Parte I. L'attuale quadro normativo e i problemi emersi

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Indice sommario: Parte I. L'attuale quadro normativo e i problemi emersi. Capitolo I. La “specialità” del sistema delle invalidità nel diritto societario. 1.1. La categoria generale dell'invalidità negoziale nelle sue declinazioni. 1.2. Invalidità ed inesistenza. 1.3. La nullità del contratto. 1.4. L'annullabilità del contratto. 1.5. L'attuale disciplina dell'invalidità delle deliberazioni assembleari. 1.5.1. L'annullabilità nel nuovo art. 2377 c.c. 1.5.2. La nuova disciplina della nullità delle deliberazioni. 1.5.3. Considerazioni sull'attualità del dualismo nullità- annullabilità. 1.6. Definizione ed analisi del concetto di “deliberazione”. 1.6.1. La fattispecie “deliberazione assembleare”. 1.6.2. I requisiti minimi di esistenza della fattispecie “deliberazione assembleare”. 1.7. La questione dell'imputabilità della deliberazione assembleare alla società. 1.7.1. La delibera come atto procedimentale. 1.7.2. La c.d. “delibera apparente”. 1.8. Il nuovo profilarsi della “deliberazione inesistente”. 1

Transcript of Parte I. L'attuale quadro normativo e i problemi emersi

Indice sommario:

Parte I. L'attuale quadro normativo e i problemi emersi.

Capitolo I. La “specialità” del sistema delle invalidità nel diritto societario.

1.1. La categoria generale dell'invalidità negoziale nelle sue

declinazioni.

1.2. Invalidità ed inesistenza.

1.3. La nullità del contratto.

1.4. L'annullabilità del contratto.

1.5. L'attuale disciplina dell'invalidità delle deliberazioni assembleari.

1.5.1. L'annullabilità nel nuovo art. 2377 c.c.

1.5.2. La nuova disciplina della nullità delle deliberazioni.

1.5.3. Considerazioni sull'attualità del dualismo nullità-

annullabilità.

1.6. Definizione ed analisi del concetto di “deliberazione”.

1.6.1. La fattispecie “deliberazione assembleare”.

1.6.2. I requisiti minimi di esistenza della fattispecie

“deliberazione assembleare”.

1.7. La questione dell'imputabilità della deliberazione assembleare alla

società.

1.7.1. La delibera come atto procedimentale.

1.7.2. La c.d. “delibera apparente”.

1.8. Il nuovo profilarsi della “deliberazione inesistente”.

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Capitolo II. Le problematiche centrali della disciplina.

2.1. Il problema di una tutela effettiva per la minoranza assembleare.

2.2. La concreta tutela dei soci di minoranza: l'efficacia della tutela

“reale”.

2.2.1. La tutela reale nell'art. 2379 c.c.

2.2.1.1. La “sanatoria” delle deliberazioni nulle: tra crisi del

diritto societario inderogabile ed incertezza della disciplina.

2.2.1.2. Inaccettabilità del consolidarsi di una disciplina

pattizia derogante “norme inderogabili”.

2.2.2. La tutela reale nell'art. 2377 c.c.

2.2.3. Gli effetti del giudicato.

2.3. La concreta tutela dei soci di minoranza: l'efficacia della tutela

“obbligatoria”.

2.4. Eventuali profili di incostituzionalità della normativa riformata.

Capitolo III. Il fondamento della disciplina riformata.

3.1. La ratio della Riforma.

3.2. Ricognizione dei principi ispiratori.

3.3. Considerazioni di “analisi economica del diritto” in particolare.

3.4. Dubbi circa la concreta “convenienza” della disciplina post

riforma.

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Parte II. La tutela delle minoranze assembleari.

Capitolo IV. Il ricorso ai principi generali dell'ordinamento.

4.1. La tutela delle minoranze assembleari.

4.2. Classificazione delle delibere invalide in base agli aspetti

caratterizzanti del vizio che le inficia. I concetti di “interesse comune

dei soci” ed “interesse individuale”.

4.3. Le diverse tipologie di deliberazioni viziate.

Capitolo V. Le possibilità di tutela.

5.1. Notazione sistematica.

5.2. I limiti al potere della maggioranza: i “diritti dei soci”.

5.2.1. La società nella veste di “arbitratore”: l'art. 1349 c.c. Il

principio di “buona fede”.

5.2.2. Il sindacato del giudice.

5.2.3. Nullità per “vizio di causa”.

5.3. “Decisioni-fatto” e “decisioni-regola”. L'art. 1339 c.c.

5.4. Efficacia non sanante della c.d. “sanatoria delle deliberazioni

nulle”: l'art. 1442, ult. co., c.c.

Bibliografia

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Parte I

L'attuale quadro normativo e i problemi emersi.

Capitolo I. La specialità del sistema delle invalidità nel diritto societario.

Sommario: 1.1. La categoria generale dell'invalidità negoziale nelle sue

declinazioni. – 1.2. Invalidità ed inesistenza. - 1.3. La nullità del contratto. - 1.4.

L'annullabilità del contratto. - 1.5. L'attuale disciplina dell'invalidità delle

deliberazioni assembleari. - 1.5.1. L'annullabilità nel nuovo art. 2377 c.c. - 1.5.2.

La nuova disciplina della nullità delle deliberazioni. - 1.5.3. Considerazioni

sull'attualità del dualismo nullità-annullabilità. - 1.6. Definizione ed analisi del

concetto di “deliberazione” - 1.6.1. La fattispecie “deliberazione assembleare”. -

1.6.2. I requisiti minimi di esistenza della fattispecie “deliberazione assembleare”.

- 1.7. La questione dell'imputabilità della deliberazione assembleare alla società. -

1.7.1. La delibera come atto procedimentale. - 1.7.2. La c.d. “delibera apparente”.

- 1.8. Il nuovo profilarsi della “deliberazione inesistente”.

1.1. L'invalidità è una figura che occupa una posizione centrale nella teoria dei

rimedi contrattuali; tuttavia essa non può considerarsi una vera e propria categoria

legislativa, tanto che il Legislatore non la definisce compiutamente; sarebbe

meglio qualificarla come una categoria dottrinale, utilizzata, tanto in dottrina

quanto in giurisprudenza, per inquadrare entro un perimetro unitario i due rimedi

della nullità ed annullabilità.1

L'invalidità dunque si ricollega da vicino alla “teoria del negozio giuridico”: è una

(1) V. Roppo, Il Contratto, Milano, 2011, p. 687.

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figura che si riferisce a fattispecie riconoscibili sì come negozi giuridici, ma che

presentano un difetto in relazione ad un loro requisito costitutivo.

Secondo la distinzione più tradizionale e basata sulla gradazione della gravità del

vizio che inficia il negozio, se tale requisito è completamente mancante,

l'invalidità si presenta nella sua forma più grave, ossia quella della nullità,

viceversa ove tale requisito risulti essere presente anche se minorato, l'invalidità si

presenta sotto forma più lieve di annullabilità.

Scendendo più nel dettaglio dei due rimedi rientranti nella categoria

dell'invalidità, è subito da rilevare come la dottrina, sebbene concordi

generalmente con quest'ultima tradizionale distinzione, non sia giunta a

conclusioni univoche nel definire in particolare la figura della nullità.

L'opinione più risalente affermava che le fattispecie di nullità del negozio fossero

da riconoscere nei casi di violazione delle norme imperative dell'ordinamento; si è

peraltro notato che non sempre ciò risulta essere vero: talvolta, soprattutto con

riguardo alle leggi amministrative e soprattutto fiscali, sebbene raramente per le

leggi civili, la violazione dà luogo soltanto ad una sanzione pecuniaria; talaltra la

sanzione della nullità può non esservi anche in ipotesi di violazione di una norma

imperativa, nel caso in cui comunque siano stati integralmente tutelati gli interessi

che il legislatore ha voluto tutelare; ancora, può accadere che una simile

violazione porti alla sola possibilità di impugnare il negozio per farne pronunciare

l'annullamento2.

La suddetta definizione delle due figure di invalidità, basata sulla gradazione della

gravità del vizio, è stata inoltre oggetto di approfondita critica da parte di illustre

(2) A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime, Milano,1937, p. 100 ss.

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dottrina3.

Le inesattezze rilevate nella distinzione proposta tra le figure di nullità ed

annullabilità risiedono innanzitutto nella poca precisione della terminologia

adoperata: viene infatti rilevato come di fronte ad un caso concreto in cui

l'interprete debba domandarsi se un negozio sia o meno valido, egli dovrà

procedere necessariamente alla disamina dei singoli “elementi costitutivi” del

negozio stesso, al fine di valutare se questi siano tutti presenti e perfetti, oppure al

contrario se alcuni di essi risultino essere mancanti o viziati, per dedurne la

validità o l'invalidità; ma è proprio a questo punto che tale interprete non potrà

fare a meno di notare che i due termini “mancanza” e “vizio” sono privi di un

significato e di un senso preciso ed univoco in ambito giuridico.

Talvolta si è voluto riempire di significato questi termini, definendo più

precisamente la mancanza come “un vizio sufficientemente grave da giustificare

la nullità del negozio”: ma una tale definizione è evidentemente tautologica.4

Non potendo trovare una definizione giuridica di “mancanza” e di “vizio”,

l'interprete verrà a trovarsi, nella sua attività di analisi della fattispecie, in un

vicolo cieco, nella sostanziale impossibilità di individuare una linea di

demarcazione tra le due figure.

In assenza di una precisazione terminologica, non si può che concludere che la

tradizionale distinzione tra nullità ed annullabilità non ha un significato

determinato né utile nell'interpretazione: tale definizione manca di senso5, in

quanto i termini che vi compaiono non sono stati compiutamente definiti.

(3) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, Milano,1958. p. 30 ss.

(4) M. Vaselli, Deliberazioni nulle e annullabili delle società per azioni, Padova, 1947, p. 30;P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., pp. 31 e 32.

(5) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 32.

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In realtà l'errore insito in tale distinzione si trova alla base della stessa, nel

presupposto che essa debba fondarsi appunto su di un criterio quantitativo, che

consideri la sanzione di nullità più grave e quella di annullabilità meno grave.

Pare più preciso invece fondare una tale distinzione su di un criterio diverso:

l'applicazione dell'una o dell'altra verrà dunque rapportata alla “qualità” degli

interessi violati e alle “modalità” della violazione, non invece alla diversa gravità

dei vizi che la provocano, che come si è visto non può essere determinata in via

interpretativa.6

1.2. Occorre poi dar conto da subito della linea di demarcazione che segna la

differenza tra le figure riconducibili alla categoria della invalidità, in particolare

alla nullità, e quella categoria, essa sì di origine completamente dottrinale e

giurisprudenziale non trovando alcun aggancio nei testi normativi, che è

l'inesistenza.

L'inesistenza è una figura che trova la sua origine nella dottrina francese; si fa

risalire storicamente la sua nascita all'esigenza di trovare una via per far si che il

matrimonio tra persone dello stesso sesso non potesse produrre alcun tipo di

effetto.

Si ritiene tradizionalmente che l'atto inesistente si differenzi da quello nullo per il

fatto che esso manchi della stessa giuridicità; non integra neppure gli elementi

minimi per essere riconosciuto come figura negoziale7: l'atto inesistente è

caratterizzato dalla mancanza di un requisito cosi essenziale per la sua stessa

(6) A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime, cit., p.100 ss.; sulla distinzione tra le figure di nullità ed annullabilità basata sul dato “qualitativo”, A.Masi-R. Tommasini, voce Nullità, in Enc. Dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, p. 875 ss.

(7) M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni e delle decisioni dei soci nel nuovo diritto societario, in Riv. Soc., 2004, p. 768 ss.

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esistenza da non potersi neppure considerare “negozio nullo”, essendo invece esso

“fuori dal diritto”, non esistente appunto.

Si comprende dunque come la nullità possa essere distinta dalla inesistenza: la

prima, pur comportando la (quasi) totale improduttività di effetti per l'atto viziato,

resta una figura interna al diritto, mentre la seconda è qualcosa di diverso, in

quanto mancando di giuridicità, oltre a non produrre effetti di sorta, non viene

nemmeno presa in alcun modo in considerazione né disciplinata, neppure in

termini esclusivamente negativi, dal diritto8.

La distinzione tra queste due figure diviene però via via più sottile ed evanescente

con l'estensione, per via interpretativa, della figura dell'inesistenza ad un sempre

maggior numero di difetti dei negozi giuridici, vertenti su elementi ritenuti così

fondamentali da far pensare che, in presenza di taluno di questi, un negozio

giuridico non possa neppure considerarsi tale: si fa riferimento all'ipotesi del

cosiddetto “difetto assoluto di elementi costitutivi”, compreso tra questi il difetto

di forma.

Ad una tale attività interpretativa (e spesso creativa) si assiste specialmente nei

settori in cui il Legislatore ha configurato in termini molto rigidi e rigorosi le

ipotesi tassative di nullità per determinate categorie di atti: è proprio in queste

circostanze che talvolta l'interprete tenta di estendere la categoria dell'inesistenza

per coprire gli spazi che il Legislatore ha lasciato scoperti limitando l'applicazione

(8) In questo senso V. Roppo, Il Contratto, cit., p.709-713 e A. Torrente-P. Schlesinger,Manuale di diritto privato, Milano 2009, p. 601-603; M. Cian, Invalidità e inesistenza delledeliberazioni e delle decisioni dei soci nel nuovo diritto societario, cit., p. 769.Da notare in proposito come risalente Dottrina si sia dichiarata contraria alla distinzione dellefigure di inesistenza e nullità, ritenendo l'inesistenza un tertium genus, non necessario, rispetto alledue figure di invalidità; in tal senso M. Vaselli, Deliberazioni nulle e annullabili delle società perazioni, cit., p. 29 e 30; una approfondita critica e disamina di tale distinzione è stata effettuata daA. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime, cit., p. 93 ss., ilquale conclude che una tale distinzione porti scarsi benefici, essendo essenzialmenteterminologica.

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dell'istituto della nullità, al fine di tutelare interessi ritenuti meritevoli di forte

tutela, nonostante la lettera della legge.9

La problematica distinzione del negozio nullo da quello inesistente può essere

analizzata sul piano teorico e su quello pratico.

Nella sua dimensione pratica la figura dell'inesistenza è stata (e continua ad

essere, almeno in parte) utilizzata principalmente a due scopi: innanzitutto, essa

consente di tracciare un limite oltre al quale non possono prodursi neppure i

limitati effetti che la legge ricollega al contratto nullo, quali ad esempio la

possibilità di convalida (art. 1423 c.c.), o di “recuperare” il contratto di lavoro

nullo, ai sensi dell'art. 2126 c.c.; ma soprattutto come già sottolineato, tale

categoria viene usata tutt'ora dalla giurisprudenza, ancorché in misura inferiore

rispetto al passato, come strumento attraverso il quale assicurare una tutela

analoga ed anche superiore a quella offerta dalla sanzione della nullità, in

fattispecie per le quali legislativamente la nullità viene esclusa.

Quanto descritto accade specialmente ove la previsione di figure tipiche di nullità

consentirebbe ad atti viziati di produrre effetti ritenuti inaccettabili alla luce della

tradizione giurisprudenziale, in quanto lesivi di diritti storicamente considerati

meritevoli di una più intensa tutela giuridica.10

In questa sua seconda funzione la figura dell'inesistenza è stata conseguentemente

strumento per la creazione vera e propria di tutta una serie di ipotesi, ulteriori

rispetto a quelle tassative di nullità previste dal legislatore, in cui il negozio

giuridico non poteva essere produttivo di alcun effetto, in quanto, a detta della

giurisprudenza, era da considerare inesistente, un “non-negozio” estraneo

(9) A. Masi-R. Tommasini, voce Nullità, cit., p. 871 ss.(10) V. Roppo, Il Contratto, cit., pp.709 ss. e 802 ss.

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all'ambito di competenza del diritto.11

La materia più nota ove si è sviluppata una tale attività di interpretazione

giurisprudenziale creativa per mezzo dell'estensione della figura della giuridica

inesistenza, è proprio quella dell'invalidità delle deliberazioni assembleari: dove il

Legislatore aveva in origine previsto solo due ipotesi tassative di nullità, i giudici

sono intervenuti per evitare il consolidarsi, entro il breve termine trimestrale

previsto per l'impugnazione, di delibere in se non nulle, ma affette da vizi

considerati comunque troppo gravi per consentire una simile inattaccabilità

decorso un così breve tempo. Si sono dunque create per questa via tutta una serie

di figure di inesistenza, allo scopo tutelare diritti ritenuti non sacrificabili.

Come si è detto, il problema che si colloca a monte delle difficoltà incontrate nella

distinzione del negozio nullo da quello inesistente, resta in ultima istanza quello

della mancanza di un criterio che consenta di distinguere gli elementi del negozio

da considerarsi essenziali, da quelli da considerarsi invece inessenziali12.

1.3. Si inizierà ora ad analizzare le due forme di invalidità proprie del diritto

civile, iniziando dalla nullità, per poter successivamente cogliere al meglio le

peculiarità che caratterizzano quelle che dovrebbero essere le analoghe figure

nell'ambito del diritto societario.

Il negozio nullo è caratterizzato dalla sua assoluta inidoneità a produrre alcuno

degli effetti tipici per il quale era stato posto in essere13. Pur essendo previste varie

ipotesi di nullità di un atto nel codice civile, non è data però in via generale una

(11) A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime, cit., p. 93 ss.

(12) M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni e delle decisioni dei soci nel nuovodiritto societario, cit., p. 769 ss.

(13) A. Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., p. 604.

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descrizione delle conseguenze che tale qualifica comporta.

Si può ad ogni modo dire che, tralasciando per ora la controversa figura (non

legislativa) dell'inesistenza, la nullità sia all'atto pratico la più grave delle sanzioni

che possa colpire un negozio, essendo che comporta l'eliminazione

tendenzialmente completa dei suoi effetti.

Punto di partenza di detta analisi non può che essere l'art. 1418 c.c., articolo che

enumera le “cause di nullità del contratto”. Le ipotesi di nullità previste dal

Legislatore sono così varie e diversificate da rendere pressoché impossibile dare

una definizione generale di nullità; si opta dunque per una impostazione

relativistica, prendendo atto che la legge ricollega la nullità ad ipotesi

notevolmente diverse14.

Si è soliti distinguere un triplice ordine di cause di nullità, che sono ricondotte ai

tre commi dell'art. 1418 c.c.: vengono di norma citate per prime le cosiddette

“nullità testuali”, ricondotte al terzo ed ultimo comma, in quanto figure facilmente

individuabili e che comportano uno sforzo interpretativo pressoché nullo, in

quanto ai sensi della norma, il contratto è nullo “negli altri casi stabiliti dalla

legge”: si tratta dunque di tutta una serie di ipotesi in cui è la legge stessa a

descrivere le fattispecie disapprovate dall'ordinamento e che per questo vengono

colpite dalla sanzione di nullità (testuale); va peraltro notato15 che i casi rientranti

in questa prima categoria acquistano un reale valore ai fini dell'applicazione della

sanzione, solo nelle ipotesi in cui la sanzione nullità non sarebbe stata applicabile

con certezza ai sensi dei due commi precedenti: in questi casi l'espressa previsione

della sanzione consente di pervenire ad una qualificazione della fattispecie che

altrimenti sarebbe stata quantomeno incerta.

(14) V. Roppo, Il Contratto, cit., p.693 ss.(15) V. Roppo, Il Contratto, cit., p.693 ss.

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Si badi da ultimo che il Legislatore ha voluto talvolta prevedere esplicitamente la

sanzione di nullità per la violazione di una norma, al fine di introdurre una

disciplina della nullità diversificata rispetto a quella comune (ad esempio per i

casi di “nullità relativa”).

La seconda categoria è quella delle c.d. “nullità strutturali”: si tratta dei casi

indicati dal secondo comma, che si caratterizzano per la mancanza o minorazione

di uno degli elementi che costituiscono la struttura del contratto; tali vizi

comportano un difetto dell'atto di una gravità tale da non consentirgli di

dispiegare i suoi effetti: talvolta infatti questo diviene, a cagione di uno di questi

vizi, irrealizzabile od impossibile, talaltra addirittura assurdo.

Il primo comma dell'art. 1418 c.c. infine descrive la categoria di nullità che da

luogo ai maggiori sforzi interpretativi, ossia quella delle ipotesi di “nullità

virtuale”. Tale denominazione è dovuta essenzialmente al fatto che la legge in

quest'ultimo caso non descrive precisamente i negozi disapprovati e sanzionati

con la nullità, ma lascia all'interprete il compito di valutare quando gli stessi siano

o meno contrari a “norme imperative”: tale giudizio passa dunque attraverso la

determinazione della natura della norma violata, ossia per la valutazione della sua

derogabilità o inderogabilità.

Va notato che le fattispecie previste nel comma terzo possono coincidere con

quelle del comma primo: ciò accade ogni volta che si ha una violazione di una

norma imperativa e al tempo stesso tale norma preveda espressamente la

sanzione di nullità in caso di violazione.

Si osserva infine come la norma preveda una “riserva” di esclusione della nullità

per legge (“salvo che la legge disponga diversamente.”).

Si deve ora dar sommariamente conto dei tratti generali che caratterizzano l'azione

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volta a far dichiarare la nullità del contratto.

Tralasciando le particolari ipotesi di “nullità relative”, carattere fondamentale di

questa azione è la legittimazione attiva più ampia possibile: infatti ai sensi dell'art.

1421 c.c., “la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può

essere rilevata d'ufficio dal giudice”, salvo che la legge non disponga

diversamente. Ciò si ricollega al fatto che la nullità è sanzione di norma volta a

tutelare un “interesse generale” e quindi pare giusto far si che anche la

legittimazione a richiedere la tutela del medesimo interesse sia generale16.

Altro carattere fondamentale dell'azione di nullità è la sua imprescrittibilità (fermi

restando i limiti costituiti dagli effetti dell'usucapione e dalla prescrizione

decennale delle azioni restitutorie), ai sensi dell'art. 1422 c.c.: la ratio che

giustifica questa deroga alla generale regola della prescrittibilità dei diritti è

analoga a quella medesima che ha determinato la previsione di una legittimazione

attiva notevolmente allargata, ossia il carattere della “generalità” dell'interesse

tutelato17.

Va infine ricordato che, ai sensi dell'art. 1423 c.c., il contratto nullo non può

essere oggetto di convalida, sempre che la legge non preveda diversamente: ci si

riferisce a questa norma parlando della generale “insanabilità del contratto nullo”,

salvo le espresse eccezioni previste dalla legge. Anche in questa circostanza

occorre richiamare il c.d. “interesse generale” tutelato con questa sanzione, che

impone di non rimettere alla disponibilità delle parti la scelta di un recupero del

(16) A. Masi-R. Tommasini, voce Nullità, cit., p. 888 ss.(17) Si noti fin da ora come in materia di invalidità delle deliberazioni assembleari, dopo la

Riforma del 2003, la figura della nullità non può più essere individuata in relazione al carattere“generale” degli interessi per i quali è posta a presidio. In tale materia, questa forma di invaliditàha perso larghissima parte dei caratteri sui quali si fondava tale affermazione. In questo senso P.Schelesinger, Appunti in tema di invalidità delle deliberazioni assembleari delle società azionariedopo la riforma del 2003, in Riv. Dir. Civ., 2011, p. 605 ss.

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contratto invalido.

Concludendo questi brevi cenni sulla nullità negoziale, occorre ricordare

l'automaticità che caratterizza questa sanzione18: la sentenza del giudice non sarà

altro che dichiarativa, limitandosi a riconoscere la nullità del negozio che già era

tale prima ed a prescindere dalla sentenza (ciò trova peraltro conferma all'articolo

1422 c.c., ove si parla di azione volta “a far dichiarare” la nullità, non quindi a

provocarla).

Conseguenza dell'operatività automatica della sanzione è poi la sua retroattività19:

essendo che la nullità opera in automatico sin dalla nascita del negozio, questo

non potrà produrre alcun effetto fin dall'inizio, neppure verso i terzi in buona fede.

In chiusura va detto che il contratto nullo non può dirsi senz'altro improduttivo di

ogni effetto, in quanto talvolta ne produce alcuni, ed è proprio sotto questo aspetto

che si può apprezzare la differenza tra la figura della nullità (produttiva di effetti

limitatissimi) e quella dell'inesistenza (improduttiva di ogni effetto, comportando

appunto la non-esistenza del negozio)20.

Come si vedrà nel prosieguo, soprattutto a seguito della Riforma del diritto

societario intervenuta nel 2003, notevolissime sono le differenze tra la figura

definita “nullità” dall'art. 2379 c.c. e la tradizionale figura della nullità

contrattuale appena descritta. Tali diversità attengono tanto gli effetti che la

sanzione comporta, quanto (ed in misura ancora maggiore) ai modi per farla

valere in giudizio.

La divaricazione tra i due istituti è divenuta talmente ampia, da far persino

dubitare che si tratti effettivamente della stessa figura21.

(18) V. Roppo, Il Contratto, cit., p. 817 ss.(19) A. Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., pp. 612 e 613.(20) V. Roppo, Il Contratto, cit., p. 821 ss.(21) Si veda infra § 1.5.3.

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1.4. Come già si è detto, l'annullabilità costituisce, secondo la tesi tradizionale, la

sanzione che si ricollega alle anomalie o minorazioni di inferiore gravità, rispetto

a quelle che cagionano la nullità, che possono affliggere il negozio giuridico22; in

particolare l'annullamento riguarda quegli atti dei quali l'invalidità non impedisce

comunque l'efficacia.

Questa minore gravità dei difetti qui considerati è sostanzialmente dovuta al fatto

che essi consistono normalmente in violazioni di norme non poste a tutela

dell'interesse generale, come nell'ipotesi della più grave nullità, ma a poste

salvaguardia degli interessi di uno dei soggetti coinvolti nella fattispecie

negoziale. Le ipotesi generali tipiche di annullabilità sono dunque l'incapacità

legale o naturale del soggetto (art. 1425 c.c.) ed i vizi della volontà (art. 1427

c.c.), mentre altre ipotesi tassative sono previste da altri articoli “sparsi” nel

codice23.

Non esiste, a differenza che per la nullità, un'ipotesi generale di annullabilità

“virtuale”; tale sanzione è legislativamente prevista solo in casi tassativi24.

Sempre stando alla tesi tradizionale, la minore gravità del vizio comporta anche

una minore gravità della sanzione: e così il contratto annullabile, a differenza di

quello nullo, produce sin dall'inizio tutti gli effetti per il quale era stato posto in

essere dalle parti25, anche se questi effetti possono essere elisi (retroattivamente)

nel caso in cui sia proposta ed accolta la domanda giudiziale di annullamento, nel

(22) Va peraltro notato come talvolta il Legislatore, in casi specifici, preferisca parlare di“impugnabilità” piuttosto che di nullità (a titolo esemplificativo, si veda tra gli altri l'art. 2377c.c.); si ritiene tuttavia che con tale terminologia non si intenda nulla di diverso rispetto ad“annullabilità”. In argomento, si veda F. Messineo-E. Cannada-Bartoli, voce Annullabilità eAnnullamento, in Enc. Dir., vol. II, Milano, 1958, p. 469.

(23) F. Messineo-E. Cannada-Bartoli, voce Annullabilità e Annullamento, cit., p. 470 ss.(24) V. Roppo, Il Contratto, cit., p. 713.(25) Questa è quella che si suol definire “efficacia interinale” o “efficacia provvisoria” del

contratto annullabile; v. A. Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., p. 614.; F.Messineo-E. Cannada-Bartoli, voce Annullabilità e Annullamento, cit., p. 470.

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rispetto del termine prescrizionale di regola quinquennale26.

A differenza dell'azione dichiarativa di nullità, l'azione in esame è invece una

azione costitutiva, in quanto non si limita a constatare una situazione giuridica già

attuale, ma mira viceversa a modificare lo stato di cose esistente: avendo il

negozio prodotto provvisoriamente i suoi effetti, tale sentenza li elimina dal

mondo giuridico.

Altra diversità rispetto all'azione di nullità risiede nell'individuazione dei

legittimati attivi27: l'azione di annullamento può essere proposta di norma dai soli

soggetti nel cui interesse essa è posta dalla legge; si parla in proposito di relatività

dell'azione di annullamento, in quanto essendo che la norma violata è stata posta a

tutela degli interessi solo di una (o alcune) delle parti, è evidente che sarà solo

quella stessa parte lesa a poter chiedere l'annullamento dell'atto dannoso28.

Deve essere peraltro notato fin da ora come, nel regolare la legittimazione attiva a

far valere l'annullabilità di un contratto, la disciplina degli art. 1441 c.c. e seguenti

non preveda alcuna norma volta a limitare il potere di impugnativa solamente ad

alcuni tra i soggetti nell'interesse dei quali la norma violata era posta.

In particolare, nessuna differenziazione è dettata sulla base di un criterio che

consideri la rilevanza economica degli interessi dei quali ciascun soggetto

astrattamente legittimato ad impugnare è portatore (in relazione al contratto della

cui validità si discute). Ciò a differenza di quanto avviene oggi per l'omologa

figura in materia di deliberazioni assembleari ai sensi dell'art. 2377, comma terzo,

come meglio si evidenzierà più avanti.

(26) Si ricordi peraltro che, ai sensi dell'art. 1442 c.c., mentre l'azione di annullamento èsoggetta ad un termine di prescrizione, la relativa eccezione può essere sollevata senza limiti ditempo dalla parte convenuta in giudizio per l'esecuzione del contratto.

(27) F. Messineo-E. Cannada-Bartoli, voce Annullabilità e Annullamento, cit., p. 470 ss.(28) Non va tuttavia dimenticato che talvolta sono previste annullabilità c.d. “assolute”; si

vedano gli artt. 119 e 624 c.c.

17

Va ancora rilevato che l'annullabilità non può, per le medesime ragioni poco sopra

indicate, essere rilevata d'ufficio dal giudice.

Differenza fondamentale del contratto nullo rispetto a quello annullabile è infine

rappresentata dalla possibilità di “recuperare” tale negozio viziato: la convalida

infatti consente alla parte legittimata all'annullamento di privarsi della possibilità

di far valere il vizio, in presenza di determinati presupposti richiesti29 .

1.5. La nuova disciplina dell'invalidità delle deliberazioni assembleari, così come

essa si presenta dopo la riforma del d.lgs. 6/2003, è stata oggetto di ampio

dibattito tra gli studiosi a seguito delle rilevantissime modifiche apportate al

precedente sistema di norme; va peraltro notato come il suddetto dibattito tuttora

stenti a portare conclusioni generalmente condivise in dottrina sui punti centrali

della questione.

Prima di addentrarsi nell'analisi puntuale delle norme in vigore, occorre

soffermarsi qualche istante sulla legge delega che nel 2001 ha affidato al Governo

(lasciando peraltro ampio margine di manovra e delineando l'ambito di

esplicazione della delega in modo “largo”30) il compito di elaborare la Riforma del

diritto societario, al fine di individuare, da una parte, gli obbiettivi che il

Legislatore si proponeva di raggiungere con tale intervento innovatore e,

dall'altra, le teorie e valutazioni che stanno dietro agli obbiettivi stessi.

È l'art. 4, comma 7°, lett. b) della Legge delega, riguardante la materia qui trattata,

a prevedere espressamente come compito del Legislatore delegato quello di

“disciplinare i vizi delle deliberazioni in modo da contemperare le esigenze di

(29) F. Messineo-E. Cannada-Bartoli, voce Annullabilità e Annullamento, cit., p. 482 ss.(30) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuova

disciplina, in Il nuovo diritto delle società - Liber amicorum, vol. II, Assemblea. Amministrazione.,Torino, 2006, p. 172.

18

tutela dei soci e quelle di funzionalità e certezza dell'attività sociale, individuando

le ipotesi di invalidità , i soggetti legittimati alla impugnativa e i termini per la sua

proposizione, anche prevedendo la possibilità di modifica e integrazione delle

deliberazioni assunte e l'eventuale adozione di strumenti di tutela diversi dalla

invalidità”.

Come si può notare il Legislatore ha posto quindi obbiettivi molto chiari, ai quali i

d.lgs. 6/2003 si attiene fedelmente nel dettare la nuova normativa.

Importante è l'affermazione della necessità di giungere ad un “contemperamento”

tra le esigenze di tutela dei soci, ritenute eccessivamente “garantite” dalla

previgente disciplina31, e le esigenze di “certezza”, stabilità, degli atti societari: è

proprio questo “contemperamento” che ha consentito alla nuova normativa di

sbilanciarsi32 in modo maggiore rispetto al passato, verso la tutela della stabilità

dell'azione societaria, cercando tuttavia di assicurare ai soci una certa qual forma

di tutela, non necessariamente reale, quindi tale da raggiungere ad un tempo

entrambi i fini ultimi previsti dalla Legge delega33.

Della nuova normativa va però detto che essa non stravolge l'impostazione

originaria della materia: si è infatti mantenuta la terminologia tradizionale,

distinguendo le due ipotesi di invalidità tipicamente negoziali, ossia la nullità e

(31) Si ricordi infatti, ad esempio, come il previgente art. 2377 c.c. consentisse a ciascun socioindividualmente di impugnare le deliberazioni dell'assemblea, prestandosi dunque anche ad un usostrumentale e ricattatorio, da parte di azionisti “specializzati” in questa attività.

(32) Si nota come il Legislatore abbia voluto dare prevalenza all'esigenza di tutelare lacertezza degli affari e dell'azione della società, rendendo ancor più autonomo il regimedell'invalidità delle deliberazioni di assemblea, rispetto a quella dell'invalidità dei contratti. In talsenso R. Lener, Invalidità delle delibere assembleari di società per azioni, in Riv. Dir. Comm.,2004, I, p. 80 ss.; A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità edeffetti, in Riv. Dir. Comm., 2004, I, p. 57 ss.; A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nelnuovo diritto societario, in Riv. Soc., 2004, 881.

(33) Si è parlato in proposito di un “arretramento della tutela demolitoria” e di “passaggiodalla tutela reale a quella risarcitoria”, G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tratutela demolitoria e tutela risarcitoria, in La società per azioni oggi, Milano, 2007, p. 613.

19

l'annullabilità, cercando inoltre, come espressamente richiesto dalla delega, di

limitare fortemente la possibilità di “creare” ulteriori figure di invalidità

“atipiche” rispetto a quelle tassativamente previste dalla legge34.

Rimane confermata anche quella sorta di “inversione”, già caratterizzante la

previgente disciplina, delle regole che disciplinano le due forme di invalidità dei

contratti: mentre infatti con riguardo a questi ultimi si definisce la nullità come

sanzione di carattere generale per le ipotesi di violazione di norme imperative e

l'annullabilità invece come sanzione speciale, prevista dalla legge solo in ipotesi

tipiche, l'invalidità delle deliberazioni assembleari si caratterizza per la previsione

dell'annullabilità come sanzione di carattere generale per tutti i casi di violazione

dello statuto o delle norme di legge, mentre la nullità viene trasformata in una

sanzione applicabile solo in ipotesi tassative35.

Da una tale rapida lettura dunque, un primo aspetto della ratio che ha ispirato la

Riforma di questa materia si profila piuttosto chiaramente: adeguare la precedente

disciplina all'evolversi del contesto economico, che richiede una sempre maggiore

certezza nei rapporti giuridici36, correggendone nel contempo anche i profili che

avevano dato luogo in passato ai maggiori problemi, senza per questo privare di

ogni tutela i soci che in precedenza godevano di un amplissimo potere di

impugnativa.

Non si potrà prescindere da queste finalità espresse nella legge delega, per

giungere ad una corretta interpretazione del nuovo quadro normativo.

(34) P. Schelesinger, Appunti in tema di invalidità delle deliberazioni assembleari delle societàazionarie dopo la riforma del 2003, cit., p. 596 ss.; R. Lener, Invalidità delle delibere assembleari di società per azioni, cit., p. 79 ss.

(35) R. Lener, Invalidità delle delibere assembleari di società per azioni, cit., p. 79 ss.(36) Va notato fin da subito come questo intervento normativo, volto a dare maggiore stabilità

alle società nei loro rapporti economici, si muove nel senso di rafforzare evidentemente il poteredelle maggioranze societarie; in proposito, N. Abriani, L'assemblea, in Tratt. Dir. Comm., vol. IV,Le società per azioni, Padova, 2010, p. 519.

20

1.5.1. Iniziando dunque con l'analizzare la figura della “annullabilità”, si può

immediatamente notare come già la rubrica dell'art. 2377 c.c. sia stata modificata

dalla riforma del 2003: al posto del più generico “invalidità delle deliberazioni” si

è preferito il termine più specifico “annullabilità”; va peraltro notato37 come lo

stesso termine non trovi alcun approfondimento definitorio ulteriore, essendo che

l'articolo in questione si limita a sancire l'impugnabilità delle deliberazione nei

casi ed alle condizioni da esso previste.

Nonostante qualche travaglio durante i lavoro preparatori, la Riforma ha

mantenuto il primo comma dell'articolo, il quale afferma la vincolatività delle

deliberazioni conformi a legge e statuto per tutti i soci, ancorché dissenzienti od

astenuti; la disposizione, analoga a quella del primo comma pre-riforma, ha

peraltro consentito al Legislatore di ricondurre con certezza quella generica

“invalidità” della rubrica del vecchio art. 2377, alla figura della “annullabilità”38.

Al secondo comma è confermata come nel sistema previgente, l'impugnabilità

delle delibere assunte in violazione della legge o dello statuto (in passato, “atto

costitutivo”) da parte degli amministratori (termine che si intende pacificamente

riferito all'organo collegiale, nel caso in cui sia presente un consiglio

d'amministrazione e non un amministratore unico39), del collegio sindacale,

nonché dai soci assenti, dissenzienti ed oggi anche da parte degli astenuti40.

(37) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 176.

(38) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 176.

(39) In argomento, G. Oppo, Amministratori e sindaci di fronte alle deliberazioni assembleariinvalide, in Scritti giuridici, vol. II, Diritto delle società, Padova, 1992, p. 382 ss.. Unaricostruzione alternativa di tale legittimazione è proposta da F. Di Girolamo, Sulla legittimazionead impugnare le delibere assembleari di s.p.a. non conformi: ratio e <<verità>> sugli artt. 2377c.c. e 127bis T.U.F., in Nuove leggi civ., 2014, I, p. 208 ss.

(40) G. Oppo, Amministratori e sindaci di fronte alle deliberazioni assembleari invalide, cit.,p. 386, riconduce la legittimazione dei soci ad un interesse personale dei medesimi (legittimazione

21

Alcune importanti modifiche però sono state apportate in materia di

legittimazione ad impugnare, come già è stato accennato in precedenza41:

seguendo la ratio della legge delega infatti, è stato operato un notevole

restringimento dei legittimati attivi, nell'ottica di ostacolare le impugnazioni

meramente strumentali o ricattatorie che spesso si erano avute in passato.

In questo modo oggi il diritto d'impugnativa non è più un diritto del singolo

azionista in quanto tale, ma solo degli azionisti (possessori di azioni aventi diritto

di voto con riguardo alla delibera oggetto di contestazione) che rappresentino la

minoranza qualificata prevista dalla legge, da soli o cumulativamente42: possono

dunque agire in giudizio per l'annullamento solo i soci che possiedano azioni con

diritto di voto nella percentuale dell'uno per mille nelle società c.d. “aperte”, e del

cinque per cento nelle società “chiuse” (la prevista possibilità che lo statuto possa

ridurre od escludere il suddetto requisito di capitale pare estremamente remota)43;

il potere di impugnare la delibera invalida si trasforma, per conseguenza

dell'intervento riformatore, in diritto delle minoranze qualificate e non più dei

singoli soci44.

Importante novità della nuova disciplina è quella rappresentata dal quarto comma,

che va inquadrata peraltro nel loro “diritto di socio”), mentre quella dell'organo amministrativo edi controllo, alla tutela dell'interesse sociale. Osservazioni opposte, circa la legittimazione degliamministratori, sono formulate da F. Di Girolamo, Sulla legittimazione ad impugnare le delibereassembleari di s.p.a. non conformi: ratio e <<verità>> sugli artt. 2377 c.c. e 127bis T.U.F., cit., I,p. 207 ss., il quale ricollega la legittimazione medesima ad un interesse personale degli stessi;l'orientamento di questo Autore ha peraltro origini risalenti, essendo già stato sostenuto, tra glialtri, dal Minervini.

(41) Si veda supra § 1.4.(42) R. Lener, Invalidità delle delibere assembleari di società per azioni, cit., p. 83.(43) È soprattutto a questo proposito che si può notare come con la riforma il Legislatore abbia

evidentemente rafforzato la maggioranza assembleare e corrispettivamente indebolito laminoranza, sulla base della necessità di stabilizzare nella maggior misura possibile l'azione dellasocietà. In tal senso, N. Abriani, L'assemblea, cit., p. 527.

(44) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 885.

22

il quale introduce una forma di tutela “obbligatoria” in sostituzione della

tradizionale tutela “reale” per i soci che non raggiungono le percentuali richieste

dal comma precedente, necessarie per poter impugnare la delibera: come infatti

previsto nella legge delega, il contemperamento tra le esigenze di tutela e di

stabilità è stato raggiunto con la previsione di “strumenti di tutela diversi dalla

invalidità”.

Resta fermo il termine decadenziale di novanta giorni per proporre l'impugnativa,

decorrente a seconda dei casi dalla data della deliberazione, o da quella del

deposito od iscrizione nel registro delle imprese.

Circa poi gli effetti dell'annullamento giudiziale della delibera, il settimo comma

precisa come tale annullamento sia produttivo di effetti nei confronti di tutti i soci

e faccia sorgere un obbligo in capo all'organo amministrativo e a quello di

controllo di adottare tutti i provvedimenti che si rendano necessari a seguito della

decisione, fermi restando (e ciò è di estrema rilevanza) i diritti acquistati da terzi

in buona fede, a seguito dell'esecuzione della delibera.

In linea con la ratio legislativa di prevedere una tutela risarcitoria per i soci di

minoranza, appare poi la previsione del comma ottavo che consente la

sostituzione della delibera impugnata con una nuova conforme alla legge ed allo

statuto, con conseguente impossibilità per il giudice di pronunciarne

l'annullamento; restano anche in questo caso salvi i diritti acquisti dai terzi sulla

base dell'esecuzione della deliberazione poi sostituita.

Un'ultima considerazione merita infine il quinto comma, che prevede una espressa

elencazione di tre ipotesi di irregolarità del procedimento formativo della

deliberazione; la legge tuttavia subordina la possibilità che queste portino

all'annullamento della delibera alla concreta alterazione rilevante del processo

23

formativo della volontà sociale, o a gravi mancanze contenutistiche del verbale45:

è anche qui evidente innanzitutto la volontà di perseguire il generale obbiettivo

della stabilità delle decisioni societarie.

L'intento del Legislatore è chiaramente quello di ricondurre nell'alveo delle due

figure tipiche di invalidità quell'ampia categoria di ipotesi che la precedente

giurisprudenza era solita qualificare in termini di “inesistenza”.

1.5.2. Veniamo ora invece a trattare brevemente della seconda categoria di

invalidità che caratterizza l'attuale sistema normativo della materia societaria.

Anche dopo la Riforma, l'art. 2379 c.c. continua a parlare nella sua rubrica di

“nullità” delle deliberazioni assembleari; tuttavia quest'articolo ha subito rilevanti

modifiche, che insieme ai nuovi artt. 2379 bis e 2379 ter, hanno profondamente

innovato questa figura.

L'art. 2379 pre-riforma si limitava a disciplinare le ipotesi di delibera nulla per

impossibilità od illiceità dell'oggetto, rinviando agli artt. 1421, 1422 e 1423 c.c.

sulla nullità dei contratti, ricostruendo dunque questa figura in maniera

sostanzialmente analoga a quella contrattuale.

Anche qui tuttavia il Legislatore è voluto intervenire nel senso di assicurare una

maggiore stabilità agli atti societari, soprattutto alla luce delle elaborazioni

giurisprudenziali che avevano nella sostanza ampliato notevolmente i confini

della nullità, per mezzo della già richiamata categoria dell'inesistenza, ben oltre

quanto previsto dalla legge46.

Il primo comma dell'articolo in esame dunque si apre con l'elencazione dei casi

(45) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p.197 ss.

(46) Si veda infra § 1.6. e seguenti per una disamina più approfondita della questione.

24

tassativi di nullità delle deliberazioni47: due ipotesi di vizi definiti “oggettuali”

(impossibilità ed illiceità dell'oggetto della delibera) e due vizi di carattere

“procedimentale” (mancata convocazione dell'assemblea e mancanza del verbale);

è esclusa così, in via di principio, la possibilità di creare in via interpretativa

ipotesi ulteriori a cui applicare tale sanzione48.

Ipotesi di nullità a se stante (per la particolare gravità del vizio) è poi quella

prevista dall'ultima disposizione del primo comma, ossia quella delle

deliberazioni che modificano l'oggetto sociale “prevedendo attività illecite o

impossibili”.

La disciplina di questa seconda forma di invalidità, contenuta nell'art. 2379 e nei

due articoli seguenti, si caratterizza quindi oggi per una notevole autonomia

rispetto a quella della nullità dei contratti.

Ferma restando la tradizionale possibilità di far valere la nullità per “chiunque vi

abbia interesse”, nonché la sua rilevabilità d'ufficio, balza immediatamente

all'occhio l'inusuale previsione di un termine triennale di decadenza entro il quale

può essere proposta l'azione di nullità per le quattro ipotesi generali sopra

menzionate, decorrente dalla data della trascrizione o deposito presso il registro

delle imprese, oppure, in mancanza di tali adempimenti, dalla data di trascrizione

della delibera nel libro delle adunanze dell'assemblea: delle notevoli ripercussioni

di questa previsione sull'intero ordinamento societario si darà conto nei Capitoli

successivi.

Nessun termine è invece previsto per la possibilità di impugnare del delibere di

(47) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 202 ss.

(48) La tassatività delle ipotesi di nullità citate è inoltre rafforzata dalle precisazioni contenutenel terzo comma del medesimo articolo, che contribuiscono ad una definizione ancor più rigidadelle fattispecie.

25

cui all'ultima disposizione del primo comma, che possono viceversa essere

impugnate senza alcun limite di tempo49.

Contribuisce a rendere autonoma la disciplina di questa figura di invalidità,

rispetto alla nullità contrattuale, l'applicabilità della previsione di cui al comma

ottavo dell'art. 2377 c.c., consentendosi dunque di sostituire la delibera nulla con

altra adottata in conformità con la legge lo statuto.

Infine l'art. 2379 bis, che prevede esplicitamente la possibilità di sanare la nullità,

fornisce conferma del fatto che ci si trova di fronte ad una ipotesi del tutto

peculiare, non riconducibile più, se non solo in piccola parte, alla omologa figura

prevista nel campo contrattuale50.

1.5.3. Da quanto sin qui osservato, paragonando l'invalidità del diritto dei contratti

con l'invalidità del diritto societario, non si può fare a meno di notare che mentre

nel primo caso essa è caratterizzata da due figure ben distinte per quanto riguarda

presupposti e conseguenze, nel secondo tale bipartizione appare oggi molto più

sfumata ed evanescente51, tanto da far dubitare dell'utilità ed attualità della

bipartizione stessa52.

Si è osservato in proposito che alcune regole che oggi disciplinano la nullità delle

deliberazioni assembleari sono notevolmente simili a quelle tradizionalmente

(49) F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Torino 2012, p. 290.(50) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuova

disciplina, cit., p. 210 ss.(51) La disciplina sostanziale e processuale delle due figure è stata notevolmente ravvicinata.

In questo senso, M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni e delle decisioni dei soci nelnuovo diritto societario, cit., p. 771 ss.

(52) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.57; G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 614; A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea dis.p.a. La nuova disciplina, cit., p. 213.; P. Schelesinger, Appunti in tema di invalidità delledeliberazioni assembleari delle società azionarie dopo la riforma del 2003, cit., p. 599.

26

considerate norme proprie della diversa figura dell'annullabilità; allo stesso modo

l'imprescrittibilità dell'azione e l'insanabilità del negozio viziato, che storicamente

si ricollegano alla sanzione di nullità, oggi non sono più previste dalla disciplina

di questa figura nel diritto societario, che al contrario prevede un termine

decadenziale per l'esercizio dell'azione e l'esplicita possibilità di “sanare” la

delibera nulla.

Nonostante oggi il regime giuridico delle due figure sia quindi molto simile, il

Legislatore ha però voluto mantenere sul piano lessicale una netta distinzione,

ricca di significato non solo simbolico53.

Sul punto autorevole dottrina si è confrontata. Taluno ha sostenuto che il

Legislatore si sia espresso impropriamente mantenendo nel testo legislativo il

termine “nullità”, utilizzandolo “a sproposito”54 : viene infatti notato come la

questione, lungi dall'essere meramente definitoria, ha un fondamento indiscutibile

nel testo normativo, essendo che mentre in via di principio un negozio nullo non

dovrebbe produrre alcun tipo di effetto ab origine, la deliberazione nulla produce

invece gli effetti a cui è volta, non potendosi seriamente sostenere che tali effetti

non si producano per tutto l'arco dei tre anni durante la quale questa è

impugnabile55: ciò sarebbe in palese contrasto con la ratio del Legislatore della

riforma e delle stesse intenzioni ed obbiettivi espressi nella legge delega del 2001.

La suddetta classificazione è stata definita dunque come “non necessaria”, tale da

(53) Si vedano in proposito le rubriche degli artt. 2377 e 2379 c.c. Si esprime inoltre in questo senso P. Schelesinger, Appunti in tema di invalidità delle deliberazioni assembleari delle società azionarie dopo la riforma del 2003, cit., pp. 600 e 601, pur rilevando come il termine “nullità” sia stato utilizzato dal Legislatore in modo improprio.

(54) R. Lener, Invalidità delle delibere assembleari di società per azioni, cit., pp. 92 e 93; G.Conte, Osservazioni sul nuovo regime di disciplina delle invalidità delle deliberazioniassembleari, in Contr. e impr., 2003, p. 653.

(55) P. Schelesinger, Appunti in tema di invalidità delle deliberazioni assembleari delle societàazionarie dopo la riforma del 2003, cit., p. 598 ss.

27

creare incertezze e da poter essere sostituita dalla unitaria figura di una generica

“invalidità”, declinata in diverse gradazioni56.

Tale autorevole osservazione presta tuttavia il fianco ad una serie di osservazioni,

le quali tendono a far ritenere che, nonostante il ravvicinamento delle due figure

di nullità ed annullabilità, non sia ancora giustificato parlare di un'unica figura di

generica “invalidità” delle delibere assembleari.

Non si può fare a meno di notare come già dalla stessa legge delega il Legislatore

abbia inteso creare col proprio intervento un sistema marcatamente autonomo

rispetto a quello dell'invalidità dei contratti; il fine ultimo di tale autonomia57 altro

non è se non quello di perseguire al meglio l'obbiettivo dell'efficienza e della

stabilità delle società operanti all'interno del mercato, vero fulcro attorno al quale

ruotano la maggior parte delle scelte legislative che caratterizzano la Riforma nel

suo complesso.

Alla luce di quanto si è osservato quindi non sembra opportuno ritenere, per il

momento, che le regole specifiche di questa materia tendono a fondere la nullità e

l'annullabilità in una sola figura: semplicemente perché il Legislatore ha voluto

creare un “sistema speciale”58, retto da regole proprie, ma allo stesso tempo

strutturato in modo bipartito, mantenendo al suo interno il rapporto tra due diverse

categorie di vizi; per tale ragione, in questo sistema di invalidità definito

“speciale”, si possono scorgere tratti caratteristici della tradizionale disciplina

(56) Si esprimono a favore di questa osservazione, tra gli altri, G.B. Portale, L'invalidità delledelibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria, cit., p. 614; F. Di Girolamo, Sullalegittimazione ad impugnare le delibere assembleari di s.p.a. non conformi: ratio e <<verità>>sugli artt. 2377 c.c. e 127bis T.U.F., cit., p. 206. Parla invece di “nullità sui generis” N. Abriani,L'assemblea, cit., p. 530.

(57) Autonomia che si è voluto sottolineare ancora maggiormente eliminando dall'art. 2379qualsiasi riferimento alle norme relative alla nullità dei contratti.

(58) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 215.

28

delle invalidità contrattuali, ma mescolati con altri caratteri “autonomi”59.

Concludendo, nell'analizzare la nuova disciplina delle invalidità delle

deliberazioni assembleari, non si può non tener conto del fatto che, oggi ancor più

che in passato, ci si trova di fronte ad uno specifico ed in parte autonomo

“ordinamento societario”60 e che quindi le peculiari esigenze settoriali giustificano

entro certi limiti una disciplina diversa e su di esse modellata.

1.6. Oggetto della disciplina sin qui esaminata sono, com'è noto, le deliberazioni

assembleari. Al fine di un più preciso inquadramento della materia è bene

soffermarsi previamente sul concetto stesso di “deliberazione”, attorno al quale

ruota non solo la disciplina legislativa, ma una lunga serie di questioni (anche

dottrinali ma soprattutto giurisprudenziali) attinenti prevalentemente al problema

dell'esistenza delle delibere medesime.

Si è già parlato più addietro di come il Legislatore si sia posto, come fine della

riforma di questa materia, quello di attribuire una maggiore stabilità ai rapporti

giuridici facenti capo alla società; ebbene, uno degli ostacoli maggiori alla

certezza di tali rapporti è stato individuato, vigente la precedente normativa, nel

proliferare in giurisprudenza di interpretazioni spesso “creative” in materia di

invalidità delle delibere dell'assemblea dei soci.

Come in precedenza accennato61, attraverso queste ricostruzioni interpretative i

giudici, restii ad ammettere la mera annullabilità di delibere affette da vizi

“procedimentali” particolarmente gravi, hanno “dato vita” alla categoria delle c.d.

(59) Si noti, tra gli altri, l'esistenza di vizi che implicano una nullità insanabile edimprescrittibile, al comma primo dell'art. 2379 e, in via generale, la possibilità di far valere lanullità da parte di chiunque vi abbia interesse.

(60) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 216.

(61) Si veda supra § 1.2.

29

“delibere inesistenti”, assoggettandola ad un regime in tutto paragonabile a quello

delle deliberazioni nulle (a quel tempo sostanzialmente analogo a quello della

nullità contrattuale, stante il richiamo dell'art. 2379 c.c. agli artt. 1421, 1422 e

1423) e perciò tale da garantire maggior tutela ai diritti dei soci.

Per questa via si sono quindi sottratte dette deliberazioni, dalla legge reputate

semplicemente annullabili, al regime dell'annullabilità previsto dall'art. 2377 c.c.

ed è stato realizzato un sistema di tutela “alternativo” rispetto a quello previsto

dalla legge.

Si è venuta in questo modo a creare una situazione di forte incertezza a causa

delle difficoltà incontrate, non solo dalla dottrina ma anche dalla stessa

giurisprudenza, nel delineare in modo preciso i margini della categoria

dell'inesistenza, anche a seguito delle diverse conclusioni a cui gli stessi giudici

giungevano in proposito nelle sentenze.

Prima di valutare quali margini rimangano ancor oggi per l'emergere di tale

categoria, dopo che l'intervento legislativo del 2003 ha deliberatamente operato

nel senso di espungere dal sistema la medesima, è necessario sinteticamente dar

conto delle caratteristiche fondamentali della fattispecie “deliberazione

assembleare”, determinandone se possibile gli elementi strutturali minimi ed

essenziali.

1.6.1. Senza soffermarsi sull'evoluzione storica che ha portato alla definizione del

ruolo dell'assemblea degli azionisti62, questa può oggi essere rappresentata come

l'organo che, nella sua composizione ordinaria o straordinaria, ha il compito di

formare la volontà della società nelle materie riservate alla sua competenza dalla

(62) In argomento si veda A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea dellesocietà anonime, cit., p. 18 ss.

30

legge e dallo statuto, nonché di decidere sulle scelte fondamentali per la vita della

società medesima63.

Tali scelte e decisioni sono assunte tramite un procedimento deliberativo, volto a

far emergere la volontà dell'ente collettivo attraverso l'espressione del proprio

voto da parte dei singoli azionisti64: in esito a tale procedimento si addiviene

dunque alla emanazione di tale volontà sotto le le forme appunto di “deliberazione

dell'assemblea degli azionisti”65.

A riguardo di tale atto può preliminarmente osservarsi come il suo oggetto

coincida con quello del voto della maggioranza assembleare; da ciò autorevole

dottrina ha desunto anche l'identità di natura tra i singoli voti e la deliberazione

che ne è espressone (o meglio, che è espressione della maggioranza degli stessi):

entrambi gli atti sono stati definiti come “negozi giuridici”66.

Né va sottaciuto che altri hanno proposto ricostruzioni differenti della fattispecie:

talvolta definendola una “dichiarazione di verità”67; talaltra parlando più

semplicemente di “dichiarazione unilaterale” posta in essere dall'organo

assembleare della società, specificando espressamente (e con approfondite

motivazioni) la contrarietà alla tesi che intendeva ricondurre tale atto alla

categoria del negozio giuridico68; ancora, infine, si è parlato delle deliberazioni

assembleari come “atto semplice collegiale”69; va tuttavia osservato come tali

opinioni siano rimaste minoritarie, mentre si è affermata quella che fa riferimento

(63) G. F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società., Torino, 2012., p. 314.(64) F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, cit., p. 281 ss.; M. Vaselli, Deliberazioni

nulle e annullabili delle società per azioni, cit., p. 17.; A. Donati, L'invalidità della deliberazionedi assemblea delle società anonime,cit., p. 42 ss.

(65) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 17.(66) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 18

ss.(67) In particolare il Candian.(68) M. Vaselli, Deliberazioni nulle e annullabili delle società per azioni, cit., p. 9 ss.(69) A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime,cit., p. 33.

31

alla categoria del negozio giuridico70.

Il fatto che la deliberazione sia considerabile un negozio giuridico a se stante,

distinto rispetto ai singoli voti, consente anche di distinguere le patologie che

affliggono la prima da quelle che affliggono invece i secondi: e così si fa

riferimento ai vizi della volontà ed alla capacità giuridica dei soci, con riguardo ai

singoli voti, mentre le violazioni delle norme sul procedimento sono vizi

riguardanti la deliberazione in se.

I vizi di contenuto sono invece analoghi per i voti e per le deliberazioni e la

portata dei loro effetti resta limitata all'atto cui attengono.

1.6.2. Fatte queste necessarie premesse sulla natura negoziale della fattispecie

“deliberazione assembleare”, si può passare ad esaminarne la struttura ed i

requisiti essenziali, al fine di poter meglio determinare quando ed entro quali

limiti sia possibile parlare di inesistenza della deliberazione.

Anche in questa sede, come in materia di contratti, una definizione precisa della

categoria dell'inesistenza sarebbe possibile solo ove il diritto positivo esplicitasse

in maniera puntuale i requisiti minimi di esistenza dell'atto; mancando come detto

una tale elencazione, si darà brevemente conto dei vari orientamenti che sono

emersi nel tempo riguardo a tale complessa questione. Per esigenze di sintesi si

devono tralasciare le pur interessanti opinioni più risalenti71.

Più di recente, dopo la Riforma del 2003, si sono ritenuti necessari, ai fini

dell'esistenza della delibera, due requisiti72: un momento definibile come

(70) Tuttavia alcuni dubbi in proposito continuano talvolta ad essere sollevati. In proposito, si veda G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a.: la fattispecie, in Giur. Comm., 2005, I, p. 58 ss.

(71) M. Vaselli, Deliberazioni nulle e annullabili delle società per azioni, cit., p. 30 ss.; P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 30 ss.

(72) M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni e delle decisioni dei soci nel nuovo

32

“riunione” dell'organo assembleare (anche ove vi partecipassero soggetti non

legittimati); ed un momento di “appropriazione” della decisione, che dalla

precedente fase scaturisce, da parte della società.

Secondo altra interpretazione, il “nucleo essenziale” della fattispecie

“deliberazione” sarebbe costituito dall'esistenza di una riunione, anche

“potenziale”, dei soci, al termine della quale si sia manifestata sotto forma di voto

una decisione espressione della maggioranza (anche “apparente”) dei partecipanti

con diritto di voto73.

Tuttavia, la soluzione che sembra essere più convincente e di maggiore attualità,

si posa sul rilievo che, in ultima istanza, per considerare “esistente” una

deliberazione assembleare, l'unico vero requisito “necessario e sufficiente” pare

essere quello di una semplice “parvenza di delibera”, intendendosi con ciò la sola

necessità che all'esterno, agli occhi dei terzi, si abbia una “apparente provenienza

della della decisione dalla maggioranza del capitale sociale”74; di tale

ricostruzione si dirà dettagliatamente più avanti, nel trattare la questione

dell'imputabilità delle deliberazioni assembleari alla società75.

Si può conclusivamente ritenere che, per quanto risulti ancora difficile dirsi

raggiunto un punto di convergenza sulla questione, sia la dottrina che la

diritto societario, in Riv. Soc., 2004, cit., 783 ss.(73) V. Sanna, L'inesistenza delle deliberazioni assembleari e delle decisioni extra-

assembleari: un problema ancora aperto, in Riv. Dir. Civ., 2007, II, p. 188 ss.(74) M. Centonze, Inesistenza delle delibere assembleari e nuovo diritto societario, in Società,

2008, II, p. 1136 ss.; l'opinione sopra riportata è trattata più approfonditamente in M. Centonze,L'”inesistenza” delle deliberazioni assembleari di s.p.a., Torino, 2008, p. 191 ss.Si noti anche come tali filoni di pensiero talvolta si incontrino e completino vicendevolmenteriguardo ad alcuni aspetti; in particolare, M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni edelle decisioni dei soci nel nuovo diritto societario, cit., p. 791, aggiunge che per aversi unafattispecie riconoscibile quale deliberazione assembleare, occorra anche che la dichiarazione di cuisi tratta abbia ad oggetto “una regola valevole entro l'organizzazione societaria”, che altrimentitale, logicamente, non potrebbe essere ritenuta.

(75) Si veda infra § 1.7.2.

33

giurisprudenza pare abbiano sino ad ora percepito il vincolo che il Legislatore

della Riforma ha voluto mettere al dilagare della categoria dell'inesistenza.

Conseguentemente, operando un'interpretazione più rigorosa che in passato circa i

requisiti di esistenza delle deliberazioni, si è pervenuti ad un deciso

ridimensionamento delle ipotesi di inesistenza, pur non potendosene ancora

decretare la completa scomparsa.

Su questo punto tuttavia, in generale, si può preliminarmente affermare che

l'intervento riformatore abbia sortito buoni effetti repressivi sul proliferare di tale

categoria, come nelle intenzioni del Legislatore76.

1.7. Si è osservato come il punto fondamentale per determinare l'esistenza o meno

della deliberazione assembleare sia l'imputabilità o meno della stessa alla società,

o meglio all'organo della medesima preposto alla sua adozione: l'assemblea dei

soci.

Si è già accennato ai vari orientamenti che sono emersi di recente sulla

rilevantissima questione dell'imputabilità; ci si accinge ora ad analizzare un poco

più in profondità due dei suddetti orientamenti, particolarmente interessanti.

1.7.1. La prima opinione parla della deliberazione assembleare come di un “atto

procedimentale”77; si vedrà come tale definizione si ripercuota in maniera

significativa sul connesso problema della “imputabilità” della deliberazione.

Va da subito anticipato che questo orientamento, particolarmente rigoroso, si pone

(76) M. Centonze, Inesistenza delle delibere assembleari e nuovo diritto societario, cit., p. 1135.

(77) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, in Riv. Dir. Comm., 2005, I, p. 1001 ss.,tuttavia con riferimento prevalentemente alle “decisioni” dei soci di s.r.l.; in tal senso anche G.Cottino, Diritto Commerciale, Vol. I, II, Padova, 1987, p. 432.

34

al di fuori (pur restandovi strettamente connesso) del problema dell'inesistenza,

essendo basato interamente sulle norme di legge e sulla loro esegesi (le quali

evidentemente non parlano mai di “inesistenza); ciò nonostante si potrà notare la

rilevanza di queste considerazioni al fine di meglio inquadrare la figura stessa

dell'inesistenza nella nostra materia.

Un tale orientamento individua nelle norme che disciplinano il procedimento

formativo delle decisioni (dell'assemblea) dei soci, sia legali che convenzionali,

un fondamentale regolamento organizzativo, che i soci stessi, col contratto di

società, hanno adottato al fine di determinare i modi in cui l'attività deliberativa

possa esercitarsi; l'attività del “soggetto collettivo” dunque in tanto potrà dirsi

aver raggiunto il suo scopo (l'adozione della decisione), in quanto le regole poste

dalle parti col contratto sociale siano state rispettate78.

Alla stregua di tali osservazioni, si desume che le deliberazioni assembleari, come

le decisioni dei soci di s.r.l., hanno “natura di atto dipendente”79: con tale termine

si intende un atto che potrà dirsi emanato dall'organizzazione sociale, e dunque

essere imputabile alla medesima, soltanto se adottato in piena conformità con le

regole legali e convenzionali che gli stessi soci hanno posto ed accettato per

l'esercizio dell'attività produttiva dell'atto stesso80.

Si desume di conseguenza che la deliberazione è un “fatto giuridico

procedimentale”, che si manifesta correttamente solo grazie ad una serie ordinata

di atti predeterminati, i quali soltanto cumulativamente consentono il

perfezionarsi del procedimento deliberativo81.

(78) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1001.(79) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1003.(80) P. Ferro-Luzzi, La confomità delle deliberazioni assembleari alla legge e all'atto

costitutivo, Milano, 1993, p. 156 ss., con riferimento questa concezione dell'imputabilità allasocietà delle deliberazioni assembleari, parla di “figura di produzione dell'azione”.

(81) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1003 ss.

35

Da ciò deriva che il vizio che colpisce uno solo degli atti procedurali necessari,

finisce con l'inficiare l'intero procedimento nel suo complesso, rendendolo

mancante di “valore”.

A sostegno di tali argomentazioni viene richiamato il primo comma dell'art. 2377

c.c.. Tale comma (che, come già in precedenza notato, è espressione di una regola

già presente nel Codice di commercio del 1882) sancisce che le deliberazioni

assunte in conformità con le regole legali e pattizie che le disciplinano sono

vincolanti per “tutti i soci”: sostenendo che il riferimento ai “soci” sarebbe in

questo caso improprio, sembrando invece appropriato in tale contesto riferirsi alla

“società” come ente collettivo, viene affermato che nella norma è contenuta la

conferma legislativa che l'imputabilità alla società della delibera (la quale è

ovviamente presupposto necessario per affermarne la vincolatività) può aversi dal

momento in cui questa è venuta a giuridica esistenza nel rispetto del procedimento

previsto per la sua adozione82.

Ciò detto, pur apprezzandosi le argomentazioni alla base di questa tesi, si deve

osservare che per quanto il Legislatore avrebbe potuto sancire l'irrilevanza

giuridica delle delibere assunte in modo non conforme al procedimento previsto,

così non è stato, e viceversa è stata prevista una “imputabilità interinale” alla

società anche per le deliberazioni non conformi alla legge ed allo statuto83: com'è

noto, l'imputabilità è solo provvisoria, dal momento che entro il termine previsto

dalla legge i soggetti legittimati hanno la possibilità di far rilevare il vizio dal

giudice e di conseguenza far venir meno la suddetta provvisoria imputabilità.

Per concludere, va osservato quanto già accennato precedentemente: alla luce di

tale ultima considerazione circa “l'imputabilità interinale”, può dirsi che il

(82) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1005.(83) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1012 ss.

36

Legislatore abbia posto per l'interprete un limite indiretto all'estensione della

categoria delle deliberazioni inesistenti; essendo infatti che l'attuale normativa

riconduce tutti i vizi del procedimento, i quali astrattamente avrebbero potuto

determinare l'irriconoscibilità dell'atto quale deliberazione, alle figure della nullità

od annullabilità, all'interprete non dovrebbe più ritenersi consentito il ricercare gli

elementi essenziali per l'esistenza della delibera all'interno dei meccanismi che

conducono alla sua assunzione.

1.7.2. Il secondo orientamento, che può dirsi riconducibile al concetto di “delibera

apparente”, ha radici risalenti nella dottrina italiana, oltre ad essere tutt'ora attuale

ed autorevolmente sostenuto.

Si vedrà come questa concezione sia molto rilevante in relazione alla categoria

dell'inesistenza, in quanto si pone come scopo quello di porre i criteri generali per

determinare quando una delibera possa dirsi esistente e quando invece non possa

definirsi tale.

Già vigente il Codice di commercio si riteneva (in relazione alla figura del

negozio giuridico in generale, ma riconducendo a tali principi anche le

deliberazioni assembleari, quali negozi giuridici) che la semplice apparenza o

“parvenza di esistenza” di un negozio nullo facesse sorgere l'interesse ad agire nei

soggetti legittimati84; essendo il petitum di una tale azione la semplice

dichiarazione della nullità del negozio da parte del giudice, è evidente che la

parvenza di esistenza del negozio stesso si riteneva ne escludesse l'inesistenza.

A pochi decenni dall'entrata in vigore del Codice del 1942 autorevole dottrina ha

(84) A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime,cit., p.244. Nello stesso senso, ma dopo l'entrata in vigore del Codice Civile, anche M. Vaselli,Deliberazioni nulle e annullabili delle società per azioni, cit., p. 39 ss.

37

quindi sostenuto, in materia di tutela dei terzi di buona fede, che per giustificare

una tale tutela doveva ritenersi sufficiente “un'apparenza di delibera idonea a

creare affidamenti, purché la responsabilità della creazione di tale apparenza si

possa far risalire, anche solo obbiettivamente, alla società”85; anche qui dunque si

esclude che, nel momento in cui almeno agli occhi dei terzi appaia una fattispecie

oggettivamente riconducibile ad una deliberazione assembleare, si versi in

un'ipotesi di inesistenza.

Va però chiarito cosa si intende per “parvenza” o “apparenza” di negozio; anche

qui soccorre la medesima dottrina: viene affermato infatti che il concetto di

“apparenza di negozio” designi qualsiasi fatto che “possa ragionevolmente essere

creduto una dichiarazione di volontà volta all'assetto di interessi giuridici”86.

Se si traspone questa definizione nella materia delle deliberazioni assembleari, si

coglie la portata di questo orientamento sulla questione dell'esistenza od

inesistenza delle medesime.

Sulla base dei principi sopra esposti viene quindi data la definizione di inesistenza

del negozio giuridico, valevole mutatis mutandis anche per le deliberazioni

assembleari: si ha inesistenza quando manchi assolutamente l'apparenza di un

negozio, oppure quando tale apparenza vi sia, ma non sia stata creata da un'attività

oggettivamente riconducibile al soggetto cui si pretende di imputare l'atto87.

Questo orientamento come si diceva è tuttora autorevolmente sostenuto ed è anzi

stato ancor maggiormente sviluppato, in quanto sembra essere quello che meglio

consente di risolvere le incertezze interpretative che si agitano sulla questione.

Anche di recente è stato affermato infatti che, con riguardo alla fattispecie

(85) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 7.(86) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 39.(87) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 55.

38

“deliberazione assembleare”, un solo requisito può esser ritenuto necessario e

sufficiente affinché l'atto possa dirsi venuto a giuridica esistenza: e tale requisito è

la “parvenza di delibera”, intesa in questo caso in modo ancora più ampio e

comprensivo, tale da ricondurvi tutti i casi in cui agli occhi dei terzi,

“esteriormente”, la deliberazione sembri formalmente provenire dalla

maggioranza del capitale della società, non rilevando il fatto che in concreto l'atto

provenga viceversa da una minoranza o addirittura da un estraneo; l'imputabilità è

stata concepita, in altre parole, in maniera ancor più oggettiva che in passato88.

Per tornare alla questione della “imputabilità” dalla quale si era partiti, aderendo

all'orientamento qui in esame, si deve ritenere che sussistendo quella che si è detta

“semplice parvenza di delibera” agli occhi dei terzi, la fattispecie “deliberazione

assembleare” dovrà essere imputata senza ulteriori indagini alla società, potendosi

al più soltanto agire in via giudiziale per ottenere una dichiarazione di invalidità.

Adottando questa interpretazione, oltre a risolvere in modo deciso molte delle

questioni riguardanti la distinzione tra delibere esistenti ed inesistenti, spesse volte

dovute alla infruttuosa ricerca di elementi del procedimento di adozione da

ritenersi essenziali per consentire la “nascita” di una deliberazione, si persegue

l'obbiettivo di accordare una più ampia tutela ai terzi che entrano in relazione con

la società. Il che è senz'altro un obbiettivo primario del Legislatore del 2003,

attento alla affidabilità delle relazioni commerciali.

1.8. Per concludere quanto precede, non ci si può astenere dall'interrogarsi circa le

concrete possibilità di riemersione che rimangono per la figura della delibera

(88) M. Centonze, Inesistenza delle delibere assembleari e nuovo diritto societario, cit., p.1136. In questo passo l'Autore supera la precedente concezione formulata dal Trimarchi, nonritenendo necessario ai fini dell'esistenza che la “delibera apparente” debba essere anchericonducibile “obbiettivamente” alla società.

39

inesistente, anche dopo l'intervento riformatore89.

Prima di addentrarsi nella questione, è importante ricordare come la ratio della

Riforma debba sempre fungere da guida per l'interprete nella soluzione dei dubbi

che si presentano, imponendo di far prevalere le esigenze di certezza delle

relazioni commerciali e tutela dei terzi su altri interessi concorrenti.

Deve essere in particolare richiamato il fatto che il Legislatore delegato, in

ossequio a quanto disposto dalla legge delega, ha fortemente voluto

ridimensionare (o meglio, eliminare completamente) questa categoria di origine

giurisprudenziale, in particolare riconducendo esplicitamente ad una delle due

figure tipiche di invalidità quelle fattispecie che in passato i giudici erano soliti

qualificare come inesistenti90.

É stato così chiaramente riaffermato per via legislativa il principio di “tassatività”

delle cause di invalidità delle deliberazioni, istituendo un sistema incentrato sulla

alternativa nullità-annullabilità.

Nonostante quanto appena osservato, sono stati autorevolmente sollevati dubbi

circa l'efficacia dell'intervento legislativo nel perseguire l'obbiettivo di cancellare

la figura dell'inesistenza91; la stessa infatti pare viceversa risorgere, sia pure entro

(89) G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a.: la fattispecie, cit., I, p. 60 ss.

(90) N. Abriani, L'assemblea, cit., p. 522 ss.. Come è stato notato da A. Nigro, Tutelademolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 884, la logica che ispiral'attuale disciplina riformata in materia di invalidità delle deliberazioni assembleari, èevidentemente molto simile a quella che ha ispirato il “nuovo” art. 2332 c.c.

(91) M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni e delle decisioni dei soci nel nuovodiritto societario, cit., p. 762 ss., fa notare che il metodo attraverso il quale il Legislatore ha volutoistituire una “riserva di legge” sulle conseguenze della difformità delle deliberazioni rispetto almodello legale, si affetto da un difetto di fondo, ossia il fatto che l'inesistenza venga ritenuta aquesti fini come una sorta di “ipotesi di invalidità atipica”, quale invece non è. Si nota dunquecome, essendo invece l'inesistenza una categoria concettuale distinta rispetto a quelladell'invalidità, il metodo perseguito per escluderla in partenza sia stato quantomeno inappropriato,non potendosi legislativamente escludere un istituto che non si basa sul dettato della legge.Meglio probabilmente sarebbe stato, per perseguire un tale risultato, prevedere una figura di nullità

40

margini più limitati92.

A prima vista la normativa pare ora porre l'interprete di fronte alla scelta secca tra

nullità o annullabilità e ciò ha portato ad affermare che oggi l'unica ipotesi ancora

configurabile di inesistenza della deliberazione sia quella della c.d. “inesistenza di

fatto”, ossia quando manchi completamente una “attività deliberativa” tale da dar

luogo anche solo ad una delibera “apparente”93; tuttavia una tale affermazione va

semplicemente a spostare il centro del problema, trasferendolo sulla questione,

ancora fortemente dibattuta e non risolta94, della individuazione dei requisiti

minimali per considerare esistente una fattispecie di deliberazione assembleare95 e

sui diversi orientamenti circa “imputabilità” della delibera alla società96.

Allo stato attuale è quindi soltanto consentito osservare che, mentre in un primo

tempo la Dottrina propendeva per il ritenere sostanzialmente chiuso il

“problema”97, ad un esame più approfondito si è successivamente riconsiderata la

più “elastica”, tale da venire incontro alle diverse esigenze del caso concreto; in tal senso siesprime A. Monteverde, Primi passi della giurisprudenza nel nuovo universo dell'invalidità delledelibere: con qualche riflessione su nullità ed inesistenza, in Giur. It., 2006, p. 1209 ss.

(92) Tra gli altri, A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea dis.p.a. La nuova disciplina, cit., p. 199 ss.; N. Abriani, L'assemblea, cit., p. 521; R. Teti, Esistonoancora le delibere assembleari inesistenti?, in Notariato, 2009, 412 ss.; V. Sanna, L'inesistenzadelle deliberazioni assembleari e delle decisioni extra-assembleari: un problema ancora aperto,cit., pp. 155 ss., 165 ss.; B. Libonati, Diritto Commerciale. Impresa e società., Milano, 2005, p.374; A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 883 ss.

(93) N. Abriani, L'assemblea, cit., p. 523. G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioniassembleari di s.p.a.: la fattispecie, cit., p. 60, evidenzia come l'intenzione del Legislatore sia statacon ogni evidenza quella di ricondurre ogni fattispecie di deliberazione, anche difficilmentericonoscibile come tale per via dei gravi vizi che la inficiano, all'interno della disciplinadell'invalidità delle delibere assembleari.

(94) Come si è visto supra, § 1.6.1 e 1.6.2.(95) V. Sanna, L'inesistenza delle deliberazioni assembleari e delle decisioni extra-

assembleari: un problema ancora aperto, cit., p. 167.(96) Si veda supra § 1.7.2.(97) M. Cian, Invalidità e inesistenza delle deliberazioni e delle decisioni dei soci nel nuovo

diritto societario, cit., pp. 764 e 765; G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a.: la fattispecie, cit., p. 60.

41

questione, giungendo infine a ritenere ancora possibile individuare qualche spazio

per la categoria dell'inesistenza98.

Non si può peraltro non notare come sia in qualche modo inevitabile l'emergere di

una categoria siffatta, ed idonea per natura a colmare le lacune lasciate dal

Legislatore, al crescere della rigidità delle categorie legislative di invalidità, come

accaduto con la riforma del 200399.

(98) V. Sanna, L'inesistenza delle deliberazioni assembleari e delle decisioni extra-assembleari: un problema ancora aperto, cit., pp. 156 e 167 ss. L'A. fa anzi notare come lacategoria dell'inesistenza nel campo delle deliberazioni assembleari sia ancora un tema di assolutaattualità, stante la c.d. “provvisoria efficacia” delle deliberazioni nulle, che fa aumentare l'interesseper la ricerca di una tipologia di vizi tali da non consentire la produzione di tali effetti neppure invia provvisoria.

(99) R. Teti, Esistono ancora le delibere assembleari inesistenti?, in Notariato, 2009, p. 412;C. Angelici, Note in tema di procedimento assembleare, in Riv. Not., 2005, II, p. 706., il qualeefficacemente fa notare come il legislatore possa soltanto “modificare i confini” della categoriadell'inesistenza, senza poterla eliminare.

42

Capitolo II. Le problematiche centrali della disciplina.

Sommario: 2.1. Il problema di una tutela effettiva per la minoranza assembleare. -

2.2. La concreta tutela dei soci di minoranza: l'efficacia della tutela “reale”. -

2.2.1. La tutela reale nell'art. 2379 c.c. - 2.2.1.1. La “sanatoria” delle deliberazioni

nulle: tra crisi del diritto societario inderogabile ed incertezza della disciplina. -

2.2.1.2. Inaccettabilità del consolidarsi di una disciplina pattizia derogante “norme

inderogabili”. - 2.2.2. La tutela reale nell'art. 2377 c.c. - 2.2.3. Gli effetti del

giudicato. - 2.3. La concreta tutela dei soci di minoranza: l'efficacia della tutela

“obbligatoria”. - 2.4. Eventuali profili di incostituzionalità della normativa

riformata.

2.1. Si è già parlato diffusamente dell'emersione, vigente la precedente disciplina,

della categoria giurisprudenziale delle deliberazioni assembleari inesistenti; come

si è detto, questa “creazione giurisprudenziale” non è stata altro che una reazione

da parte dei giudici chiamati ad applicare la normativa previgente, alla rigida

determinazione, da parte del Legislatore del 1942, della categoria della nullità

come comprendente soltanto vizi c.d. “oggettuali” tassativamente elencati

(“impossibilità o illiceità dell'oggetto” delle delibere)1.

Per mezzo della categoria delle deliberazioni inesistenti, i giudicanti hanno quindi

ampliato in via di fatto lo spettro applicativo della maggior tutela offerta dalla

sanzione della nullità, a fattispecie che sembravano meritarla nonostante le norme

non disponessero in tal senso2.

(1) Si veda supra § 1.6.(2) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuova

disciplina, in Il nuovo diritto delle società - Liber amicorum, vol. II, Assemblea. Amministrazione.,Torino, 2006, p. 176 ss.

43

La scelta del Legislatore della Riforma è andata dunque nel senso di espungere

dal sistema la suddetta categoria giurisprudenziale, a vantaggio della certezza

giuridica e della stabilità degli atti societari.

Occorre però chiedersi se un tale intervento, di per se sicuramente necessario, sia

stato effettuato tenendo in dovuto conto anche le esigenze di tutela dei soci,

lasciando comunque spazio ad essi per una effettiva protezione dei propri diritti, o

se viceversa le menzionate esigenze di certezza e stabilità abbiano finito con il

lasciare in ombra un aspetto fondamentale della disciplina, quale appunto quello

della tutela degli azionisti.

2.2. Parlando per prima della tutela c.d. “reale” contro le deliberazioni assembleari

viziate, si deve iniziare notando l'evidente disfavore del Legislatore del 2003 nei

confronti di questo tipo di sanzione, disfavore che va ricondotto sempre al più

ampio obbiettivo di favorire la maggior certezza possibile nei traffici

commerciali3. Chiaramente, più sono ampie le possibilità di eliminare una

deliberazione assembleare dopo che questa abbia prodotto anche solo parte dei

suoi effetti, maggiori saranno anche le incertezze dei rapporti commerciali che ne

derivano ed i timori tra gli operatori del settore.

Tale approccio del Legislatore si desume in maniera evidente ad una semplice

lettura degli artt. 2377 e seguenti del Codice.

La “realità” della sanzione viene di norma ricondotta alla eliminazione dell'atto

invalido e degli effetti da questo prodotti, nonché alla generale opponibilità della

sentenza che dichiara l'invalidità. Si vedrà tuttavia come oggi, in concreto, il

suddetto carattere della sanzione risulti fortemente indebolito, nell'ipotesi, sempre

(3) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, in Riv.Dir. Comm., 2004, I, p. 57.

44

meno frequente, in cui si riesca a giungere ad una “pronuncia di invalidità” della

deliberazione.

2.2.1. Considerando innanzitutto l'effettività della tutela “reale” offerta dall'art.

2379, che della sanzione “reale” dovrebbe costituire la maggiore espressione, si

deve per primo procedere con un breve approfondimento riguardo al profilo della

legittimazione attiva a far valere la nullità della deliberazione.

Va detto che, pur essendo stata in questo caso mantenuta l'estensione della

legittimazione a chiunque vi abbia interesse, compresa la rilevabilità d'ufficio

come tipicamente accade per la nullità negoziale, in realtà l'art. 2379 bis primo

comma opera una qualche restrizione della legittimazione medesima: nella

specifica ipotesi di nullità per mancanza di convocazione, non è legittimato a farla

valere colui che anche in un momento successivo ha manifestato il suo assenso

allo svolgimento dell'assemblea.

Ciò detto, questa seppur limitata restrizione della ancor ampia legittimazione

attiva non è l'unico strumento utilizzato dal Legislatore per ridurre le ipotesi in cui

effettivamente si possa giungere ad emettere una sentenza di nullità4.

Va citato in proposito l'art. 2379 ter, il quale impedisce in modo assoluto al

giudice di pronunciare la dichiarazione di nullità della deliberazione, ricorrendo

una delle ipotesi ivi previste; va poi ricordato come oggi, anche in tema di nullità,

sia possibile utilizzare quella particolare forma di “sanatoria” che è la sostituzione

della delibera viziata con altra assunta in modo conforme alla legge, essendo che

il quarto comma dell'art. 2379 fa esplicito rimando alla disciplina dell'art. 2377,

ottavo comma.

(4) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p. 59 ss.

45

Sempre nel senso di rendere più difficile il giungere alla declaratoria di nullità,

operano le “precisazioni” contenute nel terzo comma dell'art. 2379, in quanto,

riferendosi alle ipotesi di mancata verbalizzazione o convocazione, queste vanno a

specificare in modo certamente restrittivo il significato di “mancanza” per

entrambe le fattispecie.

Conclusivamente si richiama l'art. 2379 bis, del cui primo comma si è già parlato,

del quale si denota la rilevante portata in questo senso già alla semplice lettura

della rubrica, “sanatoria della nullità”.

Non da ultimo, in termini di importanza, si pone oggi il termine triennale entro il

quale può essere proposta l'azione di nullità, vincolante anche con riguardo al

rilievo d'ufficio del vizio: il termine è sicuramente da considerarsi “breve”, se si

pensa che la nullità sarebbe in via di principio da ritenersi rilevabile senza limiti

di tempo5. Di tale istituto, generalmente definito “sanatoria” delle deliberazioni

nulle, si tratterà approfonditamente nel paragrafo successivo.

Con riguardo al termine di decadenza triennale, va detto che ad esso sono in ogni

caso sottratte le delibere che “modificano l'oggetto sociale prevedendo attività

illecite o impossibili” (art. 2379, comma primo): queste, vista la particolare

gravità del vizio, restano impugnabili “senza limiti di tempo” per farne dichiarare

la nullità.

Come si è potuto notare, è senz'altro difficoltoso giungere oggi ad una sentenza

che vada a porre “nel nulla” una deliberazione assembleare, visti tutti gli

“ostacoli” che il Legislatore ha deliberatamente posto; inoltre, anche ove si

giungesse ad una tale pronuncia, la “realità” della sanzione è oggi sicuramente più

scarsa: il richiamo fatto dall'art. 2379 al comma settimo dell'art. 2377 infatti fa si

(5) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p. 60.

46

che anche in caso di declaratoria di nullità di una deliberazione, restino “salvi i

diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della

deliberazione viziata”; il che è una anomalia rispetto agli effetti tradizionali della

sanzione di nullità dei negozi giuridici6.

Tutto quanto rilevato non può che ripercuotersi con ogni evidenza sul “tasso di

effettività” della tutela predisposta dalle norme in esame.

2.2.1.1. Qualche maggiore approfondimento merita il problematico istituto

dell'art. 2379 c.c., che è stato precedentemente definito “sanatoria” delle

deliberazioni assembleari nulle: infatti il prevedere un termine massimo oltre il

quale anche un vizio che comporti la nullità dell'atto non può più essere fatto

valere, comporta conseguenze pesanti non solo in termini di minore effettività

della tutela reale ex art. 2379 c.c., ma fa anche sorgere notevoli preoccupazioni

con riguardo al rispetto della legalità nell'ordinamento societario.

La questione che si pone in relazione a tale previsione è quella di valutare se

ancora possa dirsi esistente un limite legale a ciò che i soci di maggioranza

possono decidere per mezzo delle deliberazioni dell'assemblea, in relazione

all'azione ed al funzionamento della società; limite la cui stabilità sia garantita

dall'inderogabilità delle norme che lo sanciscono.

Pare, ad un primo sguardo, potersi dare una risposta affermativa, constatando che

in effetti il legislatore ha respinto i più radicali orientamenti che volevano una

eliminazione completa delle norme inderogabili in materia di società, lasciando

invece sussistere norme (apparentemente) non derogabili dall'autonomia privata,

ricollegandovi un sistema di sanzioni in caso di loro violazione, ai sensi degli artt.

(6) Fatto salvo quanto previsto dall'art. 2652 c.c. circa gli effetti della trascrizione dei beniimmobili e mobili registrati.

47

2377 c.c. e seguenti7.

Tuttavia ad un esame più approfondito si nota con tutta evidenza come la suddetta

inderogabilità delle norme presti il fianco ad un espediente, che consente

all'assemblea di aggirarla senza alcuna conseguenza: ci si riferisce appunto al

menzionato art. 2379 c.c., il quale al comma primo prevede la citata “sanatoria”,

mentre al secondo comma estende l'applicazione di tale disposizione anche alla

rilevabilità d'ufficio della nullità medesima.

Il nome dato all'istituto in esame è giustificato dall'effetto che esso produce8:

l'impossibilità di far valere o dichiarare la nullità della deliberazione una volta

decorso il termine previsto. Si noti quindi che ciò altro non significa se non il

riconoscere implicitamente alle società la facoltà di continuare a vivere in una

conclamata condizione di illiceità9.

A questo punto, poiché le deliberazioni “nulle” per eccellenza sono quelle che

hanno un contenuto contrastante con norme inderogabili, è palese che la presunta

inderogabilità delle norme sopra menzionata sia destinata a rimanere soltanto

sulla carta: se in ipotesi tutta la compagine azionaria fosse d'accordo sull'inserire

una clausola statutaria in palese contrasto con una norma imperativa riguardante il

funzionamento della società, ciò potrebbe essere senz'altro fatto ed inoltre decorso

il tempo relativamente breve di tre anni, la clausola diverrebbe inattaccabile10.

Va peraltro evidenziato che tutti i successivi soci che eventualmente dovessero

(7) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. Soc., 2003, p. 34 ss.; E. Gliozzi, Le condonabilideroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, in Giur. Comm., 2004, I, p. 16.

(8) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, in Riv. Dir. Comm., 2005, I, p. 995; E.Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit., p. 16.

(9) G. Oppo, Spunti problematici sulla riforma della società per azioni, in Nuova giur. civ.,2003, II, p. 480.

(10) E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit.,p. 16 ss.

48

entrare a far parte della società, sarebbero vincolati dalla clausola illecita. E non

può infine dubitarsi che la volontà del Legislatore fosse quella di rendere

intoccabili tali deliberazioni, che altrimenti sarebbe priva di senso la precisazione

di cui allo stesso art. 2379 primo comma, per il quale “possono essere impugnate

senza limiti di tempo le deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo

attività illecite o impossibili”11.

Non sembra pertanto azzardato dire che il Legislatore, sia pure indirettamente e

forse non del tutto intenzionalmente, ha consentito di raggiungere lo scopo ultimo

promosso dai più radicali sostenitori della “analisi economica del diritto”, ossia

l'eliminazione di un perimetro di norme non derogabili dall'autonomia privata.

Deve rilevarsi che un tale risultato è evidentemente contrastante con i “principi

generali” del nostro ordinamento giuridico e solleva alcuni dubbi di legittimità

costituzionale della norma12.

Lasciando però momentaneamente da parte la valutazione circa l'opportunità di

una tale operazione all'insegna del più spinto “liberismo” nell'ambito del nostro

ordinamento, è senza dubbio criticabile il mezzo utilizzato per raggiungere lo

scopo. Non si è fatto ricorso ad una diretta previsione con la quale si prevede la

contrattazione tra privati come fonte della disciplina della società, ma piuttosto si

(11) Si noti ancora, come osservato da A. Pisani Massamormile, Statuti speciali di nullità edillegalità delle delibere assembleari di spa, in Giur. It., 2003, p. 402 ss., che, in deroga ai principigenerali in tema di nullità, la norma in questione faccia evidentemente ritenere che gli effetti delladeliberazione, anche se nulla, si producano immediatamente nel momento in cui la stessa viene adesistenza; è evidente infatti che l'intenzione del Legislatore fosse in questo senso.Ciò comporta quindi rilevanti conseguenze anche in relazione alla natura, normalmente“dichiarativa”, della sentenza che pronuncia la nullità: nel vigore della nuova normativa questasentenza, in materia di delibere assembleari invalide, non potrà che essere “costitutiva”, dovendoandare (tendenzialmente) ad eliminare gli effetti che l' “efficacia interinale” della deliberazionenulla ha consentito di produrre. In questo senso si esprime P. Schelesinger, Appunti in tema diinvalidità delle deliberazioni assembleari delle società azionarie dopo la riforma del 2003 , in Riv.Dir. Civ., 2011, pp. 604 e 605.

(12) Si veda infra § 2.4.

49

è dato vita ad sistema che pur prevedendo norme imperative, consente che la loro

violazione venga condonata decorso un certo tempo13.

Il fatto che la società abbia la possibilità di muoversi in assoluta libertà, potendo

giungere addirittura ad adottare decisioni contrarie a norme imperative, senza

sostanzialmente dover temere alcunché, è senz'altro fonte di incertezza in

relazione alla disciplina applicabile all'azione societaria: tale incertezza non potrà

che riflettersi in un maggior sospetto da parte di coloro che vogliono rapportarsi

con la società od in ipotesi divenirne soci, dal momento che costoro non potranno

fare affidamento su di un quadro normativo certo e stabile, pur in presenza di

norme tendenzialmente imperative: il funzionamento della società potrebbe essere

infatti persino stravolto, con una serie di deliberazioni assembleari volte a creare

un “sistema autonomo” per la singola società14.

Si denota qui un paradosso: una disciplina che è nata ed è pensata allo scopo

precipuo di rendere il più possibile efficiente la “macchina” società, finisce con il

rivelarsi foriera di notevole incertezza sotto altri aspetti di non secondaria

importanza.

Per concludere, si deve giustamente notare come tutti questi effetti possono essere

evitati nel caso venga esercitata l'azione di nullità, da parte di qualunque

(13) E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit.,p. 16 ss., il quale definisce un tale meccanismo ispirato da una “ideologia del condono”tipicamente italiana. Nello stesso senso, M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p.1000.

(14) E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit.,p. 16 ss. Il problema qui esaminato si mostra in tutta la sua evidenza nell'esempio portatodall'Autore: ove una deliberazione inserisse una clausola statutaria che esclude il diritto d'opzioneper ogni successivo aumento di capitale, decorsi tre anni dall'iscrizione della delibera stessa, ogniaumento di capitale potrebbe essere eseguito senza la concessione di alcun diritto d'opzione e nelpieno rispetto dello statuto; con ciò escludendo la possibilità di qualsivoglia impugnativa. Ancora,per clausola statutaria si potrebbero prevedere amministratori irrevocabili e del tutto irresponsabilidel loro operato.

50

interessato (normalmente i soci di minoranza oppure i creditori sociali).

Tuttavia non sembra impensabile l'ipotesi che i soci di minoranza vengano

“convinti” dalla maggioranza a non agire in giudizio, approfittando della loro

situazione di debolezza: e decorsi i tre anni previsti dall'art. 2379, ove fosse

cessata la “violenza”, a tali soci di minoranza non resterebbe più alcuna possibilità

di ottenere la cancellazione delle delibera viziata, stando al testo della norma.

Per quanto riguarda invece la possibile iniziativa da parte di un creditore sociale, è

evidente come difficilmente un piccolo creditore, soggetto dunque

particolarmente debole, possa avere la capacità innanzitutto di informarsi

adeguatamente sulla “vita interna” della società; secondariamente, altrettanto

difficilmente pare che questi possa avere la forza di opporsi al volere del proprio

debitore, essendo quest'ultimo in posizione di maggior forza economica e in non

pochi casi capace di portarlo fino al fallimento.

Infine, il problema non sembra invece porsi in relazione ai creditori più forti, i

quali di norma hanno la possibilità di influire essi stessi nelle decisioni del proprio

debitore, senza esserne succubi.

Evidentemente dunque, dalla disciplina riformata, escono ancora una volta

indeboliti i soggetti già “geneticamente” più fragili all'interno della società e,

primi tra tutti, i componenti della minoranza assembleare.

2.2.1.2. La possibilità che l'autonomia privata vada a creare una disciplina pattizia

per la disciplina dell'esercizio dell'attività economica della società, derogatoria di

“norme inderogabili”, fa sorgere anche un'altra serie di problematiche.

Oltre ai sopracitati problemi di legalità e di tutela dei soggetti deboli della società,

si pone la questione della scarsa coerenza interna della disciplina riguardante le

51

società di capitali15: dal momento che alcune norme dispongono espressamente la

nullità di specifiche clausole statutarie, ci si deve chiedere quale possa essere la

sorte delle clausole medesime, ove venissero inserite nello statuto per mezzo di

una apposita deliberazione assembleare e non ne venisse chiesto ed ottenuto

l'annullamento entro il triennio previsto.

Si porta ad esempio l'art. 2265 c.c., che dispone la nullità del patto leonino, o l'art.

2437 c.c., il quale non consente di rendere, per statuto, il recesso del socio più

gravoso o addirittura escluderlo.

Pare difficile ritenere implicitamente applicabile, anche in questi casi tassativi, il

regime della tradizionale nullità contrattuale con conseguente possibilità di far

valere il vizio senza limiti di tempo, in quanto la già ampiamente provata

“specialità” dell'ordinamento societario non sembra, almeno a prima vista,

lasciare spazio per un tale soluzione interpretativa.

Allo stesso tempo, il fatto di sottoporre anche queste ipotesi al generale regime

della impugnabilità ex art. 2379 c.c., fa sorgere intollerabili incongruenze, dal

momento che pur ove la legge dispone espressamente la nullità, tali clausole

potrebbero consolidarsi e divenire intangibili nell'arco di soli tre anni. D'altra

parte pare difficile individuare soluzioni alternative, stando al testo delle norme

vigenti in ambito societario16.

Si può quindi concludere dicendo che il Legislatore ha sicuramente sottostimato le

ricadute che avrebbe potuto avere la previsione di un termine massimo anche per

far valere la nullità delle deliberazioni.

Si osservi, per finire, come il ritenere “sanabile” l'illiceità di una clausola inserita

(15) E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit.,p. 16 ss.

(16) Fermo quanto si dirà nei Capitoli IV e V, ricercando una soluzione al problema sulla basedei “principi generali dell'ordinamento”.

52

per mezzo di deliberazione assembleare, porti facilmente a pensare egualmente

sanabile la medesima clausola nel caso essa venga inserita nello statuto ab

origine17; si apre quindi in questo modo la strada alle società di capitali per poter

creare una propria speciale disciplina, contrastante con quella legale, ma ciò

nonostante sostitutiva in concreto della stessa.

Una situazione di questo genere indubbiamente mal si sposa con la logica

“efficientistica” che si ritiene caratterizzare la Riforma del diritto societario.

2.2.2. La tutela “reale” offerta dall'art. 2377 c.c. può esser considerata ancor più

difficile da conseguire rispetto a quella di cui all'art. 2379.

Iniziando anche in questo caso con l'approfondire il tema della legittimazione

attiva a far valere l'annullabilità della deliberazione, si deve aver riguardo ai

commi secondo e terzo: come in passato, ai sensi del secondo comma possono

chiedere l'annullamento l'organo amministrativo e quello di controllo18, nonché i

soci assenti, dissenzienti ed ora anche gli astenuti; tuttavia il vero fulcro delle

novità apportate in materia di legittimazione attiva sta nel terzo comma, il quale

limita tale legittimazione dei soci soltanto a quelli che detengono, “anche

congiuntamente”, il cinque per cento del capitale sociale nelle società “chiuse”, o

l'uno per mille dello stesso nelle società “aperte”19. Le suddette percentuali

(17) E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit.,p. 16 ss.

(18) Si veda A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. Lanuova disciplina, cit., p. 184, nel senso di ritenere il termine “amministratori” utilizzato nell'art.2377 riferito all'organo amministrativo e non ai singoli amministratori disgiuntamente. In sensocontrario, F. Di Girolamo, Sulla legittimazione ad impugnare le delibere assembleari di s.p.a. nonconformi: ratio e <<verità>> sugli artt. 2377 c.c. e 127bis T.U.F. , in Nuove leggi civ., 2014, I, p.209 ss.

(19) G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, in La società per azioni oggi, Milano, 2007, p. 621, citando l'Angelici, fa notare comequesti requisiti di capitale non facciano altro che formalizzare la già preesistente (in via di fatto)

53

devono calcolarsi tenendo conto dell'intero capitale sociale, senza la possibilità di

operare alcuno scomputo in relazione alla quota costituita da determinate

categorie di azioni senza diritto di voto o con diritto di voto limitato20.

Questa legittimazione già di per se ristretta, viene ad essere ancor più limitata se si

considera che i soci, per poter chiedere l'annullamento, non solo debbono

possedere la percentuale di capitale sociale richiesta nel momento in cui

propongono l'azione, ma devono detenerla fino al momento in cui si giunge a

sentenza; altrimenti il giudice dovrà rigettare la “domanda di invalidità” e la tutela

non potrà che spostarsi sul piano “obbligatorio”, ai sensi dell'art. 2378, comma

secondo21: considerata però la durata media dei giudizi civili, si comprende come

il richiedere una “immobilizzazione” del proprio capitale per svariati anni

concorre a scoraggiare non poco la proposizione di una tale domanda, soprattutto

con riguardo ai soci di minoranza, i quali spesso detengono le proprie azioni per

periodi molto brevi, rispetto ai c.d. “soci imprenditori” appartenenti al gruppo di

controllo. Gli stessi investitori “istituzionali”, i quali parrebbero essere i soggetti

con le maggiori possibilità di accedere a questa forma di tutela viste le notevoli

quantità di azioni che hanno la capacità di acquistare, sono di certo meno

incentivati a proporre un'azione volta all'ottenimento di questa tutela “reale”, in

quanto per realizzare lo scopo sarebbero costretti a limitare la disponibilità delle

proprie azioni per periodi di tempo molto prolungati.

distinzione tra “soci-imprenditori” e “soci-investitori”. A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delledeliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuova disciplina, cit., p. 180, sottolinea invece la“degradazione” del diritto all'impugnativa, che da diritto del socio diventa oggi un diritto dellaminoranza qualificata; in tal senso anche A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibereassembleari. Stabilità ed effetti, in Riv. Dir. Comm., 2004, I, p. 55 ss. e R. Lener, Invalidità delledelibere assembleari di società per azioni, in Riv. Dir. Comm., 2004, I, p. 79 ss.

(20) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 181.

(21) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.59.

54

Infine, essendo che le percentuali di capitale richieste dal terzo comma sono

riferite soltanto alle azioni “aventi diritto di voto” (nell'assemblea in cui la

delibera è stata assunta), risultano essere del tutto esclusi da tale tutela i soci senza

diritto di voto e i titolari degli strumenti di cui all'ultimo comma dell'art. 2346 c.c.,

mostrandosi così come il Legislatore abbia dato per scontato il fatto che tali

soggetti non abbiano alcun interesse a vigilare sulla gestione della società.

Al di la della ristretta legittimazione attiva, un ulteriore ostacolo non indifferente

alla possibilità di ottenere l'annullamento della deliberazione è la previsione del

termine di novanta giorni entro il quale deve essere proposta la domanda, anche se

in questo caso la disciplina non muta rispetto a quella pre-riforma, la quale

utilizzava l'espressione “tre mesi”.

Vanno da ultimo considerati quelli che sono stati autorevolmente definiti

“meccanismi di conservazione”22: anzitutto la possibilità offerta dal settimo

comma dell'art. 2377, il quale impedisce al giudice di dichiarare l'annullamento se

la delibera è sostituita con altra “presa in conformità della legge e dello statuto”;

successivamente, il citato il comma quarto, ove il Legislatore prevede tutta una

serie di precisazioni per indicare al giudice quando “la deliberazione non può

essere annullata”.

Anche in questo caso può dunque concludersi che, dopo la Riforma, l'effettività

della tutela “reale” ha subito un sicuro indebolimento e la stessa “realità” è stata

messa in crisi, a vantaggio di una (presunta) maggior efficienza dell'azione

societaria23.

(22) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.60.

(23) Si veda infra Capitolo III.

55

2.2.3. Nonostante tutti gli “ostacoli” normativi testé citati, può chiaramente

accadere che il giudice si trovi a dover dichiarare la nullità o l'annullamento di

una deliberazione assembleare; verrà in questo caso applicata la sanzione c.d.

“reale”, di cui si esamineranno qui brevemente gli effetti.

Sia nel caso di nullità che in quello dell'annullamento debbono essere applicati il

settimo ed ottavo comma dell'art. 2377, richiamati espressamente dall'art. 237924.

Per primo deve essere quindi rilevato come la sentenza produca effetti nei

confronti di tutti i soci, in deroga all'art. 2909 c.c. che prevede l'efficacia solo

inter partes del giudicato: ciò è sicuramente necessario, essendo che tanto la

deliberazione regolarmente assunta vincola tutti i soci, anche se dissenzienti,

quanto la sentenza che la elimina deve vincolare tutti i medesimi.

Inoltre, come già anticipato, ai sensi del comma settimo, “in ogni caso sono salvi i

diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della

deliberazione”, non comportando alcuna differenza che la delibera eseguita fosse

nulla o annullabile; ed è soprattutto a questa previsione che si fa riferimento

quando si parla della “crisi di realità” della sanzione e della specialità della stessa

rispetto alla analoga disciplina in materia contrattuale.

Si badi, in particolare, come l'amplissima tutela della stabilità degli effetti della

deliberazione invalida, offerta dal settimo comma, ultima disposizione, dell'art.

2377 c.c., impedisca in sostanza di ottenere, con l'esecuzione della sentenza, il

ripristino della situazione quo ante; con ciò, l'esecuzione della sentenza medesima

comporterà conseguenze soltanto ex nunc e nel rispetto della posizione dei terzi

che hanno fatto affidamento sulla deliberazione.

Stante quindi la sostanziale impossibilità, salvo rare ipotesi, di travolgere gli

(24) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.69 ss.

56

effetti prodotti dalla deliberazione nulla od annullata, appare evidente che la

presunta “realità” di questa sanzione esce fortemente ridimensionata dalla

Riforma del 2003. Tutto ciò si traduce in una ulteriore limitazione della sua

concreta effettività, anche nelle ipotesi in cui essa viene ad essere applicata.

2.3. La c.d. “sanzione obbligatoria” è senza dubbio una delle novità più rilevanti

tra quelle introdotte dalla Novella del 2003: in estrema sintesi tale tutela consente

a chi riesca ad esperire vittoriosamente l'impugnazione della delibera, di ottenere

il risarcimento del danno subito a causa della deliberazione viziata.

Detto ciò, si devono però esaminare i numerosi ostacoli che l'azionista incontra

nel tentativo di ottenere il succitato risarcimento25; all'aumentare di tali “ostacoli”,

diminuirà proporzionalmente l'effettività della tutela, divenendo più complesso

ottenere una pronuncia giudiziale favorevole.

Questa tipologia di tutela è prevista dall'art. 2377, al comma quarto, nel caso in

cui i soci che intendono proporre l'impugnazione non raggiungano i requisiti

minimi di capitale richiesti dal comma terzo del medesimo articolo, nonché per il

caso in cui l'attore appartenga ad una categoria di azionisti non aventi diritto di

voto, quantomeno con riguardo all'assemblea che ha assunto la deliberazione

impugnata; in questi casi, il riconoscimento giudiziale dell'annullabilità della

delibera porterà soltanto al risarcimento del danno e non alla eliminazione della

stessa26.

(25) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario , in Riv. Soc.,2004, p. 885 ss.; A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. Lanuova disciplina, cit., p. 189.

(26) Si parla in questi casi di “sostituzione” della tutela “demolitoria” con quella “risarcitoria”;A. Zorzi – L. Enriques, Spunti in tema di rimedi risarcitori contro l'invalidità delle deliberazioniassembleari, in Riv. Dir. Comm., 2006, I, p. 3 ss. Il meccanismo di tutela dei soci non legittimati achiedere l'annullamento, viene definito dagli Autori una applicazione della c.d. liability rule.

57

In secondo luogo, la medesima tutela risarcitoria è prevista dall'art. 2379 ter,

comma terzo, nel caso in cui ci si trovi in presenza di una deliberazione di

aumento o riduzione del capitale, o di emissione di obbligazioni, ipotesi previste

ai primi due commi dello stesso articolo, e si siano verificate le condizioni che

non consentono più di proporre la domanda o pronunciare l'invalidità27; in tutti

questi casi la tutela “obbligatoria” è l'unica che viene offerta all'azionista.

Iniziando dunque a scendere nel dettaglio, va chiarito in cosa consiste il danno di

cui la legge prefigura il risarcimento, tenendo presenti le divisioni che si sono

manifestate in Dottrina sul punto28.

Deve innanzitutto essere determinato se il suddetto danno risarcibile sia soltanto il

“danno diretto”, ossia quello subito, appunto direttamente, dal patrimonio del

socio a cagione della delibera viziata, oppure se risulti risarcibile anche il “danno

indiretto”, quindi anche quello provocato al patrimonio sociale dalla deliberazione

medesima e che indirettamente si ripercuote sul socio agente in giudizio. Inoltre si

deve determinare se la tutela abbia un carattere “risarcitorio” o piuttosto

“indennitario”29.

Tali questioni non sono di poco conto e non possono essere trattate senza prima

passare in esame un ulteriore problema inerente alla “effettività” della tutela

obbligatoria, ossia quello della necessità di dimostrare il danno subito, di cui è

onerato l'agente30.

(27) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.65.

(28) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 189.

(29) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 891ss.

(30) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 886;A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuova disciplina,cit., p. 190 ss.

58

Le difficoltà che il socio incontra nel dover dare prova del danno e della sua

riconducibilità, in rapporto di causa-effetto, alla deliberazione viziata, risiedono

sostanzialmente nel brevissimo tempo entro il quale il diritto al risarcimento può

esser fatto valere, soltanto novanta giorni; è alta infatti la probabilità che entro tale

termine non si sia ancora prodotto, né direttamente né indirettamente, un

pregiudizio per il socio31. Non si può inoltre fare a meno di notare che con

riguardo a determinati tipi di deliberazioni assembleari risulta sostanzialmente

impossibile per l'azionista dimostrare di aver subito, in via diretta o meno, un

pregiudizio (un tipico esempio è quello della delibera viziata che trasferisce

altrove la sede sociale)32.

Si pensi ancora, sempre con riguardo alla prova del danno che deve essere fornita

dal socio, alle difficoltà che si ricollegano alla dimostrazione del “nesso causale”

che lega il pregiudizio, sempre che si sia già verificato nel termine sopra citato,

alla delibera viziata: danno che, più precisamente, deve derivare dalla non

conformità della stessa alla legge o allo statuto33.

Alla luce di queste difficoltà pare comunque non opportuno ammettere

un'estensione della risarcibilità al danno indiretto al semplice fine di estendere

quanto più possibile la possibilità di tutela per l'azionista34; e ciò per la semplice

(31) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 191.

(32) G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 623; A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo dirittosocietario, cit., p. 885.

(33) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 191.; A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilitàed effetti, cit., p. 67.

(34) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 191 ss.; ciò tuttavia oggi avviene in Germania, come evidenziato da G.B.Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria, cit., p.622.

59

considerazione che ammettere la risarcibilità di tale danno implicherebbe, in caso

di accoglimento della domanda, un aggravamento ancora maggiore del danno

subito dal patrimonio sociale35. Quanto appena affermato è palese se si pensa che,

spettando la legittimazione passiva indubbiamente alla società36, essa si

troverebbe a dover risarcire il socio vittorioso per il danno patito dal suo

medesimo patrimonio sociale, con ulteriore danno per tutti gli altri soci, compresi

quelli di minoranza che eventualmente non avessero agito per ottenere il

risarcimento.

Con riguardo al secondo dei problemi esposti, ossia quello della configurabilità

della tutela in termini indennitari o risarcitori, va detto che la prima soluzione

consentirebbe di rendere più agevole l'ottenimento del ristoro per l'impugnante,

non richiedendo, al fine di ottenere l'indennizzo, che il danno sia stato provocato

con colpa o dolo37; inoltre i fautori di questo orientamento ritengono spiegabile in

questo modo l'attribuzione della “legittimazione passiva” alla società, che

altrimenti potrebbe apparire illogica38.

Nonostante queste considerazioni, soprattutto per esigenze di coerenza con la

lettera della legge, sembra da preferirsi la ricostruzione che vuole la tutela a

(35) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p. 67 ss.(36) A. Zorzi – L. Enriques, Spunti in tema di rimedi risarcitori contro l'invalidità delle

deliberazioni assembleari, cit., pp. 17 e 22 ss., definiscono una “anomalia” questa legittimazione passiva per l'azione risarcitoria, attribuita dal Legislatore alla società.

(37) A. Stagno d'Alcontres, L'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea di s.p.a. La nuovadisciplina, cit., p. 193. A favore della concezione “indennitaria” di questa tutela si esprime A.Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 892, il qualepersegue il fine di potenziare il più possibile la tutela offerta ai soci di minoranza, che risultaaltrimenti molto indebolita dalla Riforma del 2003.

(38) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 892ss.; seguendo questa ricostruzione, l'A. definisce inoltre la responsabilità della società unaresponsabilità semplicemente “ex lege”, né contrattuale né extracontrattuale, risolvendo così inpartenza il problema che riguarda la presenza o meno dell'elemento soggettivo.

60

carattere “risarcitorio”; l'elemento testuale pare infatti difficilmente discutibile.

Per completezza va detto che i soci lesi dalla delibera viziata si ritiene abbiano pur

sempre la possibilità di accedere ad una tutela risarcitoria ulteriore a quella

dell'art. 2377, agendo rispettivamente ai sensi degli artt. 2395 e 2407 c.c. nei

confronti degli amministratori e dei sindaci, sui quali grava un dovere di attivarsi

per impugnare le deliberazioni viziate39.

Si parla però in questo caso di una tutela diversa da quella che è oggetto di questo

studio e che non incide sulla effettività di quest'ultima.

Traendo dunque le conclusioni sul punto, sembra potersi condividere l'autorevole

opinione che definisce “estremamente mancante sul piano dell'effettività” la c.d.

“nuova tutela risarcitoria”40.

2.4. Alcune riflessioni conclusive sulla effettività della tutela offerta ai soci di

minoranza dopo la Riforma Vietti, impongono di soffermarsi sulla questione della

illegittimità costituzionale di alcune norme riformate, che è stata adombrata da

alcuni illustri autori41.

Il primo dubbio di legittimità costituzionale riguarda l'istituto della c.d. “sanatoria

di fatto” delle deliberazioni nulle42: è stato evidenziato infatti che attraverso

(39) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 894,come, tra gli altri, F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Torino, 2012, p. 285 ss., ritengonosussistere infatti un vero e proprio “potere-dovere” di impugnare le delibere viziate in capoall'organo amministrativo e di controllo. In questo senso anche F. Di Girolamo, Sullalegittimazione ad impugnare le delibere assembleari di s.p.a. non conformi: ratio e <<verità>>sugli artt. 2377 c.c. e 127bis T.U.F., cit., p. 209 ss.

(40) G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 624.

(41) G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 611 ss.; E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovodiritto societario, cit., p. 16 ss.; M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 999; A.Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 889 ss.

(42) E. Gliozzi, Le condonabili deroghe a norme inderogabili nel nuovo diritto societario, cit.,

61

questo meccanismo, la maggioranza viene ad essere in possesso di uno strumento

tale da consentirgli di introdurre impunemente clausole statutarie in violazione di

norme imperative43. Alla luce di quest'ultima considerazione, si è denunciato il

contrasto con almeno due norme costituzionali.

Innanzitutto, appare chiara una violazione del principio di eguaglianza, di cui

all'art. 3 della Costituzione: come ogni normativa che si ispira alla c.d. “logica del

condono” infatti, anche quella risultante dalla Riforma del 2003 porta

inevitabilmente a determinare una diversità di trattamento tra coloro che

rettamente hanno rispettato la legge e coloro che invece hanno agito in maniera

illecita, con conseguente ingiusto vantaggio a favore di quest'ultimi. E d'altra

parte non pare possibile porre in dubbio l'irragionevolezza di una tale disparità di

trattamento. Se inoltre si considera che una volta introdotta e “sanata” la clausola

illecita, la società avrà la possibilità di dare esecuzione alla clausola oggetto di

sanatoria, violando norme imperative ma ciò nonostante rimanendo immune da

sanzione, l'incostituzionalità dell'istituto appare ancora più palese.

Secondariamente l'illegittimità di tale “sanatoria” sembra trasparire alla luce del

disposto dell'art. 41, comma secondo, della Costituzione; dal momento in cui tale

norma dispone che l'iniziativa economica privata, per quanto libera, “non può

svolgersi in contrasto con l'utilità sociale”, paiono aversi argomenti sufficienti per

ritenere sussistente una violazione della stessa quando, come nel caso dell'istituto

in esame, si consente impunemente di non rispettare norme inderogabili di legge;

è comune sentire, infatti, che l'osservanza della legge sia di utilità sociale.

Va peraltro da subito anticipato come, in esito a questo studio, sarà prospettata una

soluzione interpretativa che consente di evitare problemi di costituzionalità in

p. p. 16 ss.(43) Si veda infra Capitolo IV.

62

questo frangente, quanto meno nel senso di non far gravare i medesimi sugli

azionisti44.

Il secondo dubbio di legittimità costituzionale riguarda invece l'art. 2377 c.c.,

comma terzo, nel momento in cui incide sul diritto all'impugnativa della

deliberazione assembleare, tramutandolo da diritto del socio in diritto della

minoranza45. La violazione in questo caso sembrerebbe riguardare per primo l'art.

42 della Costituzione, posto a tutela della proprietà, dal momento che la succitata

limitazione della legittimazione attiva comporta un pregiudizio all'integrità

patrimoniale della quota di partecipazione46, la cui compensazione per mezzo

della tutela risarcitoria è, all'atto pratico, molto ardua da realizzare47.

Ma anche in questo caso è stato evidenziato un probabile contrasto con gli artt. 3 e

24 della Costituzione48. Gli articoli da ultimi citati infatti sembrerebbero violati,

da un lato, se si considera che, a fronte dell'esclusione della legittimazione attiva

per i soci di minoranza al di sotto del quorum, non sono previsti meccanismi

“compensativi” adeguati (non essendo considerabile tale, come notato, la nuova

tutela “risarcitoria”)49, mentre dall'altro, per un difetto di ragionevolezza nella

discriminazione rispetto ai soci con più elevate partecipazioni.

In particolare la mancanza di ragionevolezza si ravvisa se si tiene conto che tale

limitazione non può dirsi ispirata ad interessi superiori, per semplice il fatto che

essa può essere ben derogata dallo statuto, ai sensi dello stesso art. 2377, terzo

(44) Si veda infra Capitolo V, § 5.4.(45) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 889

ss.; G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 621 ss.

(46) È evidente infatti un danno arrecato al valore della quota di minoranza, che conteràsempre meno nelle decisioni e nei “meccanismi interni” della società.

(47) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 886.(48) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 889.(49) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a margine

della riforma del diritto societario, in Riv. Soc., 2003, p. 6 ss.

63

comma; per di più, come già si è avuto modo di notare, l'assunto per il quale i soci

con una partecipazione ridotta al capitale di rischio siano per ciò stesso da

considerarsi non interessati a vigilare ed incidere in modo attivo sulla corretta

gestione sociale, pare essere arbitraria e priva di giustificazione50.

Per finire, riguardo a tale nuova disposizione, non si può certo ritenere priva di

fondamento quell'osservazione che ha posto in luce la contraddittorietà di una

normativa che, per un verso, consente agli azionisti di minoranza, per piccoli che

siano, di influire sulle deliberazioni essendogli riconosciuto diritto di voto, ma di

contro impedisce agli stessi, all'atto pratico, di contestare la legittimità delle

medesime, nonostante abbiano partecipato al procedimento che le ha originate.

Ad un attento vaglio di questi aspetti rilevantissimi dell'attuale disciplina, si può

concludere ritenendo tutt'altro che infondati, almeno in parte, i sopra citati dubbi

di legittimità costituzionale51.

(50) Alcune soluzioni per consentire di superare tale restrizione della legittimazione attiva erestituire quindi una tutela effettiva a tutti gli azionisti, saranno proposte nel Capitolo V.

(51) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 888ss.

64

Capitolo III: Il fondamento della disciplina riformata.

Sommario: 3.1. La ratio della Riforma. - 3.2. Ricognizione dei principi ispiratori.

- 3.3. Considerazioni di “analisi economica del diritto” in particolare. - 3.4. Dubbi

circa la concreta “convenienza” della disciplina post riforma.

3.1. Si è già parlato diffusamente delle ragioni che hanno spinto il Legislatore a

procedere con una riforma profonda del diritto societario; in particolare con

riguardo alla materia dell'invalidità delle deliberazioni assembleari, si è detto di

come, in ultima istanza, lo scopo della recente Riforma fosse quello di garantire in

maniera decisa l'efficienza dell'azione societaria, anche a scapito di altri interessi

di notevole importanza.

L'obbiettivo infatti è stato perseguito non senza importanti sacrifici, soprattutto in

termini di minore tutela delle minoranze societarie, con tutti i problemi e dubbi

che ne sono derivati1.

È stato peraltro correttamente osservato che tale intervento si pone nell'ambito di

un più ampio “cambiamento di prospettiva”, che ha coinvolto il Diritto societario

nel suo complesso. Il Legislatore ha infatti tratto evidentemente ispirazione da

principi e modelli legislativi sviluppatisi in altri Stati, i quali sono caratterizzati da

contesti economici ed imprenditoriali assai diversi da quello italiano, ma che

(1) Non si può tuttavia sottacere che il medesimo risultato (promuovere l'efficienzadell'impresa sociale) si sarebbe probabilmente potuto raggiungere (e forse con risultati anchemigliori in un ottica complessiva, visti i notevolissimi problemi che sono nati dalla Riforma del2003), adottando un approccio completamente opposto, ossia cercando di favorire lapartecipazione attiva di tutti i soci alla gestione sociale. Il maggior ricambio al comandodell'impresa che ne sarebbe derivato, avrebbe con ogni probabilità favorito una gestione efficientedella medesima. In questi termini si esprime, riprendendo il pensiero di G. Oppo, G.Scognamiglio, Tutela del socio e ragioni dell'impresa nel pensiero di Giorgio Oppo, in Bancaborsa tit. cred., 2012, I, p. 5.

65

stanno progressivamente influenzando anche il nostro ordinamento.

Resta allora da valutare fino a che punto i citati modelli siano stati correttamente

adattati alla nostra realtà economica e con quali risultati2.

Ci si appresta dunque ad una analisi delle considerazioni più profonde che stanno

“dietro” alle norme della Riforma Vietti. Alla luce di tali considerazioni, che

hanno inciso profondamente sulla rideterminazione della normativa in questa

materia, si potrà poi valutare fino a che punto tali nuove norme siano

concretamente funzionali al perseguimento scopo prefissato dalla legge delega.

Una ulteriore osservazione preliminare però si impone. Appare innegabile che

negli ultimi decenni ci si stia avviando sempre più rapidamente verso una

“ricommercializzazione del diritto commerciale”3. Con ciò si intende quella

tendenza che porta il diritto commerciale sempre più ad allontanarsi dal diritto

privato comune, divenendo (o meglio, ritornando) una sorta di “diritto privato

dell'impresa”, similmente alla situazione che si aveva prima della discussa

“unificazione” realizzata con il Codice Civile del 1942; anche questa circostanza è

evidentemente frutto del mutamento dei principi ispiratori più sopra evidenziato,

coi quali si è tentato di mutare la rotta seguita ormai da lungo tempo dalla

giurisprudenza.

3.2. Si è ricordato di come il Legislatore della Riforma abbia tratto ispirazione,

nel redigere la nuova normativa, da modelli che si sono sviluppati ed affermati al

di fuori dei nostri confini nazionali. Non è tuttavia cosa semplice traslare da uno

Stato all'altro tali modelli e principi. Di certo la legge può introdurre norme

(2) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a margine della riforma del diritto societario, in Riv. Soc., 2003, p. 1 ss.

(3) G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, in La società per azioni oggi, Milano, 2007, p. 626.

66

nuove, ma il diritto c.d. “vivente”, quello quotidianamente applicato nelle aule dei

tribunali e fatto di prassi ed orientamenti consolidati, difficilmente “digerirà”

notevoli novità di questo genere, ove siano in palese contrasto con la tradizione

giuridica nazionale.

Quanto osservato si ricollega a quella che viene denominata “inerzia degli

ordinamenti giuridici”, i quali esattamente come corpi dotati di grande massa, mal

sopportano cambi di direzione repentini4; e proprio questi sono i motivi per cui

talvolta anche le riforme più radicali non riescono ad ottenere immediatamente

(ma talvolta neppure a distanza di tempo) i risultati sperati.

Fatte queste ulteriori premesse, si vuole operare ora una breve ricognizione dei

principi ispiratori predominanti della disciplina riformata.

Se ne possono individuare in particolare tre. Tutti questi principi a loro volta sono

ricollegabili ad alcune considerazioni di “analisi economica del diritto”, delle

quali si darà conto successivamente; ci si limiterà pertanto in questa sede a

tracciare tali linee direttrici della Riforma e gli articoli che ne sono espressione,

rimandando alle prossime pagine per alcune riflessioni ulteriori.

La prima direttrice della Riforma può essere individuata nella volontà di fare

dell'autonomia privata lo strumento principe attraverso il quale dettare le regole

riguardanti le società, attribuendole addirittura preminenza rispetto alla stessa

fonte legislativa5.

(4) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. Soc., 2003, p. 34.

(5) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 34 ss.; G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercatoe scetticismo delle regole: appunti a margine della riforma del diritto societario , cit., p. 3 ss.; A.Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, in Riv. Soc., 2004, p.891 ss., il quale parla di “vigorosa accentuazione, su tutti i piani, della libertà diautodeterminazione dell'impresa-società, con limitata attenzione, invece, per i pur necessaricontrappesi”.

67

Anche prescindendo dal fatto, già peraltro criticato, che attraverso il meccanismo

di “sanatoria” delle delibere la maggioranza assembleare ha la possibilità di

introdurre pressoché qualsiasi disposizione, pure, in ipotesi, “derogando a norme

inderogabili”, l'autonomia delle parti resta molto ampia anche ove si manifesti

entro i limiti della legalità6. Si possono citare in proposito le disposizioni degli

artt. 2346 (ultimo comma), 2348 (secondo comma), 2350 (secondo comma) e

2351, per quanto riguarda la composizione della struttura finanziaria della società;

l'art. 2355-bis relativamente alla disciplina della circolazione delle azioni; l'art.

2364-bis in materia di corporate governance; infine il significativo art. 2447-bis,

che oltre a costituire un rafforzamento dell'autonomia privata, rappresenta un

ulteriore segno del superamento del c.d. tabù della “responsabilità limitata”.

Il secondo principio-guida della vigente normativa pare essere quello, già più

volte emerso e menzionato, che si esprime nella volontà di rafforzare ancor di più

la maggioranza “imprenditoriale” della società, consentendogli di vincolare con le

proprie decisioni tutta la compagine societaria, al fine di garantire una gestione

più celere e stabile, anche a detrimento della legalità dell'azione sociale7. Tale

principio emerge trasversalmente in molte norme del diritto societario; si possono

richiamare, tra gli altri, oltre agli artt. 2377 e seguenti, già largamente esaminati,

gli artt. 2364 (quinto comma) e 2380-bis, che accentrano il potere amministrativo

nelle mani degli amministratori, evidentemente espressione della maggioranza;

nello stesso senso di rafforzare i poteri dell'organo amministrativo, si pongono

anche gli artt. 2410 e 2443, in materia di emissione di obbligazioni ed aumento di

capitale.

(6) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a marginedella riforma del diritto societario, cit., p. 3 ss.

(7) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a marginedella riforma del diritto societario, cit., p. 5.

68

In correlazione col principio da ultimo citato, si pone infine la terza direttrice,

ossia quella che porta a riservare ai soci non appartenenti al gruppo di controllo,

un ruolo sempre più marginale nella vita della società8: questa viene palesata negli

articoli in materia di invalidità delle deliberazioni assembleari, ma anche e

soprattutto con l'art. 2437, tramite il quale il diritto di recesso diviene uno

strumento fondamentale per la tutela del socio (di minoranza) dissenziente, al

quale, non residuando pressoché alcuna possibilità di far valere sul piano “reale”

le proprie ragioni, non resta che abbandonare la società.

3.3. Risulta evidente, non appena ci si appresta ad un confronto tra la vigente

normativa e quella precedente, come il Legislatore abbia attinto abbondantemente

a quei principi che si è soliti ricondurre alla c.d. “analisi economica del diritto”9.

Per averne conferma, è sufficiente poi leggere l'art. 2 della Legge delega 366, 3

ottobre 2001, che detta i “principi generali in materia di società di capitali”:

vengono infatti richiamati gli obbiettivi di “favorire la nascita, la crescita e la

competitività delle imprese”, di semplificare la “disciplina delle società”, di

“ampliare gli ambiti dell'autonomia statutaria”, di adeguare la disciplina all'attuale

“mercato concorrenziale”.

Sembra d'obbligo a questo punto una breve premessa riguardo alla c.d. “analisi

(8) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 34 ss.; G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercatoe scetticismo delle regole: appunti a margine della riforma del diritto societario, cit., p. 6 ss. Sinoti come un intervento nel questo senso di rendere netta, anche sul piano normativo, ladistinzione tra soci appartenenti al “gruppo di comando” e soci “investitori”, fosse stato fortementesostenuto già molto tempo addietro; si veda G. Ferri, La tutela dell'azionista in una prospettiva diriforma, in Riv. Soc., 1961, p. 177 ss. In senso contrario ad un tale intervento si esprimeva invecelo stesso anno G. Oppo, Prospettive di riforma e tutela della società per azioni, in Riv. Soc., 1961,p. 361 ss.

(9) A. Zorzi – L. Enriques, Spunti in tema di rimedi risarcitori contro l'invalidità delledeliberazioni assembleari, in Riv. Dir. Comm., 2006, I, p. 3 ss.

69

economica del diritto”. Tale materia si pone, tra l'altro, lo scopo di valutare e

prevedere le ricadute e le conseguenze economiche delle scelte giuridiche;

generalizzando molto, può dirsi che l'obbiettivo è quello di massimizzare

l'economicità di ogni scelta di questo tipo.

Quando si applica questa scienza all'attività del Legislatore, non solo, ma

soprattutto, nell'ambito societario, emerge immediatamente un forte conflitto

d'interessi, tra i quali la legge si trova necessariamente a dover mediare: infatti,

ove si volesse massimizzare l'economicità dell'azione delle società, per favorirne

il successo e la competitività sul mercato, si dovrebbe evidentemente ritenere che

il miglior diritto societario possibile sia quello con un bassissimo tasso di

imperatività, che lasci libere le parti del contratto (di società) di derogare la

disciplina legislativa per adattarla al meglio alle proprie esigenze10. Nessuno

quanto i diretti interessati potrebbe esser in grado di ricostruire meglio una

disciplina confacente alle proprie esigenze. In quest'ottica la disciplina legislativa

dovrebbe avere solamente lo scopo di evitare un aggravio di costi per le parti,

derivante dalla necessità di determinare di volta in volta e per intero un nuovo

regolamento convenzionale ad hoc, qualora si volesse dar vita ad una nuova

società11.

Tuttavia, come tradizionalmente si insegna, il contratto di società non resta “cosa

privata” di esclusivo interesse delle parti, ma produce “esternalità”12. Si fa

riferimento in particolare al beneficio della “responsabilità limitata”, sempre più

(10) A. Zorzi – L. Enriques, Spunti in tema di rimedi risarcitori contro l'invalidità delledeliberazioni assembleari, cit., p. 6 ss., parlano di liability rule; F. D'Alessandro, “La provinciadel diritto societario inderogabile (ri)determinato”. Ovvero: esiste ancora il diritto societario? ,cit., p. 43 ss.

(11) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 34 ss.

(12) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 43 ss.

70

generosamente ammesso dal legislatore; il contratto di società viene dunque a

caratterizzarsi per una eccezionale produttività di effetti ultra partes.

Da tale ultima considerazione emerge il sopra citato “conflitto di interessi” in tutta

la sua gravità: ne consegue che l'autonomia delle parti deve essere in qualche

misura limitata dalla legge, per far si che non vada ad operare a danno dei terzi

che intrattengono rapporti con la società. Ma un analogo conflitto si affaccia

anche nei rapporti tra maggioranza e minoranza assembleare, dal momento che

quest'ultima ha scarsa possibilità di far valere ed imporre le proprie ragioni in

assemblea e sarebbe quindi eccessivamente esposta alle prevaricazioni del gruppo

di controllo, ove la legge si astenesse completamente dall'intervenire.

La presenza di “esternalità” comporta dunque il venir meno di uno dei presupposti

che dovrebbero essere ritenuti indispensabili per consentire “un approccio

legislativo basato sulla contrattazione privata e sulla natura derogabile delle

norme”, ossia l'assenza appunto di effetti ultra partes13.

Se si considera peraltro che un simile approccio dovrebbe presupporre anche una

concreta ed effettiva possibilità per tutti i soci di “contrattare” le regole e le tutele

da applicare nell'azione societaria, non si può che procedere con un certo sospetto

all'applicazione dello stesso ad un sistema come il nostro, ove la maggior parte

degli azionisti, in particolare nelle società “aperte”, semplicemente “aderisce” ad

un contratto già predisposto14.

A questo punto si può apprezzare la normativa riformata alla luce della precedente

ricognizione, evidenziando come i principi ispiratori già in precedenza esaminati

siano stati tutti introdotti tenendo ben presente gli insegnamenti di questa scienza.

(13) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a marginedella riforma del diritto societario, cit., p. 26.

(14) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a marginedella riforma del diritto societario, cit., p. 26.

71

Come già osservato, anche dalle indicazioni fornite dalla Legge delega, può dirsi

che la Riforma abbia di certo voluto agire nel senso di favorire l'autonomia

privata15. In particolare deve essere rilevato come il “tasso di imperatività” della

disciplina sia stato concepito come funzionale allo scopo di tutelare i diritti del

“risparmio diffuso”16: mentre nelle società c.d. “chiuse” pare essere lasciato uno

spazio più rilevante all'autonomia privata, maggiori restrizioni sono previsti nella

disciplina di quelle “aperte”.

A tale maggiore libertà per l'autonomia dei privati si accompagna inoltre una

chiara riduzione della “tipicità” delle società anche dal punto di vista

organizzativo interno, a partire dalla previsione dei sistemi alternativi di

governance societaria, fino ad arrivare alla possibilità di una più variegata

struttura finanziaria17.

Sempre alla volontà di lasciare una maggiore indipendenza ai privati può

ricondursi anche il venir meno dei controlli giudiziari di omologazione.

Le osservazioni fin qui svolte paiono escludere dubbi circa la concezione

“contrattualistica” della società e dell'interesse sociale, sposata dal Legislatore18:

un tale contesto normativo fa agevolmente pensare ad una “equazione tra interesse

(15) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 34 ss.; G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercatoe scetticismo delle regole: appunti a margine della riforma del diritto societario , cit., pp. 4 e 23 ss.Entrambi gli A. sottolineano come il principio “tutto ciò che non è permesso è vietato”,tradizionalmente ritenuto proprio della materia societaria, sembra oggi essersi capovolto.

(16) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 43 ss.

(17) G. Rossi-A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a marginedella riforma del diritto societario, cit., p. 3 ss. Si vedano in particolare gli strumenti finanziariprevisti all'ultimo comma dell'art. 2346 c.c., nonché la grande libertà di creare nuove tipologie diazioni.

(18) G. Scognamiglio, Tutela del socio e ragioni dell'impresa nel pensiero di Giorgio Oppo, cit., p. 4 ss.

72

della società ed interesse dei soci”19. Deve peraltro dirsi, come emergerà anche in

seguito, che, se da una parte le norme ed i principi introdotti con la Riforma

sembrano essere più vicini ad una concezione “contrattualistica” della società, non

è però possibile inquadrare tutto l'ordinamento societario in maniera rigida entro il

modello “contrattualistico”; al contrario, l'attuale sistema fonde elementi

“istituzionalistici” con elementi “contrattualistici”, dando vita ad una normativa

“ibrida” sotto questo aspetto, che ha comportato notevoli divergenze tra gli

interpreti circa l'approccio da utilizzare nella lettura del sistema nel suo

complesso.

Tutto quanto appena notato consente di comprendere meglio anche l'attuale

sistema delle invalidità delle deliberazioni assembleari, fornendo una guida per

l'interpretazione delle norme, pur nella compresenza nell'ordinamento delle teorie

testé ricordate.

Il declino della tutela “reale” a favore di quella “obbligatoria” si pone esattamente

nell'ottica di favorire la presunta economicità dell'azione della società e la

sicurezza dei traffici, nonché il perseguimento di un “interesse sociale” sempre

più appiattito su quello della maggioranza, che come si è detto pare costituire una

delle ratio fondamentali dell'intervento riformatore. Traspare, come è stato

osservato, “la sensazione che l'illegalità nell'azione delle imprese non rilevi,

oggettivamente, qualora produca maggiore e più diffusa ricchezza”20. La tutela

“obbligatoria”, in particolare, esprime l'essenza del ragionamento “economico”

alla base della Riforma21: questa consente una scelta alla maggioranza, e quindi in

(19) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 34 ss.

(20) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, in Riv.Dir. Comm., 2004, I,, p. 76.

(21) F. D'Alessandro, Tutela delle minoranze tra strumenti ripristinatori e strumentirisarcitori, in Riv. Dir. Civ., 2003, I, p. 710 ss.

73

sostanza alla società stessa, nella persona della sua componente “imprenditoriale”

in assemblea22, tra il rispettare un divieto agendo nella legalità, oppure il

trasgredirlo, sobbarcandosi gli oneri economici che ne conseguono. Questa forma

di tutela viene ritenuta maggiormente efficiente, dal momento che la società

adotterà l'atto vietato solo se l'utilità che ne deriva si prevede essere superiore

rispetto agli oneri che conseguono alla violazione23. A sua volta, il soggetto che

riceve un danno dall'atto vietato, potendo vantare un diritto al risarcimento,

dovrebbe idealmente rimanere in una situazione “neutra”, mentre la società

otterrebbe comunque un vantaggio economico e con lei l'intera collettività;

sarebbe evidentemente interesse comune il prosperare delle società e dell'intera

economia.

Non si può tuttavia mancare di ricordare, ancora una volta, come l'assunto per il

quale gli azionisti minori si trovano in una posizione “neutra”, di fronte ad una

deliberazione viziata, se hanno la possibilità di ottenere un risarcimento in denaro,

sia tutta da dimostrare, stante le notevoli difficoltà che si incontrano nel proporre

l'azione risarcitoria; questa affermazione inoltre si basa sul presunto disinteresse

completo dei soci minori alla partecipazione alla vita della società, il che, come

spesso già ricordato, è del tutto arbitrario.

Resta ora solo da valutare se questa normativa, concepita per una strenua ricerca

dell'efficienza delle società, possa a sua volta essere considerata “efficiente” e

funzionale al perseguimento dello scopo.

(22) G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 621.

(23) F. D'Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinato”.Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., p. 34 ss.

74

3.4. Molti dubbi sono stati sollevati circa l'opportunità di una disciplina normativa

che, paradossalmente, ricerca in maniera esasperata l'efficienza delle imprese

anche a scapito della legalità nell'azione delle imprese medesime24. Una legge che

favorisce l'infrazione di se medesima è evidentemente un paradosso.

Per verificare l'idoneità della disciplina post-riforma a realizzare gli obbiettivi di

efficienza che l'hanno ispirata, sarebbe necessaria una lunga e complessa analisi

della pratica e della realtà commerciale, passando attraverso la disamina di

numerose decisioni giurisprudenziali, ma non è questa la sede per una simile

ricognizione; tuttavia alcune questioni possono essere poste.

La prima domanda che sorge spontanea è se effettivamente, da un punto di vista

oggettivo e prescindendo da moralismi di sorta, l'obbiettivo di incrementare il

tasso di efficienza delle imprese, di per se encomiabile, possa essere

realisticamente conseguito in modo sostenibile nel lungo termine, anche a scapito

della legalità dell'azione delle imprese medesime25.

Sicuramente sembra innegabile che, considerando i vari casi concreti

singolarmente presi, alcune decisioni illecite, e talvolta la maggior parte di queste,

pur essendo pregiudizievoli per l'interesse di per se modesto di un singolo

azionista o di pochi tra questi, possano portare un beneficio largamente maggiore

alla società nel suo complesso. Ciò è però certamente vero nel breve termine e

considerando le varie società in modo atomistico; si giunge a conclusioni diverse

se invece si prova a considerare l'evoluzione di questo sistema nel tempo e se si

(24) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.76; G.B. Portale, L'invalidità delle delibere assembleari: tra tutela demolitoria e tutelarisarcitoria, cit., p. 626; A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo dirittosocietario, in Riv. Soc., 2004, p. 895; M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, in Riv. Dir.Comm., 2005, I, p. 995. Si veda anche più oltre, Capitolo IV.

(25) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 895;A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p. 76.

75

tiene presente il panorama economico nel suo complesso.

Ragionevolmente sembra infatti assai dubbio che, considerando un arco temporale

di medio-lungo periodo, tale strategia possa rimanere sostenibile, essendo

consentito alle società di vivere in una situazione di riconosciuta illegalità”26. Va

in particolare notato che, laddove la legge non pone più alcun “paletto”

all'autonomia privata, gli sviluppi della realtà sono solitamente imprevedibili ed i

risultati possono essere non in linea con quelli pronosticati; ogni società potrebbe

evolvere secondo modalità differenti, portando grave confusione nel mercato27.

Sembra insomma opportuno un “binario”, seppur minimo, tale da guidare l'azione

societaria entro confini minimi, ma insuperabili, di legalità; ed un tale limite

insuperabile, vista la scarsa imperatività che come si è visto caratterizza le norme

del diritto societario, ritengo possa essere oggi individuato quantomeno nei

“principi generali” che ispirano tutto l'ordinamento e che non possono essere

ignorati neppure in una materia caratterizzata da una disciplina “speciale” come

appunto il Diritto commerciale.

Un ulteriore interrogativo è poi da porre28: essendo che la nuova norma in materia

di legittimazione comporta una inevitabile perdita di appeal (e di valore) per le

quote azionarie che restano al di sotto dei quorum richiesti dall'art. 2377, non si

rischia di avere come risultato un forte disincentivo all'acquisto di partecipazioni

azionarie in tutti quei casi in qui la partecipazione medesima non consentirebbe di

far valere la propria voce in sede di impugnativa?

È istintivo propendere per una risposta affermativa. Un azionista che non abbia la

possibilità di acquistare partecipazioni rilevanti, rimarrebbe infatti condannato al

(26) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 895.(27) A. Pisani Massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, cit., p.

77.(28) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., p. 895.

76

dover subire le scelte della maggioranza senza nemmeno poter chiedere che sia

dichiarata l'invalidità di deliberazioni palesemente viziate. La prospettiva poi di

poter ottenere, in via alternativa, un risarcimento, è tutt'altro che rassicurante:

l'assunto che vorrebbe l'azionista di minoranza leso da una delibera invalida e non

avente più, a seguito della Riforma, diritto alla tutela “reale”, in una situazione

analoga rispetto a quella pre-riforma, si fonda infatti sul presupposto di una

equivalenza tra tutela “demolitoria” e tutela “risarcitoria”, che però in concreto

abbiamo già visto precedentemente non sussistere29.

Secondariamente resta sempre da dimostrare il disinteresse dell'azionista

(presunto) “risparmiatore” rispetto alle scelte imprenditoriali della società.

Anche sotto quest'ultimo profilo dunque possono legittimamente essere espressi

dubbi, in prospettiva, sull'efficienza e sulla sostenibilità del nuovo sistema

normativo riformato.

(29) In questo senso anche A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo dirittosocietario, cit., p. 885.

77

78

Parte II

La tutela delle minoranze assembleari.

Capitolo IV: Il ricorso ai principi generali dell'ordinamento.

Sommario: 4.1. La tutela delle minoranze assembleari. - 4.2. Classificazione delle

delibere invalide in base agli aspetti caratterizzanti del vizio che le inficia. I

concetti di “interesse comune dei soci” ed “interesse individuale”. - 4.3. Le

diverse tipologie di deliberazioni viziate.

4.1. Da tutto quanto è stato detto pare inconfutabile il fatto che, a seguito della

Riforma Vietti, la posizione dei c.d. “soggetti deboli” della società e prima fra

quella dei soci di minoranza, risulti notevolmente deteriorata, sia in termini di

influenza nelle attività sociali, che, soprattutto, in termini di possibilità di tutelare

i propri diritti ed interessi. Come è stato autorevolmente osservato infatti “la

riforma, soprattutto nella parte concernente le s.p.a., è caratterizzata da una

vigorosa accentuazione, su tutti i piani, della libertà di autodeterminazione

dell'impresa-società, con limitata attenzione, invece, per i pur necessari

contrappesi, in termini di responsabilità o altro”1.

Sembra dunque appropriato tener presente tale ultima affermazione, per procedere

ad un puntuale esame della vigente normativa al fine di cercare il più possibile di

riequilibrare l'attuale ordinamento societario, individuando eventuali

bilanciamenti e contrappesi già presenti nel sistema e che possono essere

valorizzati in maniera adeguata.

(1) A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario , in Riv. Soc.,2004,, p. 891.

79

Un tale obbiettivo può essere perseguito esaminando attentamente gli “spazi di

manovra” che la disciplina societaria lascia tutt'ora all'interprete, cercando di

risolvere ogni questione interpretativa nel senso di accordare una maggior tutela ai

soci di minoranza e ricostruendo dunque una sorta di “tutela alternativa” per il

socio che si trovi sostanzialmente disarmato dinnanzi ad una deliberazione

invalida2; ma deve osservarsi che così facendo si rischierebbe di disattendere

apertamente la ratio delle norme riformate, le quali sono tutte dirette verso

l'obbiettivo della stabilità degli atti societari, piuttosto che verso la difesa degli

azionisti.

Per poter offrire una più adeguata forma di tutela, sembra doveroso spingersi

oltre.

Si intende dar conto in questa sede delle possibilità che residuano di ricorrere

anche ai c.d. “principi generali dell'ordinamento”, più volte menzionati. Così

facendo si potrà uscire dal limitato ambito del diritto delle società, per affrontare

invece un confronto con il “diritto generale dei contratti”, che dei suddetti principi

si ritiene espressione. Ovviamente una tale operazione viene svolta tenendo ben

presente la più volte citata “specialità del diritto societario”, definita talvolta

addirittura in termini di “ricommercializzazione” del medesimo3.

Non per tale ragione sembra però da escludersi aprioristicamente la possibilità di

battere anche questa via, come pure taluno ha sostenuto4. I “principi generali”,

(2) In questo senso A. Nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo dirittosocietario, cit., p. 891 ss.

(3) Si veda supra Capitolo III, § 3.1. M. Libertini, Diritto civile e Diritto commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia, in Riv. Soc., 2013, I, p. 2, chiarisce come abbia prevalso, nella storia del Diritto commerciale italiano, quel filone di pensiero che ne sosteneva sì la specialità rispetto al Diritto civile, ma non l'eccezionalità. Questo sembrerebbe dunque un ulteriore elemento a sostegno della possibilità di applicare i “principi generali” del Diritto civile anche in ambito commerciale, procedendo in via analogica, ove necessario.

(4) F. Di Girolamo, Sulla legittimazione ad impugnare le delibere assembleari di s.p.a. nonconformi: ratio e <<verità>> sugli artt. 2377 c.c. e 127bis T.U.F. , in Nuove leggi civ., 2014, I, p.

80

proprio in quanto tali, informano per definizione tutto l'ordinamento nel suo

complesso, e tanto dovrebbe già bastare a ritenere percorribile anche questa

strada, che viceversa pare essere oggi sempre più trascurata.

Mentre infatti la più recente dottrina sembra concentrarsi soltanto sul diritto

societario, in tempi più remoti ci si era già spinti oltre, travalicando i confini di

questa materia ed andando ad attingere a principi collocati idealmente su un

gradino superiore, per i quali non era ritenuta d'ostacolo la già menzionata

“autonomia” del diritto delle società, al tempo peraltro meno accentuata, seppur

già notevole.

Illuminante sembra essere a questo proposito quanto osservato dal Trimarchi

ormai oltre cinquant'anni addietro5, il quale afferma che nonostante il diritto

societario sia dotato di una certa autonomia, non deve di per sé escludersi a priori

il ricorso in via analogica ai principi del diritto civile; si potrà dimostrarne volta

per volta l'inapplicabilità, sulla base del diritto positivo o di un ragionamento che

partendo dalla norma di legge conduce a tale conclusione, ma ove cui l'analogia

esista, non si può escluderne l'applicabilità in assenza di adeguate motivazioni.

A sostegno dell'applicabilità delle norme del diritto dei contratti, espressione dei

“principi generali dell'ordinamento”, anche in questa materia, si ricordi poi come

le deliberazioni assembleari vengano qualificate per opinione largamente

maggioritaria “negozi giuridici”; per questo motivo, non si vede perché debba

essere esclusa l'applicazione di dette disposizioni, quando l'art. 1324 c.c.

espressamente ne prevede l'applicabilità. Non si potrà neppure negare l'utilizzo

analogico di tali norme facendo leva sul disposto del medesimo articolo 1324,

203 ss.; G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a.: la fattispecie, in Giur.Comm., 2005, I, p. 58 ss.

(5) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, Milano,1958, p. 2.

81

nella parte in cui prevede una “clausola di salvezza”6: nel caso qui in esame infatti

si tratterà di applicare i c.d. principi generali negli spazi lasciati vuoti dal

Legislatore, non contrastando dunque alcuna norma di legge ed anzi restituendo al

sistema la coerenza perduta.

4.2. Per compiere la prospettata “ricostruzione” dei necessari bilanciamenti alla

notevole “libertà di autodeterminazione dell'impresa-società”, si procederà ora ad

una rapida classificazione delle deliberazioni assembleari alla luce dei diversi

aspetti caratterizzanti l'abuso che le inficia. In esito a tale analisi sarà possibile

meglio individuare, a seconda della casistica, i principi generali, e quindi le norme

nelle quali si riflette la loro tutela, utili a ristabilire il necessario equilibrio tra

autonomia privata e tutela degli interessi e diritti dei soggetti più deboli.

Al fine di una simile indagine devono essere però dapprima chiariti due concetti

di fondamentale importanza nell'ambito societario, che ritorneranno citati più

volte nel prosieguo della trattazione: quello di “interesse comune dei soci” e

quello di “interesse individuale dell'azionista”, nelle rispettive declinazioni7.

Per “interesse comune dei soci” si vuole tradizionalmente indicare quello che solo

metaforicamente viene chiamato “interesse della società”; metaforicamente si è

detto, per il semplice fatto che un qualunque interesse non può riferirsi che ad una

(6) G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a.: la fattispecie, cit., p. 60,ritiene al contrario questa clausola preclusiva dell'applicabilità della disciplina contrattuale. Ciòperaltro non sembra condivisibile: in questa sede infatti non si tratta di applicare le normeriguardanti l'invalidità degli atti tra vivi a contenuto patrimoniale in senso contrario alla specificadisciplina legislativa dell'invalidità delle deliberazioni assembleari; al contrario, i principi generalidell'ordinamento in materia di invalidità troveranno applicazione solo nelle fattispecie che ilLegislatore ha mancato di disciplinare espressamente. Per di più, l'applicazione analogica di taliprincipi è strumento per ridare omogeneità e completezza al sistema e perciò non sembra senz'altroda criticare.

(7) G. Scognamiglio, Tutela del socio e ragioni dell'impresa nel pensiero di Giorgio Oppo, inBanca borsa tit. cred., 2012, I, p. 1 ss.

82

persona fisica o ad una pluralità di queste. Cosicché parlare di “interesse” della

persona giuridica società è utile solo al fine di significare una somma di interessi

riferibili rispettivamente a persone fisiche determinate, i soci, le quali, attraverso

un procedimento prestabilito, fanno risultare un interesse unitario che è la sintesi

dei primi8. Sarebbe dunque in questo senso “interesse comune”, ad esempio,

quello alla massimizzazione del profitto o dell'efficienza dell'impresa societaria.

Su questa nozione tuttavia ormai da lungo tempo si scontrano due diverse teorie,

quella “istituzionalistica” e quella “contrattualistica”, che peraltro non si limitano

a divergere sulla definizione ed individuazione dell'interesse sociale, ma

comportano una differente visione della società nel suo complesso, a seconda che

si acceda all'una o all'altra9; semplificando e non potendosi approfondire l'annosa

questione in questa sede, si può dire che la visione c.d. “istituzionalistica”

comporti una concezione dell'interesse sociale come “interesse della società in

sé”: interesse dunque ad una massima efficienza produttiva, la quale si ricollega

alla visione della società come strumento per lo sviluppo generale dell'economia.

In questo senso, l'interesse sociale viene per così dire “generalizzato”,

distaccandosi da quello che sarebbe il semplice interesse comune dei soci, il quale

viceversa viene posto in secondo piano per favorire istanze più generali; in

particolare va sottolineato come ai sensi di tale concezione l'interesse sociale

trascende soprattutto dall'interesse della maggioranza assembleare.

Tutto al contrario invece la concezione “contrattualistica” vede l'interesse sociale

come l'interesse “comune dei soci”, o anche come l'interesse del “socio medio”10:

(8) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 146.(9) F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Torino, 2012, p. 161 ss.(10) Si ricordi in proposito quanto scritto da G. Oppo, La tutela dell'azionista nel progetto di

riforma, in Riv. Soc., 1966, p. 1220 ss., secondo il quale l'interesse sociale altro non dovrebbeessere se non la sintesi tra l'interesse dei singoli soci, singolarmente presi, a trarre profitto dallaloro partecipazione sociale e l'interesse dei soci medesimi (in qualità di contitolari dell'impresa

83

ai sensi di questa teoria dunque non è possibile concepire l'interesse “sociale”

come qualcosa di diverso e superiore all'interesse “dei soci nella società”. Per

quanto non si possa non notare la difficoltà di identificare un presunto interesse

“comune” dei soci, specialmente alla luce dei numerosi “conflitti di interesse” che

da sempre caratterizzano e agitano le società per azioni, questa teoria, la quale si

ramifica al suo interno in una molteplicità di visioni, tra loro anche notevolmente

diversificate, vuole l'interesse sociale come un concetto in se “neutro”, che ha

come unica caratteristica quella di rientrare nello “schema causale” del contratto

di società, differenziandosi invece nettamente da qualsiasi interesse

“extrasociale”11.

Come precedentemente osservato, per quanto l'attuale quadro normativo pare

difficilmente inquadrabile in modo rigido all'interno dell'una o dell'altra “visione”

della materia societaria, sembra desumersi dalla Riforma del 2003 una certa

tendenza ad accentuare maggiormente un approccio di tipo “contrattualistico”12.

Il secondo concetto da chiarire è quello di “interesse individuale del socio”:

l'interesse dei singoli soci dovrebbe in linea di principio convergere con quello

“della società” nel suo complesso; ma questo è vero solo per quell'interesse del

socio che viene definito “sociale”, ossia rientrante astrattamente nella causa del

contratto di società e che dunque “sommato” a quello degli altri soci, ai sensi della

teoria “contrattualistica”, dovrebbe andare a formare l'interesse “sociale”. Ogni

sociale) all'efficienza ed allo sviluppo dell'impresa societaria. Come è stato notato da G.Scognamiglio, Tutela del socio e ragioni dell'impresa nel pensiero di Giorgio Oppo, cit., p.1 ss., un“contrattualismo” così declinato parrebbe tutt'altro che indifferente alle esigenze di sviluppodell'impresa.

(11) F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, cit., p. 163.(12) Si veda supra Capitolo III, § 3.3. Si noti peraltro come spesso le travagliate vicende che

precedono l'emanazione di ogni legge finiscano col far sfumare il disegno unitario cheoriginariamente si poneva dietro le medesime, rendendo arduo risalire alla “visione dellegislatore”, risultante tutt'altro che chiara ed unitaria.

84

socio è però sempre anche titolare di interessi individuali detti “extrasociali”, in

quanto non ricollegabili alla causa del contratto sociale e che sono propri del socio

(o di un gruppo di soci) a prescindere dalla medesima qualità di azionista13.

Alla luce di queste due nozioni, si vedrà come possano venirsi a creare tutta una

serie di conflitti tra interessi divergenti nell'ambito dell'attività dell'assemblea, che

possono dar luogo ad importanti ripercussioni sulla validità delle deliberazioni ed

acuire ancor di più la necessità di ristabilire un dovuto equilibrio tra i poteri della

maggioranza assembleare, che ha la forza di imporre la propria visione della

società e dunque i propri interessi, e le tutele preposte a garanzia delle minoranze.

4.3. È evidente che all'interno di una società, in particolare una società di capitali,

il “potere di gestione” della stessa debba essere maggiormente concentrato nelle

mani di coloro che detengono la maggior parte del capitale sociale14. La

possibilità di determinare o quanto meno influire maggiormente sulla politica

della società, si ricollega infatti proporzionalmente al maggior rischio sopportato

dall'azionista15.

Idealmente inoltre, tutti i soci tendono (o meglio, dovrebbero tendere) al

raggiungimento del miglior risultato possibile attraverso la gestione della società,

ottenendo per mezzo di questa la dovuta soddisfazione delle loro aspettative di

guadagno, sotto forma di dividendi e di aumento del valore commerciale delle

proprie azioni. In altre parole i soci dovrebbero generalmente tendere al

perseguimento dell'interesse “sociale”, inquadrabile all'interno della stessa

“causa” del contratto di società.

(13) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 146.(14) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 129.(15) A. Zorzi – L. Enriques, Spunti in tema di rimedi risarcitori contro l'invalidità delle

deliberazioni assembleari, in Riv. Dir. Comm., 2006, I, p. 4 ss.

85

Ovviamente la realtà presenta tutta una serie di sfaccettature che rendono utopico

raggiungere in ogni caso una situazione ideale di questo tipo; può accadere infatti

che un socio, o più spesso il gruppo di maggioranza, determini il proprio voto non

alla luce del perseguimento di un “interesse comune della società”, bensì di un

proprio individuale interesse, talvolta confliggente con il primo, ma

eventualmente anche non contrastante con quest'ultimo e tuttavia ingiustamente

pregiudizievole per gli interessi di altri soci16.

Occorre dunque distinguere tutta una serie di situazioni, a seconda del tipo di

interesse che subisce un pregiudizio e a seconda del tipo di “potere” che viene

esercitato dalla maggioranza, la quale è l'unico soggetto che ha in concreto la

facoltà di determinare il contenuto di ciascuna deliberazione assembleare.

Le deliberazioni assembleari assunte dalla maggioranza possono, come poco più

sopra anticipato, recare un pregiudizio all'interesse “sociale”, perseguendone un

altro che non attiene alla “causa della società” (interesse c.d. “extrasociale”): in

questi casi, che ricorrono con maggiore frequenza, è evidente come la validità

delle medesime possa essere messa in discussione ai sensi dell'art. 2373 c.c.

Può però accadere che una deliberazione non risulti né utile né dannosa per la

società, pur cagionando un pregiudizio all'interesse della minoranza; in tali

circostanze sorgono numerose questioni. Fermo restando che in mancanza di un

danno per la società l'applicazione dell'art. 2373 deve ritenersi esclusa, salvo

estendere quest'ultimo concetto in maniera eccessiva17, ci si interroga circa i modi

attraverso i quali tutelare comunque la minoranza lesa nel proprio interesse dalla

(16) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 144ss.

(17) L. Mengoni, Appunti per una revisione della teoria del conflitto di interessi, in Riv. Soc.,1956, p. 122.; P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p.169.

86

delibera ispirata all'interesse extrasociale della maggioranza.

Si è sollevata peraltro in proposito anche una questione circa la possibilità per il

giudice di andare oltre l'esame della correttezza formale, in senso stretto, della

deliberazione: ciò che si discute è fino a che punto il giudice possa scendere nel

merito della delibera stessa, per verificare l'effettiva esistenza di una lesione agli

interessi della minoranza, senza alcuna utilità per la società18.

Si parla talvolta in questi casi di “abuso di potere” (ricorrendo alla terminologia

propria del Diritto amministrativo) ove la maggioranza, esercitando un potere che

effettivamente le è attribuito dalla legge, persegue un fine diverso da quello per il

quale tale potere le è stato astrattamente conferito19.

È possibile infine che la maggioranza eserciti un potere che la legge non le

riconosce: ci si riferisce in questi casi, facendo riferimento ad elaborazioni certo

datate ma ancora di grande interesse, alla questione dei “diritti dei soci” in quanto

tali e che pertanto non potrebbero essere validamente modificati senza il consenso

dei singoli titolari20.

Una ulteriore classificazione, che si ripercuote sulle forme di tutela prospettabili, è

quella che distingue le deliberazioni attinenti alla “gestione sociale” da quelle

vanno invece ad incidere sulla “struttura della società”21. Una tale distinzione si

fonda sulla necessità di prevedere limiti più o meno incisivi alla “possibilità” della

maggioranza nel determinare il contenuto contra legem della deliberazione

(18) G. Ferri, Poteri della maggioranza e diritti del socio, in Banca, borsa, titoli di credito,1952, II, 160 e 162 ss.; F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, cit., p. 298; P. Trimarchi,Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 170.

(19) A. Candian, Nullità e annullabilità di delibere di assemblea delle società per azioni,Milano, 1942, p. 109 ss e 145 ss. Criticato da P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni diassemblea di società per azioni, cit., p. 171.

(20) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit., p. 151ss.

(21) G. Ferri, Poteri della maggioranza e diritti del socio, cit., p. 164.

87

assembleare, a seconda dell'oggetto della medesima; in particolare, le

deliberazioni attinenti alla “struttura della società”, essendo notevolmente

invasive rispetto alla posizione dei singoli azionisti e causando uno strappo

significativo alla legalità del sistema societario nel suo complesso, richiedono un

trattamento sanzionatorio diversificato e più efficace.

Ancora, viene qui prospettata la distinzione, concettualmente vicina a quella

precedente, tra le c.d. “deliberazioni-fatto” e le “deliberazioni-regola”, definendo

le prime come quelle “destinate a disciplinare un fatto puntuale, circoscritto nel

tempo e nello spazio”; mentre le seconde come quelle “dirette a porre

nell'organizzazione societaria una regola destinata a trovare applicazione

indefinitamente nel tempo e per una serie indeterminata di fattispecie”22. In queste

ipotesi la necessità di diversificare le modalità attraverso le quali tutelare i soci di

minoranza, a seconda che la delibera viziata sia dell'uno o dell'altro tipo, si

ricollega all'evidente differenza di effetti che esse producono nel tempo, ed alla

maggior pericolosità in termini di rispetto della legalità dell'ordinamento

societario insita nelle delibere viziate riconducibili alla seconda tipologia.

Infine, saranno prese in considerazione una serie di possibili soluzioni volte ad

ovviare al controverso istituto della “sanatoria” delle deliberazioni nulle, al fine di

ridare contenuto e sostanza all'istituto della nullità anche nell'ambito del diritto

societario, ripristinando in questo modo la necessaria armonia tra questo settore

del Diritto ed i “principi generali” a cui si ispira tutto ordinamento.

(22) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, in Riv. Dir. Comm., 2005, I, p. 1021.

88

Capitolo V: Le possibilità di tutela.

Sommario: 5.1. Notazione sistematica. - 5.2. I limiti al potere della maggioranza: i

diritti dei soci. - 5.2.1. L'abuso del diritto di voto e la società nella veste di

“arbitratore”: l'art. 1349 c.c.. Il principio di “buona fede”. - 5.2.2. Il sindacato del

giudice. - 5.2.3. Nullità delle deliberazioni per vizio di causa. - 5.3. “Decisioni-

fatto” e “decisioni-regola”. L'art. 1339 c.c. - 5.4. Efficacia non sanante della c.d.

“sanatoria delle deliberazioni nulle”: l'art. 1442, ult. co., c.c.

5.1. In esito allo studio svolto si giunge ora all'esame delle soluzioni che pare

possibile prospettare per porre rimedio alle lacune dell'ordinamento societario, in

materia di tutela delle minoranze assembleari.

Come è stato evidenziato nelle pagine precedenti, con la Riforma del 2003 si è

assistito ad un innegabile depotenziamento delle forme di tutela che erano

accordate in precedenza ai soci (di minoranza).

La tutela “obbligatoria”, che avrebbe dovuto costituire lo strumento ottimale per

contemperare le esigenze di stabilità e certezza degli atti societari con le esigenze

di difesa delle minoranze, si è rivelata essere sicuramente non all'altezza dello

scopo, essendo inadeguata ad offrire un ristoro ai piccoli azionisti che si trovano a

non avere più la possibilità di proporre un'impugnativa contro la delibera viziata;

d'altra parte, la previsione di un limite temporale anche per l'impugnabilità delle

deliberazioni nulle costituisce uno stridente contrasto con quelli che sono i

“principi generali” dell'ordinamento giuridico, oltre a provocare una serie di

pericolose conseguenze, non solo in termini di minore tutela dei soci, ma anche di

coerenza dell'ordinamento nel suo complesso; infine, perfino la tutela c.d. “reale”

è andata col perdere di effettività.

89

L'obbiettivo del prosieguo di questa ricerca sarà dunque quello di restituire ai soci

di minoranza mezzi di tutela adeguati per difendere le proprie ragioni.

In particolare, si ricercheranno nelle norme riconducibili ai “principi generali

dell'ordinamento” gli strumenti idonei per ricostruire un sistema di tutele che

anche in materia societaria si riveli coerente con i principi generali medesimi,

superando dunque quei numerosi limiti al potere di impugnativa che il Legislatore

della Riforma ha introdotto nel 2003.

Per ragioni di chiarezza espositiva si sono voluti esaminare separatamente i

diversi strumenti di tutela proposti, ciascuno in relazione ai casi in cui potrà

trovare applicazione.

5.2. La questione dei limiti ai poteri maggioranza non può certamente dirsi

recente: il problema è noto alla dottrina e giurisprudenza già dai primi anni

successivi all'introduzione dell'attuale Codice Civile ed anche ancor prima.

Nonostante molto sia stato detto in proposito, lo studio di questa tematica resta di

notevole interesse ed attualità anche oggi, per l'intreccio delle questioni in

precedenza emerse con i nuovi problemi sorti in relazione alla tutela delle

minoranze dopo la Riforma del diritto societario.

Tradizionalmente per “limiti ai poteri della maggioranza” si fa riferimento a due

teorie, entrambe elaborate allo scopo di tutelare gli interessi degli azionisti che si

trovino al di fuori della maggioranza medesima, ossia quella che si basa sul

concetto di “eccesso di potere” e quella che ruota attorno al concetto di “abuso di

potere”, entrambe denominate richiamando una terminologia propria del Diritto

amministrativo1.

(1) T. Ascarelli, Interesse sociale e interesse comune nel voto, in Riv Trim. Dir. Proc. Civ.,1951, p. 1159 ss.; P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni,

90

Per quanto contigue, queste due teorie debbono esser tenute separate, in quanto

diversa è la fattispecie di violazione perpetrata dalla maggioranza per la quale le

stesse sono state pensate. Nel dettaglio, nell'ipotesi definita di “eccesso di potere”,

la maggioranza attraverso la deliberazione assembleare andrebbe ad esercitare un

potere che non le spetta, incidendo in modo pregiudizievole sui c.d. “diritti

individuali degli azionisti nella società”, che in quanto tali possono essere

modificati solamente con il consenso del titolare e non certo da parte di un

soggetto terzo rispetto a quest'ultimo quale l'assemblea della società. Viceversa, si

configurerebbe un “abuso di potere” in quei casi in cui la maggioranza, tramite

l'assemblea, vada ad esercitare poteri che effettivamente le spettano, ma per un

fine diverso rispetto a quelli per i quali il potere stesso le era stato attribuito; è

questa l'ipotesi della deliberazione ispirata ad interesse extrasociale della

maggioranza, anziché a fini rientranti nella causa della società2.

Ritornano quindi i concetti di “interesse sociale” ed “interesse individuale

dell'azionista”: e infatti la teoria dell' “abuso di potere” viene tendenzialmente,

anche se non esclusivamente, richiamata per tutelare il c.d. “interesse sociale”,

leso da una deliberazione ispirata ad interessi estranei allo stesso, mentre quella

dell' “eccesso di potere” è generalmente richiamata a tutela dell'interesse

individuale (o meglio, i c.d. “diritti soggettivi”) dei singoli soci, lesi da una

deliberazione assembleare avente ad oggetto una decisione che l'assemblea non ha

il potere di assumere.

Con riferimento alla prima delle due teorie, ossia quella che ricostruisce la figura

dell' “eccesso di potere”, si pone il problema di verificare se sia ancora oggi

possibile individuare veri e propri “diritti soggettivi” dei singoli azionisti,

Milano, p. 144.(2) M. Vaselli, Deliberazioni nulle e annullabili delle società per azioni, Padova, 1947, p. 24.

91

immodificabili senza il loro consenso; ove si dovesse concludere che di tali diritti

è ancora possibile parlare, si dovrebbe poi determinare quali possano essere le

conseguenze per la deliberazione assembleare che insista sui medesimi,

modificandoli senza averne il potere.

Vigente il Codice di Commercio del 1882, si riteneva pacificamente che

esistessero diritti “individuali” dei soci pur in assenza di richiami espressi nel

Codice medesimo3; ma anche con l'entrata in vigore del nuovo Codice Civile tali

diritti sono stati considerati esistenti e di grande rilevanza4.

Alla luce dei principi generali sulla invalidità, la delibera assembleare che andava

a violare tali diritti era considerata quindi senz'altro “inefficace”, con la

conseguenza che la stessa si sarebbe dovuta semplicemente disapplicare, in

quanto non idonea a produrre gli effetti per i quali era stata adottata5.

Una simile soluzione parrebbe di grande interesse oggi, consentendo

sostanzialmente di “aggirare” (senza mai tradire, però, i “principi generali”) sia il

problema del limite temporale posto dal legislatore per esercitare l'azioni di

nullità, sia quello relativo alla significativa restrizione della legittimazione attiva

sulla base delle quote di capitale possedute, con riguardo all'azione di

annullabilità6. Conseguenze si avrebbero anche sulla tutela “risarcitoria”: questa

(3) A. Donati, L'invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime, Milano,1937, p. 182 ss.; P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit,p. 140.

(4) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni , cit, pp. 145e 151 ss.

(5) R. Costi, Enzo Buonocore: un classico della dottrina commercialistica, in Giur. Comm.,2012, I, p. 308 ss.; M. Libertini, Note di lettura: “Le situazioni soggettive dell'azionista” di EnzoBuonocore, cinquant'anni dopo, ibid., p. 317. Viene peraltro evidenziato da G. Oppo,Amministratori e sindaci di fronte alle deliberazioni assembleari invalide, in Scritti giuridici, vol.II, Diritto delle società, Padova, 1992, p. 383, come gli amministratori, di fronte a deliberazioniassembleari inefficaci, dovrebbero senz'altro rifiutare di darvi esecuzione; l'Autore ritienedoveroso il medesimo comportamento anche in relazione alle deliberazioni nulle ex art. 2379.

(6) Come infatti nota G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a.: la

92

non resterebbe più l'unica forma di tutela offerta all'azionista leso da una

deliberazione viziata, in tutti quei casi in cui ad essere violata fosse non una

posizione soggettiva qualsiasi, ma un “diritto soggettivo”.

Recenti pronunce sembrano implicitamente riconoscere tutt'oggi l'esistenza di

diritti di tal fatta7.

Fondamentale con riguardo a questa importante tematica è la famosa opera del

Buonocore, le cui conclusioni possono dirsi ancora di grande attualità8: l'Autore, a

seguito di una puntuale analisi delle norme, conclude che l'unico vero e proprio

diritto soggettivo degli azionisti (opponibile quindi erga omnes) sia il “diritto di

partecipazione alla società”, in quanto non sembra trovarsi traccia di una norma

generale che riconosca una simile categoria di diritti indicandone i tratti distintivi;

gli ulteriori “diritti” che le norme del Codice riconoscono agli azionisti (di voto,

agli utili, ecc.) in realtà non possono invece definirsi “diritti soggettivi

dell'azionista”, essendo che la conseguenza di una loro violazione non è

l'inefficacia della deliberazione che li pregiudica, ma l'invalidità della medesima.

Tale osservazione porta a concludere che la loro violazione non può essere

definita (ritornando alla terminologia amministrativistica) un caso di “eccesso di

fattispecie, in Giur. Comm., 2005, I, p. 60, la categoria dell'inefficacia pare essere senz'altroapplicabile anche in materia di deliberazioni assembleari, in quanto “categoria generale del nostrosistema civilistico”. Circa l'azione volta a far valere l'inefficacia, si rileva come, trattandosi diazione diretta a rilevare l'impossibilità, per l'ordinamento, che un determinato atto produca glieffetti per i quali è stato assunto (a prescindere dalla sua validità), essa non potrà che essere per suanatura imprescrittibile e caratterizzata da una legittimazione attiva più ampia possibile.Si noti ancora che le osservazioni problematiche dell'Autore, circa le incongruenze cheprovocherebbe l'applicabilità della categoria dell'inefficacia nel contesto dell'invalidità delledelibere assembleari, dopo che la Riforma del 2003 ha limitato a soli tre anni la possibilità di farvalere la nullità di delibere lesive di diritti “assolutamente indisponibili”, potranno esserepositivamente risolte alla luce della ricostruzione del sistema di tutele proposta nelle pagineseguenti.

(7) P. Devizia, Nota a sentenza, in Riv. Notariato, 2011, p. 402.(8) V. Buonocore, Le situazioni soggettive dell'azionista, Napoli, 1960.

93

potere”.

Alla luce dell'esame delle norme vigenti e tenuto conto delle grandi incertezze che

le altre varie teorie sui “diritti soggettivi” dei soci lasciano irrisolte, pare doversi

appoggiare questa ricostruzione.

Per quanto riguarda il contenuto di questo diritto, esso va definito come

“essenzialmente patrimoniale” e di natura contrattuale9 e, una volta acquistato

attraverso la partecipazione alla società come azionista, viene tutelato nelle sue

diverse espressioni attraverso alcune norme espresse del Codice Civile (tra gli

altri, gli artt. 2350, 2437, 2441, 2484 ss., ecc.), che si occupano di disciplinare i

molteplici interessi patrimoniali che da tale diritto scaturiscono. Tale diritto in

ultima istanza si esprime, nel suo contenuto più profondo, nel poter rimanere

azionista fino allo scioglimento della società10.

Venendo alle modifiche apportate dalla Riforma del 2003, va detto che nessuna

nuova disposizione ha portato chiarezza sul tema in esame. L'esistenza di diritti

soggettivi dell'azionista non è stata espressamente esclusa né confermata e come

già accennato la questione ha avuto modo di riproporsi altre volte anche dopo

(9) A. Amatucci, La scuola di Diritto commerciale di Alessandro Graziani e le situazioni soggettive dell'azionista di Enzo Buonocore, in Giur. comm., 2012, II, p. 293.

(10) In merito a quest'argomento sembra opportuno richiamare le osservazioni svolte da G.Oppo, Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, in Scritti giuridici, vol. II, Diritto dellesocietà, Padova, 1992, p. 369 ss., circa l'esistenza di un “principio di parità di trattamento tra i sociin quanto tali”. L'esistenza di un tale principio viene a configurarsi, nel pensiero dell'Autore, comeun limite ai poteri della maggioranza, la quale, pur avendo la possibilità di modificare il contrattosociale nel rispetto delle norme che disciplinano tali interventi, non può spingersi fino ad alterarela “proporzione reciproca della partecipazione ai vantaggi e ai sacrifici contrattuali” fissati dalcontratto. Di conseguenza il principio del “rispetto del contratto quanto alla proporzione delsoddisfacimento dell'interesse contrattuale di ciascuno”, funge da limite al di là del quale “non vi èpotere”. Questo orientamento dunque finisce con l'individuare un diritto degli azionisti,parzialmente diverso per contenuti da quello prospettato dal Buonocore, del quale possonodisporre solamente loro medesimi: ossia il diritto di veder rispettata “la proporzione contrattualenella partecipazione al rapporto e nella soddisfazione dell'interesse”. Mancando ogni potere, laviolazione di tale diritto da parte dell'assemblea porterà come conseguenza, anche in questo caso,l'inefficacia della deliberazione.

94

l'intervento riformatore. Bisogna anzi notare come l'attuale art. 2388 c.c. disponga

in merito alla impugnabilità da parte dei soci delle deliberazioni “lesive dei loro

diritti”: tuttavia il richiamo ai modi di impugnazione ex art. 2377 e 2378 lascia

supporre che il Legislatore non abbia voluto utilizzare in modo rigoroso il termine

“diritti”, nel senso di “diritti soggettivi”, che altrimenti le conseguenze sarebbero

inaccettabili, vista la possibilità del consolidarsi di deliberazioni che modificano

diritti di cui non è titolare la società11.

Per concludere sulla questione in esame, la teoria dei “diritti soggettivi

dell'azionista” lascia ancora oggi all'interprete una via per poter garantire al socio

una tutela più intensa di quella offerta dagli artt. 2377 e seguenti. Se è vero che

generalmente gli interessi particolari dell'azionista vengono tutelati direttamente

da norme positive attraverso la sanzione dell'invalidità per la deliberazione lesiva

dei medesimi (ai sensi degli artt. 2377 ss. c.c.), con ciò stesso eliminando la

possibilità di elevarli al rango di “diritti soggettivi”, questo tuttavia non esclude

che in via interpretativa si possa trovare uno strumento di tutela alternativo, quale

quello della sanzione di “inefficacia” ab origine della deliberazione assembleare,

per determinate fattispecie particolari in cui si riscontri una lesione del

summenzionato “diritto di partecipazione dell'azionista alla società”.

Per quanto riguarda l'azione attraverso la quale il socio potrà far valere tale

“inefficacia”, essendo la deliberazione assembleare lesiva di un tale diritto un

negozio giuridico a contenuto patrimoniale, essa non potrà che essere la

tradizionale azione di nullità contrattuale, imprescrittibile ex art. 1422 c.c.; e si

badi, per concludere, che in questo modo sarà possibile garantire un'ampia tutela

anche a quei piccoli azionisti fortemente pregiudicati dal nuovo sistema di

(11) M. Libertini, Note di lettura: “Le situazioni soggettive dell'azionista” di EnzoBuonocore, cinquant'anni dopo, cit., p. 321.

95

impugnative emerso dopo la Riforma del 2003.

5.2.1. Altra ipotesi in cui è possibile prospettare una forma di tutela per soci di

minoranza pur apparentemente in assenza di esplicite norme di diritto societario

volte a tutelare i loro interessi, è quella in cui la maggioranza assembleare si trova

ad assumere una deliberazione che può andare ad incidere in modo negativo sulla

posizione dei singoli soci medesimi, esercitando sì un potere che effettivamente la

legge le attribuisce, ma che deve essere esercitato rispettando i presupposti

previsti, in via normativa o interpretativa. È questa l'ipotesi che è stata più sopra

definita di “abuso di potere”12.

Il presupposto di cui si parla, dedotto in via interpretativa, è da riconoscersi in

particolare nella rispondenza della deliberazione all'interesse sociale; in assenza di

tale requisito, non sarebbe ammissibile imporre un pregiudizio alla minoranza

degli azionisti, senza che si abbia alcuna utilità, neppure in prospettiva, per l'ente

collettivo13.

Con ogni evidenza, se la deliberazione non persegue l'interesse “della società” ed

escludendosi che possa esser stata assunta senza alcuno scopo, questa sarà volta a

realizzare un interesse proprio della maggioranza che l'ha voluta, ancorché

estraneo alla società. Il caso più noto riconducibile a questa situazione, seppur non

l'unico, è quello in cui l'assemblea si trova ad approvare il bilancio e decidere

sulla distribuzione del dividendo14.

(12) Come osservato da A. Zorzi – L. Enriques, Spunti in tema di rimedi risarcitori control'invalidità delle deliberazioni assembleari, in Riv. Dir. Comm., 2006, I, p. 4 ss., si tratta in questocaso di trovare un possibile correttivo al meccanismo dell'assunzione delle decisioni sociali permezzo del voto, nei casi in cui tale meccanismo non spossa funzionare correttamente; inparticolare, nell'ipotesi in cui i votanti (o meglio, la maggioranza degli stessi) non esprimano ilproprio voto “sinceramente”, determinandolo in base ad un proprio interesse extrasociale.

(13) T. Ascarelli, Interesse sociale e interesse comune nel voto, cit., pp. 1146 e 1165.(14) G. Ferri, Poteri della maggioranza e diritti del socio, in Banca, borsa, titoli di credito,

96

Nei casi come quello ultimo citato ed altri simili, l'assemblea ha ex lege il potere

di influire con le proprie decisioni su interessi propri dei singoli azionisti, come

quello al dividendo, soprattutto determinando il contenuto dei “diritti” che

derivano dalla stessa posizione di socio. Tuttavia, com'è stato rilevato, un

intervento che incida negativamente sulla posizione dei soci non può essere

assunto in modo totalmente arbitrario dalla maggioranza in assemblea, dovendo

invece sussistere una obbiettiva giustificazione che renda legittima e necessaria

l'imposizione di un sacrificio agli azionisti15.

Il caso in esame si distingue da quello disciplinato dall'art. 2373 c.c.; nella

fattispecie che in questa sede viene esaminata infatti la deliberazione assunta dalla

maggioranza perseguendo un fine extrasociale e contraria all'interesse degli

azionisti di minoranza, potrebbe essere neutra o tutt'altro che pregiudizievole per

la società; al contrario, talvolta potrebbe essere finanche vantaggiosa per la

medesima (come per l'appunto la decisione di non distribuire utili, mantenendo la

società in migliori condizioni finanziarie), con ciò precludendo l'applicazione

della normativa sul “conflitto d'interessi”.

Detto questo, non si può comunque ritenere che, ove la decisione della

maggioranza sia priva di giustificazione o perfino ispirata da intenti fraudolenti

verso la minoranza, al singolo azionista leso non rimanga alcuno strumento di

tutela contro il prepotere della maggioranza.

Anche in questo caso, la difesa degli azionisti non può che passare attraverso

l'interpretazione delle norme ed il ricorso ai principi generali.

1952, II, 161; P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit, p.153 ss.

(15) G. Ferri, Poteri della maggioranza e diritti del socio, cit., p. 165. Si noti come peraltro aduna tale conclusione giungano anche Autori che sostengono una visione “contrattualistica” dellasocietà; in questo senso, G. Oppo, Le grandi opzioni della riforma e la società per azioni, in Riv.dir. civ., 2003, I, p. 471 ss.

97

Riepilogando, nel caso descritto si ha dunque un interesse individuale

dell'azionista, non necessariamente un “diritto soggettivo”, che viene leso dalla

decisione della maggioranza; una tale decisione rientra effettivamente tra i poteri

dell'assemblea, ma ove sia ispirata a fini extrasociali e non giustificata da esigenze

della società, non sarà comunque da considerarsi legittima, in quanto dovrà

ritenersi che la maggioranza abbia “abusato” del proprio diritto di voto,

esercitandolo per fini estranei alla “causa della società”16.

Al fine di accordare una tutela alla minoranza, partendo dall'osservazione che in

questi casi la decisione presa dall'assemblea non può essere assunta in assenza di

una oggettiva giustificazione, si prospetta l'applicazione analogica dell'art. 1349

c.c., osservando che in simili ipotesi la società, o meglio l'assemblea ed al suo

interno la maggioranza, verrebbe a trovarsi nella posizione dell' “arbitratore”, il

quale nel determinare la propria scelta è tenuto ad attenersi ad un criterio di equità

e ragionevolezza17. Per di più, l'assemblea dovrebbe considerarsi un arbitratore in

conflitto di interessi.

Ci si interroga a questo punto circa quale debba essere l'azione attraverso la quale

il socio possa far valere la “manifesta erroneità o iniquità” della deliberazione.

Avuto riguardo a quanto previsto in materia contrattuale, lo strumento più

adeguato a far valere un tale vizio deve essere sicuramente individuato nell'azione

di annullamento.

Precedentemente alla Riforma del 2003, le tesi che appoggiavano la ricostruzione

qui proposta ritenevano che l'azione dovesse essere proposta ai sensi dell'art. 2377

c.c.18.

(16) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit, p. 169ss.

(17) T. Ascarelli, Interesse sociale e interesse comune nel voto, cit., p. 1147.(18) La medesima soluzione, sempre in ambito societario, è prevista dall'art. 2264 c.c.

98

Deve tuttavia essere rilevato che, alla luce delle modifiche apportate con

l'intervento riformatore, soprattutto in termini di limitazione della legittimazione

attiva, l'impugnativa disciplinata dall'art. 2377 c.c. non sembra più essere idonea

ad applicarsi in casi come quelli qui in esame: l'utilizzo di una simile azione

veniva infatti affermato in quanto la medesima era disciplinata in modo coerente

rispetto ai principi generali in materia di annullabilità.

Oggi invece, essendo fuor di dubbio che i “principi generali” non prevedono

alcuna discriminazione tra i soggetti astrattamente tutelati dall'azione di

annullamento, come invece è disposto nel nuovo art. 2377 c.c.19, una tale

impugnativa non può più essere accettata in questa sede, ove espressamente ci si

vuole richiamare ai principi medesimi utilizzando un ragionamento analogico20.

Questa incongruenza emersa dopo la Riforma può essere però superata ricorrendo,

nell'ipotesi qui considerata, alla tradizionale azione di annullamento prevista dal

diritto dei contratti, disciplinata agli artt. 1441 ss. c.c.: stabilito infatti che l'azione

di annullamento in materia societaria non sembra più essere conforme ai “principi

generali dell'ordinamento”, occorrerà applicarne altra che invece sia espressione

di quest'ultimi.

Conseguentemente, l'azione per l'annullamento della deliberazione assembleare

“manifestamente iniqua” (ossia assunta con “abuso di potere”), resterà

proponibile entro il consueto termine quinquennale, mentre i soci non

soggiaceranno alle limitazioni della legittimazione attiva inserite dal Legislatore

(19) F. Di Girolamo, Sulla legittimazione ad impugnare le delibere assembleari di s.p.a. nonconformi: ratio e <<verità>> sugli artt. 2377 c.c. e 127bis T.U.F. , in Nuove leggi civ., 2014, I, p.218.

(20) Come già è stato peraltro notato, la selezione degli “interessi rilevanti” per poter chiederel'annullamento della deliberazione è stata fatta in maniera del tutto arbitraria dal Legislatore,ritenendo non meritevoli quelli dei piccoli azionisti, sulla base della presunzione che questi fosserodisinteressati alla gestione sociale. Come già notato, tale disciplina suscita anche dubbi dilegittimità costituzionale.

99

nella omologa azione in materia societaria.

Oltre alla soluzione proposta, è però possibile individuarne anche una seconda, al

fine di rimediare in modo parzialmente differente al medesimo problema di

carenza di tutela.

Tale seconda ricostruzione, peraltro già presa in considerazione in passato sia

dalla dottrina che dalla giurisprudenza per risolvere i casi in cui il conflitto si

manifesta soltanto tra maggioranza e minoranza, lasciando impregiudicata la

società, è quella che prevede il ricorso al principio generale di “buona fede”

nell'esecuzione e nella formazione del contratto, espressamente previsto dagli artt.

1337 e 1375 c.c..

Per giustificare il ricorso a tale principio, si noti che la società è evidentemente

fondata su di un contratto, essendo che anche ove costituita come società

unipersonale, questa resta sempre aperta alla possibilità di un allargamento della

compagine sociale; di conseguenza le parti, ossia i soci, sono tenuti ad eseguire lo

stesso secondo “buona fede”, in particolare nell'esercizio del proprio diritto di

voto in assemblea.

Questo implica dunque l'illiceità per contrarietà a buona fede delle deliberazioni

che, senza una oggettiva giustificazione, vadano a ledere gli interessi della

minoranza21.

Una soluzione parzialmente diversa, ma sempre basata sulla violazione del

principio di “buona fede”, è stata proposta da Trimarchi22: L'A. nota come non sia

sufficiente una qualsiasi violazione della buona fede contrattuale per giustificare

la sanzione dell'invalidità, ma occorra che la violazione stessa sia di “gravità

(21) Fr. Ferrara jr., Imprenditori e società, Milano, 1952, p. 301; F. Galgano (nt. 45), p. 300. (22) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit, p. 169

ss.

100

sufficiente”. Viene dunque presentata una soluzione volta a dimostrare che la

violazione della buona fede sia effettivamente di gravità tale da giustificare

l'invalidità della deliberazione.

L'interprete deve innanzitutto modificare il proprio punto di vista, ritenendo la

delibera non come un atto assunto dalla maggioranza per perseguire un proprio

interesse extrasociale, ma quale atto della società; a questo punto, ove la

deliberazione non comportasse alcun vantaggio per la società stessa, risultando

allo stesso tempo nociva per la minoranza, assumerebbe le caratteristiche dell'atto

emulativo; e l'emulazione sarebbe da considerarsi un fatto sufficientemente grave

da poter definire l'atto illegittimo per violazione della buona fede23.

Resta solamente da sottolineare che, ai sensi di tale ultima tesi, il ricorso al

principio di “buona fede” resterebbe precluso nelle ipotesi in cui la delibera

nociva per la minoranza risultasse perfino utile alla società: in tal caso o si

accetterà, come ritengo, di rinvenire comunque, nell'intento fraudolento che ha

animato la maggioranza, una violazione sufficientemente grave della buona fede

tale da consentire in ogni caso di desumerne l'invalidità della deliberazione,

oppure si sarà costretti a battere altra strada.

Quale che sia la ricostruzione adottata, ove si riscontri una sufficientemente grave

contrarietà della deliberazione al principio generale di buona fede, sarà possibile

ricorrere al giudice per far riconoscere l'illegittimità della stessa.

Riterrei che l'azione idonea a tale scopo debba essere anche in questo caso quella

di annullamento, ai sensi degli artt. 1441 ss. c.c., per le stesse ragioni più sopra

esposte: la fattispecie dell'assunzione di una deliberazione assembleare contraria

al principio di buona fede sembra infatti poter essere analogicamente ricondotta a

(23) La sufficiente gravità sarebbe testimoniata dal fatto che gli atti di emulazione sonoespressamente vietati, anche se in altra sede, all'interno del Codice Civile, all'art. 833.

101

quelle disciplinate dagli artt. 1337 e 1375 c.c., i quali impongono il rispetto del

“dovere di buona fede” nella formazione ed esecuzione del contratto; essendo

violato nel caso qui in esame sia il dovere di buona fede nell'esecuzione del

contratto di società, sia il medesimo nella formazione di un negozio giuridico a

contenuto patrimoniale quale la deliberazione dell'assemblea di società, non

sembrano esservi ostacoli all'applicazione una simile soluzione24.

5.2.2. Va da ultimo detto che tutte le opzioni proposte per reagire agli “abusi di

potere” della maggioranza, sono state sottoposte ad una critica, relativamente al

ruolo che il giudice verrebbe ad assumere ove fosse chiamato a pronunciarsi

sull'esistenza di un presupposto oggettivo a giustificazione della delibera, o

comunque a verificare la sussistenza di un abuso del diritto di voto da parte della

maggioranza, consistente in un fine fraudolento a cui la delibera sarebbe ispirata25.

È stato rilevato come il giudice in questi casi si trovi ad esaminare il merito della

deliberazione, verificando le ragioni che l'hanno determinata, mentre il sindacato

giudiziario sulle delibere assembleari dovrebbe in via di principio rimanere

questione di “mera legittimità”, ossia, ai sensi dell'art. 2377, vertere sulla sola

“conformità della legge o dello statuto”26.

Si contrappongono in questa sede due esigenze: da una parte la necessità di

assicurare all'assemblea, deliberando con le maggioranze richieste, un potere

discrezionale nel determinare la politica societaria, nonché le modalità appropriate

per attuarla; dall'altra, l'esigenza di evitare (consentendo il sindacato di un giudice

su tali delibere) che la medesima maggioranza abusi di questo potere in danno

(24) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit, p. 175.(25) Negli stessi termini la critica è stata posta in relazione al giudizio ai sensi dell'art. 2373

c.c. Sul punto, F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Torino, 2012, p. 294.(26) G. Ferri, Poteri della maggioranza e diritti del socio, cit., p. 162.

102

degli azionisti di minoranza, approfittando della propria posizione di forza.

Deve rilevarsi che spesso il punto d'equilibrio tra tali esigenze è di difficile

individuazione.

La giurisprudenza non si è mai spinta apertamente ad ammettere la possibilità di

sindacare le scelte rientranti nella discrezionalità della gestione sociale ed anzi al

contrario ha sempre affermato che tali scelte restano “prerogativa sovrana

dell'assemblea”; ma nei fatti esigenze di “giustizia” hanno spesso portato i

giudicanti ad ampliare notevolmente il proprio ambito di indagine,

contraddicendo le proprie affermazioni e scendendo in valutazioni economiche

strettamente relative alla gestione sociale27.

La circostanza che questa critica mette in luce è che pur essendo in via di

principio ammissibile ritenere illecita una deliberazione ispirata esclusivamente

ad un fine abusivo (quale potrebbe essere quello di estromettere o ridurre

sensibilmente la partecipazione di soci di minoranza molesti), resta molto difficile

determinare in concreto se il fine della stessa sia stato solamente l'intento

fraudolento: una decisione attinente alla gestione sociale infatti, pur sembrando

non necessaria o “fuori misura” nel momento in cui viene assunta, potrebbe essere

determinata da scelte imprenditoriali di più ampio respiro, volte ad attuare una

politica societaria di lungo termine.

In tutti questi casi, la scelta dell'assemblea che ad un primo sguardo potrebbe

apparire non necessaria o eccessiva, se inserita nel più ampio contesto della

pianificazione dell'azione societaria, potrebbe divenire giustificata.

In altri termini, anche ove di per se una determinata deliberazione sembri

contenere, a seguito di una perizia tecnica, una scelta “non opportuna” per

(27) A. De Gregorio, Impugnativa di deliberazioni assembleari di società per azioni contrarieall'interesse sociale, in Riv. Dir. Comm., 1951, II, p. 223.

103

l'attuale situazione della società e dannosa per la minoranza, ciò stesso non

basterebbe a dimostrare deduttivamente l'intento fraudolento della maggioranza

che tale scelta ha determinato, in quanto non si può impedire all'assemblea di

assumere decisioni anche “rischiose” o finalizzate ad un eventuale futuro

incremento aziendale o produttivo, pena la sostanziale negazione dello stesso

“principio di discrezionalità” che deve informare la gestione delle società.

Appare quindi necessario provare per altra via il fine abusivo che ha animato la

maggioranza, unica condizione che consente di determinare l'illegittimità della

delibera, se non si vuole affidare al giudice la libera determinazione di quale sia in

concreto l'interesse sociale28.

Viene da dire che in questa situazione ci si dovrebbe porre in un'ottica opposta

rispetto a quella che, astraendo, può trarsi dall'articolo 2441 in tema di diritto di

opzione: infatti mentre in questo caso la scelta di politica societaria di escludere

tale diritto non è libera e del tutto discrezionale, esistendo un onere di giustificare

congruamente (ed in via preventiva) tale decisione a carico della società, sicché

nel caso di giustificazione non sufficientemente chiara si presume un fine nocivo

verso i soci di minoranza, nelle altre scelte inerenti alla gestione sociale è

viceversa tendenzialmente imperante il “principio di discrezionalità”, con il che la

“prova” dello scopo fraudolento grava su coloro che vogliono opporsi alla

decisione stessa; conseguentemente, in caso di prova insufficiente, la scelta

dell'assemblea dovrà ritenersi del tutto legittima.

Fermo restando quanto notato, se la valutazione dell' “interesse sociale” può farsi

rientrare nei compiti dell'assemblea, resta certamente ai soci di minoranza la

possibilità di opporsi a deliberazioni assunte per fini evidentemente estranei a

(28) A. De Gregorio, Impugnativa di deliberazioni assembleari di società per azioni contrarieall'interesse sociale, cit., p. 228.

104

quest'ultimo, fornendo adeguata prova.

Una tale critica rimane allora pur sempre superabile: anche restando palese che il

giudice in simili ipotesi si trova costretto ad esaminare il merito della

deliberazione, si deve ritenere comunque precluso qualsiasi attentato alla libertà di

voto ed ogni valutazione circa la convenienza della politica economica scelta

dall'assemblea. L'esame del merito deve rimanere sempre finalizzato a verificare

la legittimità della delibera, accertando l'esistenza di un intento fraudolento della

maggioranza sulla base delle prove fornite29; si deve semmai notare come possa

talvolta risultare particolarmente arduo un tale onere della prova, ove si voglia,

come auspicato, preservare integro il principio di discrezionalità nella gestione

sociale ed escludere al giudice qualsiasi possibilità di determinare quale sia in

concreto l'interesse della società30.

5.2.3. Al fine di ammettere un'impugnativa da parte degli azionisti dissenzienti

contro le deliberazioni ispirate ad un fine extrasociale, sembra ipotizzabile

un'ultima strada, anch'essa elaborata partendo da uno dei capisaldi della materia

contrattuale, ossia il concetto di “causa del contratto”, in questo caso di società.

La causa del contratto di società può essere determinata, per le società in genere,

esaminando l'art. 2247: si desume quindi che la “funzione del contratto” consiste,

come contenuto minimale, nell'esercitare in comune un'attività economica al fine

di dividerne gli utili; la causa del contratto deve però essere determinata anche

(29) A. De Gregorio, Impugnativa di deliberazioni assembleari di società per azioni contrarieall'interesse sociale, cit., p. 223.

(30) L'onere della prova diverrebbe meno gravoso ove si ammettesse, come fa G. Ferri, Poteridella maggioranza e diritti del socio, cit., p. 162, la possibilità di dimostrare il fine fraudolento edantisociale attraverso presunzioni “gravi, precise e concordanti”. Non si può tuttavia sottacere checosì facendo si va ad ampliare in modo notevole la discrezionalità del giudice, mettendo a rischiol'integrità del “principio di discrezionalità”.

105

alla luce delle norme che disciplinano i vari tipi di società.

Si avrà quindi una diversa complessità della causa a seconda dei vari tipi, mentre

la situazione più complessa si ritrova evidentemente nella società per azioni31.

Stringendo l'ambito dell'indagine alla società per azioni, che qui interessa, si può

ritenere che la causa di quest'ultima sia composta da tre ampi ordini di interessi:

interesse a dar vita ad una organizzazione imprenditoriale efficiente; interesse a

massimizzare il profitto; interesse a massimizzare il dividendo.

Questi diversi interessi, strettamente concatenati tra loro, non si pongono in un

rigido ordine gerarchico, ma spetta alla maggioranza attraverso l'assemblea

determinare quale di questi far prevalere individuando quell'interesse “sociale”

complessivo di cui più volte si è parlato; determinazione che, è bene ricordare,

rientra nella “discrezionalità dell'assemblea”, la quale è chiamata a “dettare la

linea” della società: in questo modo il “principio di maggioranza” che governa le

società azionarie fa si che i soci dissenzienti non possano impugnare la legittima

determinazione dell'interesse “sociale” fatta dalla maggioranza, sempre che tale

determinazione resti nell'alveo delle tre macro componenti di cui si costituisce

astrattamente la “causa della società”.

Proprio a partire da queste considerazioni si sviluppa quest'ultima soluzione volta

tutelare le minoranza dalle deliberazioni assunte in assemblea per fini

extrasociali32.

Se si osserva che la “causa della società” non deve esistere solo nel suo momento

costitutivo, ma persiste durante tutta la vita della stessa, nelle diverse declinazioni

determinate dall'organo assembleare entro i limiti sopra esaminati; se si considera

(31) F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, cit., p. 19.(32) A. De Gregorio, Impugnativa di deliberazioni assembleari di società per azioni contrarie

all'interesse sociale, cit., p. 229.

106

a questi fini l'ente società ed i suoi organi come strumento per perseguire la causa

sociale, emerge immediatamente la funzione limitativa svolta dalla “causa del

contratto” nei confronti delle decisioni assunte dalla maggioranza attraverso

l'assemblea: la maggioranza non potrà assumere deliberazioni contra causam,

cioè estranee al perseguimento della causa della società (che si esprime

nell'interesse sociale), pena l'invalidità delle stesse.

Accedendo a questa ricostruzione peraltro è possibile sostenere l'impugnabilità

delle deliberazioni assunte per fini diversi dall'interesse sociale anche in

mancanza di un pregiudizio per la società, in quanto la finalità estranea alla causa

del contratto è di per se sufficiente.

Giova ricordare che la maggiore o minore rigidità dei limiti posti alla

maggioranza ai sensi di questa soluzione molto dipenda dal fatto che si sposi la

teoria “contrattualistica” o “istituzionalistica” dell'interesse sociale33.

Per concludere circa la ricostruzione proposta, occorre dire dello strumento

attraverso il quale gli azionisti hanno la possibilità di portare dinnanzi a un

giudice la deliberazione invalida per “vizio di causa”.

Ricorrendo ancora una volta ai più volte menzionati “principi generali

dell'ordinamento giuridico”, lo strumento appropriato a tale scopo si ritiene sia

l'azione di nullità ex art. 1418 c.c., la quale consente di far valere in sede

giudiziale l'illiceità della causa del negozio giuridico.

Anche in questo caso dunque, i “principi generali” consentono all'interprete di

restituire ai soci una più ampia difesa contro le deliberazioni invalide, che può

essere azionata a prescindere dalle limitazioni in termini di tempo e di

legittimazione previste dagli artt. 2377 ss. c.c. come risultano dopo la Riforma del

2003.

(33) Si veda in proposito supra, Capitolo IV, § 4.2.

107

Merita da ultimo considerare quell'opinione che individua la “causa delle

deliberazioni assembleari” sempre nella “attuazione del contratto di società”,

concludendo che una tale causa sarebbe “sempre lecita e meritevole di tutela”34.

Una tale considerazione sembrerebbe quantomeno ottimistica, dando per scontato

che ogni deliberazione assembleare sia sempre e comunque volta a realizzare la

causa del contratto di società.

In realtà non è contestabile che talvolta, nei fatti, l'organo assembleare venga

utilizzato per perseguire interessi a questa estranei: in tali situazioni non è

opportuno escludere a priori la possibilità di verificare che in concreto lo

“strumento-società” sia stato utilizzato per un fine diverso rispetto al

perseguimento dell'interesse sociale e quindi non per l'attuazione del contratto di

società, con ciò rilevando l'illiceità dell'atto risultante.

5.3. Se fino ad ora si è voluto restituire alla minoranza uno strumento di tutela

anche ove nessuna norma di legge appaia formalmente violata, come nel caso del

sopra esaminato “abuso del diritto di voto” da parte della maggioranza,

proponendo una soluzione nuova ad un problema noto da tempo, adeguandosi alle

modifiche intervenute nel 2003, in questa sede viene esaminato un “rimedio” a

quello che probabilmente va considerato l'istituto più controverso e criticato che la

Riforma ha introdotto nel sistema delle invalidità delle deliberazioni assembleari.

Ci si riferisce alla “sanatoria della nullità”, che come si è detto incide sia sulla

posizione soggettiva degli azionisti che sull'integrità e coerenza del sistema

societario nel suo complesso.

Come si è ricordato, l'attuale sistema non risponde più al precedente quadro

normativo, basato sulla distinzione tra vizi incidenti sul procedimento

(34) P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, cit, p. 56.

108

deliberativo, tendenzialmente “sanabili” decorso il termine per l'impugnazione

della delibera, e vizi riguardanti il contenuto della deliberazione, in passato

soggetti al regime della nullità contrattuale. Una differenza del regime

sanzionatorio di queste distinte tipologie di vizi permane, ma solo in termini di

maggiore durata del lasso di tempo durante il quale la decisione contenuta nella

delibera resta solo provvisoriamente produttiva di effetti, essendo i casi di

“nullità” caratterizzati da un termine per l'impugnazione più lungo.

Questo tuttavia non esclude affatto che anche una deliberazione nulla per via del

suo contenuto, salvo l'ipotesi particolare in cui questa preveda la sostituzione

dell'oggetto sociale con uno illecito o impossibile, vada a consolidarsi, nonostante

la contrarietà a norme imperative.

La legge in sostanza prevede un sistema sanzionatorio di base analogo sia per i

vizi comportanti nullità che per quelli determinanti annullabilità, differenziando di

fatto solamente la legittimazione ed il termine per farli valere.

Il fatto che una deliberazione assembleare contrastante con norme imperative

vada a consolidarsi è però suscettibile di provocare risultati più o meno gravi a

seconda del contenuto che la caratterizza35.

Fermo restando il notevole disvalore consistente nell'infrazione “legalizzata” di

una norma non derogabile, che già di per se costituisce una grave conseguenza,

effetti ancor più deplorevoli si hanno nel momento in cui una delibera non si limiti

soltanto a contenere una decisione riferita ad un fatto concreto e puntuale attinente

alla gestione della società, ma sia volta a porre una regola destinata ad incidere

sull'organizzazione ed il funzionamento della società, essendo che in tal caso la

regola illegittima verrà ad essere applicata per un numero indefinito di volte nel

tempo.

(35) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, in Riv. Dir. Comm., 2005, I, p. 1020 ss.

109

Sulla base di queste osservazione riguardanti il contenuto delle deliberazioni

assembleari, è possibile distinguere le stesse in “deliberazioni- fatto” (le prime) e

“deliberazioni-regola” (le seconde)36.

Quanto precede consente inoltre di adottare una lettura diversa della

classificazione dei vizi delle deliberazioni assembleari.

Se in passato si distinguevano vizi di contenuto e di procedimento,

rispettivamente espressione di diversi interessi tutelati, collettivi nel primo caso,

tendenzialmente privati ed attinenti ai rapporti tra i soci nel secondo, oggi alla

luce del nuovo quadro normativo, la distinzione sembrerebbe doversi basare sul

“valore”, sul contenuto, della determinazione approvata tramite la delibera, a

prescindere dalla tipologia di interesse (generale o privato) alla cui tutela era

preposta la norma violata.

A questo modo, in qualche misura è parso “accettabile” che in relazione ad un

fatto determinato una deliberazione assembleare decida in senso contrario a

norme imperative e tuttavia successivamente si consolidi, decorso un dato termine

e stante l'inerzia di tutti i legittimati a dolersene, al fine di tutelare le esigenze di

certezza e stabilità proprie delle relazioni commerciali37; ma con riferimento alle

“deliberazioni-regola” illecite, è possibile ed anzi doveroso ricercare nei principi

generali dell'ordinamento, secondo il disposto dell'art. 12 delle preleggi, altre vie

per tutelare sia le esigenze di legalità del sistema societario, non potendosi

consentire una deroga generale a norme inderogabili, che i diritti dalla minoranza,

(36) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1021, con riferimento alle decisionidei soci nelle S.r.l.

(37) Le medesime esigenze peraltro ispirano altre disposizioni dell'ordinamento societario,come ad esempio l'art. 2332 c.c., ove il legislatore ha elencato tassativamente le ipotesi in cui èpossibile dichiarare la nullità della società dopo l'iscrizione nel registro delle imprese. In proposito,V. Salafia, Invalidità delle deliberazioni assembleari nella riforma societaria, in Società, 2003, p.1180.

110

la quale sarebbe altrimenti costretta a subire l'azione illecita della maggioranza

indefinite volte, senza aver più alcuno strumento per reagirvi.

Guardando quindi alla disciplina dei contratti, assunta come disciplina generale

rispetto alla quale la materia societaria si configura come speciale, si rinviene una

norma che sembra poter dare una soluzione al caso esaminato38.

Ci si riferisce all'art. 1339 c.c., il quale dispone la sostituzione automatica delle

clausole illecite con la disciplina legale inderogabile.

Applicata alla materia societaria, tale norma consente di adire il giudice al fine di

ottenere una sentenza dichiarativa con la quale, rilevata l'illiceità della regola

statutaria inserita dalla deliberazione assembleare, si determini l'inapplicabilità

della previsione in essa contenuta, determinando un rispandersi della disciplina

legale illecitamente derogata. Si badi peraltro che al deposito di una tale domanda

giudiziale non ostano le previsioni in materia di legittimazione ed il decorso dei

termini previsti per le impugnative dagli artt. 2377 ss. c.c.; in questa sede infatti si

propone, come detto, di uscire dalla disciplina del diritto societario, ricorrendo

agli strumenti processuali del diritto dei contratti; ciò proprio al fine risolvere i

problemi di coerenza che le norme di diritto societario riformate hanno sollevato,

con particolare riguardo alla previsione di un termine per l'impugnabilità delle

deliberazioni nulle.

Adottando una tale soluzione, si potranno dunque risolvere sia il problema di

legalità del sistema societario causato dalla “sanatoria” più volte citata, sia quello

della carenza di tutela rispetto agli azionisti.

In relazione invece a quelle delibere che sono state in precedenza definite

“deliberazioni-fatto”, le necessità di tutela della minoranza, nei casi più gravi,

possono essere risolte ritornando ad esaminare il contenuto specifico della

(38) M. Rossi, L'invalidità delle decisioni dei soci, cit., p. 1023.

111

deliberazione, verificando il tipo di violazione che essa comporta rispetto alla

posizione dei soci, con riguardo alla fattispecie concreta che essa determina: si

ritorna a questo punto a parlare di lesione dei “diritti soggettivi” degli azionisti

ove sia leso un interesse individuale elevato a tale rango, nel qual caso, come

precedentemente prospettato, la sanzione sarà quella dell'inefficacia, sottratta alla

previsione della rilevabilità entro il termine triennale dettato per le ipotesi di

nullità delle deliberazioni39.

5.4. Il problema derivante dalla “sanatoria” delle deliberazioni nulle può tuttavia

essere affrontato anche da un altro punto di vista, attraverso una argomentazione

che si propone di risolvere la questione alla base, rendendo sempre di fatto

inoperante ogni deliberazione affetta da nullità, anche decorso il termine per

l'impugnazione.

Punto di partenza di questa diversa ricostruzione del problema è l'osservazione

che il decorso del termine triennale previsto dall'art. 2379 c.c. in realtà non

comporta una “sanatoria” vera e propria della nullità che affligge la deliberazione

assembleare. Si deve in proposito osservare che “la sanatoria delle nullità,

nell'attuale sistema giuridico, può discendere, infatti, solo da una espressa

disposizione di legge”40.

Analizzando le altre norme in tema di nullità delle deliberazioni assembleari si

può in effetti cogliere una distinzione tra casi in cui la legge determina una vera

sanatoria di alcune ipotesi di nullità ed altri in cui il verificarsi di determinati

presupposti comporta soltanto o l'impossibilità di proporre la domanda di nullità

(39) Si veda supra § 5.2.(40) V. Salafia, Invalidità delle deliberazioni assembleari nella riforma societaria, cit., p.

1181.

112

oppure l'impossibilità per il giudice di pronunciarla.

In particolare, nei casi disciplinati dall'art. 2379 bis, il Legislatore ha voluto

prevedere espressamente due ipotesi nelle quali si ha la possibilità, peculiare nel

nostro ordinamento, di sanare effettivamente una deliberazione nulla, col risultato

di cancellare i vizi che la inficiavano e far si che quest'ultima divenga

definitivamente inattaccabile; al contrario se si esamina l'art. 2379 ter, si nota

come le conseguenze previste dalla legge al ricorrere delle circostanze menzionate

siano di tenore sicuramente diverso: in questi casi i vizi che colpivano la

deliberazione non vengono cancellati, ma il decorso dei termini previsti comporta,

ove la domanda di nullità non sia ancora stata proposta, il divieto di presentarla,

mentre nel caso in cui la causa sia già pendente, l'impedimento per il giudice di

dichiarare la nullità della delibera, fermo restando il diritto al risarcimento per i

soci ed i terzi.

Le conseguenze che derivano da queste osservazioni sono notevoli. Quella che si

definisce generalmente come una “sanatoria di fatto” per decorso dei termini, si

manifesta ora per quello che è, ossia niente di più che un impedimento ad iniziare

o proseguire il giudizio, giustificato dalla necessità di stabilizzare gli atti della

società.

Le conclusioni tratte dall'esame dell'art. 2379 ter possono quindi essere estese alla

fattispecie disciplinata dall'art. 2379.

In mancanza dell'espressa previsione di un effetto sanante prodotto dal decorso

del termine triennale, non è possibile sostenere che i vizi determinanti la nullità

siano in questo modo cancellati, ma semplicemente si dovrà affermare

l'impossibilità di promuovere una azione giudiziale per far dichiarare la nullità

della deliberazione, la quale permane comunque viziata.

113

Una volta rilevato quanto precede, si affaccia allora la possibilità di ricorrere ad

una disposizione codicistica, l'art. 1442, ult. co., dettata in materia di annullabilità

del contratto, ma che sembra plausibile applicare analogicamente anche in questa

sede, nonostante ci si stia occupando di “nullità”41.

Deve a tal fine rilevarsi che una simile disposizione non avrebbe senso in materia

di nullità contrattuale, viste le caratteristiche di quell'istituto, che ne consentono la

rilevabilità del vizio d'ufficio o su istanza di parte senza limiti di tempo; se invece

si prende atto della notevole somiglianza che attualmente caratterizza la disciplina

della annullabilità contrattuale e quella della “nullità” (nonché dell'annullabilità)

delle deliberazioni assembleari, pare ragionevole affermare la possibilità di

applicare la norma dell'articolo richiamato anche nelle ipotesi di deliberazioni

assembleari nulle.

Stante quanto rilevato quindi, salva l'ipotesi di deliberazioni nulle in quanto volte

a sostituire l'oggetto sociale “prevedendo attività illecite o impossibili”, le quali

restano impugnabili senza alcun limite di tempo, una volta decorso il termine per

impugnare le deliberazioni affette da nullità ex art. 2379 c.c., si apre per gli

azionisti l'opportunità di ricorrere all'art. 1442 c.c. ove fossero chiamati a dare

esecuzione alla stessa: la nullità potrebbe essere validamente opposta per resistere

alla pretesa di esecuzione della delibera, nonostante siano decorsi i termini per

l'impugnativa42.

(41) V. Salafia, Invalidità delle deliberazioni assembleari nella riforma societaria, cit., p.1181.

(42) Come notato da V. Salafia, Invalidità delle deliberazioni assembleari nella riformasocietaria, cit., p. 1181, essendo che l'art. 1324 c.c. estende le norme in materia di contratti ai solinegozi giuridici aventi contenuto patrimoniale, l'estensione analogica della norma dell'art. 1442potrà aversi solo con riguardo alle deliberazioni aventi contenuto patrimoniale. Si noti peraltro che,in misura maggiore o minore, sostanzialmente tutte le deliberazioni assembleari sono caratterizzateda aspetti e ricadute di contenuto patrimoniale; il che rende generalmente applicabile laricostruzione proposta.

114

Per finire, se si prospetta l'applicazione dell'art. 1442, ult. co., nei casi di nullità

delle deliberazioni assembleari, con ancor più facilità pare possibile prospettarne

l'utilizzo anche nei casi di annullabilità delle medesime: se l'art. 2377 c.c., comma

primo, dispone che “le deliberazioni dell'assemblea, prese in conformità della

legge e dell'atto costitutivo, vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o

dissenzienti” a rispettarle e quindi darvi esecuzione, non sembra potersi sostenere

che tale obbligo ricopra anche le deliberazioni viziate e per questo annullabili,

nonostante sia decorso il termine per farne rilevare l'invalidità.

Anche in quest'ultimo caso dunque, se il socio non potrà agire giudizialmente per

ottenere l'eliminazione della delibera, avrà quantomeno la possibilità di non essere

costretto a darvi esecuzione, non subendo così un danno maggiore.

A questo modo, avendo messo in luce difficoltà che gli azionisti, specie se piccoli,

incontrano nell'ottenere l'annullamento o anche solo il risarcimento del danno

subito per causa della deliberazione annullabile, si offre un rimedio di sicura

rilevanza per evitare in radice a questi di subire alcun danno, almeno dove

l'esecuzione della deliberazione necessiti della collaborazione dei soci.

115

116

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