«Non come si troveranno gli uomini del futuro, bensì come saranno…». Il “realismo politico”...

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1 «Non come si troveranno gli uomini del futuro, bensì come saranno». Il "realismo politico" di Weber tra problematica antropologica e tragicità del moderno «Qui Weber non è più il discepolo di Nietzsche, come neppure di Darwin, egli rappresenta qualcosa di più antico: egli è il Socrate del dialogo con Critone, che non fugge dalla prigione, ma risponde ai suoi giovani "liberi", cosmopoliti, che lo vogliono "liberare": non voglio vivere che qui, io voglio finire qui come "uno schiavo e uno del luogo"». Eduard Baumgarten Introduzione In un passo precedente a quello posto in esergo a questo contributo, Eduard Baumgarten, forse il più strenuo e acuto difensore di Weber al Congresso Tedesco di Sociologia del 1964, affermava che la difficoltà nel fare i conti con l'eredità spirituale di Weber consisteva «non nel fatto che Weber era figlio del suo tempo, ma che noi siamo figli delle nostre angosce per le nostre esperienze e gli facciamo dei rimproveri che sarebbe meglio rivolgessimo contro noi stessi» 1 . Evidentemente, l'esperienza era la catastrofe spirituale della Germania sotto il Nazismo; l'intorpidimento morale e intellettuale che rese possibile ad Adolf Hitler il dominio su una delle nazioni più colte e progredite del mondo. Weber fu, più o meno esplicitamente, accusato di aver preparato con la sua concezione politica l'avvento del dramma nazista. O meglio: di aver costruito una visione politica di potenza, unita a un relativismo etico di matrice nichilista, che non poteva fornire gli anticorpi alla deriva totalitaria che sarebbe seguita 2 . Ironia della 1 In O. STAMMER (a cura di), Max Weber e la sociologia oggi, Jaca Books, Milano 1967; pp. 184-185, ed. or. O. STAMMER (Hrsg.), Max Weber un die Soziologie heute, Mohr, Tübingen 1965. 2 Una tra le più influenti interpretazioni in questa chiave fu quella di Leo Strauss, che nel capitolo del suo Diritto naturale e storia dedicato a Weber lo elevava a «più grande sociologo del nostro secolo», per poi seppellirlo insieme alla scienza sociale moderna - vero obiettivo polemico di Strauss. Il saggio - come nota A. SZAKOLCZAI, Reflexive Historical Sociology, Routledge, London-New York 2000, p. 59 - alza una «cortina fumogena» sull'opera di Weber e, costruendo la figura di un pensatore che in ogni pagina della sua opera utilizza espressioni che contravvengono palesemente al suo postulato metodologico dell'avalutatività senza rendersene conto, sminuisce anche i punti dell'analisi che colgono i problemi e le debolezze della prospettiva di Weber. Bastino, in questa sede, una notazione sullo stile e una sulla sostanza dell'analisi di Strauss. Per chi abbia letto direttamente l'opera di Weber e, secondo il metodo interpretativo dello stesso Strauss, provato a intendere il pensiero dell'autore esattamente come egli lo intendeva, appare piuttosto ovvio che Strauss faccia con Weber ciò che imputa a Weber di aver fatto con Calvino: identifica l'essenza dell'opera di Weber «con i suoi aspetti storicamente più fecondi di conseguenze», che si fondavano però su un «radicale fraintendimento» - al quale Strauss stesso stava contribuendo - di ciò che Weber considerava essenziale nel suo pensiero. Fin qui lo stile. Sulla sostanza, invece, avanziamo, a titolo esemplificativo, questo interrogativo: «se il rifiuto dei giudizi di valore [...] impedisce di chiamare le cose con il loro nome» e, al contrario, esprimere un giudizio di valore valido significa saper distinguere, per esempio, tra «vera religione e impostura» - e dunque anche tra il vero e il falso profeta - forse ciò

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«Non come si troveranno gli uomini del futuro, bensì come saranno…».

Il "realismo politico" di Weber tra problematica antropologica e tragicità

del moderno

«Qui Weber non è più il discepolo di Nietzsche,

come neppure di Darwin, egli rappresenta qualcosa di più antico:

egli è il Socrate del dialogo con Critone,

che non fugge dalla prigione, ma risponde ai suoi giovani "liberi", cosmopoliti,

che lo vogliono "liberare": non voglio vivere che qui,

io voglio finire qui come "uno schiavo e uno del luogo"».

Eduard Baumgarten

Introduzione

In un passo precedente a quello posto in esergo a questo contributo, Eduard Baumgarten,

forse il più strenuo e acuto difensore di Weber al Congresso Tedesco di Sociologia del 1964,

affermava che la difficoltà nel fare i conti con l'eredità spirituale di Weber consisteva «non nel

fatto che Weber era figlio del suo tempo, ma che noi siamo figli delle nostre angosce per le

nostre esperienze e gli facciamo dei rimproveri che sarebbe meglio rivolgessimo contro noi

stessi»1.

Evidentemente, l'esperienza era la catastrofe spirituale della Germania sotto il Nazismo;

l'intorpidimento morale e intellettuale che rese possibile ad Adolf Hitler il dominio su una

delle nazioni più colte e progredite del mondo. Weber fu, più o meno esplicitamente, accusato

di aver preparato con la sua concezione politica l'avvento del dramma nazista. O meglio: di

aver costruito una visione politica di potenza, unita a un relativismo etico di matrice nichilista,

che non poteva fornire gli anticorpi alla deriva totalitaria che sarebbe seguita2. Ironia della

1 In O. STAMMER (a cura di), Max Weber e la sociologia oggi, Jaca Books, Milano 1967; pp. 184-185, ed. or. O.

STAMMER (Hrsg.), Max Weber un die Soziologie heute, Mohr, Tübingen 1965. 2 Una tra le più influenti interpretazioni in questa chiave fu quella di Leo Strauss, che nel capitolo del suo

Diritto naturale e storia dedicato a Weber lo elevava a «più grande sociologo del nostro secolo», per poi seppellirlo

insieme alla scienza sociale moderna - vero obiettivo polemico di Strauss. Il saggio - come nota A. SZAKOLCZAI,

Reflexive Historical Sociology, Routledge, London-New York 2000, p. 59 - alza una «cortina fumogena» sull'opera di

Weber e, costruendo la figura di un pensatore che in ogni pagina della sua opera utilizza espressioni che

contravvengono palesemente al suo postulato metodologico dell'avalutatività senza rendersene conto, sminuisce

anche i punti dell'analisi che colgono i problemi e le debolezze della prospettiva di Weber. Bastino, in questa

sede, una notazione sullo stile e una sulla sostanza dell'analisi di Strauss. Per chi abbia letto direttamente l'opera di

Weber e, secondo il metodo interpretativo dello stesso Strauss, provato a intendere il pensiero dell'autore

esattamente come egli lo intendeva, appare piuttosto ovvio che Strauss faccia con Weber ciò che imputa a Weber

di aver fatto con Calvino: identifica l'essenza dell'opera di Weber «con i suoi aspetti storicamente più fecondi di

conseguenze», che si fondavano però su un «radicale fraintendimento» - al quale Strauss stesso stava

contribuendo - di ciò che Weber considerava essenziale nel suo pensiero. Fin qui lo stile. Sulla sostanza, invece,

avanziamo, a titolo esemplificativo, questo interrogativo: «se il rifiuto dei giudizi di valore [...] impedisce di

chiamare le cose con il loro nome» e, al contrario, esprimere un giudizio di valore valido significa saper

distinguere, per esempio, tra «vera religione e impostura» - e dunque anche tra il vero e il falso profeta - forse ciò

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sorte, la reductio ad Hitlerum, sempre negata ma, negli effetti, adombrata, avvenne senza che il

diretto accusato potesse difendersi personalmente, essendo chiamato a rispondere di un

evento storico che si sarebbe prodotto ben oltre l'arco temporale della sua esistenza3. E,

infatti, la reductio si basava sulle conseguenze logiche e storiche, identificabili dalla "saggezza"

dei posteri, delle sue posizioni politiche e della sua scienza avalutativa, tanto che poté essere

mossa per interposta persona: Carl Schmitt come legittimo discepolo di Max Weber, secondo

il giudizio autorevole di Habermas4.

Se molto vi fu di ingeneroso in queste prese di posizione, è indubbio che molto vi fu anche

di controverso nelle posizioni politiche di Weber, così come nella sua sociologia politica.

Eppure la chiamata in correità per un dramma storico antecedente alla sua morte è di certo

eccessiva. Weber era un figlio del suo tempo e della sua "Germania", e non fu capace di

trascendere completamente questo suo posizionamento storico-sociale. Fu di certo più un

nazionalista che un liberale nell'accezione anglosassone del termine. Fu un patriota e un

fautore della politica di potenza per la Germania, non certo un apologeta di un

cosmopolitismo e di un universalismo astratti. Eppure, come ricostruzioni più recenti hanno

avuto il pregio di mettere in luce, seppe esercitare, al netto di questi limiti "tedeschi" e

"ottocenteschi", un giudizio più sobrio ed equilibrato di molti dei suoi contemporanei in molte

occasioni, anche durante gli anni turbolenti e tragici della prima guerra mondiale5. Riesce

difficile pensare che, ancora vivo, non sarebbe stato strenuo oppositore della meschinità e

della volgarità dell'ideologia nazista, senza peraltro dover ripudiare le sue posizioni politiche e

teoriche, certo problematiche, ma mai totalitarie.

Molto è stato scritto, in prospettiva più o meno polemica, sul Weber politico e teorico della

politica. Non sarebbe utile in questa sede alcun esercizio compilativo o alcuna presa di

posizione in una diatriba che, almeno dal contributo di David Beetham, può essere

approcciato in maniera più equilibrata rispetto agli eccessi iniziali6. Piuttosto, ciò che vorrei qui

significa per Strauss che una vera scienza sociale dovrebbe essere capace di dimostrare "oggettivamente" che, per

esempio, Gesù fu un vero profeta, e quindi il figlio di Dio fattosi uomo per la salvezza degli uomini?

Naturalmente questo Strauss non lo pensava, così come credo non pensasse davvero che fosse necessaria una

scienza sociale empirica per «parlare di crudeltà» una volta descritte con obiettività «le azioni manifeste che si

osservano in un campo di concentramento»; azioni peraltro psicologicamente supportate da un giudizio di valore

fondato su ciò che in quel momento ebbe la forza di imporsi come una "verità" scientifica empiricamente

fondata: l'inferiorità razziale dell'Ebreo. Altra questione è quella della restaurazione di una scienza aristotelica

«fondata su una conoscenza autentica dei veri fini»; ma in questo caso la durezza di Strauss contra Weber risulta

sproporzionata rispetto alla "colpa" del sociologo tedesco. Sui punti trattati cfr. L. STRAUSS, Diritto naturale e storia,

Il Melangolo, Genova 1990, pp. 44; 68; 69; 72, 60; 49; ed. or., L. STRAUSS, Natural Right and History, The University

of Chicago Press, Chicago 1953. 3 Strauss, ancora, avanza questa tesi quando può affermare che se si accompagnano le posizioni di Weber fino

alle loro «ultime concezioni, inevitabilmente giungeremo a un punto, oltre il quale la scena è oscurata dall'ombra

di Hitler». Cfr. L. STRAUSS, op. cit., p. 50. 4 Cfr. l'intervento di Habermas al Congresso del 1964 in O. STAMMER, op. cit., pp. 99-107. 5 Cfr. il seminale contributo di D. BEETHAM, La teoria politica di Max Weber, Il Mulino, Bologna 1989, ed. or. D.

BEETHAM, Max Weber and the Theory of Modern Politics, Allen & Unwin London 1974, in particolare pp. 194-202 e

la risposta di Eduard Baumgarten ad Aron al Cogresso del 1964, in O. STAMMER, op. cit., pp. 184-189. La

formazione di una logica del giudizio responsabile è il cuore dell'interesse politico weberiano nell'interpretazione

di W. HENNIS, Il problema Max Weber, Laterza, Roma-Bari 1991, in particolare pp. 253-261, ed or. W. HENNIS, Max

Webers Fragestellung, Mohr, Tübingen 1986. 6 Altro riferimento imprescindibile è l'ormai classico contributo di W. MOMMSEN, Max Weber e la politica

tedesca, 1890-1920, Il Mulino, Bologna 1993, ed. or. W. MOMMSEN, Max Weber und die deutsche Politik, 1890-1920,

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fare, è seguire un suggerimento che lo stesso Beetham avanza: quello di approfondire

un'articolazione spesso lasciata in ombra nell'analisi di Weber, e cioè il nesso tra la sua

"visione" della politica e la sua sociologia scientifica.

Se dunque ritorno, sommariamente, sulla canonizzazione weberiana che si cristallizzò al

Congresso tedesco di sociologia del 1964, lo faccio solo perché ciò mi permetterà di mostrare

- passando attraverso le analisi essenziali dei primi interpreti di Weber - la tesi del mio

contributo: la polemica sul Weber “politico” è parte della più generale problematica weberiana,

che la scienza odierna non ha risolto, ma che anzi in essa si rivela al massimo grado di

chiarezza. Approcciare dunque il tema del "realismo politico" weberiano nel contesto della sua

prospettiva sociologica mi permetterà di mostrare l'attualità e la profondità del "problema"

Weber; quanto, cioè, esso ci dice delle aporie della nostra scienza e della razionalità moderna

nella quale siamo ancora immersi. Solo se posto sotto questa luce si può valutare in maniera

più equilibrata il "realismo" di Weber, che è il risultato del tentativo di rispondere a una

questione decisiva che il suo tempo pareva mettere sempre più in ombra al crescere della forza

dello specialismo e del punto di vista empirico sulla realtà. Partiamo perciò dal Congresso del

1964 per mostrare i limiti del ritratto che in quell'occasione fu tratteggiato.

1. Il canone weberiano: XV Congresso Tedesco di Sociologia, 1964

Furono tre le interpretazioni di Weber che, al Congresso Tedesco di Sociologia,

canonizzarono la sua figura all'interno della storia delle scienze sociali: quella di sociologo

avalutativo delineata da Parsons, quella di apologeta della borghesia sviluppata da Marcuse e

quella di teorico della politica di potenza presentata da Aron.

Parsons impone la figura di Weber quale sociologo avalutativo che costruisce una teoria

generale delle scienze sociali come risposta ai limiti delle tre tradizioni culturali che facevano

da sfondo alla sua epoca: storicismo, marxismo e utilitarismo. Ponendo al centro della

sociologia sostanziale quella giuridica e, in particolare, il concetto di potere razionale-legale,

Parsons poté costruire la figura di un Weber evoluzionista per il quale il processo di

modernizzazione trovava compimento nel capitalismo razionale borghese. Superandole,

Weber annunciava la fine delle tre "ideologie" che si rifacevano alle correnti intellettuali del

suo tempo: conservatorismo, socialismo e liberalismo. Superandole, Weber costruì la

«sociologia scientifica» quale «erede più importante delle tre ideologie», non solo per la

superiore capacità di «capire il mondo sociale e culturale» ma anche per la possibilità che

questa aveva, su base razionale, «di partecipare alla formazione di tale mondo»7.

Si potrebbe dire che Parsons contribuì a canonizzare la figura di Weber come quella di un

sociologo "disinvolto" mentre, in realtà, fu un sociologo "tragico".

Alle stesse conclusioni nell'identificazione tematica, ma con un giudizio esattamente

opposto, arriva la lettura di Marcuse: «la razionalità formale diviene senza soluzione di

J.C.B. Mohr, Tübingen 1959. Come osserva Pombeni nell'introduzione all'edizione italiana, l'opera di Mommsen,

che pure presentò per prima la visione di Max Weber come teorico della politica di potenza nazionale, ebbe il

merito di «togliere Weber dalla galleria del museo dei fondatori della sociologia e della "scienza" democratica della

trasformazione sociale, per consegnarlo alla storia della cultura europea contemporanea». In W. MOMMSEN, op.

cit., p. 13. 7 T. PARSONS, Relazione ai valori e oggettività nelle scienze sociali, p. 84 in O. STAMMER, op. cit., pp. 55-86.

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continuità razionalità capitalistica»8 e, per questo motivo, Weber diventa un apologeta

dell'ideologia borghese, anziché essere il sociologo scientifico che apriva la strada alla fine delle

ideologie. Weber viene chiuso nella sua auto-identificazione borghese e la sua sociologia

diventa arma nelle mani della classe di appartenenza contro le possibilità di una «razionalità

storica qualitativamente diversa»9. L'accusa di Marcuse è dunque pesante, poiché rischia di

relegare Weber nella poco nobile schiera dei servitori della classe cui appartengono. Tuttavia,

lo stesso discorso potrebbe valere all'inverso, e cioè per i professionisti della rivoluzione10.

Non è dato sapere se per il rischio di ritorsione dell'accusa, o per riconoscimento della

profondità dello spirito, in ogni caso Marcuse chiude il suo intervento instillando nell'uditorio

il dubbio che, forse, già nel concetto weberiano di razionalità fosse contenuta l'ironia che lo

sconfessa: «e questa voi la chiamate ragione?»11.

Marcuse, pur non cancellando completamente l'elemento tragico dell'interpretazione

weberiana della modernità, sembra ridurlo a constatazione ironica senza conseguenze, poiché

spiega il proprium della problematica weberiana - l'interrogazione sulla razionalità moderna - nei

termini dei condizionamenti materiali del pensatore.

La definizione aroniana di Weber come politico di potenza rivela un'argomentazione che

sfiora il cuore della problematica del sociologo tedesco e, per questo motivo, merita una

trattazione un poco più estesa. Secondo Aron, Weber è «erede di Machiavelli» e

«contemporaneo di Nietzsche»12, poiché pone al centro del fenomeno politico la lotta per la

potenza; lotta che si vuole fin da subito nazionale. Al centro del suo interesse politico sta

dunque la potenza al servizio della nazione:

«Egli aveva deciso che il valore più alto, al quale avrebbe sottomesso tutto il resto nella

politica, il dio al quale avrebbe sottomesso tutto il resto nella politica, il dio (o il demone) al

quale aveva giurato fede, era la grandezza della Germania»13.

Eppure la grandezza della Germania, la potenza della nazione tedesca, era messa in

relazione alla cultura della Germania, e da fine della politica, diventa mezzo in vista di un fine

più alto: la potenza è «condizione della forza di diffusione della cultura»14. Nell'epoca dei

nazionalismi e degli imperialismi, Weber, realisticamente, riconosceva che la potenza era

mezzo indispensabile per salvaguardare ciò che di più nobile le culture nazionali avevano

prodotto. Di più: la potenza era condizione necessaria per la diffusione della cultura, ma non

era sufficiente a sviluppare cultura. Da qui l'apprezzamento delle comunità che rinunciano alla

politica di potenza per custodire e promuovere valori e virtù di differente natura e tuttavia

culturalmente significativi15.

8 H. MARCUSE, Industrializzazione e capitalismo, p. 204, in O. STAMMER, op. cit., pp. 199-225. 9 Ivi, p. 207. 10 Reinhard Bendix, nella sua risposta all'intervento di Marcuse, avanza sottilmente la possibilità di questa

ritorsione: «Se il concetto di ragione di Weber è "borghese", quale è la posizione sociale di una "critica della

reificazione e della disumanizzazione"?». Cfr. O. STAMMER, op. cit., p. 233. 11 H. MARCUSE, op. cit., p. 224, in O. STAMMER, op. cit.. 12 R. ARON, Max Weber e la politica di potenza, p. 133, in O. STAMMER, op. cit.; pp. 129-153. 13 Ivi, p. 136 14 Ibidem. 15 In maniera appropriata D. BEETHAM, op. cit., p. 187, nota come Aron ponga l'accento sulla "diffusione"

della cultura piuttosto che sulla "qualità" della cultura, come è invece in Weber. Cfr. anche, in ivi, pp. 169-183,

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Se dunque il nazionalismo di Weber era funzionale al fine più alto di conservare e

promuovere beni di cultura che sono l'eredità spirituale della nazione, che cosa deforma in

senso pessimistico e conflittuale lo sguardo di Weber sulla realtà? Non certo una differenza di

grado rispetto ad altri esponenti della tradizione realistica sulla politica, come in altri passi

dell'intervento Aron sembra suggerire. L'impossibilità di una tale interpretazione si percepisce

dalla continua oscillazione nello stesso intervento tra asserzioni che rivendicano la politica di

potenza come valore supremo e specificazioni che emendano la perentorietà di tali

affermazioni nel senso di una funzionalità della potenza rispetto alla diffusione della cultura

come valore supremo16. A rendere distorto in chiave pessimistica lo sguardo di Weber sulla

realtà non è la sua prospettiva di potenza sulla politica ma la sua «formula politeistica»17, che

trasforma la giusta impossibilità di decidere sulla superiorità della cultura tedesca rispetto a

quella francese18, in una eterna lotta tra ideali deificati, tra loro inconciliabili. Si chiede Aron:

«È giustificato partendo da un fatto reale - che l'idea francese e quella tedesca si

differenziano - arrivare all'idea che gli dei lotteranno tra loro fino alla fine dei tempi? Posso

solo supporre che Max Weber, posseduto dall'idea della lotta sempre e ovunque presente,

abbia tramutato una rivalità di potenza incontestabile ma anche passeggera, in una lotta tra

dei. Sotto certi aspetti le rivalità di potenza mettono in gioco anche il destino di uomini e

anime. Ma non è sempre così»19.

Ed è proprio così: per Weber la posta in gioco nella potenza della nazione era il destino

degli uomini; o meglio, delle qualità umane, espresse nei beni di cultura, che le forme politiche

nazionali, nel suo tempo, sole sembravano capaci di garantire nella loro sopravvivenza e nel

loro autonomo sviluppo. Per Weber la potenza della nazione era al sevizio delle generazioni

future, perché per esse fossero conservate le più alte possibilità umane che in varie epoche le

diverse forme dell'associazione umana avevano reso concrete possibilità storiche. La nazione

l'analisi della relazione tra il concetto di Kultur e quello di nazione in Weber, alla quale ho attinto per l'analisi

critica del contributo di Aron. 16 Cfr., per esempio, R. ARON, op. cit., p. 144, in O. STAMMER, op. cit.: «Anche se avesse saputo che la

Germania guglielmina non aveva bisogno delle colonie né per la sua espansione culturale, né per il benessere della

classe operaia, la sua convinzione non avrebbe cambiato in nulla: l'interesse per la potenza era uno scopo fine a

se stesso, e rimane vero che l'espansione di una cultura ha un certo rapporto con la potenza della nazione, di cui è

espressione». Mi pare davvero difficile sostenere la posizione di un Weber teorico della potenza come fine ultimo

della politica se si ritorna sulle parole – riportate anche da Aron - chiare e commoventi, del suo testamento

spirituale riguardanti il «tipo d'uomo» degno della politica: «L'aspirazione al potere è lo strumento con cui egli

inevitabilmente si trova a operare. L'"istinto di potenza" - come si usa dire - fa perciò in effetti parte delle sue

normali qualità. E tuttavia il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio là dove questa

ispirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale,

invece di porsi esclusivamente al servizio di una "causa". Vi sono, infatti, in ultima analisi soltanto due tipi di

peccato mortale sul terreno della politica: l'assenza di una causa e - spesso, ma non sempre, si tratta della stessa

cosa,- la mancanza di responsabilità». Cfr. M. WEBER, La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi,

Torino 2004, pp. 101; 102-103. 17 Cfr. R. ARON, op. cit., p. 145, in O. STAMMER, op. cit.. 18 Cfr. M. WEBER, La scienza come professione, cit., p. 33: «Come si possa fare per decidere "scientificamente" tra

il valore della cultura francese e di quella tedesca, io non lo so». 19 Cfr. R. ARON, op. cit., p. 147, in O. STAMMER, op. cit..

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era proposta di umanità per l'umanità20. Mi pare, a questo proposito, che abbia detto una

parola definitiva Hennis, con la sua ricerca sul Max Webers Fragestellung, quando dimostra che la

"nazione" era per Weber «"l'ordinamento sociale" più ampio che poteva impegnare ed

improntare la "personalità"»21. La nazione, con la sua politica di potenza, era il regime politico

che solo, agli occhi di Weber, garantiva la coltivazione e lo sviluppo delle qualità umane e degli

ideali a esse connessi. La nazione era la "polis" al di fuori della quale il cittadino non avrebbe

potuto vivere e realizzarsi come uomo22.

Che poi il suo relativismo etico trasformasse gli ideali in divinità, che tra loro si scontrano

irriducibilmente, appartiene alla storia tragica della modernità disincantata, che Weber ha

lucidamente colto, mettendo in chiaro le conseguenze possibili, estreme, di una tale

condizione, in polemica con gli spiriti irenici e disinvolti; ma non a Weber è imputabile

"l'inversione" del mito platonico della caverna e di ciò che ne consegue.

Possiamo perciò dire che la definizione di Aron è giusta per quanto riguarda ciò che Weber

condivideva con il milieu culturale e intellettuale del suo tempo. È, invece, ingiusta e fuorviante

per quanto riguarda lo specifico di Weber: ingiusta poiché lo riduce a teorico della politica di

potenza, quando invece Weber, fin dove fu capace di trascendere il suo tempo, pose la

potenza nazionale al servizio degli ideali di cultura e dello sviluppo dell'umanità. Fuorviante

perché svia dalla vera posta in gioco della sua problematica, che non è quella di aver teorizzato

il politeismo valoriale, ma di aver colto la dimensione tragica di una tale condizione e di aver

tentato di rispondervi, al fine di preservare ciò che maggiormente gli stava a cuore: il destino

spirituale dell'uomo che collega la propria personalità a valori e ideali ultimi.

Questa posta ha, dunque, più a che fare con una questione di verità che non con una di

potenza e questo elemento è chiaramente sottolineato dai primi interpreti di Weber, ai quali è

necessario tornare, per poi, sulla scorta delle loro analisi, riprendere le fila del "problema"

Weber là dove fu espresso con maggiore chiarezza: nella Prolusione di Friburgo.

2. I primi interpreti di Weber: Jaspers, Löwith, Landshut e la problematica antropologico-filosofica

in Weber

Realizzate prima della canonizzazione della sociologia weberiana23 avviata dalla lettura di

Parsons24 e prima dei quattro grandi rifiuti25 che impedirono ad altre tradizioni intellettuali di

20 Mutuo, liberamente, l'espressione da P. MANENT, Les métamorphoses de la cité. Essai sur la dynamique de

l’Occident, Flammarion, Paris 2010, p. 415. Dell'opera è in corso di pubblicazione per l'editore Rubbettino una

traduzione italiana curata da G. DE LIGIO. 21 Cfr. W. HENNIS, op. cit., p. 253, nota 65. 22 Questo è il senso della citazione di Eduard Baumgarten posta in esergo. 23 Cfr. L. SCAFF, Weber before Weberian Sociology, in «The British Journal of Sociology», n. 35, vol. 2, pp. 190-215. 24 Cfr. T. PARSONS, The Structure of Social Action, McGraw-Hill, New York 1937; trad. it. T. PARSONS, La

struttura dell'azione sociale, Il Mulino, Bologna 1962 e O. STAMMER, op. cit. 25 Cfr. W. HENNIS, op. cit.; Hennis si riferisce a L. STRAUSS, op. cit., a E. VOEGELIN, The New Science of Politics,

University of Chicago Press, Chicago 1952; a G. LUKÁCS, Die Zersto rung der Vernunft, Aufbau-Verlag, Berlin 1954,

trad. it. G. LUKÁCS, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959 e a H. MARCUSE (1967), op. cit., in O.

STAMMER, op. cit.. La critica di Voegelin delle Walgreen Foundation Lectures del 1951 fu concepita in un periodo

particolare della vita dell'autore e risente fortemente dell'influenza di Leo Strauss, che proprio due anni prima,

nelle stesse "lezioni", aveva sferrato il suo duro attacco a Weber. L'interpretazione di Voegelin non rispecchia

fedelmente l'ispirazione che egli trasse da Weber per sviluppare i suo lavori sullo "spirito" della modernità. Sul

punto cfr. l'analisi di A. SZAKOLCZAI, op. cit.. Per un resoconto più equilibrato e veritiero sul debito e la critica di

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confrontarsi senza pregiudizi sull'opera weberiana, esse offrono la possibilità di ricostruire

un'interpretazione di Weber quanto più possibile vicina alla sua intenzione profonda, allo

"spirito" della sua opera.

Karl Jaspers, allievo e amico di Weber, il 17 luglio 1920 pronunciò all'Università di

Heidelberg un discorso commemorativo per la sua scomparsa avvenuta un mese prima.

Questo discorso, che fu successivamente pubblicato e integrato dapprima da una riflessione su

Max Weber politico, scienziato, filosofo (1932) e, a distanza di quasi trent'anni, da una

Caratterizzazione conclusiva (1960-61), è particolarmente utile per ricostruire la dimensione

personale della figura intellettuale di Weber26.

Jaspers, in polemica con Rickert, definisce fin da subito Max Weber come un filosofo. Egli

fu però un filosofo in un senso che si discosta sostanzialmente dalla concezione moderna della

filosofia come costruzione sistematica di una visione del mondo, e si avvicina maggiormente

alla concezione classica del filosofo quale uomo che vive una «esistenza filosofica»27.

Un'esistenza cioè, come ha magistralmente mostrato Pierre Hadot, che viene condotta

filosoficamente nella sua interezza, come «maniera di vivere»28. Se, dunque, «il suo filosofare va

ricercato in ciò che egli fece»29, è in primo luogo alla richiesta che il suo demone interiore gli

imponeva, l'attività scientifica, che l'attenzione va rivolta.

Non appena ci si volge all'opera, sorge il problema della sua frammentarietà, della sua

natura incompiuta. Se, tuttavia, si è disposti ad accettare la natura classicamente filosofica di

Weber, si comprenderà allora che la non sistematicità della produzione weberiana non

rappresenta un limite, ma indica anzi la sua cifra distintiva. Jaspers definisce questa

frammentarietà dell'opera come «necessaria»30 poiché scaturiva dalla tensione universale della

personale «volontà della conoscenza»31 di Weber. La sua volontà della conoscenza, instancabile

e mai paga, prendeva la forma delle ricerche specifiche poiché egli riconosceva che «l'uomo

come essere finito», limitato, può sperare di «cogliere l'interezza dell'assoluto soltanto

attraverso la separazione più chiara possibile»32 dei fili che compongono l'ordito della realtà.

Esattamente nel duplice riconoscimento dell'impossibilità di realizzazione del compito e, al

contempo, dell'inevitabilità di una simile impresa per l'uomo della conoscenza - per il vero

filosofo - risiedono la nobile tragicità di Max Weber e la sua grandezza.

In una lettera indirizzata a Hannah Arendt nel novembre del 1966, Jaspers riporta una

conversazione che ebbe con Weber riguardo alla celebre conferenza Wissenschaft als Beruf. Da

giovane allievo, Jaspers pungolò Weber sulla mancanza, nel suo intervento, di considerazioni

Voegelin nei confronti di Weber cfr. La grandezza di Max Weber, ultima lezione del corso estivo del 1964

all'Università di Monaco, tradotta in italiano in E. VOEGELIN 2005, Hitler e i tedeschi, Medusa, Milano 2005, che

riprenderò nelle conclusioni di questo contributo. 26 I testi sono stati raccolti e tradotti in inglese in K. JASPERS, (ed. J. DREIJMANIS), Karl Jaspers on Max Weber,

Paragon House, New York 1989. La caratterizzazione del 1932 è stata tradotta in italiano in K. JASPERS, Max

Weber politico, scienziato, filosofo, Morano, Napoli 1969. 27 K. JASPERS, Karl Jaspers on Max Weber, cit., p. 3. 28 Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica. Einaudi, Torino 1988; ed. or. P. HADOT, Exercices spirituels et

philosophie antique, Etudes augustiniennes, Paris 1981 e P. HADOT, La filosofia come modo di vivere, Aragno, Torino

2008; ed. or. P. HADOT, il ie c e nie re de vivre, Albin Michel, Paris 2001. 29 K. JASPERS, Max Weber politico, scienziato, filosofo, cit., pp. 79-80. 30 K. JASPERS, Karl Jaspers on Max Weber, cit., p. 5. 31 Ivi, p. 19. 32 Ivi, p. 15.

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sostanziali riguardo al senso dell'erudizione, sul perché ci si debba impegnare anima e corpo

per essa. Dopo un primo silenzio, seguito da una seconda richiesta di chiarimento, Weber

rispose: «Per capire quanto si può sopportare, ma è meglio non parlare di simili questioni»33.

Emerge qui un secondo elemento centrale per identificare lo «spirito» di Weber e la sua

predisposizione profonda al lavoro intellettuale. Egli non si approcciava alla realtà che studiava

come a qualcosa di esterno, ma, ancora una volta filosoficamente, sentiva agire su di sé il

materiale che studiava, in modo così profondo che «nella sua grande anima viveva il destino

del suo tempo»34. Weber sentiva l'intima affinità tra il proprio destino personale - la propria

personalità - e il fato della sua epoca; conoscenza della sua anima e del fato del suo tempo

erano inseparabili. Proprio questa sensibilità, che vede nel particolare concreto la traccia

dell'assoluto, rese di portata universale la sua sociologia: cercando di ricostruire le condizioni

dell'esistenza che la realtà prepara per chi la abita, la sua sociologia è rivolta a comprendere

l'interezza dell'esistenza umana e le possibilità che ogni tempo dischiude o preclude all'uomo; a

individuare la sua posizione nel cosmo.

L'ultimo punto che dobbiamo acquisire dalle considerazioni di Jaspers è che la sua

sociologia, volta a ricostruire, con «una oggettività senza limiti», «l'intero complicato sistema di

connessioni causali»35 della realtà, ha il suo «asse centrale nel continuo riferimento all'uomo»36.

Karl Löwith, sulle orme di Jaspers, aiuta a meglio specificare il significato della portata

universale della sociologia weberiana e questa centratura antropologica. Nel saggio del 1932,

Max Weber e Karl Marx37, l'autore afferma che i due studiosi sono accomunati da uno stesso

approccio al capitalismo come «problema fondamentale» del loro tempo, poiché in esso è in

gioco l'uomo «nella sua totale umanità», che «si rivela nel "come" dei suoi rapporti sociali ed

economici»38. Löwith individua perciò al fondo della ricerca weberiana un'ispirazione

antropologica fondamentale che, al pari della convinzione di Jaspers, rende lo studioso tedesco

un filosofo-sociologo, la cui connotazione filosofica deriva da questo afflato antropologico

che innerva l'opera intera. Se nel capitalismo come oggetto di studio della disciplina

sociologica, come problema culturale fondamentale, era in gioco il destino dell'uomo, allora

«ciò che stimolava» la volontà della conoscenza weberiana «trascendeva completamente la

scienza come tale»39. Proprio perché questa centratura antropologica rappresenta il sostrato

che muove le ricerche particolari, essa non è mai esplicitata chiaramente in nessuna di esse,

poiché al contempo le trascende.

Se Jasper mostra il perché della similarità tra Weber e i grandi spiriti della filosofia greca,

Löwith spiega perché egli si sentisse distante dalla filosofia moderna che era diventata,

conformemente al processo di specializzazione, «soltanto «logica», «gnoseologia», comunque

«filosofia come disciplina speciale»40. La portata universale della frammentaria opera weberiana

risiede perciò nell'ispirazione antropologica che ricerca il significato culturale, per l'uomo, della

33 Cfr. L. KOHLER E H. SANER (eds.), Hannah Arendt/Karl Jaspers correspondence, 1926-1969, Harcourt Brace

Jovanovich, New York 1992, p. 661. 34 K. JASPERS, Karl Jaspers on Max Weber, cit., p. 9. 35 Ivi, p. 6. 36 K. JASPERS, Max Weber politico, scienziato, filosofo, cit., p. 49. 37 Traduzione italiana in K. LÖWITH, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994. 38 K. LÖWITH, Marx, Weber, Schmitt, cit., p. 3. 39 Ivi, p. 8. 40 Ivi, p. 10.

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condizione del presente in cui vive. Se Weber percepisce che nel capitalismo è in gioco il

destino dell'uomo tutto intero, ciò significa che nell'attività scientifica - il cui oggetto è il

capitalismo - è in gioco anche il destino del soggetto che realizza l'attività scientifica - l'uomo

tutto intero e non lo specialista. Questa particolare posizione nei confronti del mondo,

classicamente filosofica, impone una «saldatura» tra la facoltà propria del soggetto conoscente

- l'intelletto - e la facoltà propria dell'uomo che vuole - la sua «coscienza morale»41. Löwith

arriva, per una via un po' differente, a giustificare l'affermazione di Jaspers che nell'anima di

Weber viveva il destino del suo tempo; e non a caso cita espressamente questo passaggio della

commemorazione del 1920.

Mi pare sia proprio il riconoscimento dell'ispirazione antropologico-filosofica di Weber,

presente anche in Jaspers, che permette a Löwith di individuare una serie di elementi decisivi

dell'opera di Weber che saranno poi messi in ombra dalla canonizzazione del Weber scienziato

sociale: il senso dell'indagine storica come spiegazione del «modo in cui noi oggi siamo così

come siamo diventati»42; il comune sentire tra Weber e Nietzsche sul valore della conoscenza

della realtà «in quanto problema»43; il senso profondo dell'individualismo weberiano come effetto

del «disincanto» di ogni «oggettività»44; la razionalizzazione moderna come «fenomeno

specificatamente problematico»45; infine l'autonomizzazione dell'economico come effetto dello

svuotamento «del contenuto religioso del suo ethos»46.

Anche Siegfried Landshut, nel suo importante saggio del 1929, Critica della sociologia47, mette

in rilievo l'ispirazione antropologica e universale di Weber, mostrando una consonanza

davvero significativa tra i primi interpreti del suo pensiero. Pur inscrivendo tutta l'opera nel

quadro della sociologia come disciplina scientifica, anche Landshut precisa questo riferimento

in un modo che si avvicina molto alla connotazione filosofica di Jaspers e di Löwith. Egli

afferma che la sociologia weberiana non è diretta verso la costruzione sistematica e formale di

una classificazione del «materiale fattuale» da una posizione esterna, ma muove dall'esperienza

fondamentale della realtà come questione aperta e «dal proprio coinvolgimento nella sua

problematicità»48. Anche in questo caso, il movente fondamentale della volontà della

conoscenza weberiana è individuato nell'esperienza della partecipazione alla realtà del proprio

tempo da parte del soggetto conoscente, scienziato e uomo tutto intero. Questa esperienza di

partecipazione alla realtà è contraddistinta - e questo è l'elemento decisivo - da una natura

problematica, cioè da una costitutiva «opacità»49 del significato culturale del tempo che l'uomo

si trova ad abitare.

La scienza di Weber è perciò una sociologia storico-comparativa che cerca di ricostruire le

concrete connessioni di «motivazioni e significati» dai quali «dipende la possibilità della

41 Ibidem. 42 Ivi, p. 14. 43 Ivi, p. 16. 44 Ivi, p. 26. 45 Ivi, p. 27. 46 Ivi, pp. 37-38. 47 Il saggio è stato tradotto in italiano in S. LANDSHUT, (a cura di E. FIORLETTA), Sulle tracce del politico, Pensa

Multimedia, Lecce 2009, pp. 153-295; ed. or. S. LANDSHUT, Kritik der Soziologie, Duncker & Humblot, Mu nchen

und Leipzig 1929. 48 S. LANDSHUT, op. cit., p. 177. 49 Ivi, p. 157.

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formazione»50 dei fenomeni del presente. Poiché le ricerche particolari muovono

dall'esperienza della partecipazione alla realtà, che è costitutivamente problematica nel suo

significato culturale per gli uomini che la abitano, Landshut può identificare la finalità della

sociologia di Weber nella volontà di «comprendere la specifica connessione delle motivazioni

che determinò il destino del suo tempo»51.

3. Il "problema" Weber

Sulla scorta dei contributi di Jaspers, Löwith e Landshut è possibile fare luce sulla

specificità del realismo weberiano. Esso si sviluppa in risposta alla questione antropologico-

filosofica che, sin dagli esordi, Weber vedeva emergere dalla particolare configurazione del

tempo che si trovava ad abitare, e che andava a scontrarsi con la direzione che le scienze del

suo tempo avevano preso. Vorrei allora mostrare la genesi del realismo weberiano come

risposta a questa problematica messa in luce dai primi interpreti di Weber52.

Essa emerge - anzi esplode -, per la prima volta solennemente, nella Prolusione di Friburgo

del 1895, quando Weber, chiamato a presentare la sua prospettiva accademica, prese posizione

contro una diffusa concezione della politica economica che impediva di interrogarsi sul

destino spirituale dell'umanità del tempo53. L'affermazione "scandalosa" è quella che titola il

mio intervento:

«Non come si troveranno gli uomini del futuro, bensì come saranno è la questione che ci

spinge a pensare al di là del vincolo della nostra generazione e che in verità sta anche alla

base di ogni lavoro di politica economica. Noi non vorremmo alimentare il benessere

degli uomini, quanto quelle qualità alle quali associamo la sensazione che creino la

grandezza umana e la nobiltà della nostra natura»54.

Il contrasto tra il verbo «trovarsi» (sich befinden) e il verbo «essere» (sein) mostra la particolare

inclinazione conoscitiva di Weber: era il destino spirituale dell'uomo, e non quello materiale,

l'interesse ultimo - inattuale - della scienza sociale weberiana. Come ha giustamente

sottolineato Hennis, tutta la produzione di Weber di quegli anni relativa alla condizione dei

lavoratori agricoli a est dell'Elba, nel possente passaggio «dal patriarcalismo al capitalismo»55,

era intonata su Nietzsche e sulla questione dell'ultimo uomo che ha inventato la felicità. Per

Weber sono le qualità umane le caratteristiche in riferimento alle quali deve essere saggiato il

50 Ivi, p. 161. 51 Ivi, p. 204, nota 90. 52 In questa prospettiva si inscrivono tre importanti contributi che hanno riproposto il "problema" Weber

attraverso una rilettura da nuovo della sua opera e della sua biografia. Cfr. W. HENNIS, op. cit.; L. SCAFF, Fleeing the

Iron Cage: Culture, Politics, and Modernity in the Thought of Max Weber, University of California Press, Berkley 1989 e

A. SZAKOLCZAI, Max Weber and Michel Foucault: Parallel Life-work, Routledge, London-New York 1998. 53 Cfr. D. BEETHAM, op. cit., p. 31: «Una delle caratteristiche del metodo weberiano era quella di trasformare in

questioni politiche argomenti che per altri erano esclusivamente di natura sociale». 54 M. WEBER, Scritti politici, Donzelli, Roma 1998, p. 16. 55 Cfr. M. RIESEBRODT, From Patriarchalism to Capitalism: The Theoretical Context of Max Weber's Agrarian Studies

(1892–93), in «Economy and Society», 15 (4), pp. 476-502.

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portato di mutamento dei processi economico-sociali. Esse non hanno evidentemente a che

fare con «la questione della forchetta e del coltello»56:

«Vogliamo, per quel che è in nostro potere, conformare la condizione esteriore non in

modo tale che gli uomini si sentano a proprio agio, ma in modo tale che sotto la

pressione dell'inevitabile lotta per l'esistenza si conservi ciò che di meglio vi è in loro»57.

È certo difficile pensare che, nel modellare queste conclusioni «secche» e «brutali», Weber non

avesse preso spunto dall'apertura della seconda considerazione inattuale, Sull'utilità e il danno

della storia per la vita, dove il contrasto è appunto tra l'umanità dell'uomo e la felicità dell'animale

che «salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare»58. Ancor più evidente risulta la

diretta ispirazione nietzscheana se si pensa che il carattere specifico dell'ultimo uomo è quello

di aver «inventato la felicità»: «Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte; salva

restando la salute»59. Riferimento all'ultimo uomo che, non a caso, ritornerà nell'ultima pagina

de L'Etica protestante, lavoro che chiude la prima fase della ricerca weberiana relativa al tema del

destino spirituale dell'umanità sotto il capitalismo meccanizzato60.

Il tema è quello di Marx, affrontato però attraverso la prospettiva di Nietzsche. Il problema

era appunto che, nelle scienze sociali del suo tempo, e nella politica economica che si trovava a

insegnare, interessarsi del destino spirituale, degli effetti sulle qualità umane (Qualität der

Menschen) degli ordinamenti sociali suonava inattuale61. Questo è il problema di fondo in cui

rimarrà intrappolato, anche psichicamente, tutto il primo Weber: come rimanere

scientificamente rigoroso ma non irrilevante rispetto a tale questione ultima (opzione

positivista); come porre tale questione ultima senza risolverla nel normativismo materialista

(opzione marxista).

56 M. WEBER, Dalla terra alla fabbrica. Scritti sui lavoratori agricoli e lo Stato nazionale (1892-1897), Laterza, Roma-

Bari 2005, p. 118. 57 Ivi, p. 117. 58 F. NIETZSCHE, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 200718, p. 6. 59 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 200728, p. 12. 60 Cfr. M. WEBER, Sociologia della religione, I vol., Edizioni di Comunità, Torino 2002, pp. 185-186. Per una

trattazione del “problema” Weber relativamente al tema del capitalismo mi permetto di rimandare a C. SILLA, Per

una genealogia weberiana del capitalismo di consumo. Il caso del marketing negli Stati Uniti (1890-1930), in «Studi di

Sociologia», 2, 2013, pp. 141–162. Ho provato a sviluppare tema e metodo di Weber in C. SILLA, Marketing e

desiderio. Una genealogia del capitalismo di consumo, Carocci, Roma 2013. 61 Cfr. W. HENNIS, op. cit., pp. 248; 249: «Chi può negare che la civiltà europea ha potuto assumere la sua

caratteristica forma intimamente pacifica soltanto grazie a quell'arte di "espungere", neutralizzare, depoliticizzare.

Ma tutto questo costituiva per Weber un problema!»; era per lui problematico poiché le «esigenze del presente»

non erano ciò che gli stava sommamente a cuore. Quanto Weber trovasse problematica l'apparenza dell'evidenza

del punto di vista liberare sulla diffusione del benessere, lo esplicita in una lettera del 1897 diretta a Sombart: «Il

suo "ideale" puramente tecnologico, malgrado tutte le riserve, non è tuttavia un ideale se Lei non intende questo

concetto nel senso ampio in cui si dice per es. che anche un cesso ben costruito è un "cesso ideale" [...]. Oggi lei è

approdato al vecchio ideale liberale del 'massimo benessere per il maggior numero possibile', coltivando

l'ottimistica illusione di avere con ciò cancellato l'eteronomia dell'ideale. Mi rifiuto di credere che questa sia la sua

ultima parola». Cfr. ivi, p. 237.

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4. Il realismo come scienza di realtà e l'avalutatività come risposta alla tragicità del moderno

La risposta a questo dilemma troverà risoluzione prima nella «scienza di realtà» del saggio

L'«Oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) e, più compiutamente, nel

saggio Il senso della «avalutatività» delle scienze sociologiche ed economiche (1917).

Nel primo saggio metodologico la questione è posta nei termini del superamento della

visione dell'economia politica come «"scienza etica" su base empirica»; che cioè fondava

giudizi di valore oggettivamente validi facendoli derivare da una «specifica "concezione

economica del mondo"»62. Si scambiava «l'apparenza dell'evidenza» - cioè la generale

concordia nell'identificare il fine ultimo della politica economica e sociale nel miglioramento

del benessere materiale degli uomini - con la verità. Ecco perché Weber si era sentito inattuale,

poiché il valore che dirigeva la sua volontà della conoscenza era "oggettivamente" estromesso

dai problemi supremi della scienza cui partecipava: il suo valore era la nobiltà (spirituale)

dell'uomo. Il punto è decisivo e merita questa lunga citazione:

«[...] quando riflettiamo in maniera specifica sui problemi pratici della politica economica

e sociale (nel senso corrente del termine), risulta chiaro che vi sono numerose, anzi

innumerevoli questioni di carattere pratico, per la cui discussione si muove, in generale

accordo, da certi scopi assunti come di per sé evidenti - si pensi ad esempio ai crediti in

caso di bisogno, ai compiti concreti dell'igiene sociale, all'assistenza dei poveri, [...] a

gran parte della legislazione protettiva dei lavoratori - e che di questi scopi si discute,

almeno in apparenza, solo in riferimento ai mezzi adatti per conseguirli. Ma anche se si

scambiasse qui l'apparenza dell'evidenza con la verità - ciò che la scienza non potrebbe

mai fare impunemente - [...] dovremmo tuttavia osservare che anche questa apparenza di

evidenza dei criteri regolativi di valore svanisce non appena passiamo dai problemi

concreti dei servizi di polizia e di assistenza alle questioni della politica economica e

sociale. [...] Di certo c'è, in ogni circostanza, soltanto una cosa, che quanto più

"generale" è il problema del quale si tratta, vale a dire quanto maggiore è la portata del

suo significato culturale, tanto meno esso è suscettibile di avere una risposta

univocamente determinata in base al materiale del sapere empirico, e di conseguenza

tanto maggiore rilievo hanno gli assiomi ultimi, altamente personali, della fede e delle

idee di valore"63.

Questo è il punto decisivo dell'operazione della scienza empirica moderna, che scambia

l'apparenza dell'evidenza con la verità.

L'opzione metodologica che consente di non cadere in tale errore è quella che articola in

maniera feconda significatività personale e oggettività scientifica nella trattazione dei temi della

politica economica e sociale. La domanda è: come si possono trattare scientificamente i giudizi

di valore? Weber individua tre possibili considerazioni scientifiche dei giudizi di valore.

Innanzitutto, essi posso essere analizzati dal punto di vista dell'appropriatezza dei mezzi

rispetto allo scopo; poi è possibile individuare le conseguenze che deriverebbero dall'utilizzo

dei mezzi appropriati e dal raggiungimento dello scopo prefisso; infine, è possibile far

emergere e chiarire logicamente le idee che stanno a fondamento dei giudizi di valore stessi e

degli scopi ad essi inerenti. Questa terza possibilità di trattazione oggettiva dei giudizi di valore

62 M. WEBER, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 151. 63 Ivi, pp. 154-155.

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si congiunge alla significatività personale della trattazione scientifica: attraverso questa

operazione di chiarificazione la scienza fornisce, all'«uomo che agisce volontariamente», il

materiale per l'auto-riflessione «su quegli assiomi ultimi che stanno a base del contenuto del

suo volere»64.

Se i primi due sono obiettivi di legittima pertinenza della scienza empirica, questo terzo non

lo è, «almeno parzialmente»; esso ricade, infatti, nell'ambito della «filosofia sociale». Facciamo

però attenzione a due ulteriori specificazioni che qualificano il ragionamento weberiano sul

punto: per prima cosa l'autore precisa che tale suddivisione del sapere è attribuita alla

"consuetudine" in uso nella divisione del lavoro scientifico del suo tempo; inoltre, così decisivi

sono stati idee ed ideali nello «sviluppo della vita sociale», che non ci si può sottrarre dal

compito di trattare scientificamente i giudizi di valore e neppure di «"valutarli" criticamente»,

pur se questo compito ricade, «almeno parzialmente»65, fuori dalla scienza empirica.

Il punto é chiarito definitivamente nel secondo saggio metodologico, laddove, almeno nella

prima versione, Weber si richiama esplicitamente alla Prolusione di più di vent'anni precedente,

e in cui riconnette esplicitamente significatività e oggettività, chiarendo la relazione tra

Wertfreiheit e Wertbeziehung:

«Soltanto una cosa è fuor di dubbio: che ogni ordinamento, quale che sia, delle relazioni

sociali deve in ultima analisi, [se si vuole valutarlo,] essere sempre esaminato in

riferimento al tipo umano a cui esso, attraverso una selezione (di motivi) esterna o

interna, offre le migliori possibilità per diventare predominante. Altrimenti l'indagine

empirica non è realmente esaustiva, e neppure c'è la base di fatto necessaria per una

valutazione, sia essa consapevolmente soggettiva o pretenda invece una validità

oggettiva. Proprio questo voleva esprimere a suo tempo la mia prolusione accademica, con la quale non

posso d'altra parte più identificarmi in molti punti importanti»66.

La valutazione degli ideali che definiscono il tipo d'uomo predominante nel proprio tempo è

questione fondamentale e, al contempo, non può essere demandata all'oggettività scientifica,

pena l'errore di scambiare l'apparenza dell'evidenza con la verità. Non è attraverso la scienza

empirica che si può svelare la verità degli assiomi ultimi che ci muovono; a questa è

demandato il compito, pur fondamentale, di chiarire il loro significato, fornendo il materiale

per la scelta, sempre e irriducibilmente personale. Potremmo dire che Weber vuole salvare le

cose ultime più importanti - la ricerca della verità di quei valori ultimi che ci muovono -,

portandole fuori dalla scienza empirica moderna fin dentro la responsabilità della persona67.

Molto esplicito fu, in questo senso, nel suo intervento alla discussione del Verein für

Sozialpolitik sul tema della "produttività dell'economia" nel 1909:

«Il motivo per cui in ogni occasione mi scaglio in modo tanto aspro, con una certa

64 Ivi, p. 153. 65 Ivi, p. 153. Nel saggio Roscher e Knies e i problemi logici dell'economia politica di indirizzo storico, ancora più

indicativamente, la consueta divisione del lavoro scientifico è riferita a cause «spesso "accidentali»"». Cfr. ivi, p.

12. 66 Ivi, p. 574. 67 Così Weber in un altro punto del saggio: «[Questa posizione] l[a] si può sostenere, per esempio, non già

perché si desideri che tutti gli uomini diventino il più possibile, nel loro senso intimo, degli "specialisti"; ma,

proprio al contrario, perché si desidera vedere le decisioni di vita ultime e più personali, che un uomo deve

prendere da sé, non confuse con una formazione specialistica» Cfr. Ivi, p. 547.

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pedanteria da parte mia, contro la commistione del dover essere con l'essere, non consiste

nel fatto che io sottovaluti le questioni relative al dover essere, ma è, tutt'al contrario, che

non posso sopportare quando problemi di importanza tale da smuovere il mondo, problemi

della più grande portata ideale, in certo senso i problemi supremi che possono animare il

petto di un uomo, vengono trasformati qui in una questione di "produttività" tecnico-

economica e fatti oggetto di discussione di una disciplina specifica qual è l'economia

politica»68.

Ecco: questo era il problema di Weber, sottrarre alle «fredde mani cadaveriche»69 del

razionalismo scientifico la decisione sulle questioni ultime relative al senso dell'esistenza e ai

beni da conservare e promuovere nella vita comune. Se tali questioni vengono lasciate alla

scienza specialistica, questa le dissolve poiché non può fare altro che abbassarle a quel livello

empirico che è il solo al quale può accedere oggettivamente e, così facendo, trasforma

l’apparenza dell’evidenza empirica in verità. L'intento di Weber era dunque di salvare l'uomo

che «ha mangiato dall'albero della conoscenza»70 dalla possibilità che un giorno il mondo si

sarebbe popolato di padroni dell'oggettività scientifica (per i quali esiste solo ciò che si può

rilevare empiricamente) titolari della parola ultima di saggezza sul mondo.

5. Conclusione: la grandezza di Max Weber

Non si può comprendere appieno la questione di Weber senza comprendere la natura di

costruzione sociale che egli vedeva dietro alla razionalità moderna. Mi pare lo abbia detto con

grande chiarezza Löwith: la razionalità moderna produce una disgiunzione tra l'uomo come

parte della realtà e la realtà stessa71. L'uomo moderno staccandosi dalla realtà, si innalza a

signore della realtà e, in questo modo, «costruisce» il significato della realtà, lo pone con un

atto di signoria. Ecco perché si può pensare "la realtà come costruzione sociale".

Per questo Eric Voegelin, uno dei più fedeli eredi spirituali di Weber, può al contempo dire

che la ricerca della verità, nella modernità più che mai, «non può essere condotta senza

diagnosticare i modi dell'esistere nella non-verità» e che il compito più urgente del nostro

tempo sia quello di «ristabilire la realtà»72 nella sua interezza. Per questo afferma ancora, «non è

possibile un ritorno a Weber, nemmeno al di là di Max Weber»73, poiché Weber aveva già

compiuto l'esito logico della scienza moderna, e l'aveva virilmente assunto sulle sue spalle,

provando a costruire una scienza sociale empirica che, sottraendolo a se stessa, salvasse ciò

che di più importante vi è nell'uomo. Non a caso Jaspers disse che, se nel secolo era esistito un

vero filosofo, quello era soltanto Max Weber74. Weber era filosofo poiché visse un'esistenza

filosofica, assumendo su di sé - secondo una rigorosa corrispondenza tra pensiero e vita -

68 Cfr. ivi, p. 444. 69 Cfr. M. WEBER, Sociologia della religione, II vol., Edizioni di Comunità, Torino 2002, p. 340. 70 M. WEBER, Saggi sul metodo, cit., p. 156. 71 Cfr. K. Löwith, op.cit., pp. 23-24, nota 23. 72 La prima affermazione è in E. VOEGELIN, Ordine storia, I vol., Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 10, ed. or. E.

VOEGELIN, Order and History: Israel and Revelation, Louisiana State University Press, Baton Rouge 1956. La seconda

è in E. VOEGELIN, Hitler e i tedeschi, Edizioni Medusa, Milano 2005, p. 242, ed. or. E. VOEGELIN, Hitler and the

Germans, University of Missouri Press, Columbia 1999. 73 Ibidem. 74 Cfr. K. JASPERS, Karl Jaspers on Max Weber, cit., p. 3.

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l'esito nichilistico della scienza moderna, per salvare la possibilità della verità rimettendola alla

responsabilità dell'uomo che ha trovato e obbedisce «al demone che tiene i fili della sua vita»75.

Avendo compreso il potenziale tirannico della scienza empirica moderna - della sua

"oggettività" - provò a delimitarne precisamente possibilità e scopo, assumendo su di sé il peso

insopportabile della vocazione verso una professione incapace di rispondere alle questioni

veramente importanti per l'uomo. Volendo mostrarci, con il suo esempio, quale potesse essere

l'unica postura possibile (solida, sobria e intellettualmente onesta) dentro il paradosso della

razionalità moderna, Weber ci ha sopravvalutati. Noi abbiamo risolto il paradosso abbassando

quelle questioni ultime al livello al quale la scienza empirica è in grado di rispondervi. Così

facendo non solo non vi abbiamo risposto, ma fatichiamo a riconoscere l'esistenza di quel

livello più alto che è il solo al quale si possano porre quelle domande ultime senza dissolverle.

Abbiamo, appunto, perso la realtà nella sua interezza. Si potrebbe dire che abbiamo

trasformando l'esperienza in "esperimento" e, attraverso l'illusione del controllo, ci siamo

preclusi ogni accesso a quel livello della realtà non empiricamente rilevabile, eppure veramente

umano. Parafrasando Schmitt: nella scienza importa l'inconfutabilità, non la verità. Eppure

all'uomo importa la verità, non l'inconfutabilità76.

Certo non tenterò alcuna soluzione rispetto al problema capitale di questa irrazionalità della

razionalità moderna, che dice tutto sui mezzi ma nulla può dire sui fini, se non abbassandoli a

ciò che si può dimostrare empiricamente. Non dirò ovviamente nulla neppure

sull'affermazione di Voegelin relativa alla necessità di restaurare la realtà (perduta nella sua

interezza). Ciò che però mi pare si possa dire è che dalla problematica weberiana emerga quasi

necessariamente un compito che mi pare sia rimasto disatteso nei diversi canoni disciplinari

che questa grande figura ha ispirato: il compito di riconsiderare un'articolazione virtuosa tra

scienza empirica che si occupa dei mezzi, delle causazioni adeguate, e filosofia che si interroga

sui fini, sui motivi e le ragioni dell'agire. Direi che, se per Weber così come per il nostro tempo

non sembra possibile restaurare la soluzione - classica, aristotelica - della filosofia politica

come scienza politica, è certo che una prospettiva davvero realista sulla politica e sulla realtà

non possa fare a meno della guida della filosofia, oltre che della strumentazione della scienza

empirica. Così come ogni scienza empirica non può fare a meno dell'interrogazione filosofica

a patto di non essere disposta a una perdita, questa volta disinvolta e non tragica, della realtà.

E allora davvero l'uomo di scienza, avendo risolto il "problema" Weber, sarebbe null'altro che

il signorotto soddisfatto delle sue impensate certezze e delle sue piccole vogliuzze; delle sue

apparenze di evidenza:

«Allora certo per gli «ultimi uomini» di questo sviluppo culturale potrebbe diventare

verità il principio: «specialisti senza spirito, gaudenti senza cuore – questo nulla si

immagina di essere salito ad un grado non mai prima raggiunto di umanità»77.

Così pure, nella sua critica al «mero "politico della potenza"», Weber aveva messo in guardia

rispetto ai rischi umani di una tale disgiunzione tra "agire" e "senso", tra fine e mezzo, in

politica:

75 Cfr. M. WEBER, La scienza come professione, op. cit., p. 44. 76 Cfr. La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, p. 73: «Infatti qui importa la verità, non l'inconfutabilità»,

in C. SCHMITT, Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffré, Milano 1986, pp. 71-85. 77 Cfr. M. WEBER, Sociologia della religione, I vol., cit., pp. 185-186.

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«Dell'improvviso crollo interiore di alcuni tipici rappresentanti di questo principio abbiamo

potuto constatare quale intima debolezza e impotenza si nasconda dietro questi gesti

boriosi, ma del tutto vuoti. Esso è il prodotto di un'indifferenza assai misera e superficiale di

fronte al senso dell'agire umano, la quale non ha alcun tipo di rapporto con la coscienza del

tragico a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l'agire politico»78.

Il rifiuto di Weber dell'indifferenza di fronte al senso dell'agire umano può, in conclusione,

permetterci di provare a dubitare del suo presunto nichilismo, rispetto a quanto molti, invece,

hanno fatto. La seguente domanda non sembra irragionevole: potrebbe forse essere che il

riferimento al "demone" che tira i fili della propria vita della fine di La scienza come professione sia

più vicino all’ironia socratica, anziché, come pare a un primo sguardo, alla tragicità

nietzscheana? Posto certamente che si sia colto, come Weber non stanca di suggerire, cosa

significhi adempiere al proprio compito quotidiano nell'attesa, pur senza speranza, di una

risposta sull'arrivo del mattino da parte della sentinella in Edom.

Lasciamo la ricerca dell'oggettività alla "razionalità" scientifica e la ricerca della verità alla

"ragione" e alla "fede" dell'uomo. Facciamolo preservando le forme del "comune", che sole

possono dare sostanza alla realizzazione delle più alte qualità umane e degli ideali ad esse

connessi, senza lasciarci tentare da un cosmopolitismo astratto che appiana ogni differenza. E

allora forse davvero potremmo immaginare Max Weber affermare: «Non voglio e non posso

vivere che qui; qui voglio adempiere il mio compito quotidiano, come si addice a una

personalità matura che conduce responsabilmente la sua vita in riferimento a ideali ultimi,

nell'attesa che passi la notte e il mattino arrivi, anche per noi».

78 Cfr. M. WEBER, La scienza come professione, cit., p. 103.