Psicoterapia basata su prove di efficacia e protocolli terapeutici in Nuovo Manuale di Psicoterapia...

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Pagina 1 di 36 MATERIALE PROTETTO DA COPYRIGHT_Bozza capitolo BOLLATI BORINGHIERI- La CBT evidence-based (Barcaccia-Mancini) 08/12/15 15:30 Una versione modificata di questo manoscri2o è stata pubblicata nel 2005 in Nuovo Manuale di Psicoterapia Cogni5va, Bara B. (a cura di), Bolla? Boringhieri. MATERIALE PROTETTO DI COPYRIGHT PSICOTERAPIA BASATA SU PROVE DI EFFICACIA E PROTOCOLLI TERAPEUTICI Barbara Barcaccia e Francesco Mancini 22.1 La psicoterapia fondata su prove di efficacia Perché utilizzare protocolli di trattamento la cui efficacia sia stata sottoposta a verifiche sperimentali? In fondo qualsiasi psicoterapeuta, corredato di una buona formazione e sufficiente esperienza clinica, è in grado di orientarsi nel trattamento dei pazienti. Morosini e Michielin (2001) notano però che vi sono diversi motivi che possono far dubitare dell’efficacia, dichiarata dagli psicoterapeuti, di questa o quella particolare forma di psicoterapia, in assenza di prove scientifiche a supporto. In particolare gli autori illustrano come la remissione spontanea, l’effetto placebo, la selezione dei casi e la soggettività nell’interpretazione dei risultati possano indurre facilmente in errore chiunque tragga conclusioni sull’efficacia del proprio metodo di trattamento, senza dati sperimentali a disposizione e affidandosi alla sola esperienza clinica: infatti molti disturbi psichici regrediscono o si risolvono spontaneamente (miglioramento o remissione spontanei). Inoltre i miglioramenti possono dipendere non dallo specifico intervento attuato, ma dal fatto che il paziente si senta curato, accolto, ascoltato, supportato; ciò che avviene con i farmaci si verifica ancora di più con gli interventi psicoterapici (effetto placebo). In aggiunta, quando uno psicoterapeuta illustra un caso clinico o una casistica, non possiamo sapere se e quanto rappresentino tutti i casi che vede: il trattamento può essere stato efficace solo per qualcuno, mentre altri pazienti possono aver interrotto la terapia; dall’impressione del clinico non possiamo evincere se i casi illustrati siano dunque effettivamente rappresentativi di tutti i pazienti trattati (selezione dei casi). Infine, lo psicoterapeuta che ha messo in atto una determinata forma di psicoterapia, tenderà a valutare l’entità del miglioramento del proprio paziente in modo più favorevole rispetto ad un osservatore indipendente (soggettività nell'interpretazione dei risultati). La convinzione che un determinato approccio terapeutico funzioni non può fondarsi semplicemente sulla propria esperienza clinica, è indispensabile disporre di dati scientifici che ne comprovino l’effettiva efficacia: Migone (2001), mette in luce la necessità della diffusione di una cultura critica, costruita su una corretta verifica degli esiti, attenta alle trappole delle auto-conferme, che spesso caratterizzano la psicoterapia quando è fondata solo sull’esperienza clinica. L’autore nota come nella storia della medicina e della psichiatria si siano verificati casi di atti medici talvolta fatali, portati avanti sulla base del solo intuito clinico, che ciononostante continuavano ad essere messi in atto con il pieno avallo della comunità scientifica dell’epoca; Migone riferisce l’esempio

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PSICOTERAPIA BASATA SU PROVE DI EFFICACIA E

PROTOCOLLI TERAPEUTICI

Barbara Barcaccia e Francesco Mancini

22.1 La psicoterapia fondata su prove di efficacia

Perché utilizzare protocolli di trattamento la cui efficacia sia stata sottoposta a verifiche sperimentali? In fondo qualsiasi psicoterapeuta, corredato di una buona formazione e sufficiente esperienza clinica, è in grado di orientarsi nel trattamento dei pazienti. Morosini e Michielin (2001) notano però che vi sono diversi motivi che possono far dubitare dell’efficacia, dichiarata dagli psicoterapeuti, di questa o quella particolare forma di psicoterapia, in assenza di prove scientifiche a supporto. In particolare gli autori illustrano come la remissione spontanea, l’effetto placebo, la selezione dei casi e la soggettività nell’interpretazione dei risultati possano indurre facilmente in errore chiunque tragga conclusioni sull’efficacia del proprio metodo di trattamento, senza dati sperimentali a disposizione e affidandosi alla sola esperienza clinica: infatti molti disturbi psichici regrediscono o si risolvono spontaneamente (miglioramento o remissione spontanei). Inoltre i miglioramenti possono dipendere non dallo specifico intervento attuato, ma dal fatto che il paziente si senta curato, accolto, ascoltato, supportato; ciò che avviene con i farmaci si verifica ancora di più con gli interventi psicoterapici (effetto placebo). In aggiunta, quando uno psicoterapeuta illustra un caso clinico o una casistica, non possiamo sapere se e quanto rappresentino tutti i casi che vede: il trattamento può essere stato efficace solo per qualcuno, mentre altri pazienti possono aver interrotto la terapia; dall’impressione del clinico non possiamo evincere se i casi illustrati siano dunque effettivamente rappresentativi di tutti i pazienti trattati (selezione dei casi). Infine, lo psicoterapeuta che ha messo in atto una determinata forma di psicoterapia, tenderà a valutare l’entità del miglioramento del proprio paziente in modo più favorevole rispetto ad un osservatore indipendente (soggettività nell'interpretazione dei risultati). La convinzione che un determinato approccio terapeutico funzioni non può fondarsi semplicemente sulla propria esperienza clinica, è indispensabile disporre di dati scientifici che ne comprovino l’effettiva efficacia: Migone (2001), mette in luce la necessità della diffusione di una cultura critica, costruita su una corretta verifica degli esiti, attenta alle trappole delle auto-conferme, che spesso caratterizzano la psicoterapia quando è fondata solo sull’esperienza clinica. L’autore nota come nella storia della medicina e della psichiatria si siano verificati casi di atti medici talvolta fatali, portati avanti sulla base del solo intuito clinico, che ciononostante continuavano ad essere messi in atto con il pieno avallo della comunità scientifica dell’epoca; Migone riferisce l’esempio

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emblematico della psico-chirurgia, il tentativo di curare i disturbi psichiatrici gravi con la chirurgia cerebrale, una pratica inizialmente fondata sulla sola osservazione clinica, e malgrado questo utilizzata su migliaia di pazienti per più di vent’anni, dal 1935 in avanti. Sorsero seri dubbi sulle sue possibilità d’applicazione solo quando alcuni studi controllati sembrarono mostrarne l’inefficacia. La verifica sperimentale, aggiunge l’autore, ci consente di superare la trappola pericolosa dell'auto-inganno, sostenuto dal desiderio di proteggere la fiducia nel metodo terapeutico abbracciato. Tansella e de Girolamo (2001) sottolineano come i disturbi mentali costituiscano un grande problema di sanità pubblica per una serie di ragioni: innanzi tutto presentano un'elevata frequenza nella popolazione generale, in tutte le classi d'età; inoltre sono fortemente invalidanti nelle attività della vita quotidiana, nel lavoro/scuola, nelle relazioni interpersonali; infine sono onerosi i costi economici e sociali che ne derivano, sia per i pazienti che per i familiari. Gli autori rilevano che a livello internazionale, dalla metà degli anni '70 al 2000, da oltre 45 ricerche svolte su campioni rappresentativi della popolazione generale, sia in paesi industrializzati che in paesi in via di sviluppo, è emersa una frequenza dei disturbi mentali elevata: circa il 20-25% della popolazione in età superiore ai 18 anni, nel corso di un anno, soffre di almeno un disturbo mentale clinicamente significativo. In aggiunta, le 13 ricerche in cui è stata valutata la frequenza di questi disturbi nell'intero arco della vita, hanno evidenziato che il 41% degli uomini ed il 30% delle donne avevano sofferto almeno una volta di un disturbo mentale. Appare dunque sempre più evidente la necessità di sottoporre le psicoterapie a verifiche di efficacia. Il rischio concreto che tutti noi corriamo è quello di non proporre ai pazienti il trattamento elettivo per i loro disturbi. Morosini e Michielin (2001) sottolineano che “…non si può dire che tutte le psicoterapie la cui efficacia non è stata documentata siano inefficaci, o meno efficaci di altre. Ma ci sembra che i professionisti che le praticano debbano sentire il dovere deontologico e sociale di valutare in modo rigoroso quello che fanno, senza rifugiarsi dietro considerazioni fumose sull'ineffabilità del loro operato e sull'impossibilità di valutarne i risultati”. La psichiatria biologica investe in modo massiccio sulla ricerca per la messa a punto di psicofarmaci efficaci, e la scoperta di un nuovo farmaco gode di ampia risonanza anche tramite i mass media, al di là dell’ambito strettamente scientifico. È necessario che anche la psicoterapia compia lo sforzo di sottoporre a verifiche i propri strumenti, e di diffondere i risultati di questi studi. Tutto ciò richiede rigore metodologico e utilizzo di trattamenti descritti dettagliatamente in manuali, dei protocolli di intervento. Purtroppo sono ancora troppo pochi gli psicoterapeuti che hanno familiarità sufficiente con la letteratura scientifica, le ricerche sugli esiti, e che aggiornano il proprio agire clinico anche in relazione ad esse; c’è da chiedersi se università e scuole di specializzazione, nelle quali talvolta lo studio della statistica, delle tecniche di ricerca e analisi dei dati sembra secondario, o quanto meno troppo teorico e disgiunto da una reale applicabilità, non debbano compiere uno sforzo più consistente per la preparazione degli allievi in quest’ambito; si tratta di acquisire la capacità di valutare i risultati delle ricerche in modo critico affinché ciò che è davvero utile possa essere incorporato agevolmente nella prassi clinica. Morosini et al. (2000) notano invece quanto scarsa sia la diffusione dei trattamenti basati su prove scientifiche di validità, mentre continuano ad essere ampiamente utilizzate strategie d’intervento di non provata efficacia o addirittura di provata inefficacia.Nel 1993 è stata istituita, all’interno della Divisione 12 (Psicologia Clinica) dell’American Psychological Association, un’unità operativa per la promozione e la diffusione degli interventi psicologici empirically supported. Nel 1995 l’unità operativa ha pubblicato il primo di tre rapporti, che conteneva i criteri di selezione per individuare i trattamenti efficaci e una lista preliminare di 25 EST (Empirically Supported Treatments) che soddisfacevano tali criteri; il materiale concernente queste relazioni è disponibile all’indirizzo web http://www.apa.org/divisions/div12/journals.html.

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Sono stati stabiliti alcuni criteri per attribuire le varie terapie sottoposte a controlli di efficacia a due classi, la categoria dei trattamenti “ben dimostrati” e quella dei trattamenti “probabilmente efficaci”. L’efficacia viene di volta in volta stabilita in relazione ad uno specifico disturbo; la validazione non riguarda quindi il tipo di terapia (cognitiva, comportamentale, interpersonale, psicodinamica) in sé e in assoluto, ma il tipo di trattamento più efficace per un determinato disturbo. Chambless e Ollendick (2001) hanno steso nel 2001 un approfondito riepilogo del lavoro svolto dall’unità operativa dell’APA e dagli altri sette gruppi di revisione sull’efficacia degli interventi psicologici; in quel lavoro compaiono 108 trattamenti per gli adulti (appartenenti alla categoria I e II) e 37 per l’età evolutiva. L’APA ha cominciato ad occuparsi di questi temi anche sulla spinta del più vasto movimento EBM (Evidence-Based Medicine), nato nel Regno Unito, fondato su alcuni semplici princìpi: se il clinico fa riferimento a conoscenze scientifiche aggiornate, il trattamento dei pazienti migliora; è difficile essere costantemente aggiornati su tutte le novità più accreditate che sarebbero utili per la prassi clinica, ma se il curante non lo fa, le sue conoscenze e le sue prestazioni cliniche peggioreranno nel tempo; i clinici devono quindi poter attingere agevolmente a compendi selezionati da esperti sugli interventi più nuovi ed efficaci, e queste informazioni devono ricevere ampia diffusione. Questo movimento è stato ispirato dal lavoro dell’epidemiologo inglese Archibald Cochrane (e proseguito da David Sackett), il quale sosteneva che i risultati della ricerca avevano un impatto troppo limitato sulla pratica clinica; egli riteneva che la professione medica non avesse saputo organizzare un sistema in grado di rendere disponibili, e costantemente aggiornate, delle revisioni critiche sugli effetti dell’assistenza sanitaria. Cochrane suggeriva di rendere disponibili a tutti i pazienti solo gli interventi sanitari di documentata efficacia.Sulla diffusione dei trattamenti sottoposti a verifiche di efficacia, Pilkonis et al. (1997), nell’ambito della Divisione 12 (Psicologia Clinica) dell’APA, hanno reso nota la costituzione di tre sotto-commissioni, una delle quali (num.3) riguarda la diffusione a tutti i livelli delle informazioni sui protocolli EST (Empirically Supported Treatments); la sotto-commissione n.3 viene dunque costituita allo scopo di incoraggiare lo sviluppo di training in EST per gli allievi in formazione, aiutare coloro che già praticano la professione ad inglobare più prontamente i risultati della ricerca nella pratica clinica e ad ampliare le capacità terapeutiche, fornire informazioni agli utenti in modo che siano in grado di interrogare i clinici sul livello di efficacia del trattamento che viene loro proposto, sensibilizzare chi prende le decisioni politiche, gli enti, le istituzioni sulle basi scientifiche della psicoterapia, affinché siano promosse procedure basate sul principio del miglior rapporto possibile tra costi ed efficacia. L’adozione di un’ottica di questo tipo richiede però lo sforzo di oltrepassare i confini ideologici che dividono approcci diversi all’interno della psicoterapia, esige un cambiamento di prospettiva: se l’obiettivo è individuare cosa funziona e per chi, per dirla con Roth e Fonagy (What works for whom), allora le questioni ideologiche, gli schieramenti di scuola, devono finire sullo sfondo, ed emergere in primo piano i problemi clinici e la loro risoluzione. In questa prospettiva, e a titolo esemplificativo, ricordiamo che per la depressione, abbiamo oggi a disposizione tre trattamenti ben provati (terapia comportamentale, terapia cognitiva, e terapia interpersonale) e tra quelli probabilmente efficaci si annovera anche la psicoterapia strutturata dinamica breve. Certamente gli interventi psicologici di tipo cognitivo e comportamentale sono i più rappresentati nell’elenco dei trattamenti di provata efficacia, ma questo non significa che non possano esservi altri strumenti di cura. Scrive Tansella nella presentazione al volume di Roth e Fonagy (1997): “ …il problema principale mi sembra quello di superare le resistenze di coloro che continuano a ritenere semplicemente "non misurabile" la sofferenza e le difficoltà dei nostri pazienti e non quantificabile l'ineffabile peculiarità

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del processo terapeutico. Molta acqua è passata sotto i ponti, ma molta ancora ne dovrà passare prima che si possa ragionare sull'efficacia delle principali tra le centinaia di psicoterapie esistenti, avendo a disposizione dati (sulla base dei quali confrontare e criticare le opinioni e le credenze) che siano stati raccolti in modo ripetibile, verificabile e chiaramente descritto. "La scienza è descrittiva e dipende dalla verifica, mentre l'etica è prescrittiva e si basa sulla giustificazione". Freud, che come ha ricordato recentemente Holmes, è stato un implacabile critico della religione, "si considerava uno scienziato che intendeva offrire un metodo, non una fede". In che misura egli abbia mantenuto la sua promessa ed in che misura i suoi numerosi discepoli e seguaci, come altri psicoterapeuti di diversa formazione, utilizzino un metodo senza trasformarlo in una fede, rimane tuttora questione controversa.”.

22. 1.1 Critiche e limiti della psicoterapia basata su prove di efficacia: il dibattito è aperto

Il Department of Health britannico ha pubblicato nel 2001 le linee-guida (indirizzate ai medici di base) per la scelta delle terapie psicologiche elettive per diversi disturbi. Nel documento si sottolinea che, pur essendo basate sui migliori dati a disposizione, utilizzando criteri di scelta mirati a ridurre al minimo i bias, le indicazioni fornite non sono scevre da un certo grado di incertezza, a causa dei limiti metodologici delle ricerche e dei problemi connessi alla generalizzazione dei risultati di ricerca all’eterogeneità della popolazione clinica. Inoltre nel documento si nota come vi siano altre forme di psicoterapia, non menzionate in quelle linee-guida, sulle quali non sono disponibili dati di ricerca, per cui l’assenza di prove empiriche a sostegno non deve essere interpretata come evidenza di inefficacia; si rilevano poi le limitazioni metodologiche degli studi randomizzati controllati sulle diverse forme di intervento psicologico:

1. la psicoterapia è più difficile da standardizzare rispetto alla somministrazione di un farmaco;2. alcuni risultati di inefficacia potrebbero derivare dal fatto che l’intervento psicoterapico non

è stato ben condotto, e l’aderenza alle istruzioni di un manuale di trattamento non supera del tutto questo problema;

3. proprio la procedura di randomizzazione può produrre differenze sistematiche tra gruppi, a causa della spiccata preferenza che i pazienti possono avere per una forma di psicoterapia o per l’altra;

4. talvolta si verificano percentuali elevate di mortalità (pazienti che abbandonano la ricerca), che creano problemi per l’interpretazione dei risultati;

5. nonostante la randomizzazione, nel caso di campioni di piccole dimensioni, emergono talvolta differenze tra i gruppi rispetto a variabili importanti, come la gravità dei sintomi;

6. alcuni dei ricercatori che conducono studi sugli esiti in cui si confrontano, ad es., due diverse forme di psicoterapia, non hanno una posizione neutrale rispetto ad esse, ma possono essere molto sbilanciati in termini di preferenze;

7. gli psicoterapeuti differiscono tra loro per efficacia, e nella maggior parte degli studi queste differenze non sono prese in considerazione e analizzate, malgrado possano avere una certa influenza sui risultati.

Alcune di queste difficoltà sono state affrontate in nuovi disegni di ricerca, ai quali sono stati apportati miglioramenti metodologici.Nessuno di noi s’illude però che i protocolli manualizzati possano risolvere tutti i problemi che la psicoterapia pone. È evidente che il protocollo più efficace del mondo, se applicato senza tener conto, ad esempio, della co-morbilità, può risultare deludente. È vero che molti trattamenti tra i più accreditati sono stati verificati con campioni di pazienti selezionati per la presenza di un’unica patologia, mentre noi sappiamo quanto frequenti siano nello studio dello psicoterapeuta i pazienti

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che presentano più disturbi in co-morbilità. Osservazioni di questo tipo, sulla validità esterna delle ricerche che hanno dimostrato l’efficacia di determinati trattamenti, hanno contribuito a perfezionare questo filone di ricerca, ed ora sempre di più si tenta di sottoporre gli interventi psicologici a verifiche di efficacia nella pratica clinica (effectiveness) e non solo di efficacia sperimentale (efficacy). Molti consensi, ma anche molti dissensi dunque, hanno accompagnato il cammino della psicoterapia evidence-based. Numerose critiche hanno spinto tutti i gruppi scientifici di valutazione dei trattamenti a migliorare il proprio lavoro. Si è ad esempio avanzato il dubbio che l’elenco di interventi psicologici basati su prove di efficacia fosse il prodotto del lavoro di un piccolo gruppo di studiosi di orientamento cognitivo-comportamentale, afferenti all’American Psychological Association, con pre-giudizi nei confronti di altre forme di trattamento. In realtà i risultati pubblicati fanno riferimento al lavoro di otto gruppi differenti che hanno contribuito a valutare quali fossero i migliori trattamenti disponibili per specifici disturbi: A) l'unità operativa dell’APA (Chambless et al., 1998), B) la sezione speciale del Journal of Pediatric Psychology (Spirito 1999), C) la sezione speciale del Journal of Child Clinical Psychology (1998), D) la sezione speciale del Journal of Consulting and Clinical Psychology (Kendall & Chambless 1998), E) la rassegna di Roth e Fonagy (1996), F) il lavoro a cura di Nathan e Gorman (1998), G) la rassegna sui trattamenti per gli anziani (Gatz et al., 1998), H) la rassegna di Wilson e Gil (1996) sui trattamenti per il dolore cronico.Le valutazioni a cui sono giunti separatamente questi gruppi sono risultate in gran parte sovrapponibili.Come già accennato in precedenza, l’assenza di alcune terapie dall’elenco dei trattamenti evidence-based non significa necessariamente che non funzionino, ma che, ad esempio, non siano state ancora condotte ricerche per valutarne l’efficacia. I dati disponibili dunque, come rileva Migone (2001) sono provvisori e si riferiscono alle psicoterapie che sono state validate da studi pubblicati, non rappresentano tutte le psicoterapie efficaci, poiché diversi trattamenti per specifici disturbi devono ancora essere validati o sono in corso di validazione. La stessa unità operativa della Divisione 12 dell’APA vuole ribadire che la scienza è in evoluzione, non statica, per cui nessuno può pretendere di giungere a conclusioni definitive, pur evidenziando che tacere ciò che si sa, sulla base dei dati disponibili fino a questo momento, significherebbe privare dei pazienti di trattamenti che hanno buone probabilità di aiutarli. I protocolli di trattamento di provata efficacia quindi non sono una panacea, certamente non esauriscono la psicoterapia, ma possono forse esserne la base (Mancini, 2002). Chambless e Ollendick (2001) notano come il biasimo di alcuni psicoterapeuti nei confronti dell’utilizzo di protocolli di trattamento manualizzati nelle ricerche sull’efficacia possa considerarsi di matrice “emotiva”: qualcuno li ritiene responsabili di diffondere una mentalità semplicistica da libro di ricette culinarie, altri l’hanno paragonato alla pretesa di voler dipingere con i numeri.Altre critiche però hanno riguardato aspetti più scientifici, come la supposta minore efficacia di un trattamento “standard” rispetto ad uno “su misura”. Eppure, per quanto la cosa possa sorprenderci, i pochi dati finora disponibili a riguardo, sembrano suggerire che le terapie individualizzate non sono più efficaci di quelle standardizzate. Chambless e Ollendick (2001) riportano i risultati di tre ricerche nelle quali sono stati confrontati il trattamento standardizzato e individualizzato: Jacobson et al. (1989), Schulte et al. (1992) ed Emmelkamp et al. (1994). In tutti e tre questi studi erano gli stessi terapeuti a somministrare sia il trattamento standardizzato che quello individualizzato, allo scopo di eliminare differenze dovute all’“effetto-terapeuta”, e i pazienti erano assegnati casualmente all’una o all’altra condizione.In Italia Ivan Cavicchi (Bandinelli, 2002), direttore generale di Farmindustria, ha criticato molto la dogmatizzazione dell’approccio evidence-based, sostenendo che, dietro di esso vi è “…un vecchio

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sogno cartesiano: quello di matematizzare il mondo. In questo sogno c'è una metafora della macchina, e se c'è una metafora che non funziona nel campo della salute mentale è proprio quella della macchina cartesiana. Su questo non credo ci siano dubbi. Matematizzare una cosa che non è una macchina è molto problematico”. Questa osservazione introduce una questione realmente spinosa, sulla quale è importante riflettere; è dubbio però che la sua soluzione possa essere il rifiuto di un approccio scientifico alla psicoterapia. Afferma inoltre Cavicchi (2002): “…l’EBM resta una tecnica epidemiologica utile, come qualsiasi altro tipo di dato di conoscenza. Essa aiuta a decidere, a combattere gli sprechi, le inutilità e tutto quello che si vuole, ma in nessun caso può pretendere di sostituirsi ad un criterio soggettivo dell’operatore. L’EBM è uno strumento dentro una cassetta di attrezzi fatta da tanti altri strumenti. Tutti utili a seconda delle circostanze”. Anche questa osservazione è fruttuosa, ci suggerisce l’utilizzo di un approccio idiografico al paziente, e non “astratto” e nomotetico, sottolinea l’importanza del “saper essere”, che rischia invece di essere sopraffatto dalla mania del “saper fare”; di nuovo però, per evitare il rischio dello sbilanciamento verso un accumulo sterile di dati e nozioni in cui conta solo “saper fare”, è difficile che la via d’uscita possa essere la demonizzazione della ricerca scientifica. Sebastiano Maffettone, nel commentare il testo La medicina della scelta (Cavicchi, 2000), osserva: “…Detto più semplicemente, che c'è di male nell'avere più dati statistici sulle terapie in atto? Non è forse l'unico modo per allestire un protocollo medico scientificamente corretto? Non è necessario farlo per chiunque organizzi un doppio cieco, o comunque voglia sapere se una terapia funziona e che effetti collaterali ha? Dire da parte mia queste cose al direttore di Farmindustria può sembrare una stravaganza, data la differenza di esperienza in proposito. Ma a me sembra che nel cercare le prove non ci sia niente di male, purché non si santifichi questa pratica e la si renda esclusiva. Ma nessun medico sensato, credo, vorrebbe qualcosa del genere. E, poi, c'è sotto la mia perorazione un sospetto. Il sospetto che riaffiori qui la vecchia cultura crociana, quella deteriore intendo, per cui le statistiche e i numeri non sono conoscenze vere. Come al solito in questi casi, io rispondo "dipende dall'intelletto e il buon senso di chi li usa".”.

22.2 ConclusioniCiò che emerge da quanto prodotto in quest’ambito è senz’altro la necessità di superare una dicotomia distruttiva: la psicoterapia come atto inafferrabile ed ineffabile da un lato e la psicoterapia come giustapposizione arida e rigida di tecniche dall’altro. Riteniamo che la psicoterapia basata su prove di efficacia non possa diventare il fine ultimo cui tendere, né paradigma assoluto di riferimento, ma che possa rivelarsi utile strumento per orientarsi nell’agire clinico, per chi vi si accosta senza pre-giudizi. Responsabilità e autonomia di scelta dello psicoterapeuta restano invariate.Essere psicoterapeuta poi, non può significare compiere operazioni “matematiche”: sommare tecniche per sottrarre sintomi, applicare regole pre-fissate. Nessun protocollo potrà mai funzionare se manca una buona relazione terapeutica. Nessun manuale di trattamento potrà sostituirsi ad una vera formazione alla psicoterapia. Ma a chi teme che la psicoterapia si trasformi in atto freddo e meccanico, se tiene conto delle prove di efficacia, forse si può rispondere che, prima d’ogni altro, l’atto più “umano” ed empatico possibile nei confronti di un paziente è quello di offrirgli il trattamento migliore a disposizione per alleviare la sua sofferenza. Per quale motivo, poi, l’utilizzo di un protocollo di trattamento dovrebbe escludere empatia, accoglimento, ascolto, accettazione, comprensione, umanità? Esula evidentemente dagli scopi e dai limiti di spazio di un capitolo come questo la presentazione dettagliata di tutti i protocolli di terapia cognitiva e comportamentale evidence-based. Piuttosto il

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nostro intento è di avviare una riflessione critica sull’opportunità del loro utilizzo. Proponiamo quindi, in forma sintetica, e a titolo esemplificativo, alcune indicazioni di trattamento per: fobia sociale, disturbo post-traumatico da stress, disturbo d’ansia generalizzato, disturbo ossessivo-compulsivo, fobia specifica e depressione.

22.3 Fobia sociale22.3.1 Criteri diagnosticiI criteri diagnostici per la fobia sociale secondo il DSM IV (1996) sono: paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o che implicano una prestazione dell’individuo nelle quali è esposto a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L'individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante. L'esposizione alla situazione temuta quasi invariabilmente provoca l'ansia, che può assumere le caratteristiche di un Attacco di Panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.Le situazioni temute sociali o che implicano una prestazione sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio.L'evitamento, l'ansia anticipatoria, o il disagio nelle situazioni sociali o che implicano una prestazione da parte dell’individuo, interferiscono significativamente con le abitudini normali, con il funzionamento lavorativo/scolastico o con le attività o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia.

22.3.2 TRATTAMENTOI trattamenti elettivi per la fobia sociale sono l’esposizione e la terapia cognitivo-comportamentale.

22.3.2.a EsposizioneL’esposizione per pazienti con fobia sociale consiste nel restare nella situazione temuta fino alla scomparsa dell’ansia. In gran parte si tratta di congegnare dei role-playing in cui anche il terapeuta, o qualche altro “complice” sono coinvolti (ad es. il paziente può far finta di trovarsi ad una festa e provare a fare conversazione con un invitato), oltre al mettere a punto una serie di compiti a casa di esposizione in situazioni “naturali”da affrontare tra una seduta e l’altra. Anche per la fobia sociale l’esposizione va graduata attraverso la costruzione di una gerarchia di stimoli temuti (cfr. Fobia Specifica). Si possono immaginare diversi scenari da utilizzare in seduta:

• Al supermercato il paziente incontra per tre volte consecutive uno stesso avventore; ha notato che si tratta di un suo coinquilino, e vorrebbe iniziare una conversazione.

• Al lavoro il paziente deve presentare una relazione davanti ad un gruppo di colleghi provenienti da un’altra sede e mai conosciuti prima.

• Ad una festa il paziente incrocia lo sguardo di una ragazza che gli piace e vorrebbe conoscerla.

Per ciò che concerne i role-playing da svolgere in seduta, McLean e Woody (2001) suggeriscono di aggiungere dettagli che rendano più realistico lo scenario: se ad esempio l’esercizio prevede che il paziente debba affrontare il proprio superiore in ufficio, si potrebbe fargli adottare l’abbigliamento “da lavoro” anche per il role-playing con il terapeuta, o se ha a che fare con una festa potrebbe tenere in mano un bicchiere con una bevanda.Un po’ alla volta, dopo che il paziente si è esercitato, si possono manipolare anche le reazioni degli

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altri (terapeuta o “complici”) introducendo degli elementi di ulteriore difficoltà, come ad esempio sbadigli, frequenti occhiate all’orologio, mancanza di cenni di assenso con il capo, espressione seria e corrucciata.Al lavoro in seduta è importante che seguano i compiti a casa; nella tabella di seguito sono indicati alcuni esempi di esercizi da svolgere tra una seduta e l’altra:

Recarsi al bar per un caffè e dare inizio ad una conversazione sul tempo/traffico/calcio con il barista

Recarsi al mercato e “attaccare bottone” con gli avventori in fila ad un banco per la spesa

Recarsi dal vicino di casa per chiedere in prestito un qualche alimento e intrattenersi a parlare per almeno cinque minuti

Chiedere al proprio portiere notizie sulla sua famiglia e mantenere una conversazione per almeno 10 minuti

Durante la pausa-pranzo al lavoro chiedere ad un collega cosa ne pensa di un fatto di cronaca recente

22.3.2.b Ristrutturazione cognitiva

22.3.2.bI Identificare i pensieri automatici del paziente e classificarli all’interno delle diverse

categorie di distorsioni cognitive

L’identificazione dei pensieri automatici può essere effettuata chiedendo al paziente di compilare un diario a casa, in cui annotare le situazioni sociali alle quali egli/ella ha partecipato, e quelle che ha evitato, e soprattutto i pensieri elicitati nelle diverse circostanze (predizioni del paziente su quello che potrebbe capitare, convinzioni d’incapacità, lettura dei pensieri altrui, ecc.).

Esempi di pensieri automatici:

Si accorgeranno che sono stupido

Tutti mi stanno fissando perché sono diventato rosso

Ora comincio a sudare e non smetto più

Tutti penseranno che sono un soggetto

E se poi comincio a balbettare?

Sicuramente mi prenderà per un cretino totale

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Mi manderà a quel paese

Dopo aver identificato i pensieri automatici del paziente, è utile aiutarlo a classificarli nelle diverse categorie di distorsioni cognitive cui appartengono

• Pensiero dicotomico: vedere le cose tutte “bianche” o tutte “nere”, suddivise in categorie nette, senza sfumature.

• Generalizzazione. Considerare un singolo evento negativo come indicativo di un fallimento generale.

• Astrazione selettiva. Selezionare un singolo dettaglio negativo e fissarsi esclusivamente su quello.

• Squalificazione del lato positivo. Scartare le esperienze positive asserendo che “tanto non contano”.

• Lettura del pensiero: il paziente arbitrariamente crede che qualcun altro pensi male di lui/lei.

• Errore del chiromante. Il paziente fa la previsione di un sicuro fallimento

• Catastrofizzazione: il paziente ingigantisce in modo inappropriato l’importanza degli eventi

• Minimizzazione: minimizza in modo inadeguato le proprie doti e gli errori altrui.

• Ragionamento emotivo: il paziente assume che le proprie emozioni negative rappresentino fedelmente la realtà

• Doverizzazioni: asserzioni del tipo “devo/ non devo”.

• Etichettamento: il paziente si assegna delle etichette negative assolute, e non riferite a specifici eventi o circostanze

• Personalizzazione. Il paziente ritiene di essere la causa di eventi che in realtà non dipendono da lui/lei.

22.3.2.bII Messa in discussione delle convinzioni disfunzionali

Il terapeuta può aiutare il paziente a valutare la fondatezza delle proprie credenze disfunzionali. Si possono porre al paziente a tal scopo una serie di domande in seduta, che egli/ella potrà riutilizzare nelle diverse situazioni temute. Qui di seguito proponiamo una lista di domande tratte da “Anxiety disorders in adults” Peter D. McLean, Sheila R. Woody, Oxford University Press 2001, p.123:

1. Sono sicuro che la cosa di cui ho paura accadrà?

2. Qual è, da 0% a 100%, la probabilità che accada?

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3. Che prove ho a sostegno del mio pensiero?

4. Se qui ci fosse un osservatore esterno e neutrale, come valuterebbe la mia situazione?

5. L’esito che temo è davvero inevitabile?

6. Quali altri esiti sono possibili?

7. Se anche qualcuno pensa di me quello che temo, che succede?

8. L’opinione di una singola persona deve per forza essere condivisa da tutti gli altri?

9. Io cosa penserei di un’altra persona che si trovasse nella mia stessa situazione?

10. Questa situazione è davvero così importante che tutto il mio futuro dipende da come andrà?

11. Quali altri motivi, oltre la mia inadeguatezza, potrebbero spiegare l’ostilità di questa

persona?

12. Questa persona interagisce forse con gli altri come fa con me?

13. Gli altri si faranno un’opinione globale di me come persona solo sulla base di quel piccolo

errore che ho commesso?

14. Quali altre cose, positive, possono aver notato gli altri di me, oltre la mia ansia?

22.4 Disturbo Post-traumatico da Stress

22.4. 1 Criteri diagnostici

I criteri diagnostici per il Disturbo Post-traumatico da Stress secondo il DSM IV (1996) sono: La persona ha vissuto, ha assistito, o ha affrontato un evento o degli eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all'integrità fisica propria o di altri, e ha reagito con paura intensa, sentimenti d’impotenza, o di orrore. L'evento traumatico è rivissuto persistentemente in uno o più dei seguenti modi: ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell'evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni. sogni spiacevoli ricorrenti dell'evento. agire o sentire come se l'evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include sensazioni di rivivere l'esperienza, illusioni, allucinazioni, ed episodi dissociativi di flashback). L’individuo prova un disagio psicologico e sperimenta una reattività fisiologica intensi se esposto a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell'evento traumatico. Vi è un evitamento persistente degli stimoli associati al trauma e un’attenuazione della reattività generale, come indicato da tre, o più, dei seguenti elementi:

• sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma• sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma• incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma• riduzione marcata dell'interesse o della partecipazione ad attività significative• sentimenti di distacco o d’estraneità verso gli altri• affettività ridotta

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• sentimenti di diminuzione delle prospettive future Sintomi persistenti di aumentato arousal, come indicato da almeno due dei seguenti elementi:

• difficoltà a addormentarsi o a mantenere il sonno• irritabilità o scoppi di collera• difficoltà a concentrarsi• ipervigilanza• risposte di allarme eccessive

La durata del disturbo è superiore ad un mese, e causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

22.4.2 TRATTAMENTO

22.4.2a Esposizione in immaginazione ed esposizione in vivo

L’esposizione nel trattamento del DPTS consiste nell’esporre il paziente agli stimoli che sono in qualche modo legati al trauma, per un tempo sufficientemente lungo, in modo da indurre abituazione. Si tratta evidentemente di una procedura che all’inizio può essere molto faticosa dal punto di vista emotivo per il paziente, che si deve esporre in modo prolungato agli stimoli, fino a che la paura e l’ansia associate non si estinguono (ciò può richiedere anche 1 ora e 30 min.). Per l’esposizione prolungata in immaginazione è utile registrare su un’audio-cassetta il racconto dell’evento traumatico; poi si assegna al paziente il compito di riascoltare la cassetta più volte. Un aspetto importante al quale prestare attenzione nell’esposizione in immaginazione riguarda il distacco emotivo che il paziente potrebbe mettere in atto, fornendo un racconto del trauma generico, privo di particolari, distaccato; in casi come questo è opportuno aiutare il paziente a focalizzarsi sui dettagli, sulle immagini, le parole, le sensazioni esperite nel corso dell’evento traumatico, per quanto questa procedura possa essere dolorosa. L’esposizione in vivo si può effettuare utilizzando stimoli di per sé non pericolosi, ma in qualche modo legati all’evento traumatico.Foa et al. (1991) (citato in Lyddon e Jones, 2002) hanno descritto un protocollo di trattamento basato sull’esposizione prolungata, utilizzato con vittime di stupro che presentavano DPTS. Il trattamento consta di nove sedute, a cadenza bisettimanale, della durata di 90 minuti ciascuna. Nel corso delle prime due sedute si procede all’assessment, alla spiegazione del razionale della terapia e alla pianificazione della stessa. Nelle sedute successive l’intervento si concentra sull’esposizione in immaginazione all’evento traumatico. La paziente deve raccontare lo stupro in modo dettagliato, senza omettere i particolari; gli autori indicano di far utilizzare nel racconto il tempo presente, in modo che sembri un evento in via di accadimento. La paziente deve poi ricominciare da capo il racconto dello stupro, e così via fino al termine dell’ora. La narrazione dell’evento traumatico viene registrata su audio-cassetta, che la paziente avrà il compito di ascoltare tra una seduta e la successiva, almeno una volta al giorno. Il terapeuta assegna però anche compiti a casa che prevedono l’esposizione in vivo a stimoli che non sono di per sé pericolosi, ma dei quali la paziente ha paura perché in qualche modo collegati allo stupro. Tra essi possono rientrare la lettura dei quotidiani o la visione dei telegiornali, che potrebbero essere stati evitati fino a quel momento dalla paziente perché potenziali fonti di presentazione di eventi traumatici; si può inoltre invitare la paziente a esporsi a luoghi, locali, negozi abitualmente frequentati da uomini, dove potrebbe non essersi più recata dal momento dello stupro in avanti. McLean e Woody (2001) descrivono l’esposizione in vivo agli stimoli ansiogeni: il terapeuta inizia con un’analisi comportamentale degli evitamenti della paziente; può accadere, infatti, che la vittima

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di uno stupro eviti per esempio qualsiasi capo di abbigliamento che la faccia apparire attraente, o smetta di usare cosmetici. Allo stesso modo può evitare luoghi e situazioni, come pranzi di lavoro, feste, ecc. Dopo l’identificazione degli stimoli, terapeuta e paziente costruiscono una gerarchia; quest’ultima può comprendere anche item che non fanno parte strettamente dell’evento traumatico, ma che successivamente ad esso vi sono stati associati, diventando così stimoli aversivi.

22.4.2b Ristrutturazione cognitiva

Con la ristrutturazione cognitiva si mira ad una valutazione dell’evento traumatico e delle circostanze ad esso legate più equilibrata, tramite la messa in discussione di credenze disfunzionali relative al trauma. Si possono identificare quattro (McLean e Woody, 2001) categorie principali di assunzioni disfunzionali:Il ruolo causale del paziente nel trauma- spesso s’incolpa, considerando ad es. un fattore causale decisivo il fatto di non aver gridato al momento dell’aggressione.Le reazioni degli altri- includono convinzioni negative su come gli altri significativi valuterebbero il paziente in seguito al trauma: debole, incapace, inaffidabile, ecc.Scarsa fiducia nella capacità di gestire i sintomi del DPTS- il paziente può ritenere di essere incapace di controllare i sintomi del suo disturbo.Preoccupazioni per il futuro- possono essere presenti credenze che riguardano la sicurezza in situazioni future, o l’impossibilità di fidarsi di alcuno.Andrews et al. (2003) propongono di invitare il paziente a considerare le credenze disfunzionali insorte dopo l’evento traumatico come delle ipotesi, e non dei fatti. Terapeuta e paziente possono quindi discuterne, con l’aiuto di alcune domande specifiche. Consideriamo, ad es., la convinzione “è stata tutta colpa mia”; il terapeuta può porre alcune domande per aiutare il paziente a confutarla:

Che prove ha a conferma di questa convinzione? Ciò che è accaduto durante l’aggressione conferma del tutto questa convinzione o la contraddice almeno in parte?

Gli altri come vedrebbero la questione?

Se fosse una sua amica ad essere stata aggredita, la giudicherebbe come sta giudicando se stessa ora oppure no?

È possibile che si tratti di “ragionamento emotivo”, cioè visto che si sente in colpa si convince anche di doverlo essere necessariamente?

McLean e Woody (2001) suggeriscono di utilizzare un foglio per confutare le credenze disfunzionali, da suddividere in quattro colonne: convinzioni disfunzionali, prove a favore, prove contro, visione equilibrata. In questo modo si possono dettagliatamente indicare ed esaminare le prove che sostengono o che confutano una determinata credenza; in particolare, si può chiedere al paziente di raccogliere le prove disconfermanti le proprie convinzioni disfunzionali nel corso del programma di esposizione.

22.5 Disturbo d’Ansia Generalizzato

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22.5.1 Criteri diagnostici

I criteri diagnostici per il Disturbo d’Ansia Generalizzato secondo il DSM IV (1996) sono: ansia e preoccupazione eccessive (attesa apprensiva), che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno sei mesi, a riguardo a diversi eventi o attività (come prestazioni lavorative o scolastiche).La persona ha difficoltà nel controllare la preoccupazione.L'ansia e la preoccupazione sono associate a tre o più dei sei seguenti sintomi (con almeno alcuni sintomi presenti per la maggior parte dei giorni negli ultimi sei mesi).

• irrequietezza, o tensione, o sensazione di avere i nervi a fior di pelle• facile affaticabilità• difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria• irritabilità• tensione muscolare• alterazioni del sonno (difficoltà a addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno agitato

insoddisfacente)

L'ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

22.5.2 TRATTAMENTO

Proponiamo un protocollo di trattamento composto da vari ingredienti (McLean & Woody, 2001;

Andrews et al., 2003):

22.5.2a Fornire informazioni sul disturbo e sul trattamento

Si spiega al paziente che il trattamento consta di due fasi: la prima si occupa della sintomatologia acuta e la seconda ha a che fare con il mantenimento dei risultati conseguiti. Lo scopo è di far comprendere al paziente che il trattamento non termina con la conclusione della terapia; anche dopo la fine del trattamento, infatti, il paziente dovrà continuare ad utilizzare gli strumenti appresi, l’ansia molto probabilmente tenderà a ripresentarsi. Obiettivo della terapia è di imparare ad utilizzare agevolmente tutte le strategie disponibili per gestire in modo adeguato l’ansia, non certamente la sua scomparsa.

22.5.2b Addestramento alla consapevolezza: le preoccupazioni, l’orientamento ai problemi e il problem-solving

In questa fase il paziente apprende come distinguere tra due diverse categorie di preoccupazioni, la prima costituita da preoccupazioni per problemi “reali”, che si stanno verificando (ad es. il mutuo da pagare) o che presentano un’alta probabilità di emergere presto, la seconda rappresentata da eventi possibili, ma improbabili (ad es. la preoccupazione che il coniuge possa prima o poi morire in un incidente aereo) o molto lontani nel tempo. Al paziente si può assegnare come compito a casa quello di mettere per iscritto preoccupazioni che lo angosciano distinguendole nelle due differenti categorie. Il lavoro che andrà svolto con i pazienti nel corso del trattamento relativamente alle preoccupazioni, sarà di due diversi tipi: quelle “realistiche” si potranno affrontare con la tecnica del problem-solving, quelle più improbabili e riferite ad un futuro lontano saranno trattate tramite l’esposizione cognitiva.

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Il problem-solving è una tecnica cognitiva di addestramento alla risoluzione di problemi. Aumenta i comportamenti funzionali in situazioni difficili, in quanto mira ad incrementare la probabilità di selezionare, tra le alternative possibili, quelle più efficaci a risolvere il problema in questione. Il terapeuta aiuta il paziente a procedere attraverso i vari passi del problem-solving:1. Definizione del problema in termini concreti, specifici, operativi, in modo tale da identificare l’obiettivo da raggiungere, e l’ostacolo che ne impedisce il raggiungimento. Ciò significa che un obiettivo non potrà essere formulato nei termini “vorrei essere più felice nel posto di lavoro”, ma dovrà essere riformulato in, ad es. “esco dal lavoro in media un’ora più tardi dell’orario stabilito e vorrei invece uscire in orario”. La definizione del problema deve contenere quindi un obiettivo da raggiungere.2. Generazione delle alternative. È la fase nella quale si può dar libero sfogo alla fantasia, scrivendo tutte le idee che vengono in mente, anche le più bizzarre, che magari non saranno utilizzate, ma hanno la funzione di stimolare per associazione la produzione di altre alternative, eventualmente più praticabili.3. Scelta, attraverso la previsione delle possibili conseguenze legate ad una determinata azione; le conseguenze analizzate sono quelle a breve e a medio termine. La scelta avviene anche valutando le alternative emerse sulla base dei due parametri: efficacia nel raggiungere l’obiettivo prefissato e praticabilità concreta.4. Elaborazione di un piano d’azione: si programmano i passi mediante i quali la soluzione prescelta può diventare un’azione concreta. Il paziente decide chi deve fare cosa, quali sono i tempi previsti per l’attuazione del piano.5. Verifica dell’efficacia dell’alternativa prescelta, in termini di strategie e tattiche elaborate, rispetto agli obiettivi formulati nella definizione del problema.Per la fase della scelta il paziente può utilizzare il seguente modulo:

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VALUTAZIONE EFFICACIA E PRATICABILITÀ

Efficacia Praticabilità

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McLean e Woody (2001) notano come nei pazienti con DAG non manchino necessariamente le capacità di problem-solving in senso stretto, ma piuttosto una capacità “sovra-ordinata” di orientarsi rispetto ai problemi, che ha a che fare con il modo in cui la persona reagisce ai problemi, con le credenze intrattenute sulle proprie capacità di farvi fronte o meno. Queste difficoltà sarebbero legate altresì al tema dell’intolleranza all’incertezza, per cui i pazienti sprecherebbero molto tempo nel raccogliere da un lato più informazioni possibile sul problema in questione, e dall’altro rassicurazioni sul possibile esito. La conseguenza è che si può arrivare a continue procrastinazioni fino ad un blocco nella presa di decisione. Tuttavia, se dovesse essere presente un deficit della capacità di risolvere problemi, un addestramento al problem-solving può risultare molto utile.Si può assegnare al paziente il compito a casa, tra una seduta e l’altra, di identificare e affrontare con la tecnica del problem solving due o tre problemi a settimana; egli deve riuscire a identificare una soluzione e metterla in atto senza procrastinare troppo e senza andare in cerca perpetua di informazioni o rassicurazioni sul possibile esito.Consideriamo ad es. G., una paziente con DAG che da circa un mese doveva consegnare una relazione al suo capoufficio, era molto preoccupata di come l’avrebbe svolta, temeva di poter essere licenziata, acquistava libri e riviste in quantità per essere sicura di svolgere un buon lavoro, chiedeva consigli e rassicurazioni agli amici, dedicava molto del suo tempo a preoccuparsi. G. ricevette come compito a casa quello di scrivere la relazione, smettere di raccogliere informazioni, interrompere le richieste di rassicurazioni: doveva tollerare il timore di non aver raccolto materiale sufficiente a ricoprire in modo diffuso e dettagliato tutti gli argomenti che aveva intenzione di toccare nella sua relazione e sopportare quindi l’incertezza dell’esito. Aveva il compito di cominciare a scrivere sin dal primo giorno dopo la seduta.

22.5.2c Comportamenti che mantengono le preoccupazioni

Questi pazienti tendono a procrastinare le attività, sono perfezionisti, cercano rassicurazioni. È importante allora mostrar loro come tali comportamenti contribuiscano a mantenere elevati i livelli di ansia e preoccupazione:Procrastinazione- spesso l’individuo rimanda l’inizio di un compito per paura di un esito non soddisfacente. Di solito le conseguenze temute sono esagerate e hanno poco a che fare con la realtà.Perfezionismo- l’individuo controlla ripetutamente il lavoro, gli sembra che possa essere continuamente migliorato. Purtroppo però l’ottimo è nemico del bene: se l’obiettivo prefissato è la perfezione, si sarà sempre in difetto.Ricerca di rassicurazioni- l’individuo chiede continuamente agli altri significativi se la decisione che ha preso è quella giusta, telefona molte volte al giorno a tutti i familiari, per assicurarsi del loro stato di salute, ecc. L’effetto ansiolitico è però di breve durata, la preoccupazione ricompare presto, è come una “droga”, se ne ha bisogno in dosi sempre maggiori.

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22.5.2d

Esposizione cognitiva per le preoccupazioni improbabili e/o lontane nel tempo

La funzione dell’esposizione cognitiva nel DAG è quella di ridurre l’ansia associata alle immagini di eventi e situazioni che hanno una bassa probabilità di verificarsi, che sono verosimilmente collocati in un futuro lontano, ma che preoccupano in modo eccessivo il paziente; quest’ultimo deve immaginare un evento ansiogeno e mettere in atto la prevenzione della risposta, vale a dire non distrarsi mentalmente, non ruminare, non utilizzare alcuna forma di evitamento cognitivo, né richiedere rassicurazioni. L’esposizione va ripetuta a casa almeno una volta al giorno, fino all’estinzione dell’ansia. Le immagini devono essere il più vivide e dettagliate possibile; il paziente può, a tale scopo, mettere per iscritto una descrizione della scena temuta, ricca di particolari. Ad esempio, nel caso in cui una paziente tema, malgrado non vi siano prove a sostegno di quest’eventualità, di essere lasciata dal marito, si può chiederle di immaginare il marito mentre chiede di parlare con lei, le dichiara di non amarla più, raccoglie tutti i propri effetti personali, prepara la valigia, esce da casa.

22.5.2e Gestione efficace del tempo

Molti pazienti con DAG hanno la sensazione di non riuscire a svolgere tutte le proprie attività e compiti quotidiani per mancanza di tempo. Spesso però è un’organizzazione disfunzionale del tempo a creare problemi. Può essere utile allora che il paziente preveda e trascriva un “ordine del giorno” costituito da una serie di compiti, indicando accanto a ciascuno il grado di priorità, ad es. contrassegnando con tre asterischi le attività prioritarie, in modo da decidere che quelle saranno le prime ad essere svolte:

LunedìMATTINA POMERIGGIOFare la lavatrice * Andare dal dentista ***

Accompagnare i bambini a scuola *** Riordinare l’armadio *

Andare alla Posta per pagare le bollette

** Accompagnare i bambini al tennis

***

Passare in farmacia per comprare gli antibiotici a mamma

*** Scrivere una lettera ad un’amica *

22.6 Disturbo ossessivo-compulsivo

22.6.1 Criteri diagnostici

I criteri diagnostici del Disturbo Ossessivo Compulsivo secondo il DSM IV (1996) sono: presenza di ossessioni o compulsioni.Le ossessioni sono pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia o disagio marcati. I pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i

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problemi della vita reale. La persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni. La persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessivi sono un prodotto della propria mente (e non imposti dall'esterno come nell'inserzione del pensiero).Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare), o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un'ossessione, o secondo regole che devono essere applicate rigidamente. I comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio, o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di un’ora al giorno), o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo/scolastico, o con le attività o relazioni sociali usuali.

22.6.2 TRATTAMENTO

22.6.2a Fornire informazioni sul disturbo e costruire un’alleanza terapeutica

Il trattamento elettivo per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è l’Esposizione con Prevenzione della Risposta (E/PR), vale a dire il contatto con l’oggetto temuto con l’impedimento della messa in atto delle compulsioni (ad es. toccare la maniglia della porta e poi non lavarsi le mani, per un paziente con rituali di lavaggio oppure uscire da casa e non tornare indietro a controllare il gas per uno con rituali di controllo). Uno dei problemi principali che il terapeuta però si trova ad affrontare all’inizio riguarda proprio il far accettare al paziente questa forma di trattamento, che è percepito come pericoloso o ai limiti dell’impossibile. È importante allora che il terapeuta fornisca tutte le informazioni sui meccanismi di mantenimento del disturbo, utilizzando degli esempi concreti desunti dalla vita del paziente: egli, se ha l’impressione di venire in contatto con la sostanza temuta, ad es. polvere, sperimenta tutta una serie di pensieri/immagini ossessivi accompagnati da una forte ansia, che sembra trovare sollievo solo in seguito alla messa in atto della compulsione (ad es. lavaggi ripetuti). In realtà egli, così agendo, non sperimenta mai che l’ansia decrescerebbe anche se venisse in contatto con l’oggetto temuto, anzi si rafforza la credenza che per poter evitare l’ansia le uniche soluzioni siano evitare il contatto o mettere in atto dei rituali di neutralizzazione se il contatto avviene. Quindi rituali (ad es. lavarsi le mani dopo aver stretto la mano a qualcuno) ed evitamenti (ad es. non stringere la mano per evitare di contaminarsi), rassicurazioni (ad es. il marito tranquillizza la moglie assicurandole che “non c’è niente”) costituiscono tutte forme di mantenimento del disturbo. Una spiegazione chiara della “meccanica” del disturbo e del razionale del trattamento è il presupposto indispensabile affinché il paziente accetti di affrontare l’E/PR.

22.6.2b Esposizione e Prevenzione della Risposta E/PR

Le principali reazioni comportamentali all’ansia sono evitamento/rituali.

L’evitamento dopotutto è una strategia che funziona: evitare di toccare le maniglie delle porte, per un paziente che teme di contaminarsi, significa evitare anche l’ansia e la preoccupazione.

Il problema è che, una volta adottata questa strategia, il comportamento di evitamento sarà

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rinforzato proprio dal fatto che la persona ha sperimentato il sollievo dall’ansia. Ciò significa che, di volta in volta, aumenterà la probabilità che l’individuo in questione eviti di toccare le maniglie.

In questo modo il paziente non sperimenta quindi che l’ansia decrescerebbe in ogni caso.

È importante dunque discutere con il paziente il ruolo dannoso svolto a lungo termine dall’evitamento e dai rituali, proprio perché, essendo strategie ansiolitiche “efficaci” a breve termine, il suo ruolo nel mantenimento del disturbo non è per nulla chiaro al paziente.

L’obiettivo del trattamento è di spezzare l’associazione tra compulsioni e conseguente sensazione di sollievo e di riduzione dell’ansia. Il paziente viene esposto in vivo a stimoli ansiogeni di intensità crescente e contestualmente gli viene impedita la messa in atto di rituali.

Se esposto ad una situazione ansiogena, senza poter eseguire rituali, l’individuo è costretto a sperimentare (e tollerare) l’ansia che, per sua natura, segue un corso di crescente e decrescente intensità.

La ripetizione di questa procedura porta all’abituazione, alla presa di distanza critica e alla disconferma delle credenze disfunzionali circa la pericolosità degli stimoli, al decadimento della sensazione di urgenza/necessità di attuare i rituali/evitamenti.Esporsi agli stimoli temuti significa, ad es., toccare una scrivania che si ritiene contaminata e rimanere con le mani a contatto con essa fino a che l’ansia non sia in gran parte passata. Di solito il tempo necessario di ogni esposizione va dai 45 minuti alle 2 ore; per questo motivo si parla di esposizione prolungata.

il pil dkjfdklfjldksjfldsPer poter eseguire l’E/PR è necessario costruire una gerarchia degli stimoli temuti (costituita da almeno 10 “gradini” di ansiogenità), un elenco cioè di stimoli riguardanti uno stesso tema, classificati in ordine decrescente in base all’entità di ansia che evocano. Si compila con il paziente una lista degli stimoli (oggetti, luoghi, persone); egli valuta ogni compito di esposizione su una scala da 1 a 100. I trigger vengono così ordinati dal meno temuto al più temuto. A questo scopo è utile servirsi della SUDS (Subjective Units of Distress Scale), per misurare il livello soggettivo d’ansia sperimentato dal paziente in riferimento ad ogni gradino della gerarchia: 0 corrisponde a nessuna emozione in relazione allo stimolo, 100 al livello di ansia più elevato che il paziente riesce ad immaginare

Il terapeuta scrive una lista degli stimoli temuti; aiuta il paziente ad immaginare situazioni che, anche se mai sperimentate dal paziente, sono potenzialmente ansiogene. Annota poi, accanto ad ogni stimolo il punteggio SUD corrispondente, secondo la valutazione effettuata dal paziente.

Dopo una prima stesura della lista, e in seguito al confronto tra i vari item, il paziente potrebbe modificare i punteggi assegnati inizialmente:

un paziente che teme la contaminazione da residui di decomposizione dei cadaveri, potrebbe voler cambiare il punteggio attribuito in prima battuta all’item “toccare il cancello d’ingresso al

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cimitero” (ad es. 90), dopo aver valutato l’item “toccare una lapide all’interno di un cimitero” (ad es. 100), abbassandolo a 80.

Per questo motivo è necessario ricontrollare l’ordine della gerarchia, dal primo item (il meno ansiogeno) all’ultimo (il più ansiogeno).

Qui di seguito riportiamo un esempio di gerarchia per un paziente che temeva di contaminarsi con la polvere proveniente dalla decomposizione dei cadaveri:

Toccare una lapide all’interno di un cimitero 100Toccare gatto randagio nei pressi di un cimitero 90Toccare il cancello d’ingresso al cimitero 85Toccare il banco in un’agenzia di pompe funebri 80Toccare un carro funebre 70Toccare panche in chiesa 65Toccare foto di cimiteri 55Toccare disegni di cimiteri 50Sedersi sulla sedia di un locale pubblico 40Toccare con mano sedia di un locale pubblico 30

Come si può evincere dalla gerarchia su esposta il terapeuta deve, nella maggior parte dei casi, uscire dallo studio e recarsi con il paziente nei luoghi dove sono presenti gli stimoli che egli teme; non solo, in alcuni casi le esposizioni richiedono una preparazione accurata prima della seduta (per poter rimanere all’interno di un’agenzia di pompe funebri incollati al bancone bisogna essersi accordati con il proprietario in congruo anticipo!). L’esposizione inizia dall’item meno temuto e termina con quello che genera il maggior livello d’ansia.

(In ogni caso anche lo stimolo meno temuto deve poter elicitare una certa quantità d’ansia, altrimenti non lo si può utilizzare nell’esposizione).

Si passa allo stimolo successivo solo quando l’ansia è diminuita per almeno due esercizi consecutivi.

Lo stimolo più ansiogeno lo si affronta per ultimo, ma deve in ogni modo essere affrontato, altrimenti l’esposizione non funzionerà. Come abbiamo già detto,

l’esposizione agli stimoli temuti dal paziente elicita una risposta d’ansia, che si attenua con la messa in atto dei rituali. Per questo motivo, nel caso del DOC, all’intervento di Esposizione deve far seguito la Prevenzione della Risposta, vale a dire la non esecuzione dei rituali. Evidentemente

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l’esposizione agli stimoli temuti provoca ansia elevata, che tende a diminuire nel tempo tramite l’abituazione. Nel corso della seduta di E/PR compito del terapeuta è non solo incoraggiare il paziente ad effettuare l’esposizione senza che essa sia seguita dai rituali nell’immediato, ma anche spiegare al paziente l’importanza di non metterli in atto al ritorno a casa, in quanto vanificherebbe il compito di esposizione. Molte persone con DOC, infatti, sono in grado di procrastinare i rituali, e tollerare anche la sensazione di sporco, disgusto, contaminazione, disordine, asimmetria, avendo in mente di poter effettuare i rituali in un momento successivo. All’E/PR svolte in terapia dovrebbero seguire degli esercizi a casa tra una seduta e l’altra, vale a dire la ripetizione delle esposizioni condotte in seduta.

22.6.2c Ristrutturazione cognitiva

La ristrutturazione cognitiva mira alla modificazione delle interpretazioni disfunzionali attuate tipicamente dai pazienti ossessivi in seguito alla comparsa di immagini, pensieri, impulsi intrusivi; ad esempio, un paziente può pensare: “Se mi è venuta in mente l’immagine di mio figlio morto, vuol dire che lo desidero, quindi sono una persona malvagia”. Man mano che queste credenze si modificano tramite gli interventi cognitivi, l’ansia legata ai pensieri/immagini/impulsi intrusivi diminuisce e ciò conduce anche ad una diminuzione della frequenza di comparsa e intensità delle intrusioni stesse. In ogni caso un primo intervento consiste nel sottolineare al paziente la normalità della comparsa di immagini, pensieri, impulsi intrusivi, che sono sperimentati dalla maggior parte delle persone “normali”; l’aspetto patologico consiste quindi non nella presenza di intrusioni in sé, ma nel modo in cui esse sono interpretate e valutate dall’individuo (ad es. un paziente può considerarle una prova della propria perversione), che genera livelli molto elevati d’ansia, rende difficile ignorarli, per finire poi nella messa in atto di rituali che hanno lo scopo di alleviare il forte disagio associato alle ossessioni (McGinn e Sanderson, 1999).Il lavoro cognitivo con pazienti DOC verte soprattutto sulle modalità distorte d’interpretazione dei pensieri intrusivi:

Sovrastima dell’importanza dei pensieri Molti pazienti DOC attribuiscono un’importanza eccessiva ai propri pensieri e immagini intrusivi e credono, erroneamente, che le altre persone non abbiano pensieri intrusivi. “Se mi è venuta in mente l’immagine di mio figlio morto, vuol dire che lo desidero”.

Necessità di controllare i pensieri Credenze erronee sull’importanza dei pensieri possono portare il paziente a ritenere di dover esercitare attivamente un controllo su di essi. “Se non riesco a controllare i pensieri vuol dire che non sono normale”. I pazienti DOC, in effetti, spesso enfatizzano eccessivamente l’importanza di acquisire un controllo totale delle intrusioni.

Sovrastima del pericoloI pazienti DOC spesso sovrastimano la probabilità e la gravità del pericolo, delle conseguenze negative, e di commettere errori. “Se non sto attenta ad asciugare ogni goccia d’acqua all’interno e all’esterno del frigorifero rotto prima che i tecnici vengano a portarlo via, durante il trasporto dell’acqua potrebbe cadere nello spazio vuoto tra l’ascensore e il pianerottolo, potrebbe verificarsi un corto circuito, generare un incendio ed esplodere l’intero palazzo”. Un paziente ossessivo

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concluderà che un evento è pericoloso a meno che ne sia provata l’innocuità in modo irrefutabile.

Responsabilità ipertroficaLa responsabilità ipertrofica ha a che fare con la credenza per la quale una persona ha il potere di produrre o di evitare esiti negativi (“Devo controllare ripetutamente che la porta di casa sia chiusa per bene, altrimenti potrebbero entrare dei ladri, fare del male ai miei figli, e sarebbe tutta colpa mia”).

22.7 Fobia specifica

22.7.1 Criteri diagnosticiI criteri diagnostici per la fobia specifica secondo il DSM IV (1996) sono: paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole, provocata dalla presenza o dall'attesa di un oggetto o situazione specifici (per es., volare, altezze, animali, ricevere un'iniezione, vedere il sangue).L'esposizione allo stimolo fobico quasi invariabilmente provoca una risposta ansiosa immediata, che può prendere forma di Attacco di Panico situazionale o sensibile alla situazione. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.Le situazioni fobiche sono evitate oppure sopportate con intensa ansia o disagio.L'evitamento, l'ansia anticipatoria o il disagio nelle situazioni temute interferiscono in modo significativo con la normale routine della persona, con il funzionamento lavorativo/scolastico, o con le attività o le relazioni sociali, oppure è presente disagio marcato per il fatto di avere la fobia.Vi sono diverse categorie: tipo animali, tipo ambiente naturale (per es., altezze, temporali, acqua), tipo sangue-iniezioni-ferite, tipo situazionale (per es., aeroplani, ascensori, luoghi chiusi), altro tipo (per es., evitamento fobico di situazioni che possono portare a soffocare, vomitare o contrarre una malattia).

22.7.2 TRATTAMENTO

I trattamenti elettivi per la fobia specifica sono basati sull’esposizione allo stimolo temuto. I pazienti con FS, cercano di evitare i pericoli/rischi temuti mettendo in atto delle strategie di evitamento e comportamenti protettivi, che hanno un effetto ansiolitico solo a breve termine, mentre purtroppo a medio e lungo termine hanno un effetto di generalizzazione e intensificazione della sintomatologia. La padronanza guidata, la desensibilizzazione sistematica, il flooding sono tre forme di esposizione che presentano delle varianti. La decisione sulla specifica procedura da utilizzare spesso ha a che fare con le preferenze del terapeuta e/o del paziente. Il primo passo però da effettuare prima di qualunque esposizione è la costruzione di una gerarchia degli stimoli temuti dal paziente.

22.7.2a Come si costruisce una gerarchia della paura

Anche per affrontare il trattamento della fobia specifica, è necessario costruire insieme al paziente una gerarchia degli stimoli temuti (per la metodologia di costruzione di una gerarchia cfr. il paragrafo analogo nel DOC).Qui di seguito forniamo un esempio di gerarchia per una paziente con fobia dei ponti, in cui si

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riduce progressivamente la distanza dall’oggetto temuto e/o si aumenta il tempo di contatto con esso:

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STIMOLO LIVELLO D’ANSIA Osservare la foto di un ponte 30Passare in automobile su una strada in prossimità di un ponte 40Fermarsi in automobile a 50 metri da un ponte 45Camminare su una strada a pochi metri da un ponte 55Rimanere ferma in piedi all’estremità di un ponte 60Fare dieci passi in avanti sul ponte e poi tornare indietro 65Arrivare a metà ponte e poi tornare indietro 75Percorrere a piedi tutto il ponte 80Rimanere ferma in mezzo al ponte per 10 minuti 95

22.7.2b Padronanza guidata (o modelling partecipante)

Si costruisce una gerarchia delle situazioni temute. Il terapeuta affronta per primo lo stimolo temuto dal paziente, e poi lo incoraggia a ripetere lo stesso comportamento: il terapeuta inizia dal primo gradino della gerarchia, ad es. osservare la foto di un gatto, nel caso di un paziente con fobia dei gatti, ad una distanza di un metro. A quel punto chiede al paziente di ripetere il comportamento. Il secondo gradino potrebbe consistere nell’osservare la foto di un gatto ad una distanza di trenta centimetri, poi nel toccare con una mano la foto, e così via fino a toccare un gatto in carne e ossa. Osservare una persona che affronta senza paura lo stimolo temuto e poi imitarla risulta una strategia efficace nell’aiutare i pazienti a superare le proprie fobie (Martin e Pear, 2000). I compiti a casa consisteranno nella ripetizione dei gradini della gerarchia affrontati in seduta. Se il paziente non se la sente di affrontare il gradino “modellato” dal terapeuta, si possono costruire delle alternative, ad esempio suddividendo il compito in una serie di passi ancora più piccoli: ad esempio, anziché avvicinarsi subito alla gabbia con il gatto, si può far accostare il paziente fino alla distanza di un metro dalla gabbia, per poi farlo tornare indietro, poi si può farlo avvicinare ad un metro dalla gabbia e rimanere a quella distanza per un minuto, aumentando un po’ alla volta il tempo di esposizione. È fondamentale la collaborazione tra terapeuta e paziente nel mettere a punto una serie adeguata di compiti da affrontare in sequenza, in maniera tale che il paziente sia in grado di gestire l’ansia evocata da ogni esercizio, senza esserne sopraffatto. È necessario inoltre prestare una particolare attenzione ai comportamenti di ricerca di sicurezza che il paziente può mettere in atto nello svolgere il compito, come ad esempio distogliere lo sguardo dalla foto del gatto. In questi casi il terapeuta dovrebbe incoraggiare il paziente ad abbandonare un po’ alla volta questi comportamenti protettivi.

22.7.2c Desensibilizzazione sistematica

A differenza della padronanza guidata, basata sull’estinzione rispondente, la desensibilizzazione sistematica si fonda sul processo di contro-condizionamento (Martin e Pear, 2000); lo stimolo è stato associato nel tempo, attraverso un processo di condizionamento, alla risposta d’ansia, e la desensibilizzazione sistematica consiste proprio nell’appaiare una tecnica di rilassamento allo stimolo temuto, contrastando così l’ansia che all’inizio è associata alla situazione. Con questa tecnica si cerca di mantenere un livello d’ansia basso, lo scopo è di associare lo stimolo temuto ad

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uno stato di rilassamento. S’inizia quindi dall’apprendimento di una tecnica di rilassamento (ad es. il rilassamento muscolare progressivo) che può comportare un lavoro di alcune sedute; si procede poi con la costruzione di una gerarchia degli stimoli temuti. Una volta che il paziente ha imparato a raggiungere uno stato di rilassamento completo, e messa a punto la gerarchia, si può procedere con la desensibilizzazione sistematica. Lo stimolo può essere presentato in vivo, in immaginazione, o tramite stimoli prossimali, come le foto (McLean e Woody, 2001). Il terapeuta invita il paziente a visualizzare il primo stimolo della gerarchia, evitando l’ansia e cercando di mantenere uno stato di calma; dopo qualche secondo (non più di un minuto) si chiede al paziente di rilassarsi, tramite la tecnica appresa, per circa 30 secondi; a questo punto lo s’invita a ri-visualizzare la scena. “In questo modo il terapeuta procede verso l’alto della gerarchia facendo immaginare al cliente ciascuna scena due volte, solitamente lavorando su 3-5 scene per seduta. Se a qualsiasi punto viene sperimentata ansia, il cliente lo segnala sollevando un dito e a ciò fa seguito uno dei diversi passi di rilassamento e immaginazione delle scene che di solito consentono al soggetto di proseguire senza provare tensione ulteriore” (Martin e Pear, 2000). Una volta che l’ansia non compare più nell’immaginare la situazione, il paziente deve procedere ad affrontare lo stimolo successivo nella gerarchia. Se, in corrispondenza di qualsiasi step, il paziente si sente sopraffatto dall’ansia, deve utilizzare la tecnica di rilassamento fino a che non si sente di nuovo calmo. Non si deve procedere al livello successivo della gerarchia fino a che la situazione precedente elicita ancora ansia.

22.7.2d Flooding

È una tecnica che consiste nell’esporre il paziente allo stimolo temuto sin dalle prime sedute: egli deve rimanere in contatto con la situazione temuta fino a che l’ansia non diminuisce (anche un’ora o più di tempo per ogni esposizione). I livelli d’ansia elicitati nel flooding sono piuttosto elevati. Compito del terapeuta è di controllare le reazioni di evitamento e di fuga, e di aiutare il paziente a tollerare il forte stato d’ansia elicitato dalla situazione. È una procedura che evidentemente provoca al paziente più disagio rispetto alla desensibilizzazione sistematica, e per questo motivo i pazienti in molti casi rifiutano di sottoporvisi.

22.8 Disturbo depressivo maggiore

22.8.1 Criteri diagnosticiLa caratteristica essenziale di un Disturbo Depressivo Maggiore è un decorso clinico caratterizzato da uno o più Episodi Depressivi Maggiori senza storia di episodi maniacali, misti o ipomaniacali. Per diagnosticare un Episodio Depressivo Maggiore cinque, o più, dei seguenti sintomi devono essere stati presenti contemporaneamente durante un periodo di due settimane e costituire un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi deve essere umore depresso o perdita di interesse o piacere.

• umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno• marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior

parte del giorno, quasi ogni giorno • significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso (per es., un cambiamento

superiore al 5% del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o aumento dell'appetito quasi ogni giorno.

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• insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno• agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno • faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno• sentimenti di auto-svalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati, quasi ogni giorno • ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione, quasi ogni giorno • pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza un

piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l'ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti.

22.8.2 TRATTAMENTOI trattamenti che si sono dimostrati più efficaci per la cura della depressione, sono la terapia comportamentale, la terapia cognitiva e la terapia interpersonale.

22.8.2a La triade cognitiva e il razionale del trattamentoPresentiamo qui la terapia cognitiva di Beck (Beck et al., 1987), il cui modello si fonda sulla cosiddetta “triade cognitiva”, vale a dire una visione negativa di sé, del futuro e del mondo: il paziente depresso tende a considerarsi inadeguato, incapace, difettivo, ritiene di essere detestabile a causa dei suoi supposti difetti, si critica continuamente. Inoltre tende a interpretare ciò che gli accade nella vita quotidiana in modo negativo, crede che il mondo abbia delle pretese eccessive e irragionevoli nei suoi confronti e che gli ponga degli ostacoli insormontabili che gli impediscono di conseguire i suoi obiettivi di vita; interpreta come fallimenti, privazioni, sconfitte le proprie interazioni con gli altri, con gli eventi della vita, con le circostanze, anche in presenza di spiegazioni alternative più probabili e verosimili. Infine si aspetta che i suoi problemi e sofferenze attuali proseguiranno all'infinito; le sue previsioni anche sull’esito delle attività più semplici da compiere a breve termine sono di fallimento. Butler e Beck (1995) definiscono la terapia cognitiva un trattamento attivo, strutturato, centrato sul problema e limitato nel tempo; esso è fondato sul presupposto che la depressione è mantenuta da un’elaborazione delle informazioni distorta e da credenze disfunzionali. La terapia ha lo scopo di aiutare i pazienti ad apprendere modalità di pensiero più adattive, che hanno l’effetto di migliorare anche le emozioni e i comportamenti.Il terapeuta insegna al paziente a monitorare i propri pensieri negativi e a individuare il legame tra pensieri, emozioni, stati di attivazione fisiologica e comportamenti. In questo modo l’individuo impara a verificare in modo “sperimentale” validità e utilità dei propri pensieri, per poi modificarli in senso adattivo. In questo modo egli acquisisce la capacità di identificare, valutare e cambiare le assunzioni sottostanti e le credenze che sono state il terreno di innesto delle reazioni depressive. Man mano che la terapia procede il paziente recupera (o apprende ex novo) le capacità di fronteggiamento delle difficoltà, impara a scomporre i problemi in una serie di passi più agevoli, a prendere decisioni utilizzando l’analisi dei vantaggi e degli svantaggi.Di solito s’inizia il trattamento con la programmazione delle attività, la tecnica di auto-monitoraggio della padronanza e del piacere e l’assegnazione di compiti graduali.Le sedute di psicoterapie sono strutturate secondo uno schema di lavoro:

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1. Ogni incontro comincia con una valutazione del tono dell’umore e della sintomatologia

2. Si stabilisce l’ordine del giorno

3. Ci si ricollega alla seduta precedente

4. Si vedono insieme i compiti a casa

5. Si discutono gli argomenti all’ordine del giorno

6. Si decidono i compiti a casa da svolgere per la seduta successiva

7. Il terapeuta riepiloga la seduta e il paziente fornisce un feedback su di essa.La faretra del terapeuta cognitivista è ricca di frecce di tipo diverso, dalla scoperta guidata, al dialogo socratico, ai role-playing, agli esperimenti comportamentali.

22.8.2b Strategie comportamentaliBeck suggerisce di iniziare dalle tecniche comportamentali, poiché il paziente depresso, nella maggior parte dei casi, è talmente risucchiato nel vortice dei pensieri negativi che iniziare il trattamento con tecniche cognitive, che naturalmente hanno l’effetto di intensificare ulteriormente l’introspezione, può aggravare l’ideazione depressiva. L’obiettivo rimane comunque una modificazione di tipo cognitivo, ma lo strumento utilizzato è comportamentale. L’individuo depresso e gli altri significativi spesso ritengono che egli non sia più in grado di assolvere ai propri compiti insiti nel ruolo di genitore, figlio, insegnante, impiegato, studente, professionista, e così via, né il paziente nutre più la speranza di poter trarre piacere da attività che prima gli davano soddisfazione. Egli si trova incastrato in un meccanismo a circolo vizioso in cui non svolge più i compiti di prima, e, consapevole di quest’inerzia, si valuta incapace. Questa visione di sé aumenta la depressione e la bassa autostima, che a loro volta accrescono l’inerzia del paziente. Obiettivo del terapeuta deve essere allora di sostenerlo nella modificazione del comportamento, nella ripresa delle attività, per dimostrargli l’erroneità delle sue inferenze negative e iper-generalizzate: se il paziente riesce, ad es., a ricominciare a frequentare un circolo sportivo, il terapeuta può evidenziargli il fatto che egli crede di essere incapace, fragile, invalido, ma, in effetti, non ha perso la capacità di funzionare come in precedenza; il paziente può così realizzare che alla base delle sue difficoltà ci sono distorsioni di tipo cognitivo. In questo senso bisogna considerare le strategie comportamentali nella terapia di Beck come degli “esperimenti” tesi a verificare la fondatezza delle interpretazioni, valutazioni, idee che il paziente ha di sé. Le disconferme di queste ultime motivano il paziente a impegnarsi in attività più complesse.

22.8.2bI Programmare le attività e valutarle secondo i parametri dell’abilità e del piacere Questa tecnica prevede l’utilizzo di tabelle di attività da svolgere; si tratta di programmare ora per ora la giornata del paziente, in uno schema che comprenda l’intera settimana. È chiaro che nella maggior parte dei casi l’individuo è consapevole che la sua inerzia aumenta la sofferenza che prova, ma il problema è che “non ce la fa”; è importante quindi che il terapeuta sappia incrementare la motivazione del paziente a tentare almeno lo svolgimento di qualche attività, aiutandolo ad assumere la prospettiva dello “sperimentatore”, che prova ad impegnarsi in un compito per determinare se ciò possa migliorare il suo umore e i suoi pensieri negativi. Egli deve monitorare la propria attività cognitiva e le proprie emozioni durante l’esecuzione del compito. Si può incoraggiarlo chiedendogli “In fondo cosa c’è da perdere se ci prova?”. Spesso però nel paziente

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permangono delle difficoltà ad impegnarsi in questo compito; per questo è fondamentale spiegargli il razionale di questo intervento, informandolo che, nella maggior parte dei casi le persone riescono meglio se hanno stabilito in anticipo un programma di attività. Beck et al. (1987) suggeriscono di accompagnare l’assegnazione di un programma di attività con commenti che possano evitare nel paziente un senso di fallimento, qualora non dovesse riuscire a svolgere i compiti:

• Nessuno riesce a portare a termine tutte le attività programmate, quindi non si

preoccupi se non svolgerà qualcuna delle attività prestabilite

• La tabella deve contenere il tipo di attività, non il tempo impiegato, non importa

quanto tempo ci mette

• Anche se non ci dovesse riuscire, rammenti sempre che il passo più importante è

provare a svolgere un programma; il nostro scopo è di osservare quello che

succede, non di giudicarlo

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Una tabella strutturata aiuta il paziente a dare un’organizzazione alla giornata. È utile che egli stabilisca prima tutte le attività e le metta per iscritto, poi indichi (ad es. utilizza

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Attività

A P Attività

A P Attività

A P Attività

A P Attività

A P Attività

A P Attività

A P

9.00

Lezione università

0 1 Lezione università

1 3 Lezione università

2 2

10.00

Lezione università

1 1 Palestra

1 1 Lezione università

0 1 Palestra

0 1 Lezione università

0 1 Passeggiata al parco

4 6

11.00

Lezione università

2 1 Lezione università

2 2 Lezione università

2 1

12.00

Fare la spesa

4 2 Fare la spesa

3 2 Fare la spesa

3 3

13.00

Pranzo al bar

2 2 Pranzo al bar

1 2 Pranzo al bar

2 3

14.00

Riposo a casa

0 1

15.00

Riposo a casa

0 1

16.00

Studiare

1 1 Studiare

2 1

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17.00

Andare in libreria

4 4 Andare da Anna (vicina di casa)

3 4 Studiare

1 1 Psicoterapia

2 2 Studiare

2 1

18.00

Studiare

2 1 Studiare

1 1

19.00

Corso di spagnolo

0 1 Corso di spagnolo

20.0021.00

Film in TV

Leggere “Orgoglio e pregiudizio”

4 6 Programma di attualità in TV

0 2 Leggere “Orgoglio e pregiudizio”

5 6 Gruppo in parrocchia

2 2 Cena con compagni università

22.00

B. Settimana dal………………………… al ………………………………..Una programmazione di questo tipo consente al paziente di acquisire consapevolezza di quelle attività che danno luogo, pur se in misura contenuta, ad un senso di sollievo. Il terapeuta può domandare: “Come si sentiva quando è andata a far visita alla sua vicina Anna rispetto a quando stava a casa senza fare niente?”. In tal modo si mettono in discussione idee del tipo “Qualsiasi cosa faccia, niente cambia”, “Sono tutto il giorno disperata”. Inoltre, il dover misurare non solo il livello di padronanza percepita nel compiere l’attività, ma anche il grado di piacere sperimentato, sensibilizza l’individuo alle emozioni piacevoli, che saranno così più facilmente di nuovo provate e ricordate. Anche se le valutazioni del paziente relative al piacere risultano basse, egli è comunque portato a

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riconoscere che, almeno in qualche attività, la soddisfazione percepita è più di 0, e questo consente di contrastare la caratteristica distorsione cognitiva “tutto o niente”. Riguardo al parametro dell’abilità, l’individuo può svalutare la propria padronanza nell’essere riuscito a recarsi una volta, nell’arco della settimana, a fare la spesa, e può commentare affermando “ E che vuole che sia? Prima ci andavo tutti i giorni, riuscivo anche a portare la cassetta d’acqua, e c’impiegavo anche meno tempo”. A questo punto il terapeuta dovrà rispondere sottolineando che l’abilità del paziente va valutata in proporzione a tutte le difficoltà attuali, e non al suo livello di funzionamento quando non era depresso.

22.8.2c Strategie cognitive

22.8.2cI Identificare i pensieri automatici

I pensieri automatici compaiono in modo rapido, in forma abbreviata e telegrafica in rapporto a specifiche categorie di eventi, e sono a connotazione negativa. Spesso non sono riconosciuti dalle persone, ma questa mancanza di riconoscimento immediato non dipende dalla messa in atto di meccanismi di difesa o resistenze individuali, ma

più semplicemente dalla difficoltà e dalla non abitudine degli individui nel focalizzarli. Sono pensieri automatici, abituali, plausibili, per questo l’individuo tende a non metterne in dubbio la fondatezza. La grande riscoperta compiuta dal cognitivismo è stata quella di cogliere fino in fondo quanto la sofferenza degli esseri umani dipenda dalle rappresentazioni e interpretazioni degli eventi, più che dagli eventi in sé; è necessario spiegare al paziente quanto le cognizioni influenzino le emozioni e i comportamenti. Gli esempi sono di solito molto più utili al paziente delle presentazioni teoriche:

T Immaginiamo che un signore domani vada in ufficio, incontri una collega nell’atrio, la saluti, e che questa persona non risponda al saluto. Se pensasse che la collega si è comportata così perché ce l’ha con lui, lo considera un perdente, come pensa che si sentirebbe?P Avvilito, scoraggiatoT E come si comporterebbe con quella persona?P Beh, immagino che si allontanerebbe, magari si chiuderebbe nella sua stanza, e forse non prenderebbe più l’iniziativa di salutarlaT Poniamo invece ora che quel signore pensi che la sua collega è un po’ distratta e che non ha sentito il suo saluto. In questo caso come si sentirebbe? P Sicuramente non avvilito, non ne avrebbe motivoT E come si comporterebbe?P Credo che si avvicinerebbe alla sua collega e ripeterebbe tranquillamente il salutoT Come vede, secondo come interpretiamo quello che succede, cambiano le nostre emozioni e i nostri comportamenti

Si richiederà quindi al paziente di annotare i suoi pensieri automatici; un modo per farli emergere consiste nel concentrare l’attenzione sui pensieri avuti

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immediatamente prima di una determinata emozione spiacevole. Una caratteristica tipica dei pensieri automatici è che l'individuo li considera “la” realtà, e non una personale inferenza influenzata dalla costante modalità di attribuzione di significato agli eventi caratteristica della persona che li produce. Questi pensieri assumono solitamente una forma telegrafica: “Sono un fallito”, “Nessuno mi ama”, “Faccio schifo”, “Ho deluso tutti”. Una volta individuati, andranno sottoposti a vaglio critico; l’intenzione non può e non deve essere quella di convincere il paziente che tutto va bene, ma di esaminare le prove a sostegno e quelle a disconferma delle convinzioni portate dal paziente, in modo da arrivare ad una lettura del mondo, di sé, degli altri più realistica. Il paziente imparerà a poco a poco a collocare i suoi pensieri automatici all’interno delle categorie tipiche di distorsioni cognitive, dalla lettura del pensiero (“è convinto che sono un cretino”), all’etichettamento (“Sono un perdente”), alla catastrofizzazione (“Se non faccio bene questa relazione mi licenzieranno e non troverò mai più lavoro”), al pensiero tutto-o-nulla (“Se non riesco più guidare l’auto vuol dire che sono un incapace”). Per un elenco più esaustivo cfr. il paragrafo Ristrutturazione cognitiva nella Fobia Sociale.

Ecco un esempio di come possa essere discusso un pensiero automatico:

P Sono così depresso, ieri il mio capo mi ha fatto una scenata, ce l’ha con me perché sono un incapaceT Capisco che lei sia molto turbato, ma le viene in mente per caso se il suo capo si è comportato così solo con lei?P Beh, in realtà è uno che tende ad urlare più che a parlare con un tono di voce normaleT E ieri, quando il suo capo ha alzato la voce con lei, c’era anche qualcun altro presente?P Dunque, ora che ci penso era arrabbiato con tutto l’ufficio vendite, sa, siamo in otto. T E ha criticato in particolare il suo lavoro?P No, effettivamente non ha menzionato me in modo particolare. Beh, forse non ce l’aveva proprio con me, in fondo non ha detto che il mio lavoro fosse fatto male. Forse era arrabbiato per fatti suoi.

Il paziente è incoraggiato a proporre delle interpretazioni alternative a quelle automatiche. Per svolgere questo esercizio a casa si può utilizzare uno schema come il seguente:

Evento Emozioni Pensieri automatici I n t e r p r e t a z i o n i

alternativeIl mio capo ha scelto un altro collega per una trasferta fuori città

Tristezza Non mi stima, non crede che io sia all’altezza. S o n o p r o p r i o u n incapace

S a c h e h o m o l t e p re o c c u p a z i o n i i n questo periodo e non vuole sovraccaricarmi di lavoro. Sa che non so dire di no, forse non mi ha proposto quel lavoro perché si è preoccupato per me

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BIBLIOGRAFIA

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