Obversione. Media e disintetità _ Marco Senaldi

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Obversione Media e disintetità Marco Senaldi postmedia books

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ObversioneMedia e disintetità

Marco Senaldi

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De pronto recordé que Haydée Lange habìa muerto hace mucho tiempo.Era un fantasma y no lo sabìa.Borges, 1983

Now that he had recognized himself as a dead man it became important to stay alive as long as possible.Orwell, 1984

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Introduzione

In fondo al corrIdoIo

Sul concetto di obversione

Mi osservavo costantemente: era come se sopra di me fosse collocata una cinepresa, e io fossi stato al tempo stesso la cinepresa, l’uomo che essa filmava,

e quello che poi guardava il film. A volte questo mi sconvolgeva, e spesso, la notte, non dormivo, fissavo il soffitto, l’obiettivo non mi dava tregua.

Jonathan Littell, Le benevole

Un corridoio bianco, assai stretto, rischiarato da poche lampade, si apre di fronte a voi. Ha qualcosa di freddo, di poco invitante, ma una specie di consuetudine atavica vi spinge a entrare dentro, a vedere dove va a finire. Un corridoio dopotutto è fatto proprio per questo: per essere percorso, fino in fondo. In fondo al corridoio in effetti c’è qualcosa di sorprendente, che si vede già appena entrati: si tratta di due monitor. Non sono dei semplici televisori, però. Sono monitor di controllo. In quello superiore si vede semplicemente il corridoio vuoto, in quello inferiore invece si vede una persona che si sposta proprio lungo il corridoio, vista di spalle. Man mano che vi avvicinate ai monitor in fondo per capire chi è questa persona, lei si allontana da voi; ma non ci vuole molto a capire che quella figura, vista da dietro, siete voi.

Siete indiscutibilmente voi, perché adesso, ad ogni gesto che fate corrisponde un gesto della figura sul monitor; d’altra parte non vi riconoscete perché siete ripresi da dietro e perché l’angolo di ripresa, unito alla distanza tra la videocamera e il monitor che restituisce l’immagine, fa sì che vi vediate da un punto di vista insolito – che però vi riguarda direttamente.

E’ questa in sintesi l’esperienza che qualunque spettatore può fare di una celebre installazione dell’artista americano Bruce Nauman, intitolata Live Tape Video Corridor (1969-71), più nota come Video Corridor.

In essa lo spettatore, per la prima volta nella storia, almeno con una così eccezionale chiarezza, sperimenta la perturbante situazione di vedere se stesso da un punto di vista che non gli appartiene, che gli è del tutto estraneo. Anche di fronte a uno specchio noi vediamo la nostra immagine come qualcosa di diverso da noi – come un’immagine che non ci appartiene allo stesso modo con cui ci appartiene l’immagine, ad esempio, delle

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10 nostre mani al lavoro, o dei nostri piedi che camminano. Ma l’immagine che osserviamo allo specchio è certamente la nostra anche perché la vediamo dal punto di vista dei nostri occhi – il punto di vista con cui contempliamo noi stessi siamo pur sempre noi; l’immagine che vediamo allo specchio può soddisfare o meno le nostre aspettative (ci troviamo belli, oppure invecchiati, brutti o semplicemente cambiati) – ma senza dubbio siamo noi che guardiamo noi stessi. Se poi osserviamo un nostro ritratto, o una nostra foto, è pur vero che l’immagine come tale non ci appartiene e che è stata presa da un punto di vista che non è il nostro (potremmo fotografare noi stessi davanti a uno specchio, ma anche in tal caso non ci vedremmo un viso nascosto da una macchina fotografica, come nel celebre autoritratto di Andy Warhol). Però, anche in questo caso, teniamo tra le mani l’immagine di noi stessi, e anche se non ci appartiene il punto di vista dal quale è stata realizzata (il che può essere fastidioso, soprattutto se la nostra immagine non corrisponde a ciò che ci immaginiamo di essere “veramente”, cioè se sulla fotografia siamo in una luce o in una posa sbagliata, sgradevole, distorta, o semplicemente comica), comunque l’immagine non scappa, è là, siamo noi, ci piaccia o no.

Ma nel caso della visita a Video Corridor le cose stanno ben diversamente. Infatti in questo caso, noi ci vediamo da un punto di vista completamente altro da quello che ci forniscono i nostri occhi. Noi ci vediamo da un punto di vista dove non siamo e non potremo mai essere; e siamo in un luogo dal quale non ci vediamo, e non potremo mai vederci direttamente. Sappiamo, perché lo vediamo, che siamo noi, che quell’immagine che ci restituisce il monitor è la nostra immagine; ma nondimeno essa ci appare estranea come l’immagine di un altro – estranea nella sua stessa familiarità – e perciò tanto più inquietante.

Occorre qui fare riferimento alla celebre nozione di Perturbante freudiano. In effetti già Freud, in un’epoca già pienamente mediale, si occupa di casi di falso riconoscimento e lo fa in un testo giustamente celebre intitolato appunto Das Unheimlich (1919), da una parola tedesca che, come nota lui stesso, nasce dalla negazione di ciò che è heimlich, casalingo, e perciò ben noto, familiare appunto. Nella nota 15 a Das Unheimliche, Freud ricorda un’esperienza analoga, accaduta a Ernst Mach, che “si spaventò non poco quando riconobbe che il volto che aveva visto era il suo stesso volto”. Lo stesso episodio accadde a Freud che così lo descrive:

Posso raccontare a mia volta un’avventura simile. Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone letto, quando per una scossa più violenta del treno la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore, saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con grande sgomento, che l’intruso era la

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mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto1.

L’esperienza di Freud è di estrema importanza qui. Essa infatti ha luogo in un treno, un mezzo di trasporto tipicamente moderno, che implica spostamento da luogo a luogo, ed è per definizione spaesante. La forma stessa di un treno, che si allunga lungo la via ferrata come per anticiparne la percorrenza, non forse simile a quella di un corridoio? Il disorientamento di Freud non è certo dovuto a un sistema di videocamere a circuito chiuso, ma nondimeno, l’immagine che sorge, pur essendo vista in un normale specchio, non è generata in modo consueto, ma da un evento imprevedibile, lo scossone del treno in corsa, che per un attimo scosta lo sguardo dall’immagine riflessa e la fa vedere a Freud “dal punto di vista di un’altra persona”. Al punto che egli può descriversi con un’oggettività persino leggermente malevola, “da fuori”, come “un signore piuttosto anziano, in veste da camera e con un berretto da notte in testa”, che insiste nell’entrare in uno scompartimento non suo. Infine è notevole il chiaro disagio che Freud desume da questa esperienza, e il senso di “grande sgomento” che essa gli provoca. Freud dunque già coglie perfettamente tutte le caratteristiche di questa strana esperienza che consiste nel non riconoscere ciò che c’è di più familiare, cioè se stessi – eppure le attribuisce a un fatto momentaneo, quasi irripetibile e comunque fortuito, mentre nel Video Corridor esse diventano un’esperienza definita, ripetibile, stabile, e che, nonostante ciò, mantiene integra tutta la sua capacità perturbante.

Di più. Nell’epoca attuale, dominata dalla presenza mediale diffusa, è quasi banale ricordare che gran parte della nostra vita sociale e talvolta anche intima si svolge alternativamente davanti a un monitor (come nel mio caso, scrivendo queste stesse parole al computer) o sotto l’occhio delle telecamere di controllo. Pertanto, capita sempre più di frequente che ripresa e visione divengano simultanee, generando delle situazioni simili a quella artificiosamente ricostruita dall’installazione di Nauman: in numerosi luoghi pubblici come stazioni di servizio, centri commerciali, negozi, e persino per strada non è raro imbattersi in monitor che rimandano l’immagine delle videocamere di controllo, e vedere in essi muoversi dei personaggi abbigliati proprio come noi, con le nostre fattezze, in una parola, del tutto simili a noi – perché siamo noi. Siamo indiscutibilmente noi, eppure fatichiamo a riconoscerci, dato che la nostra immagine è catturata e rimandata sullo schermo da un punto di vista radicalmente estraneo, quello della videocamera appunto. Così, la situazione è quasi rovesciata rispetto all’esperienza freudiana: Freud vede un estraneo in veste da camera che poi riconosce essere se stesso; noi abbiamo tutto il tempo di osservare un nostro sosia mediale che però ci risulta estraneo anche quando capiamo di essere lui. Il “grande sgomento” che deriva da questa situazione però, è identico.

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12 Anche se non esattamente negli stessi termini, questa situazione è già stata descritta da Jean Baudrillard in un breve testo, ma non per questo minore, intitolato significativamente Videosfera e soggetto frattale, del 1989(((2))). In esso il grande pensatore francese definisce la nozione di videosfera come quella in cui il soggetto si trova non solo calato entro una condizione di perenne accerchiamento mediale, ma anche toccato dai media nella sua propria identità individuale. Il soggetto si frammenta e i media, segnatamente il media visivi, non si relazionano ad esso come degli innesti passivi – piuttosto è l’uomo stesso “ad essere innestato sulle proprie immagini”. Per descrivere questa condizione del tutto nuova Baudrillard fa ricorso all’efficace immagine di “stadio video” – cioè di condizione, momento storico ed epocale nel quale i media audiovisivi hanno preso il sopravvento sulla realtà e sugli uomini stessi. L’intero significato della metafora baudrillardiana, però, si può cogliere solo mettendola in opposizione a quella più antica da cui deriva, il cosiddetto “stadio dello specchio”. Quest’ultimo è il nome di un particolare passaggio nella consapevolezza umana individuato da Jacques Lacan oltre mezzo secolo fa(((3))).. Secondo Lacan, vi è un momento nella vita del bambino per cui egli passa dall’indifferenza verso la sua immagine riflessa in uno specchio, ad un atteggiamento giubilatorio di fronte ad essa, il che accade nei primissimi mesi di vita. Per Lacan questa è la prova che il piccolo d’uomo si costruisce la propria identità a partire dal riconoscimento della sua propria immagine; anche se questo riconoscimento, proprio perché e in quanto basato su un’immagine di sé virtuale (allo specchio), implica una asimmetria fondamentale tra ciò che l’individuo vede e ciò che è. Ora, l’esistenza stessa dello stadio dello specchio è stata più volte messa in discussione dalla psicologia, e in Lacan stesso non è chiaro se rivesta un ruolo autenticamente psicologico o solo metaforico. Indiscutibilmente, esso offre del rapporto con la nostra immagine speculare una nozione assai meno tranquillizzante di quella che si sarebbe portati ad attribuirle: l’immagine che abbiamo di noi andrebbe a colmare un vuoto radicale al centro del nostro essere, costituendo dunque la radice di quella struttura denominata in seguito Immaginario, che caratterizza secondo Lacan lo status umano (insieme alle nozioni di Simbolico e Reale). Ma Lacan è tornato a più riprese sul tema delle immagini, e in particolare nel Seminario XI sullo sguardo del 1973; in quelle pagine egli spiega chiaramente che il soggetto che guarda non coincide mai con il punto geometrico ideale di uno spettatore di fronte a un quadro. Anzi, in quegli anni si appassiona a delle illusioni ottiche, di cui fornisce i complicati diagrammi, dove compaiono specchi concavi che generano immagini fittizie. In altre parole non si accontenta più (se mai si era accontentato) del modello soggetto/sguardo/immagine riflessa, ma anzi si concentra sullo sguardo e ne fa l’argomento di un approfondito studio psicanalitico. Secondo Lacan, il diagramma classico, quello definito dall’umanista Leon Battista Alberti, per cui dall’occhio dell’osservatore parte un “raggio visivo” diretto a cogliere l’oggetto, dovrebbe essere completato con un secondo diagramma che penetra nel primo e per così

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dire, “rimanda” lo sguardo indietro verso lo spettatore. Lo “sguardo” lacaniano (che per lui è un “oggetto parziale”) è precisamente questo sguardo ritornato, de-soggettivato, né soggettivo né oggettivo, il cui coglimento è chiaramente traumatico. La psicoanalista Joan Copjec introduce a questo proposito la nozione di schermo:

Nel momento in cui lo sguardo viene scorto, l’immagine, l’intero campo visivo, diventa un’alterità terrificante. Essa perde il suo aspetto familiare [belong-to-me-aspect] e assume improvvisamente la funzione di uno schermo ((4))

Non è difficile scorgere in queste parole un chiaro rimando alla nozione di Unheimlich freudiana, solo che qui, a divenire “straniante” è l’intero “campo visivo”, che assume la forma e la funzione di un monitor. Lo schema a “feedback” dello sguardo ricalca così esattamente il funzionamento del video a circuito chiuso su cui si fonda Video Corridor e che è reperibile nella videosfera contemporanea ((5)).Allo sguardo “pacificante” indirizzato verso gli oggetti, o tutt’al più verso la nostra immagine allo specchio, ne subentra uno “traumatico” che rivediamo sullo schermo, dove ritroviamo sì la nostra immagine, ma ritornata, restituita da uno sguardo che non ci appartiene, che non è il nostro.((6)) Se ne può concludere che già in Lacan, dunque, lo “stadio dello specchio” non sta a significare semplicemente il pur problematico rapporto dell’individuo nei confronti della propria immagine riflessa, ma in certa misura sembra anticipare le sconvolgenti conseguenze dello stadio-video colte da Baudrillard ((7)).

Del resto da un punto di vista anche visivo, il trasformarsi dello specchio da semplice superficie riflettente a schermo che ci restituisce la nostra immagine rovesciata è un tòpos novecentesco, ben colto da avanguardie artistiche come il surrealismo, e non solo. Ma è stato Magritte in particolare a dare un’efficace rappresentazione di questa situazione con un quadro dall’apparenza enigmatica ma il cui titolo recita significativamente La reproduction intérdite, 1936 (non a caso coevo a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin). In quest’opera un uomo si osserva riflesso dentro un grande specchio, solo che, invece di veder il proprio volto, vede la propria nuca – cioè si osserva da un punto di vista “impossibile”, che non possiamo mai vedere direttamente. Il tipico tocco enigmatico, surreale, però, qui assume un significato ben preciso, se messo in rapporto a quanto abbiamo detto finora: in realtà, l’opera di Magritte ha una spiegazione “tecnica” – ciò che raffigura diventa infatti spiegabile se al posto dello specchio mettiamo un monitor.

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14 Se su questo monitor viene rimandata l’immagine della ripresa del soggetto di spalle, ecco che il quadro di Magritte si spiega perfettamente. Ma questa ripresa di spalle posta di fronte al soggetto, non è esattamente il meccanismo a loop di Video Corridor? Il titolo Riproduzione vietata, si riferisce a questo: è vietata l’antica riproduzione, quella che si riferiva a un “originale” – ma, secondo quanto scrive Benjamin (nello stesso anno del dipinto!) tale forma di riproduzione è stata surclassata dalla riproduzione meccanica delle immagini. Benjamin parla soprattutto di fotografia e cinema, naturalmente, e si potrebbe pensare che lo stesso Magritte abbia avuto un’intuizione, più che una vera cognizione della possibilità disidentificante del video. Ma poco importa: infatti, proprio il 1936 è anche l’anno delle prime trasmissioni televisive sperimentali fatte realizzare da Hitler in occasione dei Giochi Olimpici di Berlino… ((8))

Del resto, qualche decennio dopo l’opera di Magritte, gli artisti hanno proseguito la loro ricerca proprio in questa direzione disdentificante. Nel primo video della serie Three Transitions, dell’artista americano Peter Campus (1973) vediamo l’artista di spalle che sta facendo qualcosa contro una parete. Piano piano le sue mani si aprono un varco ma, per effetto di una doppia ripresa e di una doppia proiezione concomitanti, il varco si apre proprio dentro la sua stessa immagine, di modo che Campus fornisce una specie di “proseguimento” al quadro di Magritte – ci fa vedere in movimento “cosa accade dopo”. Dopo che il soggetto si è contemplato “a rovescio” accade che egli tenta di passare al di là di se stesso – e questo è esattamente ciò che Campus ci mostra. ((9))

Quali conseguenze in definitiva occorre trarre da tutti questi esempi? Una volta usciti dal Video Corridor, può darsi che la realtà torni a sembrarci la stessa di prima, ma abbiamo esplicitamente visto (dunque intimamente sappiamo bene) che non è così. Se noi stessi ci siamo visti eguali-a-noi-stessi eppure diversi-da-noi-stessi, a maggior ragione deve essere così per tutto il resto. E’ come se tutta la realtà, una volta considerata dal punto di vista dello stadio video, assumesse questa strana qualità Un-heimlich, dis-familiare, not-belonging-to-me, e pertanto perturbante. Una sensazione difficile da scacciare anche perché, una volta fatto ritorno al nostro domicilio, al posto del focolare domestico, simbolo e cuore della “familiarità”, per “sentirci a casa” come prima cosa accendiamo un bel monitor – dove scorre una realtà sottoposta per definizione allo stadio video…

Anche senza volerlo, pertanto, siamo immersi nello stadio video anche quando siamo fuori dal Video Corridor – o, detto in altri termini, l’opera d’arte ha qui semplicemente svolto l’azione di rendere del tutto palese un meccanismo, un dispositivo diremmo, che era ancora in qualche modo latente, seppur già individuato da tanti pensatori diversi.

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Ciò con cui non possiamo evitare di confrontarci è uno stadio video che invece di aiutare a identificarci ci fa differire – non da ciò che è diverso da noi, ma da noi stessi. Detto in altre parole, lo stadio video non ci rende semplicemente differenti, diversi da come siamo, perché invece ci mostra simultaneamente uguali-e-diversi; in una parola, ci mostra (e ci rende) disidentici da noi stessi.

Se l’identità era il concetto fondamentale della logica classica, e pertanto l’inizio di ogni possibile ragionamento sull’io e sul mondo, occorre dire che lo stadio video invece impone il rovesciamento di questo concetto – un concetto così basilare che ad esso inconsciamente affidiamo le nostre vite, ed in cui riponiamo una fiducia che con buona ragione definiamo “cieca”. Basta aprire davvero gli occhi però per capire senza ombra di dubbio che la disidentità è oggi la regola logica e ontologica generale.

Ma questa disidentità, quando è sorta? E’ opera della crescente presenza sociale dei media? Certamente potremmo concluderne che tutto questo dipenda dalla diffusione dei mezzi di comunicazione nella nostra vita. Prima il telegrafo, che poteva trasmettere notizie a distanze un tempo invalicabili, poi la fotografia, che coglieva un istante reale con una vivezza mai vista prima, poi col cinema, che pareva restituire il soffio stesso della vita, poi con la radio, e la televisione, in grado di “distribuire realtà a domicilio” (come avrebbe detto Paul Valéry) ((10)), e infine con i new media, come internet e i social network che individualizzano lo scambio mediale un tempo massificato – i media hanno pian piano occupato quasi ogni spazio della nostra vita. Tuttavia, si potrebbe obiettare, questa vicenda, ancorché lunga, è comunque moderna, è un fatto storico, e come tale mondano, non una necessità ineluttabile – è una vicenda aperta sul possibile della quale proprio noi uomini siamo i responsabili ultimi, e a cui dunque, se volessimo, potremmo certo porre rimedio.

Sarebbe bello e in un certo senso legittimo elevare questa obiezione – che ha degli indubbi punti di forza, come quello di considerare i media dal punto di vista storico. Purtroppo, come vedremo (infra, p.te 2., § 1), i media sono un fenomeno storico, il quale però, retroattivamente, cambia l’interpretazione della storia – così come, in generale, tende a trasmutare i fenomeni di cui è parte. Il vero dilemma è che, una volta entrati nel mondo come sua duplicazione, i media non sono più distinguibili da esso – e questa indistinzione dialettica, che si chiama obversione, pare un destino inscritto nella facoltà riflessiva della coscienza come tale – un fenomeno che si manifesta sì storicamente, ma che al suo fondo è metastorico (11)).

La prova di questo ragionamento è che, tutte le volte che si è tentato di eliminare o almeno bloccare temporaneamente l’avanzata mediale, il risultato è stato peggiore del male. Già nel 1859, quando gli intellettuali francesi, Baudelaire in testa, tentarono di escludere la fotografia dal novero delle arti belle, ottennero come risultato che, pochi anni dopo, tutti i maggiori pittori si servivano della fotografia per realizzare i loro quadri, e, in ultima analisi, questo ha fatto sì che oggi la fotografia si sia diffusa tanto come

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16 mezzo di comunicazione che come forma d’arte autonoma.(12)) Più tardi, in altro contesto, dittature politiche come il fascismo si servirono ampiamente dei mezzi di comunicazione di massa (come radio e cinema) per influenzare le masse, limitandone l’uso quasi ai soli scopi di propaganda. Ma, come osservò Pasolini negli anni ’70, quella propaganda era ben poca cosa a paragone del potere di persuasione seduttiva messo in campo dalla televisione nel secondo dopoguerra. Proprio nel tentativo di arginare questo potere, governi interi, come quello statunitense, assunsero la decisione di limitare la diffusione di notizie mediali, come accadde durante la prima guerra del Golfo (1990-91), per evitare la debàcle del Viet Nam (in parte, si disse, dovuta proprio alla presenza di giornalisti televisivi sul campo di battaglia) (13)). Il risultato fu che le notizie ufficiali vennero controllate molto più attentamente, ma il livello delle immagini visibili crebbe in modo esponenziale, fino ad arrivare a impiantare videocamere miniaturizzate sulle testate delle bombe stesse (cfr. infra p.te 3, § 5). Nella seconda guerra del Golfo poi, dove i reporter e i giornalisti furono ancor più controllati, si verificò il fatto imprevisto che furono gli stessi soldati a diventare essi stessi inattesi reporter di guerra, impiegando le tecnologie che nel frattempo di erano sviluppate (cellulari con foto e videocamera), e permettendo di vedere in diretta non solo ciò che apertamente avveniva sul campo, ma anche ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto (e che nemmeno durante la guerra del Viet Nam si era potuto vedere), come le torture inflitte ai detenuti nel carcere di Abu Grahib.

Tutto ciò sembra dire che, benché i media come dispositivi tecnici e come fenomeni sociali abbiano luogo entro il divenire storico, non è affatto sufficiente tracciarne la storia per decifrare la struttura soggiacente che li rende possibili. Ciò che si tratta di fare è piuttosto sforzarsi di delineare il meccanismo che impone alle nostre esistenze quella trasformazione (cioè quella “obversione”) di cui Video Corridor è la più perfetta descrizione.

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1. S. Freud, Il perturbante [1919], in Opere scelte, a c. di A. Semi, Boringhieri, Torino, 1999, p. 1046. Secondo Heidegger la situazione è ancor più radicale: “dal punto di vista ontologico esistenziale, il non-sentirsi-a-casa-propria deve esser concepito come il fenomeno più originario”; Essere e tempo [1927], ed. it. Longanesi, Milano, 1976, p. 238; per le differenze rispetto a Freud, cfr. K. Withy, Heidegger on Being Uncanny, Univ. Chicago, 2009, pp. 199 sgg.

2. Jean Baudrillard, «Videosfera e soggetto frattale», in AA VV., Videoculture di fine secolo, Napoli, Liguori, 1989.

3. Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io [1949], in Scritti, Einaudi, 1975, 2 voll., vol. I, p. 87-94. Il testo di Lacan, individua con precisione il carattere “drammatico” dell’identificazione prematura, insufficiente, ingannevole che il soggetto ha verso la sua immagine.

4. Copjec, J., Read My Desire: Lacan against the Historicists, Cambridge MA, MIT Press, 1994; tr. it. parz. “Il soggetto ortopsichico: teoria cinematografica e ricezione di Lacan”, in S. Žižek, Dello sguardo e altri oggetti, Campanotto, Udine, 2004, pp. 213-43, p. 239.

5. E’ qui da notare altresì il fatto che le opere di Nauman basate sulla video installazione e i Seminari di Lacan dedicati allo sguardo sono quasi coevi, collocandosi entrambi tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 del secolo scorso.

6. Un sintomo della “crisi dello specchio” è già riscontrabile nel Ritratto di Dorian Gray di Wilde (1890; cfr. infra, pte II, § 5): “giacché lo specchio dell’anima sua nel quale stava specchiandosi era uno specchio ingiusto”; ed. it., Newton Compton, Roma, 1993, p. 245.

7. Leggendo queste righe un amico psicoanalista mi ha confessato di essersi reso conto della propria calvizie incipiente sulla sommità della nuca esattamente dopo essersi visto in una ripresa da dietro, avvenuta durante una visita alla

classica videoinstallazione standard, dove lo spettatore è messo al centro della ripresa…

8. Si potrebbe notare che, nel dipinto di Magritte, un elemento pare sfuggire alla logica video, cioè il libro poggiato sulla mensola. Ma il libro è una copia dei Les adventures de Gordon Pym di E.A. Poe, cioè di un romanzo ottocentesco, che infatti si riflette nello specchio “correttamente” cioè a rovescio. La corretta interpretazione di questo paradosso nel paradosso è che la riproducibilità antica (per esempio tipografica) si dimostra obsoleta alla prova di questo specchio/schermo, che invece riflette “correttamente” l’immagine dell’uomo contemporaneo.

9. Un corrispondente letterario del video di Campus è certamente il racconto L’altro di Borges, in cui il protagonista (Borges stesso settantenne, dato che il racconto è ambientato negli anni 60 ed è apparso nel 1975) incontra se stesso giovane (“ciascuno di noi due sta pensando di essere lui il sognatore”). Visivamente, il senso di Unheimlich provato a incontrare se stessi è stato rappresentato al cinema nella scena iniziale di quel capolavoro che è Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (1959) – in cui il vecchio professore Isak Borg incontra se stesso nella bara e viene afferrato dalla mano del defunto sé (evidentemente non-morto).

10. P. Valéry, La conquête de l’ubiquité [1928], in Oeuvres, édition établie et annotée par J. Hytier, 2 voll., Gallimard, Paris 1960, vol. II, p. 1285.

11. Naturalmente il tentativo di dirimere una struttura metastorica nel coacervo delle emergenze contemporanee affascina qualunque pensatore. Di recente è apparso un volume di A L. Barabàsi, Bursts. The Hidden Pattern Behind Everything We Do, 2010, ed. it. Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita, Einaudi, Torino, 2010 – che, appunto basandosi su grandi numeri di dati, individua la struttura a raffiche o a lampi dietro diversi casi dell’esistenza, dalla

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18 malattia, all’aggressività, al divertimento ecc. Barabàsi naturalmente è divenuto in poco tempo una star intellettuale e il suo metodo è stato ribattezzato Big Data. Ciò che lascia davvero senza fiato è però l’idea soggiacente alla sua teoria che il comportamento delle coscienze sia paragonabile a un fenomeno fisico-naturale, che è ad esse del tutto estrinseco. L’antinomia diventa evidente se si fa un semplice esperimento mentale esattamente a proposito del libro stesso di Barabàsi: Lampi (inteso come il saggio di Barabàsi) è a sua volta frutto di un lampo (di genio certamente) – oppure è proprio un semplice “lampo”, una scintilla elettrostatica, generata nell’imenso ruminare dei Big Data? Se Lampi include un tentativo di spiegazione, di qualunque tipo essa sia, chiaramente non è vera la seconda ipotesi – infatti le idee di Barabàsi non stanno sullo stesso piamìno epistemologico dei Big Data che vogliono spiegare. Ma se è proprio così, allora la teoria di Barabàsi, almeno in un caso – cioè il suo, quello del suo libro –

non funziona; questo semplice dettaglio smentisce la teoria stessa su cui Lampi si basa: infatti, la creazione di un libro tanto importante, che ha “svelato” la trama segreta della nostra vita, dovrebbe essere per forza coerente con l’ipotesi su cui il libro si fonda, o no?. Che significa tutto ciò? Significa che non appena si cerca di mettere in relazione uno di questi modelli (pattern) con se stesso, riflessivamente, si scopre la sua auto-contraddittorietà, che il modello stesso, invece, cercava disperatamente di evitare. Come ha detto una volta S. Zizek, “è inquietante trovare qualcuno che può ancora (pensare) e scrivere come se Hegel non fosse esistito” (In difesa delle cause perse, 2009, p. 398).

12. Cfr. J. Gimpel, Contre l’art et les artistes, Seuil, Paris, 1968; tr. it. Contro l’arte egli artisti, Boringhieri, Torino, 2000, pp. 128 sgg..

13. Cfr. P. Ortoleva, C. Ottaviano, a c. di, Guerra e mass media, liguori, Napoli 1994, p. 15.

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