Problemi prospettici nella Maestà di Montevergine

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La Maestà di Montevergine roMa 2014

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La Maestà di Montevergine

roMa 2014

La Maestà di MontevergineStoria e Restauro

atti deL Convegno di studi

7- 8 giugno 2013MerCogLiano (av) - abbazia di Loreto

abbazia territoriaLe di Montevergine

soprintendenza per i beni storiCi artistiCi ed etnoantropoLogiCi per Le provinCe di saLerno e aveLLino

bibLioteCa stataLe di Montevergine

La MaeStà di MonteveRgineStoRia e ReStauRo

a cura di

FranCesCo gandoLFo e giuseppe MuoLLo

8

© Copyright 2014editoriale artemide Srlvia angelo Bargoni, 800153 Romatel. 06.45493446tel./Fax 06.45441995editoriale.artemide@fastwebnet.itwww.artemide-edizioni.it

Seconda edizione rivista

Segreteria di redazioneantonella iolandi

Redazioneandrea Robino Rizzet

ImpaginazioneMonica Savelli

CopertinaLucio Barbazza

In copertinaabbazia di Montevergine, Montano d’arezzo, Madonna in maestà, particolare (Foto giuseppe Muollo)

In quarta di copertinaabbazia di Montevergine, Montano d’arezzo, Madonna in maestà, particolare (Foto giuseppe Muollo)

Le immagini dei singoli saggi sono state fornite dagli autoriLe immagini del saggio di giuseppe Muollo sono state ottimizzate per la stampa in postproduzione da giovanni iannone. alle pp. 230-231: Complesso abbaziale di Montevergine (Foto giovanni iannone)

iSBn 978-88-7575-196-8

abbazia di Montevergine

Dom umberto Beda Paluzzi - abate ordinario di MontevergineDom Riccardo Luca guariglia - Priore di Montevergine

soprintendenza bsae di saLerno e aveLLino

SoprintendentiSalvatore abitaFabio de ChiricoMaura Picciau

il restauro della Maestà è stato eseguito da Patrizia Polonio BalbiConservazione e Restauro, via e.L. Cerva, 48 - Roma

uno speciale ringraziamento a gennaro Miccio, Soprintendente per i Bap di Salerno e avellino e ai colleghi Sandro de Rosa e Lucio Raffaele Marseglia per la collaborazione istituzionale fornita durante le operazioni di movimentazione e ricollocazione della Maestàun grazie particolare a Carlo guardascione, Soprintendenza BSae di Salerno e avellino

La pubblicazione del volume è stata resa possibile grazie alla Comunità Benedettina di Montevergine

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introduzione

13 preMessa

15 saLuto introduttivo

Dom Umberto Beda Paluzzi

La storia e i restauri

23 iL progetto e La teCniCa di eseCuzione. i restauri nei seCoLi. La CappeLLa iMperiaLe

Giuseppe Muollo

La storia e La Fortuna

61 Montevergine e gLi angiò

Errico Cuozzo

71 La pittura a napoLi tra due e treCento

Pierluigi Leone de Castris

85 La Maestà di Montano d’arezzo a Montevergine e La pittura su tavoLa dei seCoLi Xiii e Xiv Walter Angelelli

107 Le appLiCazioni MetaLLiChe e vitree

Francesca Pomarici

125 probLeMi prospettiCi neLLa Maestà di Montevergine

Francesco Gandolfo

139 santa Maria di Montevergine: Liturgia e pietà popoLare

Dom Riccardo Luca Guariglia

147 La Fortuna deLL’iMMagine

Emanuele Mollica

161 gLi eX voto preziosi nei doCuMenti deLL’arChivio storiCo annesso aLLa bibLioteCa stataLe di Montevergine daL xvii aL xviii seCoLo

Dom Andrea Davide Cardin

indiCe

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iL restauro e Le teCniChe

175 Madonna di Montevergine. indagini ConosCitive FinaLizzate aLLa Conservazione

Costantino Meucci

193 La datazione Con iL radioCarbonio deLLa Maestà di Montevergine Con L’aCCeLeratore tandetron deL Cedad Lucio Calcagnile

197 La Maestà di Montevergine. indagini, MoviMentazione e interventi di restauro Conservativo

Patrizia Polonio Balbi

ConCLusioni

221 Considerazioni FinaLi

Arturo Carlo Quintavalle

introduzione

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A una prima e superficiale osservazione, i criteri in base ai quali, nella Maestà di Montevergine (fig. 1), viene posta in opera la resa prospettica possono anche apparirci improntati a soluzio-ni di elementare ed ingenua empiria, tanto da farci chiedere se, sulla questione, Montano d’Arezzo abbia sviluppato un progetto attentamente elaborato o se, al contrario, si sia mosso sulla base di una occasionale improvvisazione1. Questa sensazione nasce nel momento in cui si analizzino le ragioni compositive del tro-no sul quale siede la Vergine, visto che nell’opera è il principale fattore che, con le sue forme, contribuisce a evocare il senso di una dimensione spaziale. Una prima osservazione da fare è che, sulla scorta dell’andamento suggerito dal basamento sul quale si imposta, il trono è costruito secondo la formula detta della “rap-presentazione frontale-prospettica”, un espediente comunissimo nella pittura medievale quando, per rappresentare, in termini più allusivi che illusivi, il collocarsi nello spazio di un corpo dalla for-ma genericamente parallelepipeda, lo si ritrae con un lato perfet-tamente frontale e con uno dei due lati a quello perpendicolari, a destra o a sinistra, in scorcio, a seconda delle esigenze poste dal soggetto, mantenendo però perfettamente parallele tra loro le linee che ne segnano i contorni, secondo un procedimento che non si perita minimamente di svelare all’istante tutta la sua approssimativa convenzionalità2.

Che, nel cercare una ragione spaziale per il trono della Maestà, Montano sia partito da una impostazione di questo genere è mes-so in evidenza dal fatto che, dell’insieme della struttura, noi vedia-mo la porzione frontale per intero e il lato sulla sinistra in scorcio. Del resto occorre dire che la soluzione era, almeno fino a buona parte degli anni ottanta del Duecento, usuale e ricorrente in que-sto genere di dipinto come mostrano la Maestà del Louvre (fig. 2) di Cimabue e la Madonna Rucellai (fig. 3) di Duccio la quale, della messa in opera di questo stratagemma spaziale, è l’interpre-te più coerente, tanto più che, con la sua data di allogagione al 1285, fornisce anche un solido termine di riferimento, sul piano temporale, per quel genere di sperimentazione prospettica, svolta in relazione al tema3. Tra l’altro Duccio è esecutore rigoroso del sistema, nel senso che il lato frontale del trono è effettivamente

tale, in quanto le zampe anteriori, sia quella a destra sia quella a sinistra, si collocano su una comune linea orizzontale, segnata in tutta evidenza dal basamento che attraversa per intero la scena. Quanto al lato obliquo sulla sinistra, anche in questo caso Duccio è attento alle ragioni di fondo del criterio compositivo, perché lo rappresenta con tutte le linee parallele perfettamente al loro posto, ivi comprese quelle suggerite dal dossale, anche a costo di pagare lo scotto, pesantissimo sul piano della credibilità, di dover rappresentare i due angeli in basso simmetricamente inginocchia-ti, allo stesso livello, sul ripiano più esterno del basamento, ma addossati quello sulla destra alla porzione anteriore del trono e quello sulla sinistra a quella posteriore, un ostacolo che neppure Cimabue era stato in grado di superare.

In realtà al confronto si nota bene come Montano metta in campo una applicazione della rappresentazione frontale-prospet-tica che potremmo definire non ortodossa, cioè non rispettosa delle regole fondamentali di cui Duccio è invece interprete os-sequiente. Le parallele suggerite dal lato obliquo non sono tutte tali, nel senso che non sono tutte omogeneamente indirizzate nel-la stessa direzione, ma sono divise in due porzioni, con andamen-ti distinti e opposti. Quelle suggerite dal fianco del trono fino alla impostazione della colonnina tortile che regge il bracciolo puntano verso l’alto, al di sopra di quel livello, quelle generate dal fianco del dossale puntano invece verso il basso. In altri termini sono state organizzate sulla base di due gruppi reciprocamente recedenti. Se si analizza nel dettaglio il meccanismo compositivo è possibile riconoscere che il sistema è stato costruito facendo riferimento a un asse orizzontale che attraversa il dipinto, passan-do in una posizione, tangente alle curve dei braccioli, che corri-sponde grosso modo alla metà della tavola. È rispetto a questo asse trasversale che, in una dimensione ideale del tutto esterna al dipinto, si organizza l’andamento delle parallele recedenti. Nel senso che, in maniera molto disinvolta sul piano geometrico, ma efficace su quello rappresentativo, esse convergono, in termini del tutto approssimativi, verso punti in comune disposti lungo l’ideale percorso di quell’asse. La situazione la si evince bene dal fatto che le parallele generate dal fianco del sedile del trono pun-

Problemi ProsPettici nella maestà di montevergine

Francesco Gandolfo

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tano in una direzione che è convergente rispetto a quella delle loro omologhe generate dal fianco del dossale e cercano in questo modo di produrre un effetto illusivo di profondità.

Anche questo criterio compositivo non era una novità. Nei suoi termini applicativi generali era stato inventato e sperimenta-to nel corso dei lavori al cantiere della basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Il primo a segnalare il raggiungimento di pre-cisi risultati per una ricerca in corso di questo genere è Cimabue, il quale fino a quel momento, come mostra la Maestà del Louvre, era stato un ossequiente applicatore del sistema frontale-prospet-tico nei suoi termini tradizionali. Tale doveva essere ancora in-torno al 1288, quando approda sul cantiere assisiate ed esegue la Maestà (fig. 4) ad affresco nel braccio destro del transetto della basilica inferiore, ammesso che sia giusta la teoria che la vuole sag-gio di prova in via preliminare per il più impegnativo lavoro per la basilica superiore, dato che il dipinto, dal punto di vista della resa spaziale, si imposta ancora in termini non diversi da quel-li della Maestà del Louvre, secondo un ortodosso meccanismo frontale-prospettico4. È nel corso dei lavori all’abside della basili-ca superiore che Cimabue intuisce la possibilità di una rivoluzio-ne radicale nella impostazione spaziale del trono. Abbandonando il meccanismo frontale-prospettico, nella scena con Cristo e la Vergine in gloria (fig. 5), la struttura del trono viene dipinta per-fettamente frontale e le parallele recedenti, muovendo da destra e da sinistra, convergono simmetricamente verso punti in comune disposti lungo un asse che corrisponde alla verticale che attra-versa il centro del dossale e dunque dell’affresco, con un effetto realistico che cerca di rifarsi il più possibile al concreto rapporto tra la nostra modalità di visione e un oggetto di quella forma5.

Anche se radicalmente empirico e privo di una sostanziale motivazione di ordine geometrico, quel sistema era comunque innovativo e soprattutto migliorativo sul piano degli effetti visivi, rispetto alla ingenua approssimazione del criterio frontale-pro-spettico. Lo stesso Cimabue di lì a poco avrebbe provveduto a un ulteriore affinamento del metodo con la Maestà di Santa Trinita (fig. 6), applicandolo finalmente anche al suppedaneo, operazio-ne che non si era ancora avventurato a fare ad Assisi, ed ottenen-do in questo modo un effetto spaziale, sia pure totalmente em-pirico, di grande efficacia rappresentativa, che sintetizza questa sua dote nella finalmente raggiunta organicità del rapporto tra la struttura del trono e la posizione degli angeli6. Pur restando solo parzialmente convinto della bontà delle novità che essa propone-va, Montano ha visto la Maestà di Santa Trinita o un qualcosa di strettamente analogo. Lo prova la tavola con la Madonna con il Bambino (fig. 7) conservata in San Lorenzo Maggiore a Napoli che giustamente gli è stata attribuita7. L’elemento di contatto più appariscente con la tavola fiorentina è fissato dalla presenza dei busti dei profeti al di sotto del suppedaneo, un legame fornito da Fig. 1. Abbazia di Montevergine, Montano d’Arezzo, Madonna in maestà

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Fig. 2. Parigi, Louvre, Cimabue, Madonna in maestàFig. 3. Firenze, Uffizi, Duccio di Buoninsegna, Madonna RucellaiFig. 4. Assisi, Basilica inferiore di San Francesco, Cimabue, Madonna in maestàFig. 5. Assisi, Basilica superiore di San Francesco, Cimabue, Cristo e la Vergine in gloria

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Fig. 6. Firenze, Uffizi, Cimabue, Madonna di Santa TrinitaFig. 7. Napoli, San Lorenzo Maggiore, Montano d’Arezzo, Madonna in maestàFig. 8. Assisi, Basilica superiore di San Francesco, Volta dei Dottori, vela con San GerolamoFig. 9. Assisi, Basilica superiore di San Francesco, Giacobbe riceve la primogenitura

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un dettaglio troppo significativo e altrimenti insolito per pensare che sia casuale. Eppure malgrado una comunanza così marcata, Montano non si appropria dell’efficace sistema centralizzante sperimentato da Cimabue e sviluppa una versione del criterio frontale-prospettico simile a quello della tavola di Montevergine (fig. 1), solo svolto in una maniera decisamente più approssima-tiva e imprecisa. Anche in questo caso esiste un asse trasversale di riferimento, ma anziché coincidere con la metà del dipinto nel suo insieme, corre in corrispondenza della metà del dossale, così che sono solo le parallele recedenti suggerite dalla parte superiore della struttura a dirigersi verso di esso, dall’alto in basso, mentre tutte le altre lo fanno in senso inverso. Inoltre balza evidente una notevole approssimazione, quasi una noncuranza, nella resa del parallelismo che tende soltanto alla evocazione empirica di una sensazione di profondità, piuttosto che al recupero di una ragione di sintonia con i modi della nostra visione.

Ciò che conta notare però è che il criterio applicato da Mon-tano nella Maestà di San Lorenzo Maggiore, poi ripreso e svilup-pato in quella di Montevergine, non è anch’esso una novità, ma proviene dal contesto giottesco del cantiere di Assisi. Per quanto riguarda lo specifico della applicazione del criterio dell’asse tra-sversale nella resa di un trono, il testo più efficace di riferimento è rappresentato dalla volta dei Dottori, in particolare dalla vela con San Gerolamo (fig. 8) in cui, prese le debite distanze determinate dalla necessità di adattare la ragione prospettica all’andamento concavo della muratura, il seggio sul quale siede il monaco che ac-compagna il santo è costruito sulla base di una ragione organizza-tiva del sistema frontale-prospettico fissata da un asse trasversale di raccordo delle parallele recedenti, collocato in corrispondenza della porzione superiore della struttura, che è lo stesso criterio applicato da Montano nella tavola di San Lorenzo Maggiore8. In realtà ad Assisi quel criterio compositivo avrebbe trovato la sua migliore applicazione nella resa delle architetture. L’esempio prin-cipe in questo senso è rappresentato dalle due storie di Isacco (fig. 9), in cui la struttura architettonica all’interno della quale si muovono i personaggi è organizzata sulla base di un procedi-mento che vede il lato lungo seccamente frontale mentre quello breve è obliquo e reso secondo un molto approssimativo sistema di parallele recedenti, organizzate sulla base di un asse trasversale che corre a circa metà altezza del dipinto9.

Dato il carattere empirico e la sostanziale non scientificità sul pia-no geometrico di tutti e due i sistemi, non è certo il caso di attribu-ire all’uno o all’altro meriti maggiori di quelli che hanno. Semmai vale la pena di notare come entrambi trovino immediate ragioni di successo e di imitazione in ambito romano, al punto da poter con-statare casi, come quello di Cavallini in Santa Maria in Trastevere, di contemporaneo utilizzo di entrambi10. Nella scena iniziale del ciclo mariano, quella della Natività di Maria (fig. 10), le architetture che

fanno da sfondo sono organizzate sulla base del criterio cimabuesco dell’asse verticale di coordinamento delle parallele recedenti, mentre nella scena immediatamente successiva nell’economia del racconto, quella dell’Annunciazione (fig. 11), l’architettura che racchiude al suo interno il trono sul quale siede la Vergine è costruita secondo il criterio frontale-prospettico, gestito sulla base di un asse trasversale, segno che si trattava di soluzioni ritenute, in un certo senso, equiva-lenti e non alternative, proprio in virtù del carattere squisitamente empirico con il quale miravano entrambe alla resa di un effetto di profondità spaziale. Il carattere sperimentale del momento è bene sottolineato dalla scena (fig. 12) dell’Annunciazione che Jacopo Tor-riti realizza entro il 1296 in Santa Maria Maggiore a Roma dove, memore dei suoi trascorsi assisiati, nella architettura che si dispone alle spalle della Vergine riprende, in maniera integrale e attenta, il sistema cimabuesco, mentre nella resa del seggio sottostante si avven-tura in una funambolica operazione di vero e proprio ribaltamento delle ragioni applicative dello stesso criterio, organizzando le paralle-le recedenti sulla base della loro convergenza verso un asse verticale immaginario che corre davanti e al di fuori della scena, arrivando alla rappresentazione del trono con i due lati opposti entrambi in posizione obliqua e, di conseguenza, con una insolita sezione appros-simativamente semiesagonale11.

Che a Roma la tendenza fosse comunque quella di un progres-sivo passaggio da un sistema all’altro lo mostra bene la bottega di Giovanni di Cosma. Nel mosaico che, in Santa Maria sopra Minerva, decora il fondo dell’arcosolio della tomba del cardinale Guglielmo Durand (fig. 13), morto nel 1296, il trono della Vergi-ne si imposta sulla base del sistema frontale-prospettico, mentre in Santa Maria Maggiore, nella tomba del cardinale Consalvo Ro-driguez (fig. 14), morto nel 1299, la stessa immagine viene risolta con il sistema centralizzante12. Sempre a Roma, nel piccolo mo-saico (fig. 15) sistemato nell’abside della chiesa di San Crisogono, che non stona collocare a mezza via, anche cronologicamente, tra quelle contrastanti esperienze della bottega cosmatesca, il trono della Vergine si presenta come quanto di più prossimo vi sia, an-che su un piano strettamente tipologico, alla soluzione frontale-prospettica che Montano introduce anzitutto nella tavola di San Lorenzo e poi, con le dovute eccezioni, in quella della Maestà di Montevergine13.

L’epoca e la qualità dello sperimentalismo prospettico romano sono dunque utili per valutare le intenzioni di Montano il qua-le, anche in questo campo, è tutt’altro che uno sprovveduto e si muove con grande disinvoltura. Malgrado la vistosa lacuna pre-sente nella porzione inferiore destra che lascia ormai solo intuire la perfetta frontalità del trono, è ragionevole dire che nella tavola di San Lorenzo Maggiore (fig. 7) la struttura è ancora organizzata secondo il sistema frontale-prospettico, con le parallele recedenti del lato in scorcio impostate sulla base di un asse trasversale che,

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Fig. 10. Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, Natività della Vergine.Fig. 11. Roma, Santa Maria in Trasteve-re, Pietro Cavallini, Annunciazione.Fig. 12. Roma, Santa Maria Maggiore, Jacopo Torriti, Annunciazione.Fig. 13. Roma, Santa Maria sopra Miner-va, Giovanni di Cosma, tomba del cardi-nale Gugliemo Durand, particolare del mosaico al fondo dell’arcosolio.Fig. 14. Roma, Santa Maria Maggiore, Giovanni di Cosma, tomba del cardinale Consalvo Rodriguez, particolare del mo-saico al fondo dell’arcosolio.Fig. 15. Roma, San Crisogono, Madon-na in maestà tra i santi Crisogono e Gia-como.

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come si è visto, corre a circa metà altezza del dossale, ragione che ritengo cogente nel far giudicare la tavola precedente rispetto alla Maestà di Montevergine, così come precedente doveva essere anche il perduto affresco (fig. 16) esistente nella cappella di San Marciano, annessa al Duomo di Napoli, con la Madonna con il Bambino in trono tra i santi Marciano, Gennaro, Restituta e Patrizia, testimoniato ormai soltanto da una incisione settecen-tesca, ma certamente riferibile a Montano proprio per le ragioni prospettiche messe in campo nella composizione del trono14. Pur con tutta la labilità da mettere nel conto di una testimonianza in-diretta e senza farsi troppo impressionare dall’andamento ricurvo dei braccioli che sembra derivare dalla Maestà di Montevergine, ma che è invece motivo già presente nel mosaico romano di San Crisogono (fig. 15), è del tutto evidente che, nella resa del tipo e della posizione della Madonna, l’affresco si adeguava alla tavola di San Lorenzo. Lo stesso accadeva per l’impianto prospettico del trono, con l’asse di riferimento trasversale per le parallele rece-denti che correva in corrispondenza della porzione superiore del dossale, secondo la lezione appresa nello spazio fisico, ma anche temporale, che, nel cantiere di Assisi, va dalla volta dei Dottori alle Storie di Isacco, una realtà storica e culturale a cui prospetti-camente si adegua anche il mosaico di San Crisogono.

Nella Maestà di Montevergine tutto viene ripensato in ma-niera nuova e originale, partendo ancora una volta dalla lezione assisiate, ma sulla scorta di in una fase più avanzata, quella ormai indiscutibilmente giottesca che vede l’avvio del ciclo francescano. Il termine di riferimento è fornito in questo caso dalla scena con l’episodio della Visione di San Damiano (fig. 17)15. Nel dispor-re l’architettura nello spazio, Giotto va oltre il criterio frontale-prospettico, ancora caratteristico ed esclusivo nella fase rappre-sentata dalle Storie di Isacco, elaborandolo nella direzione di quello che potremmo chiamare un sistema a due lati prospettici, organizzando l’andamento di questi sulla base di un asse che, nel caso specifico, corrisponde alla colonna d’angolo dell’edificio, dunque decentrato verso sinistra rispetto alla globalità del riqua-dro. La novità proposta da Montano sta nel tentativo, ancora una volta ferocemente empirico, ma geniale sul piano delle pretese e degli effetti, di attribuire al trono una analoga collocazione nello spazio. Per arrivare a questo dobbiamo dire che il pittore ha agito d’istinto, fuori da qualunque logica di coordinamento lineare. Per rendersene conto basta notare la differenza di dimensioni nell’andamento in scorcio che esiste tra l’esterno del fianco in vista del seggio e la corrispondente porzione interna dalla parte opposta (fig. 1). In una usuale applicazione del sistema frontale-prospettico, le due parti avrebbero dovuto essere identiche. Mon-tano invece ha aumentato la messa in scorcio del lato sulla nostra destra e in quel punto ha inserito, davanti alla struttura, una figu-

retta di angelo che impedisce di vedere dove avviene il raccordo tra l’elemento verticale e il basamento. L’effetto che ne scaturisce è volutamente straniante, perché in realtà il basamento attraversa il dipinto lungo un asse perfettamente orizzontale e una analo-ga disposizione coinvolge la porzione terminale del dossale, con i due mensoloni sui quali si inginocchiano gli angeli oranti in direzione della Vergine. Malgrado l’imperfezione lineare, il mec-canismo prospettico del cambiamento di scorcio ha il pregio di farci percepire il trono come ruotato intorno a un asse decentrato che corrisponde alla fronte del bracciolo in primo piano, al quale sono demandate le stesse funzioni di riferimento visivo primario, nella organizzazione complessiva della resa spaziale, attribuite da Giotto alla colonna nella scena assisiate. Montano ha anche prov-veduto a sottolineare la funzione di asse di riferimento visivo in primo piano (o forse sarebbe meglio dire in finto primo piano), svolta da quel bracciolo, facendo convergere sul suo attacco supe-riore l’inclinazione del volto e il gomito della Vergine.

È analizzando isolatamente la porzione inferiore della tavola (fig. 18) che si mette allo scoperto la totale approssimazione del meccanismo, ma anche il fatto che Montano aveva piena coscien-za di ciò che stava tentando, mosso da una geniale volontà spe-rimentatrice. Già si è visto prima quale sia la situazione propo-sta dalle due parti laterali del trono. Vale la pena di notare che Montano si limita ad aumentare lo scorcio di quella sulla nostra destra rispetto all’altra solo lateralmente, ma non interviene, in proporzione, sull’altezza che rimane invariata, tanto è vero che le modanature restano disposte sugli stessi assi orizzontali dell’altra parte, segno che la sua ricerca prospettica si sta muovendo a un livello empirico, totalmente lontano da qualunque istanza di ra-gione geometrica e di questo il pittore sembra essere pienamente cosciente. Tanto è vero che utilizza come fattore di compensazio-ne la rappresentazione della porzione inferiore del corpo della Madonna, sfalsando i livelli delle ginocchia e dei piedi e incli-nando il cuscino sul quale appoggiano, sulla base della pretesa appartenenza a un piano obliquo e non frontale, soluzione che è in totale contraddizione con una resa oggettiva, ma è funzionale a perseguire l’effetto illusivo che Montano si è proposto come obbiettivo. Perché così facendo il cuscino, insieme con l’angelo subito a fianco, contribuisce a nascondere la corrispondente por-zione inferiore interna del fianco del trono e crea un asse visivo obliquo che ci fa dimenticare che di quella parte noi ne stiamo vedendo solo metà e questo intensifica l’effetto di passaggio da un primo a un secondo piano che è l’istanza prospettica primaria alla quale il pittore si è proposto di arrivare.

Ma Montano ha fatto anche di più. Chiaramente insoddisfat-to della tutto sommato ingenua soluzione cimabuesca dei profeti a mezzo busto, disposti al di sotto del trono, ma altrettanto insod-

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disfatto della improbabile presenza degli angeli, sospesi per aria ai lati del trono e disposti allo stesso livello e non su piani prospetti-ci differenti, secondo la tradizione fissata dalle precedenti tavole monumentali della Maestà della Vergine, si è sforzato di trovare una soluzione plausibile alla loro presenza. La frequentazione del santuario verginiano dovette essere determinante nel suggerirgli la possibilità di modificare la terminazione superiore del dossale, introducendo i due ariosi mensoloni (fig. 19), a decorazione fo-gliata, al posto delle pesanti trabeazioni rette da colonnine tortili presenti nei troni delle due Madonne napoletane. In quel mo-mento il motivo esisteva già alla terminazione degli architravi del ciborio (fig. 20) rivolti verso la navata della chiesa abbaziale, un arredo che era stato realizzato nell’ultimo quarto del Duecento e che oggi è collocato nella cappella del Sacramento, malamente ri-composto nel corso della ristrutturazione seicentesca16. Singolare è che, a conferma di un reciproco rapporto tra le due opere, pren-dendo evidentemente spunto dalla Maestà, nel corso di quest’ul-timo intervento si siano collocate al di sopra dei mensoloni del ciborio due statuine di angeli, recuperate dalla trasformazione di un tomba tardo-trecentesca17.

Ponendo due angeli inginocchiati sui mensoloni sporgenti dal dossale (fig. 19) e collocando gli altri torno torno alla base del di-pinto (fig. 18), Montano ha superato di slancio, in una direzione realistica, la soluzione cimabuesca di occupazione degli spazi rica-vati tra le sostruzioni del trono, che era ancora il criterio seguito nella tavola di San Lorenzo Maggiore (fig. 7) dove, come del resto nella Maestà di Santa Trinita (fig. 6), trovava una giustificazione simbolica nella logica dei protagonisti del Vecchio Testamento, i

profeti, che reggono su di sé quelli del Nuovo. Soprattutto poteva evitare la dislocazione sfalsata degli angeli ai lati del trono, per arrivare finalmente alla rappresentazione di un coro angelico de-scritto come se si trattasse di un vero gruppo di coristi, collocati all’interno di una recinzione presbiteriale. Allo stato attuale della pittura e partendo da sinistra (fig. 18), vediamo un angelo che can-ta appoggiandosi alla porzione posteriore del trono, parzialmente coperto dalle ali di un altro che gli sta davanti e che soffia in un turibolo per rianimarne la fiamma. Questo angelo è dipinto solo per metà, dopo di che abbiamo il legno grezzo. A riproporre una situazione analoga, nella porzione centrale del dipinto, vediamo tre angeli rivolti verso chi guarda e disposti davanti al basamento del trono. Anch’essi sono dipinti solo fino a metà busto e sono caratterizzati in modi diversi. Quello sulla sinistra, mentre canta, con le mani dà il tempo ai compagni, quello al centro è l’unico che non canta e che assume una posizione iconica, con manto scettro e globo che fanno pensare a un san Michele, il terzo è tutto preso dal canto, così come l’ultimo, quello posto davanti al bracciolo sinistro del trono.

È ragionevole ritenere che Montano non avesse pensato fin dall’inizio di concludere il dipinto nel modo con il quale esso si presenta oggi, con le figurette a mezzo busto che emergono all’im-provviso dal legno grezzo. Di questa intenzione sopravvive un segnale preciso: poco al di sotto della zona dipinta, la tavola è at-traversata, quasi per la sua intera larghezza, visto che sulla sinistra la traccia si interrompe all’altezza dell’angelo con il turibolo, da una linea rossa che corre perfettamente parallela al confine creato dalla conclusione della pittura. È in questa zona, sulla destra, tra

Fig. 16. Napoli, Duomo, cappella di San Marciano, incisione riproducente un perduto affresco con la Madonna in maestà tra i santi Marciano, Gennaro, Restituta e Patrizia, da Alessio Simmaco Mazzocchi, De sanctorum Neapolitanae Ecclesiae episcoporum cultu dissertatio, Napoli 1753, p. 453

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il limite effettivo della pittura e la linea rossa, che nel corso del restauro sono riemerse le due C in lettere capitali di colore bian-co, con un possibile tratto abbreviativo superiore di cui sembra restare una infinitesima traccia, che tanti interrogativi avevano sollevato dopo la loro scoperta in occasione dell’intervento del 1960, con l’inevitabile sconfinamento, in quella occasione, verso una improbabile identificazione come firma cavalliniana18. Che si tratti invece di una sigla funzionale al cantiere del dipinto è abbastanza ovvio, il problema semmai è quello del suo significato. Se ci si rapporta all’epoca della tavola, uno scioglimento docu-mentabile per quel tipo di abbreviazione è canticum19, un termine che Du Cange, riprendendo Rufino di Aquileia, spiega in questo modo: canticum est, cum cantantium chorus libertate sua utens, neque in consonum organi astrictus obsequium, hymno canorae vocis tantum exultat20. In altri termini potremmo dire che la sigla è una metoni-mia che attraverso l’effetto, il canto o canticum, individua la causa che la produce, ossia il coro angelico, il tutto basato, come dice Rufino, sulla sola voce, senza la costrizione della consonanza con uno strumento. La sigla dunque può avere avuto la funzione di didascalia evocativa della scena che le si svolge immediatamente sopra. Essa deve essere stata posta nella fase di programmazione di quella che possiamo chiamare, più che la stesura del disegno preparatorio, la partizione della tavola sulla base della attribuzio-ne di uno spazio e di una collocazione alle diverse componenti che vi dovevano essere presenti. Ma che ragione vi era di tracciare una riga rossa al di sotto di quella indicazione se poi, al di là di essa, non si prevedeva di procedere con la lavorazione della tavo-la, lasciando grezzo il legno?

In realtà questo è un punto che va chiarito e per farlo occorre analizzare la situazione, sempre in relazione alla linea rossa, ma sull’altro versante (fig. 18). Qui come si è detto la linea si inter-rompe prima di arrivare al limite sinistro della tavola, più o meno all’altezza di metà circa del busto dell’angelo turiferario, segno che in quella zona la sua funzione partitoria veniva a cadere. Già si è visto come nel dipingerlo quest’angelo sia stato tagliato in sbieco, seguendo l’andamento obliquo suggerito dal basamento del tro-no, cosi come avviene per gli angeli sulla parte frontale. A questo punto è legittimo chiedersi come in origine si fosse previsto di completare la porzione inferiore del dipinto. Al di sotto dell’ange-lo turiferario compare un tracciato a losanghe, simile a quello che ricorre nelle restanti parti della tavola, in corrispondenza della co-pertura metallica, di analogo disegno, con i gigli angioini, un trac-ciato evidentemente funzionale al montaggio di quella finitura e che rende plausibile l’ipotesi che la soluzione fosse prevista fin dal primo momento, in alternativa alla più tradizionale stesura della foglia d’oro21. Quello però che va notato è che in corrispondenza dell’angelo turiferario le losanghe non sono state dipinte, come nel resto della tavola, ma tracciate con una punta metallica, graf-

Fig. 17. Assisi, Basilica superiore di San Francesco, Giotto, Monito del Crocifisso di San Damiano

fiando la superficie del legno. Questa constatazione lascia aperta la possibilità che la scelta di omologare anche questa porzione del dipinto con un decoro, ovviamente poi andato perduto, simile a quello del fondo del resto della tavola, sia stata presa in un mo-mento successivo, anche a grande distanza di tempo, e che la con-clusione immaginata e forse realizzata da Montano fosse diversa, in linea con quelli che erano stati i presupposti prospettici in base ai quali egli aveva realizzato il dipinto.

Elemento determinante per cercare di ipotizzare quale potesse essere la soluzione ideata da Montano è il taglio in sbieco della figura dell’angelo turiferario perché si tratta di una scelta che va inevitabilmente riferita al pittore. Stando cosi le cose, vale la pena di notare che quel taglio corre in parallelo al lato obliquo del basamento del trono, riproponendo la stessa identica situazione degli angeli posti in corrispondenza del lato frontale, nella parte centrale. È verosimile che fin dall’inizio anche per questa porzio-ne inferiore fosse prevista una finitura metallica, diversa però da quella stesa sul resto della tavola, come indica il fatto che a un cer-to punto, andata distrutta la sistemazione originaria, si provvide ad omologare anche questa parte al sistema generale, tracciando a punteruolo le losanghe al di sotto dell’angelo. Nulla ci può dire come potesse essere la sistemazione pensata da Montano, tuttavia almeno una indicazione in proposito rimane. La linea rossa che attraversa il dipinto al di sotto della sigla con la doppia C crea, davanti ai tre angeli in primo piano, quella che potremmo defi-nire la balaustra di una cantoria, anche se ovviamente non c’è modo di sapere come poi si realizzasse nei fatti. Il taglio in sbieco dell’angelo turiferario sulla sinistra suggerisce a sua volta che la

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balaustra poteva proseguire anche su questo lato, sulla base di un percorso parallelo a quello del basamento del trono, di cui ripren-deva in toto l’impostazione frontale-prospettica.

In altri termini, da ciò che resta della porzione inferiore della tavola sembra di poter dedurre che, con una capacità di scelta del

tutto innovativa, ma anche fieramente realistica, Montano aveva previsto di organizzare gli angeli come un vero e proprio gruppo di coristi, disposti davanti al trono e chiusi all’interno di uno spazio architettonico loro dedicato dal quale emergevano a mezzo busto, come accade nella realtà di qualunque recinto corale. Tra

Fig. 18. Abbazia di Montevergine, Montano d’Arezzo, Madonna in maestà, particolare della porzione inferiore della tavola

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i tanti meriti del recente restauro e della risistemazione nella vec-chia sede, vi è anche quello di avere recuperato, in virtù della mu-ratura di fondo della cappella, il livello angioino di impostazione della tavola e dunque il suo punto di visione, quello in rapporto al quale essa era stata pensata da Montano che, tenuto conto del-le variazioni di livello nel piano di calpestio, prevedeva una col-locazione a una altezza di circa m 1.20 da terra22. Di conseguenza gli angeli del coro, in particolare i tre in primo piano, si venivano a trovare come se fossero disposti al di là di una balaustra, allo stesso livello dell’osservatore, con un’opera di coinvolgimento nei suoi confronti che spiega perché con il loro canto essi si rivolgano a lui e non alla Vergine.

Nello stesso tempo la situazione se da un lato mette in risal-to la straordinaria ricerca in chiave realistica svolta da Montano, rivoluzionando in maniera radicale il tipo della Maestà, dall’al-tro spiega anche le sue ansie prospettiche in rapporto al trono, mostrandolo pienamente cosciente della necessità di individuare una sorta di fattore visivo che metta l’osservatore nella condizio-ne di percepire, in termini squisitamente spaziali, lo stacco tra la misura umana del coro angelico e la gigantesca sovrannaturalità della Vergine e del Bambino. Lo trova nel contrasto, fittizio ma

efficace, tra la disposizione frontale-prospettica del basamento e della antistante cantoria e quella doppiamente prospettica della porzione inferiore del trono, imperniata come asse di snodo sul bracciolo alla nostra sinistra e suggerita solo attraverso un espe-diente di tipo illusivo e non geometrico, cosi da poter disinvolta-

Fig. 19. Abbazia di Montevergine, Montano d’Arezzo, Madonna in maestà, particolare della porzione superiore della tavola

Fig. 20. Abbazia di Montevergine, Cappella del Sacramento, ciborio

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mente ritornare subito sopra, in corrispondenza del busto della Vergine e del corpo del Bambino (fig. 1), al sistema dell’asse tra-sversale di coordinamento delle parallele recedenti, funzionale a riportare l’immagine al suo livello iconico.

Un’ultima notazione che vale la pena di fare a proposito del Montano prospettico è che le sue ricerche sono calate in pieno in quella che è la temperie dell’ultimo decennio del Duecento. Da quel momento in poi, nella rappresentazione di un trono, il crite-rio cimabuesco del sistema frontale, con asse centrico di coordina-mento della parallele recedenti, diventa dominante ed esclusivo, come dimostrano i casi di Pietro Cavallini, nell’affresco in Santa Maria in Aracoeli a Roma23 (fig. 21), nella tomba del cardinale Mat-teo d’Acquasparta, morto nel 1302, e qualche anno più tardi, tra il 1308 e il 1311, di Duccio, nella Maestà del Duomo di Siena24 (fig. 22), un artista dunque che in precedenza aveva sperimentato

con altrettanta convinzione il sistema frontale-prospettico. Restan-do alla realtà napoletana vale la pena di notare come anche Lello da Orvieto, nel mosaico (fig. 23) della cappella di Santa Maria del Soccorso in Santa Restituta, nel definire le forme del trono, pur mostrando apprezzamento per le soluzioni compositive utilizzate da Montano, è costretto ad adottare il criterio centralizzante, una scelta prospettica che, dopo l’arrivo in città di Cavallini nel 1308, probabilmente dovette diventare obbligata per poter restare, come si direbbe oggi, sul mercato25. Del resto sarà proprio elaborando il criterio cimabuesco e trasferendone l’applicazione alle architetture, con una parallela rivisitazione della geometria euclidea, che Giotto, nel prosieguo delle storie francescane di Assisi (fig. 24) e poi più an-cora nel ciclo della cappella degli Scrovegni, dunque entro il 1305, otterrà risultati straordinari in vista della rappresentazione illusiva dello spazio, arrivando addirittura, sia pure in termini ancora una

Fig. 22. Siena, Museo dell’Opera del Duomo, Duccio di Buoninsegna, Madonna in maestàFig. 24. Assisi, Basilica superiore di San Francesco, Giotto, Predica davanti a Onorio III

Fig. 21. Roma, Santa Ma-ria in Aracoeli, tomba del cardinale Matteo d’Acqua-sparta, Pietro Cavallini, La Vergine in maestà tra i santi Matteo e Francesco, particolare dell’affresco al fondo dell’arcosolioFig. 23. Napoli, Duomo, Santa Restituta, Cappella di Santa Maria del Prin-cipio, Lello da Orvieto, Madonna in Maestà tra i santi Gennaro e Restituta

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1 Per tutto quello che concerne le questioni attributive e cronologiche dell’opera e il quadro d’insieme della sua vicenda critica rinvio al saggio di Giuseppe Muollo, La Maestà di Montevergine di Montano d’Arezzo. Questioni e problemi sull’origine del clipeo. La fortuna critica dell’opera, in Capolavori della Terra di Mezzo. Opere d’arte dal medioevo al barocco, a cura di Antonella Cuc-ciniello, Napoli 2012, pp. 33-49.

2 La definizione del criterio di «rappresentazione frontale-prospettica» si deve a John White, Nascita e rinascita dello spazio pittorico, Milano 1971, pp. 20-21.

3 Luciano Bellosi, Cimabue, Milano 2004, pp. 274-275; Giovanna Ragionie-ri, Duccio di Buoninsegna. Madonna in Maestà col Bambino e sei angeli (Madon-na Rucellai), in Duccio. Siena fra tradizione bizantina e mondo gotico, a cura di Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, Michel Laclotte, Cinisello Balsamo 2003, pp. 152-156.

4 Per la cronologia dell’intervento di Cimabue ad Assisi mi rifaccio a Lucia-no Bellosi, “Nicolaus IV fieri precepit”. Una testimonianza di valore inestimabile sulla decorazione murale della Basilica Superiore di Assisi, in “Prospettiva”, 126-127, aprile-luglio 2007, pp. 2-14.

5 Rimando per questo a Francesco Gandolfo, Ricerche di prospettiva nel can-tiere di Assisi, in Cavallini / Giotto. Roma / Assisi. Proposte e aggiornamenti, Atti del Convegno a cura di Teresa Calvano, Quaderno ANISA 2002, pp. 43-54.

6 È questa una tra le ragioni cogenti nel fare ritenere la Madonna di Santa Trinita certamente posteriore all’intervento del pittore ad Assisi: cfr. Bello-si, Cimabue, cit., pp. 249-256.

7 Pierluigi Leone de Castris, Montano d’Arezzo a San Lorenzo, in Le chiese di San Lorenzo e San Domenico. Gli ordini mendicanti a Napoli, Atti della II Gior-nata di Studi su Napoli (Losanna, 13 dicembre 2001), a cura di Serena Romano e di Nicolas Bock, Napoli 2005, pp. 95-125.

8 Francesca Flores d’Arcais, Giotto, Milano 2001, pp. 16-20.9 Shigeru Tsuji, “Maestro d’Isacco”: il primo testimone della prospettiva, in Il can-

tiere pittorico della Basilica Superiore di San Francesco in Assisi, a cura di Giu-seppe Basile, Assisi 2001, pp. 297-301; Gandolfo, Ricerche di prospettiva, cit., pp. 50-51. La datazione delle Storie di Isacco assisiati intorno al 1290, a suo tempo indicata da Angiola Maria Romanini, Gli occhi di Isacco: classicismo e curiosità scientifica tra Arnolfo di Cambio e Giotto, in “Arte medievale”, II

volta del tutto empirici, alla precoce formulazione del concetto di punto di fuga26.

Da questo punto di vista, sembra che le conoscenze di Mon-tano su quella fase di ricerca, così come riflesse nella tavola di Montevergine, si siano fermate al momento iniziale delle storie francescane di Assisi e che, partendo da queste premesse, siano proseguite sulla scorta di una ostinata indagine, del tutto per-sonale, circa una possibile evoluzione in chiave illusiva del vec-chio sistema frontale-prospettico, tutto sommato ancora vitale sul finire degli anni Novanta, quando la situazione lascia pensare che egli si sia trasferito a Napoli. Il sigillo verginiano del 1298 che riproduce una Madonna in trono con il Bambino può an-che essere un riferimento labile per la realizzazione della tavola di Montano, data la ovvia approssimazione che sempre caratterizza le testimonianze di questo tipo27. Vale però la pena di osservare che nessuno dei documenti che, tra il 1303 e il 1315, citano Mon-tano, in relazione alla sua attività di pittore, permette di collocare con certezza nel tempo da essi indicato la realizzazione di una sua opera ancora esistente, dunque giudicabile nella concretezza della sostanza stilistica e delle scelte formali fatte in quel momento28. Neppure la perduta decorazione della cappella di San Marciano (fig. 16) in Duomo a Napoli può essere assunta come termine di riferimento cronologico, perché la identificazione con Giacomo da Viterbo, in carica dal 1303 al 1308, della figuretta di arcivesco-vo in vesti di committente, rappresentata in basso, alla sinistra del trono, non ha ragioni concrete di fondamento, tenuto conto che la realtà architettonica della cappella era totalmente sganciata da quella della cattedrale i cui lavori di costruzione, avviati nel 1294, avrebbero reso certamente inverosimile una decorazione ad affre-

sco in quel momento, impedimento che invece non sussisteva per quel vano che poteva benissimo essere preesistente29.

D’altro canto su un altro punto occorre essere ben chiari: ag-ganciare come si è fatto anche di recente l’esecuzione della tavo-la della Maestà al documento del 1310, relativo alle concessioni fatte a Montano da Filippo di Taranto per i lavori da lui svolti, tra l’altro, nella sua cappella di Montevergine, significa fare del pittore un nostalgico incompetente, che si affatica intorno a una realtà prospettica superata che lo pone in ritardo di più di dieci anni rispetto al suo tempo, ma soprattutto significa estendere tale patente di incompetenza anche alla sua soddisfatta committen-za30. Di conseguenza sulla base delle considerazioni che ho svolto in precedenza ritengo che sia ragionevole pensare di collocare la ricerca prospettica svolta dal pittore, con tanto impegno, ma an-che con tanta empirica approssimazione, in un momento in cui essa aveva ancora un senso di modernità, dunque almeno dieci anni prima rispetto a quella data se non di più, lungo un percorso che vede eseguiti, in stretta sequenza l’uno dopo l’altro, prima la tavola di San Lorenzo Maggiore, poi l’affresco della cappella di San Marciano e infine la Maestà di Montevergine. Capisco perfettamente che tale proposta può suscitare l’accusa di bieco evoluzionismo. In proposito però mi limito a osservare che la ri-costruzione storica di un percorso di ricerca in campo prospettico svolto da un singolo artista, per essere attendibile, pretende di trovare fatti e testimonianze che si muovano nella direzione di una continuità o di un rinnovamento nei confronti dei presup-posti di partenza, che è appunto il fenomeno indicato da quei tre dipinti, se messi in sequenza all’interno di quel preciso spazio cronologico, altrimenti il lavoro svolto dal pittore perde di senso.

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Serie, 1, 1987, pp. 1-43, in particolare pp. 33-34, mi sembra in linea con i termini della ricerca prospettica che vi viene svolta, in immediata elabora-zione delle novità sviluppate da Cimabue nell’abside della basilica.

10 Alessandro Tomei, Pietro Cavallini, Cinisello Balsamo 2000, pp. 23-51.11 Alessandro Tomei, Iacobus Torriti Pictor. Una vicenda figurativa del tardo Due-

cento romano, Roma 1990, pp. 99-125.12 Serena Romano, Giovanni di Cosma, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelal-

ters in Rom und Italien, Akten des Kongresses “Scultura e monumento sepol-crale del tardo medioevo a Roma e in Italia”, (Roma, 4-6 luglio 1985), a cura di Jörg Garms e Angiola Maria Romanini, Wien 1990, pp. 159-171.

13 Tomei, Pietro Cavallini, cit., pp. 142-143 suggerisce per il mosaichetto una at-tribuzione cavalliniana in corrispondenza con la fase iniziale della carriera del pittore, ipotesi che mi sembra contraddetta dalle ragioni prospettiche che fanno apparire più ragionevole una sua collocazione nella seconda metà degli anni novanta, il che rende meno verosimile il riferimento al pittore; migliori argomenti dalla sua ha l’attribuzione al Rusuti proposta da Luciano Bellosi, La pecora di Giotto, Torino 1985, pp. 117-118, in stretta relazione con l’inter-vento alla facciata di Santa Maria Maggiore da lui collocato nel 1297, una data che calza perfettamente con le ragioni prospettiche espresse dal trono della Madonna. Il confronto della Maestà di Montevergine con il mosaichetto dell’abside di San Crisogono è stato proposto da Ferdinando Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli. 1266-1414 e un riesame dell’arte nell’età fridericiana, Roma 1969, pp. 104-105 con lo scopo di dimostrare che nella tavola il trono è stato ridipinto in un secondo momento, ipotesi che le indagini condotte in occasione del recente restauro hanno definitivamente escluso, insieme a quel-la di una anteriorità del clipeo con la testa della Vergine rispetto al resto del dipinto: cfr. Muollo, La Maestà di Montevergine, cit., pp. 46-48. Patrizia Polonio Balbi, Maria SS. di Montevergine. Cronoprogramma e descrizione delle operazioni di restauro, in “Il Santuario di Montevergine”, 1, gennaio febbraio 2013, pp. 20-22 sottolinea che: “il dipinto non ha una preparazione su tutta la superficie lignea, in pratica… l’intera superficie dipinta presenta la stesura dello strato pittorico direttamente a contatto con quello ligneo”, una situazione che esclu-de radicalmente qualunque ipotesi di ridipintura.

14 Vinni Lucherini, Un nuovo affresco di Montano d’Arezzo nella cattedrale di Na-poli e la committenza dell’arcivescovo Giacomo da Viterbo (1303-1308), in “Arte medievale”, N.S., 6, 2007, 1, pp. 105-124.

15 Flores d’Arcais, Giotto, cit., p. 59.16 Francesco Gandolfo, Giuseppe Muollo, Arte medievale in Irpinia, Roma

2013, pp. 204-209.17 Gandolfo, Muollo, Arte medievale, cit., pp. 257-266.18 Il primo a sfruttare la sigla in vista di una peraltro stilisticamente invero-

simile attribuzione cavalliniana è stato Giovanni Mongelli O.S.B., L’autore dell’immagine della «Madonna di Montevergine» alla luce della critica storica, in Il contributo dell’archidiocesi di Capua alla vita religiosa e culturale del Meridione, Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici promosso dalla Società di Storia Patria di Terra di Lavoro (26-31 ottobre 1966), Roma 1967, pp. 439-490, in particolare pp. 479-480.

19 Adriano Cappelli, Lexicon abbreviaturarum. Dizionario di abbreviature latine e italiane, Milano 1973, p. 48.

20 Charles du Fresne, sieur du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, tomus secundus, Niort 1883, col. 105a.

21 La stesura sul legno grezzo della intelaiatura preparatoria alla collocazio-ne dei metalli, emersa anch’essa in occasione del recente restauro, rende improbabile l’ipotesi formulata da Ferdinando Bologna, Le tavole più an-tiche e un ex voto del XV secolo, in Insediamenti verginiani in Irpinia. Il Goleto Montevergine Loreto, a cura di Vincenzo Pacelli, Cava dei Tirreni 1988, pp.

117-143, in particolare p. 129, e recentemente ripresa da Francesco Aceto, Nuove considerazioni intorno a Montano d’Arezzo, pittore della corte angioina, in Medioevo: le officine, Atti del Convegno internazionale di studi (Parma, 22-27 settembre 2009) a cura di Arturo Carlo Quintavalle, Parma - Milano 2010, pp. 517-528, in particolare pp. 521-522, di una inserzione dei metalli negli anni quaranta del Trecento.

22 Giuseppe Muollo, La Maestà di Montevergine. Trasferimento e restauro, in “Il Santuario di Montevergine”, 1, gennaio-febbraio 2013, pp. 16-19, in parti-colare p. 17.

23 Tomei, Pietro Cavallini, cit., pp. 106-113.24 Giovanna Ragionieri, Duccio di Buoninsegna. Maestà, in Duccio, cit., pp. 212-

222.25 Queste considerazioni acquistano ulteriore significato a fronte della pro-

posta di Lucherini, Un nuovo affresco di Montano d’Arezzo, cit., p. 116, ulte-riormente argomentata in Vinni Lucherini, 1313-1320: il cosiddetto Lello da Orvieto, mosaicista e pittore, a Napoli, tra committenza episcopale e committenza canonicale, in El Trecento en obres. Art de Catalunya i art d’Europa al segle XIV, Barcelona 2009, pp. 185-215, di anticipare la realizzazione del mo-saico di Santa Restituta al 1313 rispetto al 1322 a suo tempo proposto da Bologna, I pittori, cit., pp. 129-131.

26 Francesco Gandolfo, Franco Ghione, Giotto e il punto di fuga, in Giotto e il Trecento. “Il più Sovrano Maestro stato in dipintura”, catalogo a cura di Ales-sandro Tomei, Milano-Roma 2009, pp. 365-377.

27 Risale a Mongelli, L’autore dell’immagine, cit., pp. 485-486 la individuazione del sigillo come possibile ante quem per la esecuzione della tavola. L’indi-cazione è stata ripresa da Placido Mario Tropeano, Montevergine nella storia e nell’arte. 1266-1381, Montevergine 1978, pp. 177-178 e da Pierluigi Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli Angioina, Firenze 1986, pp. 196-197 ed è stata accolta anche da Bologna, Le tavole più antiche, cit., p. 129, sia pure conservando l’idea di una posteriore ridipintura del trono.

28 Mi riferisco con questa osservazione al tentativo di Aceto, Nuove conside-razioni, cit., pp. 525-526 di collocare l’esecuzione della tavola intorno al 1309-1310 quando, almeno prospetticamente, sarebbe da giudicare come l’esito di un ritardatario, tanto più nella logica dell’ipotesi, formulata dal-lo stesso autore, di un trasferimento a Napoli del pittore solo intorno al 1305, dunque con una permanenza in Toscana che gli avrebbe consentito di acquisire le molte e rivoluzionarie novità prospettiche emerse in ambito centro-italiano fino a quel momento.

29 Mi riferisco con questo alle conclusioni, in termini di cronologia, relative al perduto affresco di Montano tratte da Lucherini, Un nuovo affresco di Montano d’Arezzo, cit., pp. 117-119, ancora una volta in netto contrasto con la realtà cul-turale e storica dettata dalle scelte che ne governano la costruzione prospettica.

30 La messa in rapporto della Maestà con il documento è fatto antico in quanto risale a Giovanni Antonio Summonte, Dell’Historia della citta, e Regno di Na-poli, Napoli 1675 (II ed.), tomo secondo, pp. 375-376, anche se il testo non fa menzione della tavola in quanto recita: “…Philippus…princeps Achaie et Taren-ti…gratisque servitiis que magister Montanus de Aretio pictor et familiaris noster nobis exhibuit et exhibere non cessat maxime in pingendo cappellam nostram in domo nostra Neapolis quam in ecclesia Beate Marie de Monte Virginis, ubi specialem devotionem habemus…”, si limita dunque a ricordare, in termini generici, i lavori realizzati dal pittore nelle cappelle che Filippo di Taranto aveva nel palazzo di Napoli e nella abbazia di Montevergine per cui, in assenza di ulteriori informazioni, l’estensione della notizia anche alla tavola è del tutto arbitraria, specie in relazione con le sue ragioni formali. Il documento è edito in Abbazia di Mon-tevergine. Regesto delle pergamene, a cura di Giovanni Mongelli, vol. IV, Roma 1958, pp. 438-440.