Filologia dei testi a stampa, Cagliari, CUEC, 2008 [pdf integrale del volume]
L’iconografia del portale del San Bacchisio di Bolòtana (Nuoro) e la danza delle spade in...
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GRAZIANO FOIS – CARLO VALDAMERI
L’iconografia del portale del San Bacchisio di Bolòtana (Nuoro) e la danza delle spade in Sardegna
CAGLIARI
pro manuscripto
2015
Parte I. La danza
Parlare di danza delle spade in Sardegna sarebbe quasi un’eresia, più di
quanto possa sembrare, soprattutto per i sardi stessi. Parlare di danza delle spade
in Sardegna è lavorare con pietroline per costruire – non diciamo una casa – ma
almeno le mura. Eppure quelle pietroline esistono, ci sono delle testimonianze che
non sono ancora state analizzate con attenzione e connesse fra loro.
Bolotana è un centro abitato della regione del Màrghine. La sua esistenza è
attestata fin dal medioevo, ma la presenza, nell’adiacente catena montuosa, di un
elevato numero di nuraghes (circa 200), testimonia un’antropizzazione
preistorica. La villa apparteneva alla giurisidizione ecclesiastica della diocesi di
Ottana e in seguito, con la riforma delle diocesi sarde, fece parte di quella di
Alghero. Amministrativamente, nel periodo da noi preso in cosiderazione (XVI
sec.), faceva parte della contea di Oliva, feudo creato dal re d’Aragona Alfonso V
e concesso a Bernardo Centelles nel febbraio 1421, pochi anni dopo la fine del
settantennale conflitto tra i catalano-aragonesi e i sardi guidati dai giudici
d’Arborea1. Nelle immediate vicinanze del paese esiste una chiesa dedicata a San
Bacchisio la quale, nella sua forma attuale risale al XVI secolo e che venne
riedificata, presumibilmente su un edificio di culto romanico, soprattutto con le
donazioni della nobildonna Anna Fara2 e degli stessi fedeli.
1 Sulla contea vedi F. FLORIS, Feudi e feudatari in Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1996, vol. I, pp. 159-162. 2 IOANNIS FRANCISCI FARAE, Opera 1. In Sardiniae Chrographiam-Bibliotheca, a cura di E. Cadoni, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1992, p. 180: “[...] et Bolotenae ubi templum est ab Anna Fara conditum et sancti Baquidis
cultui sacratum, miraculis et Sardorum frequentia clarum”. Della donna si sa poco o nulla. Era forse imparentata col succitato Giovanni Francesco Fara, umanista sardo del XVI secolo, ma, nel caso lo fosse, non si sa il grado di parentela. Lo storico seicentesco Francisco De Vico riteneva che la donna fosse originaria di Sassari e aggiungeva inoltre che la chiesa fu edificata sulle rovine di una precedente, con l’ausilio anche delle elemosine dei fedeli: “... y Bolotene donde está el insigne Templo que Ana Fara de la ciudad de Torres [oggi Sassari], muger de singular piedad y devocion fabricó y dotó dedicandole al gloriosissimo martir S. Bacco, que aquí llamamos Baquis, compañero en el martirio de San Sergio, y aunque la iglesia celebra la fiesta
deste Santo a 7. de Otubre, que fue el dia de su martirio, pero la fiesta principal que en este Templo se haze
es por el mes de Mayo, en el qual su celebración es mui señalada, por acudir de todas las partes del Reino a
esta santa Iglesia multitud de gente por los muchos milagros que por intercession deste Santo ha obrado, y
obra Dios nuesto Señor cada die en los que en sus necessidades y peligros hazen voto de visitar su santo
Templo, cuya devocion se ha acrecentado con el nuevo Templo que sobre el antigo se ha fabricado de las
limosnas de los fieles que acuden a la devocion desta santa Iglesia, la qual consagró el año 1600 [in realtà
2
Nel paese San Bacchisio viene festeggiato due volte l’anno. La prima volta,
nei giorni 8, 9, 10 maggio3; questa data è evidentemente legata ai culti primaverili
di rinascita della vita e dei campi, tant’è che il giorno 11 si festeggia sant’Isidoro,
santo il cui culto è d’origine spagnola, dichiaratamente “nominato” protettore
delle messi. La compresenza dei due santi è indicativa della coesistenza di due
culture agiografiche, quella sarda la cui popolazione ha continuato a venerare un
antico santo, il cui culto risale ai bizantini (e forse è anche precedente4), e quella
spagnola, il cui clero, a partire dal XVII secolo, cercò di anteporre, quasi
dappertutto con successo (ma non a Bolotana) ai vari santi locali protettori delle
messi, il santo spagnolo55. La costruzione della chiesa, iniziata intorno al 1524,
terminò, dopo varie e lunghe vicende costruttive6, verso la fine del XVI secolo e
la chiesa venne solennemente consacrata il 10 maggio 1598, come recita
un’epigrafe sita nella controfacciata7. Le varie fasi costruttive non sono
cronologizzabili con precisione per assenza di testimonianze scritte. Ma, a
qualsiasi punto fosse la costruzione della chiesa, una bolla del papa Paolo III, del
nel 1598] don Andres Bacallar, siendo Obispo del Alguer, que despues fue Arçobispo Turritano”. Cfr. F. DE
VICO, Historia general de la isla y Reyno de Sardeña, Barcelona, por Lorenço Déu delante el Palacio del Rey, 1639, Sexta parte, capitulo 12, p. 47v. 3 L. BUSSA, “Ciclo delle feste religiose e reviviscenza del folklore a Bolotana”, Quaderni Bolotanesi, n. 21, 1995, pp. 303-340, ivi p. 319. 4 Ci sembra sia stato dimostrato in maniera convincente da Roberto CAPRARA, nel suo recente e ottimo studio, I beni
culturali della chiesa di Bolotana, Bolotana, Edizioni della Parrocchia di San Pietro, 2002, pp. 118-120. 5 Sul culto di sant’Isidoro in Sardegna, vedi C. PILLAI, Il tempo dei santi, Cagliari, AM&D, 1994, pp. 140-149. In Sardegna, S. Bacchisio è venerato e festeggiato, oltre che a Bolotana, a Locèri (10 maggio), a Telti e Tempio (seconda domenica di maggio), a Onanì (29 maggio). Sempre e comunque a maggio. Una chiesa dedicata al santo esisteva nel XVIII secolo a Ozieri. Cfr. I. BUSSA, “La chiesa di S. Bachisio: notizie storiche e ipotesi sul culto del santo”, Quaderni
Bolotanesi, n. 1, 1975 [2a edizione riveduta e corretta 1984], pp. 21-29, ivi p. 21. 6 Sulle vicende costruttive vedi la corretta e puntuale analisi di CAPRARA, I beni culturali, cit., pp. 95-97 e p. 102. Ulteriore tassello al quadro delineato dallo studioso proviene dallo stemma dei Centelles, scolpito nel capitello dell’arco che si apre sull’altare, e sorretto da due angeli. Lo stemma testimonia l’esistenza della casata alla guida della contea, ma ci fa anche dedurre che l’altare è con tutta probabilità non posteriore al 1569, poiché in quell’anno la discendenza maschile dei Centelles si estinse e sorse una causa tra Maddalena Centelles, discendente del primo feudatario Bernardo – e sposata con Carlo Borgia – e un lontano parente, Giovanni Centelles. Durante la lite giudiziaria il feudo venne posto sotto sequestro da parte dal Re di Castiglia Filippo II. La lite venne definita con sentenza del 1591, sentenza che dava ragione a Maddalena Centelles, la quale donò il feudo al figlio Francesco Tommaso Borgia. Quindi dal 1591 la casata che reggeva il feudo cambiò. D’altronde è improbabile che lo stemma dei Centelles sia stato scolpito fra il 1569 e il 1591, poiché, come abbiamo detto, il feudo era temporaneamente sotto sequestro. Sulla vicenda vedi FLORIS, Feudi e
feudatari, cit., p. 160. 7 Sull’andamento del feudo durante il periodo di sequestro vedi J.J. CHINER GIMENO, “Don José Vallés sequestratario regio della contea di Oliva e gli stati sardi della famiglia Centelles (1570-1594)”, Quaderni Bolotanesi, n. 17, 1991, pp. 333-366.
3
9 marzo 1552 concedeva al San Bacchisio il privilegio dell’immunità8. L’ultima
fase dei lavori fu portata a termine dallo scalpellino (“picapedrer”) Michele Puig,
originario di Cagliari, ma residente nella stessa Bolotana, il cui cognome indica
comunque origini o ascendenze catalane. Nonostante la presenza di varie fasi
costruttive, l’edifico riesce a presentare una sostanziale omogeneità, il cui merito
va sicuramente dato al citato Puig, che riuscì a lavorare sulle strutture preesistenti
mantenendo il senso di unitarietà.
Da un punto di vista architettonico le strutture della chiesa sono state
interpretate come un ibrido tra stilemi rinascimentali e motivi tardo-gotici di
ascendenza catalana9. Senza poterci soffermare sui particolari e non avendo lo
spazio per giustificare del tutto le nostre asserzioni, riteniamo che più
probabilmente l’ibrido sia creato dall’incontro bensì di stilemi rinascimentali, ma
con elementi di ascendenza romanica, ovvero di quei motivi costruttivi romanici
che poi sono confluiti nell’arte gotica (per esempio la concezione dello spazio
costruttivo come giustapposizione di quadrati, rettangoli e triangoli10, una
“esasperazione” gotica concepita originariamente dagli architetti romanici e in
particolare cistercensi)11. La questione non è di “lana caprina”, poiché come
mostrerà il collega Carlo Valdameri, tutto il ciclo iconografico della chiesa
utilizza, volutamente, un linguaggio tecnicamente e simbolicamente di chiara
impronta romanica12.
8 Altra bolla papale è di Clemente VIII, nel 1601, nella quale si concedeva al cappellano il titolo di canonico. In tale bolla Susanna Mura, figlia di Anna Fara, presentava come cappellano il proprio figlio Bachisio Mura, di cui, secondo BUSSA, “La chiesa di S. Bachisio”, cit., pp. 21-22, si può vedere la lapide sepolcrale sotto il pulpito della parrocchiale di S. Pietro (però CAPRARA, I beni culturali, cit., non ne fa menzione). Sui privilegi papali di cui sopra abbiamo uno studio in corso, al fine di ottenere un riscontro documentario più circostanziato. 9 F. SEGNI PULVIRENTI - A. SARI, Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale, Nuoro, Ilisso, 1994, pp. 160-163, ivi p. 166. 10 Su questo aspetto vedi soprattutto H. HAHN, Die frühe Kirchebaukunst der zisterzienser. Untersuchungen zur
Baugeschichte von Kloster Eberbach im Rheingau und ihren europäischen Analogien im 12. Jahrhundert, Berlin, Verlag Gebr. Mann, 1957. 11 Le annotazioni supra vanno integrate da F.A. VARGIU, San Bachisio di Bolotana, Bolotana, Amministrazione Comunale, 1994, pp. 20-21 oltre che p. 30 nota 10, considerazioni che bene contestualizzano quanto da noi scritto. Lo stesso Vargiu, ibidem p. 17, definisce appropriatamente l’architettura del San Bacchisio come un’architettura «non aulica». 12 Certamente non tardogotica come interpretano SEGNI PULVIRENTI - SARI, Architettura tardogotica, cit., p. 160, i quali parlano, per l’edificio, anche di un «linguaggio manieristico», apoditticamente, senza giustificare tale asserzione e dando l’impressione di utilizzare un vocabolario più da critici d’arte che da studiosi.
4
Sulla facciata, in asse col rosone, si apre il portale, orientato verso NO.
Rettangolare, è affiancato da due colonne che reggono la trabeazione sulla quale
poggia un timpano triangolare13. Fra gli stipiti e le colonne (entrambi decorati a
spirale), nei due lati lunghi del rettangolo sono scolpite, in bassorilievo, sei
formelle (tre per lato) alte 43 cm.14, intervallate da decorazioni di tre tipi: porte
incise nella trachite, con arco a tutto sesto, quadrati incisi, cuspidi a punta di
diamante.
Le sei formelle rappresentano, a partire dal lato destro in basso, una figura,
verosimilmente femminile, orante, ritratta frontalmente, con una sorta di aureola
sulla testa, un circolo troppo completo per non far pensare alla luna (foto 5);
questa formella è in simmetria con il lato sinistro in basso, dove è ritratta una
figura non ben leggibile, vista di fronte, con una gonna o un gonnellino maschile
di tipologia sarda, con sulla testa (o in realtà dietro) delle decorazioni che
ricordano delle fasi della luna (foto 6). Nel lato destro al centro (foto 3) è
raffigurato un re, con corona, spada cinquecentesca parzialmente consumata dal
tempo, un fiasco al collo, più verosimilmente una zucca, che in Sardegna si usa,
svuotata e fatta seccare, come contenitore per il vino o l’acqua ed anche come
strumento musicale ritmico (vedi infra), un archibugio nella mano destra, abiti di
foggia militare del XVI secolo, un cane che gli salta su una gamba. Questa
formella è in simmetria con il lato sinistro al centro (foto 4), dove c’è la scultura
di un re con spada cinquecentesca alla cintura, probabilmente una virga
sardischa15 nella mano sinistra, una foglia sulla testa; con la mano destra regge un
corno vicino alla bocca, probabilmente un corr’e boi, ‘corno di bue’16, strumento
che veniva usato nelle cacce17. Al lato destro in alto (foto 1) troviamo un guerriero
13 SEGNI PULVIRENTI - SARI, Architettura tardogotica, cit., p. 166. 14 La misurazione delle formelle, particolare di cui ci eravamo dimenticati durante i nostri rilievi, si deve a CAPRARA, I beni culturali, cit., p. 112 15 Sulla tipologia dell’arma, uno spuntone col ferro a quadrello, rimandiamo al nostro studio “Un’arma medievale sarda: la virga”, Quaderni Bolotanesi, n. 21, 1995, pp. 183-220. Lo stesso si può leggere col titolo “La virga sardescha. Struttura e forma dell’arma”, Waffen und- Kostümkunde, n. 1-2, 1996, pp. 87-116. 16 G. DORE, Gli strumenti della musica popolare della Sardegna, Cagliari, 3T, 1976, p. 218. 17 In realtà la figura doveva essere, in origine, al lato opposto. Su questo aspetto vedi la parte redatta da Carlo Valdameri, ultra.
5
itifallico (anche se il membro è stato parzialmente asportato o forse si è consunto
per il tempo), con spada cinquecentesca18 brandita vicino al viso, una spada
troppo ricurva per non far pensare a significati anche simbolici, una tipologia di
scudo chiamato “rotella” tenuto con la mano sinistra, foglia sulla testa e al collo
appesa una croccoriga, un contenitore ancora oggi in uso per portare con sé e
tenere fresco il vino o l’acqua, ma che potrebbe essere tranquillamente – come per
il re – uno strumento ritmico. Esisteva in Sardegna, in particolare nelle regioni di
Canales, Màrghine (di cui fa parte Bolotana) e Montiferru, uno strumento
chiamato appunto croccorigas (lagenaria vulgaris) o zucchittas. Si tratta di due
zucche di piccole dimensioni, svuotate e riempite di chicchi di grano o di vari
semi. Agitandole o agitandola ritmicamente (niente impedisce che lo strumento
potesse trovarsi anche non in coppia, soprattutto quando non tenuto nelle mani –
come è il caso in esame), si sottolineavano le cadenze ritmiche delle musiche. Le
testimonianze orali lo ricordano usato nell’occasione di balli che venivano danzati
in occasione delle tosatura delle pecore o durante le vendemmie, nei momenti di
riposo19. Sul tronco superiore ha una camicia di cui si evidenziano soltanto il
colletto e il polsino sinistro, entrambi merlettati. Alla cintura ha agganciata quella
che sembra una piccola borsa. Il viso presenta un pizzo al mento, labbra assai
pronunciate, naso “inverosimile” che fa un corpo unico con la fronte.
L’evidenziazione dei genitali, realizzata attraverso il ritratto del viso di profilo,
ma che presenta dalla vita in giù una visione frontale, ha un significato magico;
questa figura è in simmetria con la formella sul lato sinistro in alto (foto 2), dove
troviamo un guerriero fallico, con spada cinquecentesca brandita sopra la testa,
con la mano destra e abiti simili a quelli dei re, di foggia militare del XVI secolo.
La mano sinistra compie una specie di semicerchio, andando a toccare la gambra
destra. I piedi sono visti uno anteriormente (il sinistro) e l’altro lateralmente (il
18 L’arma ha una forte somiglianza con un coltellaccio lungo 74 cm., di costruzione veneziana, del 1620, sito presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano col numero di catalogo 721. Cfr. L.G. BOCCIA - J.A. GODOY, a cura di, Museo Poldi
Pezzoli. Catalogo Armeria, Milano, Electa, 1985, vol. II, foto 813, scheda 721. 19 DORE, Gli strumenti della musica popolare, cit., p. 177. Lo strumento in possesso del Dore (che ha la più completa collezione esistente di strumenti etnici sardi, a Tadasuni) misura cm. 20 di altezza ed ha un diametro di base di cm. 8. Questo utilizzo delle croccorigas era già estinto quando l’autore raccolse il materiale per la sua pubblicazione.
6
destro). Tutti i personaggi sono scavati nella pietra, trachite rossa, tanto da non
sporgere oltre la cornice.
Sulle figure del portale, nessuno studioso ha finora fatto una coerente ipotesi
interpretativa, eccetto il Caprara20, la lettura del quale (comunque ottima) non
condividiamo, anche se non riteniamo sia questa la sede opportuna per addentrarci
nelle motivazioni del nostro divergere. Noi riteniamo che nel portale, almeno per
le figure ancora leggibili, sia rappresentata una danza delle spade, in cui il livello
“realistico” e quello simbolico s’intrecciano tanto da poter ipotizzare, con tutta la
cautela dovuta, che forse ci troviamo di fronte al significato che alla danza veniva
attribuito dalla comunità bolotanese, se non da tutte le comunità sarde in cui si
eseguiva ancora tale ballo nel XVI sec., considerata l’alta affluenza di pellegrini
da tutta la Sardegna al santuario. Se, come noi pensiamo, il linguaggio artistico e
tecnico utilizzato è quello romanico, ciò è dovuto ad una volontà precisa
dell’autore di stabilire un “terreno comune” coi fedeli, i quali erano rimasti adusi
ad un sistema di decifrazione dei segni ancora d’impianto romanico21. Il
linguaggio artistico delle formelle è teso ad avere piena comunicazione con il
“pubblico”; ciò è tanto più vero in quanto il resto dell’impianto chiesastico è
comunque rinascimentale, un linguaggio che – almeno al principio – era d’élite.
Avendo come base questo ineludibile presupposto sulla voluta intellegibilità delle
figure a beneficio del “pubblico”, la nostra ipotesi si è sviluppata dalla
constatazione di un’assenza di riferimenti iconografici, inequivocabili, a un
qualsiasi fatto storico. I due re sono pressoché speculari nel loro abbigliamento.
Nessun dettaglio li distingue come figure contrapposte; si ha l’impressione che
20 CAPRARA, I beni culturali, cit., pp. 111-112. 21 Sulle persistenze in Sardegna nel ‘500 e ‘600 del romanico (ma in àmbito esclusivamente rurale, non cittadino, questo lo vogliamo sottolineare con decisione), nessuno ha scritto niente di specifico e forse siamo i primi a ipotizzarlo in maniera esplicita. L’unico che accennò a questa tematica, anche se – purtropo – non approfondì il discorso fu S. NAITZA, “La scultura del Cinquecento”, La società sarda in età spagnola, a cura di F. Manconi, vol. I, Cagliari, Consiglio Regionale della Sardegna, 1992, pp. 110-119, ivi p. 117. E’ stata invece studiata la persistenza del linguaggio architettonico gotico su cui vedi C. MALTESE, “Persistenza di motivi arcaici tra il XVI e il XVIII secolo in Sardegna”, Studi Sardi, vol. 17, 1962, pp. 462-472; S. MEREU, “Per una storia del tardo-gotico nella Sardegna meridionale: nuove acquisizioni e documenti d’archivio”, Studi Sardi, vol. 31, 1994¬1998, pp. 451-486; S. NAITZA - G. CAVALLO, “Archittetura a Giave nel sec. XVII tra modello aulico e realtà popolare”, Annali Facoltà Lettere Filosofia Università
Cagliari, vol. 37, 1974-1975, pp. 249-277; R. SALINAS, “L’architettura del Rinascimento in Sardegna, i primi esempi”, Studi Sardi, vol. 2, 1955-1957, pp. 355-375.
7
facciano parte di uno stesso “gioco”. E’ assente un qualsiasi attributo negativo in
tutte le figure. Quindi non si tratta della rappresentazione di un fatto storico o di
una battaglia in cui il “bene” si oppone al “male”. Permanevano dei dati
incontrovertibili come la presenza di armi, nonché di altri particolari iconografici
(per esempio il corno, il cane, il fallismo esclusivo dei guerrieri) che mal si
accoppiavano sia a fatti militari – come già detto –, sia ad eventuali allusioni a
cariche istituzionali, sia ad elementi di santità dei personaggi. Eppure le figure
stavano e stanno lì, sul portale, visibili a tutti i fedeli che entravano in chiesa, in
una parte così importante della chiesa. Tutto ciò ci ha portato a cercare un’altra
strada. Tuttavia, prima di addentrarci nella nostra proposta interpretativa, abbiamo
verificato se dai dati etnografici emergessero delle tracce che permettessero di
affermare che una qualsivoglia danza delle spade sia esistita in area sarda.
Abbiamo così trovato quelle pietroline di cui parlavamo all’inizio. Ed è già molto,
considerato con quanto ritardo siano iniziate le ricerche etnografiche in
Sardegna22.
La prima testimonianza deriva dai tanti giri in macchina che faceva per la
Sardegna l’eclettico studioso Giuseppe Della Maria. Di uno di essi rese conto sul
quotidiano L’Unione Sarda, nel 195823. Ad Ollolai (paese dell’omonima
Barbagia, in provincia di Nuoro), Della Maria incontrò un anziano, Pietro Zedde,
80 anni, che gli raccontò quali erano le vecchie maschere del paese. 80 anni:
quindi i suoi ricordi potevano risalire almeno fino al 1885. E raccontando, Zedde
parlò di una mascherata che era una danza delle spade. Si chiamava “azzogare [a
zogare sarebbe la grafia più corretta] a turcu”, ‘a giocare al turco’. Era svolta da
tre uomini: due muniti di bisera (maschera) di legno con baffi, erano vestiti da
soldati. Uno di essi aveva una sciabola, l’altro teneva in mano dei sonagli a
22 Va poi aggiunto che nel secondo dopoguerra, le importantissime ricerche di Ernesto De Martino e poi di Alberto Maria Cirese e di Clara Gallini si sono orientate verso lo studio dei culti dell’argia e della tematica e metrica della poesia tradizionale, tralasciando quasi del tutto l’àmbito coreutico. 23 G. DELLA MARIA, “Alla ricerca della Sardegna più antica. Le maschere della Barbagia residui di un’era lontana”, L’Unione Sarda, 19 ottobre 1958, p. 7.
8
grappolo; il terzo uomo, senza maschera sul viso, suonava il tumbàrru2424 .
L’uomo armato mostrava di trafiggere l’altro che, nell’atto di evitare i colpi
effettuava dei movimenti ritmici con i sonagli in corrispondenza dei colpi secchi
del tamburino che durante tutta la scena rullava incessantemente. Attraverso Della
Maria rileggiamo il dizionario di sardo-campidanese di Vissentu Porru25 e lì
riscopriamo che nel sardo-campidanese esisteva un termine, “Mattaccinu” che era
un “ballu usau in is biddas, chi si fait cun sa sciabola in manus, [it.] moresca. Su
chi fait custu ballu, [it.] mattaccino”, ‘ballo che si usava nei paesi, che si fa con la
sciabola nelle mani [it.] moresca. Colui che fa questo ballo [it.] mattaccino’. Per
lo Spano, che terminava il suo dizionario nel 1851, il “Mattaccinu”, registrato per
la zona meridionale, corrisponde alla moresca26. Il termine si trova attestato anche
attualmente: a Samugheo, nel limitare della Barbagia Mandrolisai, una delle zone
meno indagate linguisticamente e dove noi stiamo da anni portando avanti una
ricerca sul carnevale, esiste la voce “Mattaccìnnu”, lessema che indica una
persona che parla accompagnandosi con gesti delle mani, uno che gesticola
ampollosamente, con movimenti vistosi e teatrali. Il Senes annovera tra i
significati anche quello di ‘buffone’, coi gesti più che con le parole. In origine era
un ballo armato, la cui figura principale era un ballerino chiamato Mattaccinu, poi
– scrive Senes – si trasformò in una sorta di figura di mimo27.
Una danza dov’era previsto un combattimento, anche se non proprio una
danza delle spade, è ricordata a Osini (Ogliastra). Si svolgeva a carnevale e si
chiamava andanza: «Il nome indica l’andare a tempo di musica seguendo uno
schema prefissato. In questo caso giunti in una piazza in fondo al paese, due
cavalieri con la sciabola in mano si sfidano con un pretesto qualsiasi. Dopo aver
schermato per un po’ uno dei due fugge, l’altro lo insegue. Dopo un breve giro per
24 Sullo strumento vedi G.N. SPANU, a cura di, Sonos. Strumenti della musica popolare sarda, Nuoro, Ilisso, 1994, pp. 74-77. 25 V. PORRU, Dizionariu universali Sardu-Italianu, Casteddu (= Cagliari), Tip. Arciobispali, 1832, rist. anast. Cagliari 1981, s.v. “Mattaccinu”. 26 G. SPANO, Vocabolariu sardu-italianu, F-Z, a cura di G. Paulis, Nuoro, Ilisso, 1998, (1a ed. 1851), p. 214, s.v. “Mattaccìnu”. 27 A. SENES, Curiosità del vocabolario sardo, Cagliari, Fossataro, 1971, pp. 55-56. Per una coincidenza, il Senes era originario proprio di Bolotana.
9
le vie del vicinato i due tornano sulla stessa piazza e riprendono il duello finché
uno finge di cadere ucciso. Si ordina quindi il trasporto e la sepoltura del corpo
nel cimitero (una cantina del rione). Seguono resurrezione e relativi
festeggiamenti»28. C’era una musica d’accompagnamento, ma non è segnalato con
quali modalità (se strumentali o vocali) venisse eseguita. S’andanza di Osini
sembrerebbe la traccia di una più antica danza delle spade. Di essa è rimasto il
combattimento con le spade e la morte di uno dei due personaggi. Non è noto
l’elemento ritmico, ma lo stesso nome della danza è segnale che ci fosse un
preciso schema ritmico. Il caso di Osini potrebbe avere analogie con la moresca
che si eseguiva a Capoliveri (Elba) dove intorno al 1840 essa aveva assunto il
carattere di uno spettacolo equestre29, cioè S’andanza potrebbe essere – in questo
caso – un’evoluzione della moresca. Abbiamo visto come si possa affermare,
etnograficamente, la presenza in Sardegna della danza del mattaccino. Esso30 è
d’altronde presente un po’ dappertutto in Italia, e non solo in Italia. Da alcune
parti, il termine mattaccino è passato ad indicare, dal ballo, il personaggio che lo
esegue, il quale può essere l’allegro buffone (che esegue una sorta di pantomima)
oppure è proprio il ballerino. Nel XVIII secolo, in Sicilia il Pasqualino scriveva:
«Mataccinu, genus ludi saltationis, pluribus ab hinc annis jam fere prorsus, saltem
hic Panormi abolitum. Erat autem, quo unus simulans se mortuum humi jacebat
stratus, circum quem caeteri lente saltantes ad certos tristesque modos musicos, et
gesticulantes ibant, chori magistrum sequentes atque imitantes, qui mortui illius
ficti nunc unam vel alteram manum, nunc unum alterumque pedem velut
rigefactos elevat, contractat, et olfacit, caeteris normam praebet se in
gesticulationibus imitandi, donec illum e terra erectum sibi invicem jactant et
28 L. ORRÙ, “Materiali per lo studio del Carnevale in Sardegna. Saggio di repertorio delle voci organizzazione e balli”, BRADS, n. 8, 1977-1978, pp. 36-60, ivi p. 51. Ripubblicato in L. ORRÙ, Maschere e doni, musiche e balli, Cagliari, Cuec, 1999, p. 94. 29 P. TOSCHI, Le origini del teatro italiano, Torino, Boringhieri, 1976 (1a ed. 1955), p. 496. 30 Non entriamo nei dettagli spinosi dell’etimologia. Problema che, tutto sommato, è ancora irrisolto. Schematizzando al massimo diremo che le principali interpretazioni lo fanno derivare dall’italiano “matto”, altri dall’arabo “mudawajjihin” che potrebbe significare ‘quelli che si mettono di fronte’ o anche ‘quelli che si mettono faccia a faccia’.
10
circumagunt»31. Come si potrà notare, alcuni dei comportamenti del mattaccino
siciliano sono pressoché identici alla danza di Ollolai. Queste fase di conferma
dell’incasellamento delle testimonianze sarde nell’àmbito dell’effetttivo
mattaccino è importante perché ci permette di intravedere l’esistenza di quella che
viene genericamente chiamata moresca. Infatti secondo molti studiosi, il
mattaccino può postulare, a monte, un’antecedente presenza della moresca. poiché
è una «buffonesca contraffazione della danza d’armi, intesa a far ridere nobili e
plebei epperciò onnipresente nei carnasciali»32. E infatti l’unica testimonianza
sarda lo ricorda eseguito a carnevale. Nel mattaccino è inoltre presente, come si
sarà notato dalla descrizione che ne fece Pasqualino, la tematica della morte e
resurrezione33, fattori che coincidono con i casi di Ollolai e Osini. In seguito la
danza penetrò nella Commedia dell’Arte, ebbe grande successo in Francia dove
prese il nome di danse des bouffons. A livello colto, il suo declino inizia nella
seconda metà del XVIII secolo, ma sopravvisse in ambito popolare. Thoinot
Arbeau ha lasciato una descrizione del costume, o meglio, di una tipologia di
costume che s’indossava per ballarlo34: fra gli oggetti del “corredo” ritroviamo i
sonagli, che Arbeau prevedeva attaccati alle gambe, mentre ad Ollolai sono
ricordati tenuti in una mano. Poi serviva una spada nella mano destra e uno scudo
nella sinistra, oggetti che troviamo presenti in uno dei personaggi ritratti nel
portale del San Bacchisio (vedi foto 1). L’Arbeau riportava anche la musica di
accompagnamento che, da un punto di vista ritmico, risulta essere un tempo
tagliato, binario (2/2). Ma in questo caso poco possiamo dire perché la ricerca
etnomusicologica in Sardegna, iniziata a partire dagli anni Trenta, non ha rilevato
niente di inequivocabile che possa riportare al mattaccino. La melodia che
31 M. PASQUALINO, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, 5 tomi, t. III, Palermo, Reale Stamperia, 1785, p. 126, citato da G. PITRÈ, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, Pedone Lauriel, 1889, vol. I, pp. 80-81. 32 G. TANI, s.v. “Mattaccino”, Enciclopedia dello Spettacolo, vol. VII, Roma, Uned, 1960, coll. 290-291, ivi col. 290. 33 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 500. Toschi parlava di morte e resurrezione di una divinità, ma secondo noi non lo è necessariamente. 34 T. ARBEAU [Pseudonimo di Jehan Tabourot], Orchesographie. Et Traicte en forme de dialogue, pour lequel toutes
personnes peuvent facilement apprendre & practiquer l’honneste exercice des dances, Langres, Jehan des Preyz Imprimeur, 1589, p. 98r. La riproduzione nonché la trascrizione del testo on line è curata da Nicolas Graner, sul sito <http://graner.net/nicolas/arbeau/>.
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l’Arbeau presenta non ha alcuna somiglianza con le costruzioni melodico-
contrappuntistiche della musica sarda. Insomma, finito di eseguirsi il ballo, finì di
eseguirsi e perpetrarsi la musica.
La moresca fu la più famosa danza figurata del Basso medioevo. Era una
danza armata di carattere drammatico, richiamante la lotta tra Cristiani e Turchi.
Era diffusa in quasi tutta l’Europa, anche dove le popolazioni arabe, “moresche”,
non arrivarono mai e questo conferma la tesi di Sachs, Van Gennep e Toschi, per i
quali la moresca è la storicizzazione, una «tarda rivalutazione» di un antico rituale
di fertilità e propiziazione agraria (vedi ultra). Sulla nascita della moresca si può
parlare in realtà «dell’innesto di una nuova forma di danza, tipologicamente
classificabile come danza armata, sul terreno già perfettamente consolidato, in
Italia, e in genere in Europa occidentale, dei riti di fertilità dei tempi precristiani
successivamente assorbiti nelle festività canoniche»35. Le prime testimonianze
scritte dell’esistenza della moresca in Italia non risalgono oltre la metà del XV
secolo36, ma in quel periodo la ritroviamo in una fase già avanzata della sua
ascesa nella sfera della cultura “alta”, da poter presupporre una precedente
esistenza “sotterranea”, non documentabile con continuità, né databile in maniera
assoluta. In ambito popolare la moresca continuò la sua strada, come divertimento
carnevalesco o primaverile37. Certo è però che la danza armata dev’essere stata
molto antica, almeno quanto lo può essere il mascherarsi da animali. Per esempio
nella Valcenischia, località Rocciamelone, sono stati ritrovati incisi sulla pietra
vari guerrieri con corazze (risalenti all’Età del Ferro-principio della
romanizzazione del territorio) nonché un guerriero in «atteggiamento dinamico»,
con la spada, risalente alla media Età del Ferro38. Comunque nel Quattrocento, e
35 E.S. TIBERINI, “La moresca: aspetti socioculturali di una danza popolare tradizionale in tre diversi contesti etnografici”, L’Uomo. Società, Tradizione, Sviluppo, vol. VI, n. 2, 1982, pp. 193-213, ivi p. 194. 36 Su uno status quaestionis aggiornato sulla presenza della moresca (e di altre danze armate) in Italia vedi F. CASTELLI, “Le danze armate in Italia”, Le spade della vita e della morte. Danze armate in Piemonte, a cura di P. Grimaldi, Torino, Omega Edizioni, 2001, pp. 123-143. Sulla cronologia delle testimonianze, TIBERINI, “La moresca: aspetti socioculturali di una danza popolare tradizionale”, cit., p. 194 indica come primo esempio un ballo avvenuto a Genova, nel X secolo, ma non siamo riusciti a rintracciare la fonte e perciò ne abbiamo tenuto conto soltanto in nota. 37 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., pp. 485-487. 38 BORRA - GRIMALDI, “La danza delle spade in Piemonte”, Le spade della vita e della morte, cit., p. 30.
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ancora di più nel Cinquecento, la moresca penetrò sempre più tra le danze
cortigiane, modificandosi ed adattandosi ai gusti talvolta esotici della nobiltà3939.
Così il ballo si proietta nelle corti, modificandosi e adattandosi in parte per le feste
cortigiane. Nella già citata lettera di Isabella d’Este, vengono descritte alcune
moresche, in una delle quali due schiere abbigliate in maniera leggermente diversa
fra loro, combattono. Ad un certo punto della danza “la mità delli quali [dei
danzatori] si lassarono cadere in terra: da li altri furono presi e cacciati
intanti”40. L’elemento dell’uccisione o della morte simulata è analogo al
mattaccino. La danza fu connotata, almeno fino al XVIII secolo, da una fluidità
formale nonché da variazioni più o meno significative a seconda dell’area
geografica. Per tanto la testimonianza dell’Arbeau non va evidentemente letta
come esempio normativo, ma come una delle tante moresche su cui s’innestavano
differenze, più o meno marcate a seconda delle zone. Tra l’altro Arbeau quando
descrive la moresca, parla di danza eseguita in una sala e perciò ci troviamo di
fronte ad una fase in cui è penetrata fra i balli di corte, si è “ingentilita”. Per
questo non è in contraddizione trovare solo due danzatori nel portale di Bolotana
ovvero è possibile che la moresca fosse ballata da due uomini, al di là del fatto
che quelli raffigurati nel portale potrebbero essere due rappresentanti di un gruppo
più numeroso. Si schermava-ballava uno di fronte all’altro, ma anche in cerchio41.
Questo è importante perché le forme in circolo sono di solito le più arcaiche e nel
cerchio si conserva traccia “morfologica” dei rituali di fertilità42. Abbiamo
esaminato il valore del cerchio perché è probabile che esso fosse presente nella
rappresentazione della danza delle spade nella chiesa di San Bacchisio nel senso
che nell’interno della chiesa, – e di ciò faremo solo un breve accenno perché per
adesso non ci occupiamo dell’iconografia interna – nei lati del capitello della
39 G. TANI, “Moresca” s.v., Enciclopedia dello Spettacolo, vol. VII, Roma, Uned, 1960, col. 835. 40 Citato da B.M. GALANTI, “Ancora sulla moresca”, Lares, n. 1-2, 1949, pp. 49-50. 41 L’abate Gaudin, che vide la moresca in Corsica alla fine del XVIII secolo, scrive che «les acteurs forment différents cercles concentriques qui se rétrécissent insensiblement». La descrizione è tratta dal Voyage en Corse et vues politiques
sur l’amélioration de cette isle, Paris, Lefèvre, 1787 ed è ristampata in Moresca. Images et mémoire du Maure.
Exposition temporaire du 10/07 au 30/12/1998, Musée de la Corse, Citadelle de Corte, Corte, Musée de la Corse, 1998, pp. 348-351, ivi p. 351. 42 C. SACHS, Storia della danza, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 19942, (1a ed. Berlin 1933), p. 371.
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lesena centrale, sono rappresentati degli uomini, fallici, e donne che ballano presi
per mano, in una modalità che trova riscontro nel ballu tundu sardo. Le stesse
figure le ritroviamo nel capitello opposto e simmetrico, quasi a voler chiudere il
cerchio aperto da una parte. Al centro di essi, nella parte mediana del capitello
sono scolpiti due suonatori, uno per lesena, in abiti militareschi, entrambi con una
foglia sulla testa, entrambi con una spada al cinturone, entrambi fallici. Questi
particolari ce li fanno riconnettere con le raffigurazioni del portale. Uno di essi
suona quelle che sembrano delle benas, uno strumento musicale sardo a fiato,
assai simile alle launeddas. L’altro suona il sulittu e tamburinu, il corrispondente
sardo dello spagnolo pifaro y tamborillo, che troviamo spesso come strumento di
accompagnamento nella danza delle spade, forse perché era utilizzato anche nelle
marce degli eserciti dell’epoca43. Nella moresca è costante la presenza di sonagli,
tanto che Giulio Cesare Croce nello Sbandimento, esanime e processo di
Carnevale, pubblicato nel 1624 scriveva che tra i – miseri – lasciti, il Carnevale
“Item lassa a quei che non han sonai / che i faccia la moresca per i bai”44. Come
abbiamo già annotato, uno dei guerrieri e uno dei re hanno addosso una zucca,
della quale abbiamo detto che poteva fungere da strumento ritmico.
C’è poi un’altra analogia, anzi somiglianza diremmo, possibile fra le
raffigurazioni delle formelle e la moresca. Nella moresca che si danzava alla fine
dei maggi epici di S. Anna a Serpiano, Groppo e Monticello, uno dei duellanti
tirava un fendente verso la testa dell’avversario, il quale si riparava con la spada
tenuta trasversalmente in alto, a difesa del capo45. Se noi guardiamo con
attenzione i due guerrieri in alto (foto 1 e 2), sembra proprio che stiano eseguendo
lo stesso movimento, e questo senza che venga annullato il valore simbolico delle
figure, anzi diremmo che esso46 46 viene confermato, se non rafforzato.
43 Per esempio la basca Ezpata-dantza (che veniva eseguita in tutta la Gipuzkoa) è accompagnata appunto da txistu (flauto) e tamboril (tamburino). Cfr. R. TORNIAI, La danza sacra, Roma, Ed. Paoline, 1951, p. 271. Inoltre cfr. SACHS, Storia della danza, cit., p. 141. 44 Citato da P. CAMPORESI, La maschera di Bertoldo, Milano, Garzanti, 1993, p. 349. 45 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 520. La descrizione risale a fine XIX secolo. 46 E’ una caratteristica dell’uomo contemporaneo escludere la dimensione simbolica se è presente quella “realistica”, e viceversa. Questo però non era la concezione, il modo di pensare che avevano le popolazioni rurali, gli uomini del
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Toschi, basandosi sul Gaster, individua nei riti stagionali le fasi di
mortificazione, purgazione, rinvigorimento e giubilo. La primavera è un periodo
di rinvigorimento ed in tale periodo la comunità cerca di riacquistare la pienezza
di vita. Una delle forme rituali finalizzate a ciò è il combattimento: vita-morte,
estate-inverno, insomma forza positiva-forza negativa tout court47. Col tempo
però il significato del combattimento si perse, tese «a sparire dalla coscienza di
chi lo esegue». A questo punto esso venne spiegato attraverso processi di
storicizzazione, per esempio la commemorazione di un fatto storico. Da questo
punto di vista la raffigurazione del portale di Bolotana sembra sia
cronologicamente collocata in una fase liminare. Al limite non si potrebbe
nemmeno parlare di moresca, almeno dal punto di vista terminologico.
Il guerriero nella formella a destra in alto (vedi foto 1) ha dei lineamenti
“alieni”. Questa tipologia di “estraneità” ha portato, come già rilevò il Toschi, a
ritenere che il colore nero (nel caso specifico le labbra carnose, poiché il nero non
è presente nella scultura) non fossero i tratti somatici di un demone, ma di un
moro; in realtà: «i danzatori avevano la faccia nera non già perché fossero Mori,
ma si credeva che fossero Mori perché avevano la faccia nera»48. Il colore nero
solitamente rappresenta forze terrestri o infere49, ma non ancora infernali perché
manca una connotazione negativa di questa figura dai tratti “alieni”, estranei,
perché, come ci scriveva l’amico e collega Carlo Valdameri, in una delle tante
fruttose e-mails, «Nell’idea di ciclo (connessa con i cicli della natura), la
componente oscura e incontrollabile (proprio in quanto oscura) e notturna non un
valore negativo in assoluto, anzi essa è necessaria allo sviluppo della vita tanto
quanto quella luminosa, anche se il periodo luminoso è legato allo svolgersi della
Medioevo e dell’Età moderna. Le due dimensioni convivevano perché la dimensione simbolica non annullava la realtà esterna, la rinforzava, gli dava significato. 47 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 438. Non abbiamo preso in considerazione le pur valide teorie di V. ALFORD, Sword Dance and Drama, London, Merlin Press, 1962, poiché esse si basano sull’analisi e interpretazione delle danze in cui si forma una catena tra le varie spade e questo non ci sembra il caso della Sardegna, almeno per quello che possiamo dedurre dall’iconografia. 48 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 484, che a sua volta cita E. K. CHAMBERS, The Medieval Stage, Oxford, Oxford University Press, 1903, vol. I, p. 199. 49 SACHS, Storia della danza, cit., p. 375.
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vita degli uomini». Questo aspetto, questa dualità sembra emergere anche altrove.
In Corsica, in una delle versioni manoscritte del testo della moresca, ritrovate dal
conte Guido Savelli, alla fine della rappresentazione si eseguiva la granìtula, una
processione a cerchio che si chiude a spirale. Lucie Desideri ha cercato di spiegare
la connessione fra questa processione e la moresca. La studiosa individua nella
granìtula una dualità complementare (come nella moresca): una “sistole”,
l’arrotolamento del cerchio in spirale e una “diastole”, lo srotolamento della
spirale che si trasforma progressivamente in cerchio. C’è una torsione o rotazione
da un lato all’altro. Questa rotazione mette in comunicazione le due “facce”
«comme des entités inséparables, l’une n’étant que la face ouverte ou cachée de
l’autre, tantôt dans le manifest, tantôt dans le latent [...] L’ordre de la spirale saisit
les apparitions comme deux éléments solidaires et indéfiniment réversibles»50.
Questa figura si oppone alla dualità, annulla la dualità ‘amico vs nemico’,
‘cristiano vs moro’. Ciò lo si nota ancor di più se si nota che nella moresca c’è una
tendenza alla confusione o fusione di un aspetto e dell’altro, tra cristiani e mori:
questi ultimi, sconfitti, si convertono. Sembra una duplice vittoria dei cristiani, ma
in realtà il nemico vinto, diventando cristiano diventa amico. E questo è
“un’applicazione” della «torsion» della granìtula di cui abbiamo accennato51.
Come già rilevato da Sachs e anche da Van Gennep52, la danza armata non è solo
una stilizazzione coreografica del combattimento, è anche e soprattutto l’unione di
due forze sulle quali si fonda la crescita: la forza negativa di difesa e quella
positiva, fallica, energie sulle quali si fonda la crescita: l’energia negativa della
difesa e l’energia positiva della fertilità53. Non solo: ancora Sachs, giustamente
rilevava che lo stesso rumore delle armi (spade o bastoni che fossero), «come tutti
50 L. DESIDERI, “De la moresque à la Moresca: le sceau de la granitula”, Moresca. Images et mémoire du Maure, cit., pp. 220-239, ivi pp. 224-225. 51 Anche nella granìtula che si tiene l’otto settembre a Casamaccioli (Niolu), la studiosa individua lo stesso aspetto di annullamento della dualità, anche se con modalità differenti. Cfr. DESIDERI, “De la moresque à la Moresca: le sceau de la granitula”, cit., pp. 232-233. 52 A. VAN GENNEP, Manuel de foklore français contemporain, t. I/3, Paris, Ed. Picard, 1947, pp. 1111-1112. La danza, dal carattere apotropaico era «trés puissante à la fois par le rythme et par les gestes contre les esprits mechants, malfaisants qui apportent les maladies et mettent en danger les rècoltes». 53 B.M. GALANTI, “Danza della spada”, Enciclopedia dello Spettacolo, vol. IV, Roma, Uned, 1957, coll. 140¬142, ivi col. 141. SACHS, Storia della danza, cit., p. 142.
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i rumori sistematici, [sono] mezzi di difesa contro gli spiriti», perché è il colpo
dell’arma che misura il ritmo e se è una spada, il rumore è ancora più forte.
L’elemento della lotta, l’utilizzo di un’arma contro gli spiriti ostili, l’arma come
magia fallica della fertilità (e di rappresentazioni falliche l’iconografia del San
Bacchisio è piena) sono tutti elementi arcaici, antichi sia per il loro significato sia
per la loro diffusione54.
Qualche dubbio potrebbe persistere se pensiamo all’atteggiamento negativo
che le istituzioni ecclesiastiche hanno avuto, almeno dal Medioevo in poi, nei
confronti della danza in chiesa o nei pressi della chiesa. L’obiezione è corretta, ma
bisogna anche dire che laddove, in qualsiasi campo, la Chiesa non è riuscita ad
annullare un rito che essa considerava “pagano”, ha cercato – diciamo che spesso
è anche riuscita – di smussarlo in certi suoi aspetti e di cristianizzarlo: «Quando
[la danza armata] la troviamo, sia pure nella forma di battaglia fra Cristiani e
Mori, è segno che la Chiesa non riuscendo in certi luoghi a sopprimerla, per non
urtare la suscettibilità l’ha [...] incamerata, avvilupandola con un manto più o
meno aderente di religiosità e di significato cristiani»55. Da questo punto di vista,
l’impressione è che a Bolotana questo «manto» di religiosità cristiana sia stato
appena messo poiché quelli che dovrebbero essere i Mori, comunque gli
“estranei”, non sono ancora connotati negativamente, come già abbiamo detto
supra. A ciò va poi aggiunto che, volendo giudicare con un criterio di riscontro
oggettivo, sappiamo che la maggior parte dei cosiddetti Mori, provenivano dal
Nord Africa, erano di etnia araba, turca o al massimo berbera, ed è chiaro a tutti
che il colore della pelle delle citate popolazioni è lontano dall’essere un nero così
scuro, come è rappresentato solitamente nell’iconografia della moresca; al limite è
bruno-olivastro. Se poi confrontiamo alcuni particolari del guerriero (foto 1) con
la maschera chiamata bisera – che indossano sul viso i mamuthones di Mamoiada
(maschere carnevalesche), noteremo dei tratti in comune. Per esempio le labbra
54 SACHS, Storia della danza, cit., p. 145-146. 55 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 558.
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sono piuttoste carnose in entrambi, anche se nella bisera solo quello inferiore
(foto 7)56. La linea del naso è quasi all’altezza della fronte, anche se nella formella
naso e fronte sono una cosa sola (foto 8, la maschera a destra, dove si apprezza
meglio il profilo). Le sopracciglia sono invece assenti nel viso del guerriero,
mentre sono assai pronunciate nella maschera (foto 7). Queste corrispondenze,
certo minime, ci danno un ulteriore indizio che molto probabilmente nella
raffigurazione del portale, lo scalpellino ha voluto rappresentare un demone57 e
non ancora un moro. E il demone non è una figura negativa nella mentalità pre-
cristiana, è, al limite, una figura ambigua, liminare e perciò anche necessaria,
perché la sua ambiguità si può trasformare in forza positiva in quanto
necessariamente complementare.
Come già abbiamo fatto notare, uno dei guerrieri, uno dei re nonché i due
musicisti scolpiti all’interno della chiesa, hanno sul capo una foglia (più che una
penna), che assomiglia molto a quella della felce aquilina (Pteridium
aquilinum)58, una pianta erbacea rizomatosa lungamente picciolata59, proprio
come appare nella formella. A Bolotana la felce aquilina è chiamata su fìlighe
mascru (‘la felce maschio’ ma bisogna far notare che il sardo fìlighe è maschile,
quindi sarebbe ‘il felce’)60. Fiorisce da maggio fino a settembre. Il suo habitat
sono le radure dei boschi, su terreni silicei61. L’erba è molto presente nelle
montagne intorno a Bolotana. A nord del paese, nelle località sos Calarighes e
Mularza noa, in primavera il paesaggio è dominato e caratterizzato dalla felce
aquilina. Nelle campagne del paese sono presenti anche altre tipologie di felci:
56 Tutti gli esemplari che indossano oggi i mamuthones sono costruiti su un esemplare di principio XIX secolo, che è servito da prototipo. 57 Le maschere dei mamuthones rappresentano dei demoni appartenenti alla sfera magica del mondo agro-pastorale. 58 Il nome aquilina è dovuta al fatto che nella sezione trasversale dei piccioli il midollo biancastro disegna un’approssimativa raffigurazione dell’aquila bicipite. 59 Per i non esperti di botanica, come noi, ricordiamo che il picciolo è l’appendice stretta che unisce una foglia al fusto. 60 F. FALCHI, “La flora del territorio di Bolotana”, Quaderni Bolotanesi, n. 7, 1981, pp. 145-166, ivi p. 154. Secondo la tassonomia botanica la felce maschio è il Polystichum filix mas. Anch’esso viene chiamato in sardo su filighe màsciu, ‘la felce maschio’. Cfr. M. PUDDU, Ditzionariu de sa limba e de sa cultura sarda, Cagliari, Condaghes, 2000, p. 687 s.v. “Fibixi”) o su mascu, ‘il maschio’ (cfr. V. PORRU, Dizionariu universali Sardu-Italianu, cit., s.v. “Filixi”. In altre zone della Sardegna la felce aquilina è chiamata filighe cabaddinu, ‘felce cavallina’. Cfr. PUDDU, Ditzionariu de sa
limba e de sa cultura sarda, ibidem. 61 R. BROTZU, Alberi, arbusti ed erbe della Sardegna, Nuoro, Il Maestrale, 2000, p. 82.
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nella zona delle sorgenti di Ortachis cresce l’Osmunda regalis (‘iliche veru, filighe
mannu, ‘felce vera, grande felce’) che è, fra le felci, quella di maggior dimensioni
in Europa62 . Lungo le rive del riu Urpinos cresce la felce femmina (Asplenum
filix foemina). L’identificazione fra la foglia sul capo delle figure del San
Bacchisio e le foglie di felce aquilina è comunque incerta. Come ci ha fatto
giustamente rilevare il collega Giorgio Samorini, le foglie del Pteridium
aquilinum sono alquanto complesse e difficili da rappresentare con dovizia di
particolari in siffatti bassorilievi. Dalla sola osservazione di essi è molto difficile
dedurre la morfologia della foglia che si è inteso rappresentare e quindi la specie
di pianta a cui appartengono. Si può affermare che la forma plastica vegetale
rappresentata in questo tipo di bassorilievi non è in contraddizione con
(l’eventuale) rappresentazione intenzionale di foglie di felce aquilina6363 . Perciò
il nostro ragionamento proseguirà portandosi appresso questo dubbio di base; va
anche detto che la foglia sul capo è l’elemento meno chiaro di tutte le figure delle
formelle. Una foglia di felce in testa fa anche pensare a un rito di tipo apotropaico.
Passeremo ora in rassegna alcuni dati sulla felce anche se non tutti riescono
a far luce non solo sulla presenza della foglia, ma anche sulla posizione.
Da un punto di vista etno-botanico poco si sa della felce aquilina. Intanto
non sono note proprietà psicoattive. Le figure delle formelle sembra quasi
rappresentino un rito con carattere estatico, senza che questo implichi
l’assunzione di droghe psicoattive; numerosi culti estatici o di possessione,
nell’area mediterranea, non prevedono l’impiego di droghe psicoattive, bensì la
musica e la danza come fattori inducenti lo stato modificato di coscienza. Vi è una
relazione “stretta” fra felce aquilina e un culto religioso tenuto nella chiesa, o
meglio, nel santuario della Vergine, Regina dell’isola Maiorca (Baleari), che sta
nel paese majorchino di Lluch. La felce aquilina che cresce nei dintorni del
santuario viene benedetta nella chiesa nel giorno di San Giovanni e viene bruciata
62 Ibidem p. 80. 63 E-mail di Giorgio Samorini, del 8/5/2003. Ringrazio sentitamente il dott. Samorini per tutti i suggerimenti datimi al riguardo.
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quando tuona. Secondo quanto scrive Palau i Ferrer64, fra i majorchini questa felce
«è famosa, ma deve provenire proprio da Lluch. Numerosi pellegrini se ne
portano un fascio al ritorno dalla visita alla Vergine, Regina di Majorca. La fede
dei majorchini in questa felce dei dintorni di quel santuario è così grande, che già
di per sé può essere considerata una cura. La felce che cresce in altri luoghi manca
assolutamente di apprezzamento. Nessuna altra pianta è paragonabile con la felce
di Lluch per la sua virtù di “abbassare il sangue”. E’ molto difficile esprimere con
un’altra frase o con un termine concreto il concetto popolare di “abbassare il
sangue”, in quanto comprende numerosi stati anormali del corpo umano. Si
considera “abbassare il sangue”, portando via le sue impurità, quando la pianta
trascina via secrezioni tossiche di cellule danneggiate, come nelle malattie
infettive; in altri casi, per mettere a freno la velocità del suo scorrimento o la
pressione che può esercitare sopra tessuti od organi, ora provocando arrossamenti,
ora dolori di testa»65. Nella tradizione popolare italiana tenere una foglia di felce
in una scarpa toglie la stanchezza e mantiene i piedi caldi.
Più notizie abbiamo della felce maschio (Polystichum filix mas) che era
famosa nel Medioevo: la si trovava in quasi tutti i trattati di erboristeria per le sue
molteplici proprietà mediche66. La felce «fiorisce, nella mitologia, solo per pochi
attimi, e sparge al suolo i petali. Chi li raccoglie potrà vedere demoni e streghe;
potrà trovare gli ori nascosti»67. Tale credenza non si riferisce unicamente alla
cosiddetta “felce maschio”, cioè al citato Polylisticum filix-mas, bensì anche alla
felce aquilina, un tempo nota come “felce femmina”, come già riportava Andrès
De Laguna nel XVI secolo68. Nella notte della vigilia di San Giovanni si coglieva
prima di tutto la felce o il seme di felce. Era un’usanza europea. L’erborista
Mattioli scriveva: “la felce cogliesi tagliandosi le foglie presso alla radice le quali
64 P.C. PALAU FERRER, Les plantes médicinales baleáriques, Palma de Mallorca, Biblioteca Les Illes d’Or, 1954, pp. 65-66. 65 E-mail di Giorgio Samorini, del 4/5/2003. 66 Sulle proprietà terapeutiche delle varie specie di felci cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, XXVI, 58; XXVII, 72, 78. 67 M.I. MACIOTI, Miti e magie delle erbe, Roma, Newton Compton, 1993, p. 273. 68 Andrés de Laguna fu un medico spagnolo, nativo di Segovia. Autore di traduzioni dal greco e dal latino, scrisse anche alcuni trattati di medicina.
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portate nelle case, e appiccate sopra panni di lino, ovvero sopra carta vi lasciano
cadere il seme”. L’operazione si doveva fare alla fine di giugno, quando
maturava: “il volgo pensa che il seme della felce non si può cogliere o portare via
se non la notte di S. Giovanni ... con alcuni incanti, con i quali vogliono che si
caccino i diavoli che gli fanno la guardia”. Guglielmo Campana, rettore di S.
Michele in Modena, esorcista di S. Geminiano al principio del ‘500, coglieva felci
nella notte di S. Giovanni, scuoteva il pulviscolo dai semi per depositarlo su foglie
di altre piante la cui efficacia veniva ulteriormente esaltata da alcune scritte fatte
sulle foglie, scritte tratte dalle Sacre Scritture. C’erano comunque anche altri
periodi per la raccolta delle piante «dettati da altri sistemi mitologici o
simbolici»69. Dal punto di vista magico si utilizzava soprattutto il rizoma che, se
bruciato oppure messo vicino all’orecchio durante il sonno, dava il dono della
chiaroveggenza e dei sogni profetici. Si diceva poi che desse la fecondità alle
donne che avevano difficoltà a procreare. La felce aveva anche una grande
importanza nella magia finalizzata a causare la pioggia70. Questo rapporto della
felce con l’acqua lo si ritrova nel racconto di un miracolo di S. Francesco,
riportato da Tommaso da Celano. A Gagliano una donna di nome Maria si era
dedicata al servizio di San Francesco. Un giorno decise di salire su un monte, del
tutto secco per la mancanza d’acqua, per potare degli aceri. Arsa dalla sete crollò
esausta e si addormentò, invocando S. Francesco. Il santo la chiamò nel sonno, ma
lei non si svegliò finché, la terza volta, si alzò, vide una felce vicino e la estrasse
dal terreno. La sua radice era intrisa d’acqua. Allora con le dita e con un piccolo
ramoscello scavò intorno. La fossa si riempì d’acqua e quella che prima era una
goccia divenne una fonte. La donna bevve e si lavò gli occhi che erano ammalati.
69 A. BIONDI, “La signora delle erbe e la magia della vegetazione”, Cultura popolare nell’Emilia Romagna. Medicina,
erbe e magia, Milano, Silvana Editoriale, 1981, pp. 185-203, ivi p. 195. 70 Dobbiamo dire, per correttezza scientifica, che le nostre notizie riportate supra vanno considerate con cautela. Sono tratte da dei nostri vecchi appunti nei quali, per la fretta, non abbiamo annotato la fonte.
21
Subito guarirono. Da allora la fonte fu frequentata dagli ammalati i quali vennero
risanati dalle loro malattie con l’acqua71.
Nell’etnobotanica sarda si sa poco di essa. I suoi tre fiori (ma sempre della
felce maschio), se colti a mezzanotte, in un luogo deserto, avevano il potere di
rendere immuni dai colpi di archibugio. A Locèri, il giorno del Corpus Domini,
ogni quartiere costruiva, e ancora oggi costruisce, una cappella utilizzando piante
e fiori. Si utilizza la ment’e abis, ‘menta delle api’72, che viene nascosta sotto le
felci. Puddu nel suo Ditzionariu definisce la felce una «Zenìa de erba [...] chi
faghet mescamente in logu umbrinu e chi candho essit zughet sa punta fata a
càncaru, allorigada»73, ‘Tipo di erba [...] che cresce più che altro in luogo
ombroso e che quando spunta ha la punta fatta ad alveolo, raggrinzita’. Nel XVIII
secolo Andrea Manca Dell’Arca segnalava che la felce nasce spontaneamente, in
luoghi sterili. Le sue radici disturbano la crescita del frumento. Il suo sugo,
mischiato con miele e poi bevuto uccide i vermi dell’intestino. La radice, cotta in
brodo, è d’aiuto contro l’ostruzione della milza e sempre lo stesso sugo, sparso
per terra, tiene lontani cimici e serpenti74.
La presenza di una penna sul capo di uno dei guerrieri, trova dei riscontri,
anche se disparati. Nella citata lettera di Isabella d’Este, la nobildonna scriveva:
“La seconda [scil. moresca] fu de fanti armati de celatoni, gorzarino, corasina,
falda et fiancali, cum una penna in testa”75. La penna potrebbe essere quella che
in ambito popolare era, nel caso specifico, la felce aquilina, più in generale
qualsiasi erba o pianta che fosse considerata – in un determinata zona o regione –
avere dei poteri magico-apotropaici. In un’ordinanza di Carlo II di Castiglia, del
1699, s’imponeva ai partecipanti alla processione del Corpus Domini che
danzavano la moresca, di non portare maschere e cappello davanti al SS.
71 TOMMASO DA CELANO, Trattato dei miracoli, III, 16. L’opera fu terminata verso il 1253-1254. Per l’edizione critica vedi Analecta Franciscana. Tom. X. Legendae S. Francisci Assisiensis saec. XIII et XIV conscriptae, I, Grottaferrata, Frati Editori di Quaracchi, 19412, pp. 269-331 72 Si tratta dell’Hypericum perforatum, efficace nelle lievi forme di depressione. Ha un odore molto aromatico. 73 PUDDU, Ditzionariu de sa limba e de sa cultura sarda, cit., p. 687 s.v. “Fibixi”. 74 A. MANCA DELL’ARCA, Agricoltura di Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 2000 (1a ed. Napoli 1780), p. 318. 75 Lettera citata da GALANTI, “Ancora sulla moresca”, cit., p. 49.
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Sacramento, ma solo ghirlande o corone di fiori, come si usava anticamente7676 .
Se le ghirlande o le corone di fiori rappresentano l’uso antico, è più che probabile
che la presenza della penna sia seriore. Da tutto ciò che abbiamo scritto sulle felci,
ci sembra che due caratteristiche potrebbero essere maggiormente rilevanti nel
nostro contesto: la felce non tollera il sole, ha bisogno d’ombra e possibilmente
d’umidità. L’assenza di sole e l’umido, il principio dell’acqua. Inoltre è una pianta
che purifica (Lluch), quindi rinnova.
Dopo aver completato questa parte, ritorniamo su un aspetto che può
sorprendere: la possibile esecuzione della danza in chiesa o comunque durante un
cerimonia religiosa in genere. In realtà ciò non deve sorprenderci più di tanto. Per
citare che degli esempi minimi, nel 1665 a Milano, il prete bolognese Sebastiano
Locatelli vide con suo grande scandalo, durante la processione del Corpus
Domini, dodici danzatori spagnoli che combattevano a colpi di spada quella che
con tutta evidenza era una moresca, davanti all’ostensorio77. Sono tutti riti creatisi
grazie «all’assorbimento e al tramutamento di antiche usanze, operato dalla
Chiesa», secondo una modalità per nulla nuova78. In Sardegna le testimonianze
sulla presenza di balli in chiesa o nelle spiazzo antistante sono numerose; senza
farne un elenco ci piace citare quella di Joseph Fuos, cappellano militare
protestante, al seguito di un reggimento mercenario di soldati tedeschi agli ordini
del savoiardo Re di Sardegna, di stanza in Sardegna intorno agli ani 1770-1780.
Scriveva Fuos: «Si balla abbastanza fra i Sardi, specialmente nelle loro feste
ecclesiastiche, e talvolta ballano anche nella stessa chiesa, dinanzi all’altare. Essi
si mettono in un circolo d’uomini e donne, l’uno tiene l’altro per la mano, e
76 TORNIAI, La danza sacra, cit., p. 283. 77 SACHS, Storia della danza, cit., p. 369. TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 492 riporta lo stesso episodio, datandolo 1635. Nessuno dei due studiosi cita la fonte e così non ci è stato possibile verificare con certezza l’anno. 78 TOSCHI, ibidem. Altri e più numerosi esempi di questa mescolanza o cristianizzazione possono esser letti in TORNIAI, La danza sacra, cit., p. 271 e nota 3, 272-273. In alcuni dei casi riportati dal Torniai, ritorna il tema della danza delle spade di fronte al corpo di Cristo, oltre che proprio nel giorno della sua festa. Tutto sommato non manca una coerenza e una prosecuzione logica rispetto al significato della danza delle spade: se essa era un ballo di propiziazione, di fertilità, cosa poteva esserci di più fertile del corpo di Cristo stesso? Ovviamente Chiesa e classi popolari intendevano questa fertilità in maniera differente: per la Chiesa s’intendeva la fertilità come spirituale, per le classi popolari, i contadini, la s’intendeva come fertilità delle messi, del raccolto anche se questo non ci deve far necessariamente ipotizzare un eventuale “materialismo” contadino. Piuttosto, il fatto è che l’abbondanza del raccolto era per il contadino ricchezza materiale e spirituale allo stesso tempo.
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ballano attorno al suonatore, il quale sta nel centro [...]»79. La descrizione del Fuos
ricorda molto l’ipotesi che noi abbiamo fatto riguardo lo svolgimento della
moresca in chiesa, forse proprio davanti all’altare, come Fuos vide (peraltro per
un differente ballo, verosimilmente il ballu tundu). Talvolta su questi balli
intervennero anche le autorità civili, più che altro col fine di disciplinarli più che
per eliminarli. Nel 1699 un’ordinanza di Carlo II di Castiglia (citata prima)
imponeva, tra le altre cose, agli spadonari che partecipavano alle processioni del
Corpus Domini di non danzare durante l’elevazione e mai nel coro o nel
presbiterio. Non sappiamo quanto l’ordinanza abbia avuto effetto in Sardegna80.
Ci potrebbe essere un ulteriore legame tra la danza delle spade raffigurata
nel portale e la chiesa di San Bacchisio. Alludiamo alla data di consacrazione,
avvenuta – come detto – il 10 maggio 1598, ad opera del vescovo di Alghero
Andrea Bacallar. Tale data potrebbe, a una prima lettura, non dirci niente di
particolare, tuttavia è probabile che non fosse stata disposta casualmente nel
calendario. Il periodo in cui si eseguiva ritualmente la danza delle spade era
maggio e parte di giugno, mesi di attesa per il contadino, il quale aspetta che il
grano maturi. Non deve fare alcun lavoro, deve solo aspettare e in questo “vuoto”
può solo sperare, sperare che le messi non si rovinino, sperare nelle piogge di
maggio, che nel microclima sardo sono particolarmente utili. Inoltre «Le mois
précédent le solstice d’été, le mois de mai, est cité par tous les historiens de la
danse comme étant celui qui a donné naissance à plusieurs fête»81. Come osserva
la Galanti, il ballo si esegue «in date ricorrenze cultuali, connesse con le vicende
dell’anno agrario»82. Ma inizialmente, annota la stessa studiosa, era una delle più
antiche danze di propiziazione eseguita, per lo più, durante il ciclo primaverile,
per favorire la fertilità del suolo e l’abbondanza delle messi. Nonostante gli
79 J. FUOS, Notizie dalla Sardegna, a cura di G. Angioni, Nuoro, Ilisso, 2000 (1a ed. Lepzig 1780), p. 237. 80 Cfr. TORNIAI, La danza sacra, cit., p. 283. 81 F. BOURQUE - M. LANDRY, Quatre thèmes sur la danse folklorique, <http://www.cvm.qc.ca/mlandry/folklore/themes.htm>, consultato il 7/3/2003. 82 GALANTI, “Danza della spada”, cit., coll. 140-142, ivi col. 140.
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“ondeggiamenti” nel calendario83, la danza delle spade è originariamente legata ai
culti di fertilità primaverili, e in particolare di maggio. I riti del mese «celebrano
la rigenerazione non soltanto materiale ma anche spirituale della comunità nel
rinnovamento cosmico simboleggiato dalla primavera»84. Alla vigilia del 1°
maggio venivano espulse le streghe, ricacciati i morti negli inferi attraverso il
frastuono fatto con fruste, sonagli, vasi, casseruole85. La danza degli spadonari di
Giaglione (Piemonte) è un esempio di questo “ondeggiamento”: la danza si svolge
il 22 gennaio e la domenica successiva. Nell’abito degli spadonari alcune
caratteristiche ricordano il maggio86: gli spadonari hanno un copricapo ricoperto
di fiori in seta e frutti, con lunghi nastri colorati. Come non pensare agli addobbi
che si appendevano al maggio? E inoltre a Giaglione è anche presente quello che
definiremmo un “piccolo” maggio, il bran, una struttura in legno a forma di
albero, alta 2 metri e mezzo, ricoperto di fiori, grappoli d’uva in plastica, spighe di
grano, fiocchi e nastri colorati. Esso è portato nella processione da una ragazza
giovane e nubile, sopra la testa, grazie all’ausilio di un cerchio alla base e di due
manici. Durante la funzione in chiesa il bran è sistemato in una cappella laterale.
Alla sua base è posto un pane bianco che poi viene benedetto e diviso tra i fedeli,
in segno di augurio d’abbondanza futura87. Nei Paesi Baschi, a Sangüesa si
ballava l’Ezpata-dantza il giorno del Corpus Domini, che è una festa che può
cadere a maggio. A Legazpi, a partire dal 1660, la si ballava il tre di maggio.
Ulteriore legame tra il mese di maggio e la danza delle spade lo troviamo proprio
nei cosiddetti maggi drammatici, delle esibizioni teatrali (o parateatrali) all’aperto,
di soggetto epico-cavalleresco, di cui si ha ricordo (e non solo ricordo, visto che in
83 In Spagna la moresca restò in genere legata alle celebrazioni di feste religiose come il Corpus Domini o le processioni che si tenevano presso San Giacomo di Compostela. In Italia invece la danza tese ad essere calendarizzata nel contesto carnevalesco. Cfr. TIBERINI, “La moresca: aspetti socioculturali di una danza popolare tradizionale”, cit., p. 197. 84 A. CATTABIANI, Calendario, Milano, Rusconi, 19977, p. 214. 85 Questo è attestato almeno per il nord e centro Europa. Cfr. CATTABIANI, Calendario, cit., p. 216. 86 Il maggio o majo era il centro ideale di Calendimaggio. L’albero o un ramo di esso era considerato «l’essenza e il simbolo del potere germinativo e produttivo», l’equivalente vegetale del phallus. La notte del 30 aprile i giovani prendevano dei rami fioriti e li attaccavano alla porta o alla finestra della casa delle ragazze nubili, come segno di dichiarato amore. Con ciò recavano il segno della «rinnovata fecondità della natura che avrebbe a suo volta procurato ai singoli e alla comunità l’abbondanza». Cfr. TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., pp. 453-454. 87 Vedi BRAVO, “I terreni piemontesi della danza delle spade”, Le spade della vita e della morte, cit., pp. 147-184.
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alcuni paesi vengono ancora eseguiti) soprattutto in Toscana e in Emilia, che si
svolgevano proprio nel mese di maggio e spesso terminavano con l’esecuzione di
una moresca. Toschi ha ben interpretato i maggi come una prosecuzione, sotto
forma arricchita, della moresca: «Adunque, il prolungarsi senza soluzione di
continuità della moresca nei maggi è provato; non solo, ma si riconoscono tutti gli
anelli della catena, che, partendo dai riti di fertilità nelle feste primaverili, giunge
fino ai maggi tuttora rappresentati»88.
Dunque la consacrazione della chiesa cercò forse di spostare l’interesse
della festa dai culti di propiziazione di maggio, tra cui la stessa danza delle spade,
ai festeggiamenti per la consacrazione della chiesa. Infatti la festività del santo
preesisteva alla consacrazione; si sa che il culto di San Bacchisio precede la
costruzione dell’attuale edificio. San Bacchisio doveva essere un santo attraverso
cui erano proseguiti alcuni riti fertilistici di maggio. Tant’è che la sua statua
veniva utilizzava per invocare la pioggia, in sostituzione – talvolta – di un altro
rito, su Maimone89. Anche a Locèri, sempre in Sardegna, San Bacchisio (anche
qui festeggiato il 10-11 maggio) è il santo della pioggia: se c’era siccità, per
chiedere al santo la grazia della pioggia, l’uomo che trasportava la statua del
santo, attraversava un fiumiciattolo vicino alla chiesa rurale e abbassava la stessa
statua fino a farle bagnare i piedi nell’acqua del fiume. Nel XVI sec. siamo ancora
in un periodo storico lontano dall’aver portato a termine la “cristianizzazione” dei
riti di maggio. Andando per gradi, a poco a poco, nel XVII secolo il mese di
maggio divenne mese dedicato alla Madonna90. Alla fertilità della terra si sostituì
la fertilità spirituale della madre di Dio, al mese dell’amore si sostituì il mese
della verginità. Siamo ancora ai primi passi di questo processo, né le direttive
della Chiesa, in tal senso, erano uniformi dappertutto. Ma del fatto che i riti del
mese di maggio fossero combattuti dalle istituzioni ecclesiastiche, ne abbiamo
88 TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 521. Su tutta la problematica del rapporto moresca/maggi vedi ibidem pp. 501-527. 89 Cfr. B. PIRAS, “Su Maimone: il rito propiziatorio della pioggia a Bolotana (Nu)”, Quaderni Bolotanesi, n. 17, 1991, pp. 523-545, in particolare pp. 537-538. 90 F. CARDINI, I giorni del sacro. Il libro delle feste, Novara, Editoriale Nuova, 1983, p. 218.
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testimonianza, anche se non frequente. Per esempio, nel 1584, nella diocesi
piemontese di Alba veniva criticato l’uso di piantare alberi e si ordinava di
piantare, negli stessi punti, delle croci91.
Anche in Sardegna si celebrava a maggio il ritorno della primavera. Gino
Bottiglioni, in un – purtroppo – breve accenno affermava che si festeggiava «con
una certa solennità, il ritorno della primavera e, il 12 maggio, sulla piazza, si
danza e si canta al suono di rozzi [sic] strumenti paesani, mentre i fidanzati
rinnovano le loro sacre promesse e si stringono nuovi legami d’amore»92. Ma
Calendimaggio e tutto il mese di maggio furono progressivamente cristianizzati.
A Ghilarza, il 1° maggio la statua di S. Michele Arcangelo veniva portata in
processione, con delle spighe in mano, affinché ottenesse da Dio una buona
annata e tenesse lontani i flagelli delle messi, la siccità, la grandine e le
cavallette93. Talvolta cambia, a seconda del luogo, il santo invocato e la data
(anche se di poco), col fine di far coincidere nel calendario festività del santo e
funzione protettrice e di auspicio. Così la funzione che a Ghilarza ha S. Michele il
1° maggio, a Usini l’aveva S. Giorgio, il 22 aprile. I ragazzini giravano nelle
strade del paese per tutta la giornata cantando “Santu Jorgi cavalleri / dade nos
abba e laore / Ca bos fatto unu cugone / Mannu cantu unu tazeri”, ‘San Giorgio
cavaliere / dateci acqua e messi / che vi faccio un pane/ grande quanto un
tagliere’94.
Va detto comunque che in Sardegna, delle festività di Calendimaggio e del
mese di maggio, poco si ricorda da quando sono iniziate le ricerche etnografiche e
poco scrivono i viaggiatori del XVIII-XIX secolo. In realtà è forse uno dei mesi
dell’anno dove l’iniziativa della Chiesa ha lentamente, progressivamente e
inesorabilmente raggiunto il “successo” poiché il mese è costellato di feste che
nella loro religiosità hanno “scacciato” gli antichi festeggiamenti del mese, anche
91 P. GRIMALDI, Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale, Milano, Franco Angeli, 1993, p. 198. 92 G. BOTTIGLIONI, Vita sarda, ristampa a cura di G. Paulis e M. Atzori, Sassari, Edes, 2001, p. 55 (1a ed. Milano 1925). 93 Ibidem, p. 38. 94 Ibidem.
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se gli addobbi sulle statue dei santi o sui carri che li trasportano sono simili a
quelli che altrove si mettevano sul maggio. In Logudoro (Sardegna centro-
settentrionale) è attestato che il 1° maggio le ragazze nubili facevano ciò che era
considerato un gioco: riunite sotto una baldacchino, a volte con dei ragazzi,
tiravano le sorti, mettendo «varie galanterie donnesche» dentro un canestro, e poi
cantavano “E Maja, e maja, et bene veniat Maja / Cun s’arma et cun su fiore, et
cun totu su soliu amore”95. Così registrava l’usanza lo studioso sardo Matteo
Madau nel 1787. A Ozieri il gioco era chiamato “cantare su maju”96.
Il nostro articolo, diviso in due parti, non ha apportato significative novità al
quadro coreutico poiché la nostra analisi, portata avanti su un duplice livello,
antropologico e iconologico, si è basata sulla lettura di una testimonianza
scultorea; ma oggigiorno in Sardegna non è rimasto nemmeno un vago ricordo
della danza, niente è rimasto dell’aspetto musicale, niente è rimasto della
coreutica della medesima danza delle spade. D’altronde le stesse descrizioni più
antiche della danza, in Italia, si riferivano ormai a forme già «non solo molto
sviluppate ma che hanno già modificato più o meno profondamente il carattere
tipico delle moresche»97.
GRAZIANO FOIS
95 L’incipit del testo sembra conosciuto in quasi tutto l’ambiente italico. A Mongardino (ma la rilevazione è recente) il canto iniziava così: “Benvenì magg benvenì magg”. A Treiso (sempre da una rilevazione recente) il canto iniziava “Ben
vene maj, ben vene maj”. Cfr. GRIMALDI, Il calendario rituale contadino, cit., pp. 197-198. 96 M. MADAU, Le armonie de’ sardi, a cura di C. Lavinio, Nuoro, Ilisso, 1987 (1a ed. Cagliari 1787), p. 33. Sul significato del gioco cui si accompagnavano i versi cfr. A.M. CIRESE, “L’assegnazione collettiva delle sorti e la disponibilità limitata dei beni nel gioco di Ozieri e nelle analoghe cerimonie vicino-orientali e balcaniche”, Atti del
convegno di studi religiosi sardi, Cagliari 24-26 maggio 1962, Padova, Cedam, 1963, pp. 175-193. Sull’interpretazione del termine “arma”, stiamo preparando uno studio che riprenderà tutto l’argomento, il quale non è stato più studiato da etnografi e linguisti dopo l’articolo di A.M. CIRESE, “Notizie etnografiche sulla Sardegna del ‘700 nell’opera di Matteo Madao”, estratto da Rivista Etnografica, vol. XIII, 1959. 97 Cfr. TOSCHI, Le origini del teatro italiano, cit., p. 486. SACHS, Storia della danza, cit., pp. 373-376 ha ricostruito una protostoria della moresca la cui forma più arcaica si troverebbe in Romania (jocul de caluşari), con un crescendo evolutivo che arriva fino alle forme spagnole, le più avanzate rispetto a quelle rumene. In verità Sachs parlava di «derivazione» dell’una dall’altra, noi siamo più propensi a non dare ai dati del Sachs una successione dovuta a derivazione, ma parleremmo di forme più o meno evolute (absit il significato positivo che spesso questo vocabolo ha), non collegate da rapporti di filiazione.
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Parte II. La cosmologia della danza delle spade nell’iconografia
del portale di San Bacchisio a Bolotana
Volendo introdurre, in sintesi, il tema della presenza di significati
cosmologici nelle antiche danze tradizionali, pare utile iniziare questo studio
riportando alcune citazioni ricavate da testi diversi. Esse, infatti, integrandosi l’un
l’altra in modo abbastanza coerente, possono probabilmente fornire una premessa
indicativa del tema trattato.
«La danza degli eroi mitici [...], ha generato la danza rituale degli uomini
che si adeguano con questa al ritmo celeste e ristabiliscono il rapporto tra cielo e
terra – può trattarsi perciò in particolare di danza della pioggia o di amore, di
vittoria in combattimento e di fertilità»98.
«Le danze in tondo seguono il corso del sole nel cielo e possono anche
racchiudere uno spazio sacro. Le danze delle spade e le moresche hanno lo scopo
magico di aiutare il sole nella sua rotazione, soprattutto in primavera»99.
«Intanto praticate queste danze in maniera completa, e rendetevi compagni
degni dei pianeti, che sono i danzatori naturali»100.
In definitiva, quindi, come suggerisce Mohr, la danza era un mezzo per
adeguarsi ai ritmi celesti, ristabilendo il rapporto tra cielo e terra. A questo
accenno ai ritmi celesti si può anche aggiungere un’ulteriore considerazione
rilevando che, in secoli non lontani dal nostro, la vita degli uomini – specialmente
in ambienti rurali – si svolgeva in stretta relazione con i cicli naturali dai quali era
scandita e condizionata da tempi immemorabili. Conseguenza di ciò era che –
sino ad epoche non troppo remote rispetto all’attuale – chi eseguiva e partecipava
alle espressioni della cultura tradizionale (danze tradizionali, ma anche maschere
98 G. H. MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Milano, I.P.L., 1981, p. 134. 99 J. C. COOPER, Dizionario dei Simboli, Padova, Franco Muzzio Editore, 1991, p. 102. 100 ARBEAU, [Pseudonimo di Jehan Tabourot], Orchesographie. Et Traicte en forme de dialogue, pour lequel toutes
personnes peuvent facilement apprendre & practiquer l’honneste exercice des dances, cit., p. 104r.
29
o immagini di vario genere)101 – era ancora in grado di percepire le relazioni
simboliche di codeste tradizioni con i ritmi della natura.
A parere di chi scrive, una testimonianza di quanto si è appena affermato si
può trovare nella “danza delle spade” scolpita nel portale della chiesa dedicata a
San Bacchisio a Bolotana.
Per dare spiegazione di questo, occorrerà che il discorso si inoltri, di volta in
volta, in argomenti diversi; sarà quindi opportuno esporre:
1) alcune notizie sulla devozione per San Bacchisio e sull’edificio a lui
dedicato in Bolotana;
2) brevi considerazioni di ordine generale a proposito del simbolismo legato
al portale in una chiesa di impostazione tradizionale;
3) dare un’interpretazione del significato delle immagini scolpite sul portale
di San Bacchisio;
4) ed infine – necessariamente solo infine – indicare la loro relazione con la
danza delle spade.
A. San Bacchisio e la sua chiesa.
Quella del santo Bacchisio è un’immagine legata all’identità stessa del
paese di Bolotana, talora identificato anche semplicemente come “il paese di San
Bacchisio”. San Bacchisio è ricordato dalla tradizione popolare come un santo
militare che fu ufficiale dell’esercito romano e non volle rinnegare la fede
cristiana durante la persecuzione di Massimiano e Diocleziano. Per questo egli fu
sottoposto all’umiliazione di indossare abiti femminili prima di essere
martirizzato.
La preghiera rivolta a questo santo riguarda principalmente la protezione
delle attività agricole al fine di scongiurare fenomeni naturali calamitosi ed in
101 A proposito delle immagini cfr. O. BEIGBEIDER, Il lessico dei simboli, trad.it. Milano, Jaca Book, 1989, pp. 11-13.
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generale favorire la fertilità dei campi. La protezione del santo sulla fertilità si
estende poi anche alla maternità femminile e altri aspetti102.
A. 1. L’edificio.
La chiesa dedicata a San Bacchisio sorge nella parte bassa di Bolotana, a S-
E del paese. L’attuale costruzione fu eretta alla fine del XVI secolo sul luogo di
una precedente di età alto-medievale. Le forme della chiesa, nonostante il periodo
“rinascimentale” nel quale fu innalzato l’edificio, fanno riferimento al “gotico
aragonese”103 (o anche al romanico, secondo il collega Graziano Fois) e,
coerentemente con questo, la concezione simbolica dell’architettura e quella della
sua iconografia è medievale e quindi tradizionale104.
A. 2. Le forme del portale.
La struttura del portale mostra chiara consapevolezza di quelle che erano le
espressioni contemporanee dell’arte rinascimentale (p.e. i conci a forma di
“diamante”); ciononostante i modi con i quali sono state realizzate le sculture
sono quelli tipici tramandati dall’arte medievale, dove il contenuto simbolico delle
immagini è sottolineato ed alluso dall’estrema stilizzazione delle forme che
rimandano a geometrie tendenzialmente semplici e comunque archetipiche.
A. 3. Cosmologia dei portali medievali.
Addentrandosi ulteriormente nel discorso, appare necessario introdurre
alcune nozioni di carattere generale su quali fossero le basi simboliche sulle quali
si impostava l’iconografia di un portale di una chiesa medievale. Per comprendere
il simbolismo del portale è fondamentale considerare un passo della Genesi (28,
17) riguardante il primo altare “fisso”: “Quanto terribile è questo luogo! Questa è
102 VARGIU, San Bachisio di Bolotana, cit., pp. 48-52. 103 VARGIU, ibidem, pp. 17-31. 104 Il termine “tradizionale”, in questo caso, occorre sia inteso come riferito all’antica tradizione simbolica relativa all’arte sacra. Vedi in proposito T. BURCKHARDT, L’arte sacra in Oriente ed Occidente, trad. it. Milano, Rusconi, 1990, pp. 5 -12.
31
proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo!”105. Il concetto di porta del
cielo è un concetto molto antico con precisi ed importanti significati cosmologici.
Nell’antichità, si intendevano per porte del cielo i momenti “di passaggio” dei
cicli cosmici che regolavano la vita sulla terra. Nel ciclo annuale, le porte del
cielo erano i momenti in cui il sole sorgeva nei giorni di passaggio da una
stagione all’altra (solstizi ed equinozi); per il ciclo giornaliero, i passaggi erano
quelli dell’alba, mezzogiorno, del tramonto e della mezzanotte. Sempre porte del
cielo erano considerati i momenti di passaggio del ciclo lunare106. Nelle antiche
religioni precristiane, legate all’adorazione dei fenomeni naturali, si riteneva che
questi “passaggi” fossero momenti “speciali” in cui la comunicazione tra la (o le)
divinità e gli uomini erano più “facili” e “diretti”. Questi antichi temi cosmologici
precristiani vennero quindi recepiti ed integrati nel cristianesimo medievale per
cui il Cristo stesso divenne porta del cielo, in quanto tramite il suo sacrificio si
“riaprì” per gli uomini l’accesso al Cielo107. Questo è, per altro, anche il motivo
per cui l’iconografia del portale è così importante: esso rappresenta Cristo stesso
(“Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo”; Gv. 10, 7).
L’entrata della chiesa quindi, in quanto “passaggio” tra lo spazio profano e quello
sacro, è necessariamente porta del cielo108.
A. 4. Il portale di San Bacchisio: immagini e significato.
Il portale di San Bacchisio comprende sei formelle figurate, tre per ogni
lato, intervallate da conci a forma di diamante e da altri con semplici sculture che
richiamano porte a tutto sesto e decorazioni quadrate.
Le due formelle in alto a sinistra e a destra (foto 2 e 1) rappresentano una
figura vestita che impugna la scimitarra sopra la testa (formella ora a sinistra),
105 J. HANI, Il simbolismo del tempio cristiano, Roma, Arkeios, 1996 pp. 91-103. La casa di Dio è ovviamente il tempio (cristiano) dove Egli – Dio – risiede. Questo tema in realtà meriterebbe un’ulteriore approfondimento ma ciò porterebbe inevitabilmente lontano dal tema al quale è dedicato il presente scritto. 106 R. GUÉNON, I simboli della scienza sacra, trad. it. Milano, Adelphi, 1990, p. 203, ma anche p. 58 e ss. e p. 117 e ss. 107 La stessa tematica cosmologica quindi venne integrata nel catechismo cristiano e così troviamo che il Cristo è stato definito dai padri eterno solstizio, ma anche sole di giustizia. 108 HANI, Il simbolismo del tempio, cit., pp. 91-103. BURCKHARDT, L’arte sacra in Oriente ed Occidente, cit., pp. 71-91. GUÉNON, I simboli della scienza sacra, cit., p. 216 e ss.
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mentre l’altra (formella ora a destra), evidentemente nuda e barbuta, brandeggia
una scimitarra davanti a sé nonché uno scudo circolare nell’altra mano.
Queste due formelle, a differenza di tutte le altre, presentano stilature di
malta sui lati. Questo particolare è importante, in quanto indizio rilevante di un
avvenuto riposizionamento delle due pietre; a parere di chi scrive, durante questo
operazione esse sono state rimontate invertite, alterando la simmetria del portale
con un’altra simmetria – falsa – in cui le figure si fronteggiano tutte, eccetto
quelle delle formelle in basso. Infatti, solo considerando questo mutamento,
l’intera sequenza delle immagini acquista un senso compiuto.
Le due sculture sottostanti (foto 4 e 3) le prime due raffigurano personaggi
coronati, vestiti in panni pesanti e con gli attributi di cacciatori: a sinistra si nota il
corno da caccia, un giavellotto ed una spada assai arcuata, simile a una scimitarra,
portata alla cintura; a destra viene soffiato un richiamo109, mentre un archibugio
assai rovinato è appoggiato in spalla ed un altrettanto rovinato cagnolino zampetta
ai piedi del personaggio110.
Le altre due formelle (foto 5 e 6) figurate del portale, in basso, sono assai
consunte; sembrano rappresentare due figure umane; quella di destra è forse
incappucciata e a testa china; quella di sinistra nasconde, con un disegno semi-
circolare, parte di una luna crescente111, con le punte verso l’alto, come spesso è
identificabile nel simbolismo medievale.
A.5. L’interpretazione del significato.
In ragione di quanto detto a proposito dei rapporti cosmologici individuabili
nelle iconografie dei portali – prima di diffonderci nell’analisi dei vari significati e
della loro relazione con la danza delle spade – possiamo anticipare che le
immagini appena (sommariamente) descritte, fanno ritenere che in esse siano state
109 Comprensibile solo se messo in relazione logica con l’immagine di fronte. 110 Altre caratteristiche di queste figure saranno poi considerate più avanti, quando se ne tratterà dettagliatamente. 111 A proposito della luna crescente, A. CATTABIANI, Planetario, Milano, Mondadori, 1998, p. 113, la cita come «una sottilissima falce che al suo tramonto avrà la curva verso il basso, come una culla». Quanto alla luna calante, «al tramonto dispone la curvatura verso l’alto, come una vecchina incurvata». Cfr. ibidem, p. 114.
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rappresentate in termini simbolici (e, vorremmo aggiungere, poetici) le quattro
stagioni ed, insieme a questo, le fasi lunari; queste ultime indicate in sequenza
logica dalle posizioni delle scimitarre e dal loro simbolismo, appunto, lunare112. Si
sarebbe quindi seguita una tradizione assai antica e diffusa che metteva in
analogia appunto i quattro momenti “di passaggio” dell’anno solare con i
“momenti di passaggio” del ciclo (mensile) della luna113113. In questo modo, il
portale del San Bacchisio sarebbe ciò che, appunto, “deve” essere: una porta del
cielo.
Veniamo allora ad argomentare nel modo più dettagliato possibile quanto
appena anticipato. Diciamo intanto che, tenendo presente i succitati indizi di
inversione delle due formelle in alto, in origine, la simmetria del portale doveva
essere la seguente: formelle con figure frontali in basso, figure rivolte verso
l’interno in mezzo, rivolte verso l’esterno in alto (vedi i due schemi).
In ragione di questo, sembra allora di poter considerare le quattro figure di
“guerrieri” come allusioni alle quattro stagioni dell’anno. Le stagioni dovrebbero
essere in parte identificate dalle attività tipiche svolte in specifici periodi
dell’anno, da elementi del vestiario e da attributi di vario genere; ulteriori
elementi di identificazione provengono dalla relazione delle stagioni con le fasi
lunari. Dal punto di vista dell’esposizione, credo sia utile partire dalla formella
“centrale” di destra, una di quelle in cui il personaggio porta la corona (foto 3).
In questa formella sembra rappresentata l’uccellagione, attività qui indicata,
verosimilmente, come invernale; essa è rappresentata dall’archibugio sulla spalla,
dal richiamo (probabilmente per uccelli) e dal cane da caccia (rovinato) più in
basso. In questo caso, allusioni cosmologiche sarebbero il “soffio” proveniente dal
richiamo, allusione ai venti invernali, nonché i raggi “solari” della corona:
l’inverno è comunque il periodo del giorno solare crescente. Il personaggio pare
vestito con abiti piuttosto pesanti (non molto dissimili da quelli del personaggio di
112 La spada occidentale a lama diritta, per il simbolismo della forma, è maschile e solare. Quella orientale ricurva è femminile e lunare. E. CIRLOT, Dizionario dei simboli, trad.it. Milano, Siad Edizioni, 1985 p. 461. 113 CIRLOT, Dizionario dei simboli, cit., p. 298.
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fronte, in verità); questi abiti possono essere identificati come “invernali”114.
Manca, in questa formella, qualsiasi allusione “lunare”, essendo la spada115, in
questo caso, dritta ed appena accennata. Questo è coerente con il resto in quanto
l’inverno è tradizionalmente collegato con il periodo della luna “nera”, cioè
invisibile.
Il programma del portale prevederebbe ora una descrizione dell’elemento
successivo in basso, e poi di quello a sinistra, sempre in basso. Tuttavia, per
maggiore semplicità di spiegazione, passeremo alla formella di sinistra, al centro,
un’altra immagine regale (foto 4). In questa formella il personaggio soffia nel
corno, allusione ad un tipo di caccia (si presume di animali terrestri)116 diverso da
quella già descritta per l’altra formella. Verosimilmente questa era un’attività
primaverile. Il soffiare nel corno è un’altra allusione ai venti e nell’iconografia
medievale il corno è spesso connesso con il “marzo ventoso” e con la primavera.
Tra l’altro, Bolotana è particolarmente esposta ai venti. Gli indumenti del
personaggio sembrano quasi altrettanto pesanti di quelli “invernali”. Naturalmente
anche questo cacciatore porta la corona con i raggi “solari”; anche la primavera è
infatti un periodo di sole “crescente”117. Il giavellotto118 è legato al tema del
“raggio di sole” ed è ovviamente più “potente” della piccola spada “invernale” del
personaggio già descritto. Compare invece qui la spada assai ricurva, molto simile
alla scimitarra lunare, nella posizione della luna crescente119. Questo è naturale in
quanto la primavera è associata, nel ciclo lunare, appunto alla luna crescente. Nel
mento del personaggio si nota anche quella che sembra una piccola “barbetta”: ciò
è normale in quanto l’anno non è più “giovane” come nel periodo invernale.
Appare anche qualcosa a metà tra una penna ed una fronda sul capo del
114 La caratterizzazione “invernale” del personaggio rappresentato appare ancor meglio definita in relazione con le caratteristiche delle altre formelle, oltre che dagli attributi iconografici specifici. 115 La spada dritta è un simbolo del raggio di sole in ragione della sua forma acuta e dell’aspetto lucente. Cfr. CIRLOT, Dizionario dei simboli, cit., p. 461. 116 Graziano Fois ci fa sapere che in Sardegna il corno si usava, fino ad una decina di anni fa, per la cassa manna, la caccia al cinghiale. 117 Tra i numerosissimi riferimenti per il simbolismo solare della corona radiata indichiamo A. CARILE, “Le insegne del potere a Bisanzio”, La corona e i simboli del potere, Rimini, Ed. Il Cerchio, 2000, pp. 65-124, ivi pp. 80-82. 118 COOPER, Dizionario dei Simboli, cit., p. 152. 119 Ovvero con le punte all’insù; vedi CATTABIANI, Planetario, cit., pp. 113 e ss.
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cacciatore120: dovrebbe essere un’allusione (piuttosto originale) alla crescita della
vegetazione.
Ammettendo l’inversione di formelle di cui sopra, in questo caso al livello
successivo avremmo il guerriero nudo (foto 1): si direbbe un “moro”121. La nudità
dovrebbe essere connessa al calore estivo in quanto qui si rappresenta l’estate.
Naturalmente non appare la corona solare poiché il sole diviene già calante in
questo periodo. La probabile foglia è ancora presente sulla testa perché in questa
stagione vi è il pieno rigoglio della vegetazione. Si tratta dello stesso fertile
rigoglio simboleggiato dal fallo eretto.
A rigore, la barba122 del personaggio dovrebbe essere un po’ più folta di
quello precedente, “primaverile”. L’età dell’anno è già avanzata. Sulle spalle
l’uomo nudo porta un recipiente per liquidi (forse per l’acqua, che in estate
probabilmente occorreva portarsi appresso)123. Le sue armi sono la scimitarra
lunare portata nella posizione del “quarto di luna”.
L’estate è solitamente rapportata alla fase di luna piena ed è proprio la luna
piena ad essere simboleggiata dallo scudo circolare; tuttavia, poiché è la presenza
delle scimitarre il vero filo logico-simbolico che riguarda il ciclo lunare, qui è
stato rappresentato, appunto, anche il quarto di luna già124 in fase calante125.
L’estate, in effetti, è già nella parte “calante” dell’anno.
120 Sull’interpretazione di questo particolare, appare decisivo quanto si riporta, nella parte curata da Graziano Fois, a proposito del simbolismo della felce aquilina. 121 Come “moro” mi sembra di poter definire il personaggio con sembianze “aliene” rispetto a quelli delle altre formelle; p.e. la sua nudità. Inoltre – poiché, considerando la presenza di scimitarre, si arriverà a parlare di “moresca” –l’allusione al “moro” appare abbastanza “immediata”. 122 Parrebbe raffigurato quello che sembra un “pizzetto”. 123 Questo personaggio, rappresentato in posa piuttosto “disarticolata” (busto pressoché frontale, gambe e testa di profilo) sembra tenere appesa in vita una borsa, mentre attorno al collo ed ai polsi sono presenti elementi “a zigzag” che, data l’evidente nudità, potrebbero essere forse interpretati come braccialetti o qualcosa di simile. Segnaliamo che, talvolta, la posizione “disarticolata” indica, nell’iconografia medievale, l’inversione del cicli cosmici che avviene ai solstizi. Nel caso specifico, si intende semplicemente proporre queste osservazioni all’attenzione dei lettori, senza arrivare a definire alcuna interpretazione definitiva. 124 Le punte rivolte a destra alludono (gobba a levante, guardando da N), appunto all’inizio della fase calante. Per chiarezza, citiamo qui ciò che riporta Cattabiani sulla luna calante: «In questa fase calante [la luna] ha la gobba a levante, ma al tramonto dispone la curvatura verso l’alto, come una vecchina incurvata». Cfr. CATTABIANI, Planetario, cit., p. 114. 125 Il dubbio che sorge è che l’estate sia indicata come periodo della guerra (e sarebbe plausibile) legata anche ad incursioni piratesche che, se non giungevano fino a Bolotana, colpivano comunque l’immaginario di tutti i Sardi.
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In ogni caso, nella formella successiva siamo al momento autunnale (foto
2). Il personaggio che troviamo sembra vestito in modo non troppo pesante. In
teoria avrebbe dovuto avere la barba più lunga dei due personaggi precedenti ma
il particolare è quasi certamente andato distrutto. Inoltre non appare più la
“foglia” sulla testa: questo è naturale, infatti in questa stagione la vegetazione non
cresce più.
Il fallo del personaggio è quasi nascosto e comunque non più eretto: questo
sta ad indicare che la fertilità, legata alla raccolta dei prodotti autunnali (tra i quali
l’uva per produrre il vino), in parte esiste ancora ma non è certo quella rigogliosa
dell’estate. La posizione della scimitarra è quella della luna rivolta verso il basso,
quindi a rappresentare l’estrema fase calante126, fase solitamente connessa al
periodo autunnale.
Il personaggio inoltre sputa qualcosa; è difficile dire cosa. Forse si tratta di
gocce per indicare la pioggia. In questo periodo si produce il vino: forse si tratta
del vino contenuto poi nel recipiente portato in spalla dal personaggio successivo
nella stagione invernale.
Detto questo, come possiamo allora interpretare i due personaggi in basso ai
lati del portale? Si dovrebbe trattare dei due personaggi che solitamente appaiono
per sottolineare appunto il momento di passaggio, cioè la porta celeste.
In relazione a quanto già accennato, essi si trovano nel momento di
passaggio tra la luna nera, invisibile (connessa all’inverno) e la luna che inizia ad
essere crescente (connessa alla primavera). Il fatto che il personaggio di sinistra
(foto 6) nasconda una luna nuova127, con le punte verso l’alto, è comunque
piuttosto indicativo. La figura a destra (foto 5), che pare incappucciata, dovrebbe
quindi indicare il buio, o l’oscurità, o la notte, mentre quella a sinistra un
momento successivo, già in parte luminoso.
126 CATTABIANI, Planetario, cit., p. 114. 127 Notare come in questo caso si sia ricorso direttamente alla rappresentazione della luna non mediata dal simbolismo della scimitarra.
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Tra l’altro, il periodo tra la luna nera e quello della luna nuova è appunto il
periodo del ciclo lunare per eccellenza legato al germogliare della vegetazione
(che poi si sviluppa durante le altre fasi). Nello specifico, si sarebbe quindi
evidenziato proprio questo momento di passaggio in quanto è quello, tra i cicli
naturali, più legato alla fertilità ed alla procreazione. Tutto questo è da porre in
relazione con la devozione espressa in San Bacchisio, legata appunto, alla fertilità.
Purtroppo entrambe le sculture risultano parzialmente rovinate ed, in
particolare, non si riesce a decifrare un importante particolare che era presente in
basso nella figura di sinistra128. Aggiungiamo anche che, come accennato, nei vari
conci inseriti tra le formelle figurate appaiono delle semplicissime immagini
scolpite di “porte a tutto sesto”. Dovrebbe trattarsi di un modo di indicare appunto
le “porte del cielo”, ovvero i passaggi tra una stagione e l’altra.
B. La danza delle spade.
A questo punto, è possibile approfondire il fatto che per esprimere il tema
delle fasi lunari si sia ricorso al simbolismo delle spade, più precisamente
scimitarre. A parere di chi scrive, infatti, quella scolpita sul portale può essere
interpretata come una danza delle spade rappresentata, con riferimenti
necessariamente sintetici ed allusivi, per indicare le valenze cosmiche del ballo
tradizionale citate all’inizio di questo studio.
Poiché, inoltre, nella danza scolpita appaiono le scimitarre, ci pare che lo
spunto per la realizzazione delle immagini presenti sul portale di San Bacchisio si
possa identificare in una vera moresca, ovvero un genere di danza delle spade
eseguita, appunto, con scimitarre. La presenza di un moro tra le figure del portale
non fa che rafforzare quest’ipotesi.
La moresca, in quanto danza delle spade, fu (ed è) un genere di danza
tradizionale piuttosto diffuso nell’area mediterranea dove è possibile rintracciarne
128 Si tratta forse di un personaggio femminile (a destra) e di uno maschile (a sinistra)? Se così fosse sarebbero possibili confronti con altre iconografie simili presenti in diverse chiese medievali.
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numerose varianti in diversi luoghi. Genericamente la moresca è considerata una
sorta di “rievocazione” della lotta tra i cristiani e i mori129, tuttavia, come segnala
J. C. Cooper, il senso originale di ogni danza delle spade è appunto nei suoi
significati cosmologici130 e quindi danzarla significa essenzialmente «adeguarsi al
ritmo celeste e ristabilire il rapporto tra cielo e terra»131.
A ulteriore sostegno di quanto appena espresso, aggiungiamo due ulteriori
considerazioni:
1) come riportato dall’amico Graziano Fois, sappiamo che, tra i ricordi degli
anziani di Ollolai, non distante da Bolotana, è rimasto quello della danza delle
spade che si ballava in paese in occasione di determinate festività. Pare quindi
assai verosimile che queste tradizioni fossero ben presenti anche a chi viveva nel
non lontano paese di San Bacchisio.
Sappiamo poi – vedi citazioni iniziali – che il ballo della moresca, sempre in
ragione del proprio simbolismo, era un ballo primaverile, così come in primavera
(8 maggio) si svolgeva la festa principale dedicata a San Bacchisio132. Non
parrebbe affatto strano allora che proprio durante la festa del santo venisse
eseguita questa danza e proprio a questo si sia ispirato l’autore del portale che allo
stesso tempo ha voluto probabilmente riferirsi anche al carattere “guerriero” del
santo stesso133.
129 Cfr. “Moresca”, Grande Enciclopedia, vol. XIII, Novara, Istituto Geografico de Agostini, 1975, p. 265. 130 Senza addentrarsi in analisi di casi specifici, si può aggiungere che, poiché la scimitarra (= mezzaluna islamica = luna) almeno in via di principio, era riferibile ai mori, mentre i cristiani impugnavano la spada dritta (= croce = raggio di sole), il significato di questa danza probabilmente esprimeva anche quello arcaico della lotta della luce contro l’oscurità, ma anche l’unione del sole con la luna, etc... Questo tra l’altro è il motivo per cui Cooper parla di «aiutare il sole nella sua rotazione». Poi si può immaginare che a questo siano state applicate varianti, a seconda dei luoghi, delle epoche, del contesto. In ogni caso, C. SACHS, Historie de la danse, Paris, Gallimard, 1948, p. 156 e ss., evidenzia chiaramente gli aspetti solari della danza e le sue relazioni con le pratiche per favorire la fertilità: «durante le feste di prosperità, le lotte atletiche, gli esercizi acrobatici, le danze con arco, bastoni lance e scudi simboleggiavano con lo scontro reciproco non solo la lotta e il connubio tra la terra e il cielo, ma anche un atto di salvazione, cioè l’abbandono della barca che va inabissandosi (Luna calante) per passare alla barca nuova (Luna crescente). Queste due lune, poste l’una sotto l’altra, sono l’immagine del dio della pioggia con una gamba e un braccio». Cfr. M. SCHNEIDER, Gli animali
simbolici e la loro origine musicale nella mitologia e nella scultura antiche, trad. it. Milano, Rusconi, 1986, pp. 264-265. 131 MOHR, Lessico di iconografia cristiana, cit., p. 134 132 Non è sicuramente casuale il fatto che la festa di San Bacchisio ricorresse durante il periodo primaverile, quando vi è il rifiorire dei doni della terra; questo è certamente connesso con la devozione per il santo legata al tema della fertilità. 133 Non escluderemmo anche vi si sia inteso esprimere un’idea generica di “difesa” della porta.
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2) Come si è visto, nelle formelle appaiono figure incoronate, realizzate per
indicare, con i loro attributi simbolici, la primavera e l’inverno; esse ricordano in
effetti il Re di Maggio134, personaggio certamente noto un tempo nella tradizione
sarda. Indichiamo come, in diverse regioni italiane, il Re di maggio compaia in
feste tradizionali proprio associato alla danza moresca.
Quindi, per quanto finora esposto e ricollegandoci con ciò a cui si è
accennato all’inizio di questo studio, ci pare di poter concludere che nel XVI sec.,
quando fu realizzato l’edificio di San Bacchisio a Bolotana, il nesso simbolico tra
i ritmi della danza delle spade ed i cicli naturali che regolano al vita dell’universo
era ancora vivo e percepito. Questo è certamente il motivo per cui proprio
all’iconografia della danza delle spade ci si ispirò per esprimere il tema cosmico
della porta del cielo, sfruttando il significato lunare delle scimitarre e mettendole
in relazione con le fasi della luna. Infatti, quando una tradizione è viva, essa non è
ripetuta passivamente e rigidamente, ma può essere bensì adattata a circostanze
diverse, pur mantenendo il senso originale. Da questo punto di vista, le immagini
simboliche ed iconografiche presenti sul portale di San Bacchisio possono essere
considerate null’altro che una delle possibili espressioni di una tradizione che, in
quanto vitale, si prestava a diversi modi di essere rappresentata.
Non possiamo infine tralasciare di notare un particolare importante che è,
tra l’altro, un’ulteriore conferma alla nostra ipotesi sulla danza delle spade,
ovvero: anche all’interno della chiesa di San Bacchisio l’iconografia riprende il
tema del ballo tradizionale sardo.
A questo punto, non potendo, per ovvie ragioni, introdurre la tematica delle
immagini dell’interno, ci limitiamo a segnalare che, anche per esse esistono
134 La presenza di due re, nonché quella di un moro e di un personaggio vestito – entrambi armati –, suggerirebbe anche l’idea di “ contrapposizione” tra le figure rappresentate a sinistra e quelle a destra del portale. Questa contrapposizione evidenzia ulteriormente, a mio parere, proprio l’avvenuta inversione delle formelle tant’è che la mezzaluna (mussulmana?) in basso corrisponde alla sinistra dove originariamente era il moro. Sempre ammettendo il tema della “contrapposizione”, si avrebbero a questo punto i “mori” sulla sinistra del portale (sinistra = lato negativo) ed i “cristiani (?)” sulla destra (destra = lato positivo). In realtà proponiamo questo come un’ulteriore “allusione” in relazione alla presenza della “danza delle spade”.
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sicuramente ragioni legate al simbolismo cosmico della danza; in effetti, “la
chiesa è l’immagine del mondo”, suggerisce san Pier Damiani.
CARLO VALDAMERI
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