge, Le pianiste, La révolution la nuit; e, ancora, senz’altro, La Beauté, che ci riconduce a ritroso verso gli empiti antiplatonici del Bonnefoy surrealista). Questi, richiamati in vita all’ora presente, rinun-ciano al loro “compimento” (al loro destino storico) per essere reimmessi, at-traverso il procedimento costante della riformulazione, nel flusso vitale della parola parlata. Il richiamo delle cose alla luce sferzante dell’attimo da quello che Bonnefoy ha definito il “réel profond”, stabilisce con il passato non un rapporto gerarchico e paternale (che raccomanda l’ègida di un’auctoritas), bensì un legame fraterno, paritetico e conviviale (si ricordi il recente saggio su Rimbaud).4 La parola si appropria – organicamente – della citazione, ac-cogliendola, incorporandola nel proprio spazio vitale come offerta dell’altro. Per questo la citazione, già divenuta polemos (nel senso ch’essa denuncia la vanità di ogni doxa) è da intendersi, all’ora nuova, come symbolon: cibo condiviso con spiriti consimili, in un’agape sacra quanto laica che Bonnefoy chiama, in più occasioni, “la communauté”. Dopo il Tombeau che, con spirito autenticamente oblativo – ed, etimologicamente, com-memorativo – Bonne-foy dedica a Baudelaire in La longue chaîne de l’ancre5 (ricorderemo i versi di Le mort joyeux nelle Fleurs du mal: “Je hais les testaments et je hais les tombeaux…”) il poeta delle Fleurs du mal rivive in Je te donne ces vers… e in La Beauté (testo d’altronde già a più riprese rivisitato da Bonnefoy, e al centro della sua stessa poetica anti-intellettualistica). Nel richiamo in eco dei due componimenti si disfa di notte, come tela di Penelope, un’immagine al-legorica pazientemente tessuta dall’Occidente nel corso dei secoli: rispettiva-mente, l’ideale della Bellezza, e quello della Gloria. In Je te donne ces vers…

4 Id., Notre besoin de Rimbaud, Paris, Seuil, 2009.5 Id., “Tombeau de Charles Baudelaire”, in La longue chaîne de l’ancre, cit., p. 112. Ri-

cordiamo anche il saggio: Sous le signe de Baudelaire, Paris, Gallimard, 2011.

60 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

la tradizione apoforetica che Baudelaire e Mallarmé praticavano e, al contem-po, sottilmente denunciavano come vanitas (così contribuendo con certa dose di cinismo ad un anonimo palinsesto di epigrafie mondane destinate all’oblio) sembra essere accolta e rivalorizzata da Bonnefoy proprio attraverso la sua stessa negazione (o, ancora etimologicamente: la sua de-signazione): si trat-ta, insomma, di spossessare definitivamente il nome del proprio segno (che pesa e posa come un monumento) per ricondurlo al presente istantaneo della rivelazione-redenzione. Similmente, attraverso una figura a lui cara, la refle-xio, Bonnefoy intrattiene con Baudelaire, in La Beauté, un dialogo portatore di reversibilità e, insieme, di complementarità: accogliendo come oblazione l’ironico asserto baudelairiano rivolto contro le illusioni del Parnasse (“je suis belle, ô mortels, comme un rêve de pierre”), egli lo trasforma – e lo pacifica – in un’interrogativa: “Suis-je belle, ô mortels,/ Comme un rêve de pierre?” (“Sono bella, o mortali,/ Come un sogno di pietra?”). Nell’interrogativa si scioglie la tensione agonica del poeta col suo secolo e con la storia e si acco-glie, a mani aperte, il dono di parola nella dimensione pacificatrice del pre-sente. Il presente rasserenato consente al poeta di ricordare il “triste assenso” che la storia stessa, per secoli, ha tributato all’Idea, incoraggiando i poeti del passato recente, noto come “modernità”, ad opporvi una denegazione pole-mica. Allorché ci viene restituita la dimensione creaturale è, piuttosto che nei sembianti di una musa malata (evocata in La Beauté a mo’ di retaggio libresco di un mondo decadente e dolente), in quelli di una “bestia spaventata” che ap-pare il presente (Bestia spaventata, p. 74). Alla stregua del Dio ancora cieco de Les planches courbes6 (qui rievocato in Aucun dieu) la bestia spaventata ha una funzione salvatrice: essa è portatrice, attraverso la sua emblematica noluntas (insieme circostanziale e essenziale) di quel vuoto ontologico – (si veda Il nome perduto, p. 17) che le umili creature, con la loro oblazione di vita e di dolore – “pane e acqua” come recita il titolo di un componimento qui presente (p. 51) – possono risarcire, nutrendo la divinità affamata di verità e di vita. Solo rinunciando, come recita un titolo non a caso più volte riproposto da Bonnefoy, a “dare dei nomi” (Dare dei nomi, p. 45) possiamo accogliere in noi e far rivivere l’ora presente, l’atto primo, l’opera del mondo.

Ne esce, forse, “l’idea di un libro” (L’idea d’ un libro, p. 41)? Ogni ricerca è rivolta, piuttosto, verso il nome perduto, verso “il nome che consuma il li-bro” (Questo libro…, Il nome perduto, II, p. 19). “Un nome”, egli scrive, “vi è cancellato a ogni pagina,/ Ma il tratto che lo depenna è la luce” (p. 41). Se, alba annunciatrice e insieme denegatrice di ogni canone estetico, la bellezza

6 Id., L’encore aveugle, in Les planches courbes, Paris, Gallimard, 2001, p. 107 sq.

Soglie, anno XV, n. 3 61

Recensioni e note

esiste “sin dal primo giorno”,7 Bonnefoy sembra riconoscersi, insieme volens e nolens, tra segnatura e sua de-signazione, nel “bambino del secondo giorno” qui evocato (p. 35).

Siamo grati a Fabio Scotto, già curatore dell’edizione del Meridiano, di seguire così dappresso l’opera di Yves Bonnefoy, con voto sempre rinnovato di fedeltà all’originale: senza mai indulgere, da “sourcier” qual è, a soluzio-ni forse più riposanti cui la sua – e la nostra lingua – con la sua connaturata sintesi, talvolta ci chiama.

MichelA lAndi

Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo. Poesie 2010-2012, Massa, Transeuropa, 2013.

In questo ultimo libretto di poesie Anna Maria Carpi si impegna come al solito con grinta ed ispirazione vera. Ne risultano poesie toccanti ed impareggiabili, il cui senso è di conferire nuova linfa ad un tema centrale nella poesia del novecento: il grido d’angoscia per la disumanizzazione della nostra vita nella società della tarda modernità. Un tema come questo entrato da gran tempo nell’immaginario lirico della contemporaneità, lo ritroviamo nella poesia della scrittrice milanese portato ad un estremo, al diapason di un’acuità insoffribile. La disperazione per la morte dell’anima fa esplodere questo cuore che ora sembra arrivato ad un punto di non ritorno, e non si fa nessuna ulteriore illusione, non concede più niente alle ragioni del buonsenso (“Ora vorrei soltanto un uragano/ e tutto fosco, nero e lampi, vetri in lacrime,/ e tutto cancellato,/annullato per sempre/ tutto ciò che si vede” (p.21).

La poesia non ha più nulla da dare a chi in lei cerca consolazione. E invece imperterrite tante persone continuano a chiedere alla Carpi il suo parere sui loro versi!

E intanto non si sono accorti della cosa terribile che è accaduta. “Oggi di grande non c’è che l’oblio,/ questa coperta misericordiosa,/ ultimo segno di un divino in terra/ al caldo al buio nella cecità,/ solo qui sei con gli altri” (p.29). La Carpi non si risparmia le accuse e non si perdona, anzi riconosce le proprie colpe. In lei la residua voglia di continuare a vivere non nasce da qualcosa di gioioso che continua a vivere, ma come pura sopravvivenza, è solo paura di affrontare la morte. Come sono lontani i tempi del principe

7 id., La beauté dès le premier jour, Périgueux, William Blake & Co, 2009.

62 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

di Homburg immortalato da Kleist che aveva il coraggio di esclamare “o immortalità tu mi appartieni...”. Mentre il futuro della morte che ci aspetta tutti ha il volto sinistro di “una terrea quiete” e non rimanda a nient’altro che alla sua irrealtà.

La nostra autrice rivendica il merito di aver sempre vissuto cercando consolazione del suo e nostro stato di precarietà, e lo ha fatto esercitando la virtù dell’obbedienza con cui si accettano le regole e i doveri sociali, il che impone di nascondere i propri desideri: ammette di essere stata in fondo soltanto “una clandestina... una sans papiers/ e mi fa tremare/ quanto di me dichiaro”. Dimodoché solo raramente ha trovato sollievo dall’infelicità tanto che ora deve amaramente constatare che “la tenebra è vuota”, terribilmente vuota, e che Dio non esiste. Nella sua vita “la passione è rimasta come in un’altra stanza”.

Essa si trova ora a vivere “senza un compagno di speranza” ed è sola, assolutamente sola. Mentre la natura intorno continua a vivere la sua incredibile eternità. Incredibile è il ripetersi del sempre uguale: “quest’inno alla luce:/ il merlo che si desta,/ col suo a-solo sublime,/ e dopo di lui il silenzio. Dormono ancora i piccoli,/ quei plebei dei passeri. Poi è un unico slancio,/ un noi vogliamo vivere,/ avanti tutta, che ora sorge il sole” (p.52). È stata una colpa grave, nata da uno stato di confusione, non aver vissuto di più terra terra, come fanno le persone comuni, “tra ciarle e risa”, che è la cosa che sola rende la vita vita, quando si riesce a morderne la polpa fino all’osso. Ora le parole definitive che l’io poetante pronuncia la rivelano finalmente nella sua nuda ed estrema verità. Il desiderio inesausto che ha accompagnato tutta la sua vita ora finalmente riesce a venir fuori nella sua semplice e disarmata verità. “Che farò quando sulla memoria/ mi scenderà la nebbia,/ non troverò più i nomi delle cose,/ non avrò che il desiderio di un abbraccio?”, quello che è il più primitivo, il più povero degli impulsi? Essa infatti al momento di scomparire vorrebbe solo essere abbracciata ed essere in compagnia degli altri, non morire da sola ma in compagnia di qualcuno. Questa è la sua scarnificata, umile e a suo modo santa verità umana.

Eppure, giunta al termine di questa sfibrante confessione essa si rende conto tuttavia che, finché dura la vita, la speranza non rinuncia ad esercitare i suoi diritti. Sarà vero o sarà un residuo incoercibile di ottimismo, di volontà d’armonia e di euritmia, un bisogno dunque di non concludere con un bilancio totalmente in rosso? Fatto sta che, nel momento finale ecco ricomparire, quando meno ce lo aspettiamo, la gioia. Sarà lei o un suo fantasma? “Di dove viene che non la vedo,/questa speranza... questa gioia improvvisa/ fuori del cuore,/ aliena,/ e canta/ la sua infinita ragione d’esistere?”

leAndro piAnTini

Soglie, anno XV, n. 3 63

Recensioni e note

Nina Cassian, C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, Milano, Adelphi, 2013,

traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica.

La presente, ampia antologia – centosette poesie che coprono oltre un sessan-tennio – è la prima pubblicazione che rende finalmente disponibile al lettore italiano, nella sua completezza e complessità, la produzione poliedrica ed estre-mamente sfaccettata di Nina Cassian, di cui si avevano sinora solo rare testimo-nianze in volume o in rivista. La raccolta, curata da Ottavio Fatica, include sia i versi in romeno che quelli scritti in inglese durante l’esilio iniziato nel 1985. Lo stesso titolo, A Proper Way to Vanish, che riprende a posteriori quello di una poesia scritta originariamente in romeno, dichiara efficacemente questa poetica delle contaminazioni linguistiche; al romeno e all’inglese va peraltro aggiunta una terza ‘lingua’, lo ‘spargano’, di cui scriveremo in seguito.

Nata a Galaţi, nel 1924, in una famiglia di ebrei romeni, la Cassian riflette, nella sua prima produzione, i dettami del modernismo romeno e dell’avan-guardia, nel cui filone (nello specifico surrealista) s’inscrivono le prime prove in rivista e il volume d’esordio, In scala 1:1, del 1947, fino all’imporsi del proletcultismo, i cui rigidi modelli faranno da canone alla poetessa fino al 1956-’57, a seguito di un attacco lanciato dalle colonne di Scînteia dal criti-co Traian Şelmaru. Sin dagli esordi Tudor Arghezi le attribuì comunque un “talento incontestabile”; il poeta-matematico Ion Barbu annotò sul volume d’esordio: “grande poesia”.

Significativi, per la loro connotazione avanguardistica, i seguenti versi della Cassian, nei quali sembra di rivedere i curiosi personaggi delle opere in prosa di Urmuz:

I miei visitatori sono:un signore interrotto nel mezzo,una donna continuae la loro figlia di latta,un professore che insegna formaggio,un assassino raffreddato, una colonnadi formiche nubili […]

(Alle prese con il caos, p. 23)

In Bach (Nina Cassian è anche musicista) ritroviamo la germinazione sur-realista, la trasposizione poetica della dialettica, gli automatismi teorizzati da Breton, che proprio nel secondo dopoguerra vivono una nuova fase in Romania:

64 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

[…]Fin dove si stendono movimenti contrari la mia attenzione erracome su scale viventi, dove sale e scende il pensiero,perché tra due suoni che si susseguonoc’è un alleanza fondamentale come tra due molecole, di uranio,come tra la “e” e la “a” della parola “idea”;tra due suoni c’è la lotta dei contrari corpo a corpo,punto contrappunto, balenare di voci senza requie,[…]

(Bach, p. 53)

L’insistenza su elementi come il sangue (ricorrente prevalentemente nei versi erotici), le ferite, l’acqua o in generale i liquidi (segno della continua tra-sformazione dell’esistente, non a caso “qui come altrove tutto si rimescola”, p. 25), la presenza di pesci, ippocampi, meduse (“Un giorno uscimmo urlanti/ dal mare gonfio di meduse,/ ci estirpammo dalla colla/ insidiosa, sotto la luna/– lei stessa una medusa in cielo”, p. 69), evocative immagini acquatiche (“come ac-qua nelle reti fra le chiome”, p. 67) stanno a testimoniare la profonda adesione alle poetiche surrealiste, non solo come forma e modalità di creazione poetica, ma anche come sensibilità e interiorizzazione d’analisi lirica.

Il tema della trasformazione ricorre in tutto l’arco della produzione poe-tica della Cassian, anche con incursioni nell’esistenzialismo, attraverso una riflessione costante sullo scorrere del tempo (e infatti un’antologia del 1970 avrà come titolo Cronofagia), sul passare delle stagioni (soprattutto la fine dell’estate e, in parallelo, della giovinezza), sulla vecchiaia, sulla morte. Dai versi tradotti dall’inglese:

[...]Non importa, rifacciamolo,stupiamoci, festeggiamoil pattume, i fiammiferi inservibili,le strade soffocate dall’odio confuso– anche se la ragazza è una megera ormai –stupiamoci, sgoliamoci ai grandiosifesteggiamenti della molteplice decrepitudine:un po’ come cadere dall’autunno nell’inverno

(Cheerleader per un funerale, p. 281)

[...]E poi, quel dialogo con la lunache ti tiene sveglia,e poi, quel sogno di mortediventa sempre più remoto– o viceversa?

(Ingiovanimento, p. 253)

Soglie, anno XV, n. 3 65

Recensioni e note

Alcuni versi propongono toccanti reminiscenze di Majavovskij, poeta tra-dotto dalla Cassian; ed ecco che L’oltremusica potrebbe dialogare con Lilička – in luogo di una lettera del poeta sovietico (ma l’esercizio potrebbe esten-dersi a Celan, a Brecht…):

Dissimile dal fumo che mi accarezza i bronchisenza però ferirli – la tua presenza penetranella mia prigione,o uomo a lungo atteso,o mio torturatore – benvenuto!

Ero libera nell’aria,libera nell’acqua e nel fuoco.Adesso uccidimi ma con dolcezza,tienimi tra le braccia per un attimopoi lascia che io cada a terrao mi sollevi come fumo.[…]

(L’oltremusica, p. 211)

Nel solco della tradizione avanguardista – pensiamo allo zaumnyj jazyk (lingua transmentale) dei futuristi russi, o alla “lingua leoparda” del surre-alista Virgil Teodorescu – l’antologia ci propone Imprecazione, presentata nell’originale in ‘lingua sparga’, o ‘spargano’ o meglio ancora ‘romeno-spar-gano’ e, cosa interessante, tradotta (interpretata?) in ‘anglo-spargano’ e ‘italo-spargano’. Lo spargano, definito una lingua inventata dalla stessa Cassian, è in realtà una forma di espressione artistica basata sulle strutture del romeno ma con parole inventate di volta in volta a seconda dei princìpi del fono-simbolismo. Qui, in originale, due versi dell’Imprecazione: “Te-mdoridez, guruvă şi stelpică norangă,/ te-mboridez să-ţi calpeni introstul şi să-ţi gui” (Imprecaţie, p. 230).

La traduzione dal romeno di Anita Natascia Bernacchia coglie in pieno le sfumature a volte ironiche, a volte liriche dell’originale, sia quando la Cas-sian ‘attacca’ l’interlocutore o lo provoca col discorso diretto (La tentazione), sia quando il tono diventa introspettivo (Ermetica). L’esito è dunque quello, riuscito, di produrre nel lettore italiano le stesse reazioni del lettore romeno. Restano da annotare alcuni innalzamenti di registro: “când se face frig” reso in italiano con “quando il freddo si promana” (p. 31), oppure “mi-a fost dat, mi-a fost scris” reso con “mi è stato scritto, mi è stato dato in pegno” (p. 217). Le poesie tradotte dall’inglese, lingua che per la Cassian sembra esse-re motivo di assaggio e sperimentazione, vengono trattate da Ottavio Fatica

66 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

con lo stesso metro, ovvero con maggiore libertà, quando la poetessa sembra sperimentare (Sibillario), oppure rimanendo più legato all’originale quando il componimento ha una struttura più rigida.

L’oscillazione tra le due (o tre) lingue usate dalla Cassian è comunque un problema che l’autrice risolve, in via definitiva, con i quattro versi scelti per chiudere l’antologia, una dichiarazione d’amore esplicita che delinea un punto fermo esistenziale oltre che poetico:

Pur se verrò sepoltain una terra aliena:risorgerò un giornonella lingua romena. (p. 283)

§

Un omaggio interessante (e divertente) all’opera di Nina Cassian è conte-nuto nel volume d’esordio di Marin Sorescu, Solo tra i poeti, del 1964. Si trat-ta di un libro di parodie del poeta e drammaturgo romeno, in cui egli propone poesie nello stile di alcuni suoi contemporanei, oppure dei classici romeni e stranieri, questi ultimi nelle ipotetiche versioni di celebri poeti-traduttori romeni. Riportiamo dunque, per concludere, questa parodia (in versione ita-liana), che sarà di certo apprezzata da chi ha amato la poesia della Cassian e da chi conosce l’opera di Sorescu.

Cosa ci serve ancora (Dal ciclo Buongiorno, regali!)

Le donne hanno un che di papua:Le incanta il microcosmo di una perlina,Il miraggio di un vetro colorato,Posseggono la sorprendente capacitàDi vedere in un pezzo di mussolaCon alberi e uccelli stampati sopraEsattamente ciò che c’è:La terra con alberi veri e uccelli non stampati.Uomini!Come Cristoforo Colombo sulla riva sconosciuta,Blandite con dei doni l’ingenuità delle mogli, delle vostre amate...Merita!Poiché ogni donna è un intero continente,Più o meno scoperto.

Allo stesso tempo, voi, donne,

Soglie, anno XV, n. 3 67

Recensioni e note

Venite incontro alla loro attenzioneCon grappoli di attenzioni,Anche agli uomini piacciono, in eguale misura, i regali,Essendo anche gli uomini donne –Da questo punto di vista.Appendetegli dunque al collo, assieme al fresco abbraccio,Quella striscia di cometa chiamata cravatta.E anche se non intendete comprare a vostro marito delle scarpe,Chiedetegli ogni tanto, come per caso:“Che numero porti al tuo caro piede, amore?”Sì, facciamoci regali gli uni agli altri,Questo è un altro gradino scalato.

Solo le bestie non si fanno maiRegali.Andiamo fin là,Raggiungendo il nostro ragazzo, per dirgli (semplicemente, in modo carino):“Ti ho portato un frigorifero, dove lo metto?”

Ed ogni volta che mangerà uno yogurt freddo,Il tuo ragazzo penserà a te (Cosa c’è di più bello?)E dirà allo stesso modo semplice, senza enfasi:“Questo frigorifero me lo ha portato Popescu.Già, Popescu...”E continuerà a mangiare...

Così come ci regaliamo i pensieri, le parole, i sentimenti,Regaliamoci gli uni agli altri profumi, fazzoletti, guanti...Questi piccoli regali(Che, peraltro, costano molto poco:Le perle false: 3 lei al chilo).Sono come bandierine disfatte,Che segnalano attraverso la luce trasparente del giornoCome cresciamo e decresciamo nei nostri occhi.

FlAvio peTTinAri

68 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

Daniele Piccini, Inizio Fine, Milano, Crocetti Editore, 2013.

Luce e oscurità, attesa e ritorno, eliotiana danza delle stagioni e delle costella-zioni, Inizio Fine di Daniele Piccini è un’eterogenea raccolta che, nell’intrec-cio di forme classiche (quali l’uso ricorrente dell’endecasillabo), di citazioni letterarie e di frammenti di realtà quotidiana (i dialoghi spezzati in cui la voce dell’io si confonde ad altre voci), riflette l’incessante divenire del tutto e l’ansia di un riposo che non sia il semplice placarsi dell’“istinto della specie” (cfr. p. 56).

Le quattro epigrafi, in successione cronologica, da Giovanni (Prima che Abramo fosse io sono), da Dante (ella, non tu, n’avrà rossa la tempia), da Ver-ga (Ad albero caduto accetta! accetta!) e da Luzi (...quell’abbiosciato/ sacco già di oscura carne) introducono uno dei temi chiave del libro, la violenza della storia: i giudei che raccolgono pietre per colpire Cristo, costringendolo a nascondersi, la tempia rossa di sangue (o di vergogna) degli avversari di Dante, il facile scagliarsi contro chi è caduto in disgrazia nel cupo realismo del proverbio siciliano, fino alla “sconcia stiva” che segna il destino di Aldo Moro, la vittima dei nostri tempi, “l’abbiosciato sacco” che diviene il simbolo del male che uccide ogni mente troppo fine e lungimirante.

La raccolta si apre con una visione cosmogonica; il non essere dell’uma-nità, il fluire delle nubi, lo sciogliersi delle atmosfere, la cenere che nasconde i “nati ad essere”, sono ricordi, lacerti di un’impossibile memoria (p. 9):

Quando eravamo morti ancora, i fiumidelle nubi correvano e le liquideatmosfere. La paglia incameravala luminosità solare: era.Sotto cenere e cenere, inevasistrati di nati a essere, avevamole nostre mani – non – mani nel grembo:era una pace infida, sconfinata.Le lucciole gremivano la storia,il desiderio allungava il suo morsoma noi, oscuri a tutto, intemerati,non eravamo nati come partedella materia muta che obbedisce.E sì, ritorneremo... chiunque chiami.

Soglie, anno XV, n. 3 69

Recensioni e note

Le lucciole richiamano il poeta che più di ogni altro ha avvertito la vastità del cielo e del cosmo: il moto della natura, il suo eterno ritorno, è anche il leopardiano moto del cuore.

Il grembo che nasconde i non nati è il simbolo di un’attesa innocente, non ancora turbata dalla conoscenza, è il bene di un “enigma senza nome”, quan-do ancora la natura non manifesta il suo volto oscuro, popolandosi di segni indecifrabili, come “il volo/ a picco degli uccelli meridiani” (p. 13). Nel labi-rinto del reale, “gli occhi lucenti” – “monili”, occhi di una Beatrice intravista “nella sera della piazza”, occhi liberi dalla prigionia della storia (p.18) – si scontrano con “gli occhi del potere” (p. 15), con la violenza che trasforma l’universo in regnatela e rende sole e smarrite le stelle (cfr. p. 20).

Il sorriso che incanta non trasporta più da un cielo all’altro, non muove verso il Paradiso, ma è il “sorriso gassoso” dei ragazzi che “ingoiano pastic-che” (p. 21), simili agli animali che tremano nella loro gabbie, “forma divina” o “ferita” di un’esistenza, in cui diviene sempre più difficile “capire, scende-re, risalire...” (p. 23). Un gelo infernale ostacola la salvezza e pare impedire il ritorno anche quando si incrina o si scioglie (passim):

“sentire l’acqua del disgelo tuttala notte gocciolaredai rami folti e vastisotto le stelle basse”

“trasalire allo scioglimento vacuo,sapere che non ti riguarda,[...]”

“Ora è il tempo di entrare nell’inverno.”

“e ancora, ancora tornail disgelo, persuade:”

Eppure, tra i “soffi/ delle bestie acuiti” e i “lamenti” (p. 47), è ancora possibile spingersi oltre, cercare di capire, ritrovare nella propria infanzia un incanto di estate, lasciare che riaffiori dalla memoria un paesaggio dai contorni più misurati ed umani, le “colline pecorelle” dove i fiumi affollano “di voci il si-lenzio” e preparano un grembo per “le creature imperfette” (p. 105). Il cosmo si restringe ad Assisi, al paesaggio umbro dove il poeta è nato, un paesaggio di “poveri franceschi” che parlano ai cani e dormono sulla terra (p. 107):

70 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

Questi poveri franceschi o pacificiprendono poco, spicchietti di mondo,mentre parlano ai cani con le maniammaestrandoli sul nulla del fondo.Dormono sulla terra come serpinon fanno patti, presto sono abrasidal computo del tempo, ma apertiparlano per non essere compresi.Non c’è intesa per questi che rifiutanodi adorare la veste del creatoqual è – gettando semi per rifarlo:cambiano posto a una preposizione,ad un “sorella” accoppiano la morte...stranieri passano via, si distruggono...

I frati non scendono a patti con il mondo e non conoscono l’incertezza di chi si abbandona alle promesse dell’amore profano (cfr. p. 108, explicit):

Andiamo dove vuoi: spazio del giocoè il fianco che contiene già il guizzaredel nuovo nato, e niente è più sicuro.

Niente è più sicuro, perché “solo l’amore esiste”, ed è profano e divino al tempo stesso; l’amore “intemerato” dei frati per Dio e quello, “colpevole di desiderio”, che unisce uomini e donne, coincidono, come il principio e la fine (p.114):

“In verità solo l’amore esiste,l’amore e la sua faccia in ombra, l’ansadel sole nella notte, la sua attesa...ma anche lì non si stanca e non è triste.Costruisce da solo la sua stella,percorre nebule ed ere a gheriglio,trapassa gorghi di materia spentafino al divino, che brucia in un figlio.Amore solo esiste – e fa la notte,perché tu possa pensare al suo voltoliberato per sempre dalla morte”.

Nella danza che non si arresta, c’è un tempo per vivere, per generare e per leva-re, a Dio o alla natura, una preghiera (p. 41): “Fa’ che chiuda le mani/ a stringere qualcosa, fosse pure/ la mano di qualcuno andato via/ ma che lasci la traccia nella mano,/ fa’ che ci sia, tra una lucciola e l’altra,/ ancora la mia vita.”

silviA MoroTTi

Soglie, anno XV, n. 3 71

Recensioni e note

Enrico Testa, Ablativo, Torino, Einaudi, 2013.

Non è che un continuo movimento di allontanamento da sé la cifra espressiva ricorrente di Ablativo, l’ultima raccolta di Enrico Testa. Ricorrente, ma in molteplici manifestazioni, entro una struttura semantica che, percorrendo le undici sezioni del libro, attraversa immagini, situazioni, spazi e tempi differenti, dominati da un io poetico schivo, introverso, quasi deliberatamente marginalizzato; una riservatezza che certamente non comporta alcuna rinuncia dal punto di vista gnoseologico, ma che implica un reciso rifiuto di ogni tipo di assolutizzazione e di ogni fenomeno di esaltazione egotica.

Non a caso dominano gli stati intermedi e di passaggio: dalla dimensione onirica, orizzonte ambiguo per antonomasia, alle immersioni nell’universo mnemonico, in cui l’io incorre in un processo di oggettivizzazione quasi straniante, passando per i frequenti spostamenti da un luogo a un altro, con incursioni anche in ambienti esotici e remoti, venati da una volontà di documentazione che è, sì, descrittiva ma anche e soprattutto identitaria. In questi luoghi si accendono talora, a intermittenza, alcuni barlumi simil-montaliani (“Poi, piano piano, le candele/ si sono accese l’una dall’altra./ Un’allegoria scaltra/ ma anche una breccia/ nel muro della giornata”; “Eppure proprio qui siamo pronti/ a scoprirci unici e soli/ tra i relitti glaciali/ le miniere le cave/ che slabbrano d’ocra/ il verde delle montagne...”), rivelatori di qualche pulviscolare e transitoria verità soggettiva, senza che, tuttavia, vi siano mai un punto fermo, uno sguardo risolutore o una certezza definitiva. Ciò che emerge prepotentemente, in tutte le sue contraddizioni e la sua mutevolezza, è il dato di realtà, che l’io poetico osserva, oscillando al ritmo delle sue tortuosità, ma non aderendovi pienamente e, anzi, interponendovi molte volte un certo grado di distacco ironico. Il mondo descritto, inquadrato in una costellazione toponomastica che va dalla più minuziosa precisione alla massima indeterminatezza e dal contesto del nucleo familiare a quello di ambienti sconosciuti e lontani, rifulge di elementi vegetali, animali e paesaggistici variegati, il cui impiego risulta funzionale alla rappresentazione di una sensibilità che non può fare a meno di partire da una situazione o da un evento concreto per fare versi. Nel mondo in cui viviamo o, più umilmente, nei semplici “quadretti di genere” che ci troviamo dinanzi si affacciano talvolta scintille di commozione nostalgica e partecipazione (“Ma allora perché c’inteneriscono/ sino alle lacrime?/ Forse perché lì brilla/ qualcosa di nostro e di perduto/ volato via veloce tra le ombre?”) o, in altri casi, manifestazioni tautologiche della natura, impermeabili ai segreti reconditi (“non portava notizie di nessuno/

72 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

l’ape che ti punse la mano/ nel camposanto di Dego”), o identificazioni inaspettate con contesti di ambigua imprecisione geografica (“poteva essere Mantova”), o ancora alterazioni prospettiche che ispirano nuovi sguardi sulla realtà (“Non sentite quanta pena/ si nasconde, ritrosa,/ dietro l’idillio?”). Così, pare ricordarci Testa, l’esistenza gioca la sua partita su più tavoli e si mostra cangiante nell’aspetto e percorsa per intero da una contraddittorietà tale da far convivere situazioni e sentimenti apparentemente inconciliabili. Non si escludono a vicenda dunque la freddezza glaciale di richieste di aiuto, formulate nel bel mezzo di un paesaggio spettrale, a un tu assente (“Aspetto, nel gelo, che qualcuno mi chiami”) e le immagini di gioia infantile e plurale di “giocano giochi antichi”, in cui un personaggio non identificato e descritto in terza persona si immedesima partecipe, benché in posizione appartata, con ciò che lo circonda; e coesistono le ricorrenti tinte cromatiche accese, sovente riferite a elementi vegetali o, in senso lato, naturali, e quelle fosche e fredde legate alla morte.

Con un uso sapientemente dosato e, a tratti, dissimulato degli strumenti retorici, con frequente, ma mai ostentato, ricorso a rime, allitterazioni e iterazioni varie, l’autore, registrando le percezioni di un io poetico non univocamente identificabile e manifestazioni immanenti colte nella loro irriducibile varietà, trascina il lettore in un universo, soggettivo, certo, ma anche collettivo, di cui non si riesce a rilevare alcuna certezza rassicurante, ma di cui si accetta la regola principale, e cioè che la coscienza individuale non si afferma come un dato precostituito e definibile una volta per tutte ma si costruisce per brandelli di esistenza, il più delle volte incoerenti tra loro, e per accumulo progressivo di esperienza: gli affetti, i sentimenti, le occasioni di vita, i paesaggi naturali, i viaggi, la memoria, il sogno compongono questo mosaico variopinto e inafferrabile. Persino i morti, presenze attive già in Sereni, tradiscono il loro statuto incerto e, sottraendosi a classificazioni riduttive e scartando il ruolo di alterità minacciosa e incombente ad essi assegnato nella percezione comune, recitano la loro parte nel mondo dei vivi, confondendosi spesso con loro (“Qui, dove stiamo/ immobili ad aspettare/ creduli e fiduciosi/ nel chiuso dei nostri forti/ – noi, la parte viva dei morti”).

Le figure funeree o comunque di transizione, come quella dell’ombra, pur nella loro ricorsività, non generano mai una prospettiva nichilistica: affiora, infatti, una, ancorché cauta, fiducia nella facoltà linguistica e, nello specifico, nella parola poetica. Se la lingua è descritta esplicitamente come anti-babelica in “elma in turco significa mela”, cioè come una forza in grado di unire piuttosto che dividere (“ci tiene – tra sbreghi impacci e nodi –/ ancora legati insieme”),

Soglie, anno XV, n. 3 73

Recensioni e note

specularmente la poesia, in A Edoardo Sanguineti, riveste ancora una funzione, benché non meglio definita (“i versi, se vuoti di ogni albagia/ e ridotti quasi a patiti patemi del pathos,/ servono ancora./ A poco ma servono/ anche se a chi e a cosa non so”). Senza indulgere a una fiducia ingenua e incongrua rispetto ai tempi, Testa recupera l’idea del linguaggio come strumento comunicativo, in grado di legare assieme le multiformi manifestazioni umane e al contempo di rivelare, quasi con automatico percorso di inabissamento (“le concrezioni geologiche della lingua”), significati reconditi e non rintracciabili dietro gli orpelli esornativi di cui sono spesso rivestite le parole.

Così scopriamo che “l’io asfodelico”, auto-emarginato e assimilabile alle creature animali celate in anfratti reconditi, menzionate in “la carpa centenaria immobile nel fango”, nasconde in realtà, sotto l’apparenza di un dire compito e insincero, eruzioni incontrollabili e una “corrente impetuosa” e passionale, di cui sospetteremmo se non sapessimo già che nel mondo poetico di Ablativo gli opposti convivono.

E se l’ablativo si definisce, certo, come allontanamento da sé, esso comprende anche la funzione strumentale, locativa e comitativa. Come a dire che il mondo è un tessuto di sé differenti, che il dono della parola mette in comunicazione tra loro: e se è vero che custodiamo per i posteri “un vuoto/ una possibilità senza risposte” ed è, perciò, escluso che si possa giungere a una qualche verità, l’eredità che trasmettiamo è “popolata però di storie e voci”, che possiamo condividere con gli altri, consapevoli del fatto che “l’essere è questo qui” e che lo esauriamo tra di noi “senza maiuscole”, ma in una fitta rete di rapporti e legami, spazi e tempi, sentimenti e percezioni che riempiono il nostro bagaglio. Per questo suona come un monito, o forse una regola comportamentale, il distico finale de La falciatrice, traduzione di The Mower di Larkin: “dovremmo essere l’uno dell’altro attento/ e gentili anche, finché c’è un po’ di tempo”.

dAMiAno MoscATelli

74 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

Note sui libri ricevuti

Ubaldo de Robertis, Se la luna fosse… un aquilone, Monza Brianza, Limina mentis, 2012.

Il libro di De Robertis si chiude, emblematicamente, con un punto interroga-tivo (“e poi credi che la natura/ ti risponderà?”), eloquente segno di una con-dizione tipicamente moderna, quella della realtà come impenetrabile enigma. Altro notevole segno è la presenza di non poche poesie in alcune delle prin-cipali lingue europee, tradotte con autentica sensibilità linguistica dall’autore stesso. La nostra identità – pare intenda dirci De Robertis – è plurale, siamo stranieri, incapaci di attingere la trasparenza, l’armonia col mondo e con noi stessi; da cui la necessità di un’opera infinita di traduzione. Ma ogni tradu-zione ha come confine invalicabile il silenzio. Tanto che la poesia eponima del libro è centrata sull’ossimoro, non a caso in corsivo, “silenzioso eloquio”: parola che ospita il silenzio; silenzio che invoca la parola.

Il libro di De Robertis è di ampia varietà metrica, il tono prevalente è quello lirico-meditativo, con un io che si rispecchia nella natura; efficaci sono le clausole gnomiche. Le poesie più risolte sono quelle in cui l’autore lascia che a parlare siano le cose stesse, come ne La conchiglia, in cui il simbolo si dà con perfetta, diretta evidenza.

sAuro dAMiAni

Adelina Ferrini Policardo, Il viaggio.

Queste righe intendono essere un omaggio a una poetessa e operatrice cultu-rale pisana dai multiformi interessi, soprattutto storici, alla quale la città deve non poco: la Ferrini Policardo, deceduta nell’ottobre del 2012, concorse, ad esempio, a fondare il “Premio Pisa”. Il viaggio, sua estrema raccolta poetica (priva di anno di pubblicazione e di casa editrice), testimonia una genuina ispirazione e una viva sensibilità per i molteplici aspetti della vita, sia natura-le che umana, sentita nella sua bellezza ma anche nel suo insolubile enigma. Il topos del viaggio consente all’autrice un’ampia esplorazione, anche geo-grafica, dell’esistente, fra ombre e luci, incontri e perdite, notizie di “droga, sequestri, rapine”. La profonda fede della Ferrini Policardo trova la sua più intensa espressione nella preghiera al “Signore crocifisso”, a cui la poetessa chiede, con accenti commossi, che la sua anima “resti cristallo”.

sAuro dAMiAni

Soglie, anno XV, n. 3 75

Recensioni e note

Lucetta Frisa, L’emozione dell’aria, Sondrio, CFR, 2012.

Questa nuova raccolta di Lucetta Frisa è tutta nel segno della musica, allusa nel titolo e subito definita nelle sue versatili proprietà (“desiderio senza paro-le/ annuncia/ allude/ elude”), e nella sua dirompente forza eversiva del banale quotidiano (“spacca l’opaco”).

La musica così è strumento più idoneo a catturare il “fremito tellurico”, a raggiungere una pienezza vitale, un’armonia col tutto, troppo facilmente e colpevolmente rinunciata; ed è tempo sprecato illudersi di penetrare, fissan-dole e definendole, le superfici delle cose.

Siamo alla radice della ragion poetica della raccolta esposta con lucida intelligenza critica dall’autrice, in un’intervista a corredo: “la lacerazione tra un pensiero razionale che vorrebbe ‘definire’ e una pulsione ‘inafferrabile’, crea dentro di me e nella mia poesia una zona ‘borderline’, metafisica e in-terrogante, che talvolta genera, come superamento di ogni tipo di contrasto e contraddizione, un’amara ironia”.

Il libro ha una chiara struttura unitaria. Nella prima sezione, Desiderio senza parole, i titoli, dati dai tempi del metronomo (allegro, andante con moto, tempo di marcia…), accompagnano il flusso poetico, in un diagramma ascendente, “a un passo dai confini”, finché infine, in Credo, questa eleva-zione si suggella in una dichiarazione di fede totale nella musica (“io credo/ nel suono fatto carne/ pane a pezzi/ diviso qui tra noi”) come liberazione e salvezza dalla quotidianità opaca e frustrante.

Definite così le coordinate di fondo, la seconda sezione, Les amusements, amplifica in misure più spaziate la riflessione esistenziale.

Qui l’ambiente è un interno domestico, un salotto in cui si ascolta e si esegue musica classica e contemporanea, abitato da due sole presenze: il si-lenzioso compagno di vita e di passione musicale, e la protagonista che, in un assiduo soliloquio, ora gli indirizza l’invito ad assecondarla nelle sue pulsioni (“il mare è qui sul pavimento/ dammi la mano per entrarci dentro”) ad un passo dal traguardo ambizioso ed appagante, in una magica e folle oltranza vitalistica (“voglio cucire/ ricucire/ scucire il mondo”); ora reclina sulla con-sapevolezza della realtà (non per caso, il salotto è definito “accogliente trap-pola e tempio”). Ma subito sopravviene lo scatto di una indomabile reattività (“la calda vita non c’è mai stata ma domani/ mi vestirò di rosso/ balleremo il flamenco”. Questa mobile pluralità di emozioni trova volta per volta un aderente commento ritmico e sentimentale nel rimando, evidenziato nei titoli e nelle dediche, ad autori musicali della tradizione classica.

Profondità e levità sono i segni distintivi della raccolta. Si veda ancora,

76 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

nella citata intervista: “ci tengo moltissimo che ogni dramma – almeno quello trascritto in poesia – appaia lieve”. Leggerezza che, sul piano espressivo, è garantita dalla plastica vitalità delle immagini, dall’ariosa distribuzione delle parole sulla pagina, dal ritmo fluttuante; infine dai dosati apporti di una sapida ironia, come quando, nella “danza degli spiriti beati”, l’aspirazione sorridente ad una conclusione di giornata felicemente appagata si risolve “nei campi elisi del Lorazepam”.

giAncArlo BAchini

Alberto Amorelli, Elegia dell’inverno – Matteo Pazzi, Bestiario dell’estate, Ferrara, Kolibris, 2013.

Trentacinquenni e ferraresi, i due autori propongono questa raccolta bicefala come un testo a specchio, leggibile anche come un libero e personale andiri-vieni fra le due sillogi: un confronto-incontro fra sensibilità.

Complementarità che è nei titoli, speculari, e nella costruzione: in en-trambi i poeti, il repertorio di oggetti e situazioni-tipo, dell’estate per l’uno, dell’inverno per l’altro, è lo spunto per rappresentare il fluire di emozioni e sentimenti.

Per Pazzi l’estate è incandescenza di vita, e a restituire la violenza quasi dolorosa se ne imbeve, con un’aggressività metaforica che nei suoi vertigino-si cortocircuiti riesca a stanare il fondo delle cose, ne estragga la magmatica essenza. Con un procedimento frequente, pertanto, assimila e identifica im-magini ‘alte’ (le stelle, il mare, la sera, il mattino, l’amore), dotate di indefi-nita densità evocativa, a oggetti ed emozioni quotidiane, ottenendone effetti ora di abbassamento, ora di sublimazione: in ogni caso una verità che rompe lo stereotipo.

Tanto più, a contrasto, suona intollerabile, la banalità dei riti che svili-scono e dissipano la forza dell’estate: così lo stabilimento balneare diventa la sede di un “patetico film di avventure estive/ e scandali al sole”, la calca dei vacanzieri è “una bestemmia di persone/ occupate ad abbronzarsi”. Se poi il pensiero si piega sulla caducità delle cose, anzitutto l’amore, immediata è la voglia di resistere alla disillusione, in nome di una gridata necessità di uomo: “sono cosciente d’essere solo un pugno di polvere/ ma questo abisso euclideo/ non basta ad impedirmi di sognarti” (La crema abbronzante). L’in-tonazione complessiva è quella data da un approccio frontale subito assertivo e decisivo: dominano sostantivi e verbi (soprattutto l’indicativo, che battezza

Soglie, anno XV, n. 3 77

Recensioni e note

l’essenza delle cose), ed è minima la presenza di aggettivi, proprio perché il dettato è impaziente di indugi descrittivi.

Di diversa intonazione è il modo di Amorelli di rapportarsi all’inverno: titola ‘elegia’, la sua raccolta, dunque produce un approccio più ripiegato, conforme ai raggelati silenzi di questa stagione.

Qui, tutto il repertorio del paesaggio invernale – la tormenta, il manto di neve, il ghiaccio, l’iceberg, il pupazzo di neve, il disgelo – costituisce una catena di ricorrenze lessicali che legano il libretto in stretta unità.

Al centro, la presenza algida della donna, su un asse provenzale-stilnovi-stico, “maschera di ghiaccio splendente”, verso cui l’amante è in tormentosa attesa di ogni segno di benevolenza, che necessariamente passa attraverso il “rifulgere degli occhi”. Vicenda d’amore contrastato e conflittuale (“viverti non posso, morire non oso”) la cui fragile felicità è percepita in frammenti di ricordo o in proiezioni future al condizionale, ma sempre con effetti ritualiz-zanti (“il tuo bacio mi fa rifiorire”).

Domina l’immagine del ghiaccio, ora come vagheggiata corazza, ora come auspicata purezza e autosufficienza, ora infine come solitudine e pena di vivere, condizione amaramente universale. Come l’inverno presta il pa-esaggio, così sembra suggerire versi brevi, quasi rappresi, idonei a tradurre l’essenzialità dei singoli spunti, e capaci da ultimo di alleggerire le conclusio-ni sentenziose, quasi degli aforismi, in forme di più spiccata musicalità.

giAncArlo BAchini

Emidio Montini, Non un grido fra le palme,Forlì, L’arcolaio, 2013.

“Da anni mi pesa il dire, come fosse troppo o troppo poco il senso delle paro-le”. Così afferma il poeta, dopo lunghi anni di militanza, in una nota introdut-tiva: personale ammissione di ripiegamento e insieme denuncia dell’eccesso del vacuo rumore odierno.

Con questa dichiarazione mostra di voler perseguire una sorta di “grado zero” della scrittura procedendo per via di sottrazione all’intento di riconsa-crare il vivere “tornato innocente”. Si tratta quindi di ricondurre a proposi-zioni di spoglia essenzialità, appena speziate di onesti effetti retorico-metrici, una percezione altrettanto sobria della natura e in essa della propria vicenda di uomo.

Siamo per l’appunto nella fisiologia dei piccoli idilli: notazioni paesaggi-

78 Soglie, anno XV, n. 3

Recensioni e note

stiche danno l’incipit (“ritorna chiaro il giorno dopo il temporale”, “fanno pri-mavera al brivido delle foglie gli uccelli, questa sera”) e su di esse si innesta la riflessione, per lo più nei toni di una sofferta mestizia. Da una parte, quindi, una interrogante contemplazione del cielo, degli astri, delle stagioni nel loro vario e vitale rinnovarsi, fra presagi di personale, invocata rigenerazione, e, per l’opposto, la loro remota, inconoscibile alterità. Dall’altra, sullo sfondo di un presente “disonorato”, il ripiegamento dolente sulla propria estraneità al mondo di chi si sente “per decreto della sorte nato poeta e non mercante, de-stino percepito di una vasta esclusione. Ecco come si paragona a un pupazzo, che, nel giardino, lento, s’affloscia, fatto di neve: “Fratello! O tu già perduto, il tuo esistere effimero e muto/ mi è peso che porto da tanto: tu mia copia nel pianto”.

A dire questi temi, Montini campisce sulla pagina brevi testi fatti di pro-posizioni che nella loro esibita semplicità perseguono la loro necessità, in un fraseggiare pseudo-prosastico che, molto appoggiandosi sul casto apporto di assonanze, rime interne, simmetrie e veri e propri versi dissimulati, assume un ritmo blandamente cantilenante.

giAncArlo BAchini

Soglie, anno XV, n. 3 79

Premio di poesia ‘Antica Badia di S. Savino’ XXXV edizione 2013

Diamo inizio alla pubblicazione dei testi premiati nel concorso del 2013. La rassegna completa dei testi segnalati apparirà sul prossimo numero della rivista.

AlBerTo ArMellin

Sezione A - Poesia inedita

Aver luogo

Avrei pensato a filari d’acacie, a cespi di ginestreed anche a prospettive di roselungo gli argini smossi del torrente.(Le pietre levigatesaranno in compagnia d’altri talenti).

Noi lo passammo scalzi e ne saggiammo il corso.Vedemmo argenti tra le ortiche astiosee ragni grigi a guardia dei ricami.

Chiedemmo a puledrini fantasiosidi galoppare a peloin cambio di carrube e di sorrisi.

Nella cucina, le collane e il fumo.Le spade gialle a fasci.Le infiorescenze in fondo ad un paniere.

Poi, la contrada spegnerà i suoi fuochi.

Gli dei devastati. L’ultimo altare spoglio.Un transumare lento alle pianure.

pAsquAle loMBArdi - caserta, I classificato.

80 Soglie, anno XV, n. 3

Antica Badia di San Savino

Stazione d’autunno a mia moglieLe tortore e i passeri a dividersiil pane nel buio; il loro saiobenedicente rifugio d’ottobremi accoglie... Amarti, aspettarti – promessadi verde – con il tasso, con il pino,con la viola incredibile che occhieggiaun timido fungo dietro il lampione...Stazione d’autunno, il tuo treno semprepuntuale un poco in ritardo. E intantoun annuncio confonde il mio orologioringiovanito già pronto all’orasolare ... – poi tu che sorridi – lucedi colpo arrivata che rincorreabbraccia e bacia furiosa ogni cosa.

Angelo TAioli - voghera (pv), ii classificato.

Le gru dei cantieriIntaccano il cielo di graffile gru dei cantieri;scheletriche torri metalliche fieredi altezze,leggerecolonne che reggono un cielo di piomboa Milano-Babele.Corone di nuvole in alto,diademi di bianco a reginecon braccia protese in abbraccia strade di traffico, dense,a gente che insegueun tempo affrettato che scappa.Babele di slanci e preghierea un cielo lontano che piangechi muore in cantiere.Se il maglio si ferma che batte,se un uomo si schianta nel fondo,il tetto di piombo si intacca di pianti, di gridi, di graffi. rodolFo veTTorello - Milano, III classificato.

Sede: Via Vecchia Fiorentina 268, 56023 Badia (Pisa)Registrazione presso il Tribunale di Pisa n. 25 del 20.12.1999Direttore responsabile: Lionella CarpitaInfo: [email protected]; Tel. 050 772645.

Le proposte di collaborazione e i contributi destinati alla pubblicazione possono essere inoltrati per posta elettronica ([email protected]) o a mezzo posta cartacea (Redazione Soglie, Via Vecchia Fiorentina 268, 56023 Badia, Pisa).Saggi, recensioni e interviste devono essere presentati in italiano o in inglese.Le traduzioni e i testi saggistici proposti per la pubblicazione sono sottoposti a proce-dura di blind peer review da parte di studiosi di università italiane e straniere ed esperti designati dal comitato direttivo.

The magazine languages for essays, reviews and interviews are Italian and English. Authors are requested to submit their articles electronically to [email protected]. The acceptance of contributions will be communicated within 2 months. Essays will be refereed and referees’ comments will be forwarded to authors. Poems in all languages may be submitted to the same address. L’abbonamento annuo a tre numeri di Soglie costa € 15 (istituzioni € 25) e può essere pagato sul c/c postale n. 12099537 intestato a Soglie. Gli abbonamenti non disdetti entro il 30 novembre s’intendono rinnovati per l’anno successivo. Un numero arretrato di Soglie costa € 10 e può essere acquistato mediante bonifico postale (versamento su c/c postale n. 12099537 intestato a Soglie), notificando la ri-chiesta alla Segreteria della rivista: [email protected]; Tel. 050 772645.L’edizione online della rivista è acquistabile sulla piattaforma Torrossa di Casalini Libri: www.torrossa.it.

The subscription to three numbers of Soglie from outside Italy costs € 35 (Institutions € 50). Rate is to be paid on postal account n. 12099537 on behalf of Soglie.The magazine is also available for purchase from the website platform www.torrossa.it.Contacts: [email protected].

Spedizione in A.P. Art. 2 comma 20/D L. 662/96 Pisa

Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 2013

SoglieRivista Quadrimestrale di Poesia e Critica Letteraria

Dal tuo stellato soglio, Signor, ti volgi a noi!

andrea leone trottola, Mosè, musica di G. Rossini.

SNS

Soglierivista quadrimestrale di poesia e critica letteraria

€ 7,00