Nuovi dubbi su alcune epistole attribuite a Dante

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1 Cono A. Mangieri Nuovi dubbi su alcune epistole attribuite a Dante 1 1. Gli odierni lettori di Dante possono dirsi molto più fortunati di quelli del passato, sia per ciò che riguarda le notizie biografiche sul poeta, sia per ciò che concerne il testo delle sue opere: infatti, essi hanno a disposizione una rilevante quantità di opuscoli, monografie, enciclopedie, biografie e bibliografie, anche computerizzate, da cui possono attingere velocemente le informazioni desiderate. Queste informazioni si sono accumulate nel corso dei sette secoli che ci separano dal Trecento, subendo ovviamente anche una specie di cernita rivolta a separare il vero dal falso o, perlomeno, il verosimile dall'inattendibile. È un'operazione non ancora condotta a termine, purtroppo, perché intorno al nostro massimo poeta volgare si sono concentrate le forze dell'ammirazione già pochi decenni dopo la sua morte, dando il via a un processo di mitizzazione che talvolta ha tentato di mistificare, sia pure ad maiorem Dantis gloriam, fattori biografici e fattori bibliografici. Se a ciò si aggiunge il fatto che il poeta non si è presa la briga di offrire ai Posteri una lista precisa dei propri lavori, e che dei suoi manoscritti autografi non è rimasto conservato proprio niente, s'intuisce perché certi ammiratori abbiano potuto inventarne qualcuno di più. Ma vi è stata un'epoca in cui la situazione si è presentata molto più intricata di quella odierna (e non solo nei riguardi di Dante), in quanto la filologia di allora non era una scienza soggetta a regole etiche, era tutta ancora legata all'erudizione personale, ragion per cui molti ‘filologi’ non esitavano a farsi concorrenza ricreando a piacimento il testo altrui. Se gli veniva fatta, qualcuno si azzardava a ‘scoprire’ nuovi testi che attribuiva a famosi poeti e scrittori del passato, spesso con l'intento di crearsi un posto al sole nel mondo letterario sia contemporaneo sia futuro. Per la fama e per il caos bio-bibliografico che lo circondava, Dante si prestava meglio di ogni altro poeta ad essere preso di mira, vuoi con lodevoli 1. Il saggio offre una redazione molto rimaneggiata con aggiunte, espulsioni e correzioni sia stilistiche che razionali, dell’articolo originale apparso in «Critica Letteraria» 107 (2000), pp. 1-25. Eventuali citazioni, dunque, devono partire da questa sede (Academia.org)

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Cono A. Mangieri

Nuovi dubbi su alcune epistole attribuite a Dante 1

1. Gli odierni lettori di Dante possono dirsi molto più fortunati di quelli del passato, sia per ciò che riguarda le notizie biografiche sul poeta, sia per ciò che concerne il testo delle sue opere: infatti, essi hanno a disposizione una rilevante quantità di opuscoli, monografie, enciclopedie, biografie e bibliografie, anche computerizzate, da cui possono attingere velocemente le informazioni desiderate. Queste informazioni si sono accumulate nel corso dei sette secoli che ci separano dal Trecento, subendo ovviamente anche una specie di cernita rivolta a separare il vero dal falso o, perlomeno, il verosimile dall'inattendibile. È un'operazione non ancora condotta a termine, purtroppo, perché intorno al nostro massimo poeta volgare si sono concentrate le forze dell'ammirazione già pochi decenni dopo la sua morte, dando il via a un processo di mitizzazione che talvolta ha tentato di mistificare, sia pure ad maiorem Dantis gloriam, fattori biografici e fattori bibliografici. Se a ciò si aggiunge il fatto che il poeta non si è presa la briga di offrire ai Posteri una lista precisa dei propri lavori, e che dei suoi manoscritti autografi non è rimasto conservato proprio niente, s'intuisce perché certi ammiratori abbiano potuto inventarne qualcuno di più. Ma vi è stata un'epoca in cui la situazione si è presentata molto più intricata di quella odierna (e non solo nei riguardi di Dante), in quanto la filologia di allora non era una scienza soggetta a regole etiche, era tutta ancora legata all'erudizione personale, ragion per cui molti ‘filologi’ non esitavano a farsi concorrenza ricreando a piacimento il testo altrui. Se gli veniva fatta, qualcuno si azzardava a ‘scoprire’ nuovi testi che attribuiva a famosi poeti e scrittori del passato, spesso con l'intento di crearsi un posto al sole nel mondo letterario sia contemporaneo sia futuro. Per la fama e per il caos bio-bibliografico che lo circondava, Dante si prestava meglio di ogni altro poeta ad essere preso di mira, vuoi con lodevoli

1. Il saggio offre una redazione molto rimaneggiata con aggiunte, espulsioni e correzioni sia stilistiche che razionali, dell’articolo originale apparso in «Critica Letteraria» 107 (2000), pp. 1-25. Eventuali citazioni, dunque, devono partire da questa sede (Academia.org)

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vuoi con esecrabili intenzioni. Ciò dovrebbe essere accaduto già nel Trecento, non tanto per mano di filologi quanto di veri e propri falsari, i quali hanno creato dal nulla una quantità ancora ignota di testi (composizioni poetiche oppure prosastiche, documenti amministrativi o notarili, eccetera) aventi direttamente o indirettamente a che fare con Dante. Nel Quattrocento e nel Cinquecento, com'è noto, attribuire qualcosa di nuovo al Divino Poeta divenne quasi una moda, la quale ha dato poi parecchio filo da torcere agli studiosi che hanno tentato di separare la farina dalla crusca. Ancora oggi vi sono lettori che, guardando con occhio diverso a qualche lavoretto finora considerato dantesco, improvvisamente si accorgono di dettagli che li inducono a mettere in dubbio la prestigiosa paternità. 2 Per quanto mi riguarda, io ho provato anzitutto fastidio nel constatare la banalità e la contraddizione che mettono in mostra alcune delle epistole latine attribuite a Dante. Tenendo conto dell' habitus mentis e del modus operandi consentanei al poeta, io ho sempre tenuto per certo che tali lettere non siano un prodotto dell'autore della Divina Commedia : qualche altro letterato del Trecento deve averle scritte e qualcun altro ancora deve averle credute dantesche, più tardi, influenzando col suo giudizio anche i posteri. In effetti non ho mai dubitato che queste 'epistole apocrife' fossero del tempo di Dante: 2. Tacendo qui delle Egloghe, della Monarchia, della Quaestio, del Credo e della Tenzone con Forese Donati, componimenti messi alternamente in dubbio o in credito dai critici (la Tenzone anche di recente da M.CURSIETTI, La falsa tenzone di Dante con Forese Donati, De Rubeis, Anzio 1995), mi sembra opportuno evidenziare il caso dell' Epistola a Cangrande, la quale è stata oggetto di pareri assai divergenti che durano a tutt’oggi. Fra i molti studiosi che ne accettano l'autenticità totale si annovera G.CONTINI (Filologia ed esegesi dantesca, «Atti dell'Accad. Nazionale dei Lincei», 1965, pp. 26-7). Più recentemente l'ha sostenuta pure E.CECCHINI con nuovi argomenti, dandone anche una lezione in più punti diversa (Epistola a Cangrande, Giunti, Firenze 1995). Dei critici che hanno pensato a un'autenticità parziale (parr. 1-4) vanno menzionati A.MANCINI ( Nuovi dubbi ed ipotesi sull'Epistola a Cangrande, «Atti della Reale Accad. d'Italia», Serie 4, vol. IV, 1943, pp. 227-42) e B.NARDI (Il punto dell'Epistola a Cangrande, «Lectura Dantis Scaligera», Le Monnier, Firenze 1960). Oscillante fu l'opinione di E.PARATORE, il quale ha dichiarato ‘sospetta’ la lettera pur vedendovi spunti di autenticità (Tradizione e struttura in Dante, Sansoni, Firenze 1968, sotto l'indice ‘Cangrande’). Concordi nel dichiarare autentica l'epistola sono i maggiori dantisti di lingua inglese, a partire da E.MOORE (The genuiness of the Epistle to Can Grande, nel volume Studies in Dante, III, Oxford 1903, pp. 284-369). Lo studioso americano C.S.SINGLETON afferma che l'autenticità sarebbe negata o messa in dubbio soltanto da quei critici che rifiutano di riflettere sui due tipi di allegoria proposti in Convivio II i 2-4 (vd. La poesia della ‘Divina Commedia’, Il Mulino, Bologna 1978, p. 117, n. 5). Il latinista britannico P.DRONKE accetta l'autenticità totale effettuando un ragguaglio di stile e di lingua col resto delle lettere sicuramente dantesche (Dante and Medieval Latin Traditions, Cambridge 1986). Per l'area di lingua tedesca, va menzionato il parere favorevole all'autenticità espresso da K.WITTE (vd. Observationes de Dantis epistola noncupatoria ad Canem Grandem de la Scala, Heinemann, Halle 1855 (poi inserito in Dante Forschungen, I, Henninger, Heilbronn 1869, pp. 500-07).

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anche ai miei occhi esse sono genuinamente trecentesche. Sarebbe stato solo molti decenni più tardi che ‘qualcuno’ dovrebbe averle ordinate (se per caso oppure per dolo, è arduo indovinare) in maniera tale da far pensare a un prodotto di fattura dantesca. Ciò vuol dire che io non incrimino queste poche lettere per essere false, ossia scritte allo scopo di attribuirle poi a Dante, bensì apocrife in seno a un'attribuzione erronea. Esse sono dunque veramente trecentesche, anzi provenienti addirittura dall'ambiente comune anche a Dante, però sono state attribuite abusivamente al nostro poeta da parte di ammiratori che, a loro volta, sarebbero stati ingannati dal probabile dolo specifico commesso da un loro predecessore. Nel corso dell'articolo, io tenterò di dare a questa ipotesi una base storico-logica capace di sollevarla al di sopra del livello suppositivo, rievocando sia la storia reale sia la storia congetturale relativa a queste lettere. A tal proposito debbo premettere che in questo saggio non intendo fare argomento della cosiddetta Lettera a Guido da Polenta, oggi conosciuta soltanto in volgare, comparsa ex nihilo in un lavoretto del Doni (1547), ritenuta autentica da taluni critici e falsa da altri. 3 Premetto inoltre di esser convinto che Dante abbia scritto le sue epistole esclusivamente per illustrare in una maniera più diretta e scientifica (da qui l'uso del latino) taluni aspetti particolari dell'allegorismo autobiografico immesso nei lavori da lui stesso considerati volumi a se stanti. 4 Le lettere sono dunque finzioni letterarie costruite intorno a una percentuale di realtà storica, né più né meno di quelle ciceroniane o di quelle senechiane grandemente ammirate da Dante (onde il «Seneca morale» di If. IV 141). Ovviamente, io non intendo negare affatto che, di tanto in tanto, egli abbia scritto vere lettere di corrispondenza privata, dunque affidate realmente a un corriere; però mi sembra logico opinare che queste ultime, se destinate a familiari oppure ad amici e conoscenti di lingua 3. Dei pochi critici favorevoli all'autenticità va menzionato anzitutto Giorgio Padoan, il quale ha creduto che il testo riporti una traduzione volgare quattro-cinquecentesca di un antigrafo latino successivamente perduto (vd. G.PADOAN, Le ambascerie di Dante a Venezia, «Lettere Italiane» 1, 1982, pp. 25-6; saggio ora compreso nel suo volume Il lungo cammino del Poema Sacro. Studi Danteschi, Olschki, Firenze 1993). La maggioranza dei critici opta per il falso; vd. almeno R.MIGLIORINI FISSI, La lettera pseudodantesca a Guido da Polenta. Edizione critica e ricerche attributive, «Studi Danteschi» XLVI (1969), pp. 101-272; «Studi Danteschi» L (1973), pp. 177-94.

4. Bisogna pensare alla Divina Commedia, alla Vita Nuova e al Convivio per i 'volumi' in volgare; alla Monarchia, alla Quaestio de aqua et terra e alla De vulgari eloquentia per i 'volumi' in latino. A mio avviso, le rime sciolte e le epistole latine sono ben state composte per convalidare e illustrare situazioni autobiografiche contemplate nel poema, però non sono state concepite per formare un 'volume' nel vero senso della parola (per il significato dato dal Poeta al lessema ’volume’, cfr. pure If. I 84).

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toscana o affine, siano state compilate in volgare più tosto che in latino. A rigor di logica, dunque, si dovrebbero eliminare anche la lettera a Cino da Pistoia, quella a Moroello Malaspina e quella all'Amico fiorentino, giacché pare proprio inverosimile che Dante possa essersi rivolto a costoro nel suo più bel latino, pur avendo a disposizione il volgare toscano accessibilissimo a quei tre personaggi. Anzi, bisogna considerare addirittura assurdo che egli si rivolga a Cino e a Moroello in latino, accludendo poi a ciascuna lettera un componimento poetico in toscano: come se i destinatari fossero ben in grado di comprendere un sonetto o una canzone, ma non una letterina di 6-8 proposizioni scritta nell'identico volgare ...! Invece tale incongruenza, assieme con la presenza del binomio exul inmeritus, comprova appunto che queste tre epistole siano state scritte per non essere mai spedite e recapitate in quanto dovevano costituire per i Posteri un ‘corollario suggeritivo’ atto a convalidare la realtà storica contemplata nell'autobiografismo allegorico delle opere letterarie. A mio giudizio, la Lettera a Cino da Pistoia suggerisce l'amicizia letteraria di cui si parla nella De Vulgari Eloquentia; la Lettera a Moroello suggerisce il soggiorno di Dante nella di lui corte, posteriore al suo soggiorno presso Franceschino (convalidato dal documento che attesta la pace tra i Malaspina e il Vescovo di Luni, alla data del 6 ottobre 1306), ma anteriore al suo soggiorno nel Casentino; la Lettera all'amico fiorentino suggerisce la trasformazione dell'esilio forzato in esilio volontario, onde evidenziare con orgoglio la propria condizione di exul inmeritus. A ben vedere, ciò induce pure a escludere che Dante abbia potuto scrivere al popolo fiorentino quella lettera impetrante misericordia, della quale fa menzione Leonardo Bruni nella sua Vita di Dante. 5 E' mia convinzione che per dichiarare autentica un'epistola latina attribuita a Dante necessitino tre fattori principali: 1) che il contenuto serva a convalidare situazioni contemplate letteralmente o allegoricamente nelle opere, anzitutto nel poema; 2) che il contenuto presenti le peculiarità retoriche e linguistiche ascrivibili a Dante; 3) che il contenuto sia razionalmente tale da non poter essere stato immaginato da nessun altro letterato due-trecentesco fuori di Dante. Onde poter meglio giustificare i sospetti relativi al gruppo di lettere da me incriminato, introduco qui la seconda illazione scaturita dal mio esame; ed è

5. Mi riferisco alla lettera che sarebbe cominciata con «Popule mee, quid feci tibi?». Nella sua biografia di Dante, com'è noto, L. Bruni ha tramandato notizia di parecchie altre lettere dantesche, il cui testo sarebbe andato perduto; notizie similari ci sono pervenute dagli scritti di Cecco d'Ascoli, di Flavio Biondo e di G. M. Filelfo. Io sono restio a prestar fede incondizionata a tali notizie, sia per motivi inerenti alla mentalità del poeta, sia per motivi legati all'intento allegorico perseguito dal poeta.

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che il letterato due-trecentesco più idoneo a essere considerato autore delle epistole apocrife deve essere visto in ser Petracco, padre di Francesco Petrarca e notaio fiorentino, che venne cacciato in esilio nel 1302 ed andò a far parte della «compagnia malvagia e scempia», nella quale si trovava anche Dante. 6 Io sono del parere che ser Petracco abbia scritto ben cinque delle tredici epistole latine attualmente attribuite a Dante: la prima (Al Cardinale da Prato), la seconda (Ai Conti da Romena), l'ottava, la nona e la decima (All'imperatrice Margherita, tutte in nome e per conto della Contessa di Battifolle). Esaminiamo insieme come si possa giustificare questa mia divergente presa di posizione. 2. Com'è noto agli studiosi, ser Petracco di ser Parenzo, che era biancoguelfo e quasi coetaneo di Dante, dopo la condanna all'esilio aveva trovato rifugio in Arezzo assieme con la moglie, Eletta Canigiani. Però quasi subito andò a rafforzare le file degli esuli cacciati già prima di lui da Firenze, i quali, postisi sotto il comando di un capitano, presumibilmente il conte Alessandro da Romena, si adoperavano di sfruttare ogni occasione favorevole per tornare in patria, non disprezzando neppure l'eventuale uso delle armi. È da tenere per certo, tuttavia, che il furbo notaio abbia mostrato un comportamento molto meno vendicativo sia nei riguardi del Governo Nero sia nei riguardi del Clero; vale a dire assai diverso da quello del gruppo composto di Bianchi e di Ghibellini, la maggioranza del quale imputava al Clero e segnatamente a Bonifacio VIII la colpa per la venuta di Carlo Senzaterra, causa del successivo sopravvento Nero. 7 Di ciò tenendo conto, va considerato probabile che tale moderatezza e il fatto che fosse l'unico esule Bianco fornito di un diploma notarile abbiano fatto di ser Petracco la persona più adatta a scrivere ,per conto dell'Università Bianca, la lettera al cardinale Niccolò da Prato, nella primavera del 1304. Questa illazione acquista valore di certezza quando si riduce a mente che fu appunto ser Petracco a essere prescelto dai Bianchi come rappresentante del loro gruppo, allorché il Cardinale chiamò a Firenze due deputati (‘sindachi’) per convalidare l'atto di pace del 26 aprile 1304. A mio parere, questo modo d'agire personale e questa situazione storica generale indicano ser Petracco come autore dell' Epistola al Cardinale da Prato, più tosto che il nostro poeta, il quale, negli anni tra il 1295 e il 1305,

6. Per la «compagnia malvagia e scempia» vd. Pd. XVII 45-69.

7. Io sono del parere che proprio la moderatezza nei riguardi del Clero abbia poi fruttato a ser Petracco non solo l'assoluzione da parte del Governo Nero di Firenze (1309), ma anche il posto di lavoro in dipendenza della corte papale di Avignone (1313).

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ha nutrito prima disprezzo e poi rancore contro tutto ciò che fosse di natura clericale. Se dobbiamo dar retta alle Consulte del Comune di Firenze, che ci presentano un Dante testardamente ostile al Papato, 8 e se dobbiamo considerare probativa la «feroce commedia di equivoci» 9 giocata intorno a Bonifacio VIII in If. XIX 52 sgg., allora possiamo asserire che l'anticlericalismo dantesco deve aver raggiunto un culmine appunto negli anni 1300-1304. Pertanto è plausibile credere che non sarebbe potuta uscire dalla sua mente e dalla sua penna un'intestazione come quella dell'epistola in questione, che suona umile, devota e perciò anche ipocrita, se si effettua un confronto con la carica psicologica posseduta dal poeta in quel tempo:

Reverentissimo in Christo patri dominorum suorum carissimo domino Nicholao miseratione celesti Ostiensi et Vallatrensi episcopo, Apostolice Sedis legato [ ... ] paciario per sacrosanctam Ecclesiam ordinato, etc. . 10

Al tempo di questa lettera, Dante era sicuramente ancora nel gruppo che formava la «compagnia malvagia e scempia», sicché è senz'altro ammissibile e probabile ch'egli sia stato al corrente del contenuto, visto che questo doveva portare l'approvazione dell’Università Bianca. Ma è poi altrettanto ammmissibile e probabile che una truppa di disparati e disperati esuli biancoguelfi, pur avendo nelle file un notaio filoclericale, come ser Petracco, e un dottore in legge, come messer Lapo Ricoveri (i due ‘sindachi’ di parte Bianca mandati poi effettivamente a Firenze), per dettare la delicata letterina al cardinale paciaro sia invece ricorsa a Dante Alighieri, che era ben stato consigliere, priore e finanche ambasciatore presso Bonifacio VIII, però era noto a tutti gli esuli come accanito anticlericalista, dunque psicologicamente e intellettualmente disadatto all'incarico epistolografico in questione ?... Per tacere il fatto che egli, in quell'epoca, era conosciuto da Bianchi e Neri come rimatore esclusivamente volgare, attivo nella cerchia poetica esclusivamente volgare del defunto mangiapreti epicureo Guido Cavalcanti; che egli non aveva conseguito nessun titolo accademico legalmente riconosciuto e che godeva ben poca stima nello stesso ambiente politico Bianco, visto che i suoi

8. Riporto alla memoria il protervo «nichil fiat», che Dante avrebbe pronunciato nei Consigli Comunali per bocciare ogni pretesa clericale; né va dimenticato che uno dei capi d'accusa contro di lui fu quello di avversione al Papa.

9. N. SAPEGNO, commento ad Inferno, La Nuova Italia, Firenze 1955, p. 219, n. 52.

10. Per il testo delle Epistole mi baso sulla lezione edita nel volume DANTE ALIGHIERI, Opere Minori, a cura di A.Frugoni e G. Brugnoli, 2. voll., Ricciardi, Milano-Napoli 1979.

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interventi, durante i Consigli Comunali, non erano stati neppure ritenuti degni di una registrazione integrale nei volumi delle Consulte. Tenendo conto di tutto questo, io francamente lo reputo poco verosimile e sono invece propenso a seguire almeno in parte l'opinione di chi, come il critico ottocentesco Todeschini, rigettò la paternità dantesca per l'Epistola al Cardinale da Prato, tra l'altro perché «quello stile gonfio ed aspro, non dissimile gran fatto dall'andamento della prosa latina dell'Alighieri, è stile piuttosto dell'età che dell'uomo»; e continuava quindi (ignorando la presenza di ser Petracco e di ser Lapo nel gruppo degli esiliati): «se fra gli usciti non v'era un giudice o un notaio capace di dettare quella epistola, non era punto difficile ch'eglino trovassero un frate da ciò». 11 A mio parere, il vecchio Todeschini coglieva nel segno specialmente affermando che lo stile della lettera è una peculiarità dell'epoca piuttosto che dell'individuo, giacché basta soltanto piegarsi a leggere la prosa epistolare latina di quei tempi per rendersene conto. Ciò vale così per la lettera al Cardinale, come per quella di condoglianza ai familiari di Alessandro da Romena e per i tre bigliettini all'imperatrice Margherita, moglie di Arrigo VII, scritti nel castello di Poppi per conto di Gherardesca di Battifolle. Tutti questi lavoretti in lingua latina presentano elementi e finalità che io ritengo poco conciliabili con l'intel-lettualismo dantesco di quell'epoca, costringendomi a concludere che il loro autore non possa essere stato il nostro poeta, ma più probabilmente il suo amico di esilio, ser Petracco. Essendo notaio, era proprio ser Petracco colui che sentiva maggiore necessità di conservare l'amicizia di siffatte persone altolocate, specialmente adesso che si trovava in esilio coi beni confiscati e che, dunque, era pure costretto a condolersi con gli uni e a fungere da scriba per l'altra. Come notaio, era proprio ser Petracco colui che aveva più numerose opportunità di venire in contatto con tali persone, sia a titolo privato che per conto di terzi. Specialmente durante il Due-Trecento, l'ufficio del notaio (che per statuto era il solo a poter fungere da scriba in faccende ufficiali) è stato il più rispettato e autorevole di tutto l'apparato burocratico-amministrativo; ragion per cui si può senz'altro ammettere che l'Università Bianca e (più tardi) la contessa Gherardesca di Battifolle si sarebbero affidate molto più volentieri a un ‘messer Petracco, notaio e figlio di notaio’, che non ad un ‘Durante Alighieri, politicante anticlericalista ed ex bontempone’. Pertanto io, sottoposte le suddette cinque epistole a un esame condotto con nuovi criteri esegetici nei confronti di Dante, sono pervenuto alla convinzione che esse presentino uno stile più tipicamente notarile, dunque

11. G. TODESCHINI, Scritti su Dante, Tip. Reale Burato,Vicenza 1872, vol. I, p. 210.

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alquanto estraneo alla mente che ha ideato le epistole da considerare veramente dantesche, anche tenendo conto delle diverse finalità contemplate nei due gruppi epistolari. A parte ciò, sussistono per di più alcune osservazioni di natura psicologica e allegorica che inducono a far rigettare una paternità dantesca per tutte queste lettere, segnatamente per le prime due, quella propiziativa al Cardinale e quella di condoglianza ai Da Romena. Parlando di quest'ultima, è noto che il suo contenuto spiccatamente laudativo urta non solo contro la presa di posizione assunta dal poeta in If. XXX 73-90 (dove vengono frustati a sangue tutti i Da Romena) e in Pg. XIV 53-5 (dove fa capolino l'ingiuria di «brutti porci» a colpire quella stessa Famiglia), ma specialmente contro la presa di posizione assunta in Pd. XVII 61-9, dove l'intero gruppo di esuli capeggiato appunto dal conte Alessandro Da Romena viene definito una «compagnia malvagia e scempia [ ... ] tutta matta ed empia». Si tratta dunque di tre giudizi danteschi vivamente denigratorii, distribuiti in tre cantiche e messi giù durante dieci anni di una composizione estesasi quasi fino alla morte del poeta: giudizi che assai difficilmente possono essere considerati conformi a quel lungo panegirico che è l'epistola di condoglianza. 12 3. Accanto ai motivi di natura psicologico-religiosa, a contrastare l'attribuzione sussistono motivi di carattere puramente letterario, i quali interessano soprattutto l'allegoria generale perseguita dal poeta nelle sue opere della maturità. Anzi, i motivi legati al fattore polisemico costituiscono ai miei occhi gli ostacoli più consistenti. Nessuna delle cinque lettere può essere detta coerente con questi schemi allegorici danteschi e nessuna di esse presenta l'insieme dei tre fattori indicativi da me menzionati più sopra; anzi, come abbiamo poc'anzi detto, quella ai Conti Da Romena e quella al Cardinale Da Prato offrono spunti decisamente contrastanti. Pensando (come infatti ha pensato qualche critico) che appunto la presenza di magagne così visibili serva a designare autentiche queste lettere, si sbaglia ancora, perché infatti non bisogna pensare a una falsificazione, bensì a una composizione del tutto estranea al raggio creativo dantesco, pur essendo avvenuta in un ambiente storico-culturale parallelo. Questa considerazione interessa ovviamente anche i tre biglietti scritti all'imperatrice Margherita, per conto e in nome della contessa Gherardesca di Battifolle. Queste tre letterine furono scoperte dallo studioso tedesco Carlo 12. Per le stesse ragioni, fino a metà Novecento la paternità dantesca dell’Epistola ai Da Romena è stata rifiutata da parecchi studiosi di buon calibro, tra cui R.DAVIDSOHN ed E. SESTAN (di quest’ultimo vd. Dante e i conti Guidi, in IDEM, Italia medievale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1967, pp. 347-9).

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Witte nella Biblioteca Vaticana, intorno al 1838, dentro una mappa contenente inoltre dodici egloghe del Petrarca, la Monarchia e sei epistole latine già in parte attribuite a Dante (nell'ordine: Ad Arrigo VII; Ai Fiorentini; Ai Da Romena; A Moroello Malaspina; Al Cardinale da Prato; Ai Re d'Italia). Alcuni critici pensarono subito di attribuire a Dante anche le tre letterine, sia per il fatto che si trovavano tra altri lavori sicuramente danteschi, sia perché la terza letterina recava una datazione impostata alla guisa di quelle che chiudono l' Epistola ai Fiorentini e l' Epistola ad Arrigo VII, ossia in questo modo:

Missum de Castro Popii XV Kalendas Iunias, faustissimi cursus Henrici Cesaris ad Ytaliam anno primo.

L'ubicazione andava d'accordo con una teoria biografica vigente in quel tempo, secondo la quale Dante, lasciata la corte lunigianese di Moroello Malaspina, si sarebbe recato nel Casentino e avrebbe trovato ospitalità nel castello dei Conti Guidi a Poppi, dirimpetto alla piana di Campaldino, dove aveva combattuto circa venti anni prima (11 giugno 1289). A mio avviso, le cose debbono essere andate in maniera leggermente diversa. Ben è vero che i critici non si siano sbagliati per ciò che riguarda la surriportata chiusa della letterina, perché essa, secondo me, è veramente di fattura dantesca: infatti, io sono dell'opinione che originariamente sia appartenuta alla lettera per i re d'Italia. Una convalida della mia tesi va vista nel fatto che la sua data, «XV Kalendas Iunias» (18 maggio), oltre a mostrare un ordine cronologico progressivo rispetto alla Lettera VI ed alla Lettera VII (quest'ultima:«XV Kalendas Maias», cioè 17 aprile), va senza dubbio messa in relazione con l'apertura dell'ottava lettera:

Ecce nunc tempus acceptabile, quo signa surgunt consolationis et pacis; frase che si riferisce all'inizio dell'influsso dei Gemelli sulle operazioni umane. E si sa bene che il nostro poeta attribuiva a questa costellazione, nel cui omonimo segno zodiacale egli era nato, le più virtuose influenze celesti che si possano immaginare, stando a Pd. XXII 112 sgg.:

O glorïose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, [ . . . . . . . . . . . . ] A voi divotamente ora sospira l'anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sé la tira.

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Pertanto non mi pare assurdo intendere che Dante, fingendo di scrivere l'Epistola ai Re d'Italia nel periodo in cui Arrigo VII, partito da Milano il 19 aprile 1311, si trovava al sanguinoso assedio di Brescia (che sarebbe durato fino al settembre), abbia pure finto di trovarsi nel periodo iniziale della congiunzione del sole con le ‘gloriose stelle’ Castore e Polluce, 13 portatrici di consolazione e di pace non solo a lui, ma sperabilmente anche a coloro che contrastavano l'Imperatore, di modo che deponessero la loro superbia:

Nam dies nova splendescit auroram demonstrans, que iam tenebras diuturne calamitatis attenuat; iamque aure orientales crebrescunt; rutilat celum in labiis suis, et auspitia gentium blanda serenitate confortat.

Da quest'apertura tutta 'astrologica' (alla quale si riconnette, nel par. 8, la frase «si simpliciter interest humane apprehensioni ut per motum celi Motorem intelligamus et eius velle», che si riferisce inconfutabilmente alle divinazioni oroscopiche basate sul moto delle costellazioni zodiacali), risulta per me chiaro e certo che la chiusa relativa al 18 maggio 1311 non possa appartenere ad altra lettera della mappa scoperta da Carlo Witte, fuori che a quella dantesca per i Re, Principi e Popoli d'Italia, la quale manca infatti di una chiusa che la metta in serie con le lettere VI e VII. 4. Questa mia presa di posizione è resa plausibile tramite un’induzione cagionata da Dante medesimo, in Pd. XXVII 142-43, la quale mi induce a credere che Dante abbia seguito un calendario tutto personale, però basato sui difettosi calcoli astronomici vigenti al suo tempo. Nel tempo in cui avveniva la riforma del calendario giuliano, com'è noto, gli scienziati invitati da papa Gregorio XIII calcolarono che quel calendario, contando annualmente 365 giorni e 6 ore (con un giorno bisesto ogni quarto anno), allungava ciascun anno civile di 11 minuti e 14 secondi rispetto al reale anno tropico compreso

13. Per questa identificazione, io mi baso su Pg. IV 61. Secondo P. PECORARO (Le stelle di Dante, Bulzoni, Roma 1987, p. 30), le «gloriose stelle» non sarebbero Castore e Polluce in quanto, eseguendo i debiti calcoli astronomici, risulta che nel tempo di Dante queste due stelle si trovassero già fuori del segno zodiacale dei Gemelli (il «lume pregno di gran virtù»). Io obietto che non si possono né si debbono leggere le indicazioni astronomiche dantesche avendo in mente le cognizioni astronomiche moderne: se Dante ha potuto scrivere la Commedia, è stato anche perchè ha posseduto una miracolosa mistura di scienza e fantasia, di fede e superstizione, di ingenuità e furbizia. Pertanto bisogna senz'altro credere che le «gloriose stelle» siano state per lui Castore e Polluce, così come il «lume pregno di gran virtù» è stato il segno zodiacale dei Gemelli, collegato esotericamente a quella costellazione non solo ai tempi di Ipparco, ma per tutti i secoli del Medioevo.

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tra due equinozi di primavera (che conta 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi). Col passare dei secoli, gli undici minuti e qualcosa avevano fatto in modo che la data del 21 marzo, fissata durante il Concilio di Nicea come quella dell'equinozio di primavera (da cui dipende la data delle feste mobili ecclesiastiche), nel 1582 superasse di dieci giorni la data reale dell'evento astronomico, ragion per cui si stabilì di eliminare i giorni in questione. A tale scopo, scegliendo un periodo privo di grandi feste religiose, il papa dispose con la bolla Inter gravissimas che al 4 ottobre (festa di San Francesco) seguisse il 15 ottobre.

In verità, esiste documentazione che già molto tempo prima di Dante e di Gregorio XIII si fosse capito che l'anno giuliano si presentasse più lungo dell'anno tropico-astronomico.14 Va però ricordato che per tutto il Medioevo fino a Dante, mancando gli orologi che ne segnassero la misura, non s’è potuto suddividere praticamente l'ora civile in 60 minuti primi di 60 minuti secondi, bensì in 40 cosiddetti ‘momenti’, ciascuno equivalente a 1 primo e 30 secondi nella suddivisione moderna. Un numero di astronomi credeva che la divergenza cronologica annuale tra l'anno tropico e l'anno civile si aggirasse intorno agli 8 ‘momenti’ (12 primi); altri scienziati, giusto per la mancanza di orologi di precisione, non di rado arrotondavano a 10 ‘momenti’, ossia al quarto d'ora di quell'epoca. Sul principio del Trecento, quando negli ambienti astronomici italiani fu introdotto il sistema decimale, il quarto d'ora composto di dieci ‘momenti’ venne difatto considerato appunto la centesima parte della giornata di 24 ore. 15 14. Nel 325 d.C., durante il Concilio di Nicea che introdusse anche l'uso dell'Indizione e della Settimana (prima d'allora, il nome dei giorni veniva indicato con l'aiuto delle Calende, delle None e delle Idi, abitudine rimasta nello ‘stile alto’ del Medioevo), era stato stabilito che l'equinozio di primavera coincidesse col giorno 21 marzo. Tre secoli più tardi, però, il venerabile monaco inglese Beda (670-735) faceva già vaga menzione di una divergenza esistente tra l'anno solare e il calendario giuliano. Ciò venne rilevato più tardi anche da Alcuino (735-804), un altro monaco inglese che si dilettava di astrologia e che fondò per conto di Carlomagno la famosa Scuola Palatina. Specialmente gli studiosi anglosassoni si occupavano con bravura di astrologia/astronomia, e si può dire che nel Duecento siano stati essi a creare una specie di tradizione dottrinale relativa alle inesattezze del calendario giuliano, visto che se ne trova traccia in molti scritti di intellettuali ugualmente inglesi quali Giovanni di Sacrobosco (John of Holywood), Roberto di Lincoln e Ruggero Bacone, il quale ultimo scrisse finanche una vivace lettera al pontefice Clemente IV (1262-68) per incitarlo a effettuare la riforma del calendario, almeno per evitare che si continuasse a mangiar carne anche dopo l'inizio della Quaresima ‘astronomica’.

15. La centesima parte della giornata conta 14 primi e 40 secondi. L'introduzione in Italia del sistema decimale e delle operazioni algebriche con le cifre indo-arabiche si deve a Leonardo Fibonacci, detto pure Leonardo Pisano o Da Pisa, il quale, basandosi su lavori didattici dello studioso franco-normanno Alessandro De Villedieu (o ‘De Villa Dei’, o ‘Dolensis’), nella prima metà del Duecento diede notizie ed esempi algebrici nel suo famoso

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Poiché mancavano non solo gli orologi di precisione, ma anche strumenti d'osservazione capaci di rivelare l'esatto verificarsi delle congiunzioni astrali (ossia l'entrata del sole in una determinata ‘casa’ zodiacale), diventa comprensibile come mai nei tempi danteschi finanche i bravi scienziati giungessero a un computo astronomico-cronologico con una inesattezza di più giorni rispetto ai calcoli moderni. Se si ricorda che il verificarsi degli equinozi veniva stabilito ancora nel secolo XVI con l'aiuto di una rudimentale meridiana (si sa che nel 1575, per ordine di Cosimo dei Medici, l'astronomo bolognese Ignazio Danti ― appena un lustro più tardi chiamato a far parte della commissione per la riforma gregoriana ― si sia servito della meridiana della chiesa fiorentina di Santa Maria Novella), bisogna ammettere che fosse indice di apprezzabile precisione calcolare fino alla ‘centesma’ la divergenza annuale tra l'anno civile e l'anno tropico. Nell'epoca di Dante, gli scienziati europei potevano calcolare l'errore giornaliero del calendario giuliano soltanto esprimendosi in ‘momenti’, che di quei tempi rappresentavano la suddivisione più minuta dell'ora. 16 Ciò appare palese in uno dei più antichi computi a noi noti, scritto esattamente nell'anno 1200 da un ignoto magister, che potrebbe essere stato Alessandro Dolensis ovvero De Villedieu, pure autore di un celebre doctrinale utilizzato in molte scuole europee fino al Cinquecento. Per scopi didattici, questi cosiddetti còmpoti venivano spesso compilati in versi mnemotecnici, che formavano una specie di commento metrico alla ‘lezione’ stessa. Il Liber abbaci. Fino a quel tempo, tutto il sapere matematico dell'Europa si era tratto da poche opere finanche mal tradotte, quali erano gli Elementi di Euclide, la Sintassi di Tolomeo, il De Aritmetica e il De Geometria di Boezio, libri utilizzati anche nelle scuole frequentate da Dante in gioventù. Il sistema introdotto in Europa da Villedieu e Fibonacci si fece strada molto lentamente negli ambienti scolastico-scientifici, anzitutto a causa del conservatorismo burocratico-clericale ancora legato al mondo latino.

16. Pare che fino al tempo di Dante l'unica testimonianza relativa alla suddivisione dell'ora in 60 minuti (senza ‘secondi’) sia rinvenibile in un passo del monaco-astronomo inglese Roberto Anglico, che può essere considerato il primo teorico dell’orologio moderno, nel commento al De Sphera Mundi del collega conterraneo Giovanni di Sacrobosco: «semper 60 minuta faciunt unam horam» (cfr. a tal riguardo G.Brusa, L'arte dell'orologeria in Europa, Bramante, Milano 1993, p. 20). Questa suddivisione inglese non venne adottata praticamente nei primi rudimentali orologi meccanici visti da Dante, il quale infatti non mostra di conoscere la suddivisione dell'ora in 60 ‘minuti’. Peraltro sembra che il primo orologio meccanico italiano sia stato installato nella chiesa milanese di sant'Eustorgio nel 1309 [cfr. G.BOFFITO, Dove e quando poté Dante vedere gli orologi meccanici che descrive in Pd. X, 139 ; XXIV, 13 ; XXXIII, 144 ? «Il Giornale Dantesco» XXXIX (1939), pp. 53-6]. Eventualmente, Dante potrebbe aver visto questo orologio nel gennaio del 1311, trovandosi a Milano per presenziare all'incoronazione di Arrigo VII come Re d'Italia (Corona di Ferro, 6-1-1311), se prendiamo alla lettera il suggerimento dell’Epistola ad Arrigo VII.

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commento metrico in questione contiene versi molto illuminanti per il nostro scopo esegetico-dimostrativo:

Octo minus momenta tamen tenet annum cumque quater denis momentis hora paretur, solstitium quinis hora praecedit in annis; cumque diem faciunt viginti quatuor horae, annis viginti centumque dies datur una. Solstitium, legimus, Christo nascente fuisse; centum viginti decies tam praeteriere anni: sic denis praecedit meta diebus ... 17

Visto che il verificarsi dei solstizi tiene bordone al verificarsi degli equinozi e delle congiunzioni zodiacali, da questo còmpotus risulta palese che sul principio del 1200 si tenesse già presente una divergenza di dieci giorni tra l'anno civile e l'anno tropico: dieci giorni è la stessa quantità cronologica totale calcolata durante la riforma gregoriana, avvenuta 382 anni più tardi, quando il calendario giuliano aveva intanto fatto un salto di altri tre giorni. Questa forte divergenza è dovuta non solo alla diversa quantità cronologica annuale conteggiata nei rispettivi computi, ma anche al fatto che gli astronomi di Gregorio XIII sono partiti dal Concilio di Nicea (325 d. C.), laddove invece l’autore del succitato compotus partiva dal famoso solstitium che aveva contrassegnato la nascita di Cristo (come facevano quasi tutti gli astronomi europei anteriori alla riforma gregoriana). Per la grande autorità acquisita nelle scuole da siffatti lavori didattici (e specialmente da quelli del Dolensis), bisogna presumere che il francofilo Brunetto Latini, il quale aveva passato gli anni dell'esilio in Francia, ne abbia fatto ‘tesoro’ per insegnarlo ai propri discepoli fiorentini, tra i quali va annoverato Dante. È probabile, pertanto, che il nostro poeta abbia preso allora visione e tenuto poi conto del succitato compotus mnemotecnico.

17. «L'anno conta 8 ‘momenti’ in meno [dei 365 giorni e 6 ore del calendario giuliano]; e poiché 40 ‘momenti’ formano un'ora, ne deriva che ogni 5 anni il solstizio si verifica un'ora prima; poiché un giorno conta 24 ore, in 120 anni si forma un giorno di differenza [tra l'anno tropico e quello civile]. Siccome si legge che fosse solstizio [d'inverno] quando nacque Cristo, e da allora sono trascorsi 10 volte 120 anni, ne deriva che l'odierna data [solstiziale tropica] precede di dieci giorni [la data indicata dal calendario]» (traggo il testo latino da W.E.VAN WIJK, De gregoriaanse kalender, Stols, Maastricht 1932, p. 16). Il brano è citato in forma abbreviata pure in J.A.STEDALL, Of our own Nation: John Wallis’s account of mathematical learning in medieval England, in «Historia Mathematica» 28 (2001), pp. 73–122: 101. Va badato che in altri computi di quell’epoca la divergenza tra il calendario giuliano e la realtà astronomica era talvolta anche maggiore, perché si calcolavano 15 minuti annuali giungendo a una divergenza di ben 12 giorni nel 1200.

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L'introduzione del sistema decimale permise agli studiosi italiani del Trecento, sicuramente a quelli della cerchia padovana, di utilizzare una frazionatura più minuta del giorno, però non dell'ora, giacché quest'ultima andava ancora incontro a molte difficoltà per la mancanza di orologi di precisione capaci di segnare minuti primi e secondi (la tecnica venne sviluppata soltanto nel 1500, in Inghilterra). La frazionatura centesimale del giorno è stata ben nota a Dante, il quale, soggiornando a Verona negli anni 1305-06 e 1313-15, secondo me dovrebbe aver frequentato (forse una volta ogni paio di mesi) lo studio padovano del filosofo, astrologo, medico e grecista Pietro d'Abano, imparando parecchie cose nuove nel campo dell'astrologia e della cronologia, ma restando tuttavia coi compoti difettosi imparati nell'adolescenza. Ed è per tale ragione che il poeta ha potuto scrivere in Pd. XXVII 142-3:

Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma ch'è là giù negletta ...

I commentatori moderni avvertono che si tratta di una misura cronologica solamente approssimativa, dunque poco meravigliandosi che qui si menzioni una «centesma» più vicina ai 15 minuti che agli 11 minuti e qualcosa. Se noi badiamo alla divergenza di quasi 15 minuti annuali esternata in questi versi del Paradiso, dobbiamo concludere che non si debba pensare tanto a un'approssimazione quanto a una cognizione dantesca influenzata dai difettosi computi astronomici correnti in quei tempi. Pertanto credo che Dante abbia apposto alla Lettera ai Re d’Italia la data 18 maggio 1311 tenendo conto sia del periodo cronologico che del contenuto oroscopico valido per lui medesimo; anzi, io sono del parere che egli l’abbia prescelta, perché il numero 18 corrisponde al grado astronomico iniziale del segno zodiacale dei Gemelli. Da qui la bella frase iniziale, rifatta sulla seconda lettera paolina Ai Corinzi 6,2:

Ecce nunc tempus acceptabile, quo signa surgunt consolationis et pacis.

5. Se si effettua una connessione logica tra tutti questi fattori, mi pare lecito concludere che la surriportata chiusa sia stata sottratta all’Epistola per i Re d'Italia e poi trascritta in fondo al terzetto di biglietti di Gherardesca, forse con intento falsificatorio o forse perché il trascrittore ha visto una relazione tra la Contessa e il castello di Poppi menzionato nella chiusa dantesca. In ogni modo, è per me certo che un siffatto trasporto ci sia veramente stato e che esso sia la causa per cui oggidì ci troviamo con l'importante lettera di

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Dante ai Re d'Italia priva della datazione di chiusura, mentre l'insignificante terzo biglietto di Gherardesca (o di chi per lei) si fregia abusivamente di una proposizione latina scaturita dalla mente del Divino Poeta e coinvolgente anche gli altri due biglietti. Io potrei rafforzare questa tesi con alcune considerazioni utili a chiarire la vicenda di queste cinque lettere entrate impropriamente, secondo me, a far parte dell'eredità letteraria dantesca. Come detto, io considero queste lettere, nella forma presentata dal Codice Vat. Pal. latino 1729, come lavori d'ufficio del notaio ser Petracco di ser Parenzo, il quale frequentò il gruppo dei fuoriusciti Bianchi (e Ghibellini) di cui fece parte anche Dante negli anni 1302-04. Ora questi due Esuli sono stati sicuramente legati da una certa amicizia, la quale potrebbe essere nata appunto durante l'esilio, quasi imposta dalle identiche condizioni esistenziali. In ogni modo, l'amicizia tra di loro è continuata anche posteriormente al maggio 1304, allorché Dante e ser Petracco lasciarono la «compagnia malvagia e scempia» e se ne andarono per i fatti propri: Dante formò ‘parte per se stesso’ e si recò a Verona, ser Petracco sistemò la famigliuola nella casa ad Incisa di Valdarno e si recò a Padova. Non si sa se i due si siano visti nel Veneto, però il fatto non è improbabile in quanto Dante, che s'era recato a Verona lasciando la moglie e i figli (secondo me, a Mantova), si sarà pure qualche volta spinto fin verso Padova per affari propri o di Alboino della Scala. 20

20. La questione, se sia stato Bartolomeo oppure Alboino il «gran Lombardo» che per primo ospitò Dante, dopo aver lasciato la «compagnia malvagia e scempia», è stata da me risolta in favore di Alboino, succeduto al fratello nel marzo 1304. A questa convinzione, che io condivido con pochi lettori, non s'oppone Convivio IV xvi 6, dove si legge che Alboino non è affatto «più nobile» di Guido da Castello: a parte il fatto che l'espressione, secondo me, significhi semplicemente che i due gentiluomini sono parimenti ‘nobili’, va considerato pure che Dante distingue una nobiltà di lignaggio da una nobiltà di intelletto (cfr. Convivio IV xiv-xv). Onde, concessa pure una superiorità nobiliare di Guido, bisognerebbe intenderla come riferita alla nobiltà di lignaggio basata sull'antichità di casato (ciò sarebbe in linea con Pg. XVI 121-7, dove Guido da Castello vien detto appunto di «antica età»). Alla mia scelta non contrasta neanche Pietro Alighieri, il quale chiosando Pd. XVII 71 assicura che l'andata del padre a Verona sia avvenuta «dominante tunc domino Bartholomaeo de dicta domo, portante aquilam super scalam in armatura» (cfr. P.ALIGHIERI, Super Dantis ipsius genitoris Comoediam commentarium, a cura di V.Nannucci, Piatti, Firenze 1845, vol. III, p. 668): infatti, Dante potrebbe aver chiesto l'impiego oppure essere partito quand'era ancor vivo Bartolomeo, fatto rimasto nella memoria di Pietro, il quale ha scritto il ‘commentario’ a distanza di molti decenni. E c'è ancora una ragione storico-logica a convalidare la mia scelta: se Dante fosse stato a Verona già prima del febbraio, non si potrebbe più opinare che suo fratello Francesco contraesse per lui quel documentato prestito di 12 fiorini in Arezzo, il 13 maggio 1304. Ciò verrebbe escluso dalla grande lode che Dante fa del suo primo ospite veronese, per bocca dell'avolo Cacciaguida, in Pd. XVII 70-75:

Il primo tuo refugio, il primo ostello

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Che la loro amicizia sia perdurata anche dopo il 1304 viene testimoniato nientemeno che da Francesco Petrarca, il quale scrisse in seguito di ricordare vagamente una visita di Dante a suo padre, quando egli era ancora nella ‘puerizia’: io sono del parere che ciò si sia verificato durante la primavera del 1309, nella casetta dell'Incisa, allorché Petrarca aveva quasi cinque anni (egli era nato il 20 luglio 1304, giorno della battaglia presso la Lastra, alla quale Dante e Petracco non parteciparono). La testimonianza si trova in un passo della famosa Familiare XXI 15, scritta al Boccaccio, di cui offro qui una traduzione a senso per comodità del lettore (paragrafi 6-7):

«Coloro che mi odiano dicono che io odio e disprezzo questo poeta [= Dante], per far concentrare su di me l'odio del popolo che lo apprezza moltissimo: oh, nuova forma di malizia e mirabile maniera di nuocere! A costoro risponda in mia vece la verità, in primo luogo il fatto che io non abbia motivo per odiare un uomo che non ho visto più di una volta, quando mi venne mostrato durante la mia prima puerizia. Egli visse nel tempo di mio nonno e di mio padre, essendo più giovane del primo e più anziano del secondo, col quale ultimo fu cacciato fuori della patria dalla stessa tempesta civile e nello stesso giorno. 21 E così come in situazioni del genere nascono grandi amicizie tra compagni di sventura, similmente accadde tra di loro, avendo essi somiglianza non solo di ventura, ma anche di studi e d'ingegno. Sennonché mio padre, rivolto a impegni differenti e sollecito della famiglia, si

sarà la cortesia del gran Lombardo che 'n su la scala porta il santo uccello; ch'in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che, tra gli altri, è più tardo.

Diventa ovvio che il munifico «gran Lombardo» avrebbe risanato in tal maniera le finanze dantesche, che il poeta non avrebbe più dovuto sopportare l'umiliazione di contrarre il prestito aretino per tramite del proprio fratello, qualche mese dopo. Onde appare chiaro che il prestito sia stato contratto prima che il poeta si recasse a Verona; anzi, appunto per permettergli di recarsi a Verona (pagamento di cibo e alloggio durante il viaggio, compera di nuovi vestimenti, offerta di un aiuto finanziario alla moglie e ai figli lasciati indietro, ecc.). Siccome ciò avvenne il 13 maggio, è giocoforza concludere che le angustie finanziarie di Dante siano state esclusivamente del periodo trascorso con la «compagnia malvagia e scempia» (come riconosceva peraltro anche G.PETROCCHI, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, in *«Dante e la cultura veneta», a cura di V.Branca e G.Padoan, Olschki, Firenze 1966, pp. 13-27:17) e che il «gran Lombardo» sia stato Alboino.

21. Il Petrarca è incorso evidentemente in un errore cronologico dovuto a dimenticanza o ad equivoco, perché l'esilio dei due non avvenne ‘lo stesso giorno’: Dante fu cacciato in gennaio, Petracco in ottobre del 1302. Anzi, per il calendario fiorentino (che faceva cominciare l'anno il 25 marzo) il gennaio cadde nel 1301, l'ottobre nel 1302.

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rassegnò all'esilio [= non si preoccupò più di politica e del ritorno in patria]; egli [= Dante] tenne invece duro e perseguì con decisione tale intento, senza curarsi d'altro che di acquistare la fama». 22

Da questo brano appare palese che tra ser Petracco e Dante vi sia stata un'amicizia non propriamente superficiale, bensì approfondita dal comune esilio e specialmente dal fatto che essi avessero «somiglianza non solo di ventura, ma anche di studi e d'ingegno». A me sembra plausibile credere che Petracco e Dante, durante gli anni del Trivio e del Quadrivio (più o meno tra il 1275 e il 1285), siano stati entrambi indirizzati verso gli studi notarili da concludere poi forse nell'Università di Bologna, il primo preparandosi con l'aiuto di suo padre, il notaio ser Parenzo, e il secondo con l'aiuto di ser Brunetto Latini, che teneva ufficio notarile pure a Firenze. 23 Poiché nel Medioevo gli studi notarili e giuridici erano soggetti a un cursus uniforme, diventa ora facile spiegarsi perché il Petrarca parli di una ‘somiglianza di studi’ esistita tra suo padre e Dante. Visto che Petracco ebbe la tenacia e la serietà di laurearsi come notaio, mentre Dante invece dovette troncare gli studi (oppure preferì egli stesso troncarli per darsi alla dolce vita, onde fu poi costretto a intraprendere una carriera pubblica), 24 noi possiamo convenire

22. Ecco il testo latino (F.PETRARCA, Opere, vol. I: Familiarium Rerum, a cura di V.Rossi e U.Bosco, Sansoni, Firenze 1975): «Dicunt enim qui me oderunt, me illum odisse atque contemnere, ut vel sic mihi odia vulgarium conflent quibus acceptissimus ille est; novum nequitie genus et mirabilis ars nocendi. His pro me veritas ipsa respondeat. In primis quidem odii causa prorsus nulla est erga hominem nunquam michi nisi semel, idque prima pueritie mee parte, monstratum. Cum avo patreque meo vixit, avo minor, patre autem natu maior, cum quo simul uno die atque uno civili turbine patriis finibus pulsus fuit. Quo tempore inter participes erumnarum magne sepe contrahuntur amicitie, idque vel maxime inter illos accidit, ut quibus esset preter similem fortunam, studiorum et ingenii multa similitudo, nisi quod exilio, cui pater in alias curas versus et familie solicitus cessit, ille obstitit, et tum vehementius cepto incubuit, omnium negligens soliusque fame cupidus».

23. Per gli studi seguiti da Dante presso Brunetto Latini, cfr. If. XV 79 sgg. 24. La ‘dolce vita’ menata da Dante, dopo la morte del padre Alighiero (avvenuta intorno al 1282), salta fuori da parecchi scritti, anzitutto dalla Tenzone con Forese Donati (dove egli vien detto scialacquone e frequentatore di cattive compagnie); poi dalla Vita Nuova, nella quale egli confessa di essere divenuto amico dell'epicureo Guido Cavalcanti intorno al 1283; infine dal Purgatorio, dov'egli, in figura di protagonista, non solo porta sulla fronte anche le tre ‘P’ dei peccati epicurei di eccessive Prodigalità, Gola e Lussuria, ma confessa pure di essersi dato ai piaceri sensitivi («le presenti cose», XXXI 34). Abbandonati gli studi, Dante ha visto quindi nella carriera pubblica una salvezza esistenziale e vi si è dedicato con anima e corpo, prima mettendosi in mostra onorevolmente (Campaldino e Caprona), poi entrando nella vita politica comunale.

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che i due esuli abbiano avuto in comune soltanto la parte iniziale degli studi notarili, ossia la fase preparatoria che ha permesso loro di sviluppare uno stile epistolare somigliante, il quale però era comune a quasi tutti coloro che seguivano in quell’epoca studi notarili o giuridici, come giustamente rilevò il succitato Todeschini. 6. Tornando alle cinque lettere che io credo scritte da ser Petracco, mi pare accettabile l'idea che egli, dopo averle scritte per incarico altrui, secondo la consuetudine d'ogni bravo notaio ne abbia conservato una copia, la quale dev'essere logicamente finita nei registri d'ufficio. Giunta l'occasione di trasferirsi in Francia, nel 1313, ser Petracco ha preso con sé non solo la famiglia, ma anche una quantità di libri sia privati sia d'ufficio, dunque anche il registro contenente le copie delle lettere, il quale finì in uno scaffale del nuovo studio. Venuto egli a morte (1326), il primogenito Francesco rimase logicamente erede della biblioteca paterna e perciò anche dei registri d'ufficio, i quali evidentemente non furono distrutti (il Petrarca era un fervente conservatore di carte scritte d'ogni sorta), bensì riposti in una cassa e portati in soffitta. In quella cassa debbono essere rimasti per molti decenni, vale a dire non solo fino al 1337, allorché il Petrarca si trasferì in una villetta di Vaucluse (nei pressi di Avignone), ma addirittura fin dopo il 1353, allorché egli, divenuto antipatico al nuovo pontefice Innocenzo VI, tornò in Italia e si stabilì a Milano, nel canonicato di Sant'Ambrogio. Questo trasferimento suscitò parecchie polemiche tra gli intellettuali italiani, molti dei quali disprezzavano e odiavano Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano. In quell'occasione si fece notare anche Giovanni Boccaccio, il quale spedì all'ammirato Petrarca una lettera molto agitata (sarebbe quella numerata IX). Trasferendosi a Milano, il Petrarca portò con sé decine di casse piene di libri, di pergamene, di manoscritti antichi (ce ne informa egli stesso); ed è accettabile l'idea che in una cassa si siano trovati anche i registri notarili paterni, in uno dei quali si trovavano (forse a insaputa del Petrarca) le copie delle cinque lettere. Riposti nuovamente in soffitta per ragioni sentimentali, i registri debbono esservi rimasti fino al marzo del 1359, quando Petrarca ricevette visita da Boccaccio, il quale già da qualche lustro gli era amico epistolare e già da un paio di anni aveva preso a interessarsi di Dante. Durante il lungo mese di ospitalità milanese, il Boccaccio ha parlato diffusamente di Dante e della Divina Commedia, che probabilmente non era ancora ben nota al Petrarca (appena tornato in Toscana, infatti, il Certaldese gli spedì subito una copia del poema scritta di proprio pugno). A questo punto, pur mancando testimonianze scritte, mi sembra plausibile credere che giusto in occasione di tale visita il Petrarca, ricordandosi dell'amico paterno visto all'Incisa durante la puerizia,

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si sia messo a rovistare col Boccaccio tra le carte del padre conservate in soffitta, abbia trovato le lettere e gliele abbia consegnate di persona. Ciò spiegherebbe il fatto che nelle Familiari non si trovi notizia specifica di queste lettere, mentre assai spesso vi si rinvengono accenni a scambi, a doni o a ricevimenti di manoscritti. In quel tempo, il Boccaccio viveva con l'idea di compilare una biografia di Dante, e a tale scopo egli s'era messo a fare ricerca di notizie e di dati utilizzabili; onde non è improbabile che il Petrarca abbia sperato che nel futuro lavoro biografico boccaccesco trovasse posto anche l'amicizia corsa tra Dante e ser Petracco. Mi sembra attendibile che egli, per completare o dilatare le informazioni intorno a quell'amicizia, qualche mese più tardi abbia scritto al Boccaccio la Familiare XXI 15, adducendo la scusa di volersi difendere dalla maldicenza che lo designava invidioso di Dante. Una maldicenza che non si può facilmente giustificare alla data del 1360, quando la gloria di Petrarca echeggiava in ogni parte d'Europa, da Napoli a Colonia, da Venezia a Parigi, mentre invece la fama di Dante era appena nata, tenuta su principalmente dal volgo ignorante di latino (significativo, a tal riguardo, sarebbe l'aneddoto circa le comari veronesi che mostrano di aver letto il poema, o almeno Inferno), ma poco apprezzata dai letterati umanisti (come si deduce anche leggendo tra le righe della lettera petrarchesca). La suddetta speranza del Petrarca andò però in fumo, perché il Boccaccio deve aver giustamente capito che le cinque letterine di ser Petracco non toccavano la biografia di Dante, come invece ben facevano le epistole dantesche già in suo possesso o da lui altrimenti conosciute. 25 In base a ciò, egli ha deciso di non servirsene; anzi, di tacere del tutto circa l'amicizia del poeta con ser Petracco: un fatto molto strano in quanto il Petrarca stesso gliene aveva dato notizia in una lettera (poi pubblicata), di modo che sarebbe dovuto sembrargli doveroso, a dir poco, fare almeno una fuggevole menzione di tale amicizia nel suo Comento o nel suo Trattatello in laude di Dante. Un accenno anche breve avrebbe evidenziato sia i rapporti amichevoli tra i due Esuli, sia quelli tra lui stesso e Petrarca, il quale ultimo, come autorevole personalità contemporanea, avrebbe donato alle sue notizie biografiche

25. Giovanni Boccaccio ha posseduto/conosciuto sicuramente la lettera ai Cardinali italiani, quella all'Amico fiorentino, quella a Cino da Pistoia e quella ad Arrigo VII, delle quali si trova chiara traccia nel Trattatello in laude di Dante; inoltre deve aver conosciuto la lettera a Cangrande, attendibilmente tramite i figli di Dante, perchè se ne riscontrano tracce nel Comento. Ma io credo probabile che egli abbia avuto nozione anche della lettera «al reggimento di Firenze» (ovvero ai Fiorentini), menzionata da G. VILLANI in Cronica IX 136 (sebbene io dubiti che si sia trattato dello stesso testo epistolare), più notizia delle rimanenti, attendibilmente tutte in mano dei figli di Dante.

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un'attendibilità indubbiamente superiore a quella offerta, per esempio, dallo sconosciuto messer Piero di messer Giardino da Ravenna. Tuttavia il Certaldese non distrusse le cinque letterine (anch'egli era un collezionista, sicché tendeva a conservare ogni specie di scritti), ma le ripose in qualche mappa della sua biblioteca, magari con l'intento di ridarle al Petrarca quando si sarebbe presentata l'occasione. In effetti, io credo che queste letterine siano rimaste conservate assieme con alcune epistole dantesche fino a quando, dopo la morte del Boccaccio (1375), vennero tutte trascritte nella mappa oggi detta ‘Codice Vat. Pal. latino 1729’. Non è possibile precisare quando ciò sia avvenuto, ma è attendibile che sia stato poco dopo il 1390, perché nel 1394 risultano essere state terminate le postille apportate da ser Francesco da Montepulciano al suddetto codice. Questo codice deve aver contenuto originariamente soltanto le dodici egloghe del Petrarca, alle quali ser Francesco stesso, divenuto in quel tempo proprietario della mappa boccaccesca, ha poi aggiunto la Monarchia trascrivendola di propria mano, come risulta dall'esame grafologico. 26 A questo punto della vicenda, qualcosa di strano dev'essere accaduta al Codice 1729: ser Francesco, che aveva avuto la pazienza di copiare personalmente l'intera Monarchia, ha fatto invece trascrivere da uno scrivano le nove epistole in quest'ordine: ad Arrigo VII; ai Fiorentini; le tre all'Imperatrice; ai Conti da Romena; a Moroello; al Cardinale da Prato; ai Re d'Italia. Soltanto le tre all'Imperatrice, l'una al Cardinale e l'altra ai Re d'Italia presentano un'intestazione. Quanto all'attribuzione, soltanto quella della prima lettera risulta essere stata sovrapposta dalla mano di ser Francesco in questo modo tironiano: «Epla Dantis Alegerii floretini ad henricum Cesarem Augustum»; per l'attribuzione della lettera ai Conti da Romena e della lettera a Moroello, invece, ser Francesco si è servito del trascrittore. Che tutto ciò non possa essere accaduto a insaputa o senza il permesso del proprietario è cosa logica, visto che le postille di ser Francesco sono reperibili in tutte le carte del Codice, provviste anche di data. 7. Ora, ogni lettore interessato alla questione è libero di formarsi un'idea propria intorno alle straordinarie ragioni che potrebbero aver determinato un simile intreccio grafico; e lo stesso si può dire dell'imbroglio circa l'attribuzione. Da parte mia, tenendo conto dell'acribia messa in mostra da ser Francesco sia copiando la Monarchia, sia scrivendo le postille e le altre sue cosette reperibili in diversi codici, io confesso di doverne dedurre

26. Io mi baso essenzialmente sulle informazioni raccolte dal bibliotecario O.ZENATTI nel suo volume Dante e Firenze, rist. a cura di F. Cardini, Firenze 1984, pp. 372-97.

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quanto segue (e tengo a precisare che ciò non influisce sul mio giudizio negativo circa le cinque lettere). Io credo che ser Francesco Prendibeni o Piendibeni da Montepulciano (come sonerebbe per esteso il suo nome), ch'era un ambizioso notaio e cancelliere desideroso di immortalarsi scrivendo poesia latina, a un certo momento abbia pensato di farsi valere anche come scopritore di manoscritti prestigiosi, sull'esempio di Petrarca e di Boccaccio da lui molto ammirati (anzi, imitati anche letterariamente). Venuto in possesso delle lettere di Dante e di ser Petracco conservate nella mappa petrarchesca/boccaccesca (egli può facilmente averla ricevuta o comperata per il tramite del suo buon amico clericale Fra’ Mariano da Signa, erede della biblioteca del Boccaccio), ha avuto quindi la convinzione che fossero tutte di Dante, oppure ha premeditato di attribuirle tutte a Dante. Sia nell'uno sia nell'altro caso, egli ha dovuto effettuare una piccola operazione capace di suffragare la propria illazione attributiva. Allo scopo di suggerire una fattura dantesca per i bigliettini all'Imperatrice (i quali erano i lavoretti visibilmente meno ‘danteschi’), gli bastava togliere la chiusa della Lettera ai Re d'Italia dal suo posto peculiare e trascriverla in fondo a uno dei tre biglietti, in modo che anche gli altri due ne traessero vantaggio. Però ser Francesco non ha avuto il coraggio di effettuare di persona questo trasloco testuale: egli deve essersi reso conto di aver bisogno di un ‘complice’ fidatissimo (un familiare, un domestico, un apprendista), il quale gli trascrivesse l'insieme epistolare nella maniera desiderata, affinché poi non lo si potesse accusare di aver modificato di propria mano e inventato dolosamente un documento dantesco. Infatti, egli non poteva sapere con assoluta certezza che delle lettere in questione non esistessero copie in grado di contraddirlo. In caso di ‘smascheramento’, egli avrebbe sempre potuto difendersi facendo notare che non era stato lui a trascriverle e perciò si trattava di un abbaglio del trascrittore. Potrebbe essere stato in tal modo e per tal motivo, secondo me, che le nove lettere del Codice Vat. Pal. latino 1729 si trovano attualmente trascritte da una mano che non è quella diligente di ser Francesco, com'è invece ben il caso con la piuttosto lunga Monarchia e con le numerose postille che ingombrano le carte del Codice. Laddove bisogna ancora rilevare che l'astuto notaio, segretario apostolico e cancelliere (come tale operante anche a Perugia, nel ventennio 1380-1400) ha avuto l'accortezza di aprire e chiudere la propria raccolta epistolare con lettere di indubbia fattura dantesca. Effettivamente la prima (Ad Arrigo VII) si trova citata anche nella Cronica di Giovanni Villani (al cui nipote Filippo egli successe, nel 1380, quale cancelliere di Perugia); l'ultima (Ai Re d'Italia) porta già nell'intestazione il nome di Dante Alighieri. Soltanto alla prima, nondimeno, ser Francesco volle apporre di propria mano la dicitura con l'attribuzione al Divino Poeta:

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tutte le altre attribuzioni lasciò invece alla mano del suo scrivano o complice, che dir si voglia. Solo parzialmente note sono le peripezie di questo Codice, posteriormente alle esercitazioni grafiche di ser Francesco & C. Io ho per certo che l'ambizioso notaio non abbia minimamente approfittato dell'imbroglio combinato nella mappa: occupato dai grandi uffici e onori, che gli caddero in sorte anche senza l'aiuto della letteratura (egli divenne fidatissimo consigliere di papa Bonifacio IX, infine vescovo di Arezzo sotto l'antipapa ‘pisano’ Giovanni XXIII), messer Francesco deve aver deciso di non mettere a repen-taglio l'autorità già acquisita (si rammenti che la Monarchia era all'Indice) ed ha quindi inabissato il codice in uno scaffale della propria biblioteca. Colà rimase finché cadde nelle mani del nuovo proprietario Giannozzo Manetti, umanista fiorentino autore di una Vita Dantis e fortunato scopritore di manoscritti preziosi. 27 Il Codice finì quindi in Heidelberg, Germania, nella Biblioteca Palatina (donde uno dei suoi nomi attuali), e di là tornò nuovamente alla Biblioteca Vaticana, nel 1623. Qui giacque per oltre due secoli, cioè fino al 1838, quando il benemerito dantista tedesco Carlo Witte lo ‘scoprì’ e ne diede notizia, però senza pubblicarlo. 28 In quel tempo ha avuto inizio la contesa tra i critici favorevoli e quelli contrari all'autenticità di tutte le lettere contenute nel Codice: una contesa che conobbe fasi alterne e che nel 1921 è stata decisa in favore dell'autenticità, se così bisogna intendere l'edizione promossa dalla Società Dantesca e curata da Ermenegildo Pistelli. 29 Ciò non mi sembra del tutto giustificato, tuttavia, ed in questo articolo ho voluto delucidare le principali ragioni che mi ispirano i dubbi e i sospetti in proposito, evitando di cadere in disamine linguistiche oramai ritrite e sperando che mi si conceda il diritto di sostenere un'opinione particolare. In fin dei conti, Dante medesimo ha lasciato scritto in Convivio IV viii 6-9 che sebbene l'opinione della maggioranza non possa essere considerata del tutto sbagliata, esistono nondimeno situazioni in cui tale opinione è appunto quella falsa, anzi «falsissima». Che il poeta non avesse tutti i torti è confermato anche dalla Storia posteriore: per esempio, si

27. Per altre informazioni in proposito, vedasi ancora O.ZENATTI, Dante e Firenze, cit., p. 370 in nota, pp. 415-9. Per la Vita Dantis del Manetti, vd. A.SOLERTI, Le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo decimosesto, Vallardi, Milano 1904.

28. Le epistole del Codice Vat. Pal. latino 1729 furono da lui curate e pubblicate più tardi, per cui vd. A.TORRI, Epistole di Dante Alighieri, edite e inedite, Vannini, Livorno 1842.

29. E.PISTELLI, Le opere di Dante. Epistole, testo critico per la Società Dantesca Italiana, Bemporad, Firenze 1921 (1960).

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pensi a Galileo Galilei. In ogni modo, su questo pensiero dantesco vorrei far leva come su un ipse dixit, giacché io considero superficiale dal punto di vista critico, oltre che ingenuo dal punto di vista biografico, continuare a credere che le sunnominate cinque lettere siano un prodotto del genio creativo di Dante Alighieri.

Cono A. Mangieri