Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattro capitelli del VI secolo oggi a Lione

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Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattro capitelli del VI secolo oggi a Lione Federico Guidobaldi Riassunto Federico Guidobaldi, Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattro capitelli del VI secolo oggi a Lione, p. 317-364. Sono stati ripresi in esame quattro capitelli bizantini, conservati a Lione, di tipo bizonale a canestro vimineo sormontato da aquile angolari, festoni, cristogrammi e monogrammi del papa Giovanni II (533-535). È stato possibile indicare il probabile impiego originario in un ciborio e precisare l'entità di pesanti restauri che, in base all'identificazione dei simboli araldici aggiunti, si sono potuti datare al XVII secolo ed attribuire alla famiglia romana dei Mattei. Si sono potuti poi stabilire la provenienza da Roma, ed in particolare dalla collezione Mattei, sia il passaggio per acquisto, verso il 1810, al cardinal Fesch, arcivescovo di Lione, che poi, evidentemente, non li vendette insieme al resto della sua collezione ma li lasciò alla sua cattedrale. L'in- (v. retro) dividuazione di tre disegni, uno dei quali inedito, eseguiti a Roma nel XV e nel XVI secolo e rappresentanti i capitelli stessi, ha permesso inoltre di confermarne la presenza a Roma, ed in particolare con buona probabilité nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano, prima dell'acquisizione dei Mattei. Citer ce document / Cite this document : Guidobaldi Federico. Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattro capitelli del VI secolo oggi a Lione. In: Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité, tome 101, n°1. 1989. pp. 317-364. doi : 10.3406/mefr.1989.1636 http://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1989_num_101_1_1636 Document généré le 16/10/2015

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Mélanges de l'Ecole françaisede Rome. Antiquité

Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattrocapitelli del VI secolo oggi a LioneFederico Guidobaldi

RiassuntoFederico Guidobaldi, Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattro capitelli del VI secolo oggi a Lione, p.317-364.

Sono stati ripresi in esame quattro capitelli bizantini, conservati a Lione, di tipo bizonale a canestro vimineo sormontato daaquile angolari, festoni, cristogrammi e monogrammi del papa Giovanni II (533-535). È stato possibile indicare il probabileimpiego originario in un ciborio e precisare l'entità di pesanti restauri che, in base all'identificazione dei simboli araldiciaggiunti, si sono potuti datare al XVII secolo ed attribuire alla famiglia romana dei Mattei.Si sono potuti poi stabilire la provenienza da Roma, ed in particolare dalla collezione Mattei, sia il passaggio per acquisto,verso il 1810, al cardinal Fesch, arcivescovo di Lione, che poi, evidentemente, non li vendette insieme al resto della suacollezione ma li lasciò alla sua cattedrale. L'in-(v. retro) dividuazione di tre disegni, uno dei quali inedito, eseguiti a Roma nel XV e nel XVI secolo e rappresentanti icapitelli stessi, ha permesso inoltre di confermarne la presenza a Roma, ed in particolare con buona probabilité nellachiesa dei SS. Cosma e Damiano, prima dell'acquisizione dei Mattei.

Citer ce document / Cite this document :

Guidobaldi Federico. Origine costantinopolitana e provenienza romana di quattro capitelli del VI secolo oggi a Lione. In:

Mélanges de l'Ecole française de Rome. Antiquité, tome 101, n°1. 1989. pp. 317-364.

doi : 10.3406/mefr.1989.1636

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FEDERICO GUIDOBALDI

ORIGINE COSTANTINOPOLITANA E PROVENIENZA ROMANA DI QUATTRO CAPITELLI

DEL VI SECOLO OGGI A LIONE

Premessa

Nel 1911 Bégule e Bertaux pubblicarono quattro capitelli che giacevano «inconnus et invisibiles» sui gradini di un passaggio interno che, dalla cattedrale di Lione, portava al coro d'inverno cioè alla nota Manécanterie romanica1.

Fu subito notato che si trattava di manufatti di età paleocristiana prodotti in ambiente culturale bizantino e quindi provenienti da aree lontane da quella lionese.

L'analisi degli elementi decorativi portò pure all'individuazione della tipologia di appartenenza. I quattro capitelli (figg. 1-4), in origine certamente uguali tra loro, sono infatti della classe dei bizonali con canestro vimineo, lavorato a giorno nella metà inferiore e con raffigurazioni di animali ο protomi animali nella metà superiore.

Nel nostro caso gli animali sono aquile ad ali spiegate che artigliano un festone disposto sinusoidalmente lungo tutto il perimetro del capitello e ripreso al centro di ogni faccia a formare una sorta di ghirlanda circolare. All'interno di questa sono inscritti in successione alternata un chri- smon ed un monogramma, quest'ultimo sostituito talvolta da più moderni simboli araldici.

È merito dei citati studiosi francesi l'aver osservato che i capitelli avevano subito incisivi restauri in un'epoca più prossima a noi : furono giustamente considerati come aggiunte successive non solo gli scudi araldici inseriti sulle ghirlande ma anche parte dei festoni stessi, gli abachi (oggi rimossi da tre dei quattro capitelli), qualche chrismon, ecc. Purtrop-

1 L. Bégule e É. Bertaux, Les chapiteaux byzantins à figures d'animaux. À propos de quatre chapiteaux découverts à Lyon, in Bull, monum., 75, 1911, p. 199-211.

MEFRA - 101 - 1989 - 1, p. 317-364.

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po però non furono annoverate tra i rifacimenti le aquile angolari che furono invece viste come originali ed appartenenti ad una cultura ancora «romana». Proprio a causa di questa interpretazione Bégule e Bertaux, pur propendendo per una provenienza costantinopolitana, lasciarono in sospeso l'identificazione del luogo di fabbricazione ed inoltre, sempre a causa dello stile ancora classico che vedevano nella resa formale delle aquile, affermarono che i capitelli di Lione erano «probablement les plus anciens de toute la série des chapiteux byzantins à corbeille et à figures d'animaux qui sont aujourd'hui connus»2.

Per sostenere questa ipotesi nel confronto con i pochi esemplari allora noti nell'ambito della stessa tipologia, come ad esempio quello di S. Clemente a Roma3, che sono datati entro il primo terzo del VI secolo, essi preferirono leggere nel monogramma contenuto dalla voluta dei festoni dei capitelli lionesi (figg. IB, 2C, 5 A) il nome dell'imperatore Ana- stasio (491-518), piuttosto che quello di Giovanni II, papa dal 533 al 535 4.

Questa insostenibile ipotesi fu subito criticata dal de Grüneisen5, che giustamente osservò che il monogramma non era affatto dissimile da quelli notissimi che si trovano in molti dei plutei della basilica di S. Clemente a Roma (fig. 5B) e sono concordemente assegnati a papa Giovanni II. Lo stesso autore tuttavia ritenne antiche le aquile angolari e di fatto considerò i capitelli opera di un «marbrier romain à une époque de transition»6 e concluse così : «les chapiteaux de Lyon sont le chant du cygne d'un art qui était destiné à mourir le lendemain»7. Il de Grüneisen si pronunciò dunque per una provenienza da Roma ed in questo senso fu decisamente esplicito perché ritenne che i quattro capitelli lionesi provenissero da S . Clemente8 ove l'attività di Giovanni II era documentata dalla citata serie di plutei col suo monogramma.

2 Id., Ibidem, p. 209. 3 Id., Ibidem, p. 202 e fig. 2. 4 Id., Ibidem, p. 209. Il fatto che il monogramma in questione fosse

assolutamente analogo a quelli esistenti su cinque plutei (del VI sec.) della basilica di S. Clemente in Roma (fig. 5) non sembra essere stato tenuto in gran conto dai due studiosi che invocano invece inesistenti difformità tra le due redazioni senza però rimettere in discussione l'unanime attribuzione, a Giovanni II, dei plutei e dei monogrammi di S. Clemente.

5 W. de Grüneisen, Un chapiteau et une imposte provenant d'une ville morte. Étude sur l'origine et l'époque des chapiteaux-corbeille, in Oriens christianus, 2, 1912, p. 281-316 in part. p. 299-300.

6 Id., Ibidem, p. 301. 7 Id., Ibidem, p. 302. 8 Id., Ibidem, p. 299.

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Molto più prudenti erano stati invece Bégule e Bertaux che avevano preferito affermare semplicemente che i restauri erano stati certamente eseguiti da marmorari romani e quindi i capitelli «qu'ils aient été ou non sculptés à Byzance, se trouvaient à Rome pendant le moyen âge»9.

Proprio al medioevo e, più precisamente, al XIII secolo vennero infatti attribuiti 10 - ma solo in base ad arbitrarie osservazioni di carattere stilistico - i rifacimenti e le aggiunte di simboli araldici. Di questi ultimi, in effetti, si comprese l'importanza ma, inspiegabilmente, sia allora che in seguito, si rinunciò a qualsiasi tentativo di risalire alla famiglia di appartenenza, forse anche perché non era chiaro quale fosse l'area geografica e cronologica in cui si dovevano svolgere le indagini di carattere araldico.

L'individuazione di un disegno rinascimentale che mi permetteva di collegare i capitelli lionesi con una chiesa di Roma, la constatazione che le aquile sono tutte totalmente rilavorate in età postrinascimentale e la successiva facile identificazione della famiglia romana a cui apparteneva lo stemma in questione mi hanno convinto a proporre una nuova analisi dei capitelli stessi; e questo anche perché, a partire dall'epoca delle due pubblicazioni che ho più volte citate, essi sono stati ricordati e menzionati in tutti gli studi sistematici11 ma sempre senza aggiornamento delle illustrazioni, delle descrizioni, dell'analisi stilistica e di quella storica, tutte ormai in buona parte superate.

Struttura originaria e successive manomissioni

I quattro capitelli fanno parte attualmente del Tesoro della Cattedrale di Lione e sono esposti (figg. 1-4) nella grande sala superiore dell'edifi-

9 L. Bégule e É. Bertaux, art. cit., p. 211. 10 Id., Ibidem, p. 210. 11 Mi riferisco soprattutto a R. Kautzsch, Kapitellstudien. Beiträge zu einer

Geschichte des spätantiken Kapitells im Osten vom vierten bis ins siebente Jahrhundert, Berlino-Lipsia, 1936, in part. p. 165 e fig. 529; a E. Kitzinger, List of early byzantine animal and bird capitals, in Dumb. OaL· Papers, 3, 1941, p. 61-72, in part. n°86 (fig. 116-117); J.Kramer, Skulpturen mit Adlerfiguren an Bauten des 5 Jahrhunderts η. Chr. in Konstantinopel, Dissert. Ludwig-Maximilians-Universität zu München 25/2/1965, (Colonia, 1968), p. 94, nn. 6-9; F. W. Deichmann, J. Kramer e U. Peschlow, Corpus der Kapitelle der Kirche von S. Marco zu Venedig, Wiesbaden, 1981, in part. p. 146 (di U. Peschlow); Ι.-?. Sodini e Κ. Kolokotsas, Aliki H: La basilique double (Études thasiennes, X), Parigi, 1984, in part. p. 43 nota 104.

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Β - Lato ovest.

A - Lato nord.

C - Lato sud.

Fig. 1 - Lione, Tesoro della cattedrale, capitello I.

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ciò romanico, detto « Manécanterie », che è adiacente alla terminazione sud della facciata della Cattedrale stessa 12.

Nei riferimenti li indicheremo con numeri romani progressivi a partire da quello più prossimo all'ingresso del museo13.

L'ampia documentazione fotografica che qui riportiamo (figg. 1-4) ci esime da una descrizione dettagliata anche se dobbiamo far osservare che i capitelli sono addossati alla parete e quindi una faccia di ognuno di essi è ispezionabile ma non fotografabile.

Una integrazione delle immagini è comunque necessaria sia per indicare le dimensioni ed i materiali, sia per tenere presenti le facce non documentate fotograficamente, sia per indicare le parti originali e quelle aggiunte ο rilavorate nel corso di incisive manomissioni che, come vedremo, possono essere ricondotte a più interventi cronologicamente separati. I quattro capitelli sono stati scolpiti in un marmo che è da ritenersi pro- connesio14 ed erano in origine praticamente identici tra loro come dimostrano anche le dimensioni riportate qui di seguito in cm, nelle quali le ridotte variazioni sono perfettamente coerenti con le leggere e d'altronde inevitabili differenze che si possono riscontrare anche nella fattura.

12 Una menzione del Tesoro e dell'edificio che poi lo ospiterà sono in L. Bégu- le, Monographie de la cathédrale de Lyon, Lione, 1880, ove però i capitelli non sono ancora menzionati. Una descrizione dettagliata dei più importanti «pezzi» del museo (tra i quali non sono però compresi i nostri capitelli) è nel catalogo di una mostra (Aa.Vv., Les trésors des églises de France, Expos, au Musée des Arts décoratifs, Parigi, 1965, p. 396-403). Uno sguardo d'insieme al Tesoro e all'edificio che lo contiene è fornito da A. Michalon, La cathédrale de Lyon, Colmar-Inghersheim 1974, in part. p. 63-67. I capitelli sono in questo caso citati ma con un'altra

posizione e con indicazioni del tutto errate : « Enfin, sur une balustrade, quatre chapiteaux en marbre blanc, sculptés au IVe siècle dans un atelier des bords de l'Adriatique, renommé en son temps pour ses réalisations ».

13 Ho preferito rinunciare ad utilizzare - come sarebbe sembrato logico - le sigle A, B, C e D usate da Bégule e Bertaux (art. cit. passim), sia perché non corrispondono alla disposizione attuale, sia perché, per errore, uno stesso capitello (è il nostro III), fotografato in due prospettive diverse, è stato indicato prima come Β (art. cit., fig. 1 a p. 201) e poi come D (art. cit., pi. II, D), e quindi uno dei quattro capitelli (è il nostro II) è restato di fatto inedito almeno dal punto di vista dell'immagine e non corrisponde ad alcuna sigla di quelle usate da Bégule e Bertaux. La concordanza reale tra le sigle di Bégule e Bertaux e le nostre è dunque la seguente : A = Ι; Β = III; C = IV; D = III.

14 Tale affermazione si trova già in Bégule e Bertaux, art. cit., p. 209. È noto che una certezza maggiore si può ottenere solo con un analisi chimico-fisica e quindi con il prelievo di un campione che però non ho ritenuto opportuno richiedere a causa della fragilità dei manufatti.

MEFRA 1989, 1. 21

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A - Lato nord.

Β - Lato ovest.

C - Lato sud.

Fig. 2 - Lione, Tesoro della cattedrale, capitello II.

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A - Lato nord.

Β - Lato ovest.

C - Lato sud.

Fig. 3 - Lione, Tesoro della cattedrale, capitello III.

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A - Lato nord.

Β - Lato ovest.

C - Lato sud.

Fig. 4 - Lione, Tesoro della cattedrale, capitello IV.

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 325

Capitello

Altezza Diagon. abaco (incl. aquile) Diagon. abaco Largh. al centro abaco Circonf . cordolo base diam. (ricavato)

I

38 72 62 45 96 28

II

39 73 63 45 98 28,5

III

36 73 64 n.d. 101 29,5

IV

35 n.d. n.d. n.d. 99 29

Tutti i capitelli conservano l'astragalo originale, reso con una sorta di corona di foglie assai stilizzate, presumibilmente d'alloro, che è interrotta quattro volte, al centro di ogni faccia, da un fiore assai semplice a sei petali in corrispondenza del quale la direzione delle foglie si inverte cosicché converge rispetto ad un fiore e diverge rispetto al successivo 15.

Dalla parte superiore di questa corona che funge da cordolo di base del canestro iniziavano le maglie del canestro stesso, rese con un intreccio di nastri viminei a tre capi e conservate almeno in parte in tutti e quattro gli esemplari. In effetti soltanto nel primo capitello il canestro è quasi intatto (soltanto alcuni tratti del cordolo vimineo superiore sono di restauro) mentre nel II e nel IV è originale solo per circa la metà e nel III è per la maggior parte rifatto ο mancante 16.

Il festone con le ghirlande contenenti in origine un monogramma (fig. 5A) ed un chrismon alternati 2 volte nelle quattro facce di ogni capitello erano certamente la parte più fragile del manufatto poiché erano quasi interamente distaccate dal nucleo marmoreo.

Non c'è quindi da sorprendersi se questi elementi hanno subito danni in tutti i capitelli e sono stati poi restaurati, integrati ο sostituiti totalmente17.

15 La fattura di questa corona è un pò diversa nei quattro capitelli : talvolta è più irregolare e trascurata, come nel III, talvolta è più omogenea, come nel I; anche i fiori sono spesso di dimensioni diverse perfino nell'ambito di uno stesso capitello, come nel caso del III.

16 In questo capitello si osserva infatti la mancanza (senza successive integrazioni) di circa un quinto del canestro.

17 Restano solo tre monogrammi originali (due nel capitello I e uno nel II) un chrismon e tre quarti di un altro chrismon (nel I). Tuttavia il chrismon è stato quasi sempre ripristinato (entrambi quelli del capitello II, uno del III e uno del IV) mentre il monogramma non è stato mai ricostruito, certo perché non era più comprensibile ο comunque significativo per i nuovi proprietari che curarono, come vedremo, i restauri : al suo posto furono infatti posti sempre simboli araldici.

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I danni e la manomissioni sono però, fortunatamente, assai limitati nel capitello I in alcune parti del II (la faccia attualmente rivolta a Sud è quasi intatta) e nel IV in cui il festone è conservato per tre quarti del perimetro ma i monogrammi sono tutti perduti e sostituiti da imitazioni del chrismon ο da scudi araldici18. Questi ultimi, assenti nel capitello I, sono presenti, in un esemplare, nel II e, in due esemplari, sia nel III che nel IV ; essi sono in pratica di tre tipi : a) scacchiera di quadrati attraversati da una banda ; b) aquila ad ali aperte ; e) campo diviso in due parti sovrapposte (spaccato) con b) nella zona superiore ed a) ο una semplificazione di a) nella zona inferiore.

È facile ricostruire in base alla sintesi di questi elementi araldici lo stemma della famiglia romana dei Mattei 19.

È da notare che tutte le integrazioni ο le aggiunte finora citate sono eseguite con un marmo a grana assai fine (del tutto diverso da quello originale a grana media) che è probabilmente da ritenersi un pentelico ο un Carrara, è anche interessante osservare che il lavoro «a giorno» è stato riprodotto in tutti i tratti di restauro del canestro e del festone tranne che nella ghirlanda e nel relativo contenuto , ricavati in genere in un unico blocchetto di marmo che è stato scavato solo in parte per dare l'illusione del vuoto ed è stato poi cementato al nucleo di marmo20.

18 Probabilmente il capitello IV era tanto danneggiato da non permettere una lettura della distribuzione originale e quindi nel restauro si commise, a mio parere, un errore di ricostruzione, cioè si pose un chrismon nel luogo prima occupato da un monogramma (la ghirlanda opposta che doveva ospitare forse un altro chrismon mal collocato è oggi del tutto distrutta) e si inserirono due rappresentazioni araldiche nelle due facce opposte che probabilmente in origine avevano un chrismon ciascuna. Ritengo di poter dedurre questa imprecisione dal fatto che, negli altri capitelli, il chrismon si trova sempre nella faccia alla cui base la corona d'alloro (o di olivo), converge verso il fiore mentre il monogramma si trova ove le foglioline divergono : regola questa che risulta invertita appunto soltanto nel capitello IV.

19 Lo stemma dei Mattei è uno « scaccato d'argento e d'azzurro alla banda d'oro attraversante» con «capo d'oro caricato di un'aquila coronata di nero» (T. Amayden, La storia delle famiglie romane, Roma, 1910, voi. II, p. 99-100).

20 Ben diversa è la situazione nei corrispondenti elementi originali che sono interamente lavorati «a giorno» e restano agganciati al nucleo marmoreo soltanto in un punto corrispondente al «cervello» della ghirlanda cioè all'abaco. L'uso di un marmo, diverso da quello originario, nel restauro, si può forse spiegare ricordando che il Carrara, del tipo statuario che è senza venature, è più resistente e meno frat- turabile del proconnesio : i tratti di intreccio viminea e di festone da rifare e giuntare erano infatti certamente lavorati e traforati prima dell'inserimento e quindi dovevano essere percorsi e trapanati quando erano già di spessore assai prossimo

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 327

Le aquile ad ali spiegate, la cui testa si integra con lo spigolo dell'abaco sono state tutte rilavorate dagli stessi artefici che hanno aggiunto gli scudi araldici con aquile : la fattura e la resa del piumaggio sono infatti analoghi. Dell'originale sembra non restare alcuna traccia, tranne forse per gli artigli, della cui dimensione primitiva, un pò maggiore, sembrano restare tracce quasi del tutto annullate dalla rilavorazione21. Qualche tratto originale si potrebbe forse vedere nella terminazione delle penne lunghe delle ali specialmente quando la lavorazione di superficie è assai limitata.

Nonostante il rifacimento pressoché totale - che comunque, però, dovrebbe essere stato soprattutto superficiale e quindi non dovrebbe aver comportato incisive asportazioni di marmo - è possibile ritenere che soggetti più ο meno analoghi a quelli attuali decorassero in origine gli angoli superiori dei capitelli. L'emergenza delle parti anatomiche, cioè, in particolare, quella del petto, della testa e delle terminazioni superiori delle ali, doveva infatti esistere nella stessa posizione già nella struttura originaria e non mi sembra che potesse corrispondere a figurazioni troppo diverse da quella delle aquile ad ali spiegate o, semmai, di altri volatili, ma sempre ad ali spiegate.

Nelle radicali rilavorazioni, finora sfuggite agli studiosi che si sono occupati dei capitelli, fu spesso necessario integrare il marmo caduto con elementi nuovi incollati con perni di ferro, mastice e stucco al nucleo danneggiato22.

Le parti sostituite sono soltanto le teste e l'estremità superiore delle ali ; queste comunque, in un secondo tempo, sono quasi sempre ricadute e non sono state più sostituite23.

all'originale, affrontando così rischi di frattura assai maggiori di quelli incontrati nell'esecuzione degli originali. Il fatto che le teste delle aquile (cfr. supra) siano state rifatte invece con un marmo proconnesio (o simile) conferma in certo qual modo che la scelta operata non era legata a mancanza di materiale ma piuttosto a motivi tecnici (la lavorazione delle teste offriva certo meno rischi).

21 Non si può escludere tuttavia che le tracce oggi visibili possano essere riferite ad un ripensamento della fase originaria di lavorazione.

22 Per eseguire questa operazione si è sempre preferito segare prima la superficie della rottura originaria e rincollare poi il nuovo pezzo sulla nuova superficie liscia.

23 Nel capitello I nessuna testa è stata sostituita ma si riscontra la caduta per rottura, relativamente recente, di un becco d'aquila e della parte superiore di un'ala; nel II due teste d'aquile già a suo tempo sostituite sono perdute (restano visibili i perni), una testa è di restauro e resta al suo posto pur se ha perso la parte inferiore del becco e la quarta testa d'aquila che era del nucleo originale, ha perso

328 FEDERICO GUIDOBALDI

II marmo usato in questi restauri integrativi, ο almeno nelle teste che si sono poi conservate, è apparentemente identico a quello originale ed è quindi un proconnesio ο comunque un marmo a grana media e non un Carrara come negli altri restauri. Data l'identità della tecnica di esecuzione delle aggiunte e la coincidenza dei soggetti anche dal punto di vista stilistico è logico pensare che le aquile siano state intese come ulteriori simboli araldici e rilavorate nella stessa fase di intervento a cui appartengono le altre integrazioni.

Concludendo con le osservazione sulla zona dell'abaco possiamo affermare che, in questa parte, si può indicare una manomissione che consistette innanzi tutto nell'apertura, in ciascuno dei capitelli, di due canaletti larghi circa 3 cm e profondi circa 2 cm, presumibilmente tracciati a partire dal centro della faccia superiore in due direzioni ortogonali fino a sboccare in corrispondenza dei fiori d'abaco di due facce contigue (figg. 1C, 2C, 5A)24 : è proprio in questa zona che, nonostante le stuccature, si riesce a vedere in molti casi la terminazione della solcatura sul « cervello» della ghirlanda che ne risulta quindi danneggiata25.

Queste manomissioni dell'abaco sono mascherate anche da una corrosione estesa, dovuta certamente a dilavamento e quindi all'esposizione ad agenti atmosferici. È da sottolineare che tale corrosione interessa solo le parti originali dei capitelli e quindi si verificò in un'epoca

relativamente antica ο comunque precedente ai restauri; il fatto però che le termina-

una metà obliqua per rottura relativamente recente; nel III tutte le teste d'aquila furono rifatte ma tre di esse sono perdute (si vedono i perni di ferro) e quindi ne resta solo una di restauro, in più anche tre terminazioni superiori di ali erano state restaurate ma poi le aggiunte caddero lasciando in vista i perni ο i fori in cui essi erano inseriti ; nel capitello IV le teste erano tutte conservate pur se rilavorate nel nucleo di base, ma rotture successive hanno interessato tutti i becchi, metà di una testa e due terminazioni di ali.

24 Abbiamo detto «presumibilmente», poiché nella faccia superiore è stato disteso uno spesso strato di malta tenacissima che, per quanto si può ritenere, serviva a far aderire un abaco moderno ora superstite solo nel capitello IV. Il fatto che tale abaco, alto 3 cm ca., esistesse anche sugli altri tre capitelli almeno nel 1911 è dimostrato dalle foto di Bégule e Bertaux (art. cit.).

25 Dato che gli strati di malta - e, nel capitello IV, l'abaco posticcio - coprono tutta la superficie superiore, il canaletto in questione è visibile solo allo sbocco : esso si legge dunque assai male, ο non si legge, quando il nucleo originario in corrispondenza del fiore d'abaco non è conservato ma troncato e sostituito da un nuovo blocchetto di marmo su cui è scolpita la ghirlanda. Di fatto comunque gli indizi sono sufficienti per una ricostruzione in tutti i capitelli meno il II, per il quale resta qualche serio dubbio per la posizione di uno dei canaletti (due alternative sono possibili).

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 329

Fig. 5 - a) Lione, Tesoro della cattedrale, capitello II, lato sud (particolare), b) Roma, S. Clemente, monogramma su uno dei plutei

zioni dei canaletti siano anch'esse corrose permette di ritenere che questi siano precedenti all'esposizione alla pioggia e quindi collegabili alla prima - ο alle prime - utilizzazioni dei capitelli26.

Riassumendo dunque e concludendo si può affermare che, dopo la prima lavorazione, i quattro manufatti subirono nell'ordine le seguenti manomissioni :

1) Apertura in rottura dei canaletti 2) Corrosione per dilavamento e quindi lunga esposizione all'aperto 3) Restauri integrativi estesi con aggiunta di rappresentazioni araldiche 4) Caduta di parte dei restauri ed altri danneggiamenti minori di elementi sia originali che di restauro.

26 È infatti evidente che alcune mutuazioni del marmo si verificarono quando il canale era già costruito e che le corrosioni, forse dovute ad una lunga esposizione alle acque piovane, interessarono anche il bordo del canale stesso. È ancor più evidente che i restauri postrinascimentali occlusero, occultarono ο mozzarono tali canali.

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Tipologia e stile

Gli elementi originali superstiti ci permettono, come abbiamo visto, di ricomporre la struttura originaria dei capitelli tranne che per i volatili che decoravano le terminazioni angolari superiori.

Anche questo particolare può essere però definito sulla base di considerazioni di carattere tipologico.

Si può innanzitutto osservare che, nella classe dei capitelli bizonali, alla quale, come è stato già da tempo stabilito, appartengono i nostri esemplari lionesi, i volatili raffigurati in posizione angolare nel registro superiore sono quasi esclusivamente colombe ο aquile27.

Nel nostro caso sono molti gli indizi che fanno propendere per le aquile. In primo luogo l'associazione aquila-festone è comune e diffusa in varie rappresentazioni scultoree dell'età classica e tardoantica28; in se-

27 Per un repertorio rinvio alle opere generali citate in nota 1 1 (e soprattutto a Kitzinger, art. cit.), cui si possono aggiungere per i capitelli classici E. von Mer- klin, Antike Figuralkapitelle, Berlino, 1962, e per un panorama esauriente della Grecia paleocristiana e bizantina J.-P. Sodini, La sculpture architecturale à l'époque paléochrétienne en Illyricum, in Actes du Xe Congrès international d'archéologie chrétienne, Thessalonique 1980, Città del Vaticano, 1984, pp. 207-298. Dopo le aquile e le colombe i pavoni sono i più frequenti ma compaiono quasi esclusivamente nella zona centrale (fiore d'abaco) del registro superiore. Tra gli animali alati vanno pure segnalati i grifoni che, insieme a cavalli alati ed altre figurazioni fantasti- che si trovano con una certa frequenza ma praticamente sempre in forma di protome.

28 II motivo è diffuso in tutta la scultura antica (in generale i putti, i bucrani e le aquile sono gli elementi iconografici più frequentemente associati ai festoni) e quindi non si rende necessario richiamare le numerosissime esemplificazioni : basterà ricordare la base della colonna Traiana. Come testimonianza della stessa associazione in capitelli antichi e tardoantichi possiamo citare l'esemplare del Civico Museo archeologico di Milano segnalato dal De Grüneisen (art. cit., pi. II, fig. 1) e pubblicato da G. C. Belloni (/ capitelli romani di Milano, in Museo archeologico e città, Centro naz. di studi per la storia dell'architettura, n°2, Roma, 1958, n° 59, p. 64-65, fig. 59) che lo attribuisce all'età Flavia ; per il III secolo si possono ricordare i capitelli del sarcofago a colonne n° 871 dei Musei Vaticani, Cortile del Belvedere, (bibl. in W. Helbig, Führer durch die öffentilichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom, 4a ediz. vol. I, Tubinga, 1963, scheda di Β. Andreae, p. 162 n° 218), citato dal von Merklin, (op. cit., n° 551, p. 227 e fig. 1041), che ricorda pure altri capitelli di età classica e tardoantica come quello di Villa Casali (ibidem, n. 553, p. 227 e figg. 1045-1046), in cui il festone pende dal becco delle aquile angolari, e quelli di Velleia (ibidem, n. 558, p. 228-229 e fig. 1051-1052), con aquile ad ali spiegate che quasi si toccano e festoni sostenuti sia dal becco delle aquile che da un appiglio al fiore d'abaco.

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condo luogo l'atto stesso del serrare tra gli artigli, sia per trattenere che per trasportare in volo, è tipico delle aquile e non certo delle colombe29; infine la stessa rappresentazione ad ali spiegate in posizione angolare nei capitelli bizonali è, a quanto sembra, caratteristica delle aquile30, mentre è praticamente assente nell'iconografia delle colombe, almeno nei casi di identificazione certa31.

La ricostruzione della struttura originaria dei quattro capitelli che stiamo esaminando si può quindi considerare completata, tuttavia il confronto con gli esemplari noti della stessa tipologia non ci permette di giungere a confronti diretti ma ci indica solo analogie parziali associate a caratteristiche di assoluta originalità.

Ad una, pur se limitata, ricerca tipologica è necessario però premettere una osservazione di carattere generale sulla vasta categoria dei capitelli bizonali con animali nella zona superiore. Scorrendo i numerosi esempi

29 Nei capitelli già noti per i quali rinviamo ai citati repertori generali, le colombe sono in genere prive di qualunque atteggiamento dinamico. D'altronde i festoni d'alloro, così evidentemente associabili a significati di glorificazione, si accoppiano molto meglio con le aquile che con le colombe; un caso eccezionale di associazione colombe-festoni potrebbe essere documentato in un capitello di Varna (fig. 8) di cui parleremo tra breve, ma la frammentarietà di tale esemplare non permette affermazioni definitive.

30 Basta scorrere il repertorio assai ricco riportato dal Kitzinger (art. cit., nn. 59-72, 80, 83, 89 e 91-92, fig. 90-102, 110, 113, 120 e 122-123), per documentare questa affermazione che però va intesa esclusivamente in riferimento alla posizione angolare : infatti in corrispondenza del fiore d'abaco si possono trovare anche aquile ad ali chiuse (ibidem, n. 6, fig. 54 e η. 1 5, fig. 60).

31 Si riscontri tale affermazione nel repertorio di Kitzinger (art. cit., nn. 77 '-79, 81-82 e 84-85 e fig. 107-109, 111-112, 114-115) senza però tenere conto delle imitazioni medievali esistenti nel S. Marco di Venezia (nn. 87, 88 e 90, fig. 118, 119 e 121), e ritenute antiche dal Kitzinger che così include nella sua lista non solo un capitello con aquile appollaiate ma anche un altro con colombe ad ali spiegate. Il Peschlow considera colombe anche i volatili ad ali spiegate conservati in due capitelli (F. W. Deichmann et ai, op. cit., p. 137, nn. 635-638) assai danneggiati, un tempo in opera nel San Marco di Venezia poi sostituiti con copie e depositati nel chiostro di S. Apollonia, dei quali non pubblica la fotografia ; un esame diretto di questi manufatti (fig. 7), che attualmente (1988) si trovano nelle stanze sopra il portico di S. Marco e sono usati, insieme ad altri due capitelli frammentari, come supporto per gli originali, dei cavalli bronzei (oggi ricoverati ed esposti al pubblico in quel luogo), mi ha fatto ritenere più probabile che gli animali che decoravano gli angoli, fossero aquile piuttosto che colombe. D'altronde mi sembra significativo il fatto che le colombe siano rappresentate ad ali chiuse anche quando si trovano sul fiore d'abaco (cfr. ad es. R. Kautzsch, op. cit., n° 494).

332 FEDERICO GUIDOBALDI

noti si vede subito che il variato repertorio è costituito in gran parte dalla combinazione incrociata di tre tipi di decorazioni della zona inferiore, a foglie di acanto, a canestro e a «cestello metallico»32, con tre tipi di decorazioni della zona superiore, a protomi ferine, sia rade che «affollate» (cioè intramezzate da altre protomi, da animali interi e da altri oggetti), ad aquile angolari e a colombe angolari.

Le nove combinazioni possibili sono state tutte sperimentate negli ateliers del V ο del VI secolo pur se con frequenze del tutto diverse : in particolare il canestro è assai spesso associato con colombe e le aquile invece sono frequentemente associate con una zona inferiore a foglie di acanto oppure «a cestello metallico», ma il canestro e le aquile si trovano insieme, per quanto mi è noto, soltanto in pochi esemplari, uno di Corinto (fig. 6) 33 ed uno ο due altri assai deteriorati oggi a S. Marco (fig. 7) ma un tempo probabilmente a Costantinopoli 34. I quattro capitelli di Lione vanno dunque ad inserirsi in una tipologia assai poco ricca di esempi e, comunque, non trovano che un confronto parziale con gli esemplari appena citati poiché in quello di Corinto non sono presenti i festoni, le ghirlande e i monogrammi ed in quelli di Venezia si può ipotizzare la stessa situazione pur se con qualche dubbio residuo causato dalla notevole frammentarietà. Se però si prescinde dalle identità formali specifiche e ci si contenta di analogie sintattiche e stilistiche miste ad analogie di dettaglio, si può forse trovare un confronto più valido pur se sempre generico. Mi riferisco ad un capitello conservato nel museo di Varna in Bulga-

32 Mi sembra si possano indicare con questo nome i capitelli bizonali che recano, nella zona inferiore una decorazione a giorno che partendo da un cordolo di base si sviluppa poi con girali di vite ο con serie paratattiche di palmette ο con altri motivi geometrizzanti, e si conclude con un rigido cordolo circolare a treccia ο a sezione quadrangolare. Tale lavorazione sembra infatti ricordare cestelli in metallo. Per una ipotesi sulla natura e sull'uso di tali cestelli si veda J. Wilkinson (Column capitals in Al Hamm Al Sharif, Gerusalemme, 1987, p. 195) che vede nella rappresentazione di tali soggetti un significato simbolico; personalmente tuttavia non mi sento di condividere questa interpretazione poiché ritengo che questi e tutti gli altri lavori «a giorno» eseguiti su capitelli e altri manufatti soprattutto nel VI secolo rispondessero ad un intendimento stilistico (che richiedeva la simulazione di una smaterializzazione delle parti portanti) piuttosto che simbolico.

33 E. Stikas, Anaskaphi Koimeteriakés Basilikés Palaias Korinthou, in Praktika Arch. Et., 1962, p. 51-66, in part. pp. 55-56 e fig. 56 e.

34 F.W. Deichmann et al, op. cit., p. 137 nn. 635 e 639 (la scheda è di U. Pe- schlow) non viene pubblicata la foto dei capitelli e viene indicata una collocazione nel chiostro di S. Apollonia oggi non più vera (cfr. supra nota 31).

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 333

Fig. 6 - Corinto, S. Kodrato, capitello frammentario.

•i'.

Fig. 7 - Venezia, basilica di S. Marco, loggia interna. Capitelli già sulla facciata, ora usati come supporto dei cavalli bronzei.

334 FEDERICO GUIDOBALDI

ria (fig. 8)35, che ha nella zona inferiore un canestro (o «cestello metallico » ?) a pelte invece che a maglie rombiche nella zona superiore, estremamente danneggiata, si individua un festone, analogo a quelli dei capitelli lionesi, che è disposto con lo stesso andamento : infatti poggia sul cordolo del canestro nelle zone angolari e risale in quella centrale di ogni faccia pur se, almeno per quanto si può ipotizzare in base a ciò che resta, non si annoda in una ghirlanda in corrispondenza del fiore d'abaco.

Fig. 8 - Varna (Bulgaria), museo archeologico, capitello frammentario.

35 M. Mirtschev et. al, Varna-Archäologisches Museum, Sofia, 1965, p. 146, fig. 75), riesaminato recentemente da Claudia Barsanti (L'esportazione di marmi dal Proconneso nelle regioni Pontiche durante il IV-VI secolo, in Riv. 1st. naz. archeol. e st. dell'arte, in corso di stampa) a cui debbo l'amichevole segnalazione, le specifiche informazioni sulla struttura e una ulteriore documentazione fotografica. Il capitello è assai frammentario poiché una metà è del tutto perduta; in esso è evidente il risalto laterale liscio tipico di quei capitelli che dovevano essere posti in coincidenza di tramezzature.

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 335

Una ulteriore e fondamentale analogia consiste nella presenza di volatili angolari che artigliano il festone, ma purtroppo la perdita totale delle parti superiori ci permette solo di supporre che possa trattarsi più di una colomba accovacciata - il corpo sembra impostato subito sopra le zampe - ad ali chiuse, che di un'aquila ad ali spiegate. Se ciò si potesse provare ci troveremmo di fronte ad una associazione colomba-festone che non mi è stato finora possibile rintracciare in altri manufatti del genere; tuttavia in mancanza di prove tangibili è più logico evitare conclusioni affrettate, ammettendo però che il capitello di Varna, tra tutti quelli che mi è stato possibile prendere in considerazione, è il più vicino ai capitelli lionesi. Questi conservano ciononostante una loro evidente originalità, che si manifesta, oltre che nelle differenziazioni di dettaglio, nella particolarità delle soluzioni iconografiche. Di caratteristica del tutto specifica si può infatti parlare se si esamina un altro elemento dei nostri quattro capitelli, e cioè il festone, che compare solo isolatamente nel repertorio dei capitelli bizonali (appunto nell'esemplare di Varna appena citato) e, nell'uso decorativo che di esso si propone nel nostro caso, non mi risulta documentato in altri esempi.

Se è vero infatti che la soluzione del chrismon inscritto entro corone ο simili è abbastanza frequente in tutta l'età paleocristiana e quella del monogramma inserito nello stesso tipo di cornice è ben testimoniata almeno nel VI secolo, è pur vero che in quei casi si tratta di ghirlande, ο meglio di corone, chiuse e legate da nastri e non simulate, come nei capitelli lionesi, nella elegante giravolta di un festone continuo che si snoda per tutto il perimetro ripetendo per quattro volte la stessa evoluzione36.

36 II caso dei plutei di S. Clemente che recano entro una corona (fig. 5B) lo stesso monogramma di Giovanni II è ben noto e pertinente al nostro caso. Interessante è poi un capitello bizonale che def inerei « a cestello metallico rigonfio » proveniente dal Monte Nebo (Giordania) : in questo manufatto il monogramma di un Eusebios si trova entro una corona circolare resa però a semplice treccia, che è in posizione analoga a quella dei capitelli di Lione ed è affiancata da due colombe (J. Wilkinson, op. cit., p. 205 fig. 33-35). Comunque soprattutto i cristogrammi ma anche i monogrammi entro cerchi ο corone sono relativamente comuni nei capitelli-imposta ο nei pulvini del VI secolo e nei plutei ο in altri elementi architettonici decorativi. Per quanto riguarda il festone in sé e per sé, cioè indipendentemente dalla ghirlanda e dal suo contenuto, possiamo notare che esso è relativamente diffuso nei capitelli sia classici che tardoantichi : alcuni dei poco frequenti esempi di associazione con aquile sono stati già citati (cfr. supra, nota 28), per i casi in cui il festone è elemento decorativo a sé stante possiamo ricordare, oltre ai capitelli più antichi (si veda ad es. R. Kautzsch, op. cit., η. 456, p. 140-141 con bibl. per la Siria), quelli di epoca più prossima alla nostra ma di struttura ancora in parte classica,

336 FEDERICO GUIDOBALDI

D'altronde anche l'associazione aquila-festone è sviluppata in questi manufatti secondo una soluzione del tutto originale. Altri esempi noti sia paleocristiani che classici, sono redatti infatti secondo una sintassi del tutto diversa; in un capitello corinzio finemente dentellato del Museo archeologico di Venezia37 i festoni pendono in corrispondenza degli angoli del capitello e si innalzano poi al di sopra del fiore d'abaco per passare dietro il collo delle aquile che si trovano in quel punto (e non negli angoli) e ad ali aperte (ma non spiegate); in un capitello classico conservato nel Museo archeologico di Milano, al di sopra di una zona a larghe palmette si trovano quattro aquile angolari ad ali spiegate e quattro festoni pendenti al centro ed ancorati agli angoli ma dietro le aquile ; in altri capitelli, infine, come quelli già ricordati di Villa Casali e di Velleia, i festoni sono sostenuti dal becco delle aquile38.

Si tratta dunque di composizioni del tutto diverse da quella adottata nei capitelli lionesi nei quali un ulteriore - pur se meno importante - accento di originalità si trova anche nella resa della corona che fa da base al canestro. Questo infatti è concluso nella parte superiore dal consueto cordolo in forma di tortiglione vimineo mentre nella zona inferiore è impostato su una corona di foglioline stilizzate (probabilmente d'alloro ο semmai d'olivo) del tutto infrequente come elemento di base nei capitelli a canestro39, ma ancor più inconsueta nella già descritta redazione a quattro segmenti interrotti da quattro piccoli fiori in corrispondenza dei quali l'orientamento delle foglioline si inverte ogni volta.

diffusi soprattutto nella regione del Tur'Abdin, spesso con vere e proprie ghirlande appese agli angoli, ma talvolta anche con festoni pendenti e ripresi con una sorta di annodatura in corrispondenza del fiore d'abaco (cfr. ad es. G. Bell, The Churches and Monasteries of the Tur'Abdin, Riediz. con introduz. di M. Mundell Mango , Londra, 1982, figg. 20, 21, 42, 78, 80, 103, 139, 141, 143, 159, 161 e in particolare fig. 145 con un elemento cruciforme inserito nell'annodatura). A questi vanno aggiunti alcuni capitelli imposta lavorati a giorno, di fattura per lo più costantinopolitana e di età giustiniana, in cui il festone presenta una certa ondulazione ma è di un tipo del tutto diverso da quello dei nostri (cfr. ad es. Ch. Strube, Polyeukto- skirche und Hagia Sophia. Umbildung und Auflösung antiker Formen, Entstehen des Kämpferkapitells, Monaco, 1984, p. 55, fig. 54-55 e nota 254 in cui si ricordano i, pur se diversi, capitelli di Lione).

37 F. M. Deichmann, et al., op. cit., η. Ml, p. 145-46, tav. 49. 38 1 riferimenti bibliografici per il capitello di Milano, per quello di Roma

(Villa Casali) e per quello di Velleia sono a nota 28, ove si citano pure i capitelli con aquile e festoni presenti in un sarcofago a colonne dei Musei Vaticani.

39 La treccia viminea (treccia semplice) è infatti più frequente ed anche più rispondente alla lavorazione reale di canestri : nei casi a me noti tale treccia è continua per tutta la circonferenza.

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Nella lunga serie degli esempi noti di capitelli bizonali, anche prescindendo dalla zona inferiore a canestro, non mi è riuscito di rintracciare soluzioni uguali. Qualcosa di simile si può forse vedere nell'ambito di altre tipologie40, oppure in esemplari, sempre bizonali ma non a canestro vimineo, come quello del monte Athos41 (fig. 9), nel quale quattro fiori abbastanza simili ai nostri interrompono quattro volte una corona di base a foglie più rade che però presenta non quattro ma otto inversioni dell'orientamento delle foglie stesse, le quali convergono sempre in corrispondenza del fiore.

Tralasciando comunque l'approfondimento di questi particolari iconografici minori mi sembra si possa concludere sottolineando l'originalità dei capitelli lionesi che trova la sua espressione più specifica nella ghirlanda «simulata» e che si manifesta anche nella posizione reciproca di festone e aquila e nella combinazione insolita di elementi già noti in altri contesti, ma mai ο quasi mai associati nello stesso manufatto.

Proprio queste originalità evidenziano, per contrasto, la ripetitività della soluzione più frequente, quella a canestro e colombe, nell'ambito della stessa tipologia e permettono di delineare il quadro di una produzione intensiva «in serie»42 nell'ambito della quale si sviluppano manifatture

40 In molti tipi di capitello lavorati a giorno, come quelli con pigne angolari, quelli polilobati e quelli ad imposta semplice, si trova spesso come base un vero e proprio serto gemmato in cui l'inversione delle foglioline (ben diverse però dalle nostre) avviene in corrispondenza di ogni gemma (per qualche esempio si veda F. W. Deichmann et al, op. cit., nn. 310-311 Taf. 18, n. 313 Taf. 19, nn. 471-473 e 475-476 Taf. 34 per i primi e nn. 293, 294 e 300 Taf. 17, per i secondi n° 432 Taf. 29 per gli ultimi) ; in questi casi comunque si tratta di tutt'altra cosa. Corone di foglio- line analoghe alle nostre (di alloro o, semmai di olivo) si trovano invece in qualche capitello-imposta (cfr. ad es. R. Kautzsch, op. cit., nn. 666 Tav. 40 e 759, 761 Tav. 45 ; Ch. Strube, op. cit. fig. 54-55 e 80) ma solo in rarissimi casi si riscontra l'inversione dell'orientamento delle foglioline (si veda ad es. R. Kautzsch, op. cit., n°632 Tav. 38 in cui però il punto di inversione è sviluppato non intorno ad una rosetta ma ai lati di un motivo più complesso).

41 O. M. Dalton, Byzantine Art and Archeology, New York, 1961, fig. 103; E. Kit- ziNGER, art. cit., fig. 83. È questo il caso più prossimo - pur se non troppo - al nostro poiché il capitello appartiene alla tipologia dei bizonali (ma «a canestro metallico» e protomi animali angolari) e presenta 8 inversioni delle foglioline (tipo alloro ο olivo) di cui 4 sviluppate all'incontro di una rosetta quadripetala. Nonostante le notevoli varianti si può così dire che lo schema decorativo dei capitelli lionesi non è un caso isolato.

42 D'altronde il fatto che esistesse una produzione intensiva e industrializzata di capitelli nell'isola di Proconneso è un fatto a tutti noto e sono abbastanza noti ο almeno diffusamente trattati anche le tecniche di lavorazione ed i meccanismi di

MEFRA 1989, 1. 22

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Fig. 9 - Monte Athos, grande Lavra, capitello di reimpiego.

più esclusive per un numero limitato di esemplari o, addirittura per «prototipi» eseguiti però mantenendosi per lo più all'interno delle capacità tecniche e dei repertori già disponibili.

Il gusto protogiustinianeo per la smaterializzazione delle parti architettoniche, sia portanti che esclusivamente decorative, ha in effetti un successo tale da giustificare una richiesta e quindi una produzione così intensa di manufatti di esecuzione comunque complessa e «rischiosa»43.

trasporto ed esportazione. Si veda a tal proposito W. E. Betsch, The history, production and distribution of the late antique capital in Constantinople, Ph. D. Dissert. Univ. Pensylvania 1977, Ann. Arbor (Univ. Microf. Int.) 1979, in part. p. 246-48 per la tecnica «a giorno» e p. 118-162 per i modi di produzione. Cfr. inoltre C. Barsan- ti, art. cit. a nota 35.

% 43 Nonostante la lavorazione a giorno, cioè la creazione di una intercapedine vuota tra nucleo di marmo e zona superficiale, fosse l'ultima fase nella fabbricazione dei capitelli che stiamo esaminando, è pur vero che i rischi di rottura e quindi di scarto del capitello dovevano essere notevoli nell'ambito di queste tipologie per cui, nonostante una certa organizzazione produttiva, è probabile che i costi non potessero essere troppo contenuti e che, di conseguenza, restasse una decisa differenza qualitativa rispetto a capitelli più semplici e più diffusi come quelli corinzi nelle varianti del VI secolo.

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Ed è proprio sulla traccia di questa istanza stilistica che si leggono meglio anche le soluzioni più esclusive, come quelle applicate nei quattro capitelli lionesi, poiché esse corrispondono ad esperienze «pilota» in genere più rappresentative della tendenza stilistica anche in senso dinamico.

Nei nostri esemplari è infatti ancor più evidente - di quanto non lo sia nei più comuni tipi a canestro e colombe - il contrasto con le esperienze precedenti e la maturazione di componenti stilistiche specifiche. Il raffronto più emblematico in tal senso è quello che si può instaurare sia con coevi che precedenti capitelli a protomi animali (spesso anche « affollate ») nel registro superiore, nei quali la compressione era certamente un effetto cercato e, se pure si accordava con la mimetica fascia inferiore ad acanto, che in un primo tempo veniva accoppiata appunto alla corona di protomi, certo contrastava con il canestro vimineo nei non numerosi casi - e cito un esempio frammentario da Aries (fig. 10) - in cui questo abbinamento fu tentato44. Certamente più centrata è infatti l'associazione di questo tipo di base con le colombe - non certo prive, peraltro, di contenuti simbolici - ma certo un pò troppo statiche e poco « coprenti » rispetto al nucleo marmoreo del capitello che resta in effetti tangibile.

Lo schema ad aquile e festoni dei capitelli lionesi, invece, in primo luogo dissimula totalmente il nucleo marmoreo ed in secondo luogo provoca una dilatazione anziché una compressione e crea un insieme che risponde molto bene all'intenzione di simulare, in un elemento architettonico caricato di peso enorme come è un capitello, una impossibile fragilità e leggerezza.

È qui appunto la componente stilistica protogiustinianea che caratterizza e qualifica i nostri capitelli certamente prodotti, come vedremo, nella capitale bizantina e quindi non ricollegabili in alcun modo a Roma ο a quelle componenti stilistiche «romane» che vi si vollero vedere in un primo tempo e che non sembrano ancora del tutto rifiutate45. Di classicheg- giante in effetti mi pare ci siano soprattutto le aquile nella loro forma seicentesca e nella loro fattura effettivamente « romana » ma successiva di oltre un millennio a quella presunta. Certo anche i festoni specialmente

44 Alcuni esempi sono enumerati dal Sodini (Aliki, II, op. cit., p. 43). Le protomi ferine sono più spesso associate, oltre che all'acanto, a registri inferiori «a cestello metallico» (si veda ad es. E. Kitzinger, art. cit., fig. 77-85).

45 L. Bégule e É. Bertaux, art. cit., p. 209-211 ; W. de Grüneisen, (art. cit., p. 94) continua a pensare ad una esecuzione provinciale da modelli bizantini per dare spazio alla possibilità di una provenienza romana.

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Fig. 10 - Arles, Musée lapidaire, capitello bizonale a protomi animali, aquile e pavoni.

se collegati alle aquile, fanno respirare un'aria « romana imperiale », ma si tratta di associazioni di repertorio che erano già state ampiamente assorbite nella cultura decorativa bizantina del V secolo come componente tradizionale ed «ereditaria».

Datazione e luogo di fabbricazione

Nella descrizione e nell'analisi stilistica e tipologica dei capitelli in esame è stata indicata, ο sottintesa, una datazione al VI secolo o, più precisamente, all'età protogiustinianea; gli stessi confronti citati marginalmente per diversi motivi riconducono ad analoghe indicazioni cronologi- che. Tuttavia, nel caso dei quattro capitelli in esame è relativamente superfluo il riferimento a criteri di datazione stilistica ο tipologica poiché il monogramma riportato in origine su due delle facce di ciascun manu- fato ci permette in modo oggettivo - a parte qualche minima riserva cui accenneremo in seguito - di fornire una data eccezionalmente precisa.

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 341

Tale monogramma (fig. 5A) è infatti facilmente scioglibile secondo il nome Iohannes ed è praticamente identico a quelli più volte ripetuti sui plutei ancora esistenti nella basilica di S. Clemente in Roma (fig. 5B). È noto che questi ultimi furono per lungo tempo erroneamente attribuiti a Nicolo I46 e poi a Giovanni Vili47 prima che una brillante intuizione del p. Mullooly O.P.48, ratificata poi dal De Rossi49, li collegasse piuttosto saldamente con il papa Giovanni II (533-535).

L'attribuzione citata non ha subito da allora alcuna scossa poiché la presenza a S. Clemente di due altre ben note iscrizioni, entrambe dedicatorie, su elementi marmorei decorativi, e recanti il nome di quel presbyter Mercurius che poi divenne papa appunto col nome di Giovanni II, sembrava rendere del tutto scontata la lettura dei monogrammi : non è certo illogico infatti che i lavori decorativi iniziati da un prete addetto al titulus Clementis fossero stati integrati dalla stessa persona quando divenne papa.

Questa attribuzione è ancora oggi accettabile e, come poi vedremo, è in certo qual modo convalidata proprio dai capitelli lionesi, anche se - bisogna ricordarlo se si vuole mantenere un rigore scientifico - le prove

46 Questa interpretaziune si trova in P. Ugonio, Historia delle Stalloni di Roma, Roma, 1588, f. 124r, ed è stata accettata da molti autori del XVII secolo finché il Mellini, che scrive poco prima del 1667, non l'ha messa in dubbio {Vat. Lai. 11905, ff. 36-37r) suggerendo però una lettura Honorius che non ha avuto alcun seguito; per altre interpretazioni come quelle del Ciacconio che, sulla base di una notizia del Panvinio, legge Anastasius, si veda l'opera di F. Rondinini, De s. Clemente papa et martyre ejusque basilica in Urbe Roma, Roma, 1706, p. 254-266.

47 G. Ciampini, Vetera monimenta in quibus praecipue musiva opera sacrarum profanarumque aedium structura ac nonnulli antiqui ritus, Dissertationibus Iconibu- sque illustrantur, Roma, 1690, voi. I, p. 11-12; questa è la prima opera in cui il monogramma viene letto come Iohannes ma non si fanno ipotesi su quale fosse il papa di tal nome che donò i plutei : «qualis autem iste Joannes fuerit, fateor me ignorare». L'attribuzione più specifica a Giovanni Vili (per la relazione che ebbe con Cirillo e Metodio, i quali portarono a Roma il corpo di s. Clemente) si trova nel Nibby (Roma nell'anno MDCCCXXXVIII, Parte I Moderna, Roma, 1839, p. 171) ed ebbe un certo seguito.

48 J. Mullooly O. P., S. Clemente Pope and Martyr and his Basilica in Rome, Roma 1869, p. 280-281.

49 G. B. De Rossi, / monumenti scoperti sotto la basilica di S. Clemente studiati nella loro successione stratigrafica e cronologica, in Bull, archeol. crisi., II serie, 1, 1870, p. 129-168 in part. p. 144-146. Dopo questa pubblicazione l'interpretazione non è stata subito assorbita : sia Nicolo I che Giovanni Vili sono stati menzionati spesso nei testi successivi (soprattutto però nelle guide ο nelle opere divulgative) almeno fino a questo secolo.

342 FEDERICO GUIDOBALDI

disponibili conducono alla forte probabilità ma non alla assoluta certezza50.

Nel nostro caso dunque ci troviamo di fronte a capitelli che si possono considerare datati - in un intervallo cronologico ristretto a tre anni (533-535) : e questa è una circostanza davvero eccezionale51. Altrettanto singolare è la presenza di un monogramma papale su un capitello : il nostro infatti è l'unico caso a me noto mentre è decisamente più frequente, sempre su capitelli, la presenza di monogrammi di vescovi, di imperatori e di altri personaggi (sempre intesi come donatori) sia a Costantino- poli sia in altre città fortemente «bizantine», naturalmente senza escludere l'Italia. D'altronde il luogo di fabbricazione dei capitelli non sembra possa essere cercato al di fuori dell'area di Costantinopoli e lo confermano da un lato il marmo stesso, che è con ogni probabilità proconnesio 52, dall'altro la recente sintesi di Sodini che per i capitelli a canestro con

50 I criteri stilistici che, già con De Rossi e sempre più in epoca recente, hanno permesso di vincolare la datazione dei plutei al VI secolo o, meglio, all'età giustinianea, hanno pure consolidato l'attribuzione a Giovanni II. In effetti però non si può totalmente escludere, in alternativa, il collegamento con Giovanni I (523-526), successore di Ormisda (e quindi papa quando Mercurio era ancora presbyter) e neppure quello con Giovanni III (561-574) che fu papa durante gran parte della reggenza di Narsete. È inoltre da ricordare che Giovanni I fu il primo papa romano che si recò direttamente a Costantinopoli ove fu accolto con onori anche eccessivi da Giustino I e da Giustiniano (di fatto già governante in nome dello zio) e fu colmato di doni e di concessioni. Come si vede dunque un'alternativa esisterebbe - soprattutto a favore di Giovanni I - ma la coincidenza della presenza a S. Clemente delle iscrizioni dedicatorie di Mercurius e dei monogrammi citati ha fatto sempre pendere giustamente la bilancia dalla parte di Giovanni II : anch'io aderisco a questa interpretazione che sembra la più probabile anche in riferimento allo stile dei plutei di S. Clemente, ci tengo però a sottolineare che il problema non è chiuso e le alternative citate non perdono del tutto la possibilità di essere un giorno eventualmente verificate.

51 In questo modo i capitelli stessi diventano un riferimento cronologico utilis- simo anche dal punto di vista della storia dell'arte, possono cioè costituire un capo- saldo nello studio sistematico dei capitelli a canestro.

52 Come ho già accennato in precedenza (nota 14) non ho potuto eseguire prelievi - e quindi neppure analisi - sul marmo in cui sono ricavati i quattro capitelli, tuttavia l'osservazione diretta mi fa escludere i marmi a grana fine come il penteli- co e il Carrara e mi permette di affermare che la specie marmorea usata è quanto meno assai prossima, come aspetto, al proconnesio. In questa interpretazione mi consolida d'altronde il fatto che tutti gli studiosi che hanno espresso un parere specifico sul problema in questione hanno indicato, con maggiore ο minore sicurezza, sempre il marmo proconnesio. Per la fabbricazione costantinopolitana si pronuncia decisamente anche il Peschlow (F. W. Deichmann et al., op cit., p. 146).

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colombe rinvenuti nello scavo delle basiliche di Aliki a Thasos, nonostante l'immediata vicinanza delle famose cave di marmo bianco, deve ammettere che il marmo usato sia il proconnesio e deve quindi propendere per una provenienza dalla capitale bizantina53.

Certamente in ogni caso si può escludere per i capitelli di Lione una fattura romana ο anche una semplice integrazione nella capitale occidentale poiché non sono restate altre testimonianze di attività produttiva in quel settore con quello stile e con quel tipo di materiale e di lavorazione ; anche l'esecuzione a Roma del solo monogramma è praticamente inconcepibile poiché è proprio quella la parte più difficile del lavoro «a giorno » ed è da ritenersi impossibile che operatori non esperti in quello specifico tipo di trattamento del marmo fossero tanto ingenui da rischiare di compromettere l'integrità di un costoso stock di manufatti d'importazione soltanto per eseguire un piccolo intervento di rifinitura.

In un altro caso noto di invio di un ambone ed un corredo di colonne e capitelli certo per una chiesa - mi riferisco al carico naufragato a Mar- zamemi54 - solo una piccola parte del materiale era semilavorato55 e comunque il « pezzo » di maggior valore e maggior impegno, cioè un l'ambone scolpito in verde antico di Tessaglia, era stato inviato già completo e solo da montare.

Non si può certo escludere che artigiani bizantini «accompagnassero» il materiale e che quindi, come è stato recentemente proposto dal Russo, anche in riferimento ai plutei di S. Clemente 56, la lavorazione di

53 J.-P. Sodini, K. Kolokotsas, op. cit., p. 35. 54 G. Kapitän, Elementi architettonici per una basilica dal relitto navale del VI

secolo di Marzamemi (Siracusa), in XXVII Corso di cultura sull'arte ravennate e bizantina, Ravenna, 1980, p. 71-136.

55 In effetti il Kapitän (art. cit., p. 126) sostiene che il materiale si poteva considerare tutto «finito» ma, sia l'osservazione diretta (che mi è stata concessa dalla Soprintendenza archeologica di Siracusa, che ringrazio vivamente), sia una riproduzione dello stesso Kapitän (art. cit., fig. 4) mi farebbero ritenere che almeno le basi - ma forse anche qualche altro elemento - avessero ancora bisogno di lavorazione ulteriore ο almeno di una finltura.

56 E. Russo, Fasi e nodi della scultura a Roma nel VI e VII secolo, in MEFRM, 96, 1984, p. 7-48 in part. pp. 10-14 ma anche passim. Per questi manufatti rinvio al citato lavoro del Russo (art. cit., in part. p. 11-19) che raccoglie accuratamente tutta la bibliografia precedente e fornisce tre nuove illustrazioni (fig. 2-4). La pubblicazione integrale delle sculture del VI secolo esistenti a S. Clemente è in preparazione, per cura di chi scrive in collaborazione con Claudia Barsanti e Alessandra Guiglia Guidobaldi, nell'ambito di una monografia sui resti precristiani e paleocristiani di S. Clemente.

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finltura fosse pur sempre di mano bizantina ma potesse essere eseguita anche a Roma ο in qualsiasi altra parte dell'impero.

Si tratta comunque di ipotesi che attendono una conferma oggettiva e che comunque si inseriscono con qualche difficoltà nell'ottica della produzione in serie proprio perché sembrano più coerenti con una cultura artigianale piuttosto che con la realtà «semi-industrializzata» che possiamo indovinare nei grandi cantieri del Proconneso.

Nel nostro caso poi si può dire che il problema non si pone neppure poiché nei capitelli lavorati a giorno il lavoro di rifinitura superficiale, che certo richiedeva percussioni e sollecitazioni meccaniche, non poteva essere fatto dopo che il marmo era distaccato dal fondo e quindi l'ultimo intervento sul marmo era proprio la creazione dell'intercapedine vuota ed era la parte più specialistica del lavoro poiché richiedeva certamente strumenti particolari e capacità artigiane particolari.

Mi sembra in conclusione che non sussistano dubbi sulla matrice bizantina dei quattro capitelli lionesi e neppure sull'origine e fabbricazione constantinopolitana di essi. Disponiamo quindi del luogo e della data di partenza di questi manufatti : vediamo ora se è possibile seguirne l'itinerario fino a Lione.

Prime destinazioni e successivo periodo di disuso

L'aver ammesso che i capitelli lionesi in questione siano stati eseguiti a Costantinopoli col monogramma di un papa implica che essi fossero destinati e Roma ο comunque all'ambito romano. La serie dei plutei con lo stesso monogramma e con la stessa provenienza costantinopolitana57, che giunse e restò a Roma nella basilica S. Clemente, non può che comprovare questo assunto. Due altri problemi si presentano tuttavia più complessi : quello relativo al modo dell'acquisizione e quello della destinazione specifica.

Per il primo c'è da scegliere tra due possibilità : la donazione da parte dell'imperatore ο di altri e l'acquisto più ο meno diretto ο comunque l'esecuzione su commissione del papa.

Non abbiamo dati per definire questa questione ma possiamo osservare che, se il papa era Giovanni III, è più probabile un acquisto specifico

57 Cfr. nota prec.

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maturato quando egli, già come presbitero, si era dedicato alla decorazione di S. Clemente e si era accostato al gusto bizantino ed in particolare ai capitelli bizonali lavorati a giorno; in quell'occasione egli lasciò su un architrave (o cornice d'altare) e su un capitello il suo nome come offerente e quindi il fatto che tali manufatti fossero stati commissionati ed acquistati non sembra dubbio58. Usando la stessa chiave interpretativa si potrebbe vedere il monogramma dei plutei e quello dei capitelli lionesi piuttosto come la firma di un donatore che come la sigla del destinatario del dono stesso, ma in effetti l'ipotesi di una donazione può pur sempre restare possibile - anche se meno probabile - specialmente se si tiene conto del particolare momento politico : siamo infatti alla conclusione di un accordo tra Giustiniano e la chiesa romana ed alla vigilia di una riconquista bizantina, già ampiamente preparata dal punto di vista politico nel terreno fertilissimo della Roma antigotica59.

L'altro problema, quello della destinazione specifica, è più complesso e più articolato. Si deve innanzi tutto stabilire se i plutei di S. Clemente ed i capitelli lionesi possono essere riuniti in un'unica partita, se cioè essi furono sin dalla partenza uniti e destinati alla stessa persona. Anche in questo caso la risposta è difficile ma l'ipotesi dell'invio contemporaneo mi pare si possa appoggiare senza rischi eccessivi.

58 Per queste iscrizioni si veda G. B. De Rossi, art. cit., p. 143, riproduzioni fotografiche in E. Junyent, II titolo di S. Clemente, Roma, 1932, fig. 44 e 45. L'iscrizione relativa all'offerta di un altare è tutta conservata (tranne una scheggiatura alla fine), e può essere agevolmente datata poiché menziona il papa Ormisda (514-523). In essa è nominato come donatore il presbyter Mercurius, che come si ricava dal Liber pontificalis e da un'altra epigrafe (cfr. De Rossi, art. cit., p. 144), può essere identificato con Giovanni II, che divenne papa assumendo questo nome solo nel 533. Nell'altra iscrizione, quella sul capitello, Mercurius è ancora indicato come presbyter ma non viene menzionato il papa quindi, a rigor di logica, non si può escludere un'arco di datazione più ampio che includa anche il periodo 523-533, ma pure in questo caso si tratta comunque certamente di un'offerta.

59 1 contatti dei papi del VI secolo con Giustino I e Giustiniano sono troppo noti perché se ne debba portare qui una documentazione. Gli accordi sulle questioni religiose aperti subito in modo favorevole, con Ormisda nel 518, portarono a consolidare la tendenza alla riunificazione (non solo religiosa) e, pochi mesi dopo la morte di Giovanni II (maggio 535) le «guerre gotiche» erano già iniziate e Belisario aveva già riconquistata la Sicilia. La corrispondenza tra i papi e l'imperatore d'Oriente, conservatasi fino a noi in buona parte come si raccoglie da L. Magi, La sede romana nella corrispondenza degli imperatori e patriarchi bizantini (VI- VII sec), {Bibliothèque de la Revue d'histoire ecclésiastique, 57) Roma-Lovanio, 1972, mostra quanto fosse frequente lo scambio di doni specialmente in occasione delle ambascerie (alle quali probabilmente Mercurio non fu estraneo).

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Innanzitutto è logico che lo stock non può essere entrato in lavorazione prima della nomina del papa che da prete preferiva chiamarsi Mercurio e quindi non prima del 533 ; considerando un tempo morto iniziale per la commessa e poi i tempi di lavorazione e quelli di spedizione per mare si giunge facilmente al 534 e considerando che Giovanni II muore nel maggio del 535 non è agevole - anche se non è impossibile60 - collocare due spedizioni in uno spazio così ristretto se non si considera che siano state molto ravvicinate ο addirittura in parte sovrapposte.

In ogni caso l'unificazione dello stock non comporta la destinazione ad un solo edificio e quindi non siamo obbligati a pensare che plutei, pilastrini e capitelli61 fossero destinati ad un'unica chiesa.

L'evidenza di cui disponiamo fa pensare che l'insieme della recinzione fosse destinato a S. Clemente ove tuttora si trova, pur se traslato dalla basilica paleocristiana a quella medievale62.

Per i quattro capitelli era stata ipotizzata senza esitazione dal Grüneisen63 una analoga destinazione ma ciò solo sulla base della identità del monogramma presente sui due gruppi di manufatti; un suggerimento del tutto opposto si ricava tuttavia da un altro documento : un disegno (fig. 11) di Battista da Sangallo, detto Gobbo da Sangallo, che operò a Roma fino alla metà circa del XVI secolo64, riproduce, pur se con le approssimazioni grafiche prevedibili65, metà di uno dei capitelli lionesi

60 Ovviamente la data di morte si può considerare vincolante, come terminus ante quem, per la commessa ma non per il ricevimento : infatti l'intera partita ο una parte di essa potrebbe essere giunta anche dopo la morte del papa, eventualità questa che spiegherebbe, peraltro, anche quei ritardi nell'istallazione che potrebbero essersi verificati sia per i quattro capitelli che per i plutei.

61 Ci riferiamo ovviamente ai soli capitelli con il monogramma papale, cioè quelli lionesi, poiché il capitello con l'iscrizione di Mercurius (e forse - ma non è certo - anche l'altro senza iscrizione, che gli fa da pendant dopo la sistemazione rinascimentale nella tomba del cardinal Venerio a S. Clemente) non può appartenere alla stessa partita essendo stato ordinato certamente prima del 533.

62 Questa riutilizzazione diretta, che si da in genere per scontata, è provata anche dalla presenza di due frammenti di plutei della stessa serie tra i materiali scoperti durante lo scavo della basilica inferiore e attualmente esposti nel nartece.

63 W. de Grüneisen, art. cit., pp. 299-300. 64 II disegno è pubblicato in A. Bartoli, / monumenti di Roma nei disegni degli

Uffizi di Firenze, voi. IV, Roma, 1914, tav. 337, fig. 568, ed appartiene al foglio 1 702v dei disegni di architettura della collezione fiorentina. Per le notizie relative a Gobbo da Sangallo si rinvia a V. Thieme, F. Becker, Allgemeines Lexikon des Bildenden Künstler von Antike bis zur Gegenwart, vol. 29, Lipsia, 1935, p. 404.

65 II cesto è reso quasi in trasparenza, ma forse solo per evidenziare i particola-

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con l'indicazione in santo Chosimo e Santo Damiano ed in un foglio in cui erano riprodotti altri frammenti antichi provenienti dalla stessa area della chiesa dei SS. Cosma e Damiano al Foro Romano ancora oggi conser-

Fig. 11 - Firenze, Uffizi, Gabinetto dei disegni, dis. 1702 di B. da Sangallo.

ri dell'esecuzione tecnica cioè soprattutto lo sganciamento del cestello e di parte dell'aquila dal fondo, il chrismon è stato disegnato ad otto bracci ed è diventato una sorta di rosetta, i cordoli ed i festoni sono stati resi in senso più naturalistico, la testa dell'aquila è stata posta sotto l'abaco invece che in proseguimento dello spigolo di esso e le zampe dell'aquila non sono visibili; a parte questi dettagli le somiglianze con i capitelli lionesi sono talmente stringenti da non lasciare adito a dubbi sulla identificazione.

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vati in quel sito. Il disegno è stato pubblicato in modo acritico dal Barto- li66 ma prima era stato notato e citato come pertinente alla chiesa forense dal Lânciani67 e più recentemente dal Krautheimer68. Nonostante Tine- quivocabilità del confronto nessuno tuttavia aveva riconosciuto nel disegno i capitelli lionesi69, anche se il Krautheimer aveva avanzato una corretta ipotesi di datazione alla prima metà del VI secolo70.

La parte del capitello riprodotta dal Sangallo mostra il chrismon entro la ghirlanda, il festone, un'aquila e metà del canestro al di sotto del quale è appena indicato l'inizio di una colonna. Questo schizzo, solo apparentemente sommario, ma di fatto accurato nella rappresentazione di gran parte dei dettagli e attento anche agli aspetti correlabili alla tecnica di esecuzione, è per noi illuminante, poiché ci offre un appiglio, in verità piuttosto solido, per una attribuzione dei nostri capitelli ad una chiesa diversa da San Clemente.

Per di più la chiesa in questione, per quanto ci è indiscutibilmente comprovato dal Liber pontificalis71, fu costruita da Felice IV (526-530) che è, come è noto, il papa che precedette, a parte un brevissimo intervallo72, Giovanni II : nulla si oppone al fatto che quest'ultimo abbia contribuito con un personale intervento decorativo alla conclusione della fabbrica iniziata e forse portata a buon punto da Felice.

Da un lato è dunque certo che nel XVI secolo i capitelli erano a SS. Cosma e Damiano, dall'altro appare possibile che tali manufatti fosse-

66 A. Bartoli, op. cit., vol. IV, p. 103. 67 R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, voi. II, Roma, 1903, p. 207. 68 R. Krautheimer, Corpus basilicarum christianarum Romae, voi. I, Città del

Vaticano, 1937, p. 137-143, in part. p. 143 nota 6: «II capitello con aquila nella zona superiore e con un festone intorno ad un medaglione . . . potrebbe aver fatto parte di un ciborio eretto da Felice IV ».

69 In effetti il Lanciani, poiché scriveva prima della pubblicazione dei capitelli lionesi, non poteva eseguire questa estrapolazione. È comunque strano che non abbia collegato il disegno sangallesco almeno a quello (di cui parleremo tra poco) della collezione Topham conservata ad Eton che egli aveva accuratamente esaminato. R. Lanciani, Disegni di antichità nella biblioteca di S. Maria di Eton in Bull. Com., 22, 1985, p. 164-187; a p. 171-172 lista dei disegni relativi alla collezione Mat- tei tra cui : «capitello di pilastro lavorato a modo di paniere e sopr'esso un'aquila»; «pilastro» è una traduzione errata di pillar=colonna, infatti il testo originale in inglese del manoscritto Finding Aid 4 della Bibl. di S. Maria di Eton è come segue : «A Capitol of a piller wronght like a basket, on it an eagle».

70 Tale datazione è implicita nell'attribuzione al papa Felice IV (cfr. nota 68). 71 Liber pontificalis (a cura di L. Duchesne), voi. I, 2a ed., Parigi, 1955, p. 270. 72 Solo il breve regno di Bonifacio II (530-532) separa la morte di Felice IV

dall'elezione di Giovanni II.

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ro destinati, sin dal tempo della commessa, alla stessa chiesa anche se non si può escludere che la prima ipotesi di destinazione fosse per S. Clemente ο per un'altra chiesa e che quindi la collocazione in SS. Cosma e Damiano fosse un ripiego ο un ripensamento succesivo se non addirittura un occasionale più tardo deposito73.

La rosa delle possibilità poi aumenta ancora se teniamo presente che siamo alle soglie delle guerre gotiche (535-553), cioè dell'evento forse più disastroso della storia di Roma, e che quindi i materiali ricevuti per la decorazione di nuovi edifici potevano essere stati accantonati temporaneamente per essere posti in opera - magari anche con una ridistribuzione delle destinazioni - solo dopo che la terribile tempesta fosse passata74. Comunque il fatto che i capitelli siano ancor oggi insieme e che quindi, presumibilmente, siano rimasti sempre uniti, ci fa pensare che non abbiamo subito troppe trasformazioni d'uso e che comunque, pur se temporaneamente messi in disparte forse una volta ο due, quando sono stati utilizzati lo sono stati sempre tutti insieme.

Osservando le manomissioni che abbiamo passato in rassegna nelle descrizioni specifiche possiamo dedurre che la prima traccia di intervento sulle superfici marmoree originali corrispose allo scavo di canaletti sulla faccia superiore, cioè quella su cui dovevano poggiarsi eventuali arcate ο architravi. I citati canaletti, in tutti i casi in cui si può controllare, partono dal centro formando un angolo retto e quindi interessano solo due lati contigui. È probabile che essi alloggiassero delle barre metalliche da usare come tiranti75 ο per appendere tende o, più probabilmente, per entrambi questi scopi.

73 Non si può infatti escludere del tutto che i capitelli fossero stati depositati a SS. Cosma e Damiano solo in un'epoca relativamente prossima al Rinascimento e che quindi provenissero da un'altra chiesa ο dalla stessa S. Clemente.

74 In altre chiese di Roma, indizi di fatti analoghi sono stati ricavati dallo studio delle pavimentazioni (F. Guidobaldi, A. Guiglia Guidobaldi, Pavimenti marmorei di Roma dal IV al IX secolo, Città del Vaticano, 1983) : mi riferisco in particolare a S. Maria Antiqua, ove una discontinuità, almeno stilistica, dell'intervento è evidente e potrebbe coincidere con la metà del VI secolo, e mi riferisco poi proprio a S. Clemente ove il pavimento in secii/e-tessellato marmoreo sembra eseguito in due fasi la prima delle quali, peraltro, difficilmente si può far coincidere con il pontificato di Giovanni II e ciò lascia intendere che i lavori di rifacimento e abbellimento del VI secolo si estendessero dalla prima alla seconda metà (se non oltre) del secolo stesso.

75 Essendo la faccia superiore dei capitelli coperta da uno strato cementizio durissimo non è possibile osservare il centro ed individuare eventuali alloggi verticali profondi che avrebbero potuto essere correlati a tiranti.

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II fatto che tali incavi fossero ad angolo retto ci prova che i capitelli erano posti in opera, ovviamente su colonne, non in fila semplice ma in quadrato chiuso oppure secondo un percorso spezzato e aperto, che però dovrebbe prevedere altri elementi analoghi come è, ad esempio il caso di un avancorpo di una lunga partizione colonnata76.

Tra le due ipotesi la prima sembra la più attendibile e, dato che i capitelli, almeno ora, sono quattro, la figura del quadrato (o del rettangolo prossimo al quadrato) e l'utilizzazione per un ciborio sembrano ipotesi non solo suggestive, ma anche facilmente sostenibili77.

In favore del fatto che la partita di capitelli fosse già in origine di quattro esemplari sembra potersi addurre un indizio. L'orientamento delle punte delle foglie del festone (che resta costante per tutto il giro di ogni capitello) è infatti a destra di chi guarda in due casi (capitelli I e IV) ed a sinistra negli altri due (II e III) : questo può anche essere causale ma se non lo fosse indicherebbe una serie di due accoppiamenti cioè una doppia coppia da disporre in opposizione proprio come in un ciborio.

Un altro ostacolo però ci impedisce di concludere in modo piano l'ipotesi fin qui tracciata.

Per la basilica dei SS. Cosma e Damiano abbiamo infatti, eccezional-

76 Una inconostasi ad « omega », cioè ad avancorpo centrale, motivo frequente specialmente nell'architettura paleocristiana della Grecia, ma anche nell'iconografia più antica della basilica vaticana, potrebbe anch'essa giustificare la posizione dei canaletti. Le colonne in quel caso dovrebbero essere almeno 6 ο 8 e in effetti quelle pertinenti ai nostri capitelli sarebbero un po' troppo grandi per una icono- stasi da installare in una chiesa di medie dimensioni.

77 In tal senso si era già pronunciato il Krautheimer pur avendo visto unicamente la riproduzione del Sangallo relativa alla metà di un solo capitello (cfr. nota 70). Non si oppongono all'ipotesi di un ciborio le dimensioni dei nostri capitelli : il ciborio della Katapoliani di Paros che forse è l'unico del VI secolo ancora in situ (tranne eventuali smontaggi e rimontaggi) ha capitelli di dimensioni analoghe a quelli lionesi almeno per quanto si ricava dai rilievi pubblicati per quella chiesa, in H. H. Jewell e F. W. Hasluck, The Church of Our Lady of the Hundred Gates (Pana- gia Hekatontapyliani) in Paros, Londra, 1920, fig. 38. A risultati più o meno coerenti portano anche alcuni confronti con capitelli di cibori non più in situ oppure rimontati in nuovi contesti ma comunque sempre attribuibili al VI secolo : le oscillazioni che si incontrano infatti sono anche notevoli ma si verificano più in eccesso che in difetto come è nel caso del ciborio della basilica eufrasiana di Parenzo (ristrutturata nel XII sec.) i cui capitelli sono più grandi dei nostri (diam. base 34 ο 37 contro 28-29) e dovrebbero essere almeno in parte attribuibili al primo ciborio (A. Sonje, / capitelli della basilica eufrasiana di Parenzo, in Studien zur spätantiken und byzantinischen Kunst Friedrich Wilhelm Deichmann Gewidmet (O. Feld e U. Pe- schlow ed.), vol. II, Bonn 1986, p. 127-145).

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 351

mente, una certa documentazione in relazione a due successivi cibori : nessuno di essi però mostra una coincidenza «immediata» con il nostro.

Il Liber pontificalis ci ricorda che papa Sergio I (687-701) : «fecit ambonem et cyburium in basilica sanctorum Cosmae et Damiani»78. Si tratta con ogni probabilità di un ciborio marmoreo poiché, se fosse stato un semplice rivestimento argenteo come era più frequente, si sarebbero specificati la qualità ed il peso del metallo; tuttavia l'epoca di papa Sergio non si adatta né allo stile dei capitelli lionesi, né, ovviamente, al monogramma che troviamo su di essi. Quindi se si volesse ritenere che il ciborio menzionato abbia utilizzato i nostri capitelli si dovrebbe pensare che essi provenivano da un precedente manufatto smantellato oppure che erano restati per lungo tempo inutilizzati ed accantonati prima di questa messa in opera.

Quale che fosse il ciborio di Sergio è certo che, nella piena epoca medievale, esso fu restaurato ο sostituito dal cardinale diacono Guido, titolare della basilica e cancelliere della Santa Sede, come dimostrava un'iscrizione vista dall'Ugonio verso la fine del XVI secolo79.

Il fatto che, all'incirca nella stessa epoca, il Panvinio abbia visto il ciborio sostenuto da quattro colonne «nigri albique colons, ingentis valons »so e non abbia notato capitelli degni di menzione81, permette di dedurre che non fossero i capitelli lionesi, ma più semplici manufatti cosmateschi, a sostenere l'architrave marmoreo.

L'esecuzione di ben quattro magistri, Iohannes, Petrus, Angelus e Sasso figli di Paulus, che lasciarono i loro nomi incisi sull'architrave stesso dopo la dedica di Guido, fa pensare ad un lavoro completo più che ad una ricostruzione : si può dunque ritenere probabile che, a parte le colonne che peraltro presentano altri aspetti problematici82, le altre parti costrut-

78 Liber pontificalis, cit., vol. I, p. 375. 79 P. Ugonio, Historia delle Stationi di Roma che si celebrano la quadragesima,

Roma, 1588, f. 180r. 80 O. Panvinio, Vat. Lot. 6780, f . 54r (trascriz. in G. Biasotti, ph. B. Whitehead,

La chiesa dei SS. Cosma e Damiano al Foro Romano e gli edifici preesistenti, in Rend. P.A.R.A., III, 1924-25, p. 83-122 in part. 110-111).

81 Nello stesso contesto il Panvinio non manca di sottolineare che le colonne di porfido dell'ingresso sulla Via Sacra erano con capitellis corinthijs (loc. cit.).

82 II Biasiotti in un lavoro relativo alle trasformazioni più recenti della chiesa (G. Biasiotti, La basilica dei SS. Cosma e Damiano del rifacimento di Urbano Vili ad oggi, in Atti del I Congr. naz. di studi romani, Roma 1928, p. 689-702) afferma che le quattro colonne di colore nero con leggere venature poste ad ornare l'altare maggiore attuale siano quelle del ciborio medievale riutilizzate da Urbano Vili. Questa interpretazione è stata generalmente accettata senza revisioni (cfr. ad es. R. Bu-

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tive fossero state lavorate nel XII secolo83. In conseguenza a ciò si deve affermare che se i capitelli lionesi furono utilizzati in un ciborio dei SS. Cosma e Damiano soltanto quello di papa Sergio ο un altro eventualmente precedente potevano averli ospitati84.

DRiESi, La basilica dei SS. Cosma e Damiano a Roma, Bologna, 1968, p. 11 e 17) mentre è evidentemente contraddetta dal Mezzadri (che ebbe modo di consultare un manoscritto del Fr. A. Gattinara oggi non più rintracciabile), il quale afferma, parlando di colonne : alias vero pretiosiores, quae absidem altaris maioris regebant in reaedificatione, facta tempore Urbani Vili, alio fuisse delatas (ove evidentemente absidem sta per cyborium) (B. Mezzadri T.O.S.F., Dissertano II de actis SS. Marty- rum Cosmae et Damiani necnon de monumentis basilicae ìpsis in Orbe erectae, in duas partes distributa, Roma, 1750, p. 58) e poi ricorda l'altare maggiore attuale con la seguente specificazione : «tabulis columnisque marmoreis ornatum sumpti- bus Coenobii et R.mi Patris Ludovici Gatti» (Id., op. cit., p. 61). È ovvio quindi che le colonne nigri albique coloris, ingentis valons viste dal Panvinio non potevano essere quelle attuali ma potevano essere di bianco e nero antico di Aquitania ο di granito bianco e nero oppure, più probabilmente, di porfido nero poiché la visita apostolica del 1625 le indica così : Altare ipsium maius est insulatum tegiturque ciborio marmoreo quod quattuor porphireticis columnis sustentatur (Visitatio ecclesiae SS. Co- sme et Damiani 1625 die X Novembris, in Acta Sacrae Visitationis Apostolicae S.D.N. Urbani VII, Pars Prior; Arch. Segr. Vat., Sacra Congr. Vis. Apost., 3, ff. 156-160 in part. f. 156r).

83 Inoltre è da osservare che le sedi delle basi del ciborio medievale, ancora esistenti ed ispezionabili nel loro sito originario (attuale chiesa inferiore) sono larghe circa 44 cm e quindi corrisponderebbero, dopo la riduzione per le modanature della base e quelle delle rastremazione della colonna, a capitelli decisamente più piccoli di quelli di Lione.

84 Lo stato in cui erano i capitelli prima dei restauri matteiani giustificherebbe d'altronde una sostituzione per motivi estetici e potrebbe anzi essere il motivo della ricostruzione medievale dell'intero ciborio : possiamo infatti facilmente immaginare quanto potessero essere poco decorativi i quattro capitelli una volta che il canestro era in gran parte smozzicato, le teste delle aquile quasi tutte perdute, i festoni ridotti in gran parte a monconi ed i monogrammi ed i cristogrammi in gran parte perduti ο mutilati. D'altronde la fragilità di questo tipo di capitello, sensibile al minimo urto di un oggetto di una certa durezza è evidente in tutti gli esempi superstiti come ad es. quelli a canestro e colombe della porta sud della S. Sofia di Costantinopoli che, anno per anno, per urti ο per vandalismo, perdono frammenti e sono ormai ridotti a monconi assai poco decorativi. Per quanto riguarda poi un eventuale ciborio ancora precedente e non menzionato dalle fonti le difficoltà sono un po' maggiori, pur se non tali da far escludere la possibilità; in realtà non è certo problematica la mancanza di una eventuale citazione nella vita di Giovanni II (anche i plutei di S. Clemente non sono citati), peraltro assai scarna, ma è semmai più sospetto il silenzio nella vita di papa Sergio (cfr. infra) nella quale, a proposito di S. Susanna, si tiene a specificare che cyburium basilicae Sancte Susannae, quod ante ligneum fuerat, ex marmore fecit {Liber pontificalis, cit., p. 375) mentre per SS. Cosma e Damiano non si fa menzione di un manufatto precedente. Tuttavia,

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Certo, tutto quanto possiamo dire si basa esclusivamente sul disegno di Gobbo da Sangallo e sull'indicazione apposta sopra di esso; quindi se si stabilisse che all'epoca della realizzazione del disegno i capitelli - e magari solo uno di essi - erano depositati presso quella chiesa ma provenivano da un altro luogo, oppure se si scoprisse che altri cibori ο avancorpi colonnati ο iconostasi erano nella chiesa ο nell'edificio che gli faceva da vestibolo sulla Via Sacra85, l'ipotesi avanzata sarebbe tutta da rivedere.

per inciso, mi sembra opportuno sottolineare che questo riferimento ad un ciborio ligneo è stato finora scarsamente considerato degli studiosi e che, se fosse approfondito, potrebbe anche fornire qualche indicazione utile : si potrebbe infatti pensare che, nel caso di S. Susanna, solo il ciborio inteso come copertura fosse ligneo (usare colonne lignee a Roma, data l'inflazione di quelle marmoree, sembrerebbe davvero un controsenso) e che quindi, nel caso dei SS. Cosma e Damiano, papa Sergio avesse donato la copertura marmorea da porre sulle colonne con i capitelli di Giovanni II che erano già in situ in un baldacchino scoperto, come quello che si vede in rappresentazioni antiche di S. Pietro in Vaticano (M. Guarducci, La capsella eburnea di Samagher - un cimelio d'arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste, 1978, ristampa da Atti e Mem. della Soc. istriana di storia patria, voi. 78, fig. 8 e 9). Si tratta però di ipotesi che andrebbero meglio documentate ed inserite in un più ampio studio sui cibori (e sul linguaggio del Liber pontificalis) che qui non trova certo la sede più adatta.

85 Altre colonne oggi non più esistenti si trovavano nel muro-diaframma (forse con funzione statica) che divideva longitudinalmente la parte anteriore da quella verso l'abside (cfr. G. Biasiotti, art. cit., p. 118 e Β. M. Apollonj Ghetti, Nuove considerazioni sulla basilica romana dei SS. Cosma e Damiano, in Riv. arch, crisi., 50, 1974, pp. 7-54 in part. p. 24-25) : si trattava, anche in questo caso, di quattro sostegni e quindi di quattro capitelli che però dovevano essere più grandi di quelli lione- si, forse proprio a queste quattro colonne, anche secondo l'Apollonj Ghetti (art. cit., p. 23, nota 15), si riferisce una notizia di vendita (per 450 scudi) del 1632, trovata dal Biasiotti tra i documenti dell'Archivio di Stato di Roma (art. cit., 1928, p. 12 dell'estratto nota 2); nulla sappiamo invece dei capitelli delle columnas nonnullas, quibus sustentabatur turris Campanarum, asportatas deinde jussu Gregori XIII ad ornandum sacellum Gregorianum in Basilica Vaticana (B. Mezzadri T.O.S.F, op. cit., p. 58), va però notato che il campanile fu costruito, probabilmente, quando si sostituì il vecchio ciborio con il nuovo (cfr. B. M. Apollonj Ghetti, art. cit., p. 28-30) quindi non si può escludere che le colonne di un eventuale vecchio ciborio fossero state utilizzate come materiale da costruzione ο come sostegni del campanile. Altre colonne (8 ο 9), e quindi altri capitelli, erano sul fianco esterno nord-ovest come si vede in alcuni notissimi disegni del Ligorio (Vat. lat. 3439, riprodotti in Β. Μ. Apollonj Ghetti, arc. cit., fig. 5 e 6) che però vi pone capitelli apparentemente corinzi a foglie lisce. Sembra improbabile che altre strutture a colonne esistenti alla fine del XVI secolo siano sfuggite alle descrizioni a noi note e quindi l'ipotesi dell'esistenza, in opera nella chiesa, dei nostri capitelli nel XVI secolo non sembra avere particolare forza. Semmai va ricordata la possibilità di utilizzazione in una eventuale iconostasi, possibilmente con avancorpo ed a grandi colonne, che però non poteva

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Un altro indizio è comunque favorevole ad essa, pur se limitatamente : la corrosione dei capitelli che si è verificata indubbiamente per esposizione totale all'aperto dopo l'esecuzione dei citati canaletti per le sbarre e prima dei restauri postrinascimentali. La durata di quell'esposizione sembrerebbe essere notevole, fatto questo che si adatterebbe all'ipotesi di un accantonamento in uno spazio aperto ο a quella di un uso secondario in giardini, orti ο cortili per circa cinque secoli86.

Nulla possiamo dire però per il citato periodo se non che i capitelli erano visibili sia nel XVI che nel XV secolo. Al disegno del Sangallo si possono infatti avvicinare senza perplessità uno schizzo, pur se un po' adattato (forse fatto a memoria) del codice escurialense attribuito a Domenico Ghirlandaio87 (fig. 12) ed un altro disegno cinquecentesco di un

essere restata in situ nel XVI secolo avanzato. Osservo, infine, un particolare che mi sembra sia stato finora trascurato e cioè la presenza di un ciborio a quattro colonne in una pianta della chiesa superiore, eseguita da Orazio Torriani, subito dopo i restauri di Urbano Vili ed evidentemente prima della costruzione dell'altare attuale (che si suppone costruito dal Castelli nel 1637). Tale pianta è pubblicata dal Biasiotti (art. cit., 1928, p. 5-6 e fig. 1) e poi più estesamente dall'Apollonj Ghetti (art. cit., fig. 24).

86 Cfr. infra. Il tipo di corrosione riscontrabile è tipico dei materiali esposti al dilavamento della pioggia ed è esteso a tutte le facce : fatto questo che fa considerare improbabile sia l'utilizzazione in un portico (la corrosione sarebbe stata diversa con l'orientamento), sia qualunque altra funzione che prevedesse il riparo di un tetto. Lo spazio di circa cinque secoli corrisponderebbe all'intervallo di tempo compreso tra lo smantellamento del vecchio ciborio per l'erezione di quello nuovo del card. Guido (circa 1130) e l'alienazione dei capitelli da parte della comunità Francescana dei SS. Cosma e Damiano (età postrinascimentale).

87 H. Egger, Ch. Huelsen, A. Michaelis, Codex Escurialensis. Ein Skizzenbuch aus der Werkstatt Domenico Ghirlandaios (Sonderschriften Österr. Archaeol. Inst, in Wien, vol. IV), Vienna, 1906, p. 97 e fig. 32 (Scheda di A. Michaelis il quale è il primo ad avvicinare a questo disegno quello del Sangallo e quello del Riccio che citiamo qui appresso). Lo schizzo deve essere precedente al 1485-90, data di esecuzione degli affreschi della cappella maggiore di S. Maria Novella in Firenze, poiché in quegli affreschi è riprodotto un altro capitello riportato sullo stesso taccuino ; se si vuole precisare ulteriormente si potrà fare riferimento agli anni 1481-82 che corrispondono al soggiorno a Roma del Ghirlandaio (affreschi alla Cappella Sistina). Notevoli sono le approssimazioni e le semplificazioni di questa riproduzione che rappresenta una ruota a sette raggi invece del chrismon delle colombe in luogo delle aquile, un rado cestello metallico con chiodi ai punti di incrocio e una corona di base liscia. Si tratta in questo caso, così come nel successivo (cfr. nota 90), di una sorta di « rimodellazione » grafica per uso professionale. Sempre a proposito di questo disegno va ricordato che il Kautzsch (op. cit., p. 165, nota 2), citando i capitelli di Lione (in effetti sembra ritenere che ne esista uno solo), include nella stessa

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Fig. 12 - Madrid, Codex Excurialensis, disegno attribuito a Domenico Ghirlandaio.

codice senese inedito di Bartolomeo Neroni detto «il Riccio»88 (fig. 13), ma queste due riproduzioni purtroppo non recano l'indicazione del luogo in cui l'originale era visibile e ci lasciano quindi intatti i dubbi preceden-

classe quello del Ghirlandaio considerandolo però un confronto ο un ulteriore esemplare piuttosto che una riproduzione dello stesso soggetto.

88 II volume di schizzi, tuttora inedito, è attribuito a quell'autore da una nota- zione autografa del Milanesi apposta nella prima pagina; esso è conservato nella Bibl. Comunale di Siena con la segnatura S. IV. 6. Il disegno che ci interessa è a f. 5V (6V) (ringrazio vivamente la sig.na Dubrowska responsabile dei manoscritti di quella biblioteca, per avermi concesso la visione e la riproduzione del codice). Il capitello riprodotto dal Riccio (1500-1571/73) è del tutto analogo a quelli di Lione ma, come quello del Ghirlandaio presenta tali approssimazioni, anche di tipo inventivo e interpretativo, da sembrare più un progetto per un nuovo capitello ispirato a quello antico che non uno schizzo semplicemente ricostruttivo dell'esemplare stesso. Agli angoli sono infatti rappresentate colombe ad ali chiuse accovacciate dentro il festone - come in una sorta di nido - ed il festone, invece di avvolgersi in ghirlanda in corrispondenza del fiore d'abaco, si aggancia, in quello stesso punto, ad una sorta di tondello contenente un ovolo e lascia così scoperta la parte centrale

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Fig. 13 - Siena, Biblioteca degli Intronati, Codice S. IV. 6, f. 5v.

temente espressi. Questi due disegni comunque, sono di indubbio valore documentario per noi in quanto ci testimoniano l'interesse e la curiosità - più che giustificati - per dei manufatti di struttura ed esecuzione decisamente complessa, insoliti a Roma e, a quei tempi, non certo ricollegabili ai più numerosi esemplari costantinopolitani e, in genere, bizantini, i qua-

del registro superiore che viene riempita da una sorta di motivo gigliato del tutto inventato rispetto ai capitelli lionesi. D'altronde le discrepanze citate non sono tali da far ritenere che il modello fosse veramente un altro e ciò anche perché nello stesso codice si trova un altro disegno evidentemente rimodellato, come è stato recentemente stabilito (A. Guiglia Guidobaldi, Precisazioni su alcuni capitelli a canestro di ambito romano, in «Quaeritur inventus colitur». Miscellanea in onore di p. Umberto Έ asola, B. (Studi di antichità cristiana, XL), Città del Vaticano, 1989, p. 405-422, fig. 7, su un esemplare antico, ancora esistente a Roma, con analoghe variazioni e integrazioni. In ogni caso, per quanto riguarda il capitello a canestro, festoni e colombe (in luogo di aquile) basterebbe l'identità della corona di base con la rosetta centrale a sei petali verso cui convergono le foglie d'alloro per dissipare qualunque dubbio sulla coincidenza del disegno senese e dei nostri capitelli.

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li certo non erano «visitati» dagli artisti del tardo XV e del XVI secolo come lo erano i monumenti romani. Tra questi due schizzi e quello del Sangallo la differenza è comunque nettissima poiché, mentre i primi sono liberamente «ispirati» ai capitelli lionesi, l'ultimo è un vero e proprio rilievo della realtà (con limitate approssimazione ο variazioni) ed, essendo certamente precedente ai restauri Matteiani si può considerare una documentazione della presenza delle aquile nelle posizioni angolari89.

Inserimento nella collezione Mattei e ultime vicissitudini

I quattro capitelli di Lione dovevano essere abbastanza malconci, come abbiamo già ipotizzato, quando furono tolti d'opera in un'epoca che potrebbe coincidere con il XII secolo; anche la successiva esposizione all'aperto per un uso probabilmente assai meno nobile del precedente, non può non aver coinciso con ulteriori danni ο mutuazioni e quindi, verso la fine del XVI secolo, lo stato generale dei manufatti doveva essere pessimo.

Nonostante ciò, la rinascita degli studi dell'antico e la curiosità, già colta, per le più originali e raffinate tecniche di lavorazione impiegate nel passato risvegliarono sicuramente un certo interesse intorno a questi insoliti manufatti che furono, come abbiamo visto, copiati ο studiati e, nonostante la frammentarietà della decorazione superstite, furono compresi e giustamente apprezzati nei loro valori intrinsechi. Questo interesse culminò certamente in un «recupero» totale, documentato dagli estesi restauri integrativi e dai rifacimenti (con le aggiunte di simboli ο elementi araldici in luogo delle parti perdute) che si verificarono, come si comprende dallo stile delle parti rifatte (soprattutto le aquile), in età non solo post-medievale ma anche postrinascimentale.

Abbiamo già notato che i simboli araldici sono riferibili alla famiglia Mattei di Roma e quindi è logico pensare che quelli fossero gli acquirenti dei capitelli. È altrettanto logico immaginare poi che questi fossero inseriti nella famosissima collezione di antichità90 che proprio dalla fine del

89 Alle colombe dello schizzo del Riccio e agli strani volatili (un po' oche, un po' aquile e un po' colombe) del Ghirlandaio non si può evidentemente attribuire un equivalente vigore dimostrativo.

90 L. Guerrini et al., Palazzo Mattei di Giove. Le antichità, Roma, 1982. Ivi numerosi riferimenti anche alle antichità conservate nella villa Celimontana.

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'500 e per buona parte del '600 fu raccolta e posta nel palazzo principale ai Funari e nella Villa Celimontana a decoro culturale ed insieme architettonico delle nuove costruzioni matteiane.

Non è stato difficile trovare le prove oggettive di queste fondate supposizioni poiché sia la monumentale descrizione della collezione Mattei91 sia le guide di Roma del XVIII secolo92 sono concordi nell'indicare alcuni capitelli canestriformi posti su colonne nella loggia del I piano del Palazzo Mattei di Giove a via dei Funari, a fianco e di fronte al portone di accesso al grande salone del palazzo stesso.

A queste descrizioni, che pur se semplici sono pressoché inequivocabili93, si deve poi aggiungere uno splendido disegno (fig. 14) conservato nella Biblioteca del College di Eton ed appartenente alla raccolta To-

91 R. Venuti, G. C. Amaduzzi, Vetera monumenta quae in hortis celimontanis et in aedibus Matthaeiorum adservantur nunc primum in unum collecta et adnotationi- bus illustrata, voi. I (Statuas comprehendens) , Roma, 1979, p. LII : Iam ventum ad peristilium, quod aulam respicit ... (è la loggia su cui apre il salone principale al piano nobile) . . . Hinc duae aliae columnae ad postes dispositae totidemque contra stantes capitulis canistriformibus instructae . . .

92 Ricordiamo ad es. F. de Ficoroni, Le vestigia e rarità di Roma antica ricercate e spiegate, in part. Libro II, Le singolarità di Roma moderna ricercate e spiegate, Roma, 1744, p. 63-64 : «Nel portico avanti della sala .... senza parlare di quattro colonne, due, che per i capitelli hanno due canestre»; F. Titi, Descrizione delle pitture, sculture e architetture esposte al pubblico in Roma, Roma, 1763, p. 87-88 : «Nel portico avanti la sala dell'appartamento nobile vi sono .... e otto antiche colonne quattro delle quali con bizzarri capitelli rappresentanti canestre » ; R. Venuti, Accurata e succinta descrizione topografica e istorica di Roma moderna, 1766 : «Nel portico avanti la sala sono .... senza parlare di quattro colonne due delle quali hanno per capitelli due canestri » ; M. Vasi, Itinerario istruttivo di Roma ο sia descrizione generale di pittura scultura e architettura e di tutti i monumenti si antichi e moderni di quest'alma città e parte delle sue adiacenze, Roma, 1791, p. 470: «Nel portico avanti la sala del primo appartamento vi sono .... ; e otto colonne antiche, quattro delle quali con i capitelli, fatti a forma di canestro». L'indicazione di due soli capitelli nel Ficoroni sembra sia da considerare un errore così come quella del Venuti che altrove (cfr. nota 93) sembra indicare quattro.

93 Non sono infatti noti a Roma altri capitelli canestriformi tranne quello, piuttosto piccolo, di S. Clemente riutilizzato a destra nella tomba del card. Venerio, e comunque riconosciuto come bizantino solo nel secolo scorso. Si veda in proposito, più che la segnalazione dello Hübsch {Die altchristlichen Kirchen nach den Baudenkmalen und älteren Beschreibungen und der Einfluss des altchristlichen Baustyls auf den Kirchenbau aller späteren Perioden, Carlsruhe, 1862, tav. XXV, 16-17), l'inter- pretazione del Nesbitt (On the Churches of Rome earlier than the year 1150, in Archaeologia, 40, 1866, p. 157-224 in part. p. 188 e fig. 8).

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Fig. 14 - Eton College, Biblioteca, Coll. Topham, Codice Bm 11, f. 11.

pham94, citato dal Lanciarli95 e, più recentemente, dalla Guerrini e collaboratori96, ma sinora mai pubblicato97. In esso il capitello della nostra serie è riprodotto con notevole dettaglio - pur se, anche in questo caso, con un certo numero di imprecisioni98 - nello stato in cui era dopo i

94 II disegno è contenuto nelle Eton College Collections ed in particolare nel codice Bm 11 della raccolta Topham a f . 11, esso misura 49,2x37,8 cm. ed è ritenuto databile tra il 1730 e il 1740 per i collegamenti con il proprietario Mr. Topham, (cfr. F. Carinci, / disegni della raccolta Topham e il manoscritto Finding aid 3 nella biblioteca del College di Eton, in L. Guerrini, et al., op. cit., p. 79-92).

95 Cfr. nota 69. 96 L. Guerrini et ai, op. cit., p. 85 e passim. Mi è qui gradita l'occasione per

ringraziare cordialmente Maria Grazia Picozzi e Filippo Carinci, coautori del volume, per le preziose informazioni e gli utilissimi scambi di idee.

97 Ringrazio vivamente il bibliotecario dell'Eton College, Paul R. Quarrie per avermi concesso di esaminare direttamente, di fotografare e di pubblicare il disegno in questione.

98 Non è stata compresa, dall'autore del disegno, la giravolta del festone che forma la ghirlanda, il canestro poi è stato reso con un intreccio vimineo a 5 capi invece che a tre; le aquile sono ad ali aperte ma non spiegate; il chrismon è rappresentato in entrambe le facce contigue visibili, ciò che non si verifica in nessuno

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restauri matteiani e sormontato da un'aquila che, come sappiamo", si trovava appunto sopra uno dei nostri esemplari. La serie di disegni a cui il nostro appartiene è stata riconosciuta come pertinente alla collezione Mattei di antichità 10° e quindi questa è già da sola una prova della presenza dei capitelli lionesi appunto nella collezione Mattei all'epoca in cui i disegni furono eseguiti e cioè verso il 1 730-40 101. Ciò che resta più difficile stabilire, a questo punto, è la data dell'acquisizione dei Mattei. In effetti sia le menzioni finora citate, sia il disegno di Eton sono del XVIII secolo e quindi non abbiamo prove tangibili neanche della presenza dei capitelli nella collezione nel XVII secolo.

Certo una indagine approfondita nell'archivio dei Mattei, ancora conservato presso la famiglia Antici-Mattei a Recanati, potrebbe risolvere il problema, ma purtroppo le difficoltà di accedere a tale archivio privato sono notevoli 102.

Qualche minima indicazione, più analogica che puntuale, che ho potuto raccogliere tra i documenti dell'archivio, purtroppo assai lacunoso, della chiesa e del convento dei SS. Cosma e Damiano 103 e qualche altro

dei capitelli (forse per la difficoltà di intendere il monogramma di Giovanni); la rosetta che interrompe la corona di base è solo una (invece di due) sulla metà visibile ed è resa a tre petali invece che a sei; infine la testa dell'aquila centrale è piegata lateralmente. Interessante è invece la presenza dell'abaco aggiuntivo che nei capitelli lionesi è conservato solo nell'esemplare IV.

99 R. Venuti, G. C. Amaduzzi, op. cit., p. LU. 100 Cfr. L. Guerrini et al, op. cit., p. 79-92. 101 Cfr. nota 94. Va sottolineato che i capitelli non erano stati finora collegati

con il disegno in questione e che quindi si considerava che questi elementi della collezione fossero dispersi (L. Guerrini et al, op. cit., p. 24, 53 e 85); abbiamo quindi ora l'occasione di ricongiungerli alle altre disiecta membra della collezione.

102 Mi riferisco alle difficoltà incontrate anche dalla Guerrini e collaboratori nel già più volte citato lavoro di rassegna e recupero della collezione Mattei : questi studiosi si sono dovuti infatti accontentare di attingere ad uno spoglio fatto in precedenza ed in funzione dello studio architettonico del Palazzo (G. Panofsky Soer- gel, Die Geschichte des Palazzo Mattei di Giove, in Rom. Jahrb. für Künstgeschichte, 11, 1967-68, p. 109-188).

103 Non si può parlare infatti di altro che di indizi poiché da un lato risulta, nei libri delle entrate (conservati però solo per il periodo 1587-1614) la vendita piuttosto frequente, da parte dei Terziari Francescani dei SS. Cosma e Damiano, di elementi marmorei antichi sia interi che f rammentari : «... per un pezzo di colonnetta piccolo et un pezzo do colonnetta grande trovata nella cantina vendute allo scar- pellino», (Arch, di Stato di Roma, Terziari Francescani dei SS. Cosma e Damiano, busta 10, Entrate 1603-1609, f. 5r); «per uno pillo de marmore scudi dodici», «per uno di marmore venduto scudi nove» (si tratta di due sarcofagi ma l'acquirente

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indizio ricavabile dalla cronologia delle trasformazioni di quegli edifici, porterebbero a ritenere che gli anni immediatamente precedenti alla ricostruzione della chiesa, avvenuta durante il pontificato di Urbano Vili (1623-1624), potrebbero essere quelli in cui è probabile che si sia verifica- ta l'alienazione dei capitelli, ma il quadro delle testimonianze reali è troppo povero perché si possa pretendere di avanzare una ipotesi precisa 104.

Restano ora da documentare - ο almeno circostanziare - gli ultimi passaggi di proprietà e di collocazione dei capitelli fino all'attuale situazione.

Come abbiamo visto, la presenza nella collezione Mattei fino alla fine del XVIII secolo è documentata dalle guide della «Roma Moderna». Testimonianze di questo tipo esistono anche per i primi anni del XIX secolo 105,

non è specificato : ibidem, f. n.n. ma 23v); «per uno pillo di marmore venduto al sig. Doctore Falconio scudi sei» (ibidem, f. n.n. ma 24v); altre menzioni di vendita «al scarpellino» ο ad anonimi si riferiscono a materiali marmorei spesso pregiati e più volte indicati come provenienti dalla cantina : « per una pietra gialla. . . » (ibidem, busta 11, Entrate 1609-1614, f. 2r); «per un pezzo di colonnetta verde. . .» (ibidem, f. 7v), «per una pietra. . .» (ibidem, f. 18v), «per un pezzo di marmo. . .» (ibidem, f. 19r), «per un pezzo di granito. . .» (ibidem, f. 25v), ecc. L'aspetto forse più interessante ai nostri fini è però un altro : a fianco di queste notizie e specialmente nel gruppo di documenti del 1603-1609 in cui più frequentemente si riportarono i nomi dei compratori ο offerenti (per le elemosine) compaiono con una relativa frequenza i nomi di Ciriaco Mattei (ibidem, busta 10, Entrate 1604-1609, ff. n.n. ma 21v, 23v, 27v, 38v) e di Fabio Mattei (ibidem, ff. n.n. ma 23v, 27r) per offerte a titolo di elemosina ο per l'invio di confessori, ο in una lista che comincia con

offerte « per la fabbrica » e poi prosegue (subito dopo la menzione di Ciriaco Mattei) con la citata vendita dei sarcofagi. Certo non si tratta se non di particolari generici, ma non si può negare che sia abbastanza interessante il legame tra il fondatore della collezione Mattei e la nostra chiesa anche perché sono pochissimi gli altri aristocratici menzionati nelle stesse pagine : soprattutto il card. Montalto e il duca d'Ac- quasparta (Cesi). La lacuna di questi libri di entrate proprio dal 1614 al 1650 epoca delle demolizioni e ricostruzioni principali della chiesa e del convento ci priva certamente di un'ulteriore eventuale possibilità di rintracciare il momento di acquisto dei nostri capitelli.

104 Comunque un acquisto diretto dei Mattei da una comunità religiosa (quella dei SS. Cosma e Damiano) rientrerebbe in una prassi più volte applicata durante la formazione della collezione di antichità in questione : provengono infatti da altre chiese di Roma, ed in particolare da S. Pietro in Vincoli, da S. Maria in Aracoeli, da S. Giovanni in Laterano, da S. Pietro e da SS. Sergio e Bacco, rispettivamente i ritratti funerari n° 33 ed i sarcofagi n° 53, 61, 68 e 102 (L. Guerrini et al, op. cit., p. 170, 204-205 e 214-215).

105 Basandoci sulla guida di Mariano Vasi che, come si può ritenere, veniva aggiornata ad ogni nuova edizione potremo dire che i capitelli furono allontanati

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ma, subito dopo, la scomparsa dal Palazzo Mattei è pressoché certa : una ipotesi valida per tale allontanamento è stata già offerta dalla Guerrini e collaboratori che ritengono che i capitelli, insieme alle colonne che li sostenevano, siano stati spediti a Parigi, al cardinale Alessandro Mattei, tra il 1808 e il 1814, insieme a molti altri «pezzi» della collezione, per essere venduti 106.

Sappiamo poi che il principale acquirente di quello «stock» fu il cardinale Fesch 107, zio di Napoleone Bonaparte, arcivescovo di Lione e famoso collezionista, che poi rivendette gran parte della sua collezione, costituita soprattutto da quadri (tranne quelli lasciati in dono alla città di Ajac- cio). Una prima sezione fu venduta a Parigi nel 1816, un'altra a Lione nel 1817 e l'ultima a Roma, nel Palazzo Falconieri ove il cardinale abitò nei suoi soggiorni romani, sempre più continui ed «inevitabili» dopo la caduta dell'illustre nipote e fino alla morte avvenuta nel 1839 108.

dal palazzo tra il 1807 e il 1812 basandoci sul fatto che la menzione delle «otto colonne antiche quattro delle quali con i capitelli, fatti a forma di canestro», che esiste sin dalla prima edizione del 1791 (cfr. nota 94), compare ancora sia nella III del 1804 sia nella IV del 1807 mentre viene eliminata a partire dall'edizione V del 1812 (M. Vasi, Itinerario istruttivo di Roma antica e moderna, III ediz., Roma, 1804, p. 384; IV ediz., Roma, 1807, p. 370, V ediz., Roma, 1812, p. 248. La stessa situazione trova riscontro nelle edizioni francesi che precedono di pochi mesi quelle italiane ma hanno anche qualche ristampa intermedia, di queste non ho potuto però ancora consultare quella del 1811 che potrebbe permettere una precisazione ulteriore. Va poi ricordato che l'assenza delle colonne e dei capitelli è evidente nella rappresentazione dettagliata di P. Letarouilly (Les édifices de Rome moderne, Atlante I, Liegi, 1843, taw. 107-108) fatto questo che ci fornisce un terminus ante quem (anche se molto dilatato) per la asportazione.

106 L. Guerrini et al., op. cit., p. 12 e 53; una lista delle opere da prelevare nel palazzo e da inviare a Parigi per la vendita è pubblicata in questo stesso lavoro (p. 53), vi si legge tra l'altro : «Nella loggia prima di entrare in sala : n° 8 colonne». La stessa lista non reca una data precisa ma, poiché si sa che il cardinale Alessandro Mattei fu a Parigi del 1808 al 1814 è ovvio che almeno questo intervallo cronologico sia applicabile anche ad essa. Le guide di Mariano Vasi (cfr. nota precedente) che parlano specificatamente dei quattro capitelli permettono di restringere l'intervallo al 1808-1812.

107 L. Guerrini et al, op. cit., p. 12, per la biografia di questo famoso cardinale si veda Abbé Lyonnet, Le cardinal Fesch archevêque de Lyon, primat des Gaules Lione-Parigi, 1841, 2 voll. Riguarda però soprattutto la vita politica e religiosa. A p. 107 (voi. I) la consacrazione ad arcivescovo di Lione avvenuta nel 1802. Per gli aspetti più specifici del collezionista si veda invece D. Carrington, Cardinal Fesch, a Grand Collector, in Apollo, 86, 1967, p. 346-357.

108 D. Carrington, art. cit., passim.

QUATTRO CAPITELLI DEL VI SECOLO OGGI A LIONE 363

Ai nostri fini interessa particolarmente la notizia del trasporto a Lio- ne di una notevolissima parte della collezione intorno al 1814 cioè quando gli alleati invasero la Francia e causarono l'allontanamento di Napoleone. In quell'occasione i quadri furono posti ad addobbare la cattedrale di Lio- ne ed i marmi antichi furono nascosti nelle varie cappelle109. Dato che i capitelli al momento della «scoperta» di Bégule e Bertaux, si trovavano in una scaletta subito fuori la grande cappella dei Borboni, appunto nella cattedrale lionese, il collegamento diretto sembra possibile nonostante quasi un secolo fosse trascorso dall'eventuale arrivo a Lione. In effetti è abbastanza probabile che, quando nel 1817 una parte dei quadri di Lione fu venduta e la parte restante della collezione passò quasi tutta a Roma110, i capitelli - ο per lo scarso valore commerciale, ο per la fragilità, ο perché destinati ad un nuovo ciborio per la cattedrale stessa - siano restati a Lione dove pian piano se ne dimenticò la provenienza.

In ogni caso, anche solo in base ai limitati dati oggettivi di cui disponiamo, si può considerare infondata l'ipotesi di Bégule e Bertaux che vedevano, senza alcun motivo preciso, in un certo canonico Chapot, il possibile acquirente (a Roma) e donatore (alla cattedrale di Lione) dei quattro manufatti bizantini111. Altrettanto inaccettabili si possono poi considerare la proposte di Kramer che, più recentemente e senza specificarne i motivi, indica una provenienza alternativa da Spoleto, oltre che da Roma, e afferma con una decisione davvero eccessiva e sempre senza addurre prove, che i capitelli stessi furono portati a Lione dal card. De Bonald nel secolo scorso (forse basandosi sul fatto che gran parte del tesoro della cattedrale di Lione è costituito da una donazione di quel cardinale che fu arcivescovo di Lione subito dopo Fesch)112.

La provenienza da Roma è invece, come abbiamo visto, certissima e l'ultimo passaggio di proprietà, dal card. Fesch alla cattedrale di Lione, è troppo probabile per non essere considerato vero. Con questo tratto, forse quello più oggettivamente accettabile, abbiamo concluso il tentativo di ricostruzione dell'itinerario, insolitamento variato, dei quattro capitelli del Tesoro della cattedrale di Lione.

109 Id., ibidem, in part. p. 349. 110 Id., ibidem. 111 L. Bégule e É. Bertaux, art. cit., p. 211. 112 G. Kramer, op. cit., p. 94. Lo stesso autore, d'altronde, è impreciso anche

nella descrizione degli uccelli angolari, che ritiene in qualche modo differenziati, ed ancor più nella valutazione stilistica, quando considera «sculture provinciali» i manufatti in questione.

364 FEDERICO GUIDOBALDI

Le incertezze che restano sono ancora molte ma i percorsi geografici si possono considerare ricostruiti in modo definito e, in aggiunta, dobbiamo almeno considerare positivo l'aver recuperato elementi per la storia della chiesa romana dei SS. Cosma e Damiano, l'aver ricavato indicazioni per la produzione e l'esportazione della scultura costantinopolitana del VI secolo e l'aver ritrovato materialmente quattro «pezzi» della collezione Mattei che erano finora considerati perduti.

Federico Guidobaldi