Lévi-Strauss e gli studi andini

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329 Lévi-Strauss e la storia Un dibattito a cura di Silvia Salvatici, con interventi di Francesco Remotti, Gérard Delille, Peter Burke, Marco Curatola-Petrocchi, Daniel A. Segal Come si trattano gli antenati? Ma, prima ancora, che ne è dei morti? Non tutti i morti diventano degli antenati: molti di loro sono infatti destinati a scomparire nell’oblio. Claude Lévi-Strauss ha tutte le caratteri- stiche per divenire un antenato, un autore cioè che continua a essere ricordato, a es- sere in qualche modo presente tra «noi», i momentaneamente sopravvissuti. Ma ci sono antenati e antenati: autori cioè che per un verso vengono imbalsamati nel ricordo, ricordati e però non utilizzati, e autori in- vece che per l’altro verso continuano a es- sere discussi, che per la forza del loro pen- siero non cessano di fare riflettere e in certi casi persino tormentare i loro successori (come, per esempio, accade in molti culti di possessione africani). Può anche succe- dere che gli antenati vengano smembrati, ovvero che i sopravvissuti non si limitino affatto a subirne il fascino, ma praticando un esercizio critico sul loro pensiero lo fac- ciano in qualche modo «a pezzi», così da prelevarne le parti ritenute più preziose e significative, contestandone e rifiutandone altre. Nelle isole Trobriand della Melanesia, quelle studiate da Bronislaw Malinowski durante gli anni della Prima guerra mon- diale, era proprio così che si trattavano i morti: dopo una prima inumazione, veni- vano riesumati e i loro cadaveri spezzati in modo da ricavarne oggetti utilizzabili nella vita quotidiana o monili da indossare sul proprio corpo 1 . Come si sa, in diverse al- tre parti del mondo (per esempio, in molte società dell’Amazzonia), il corpo bruciato e incenerito era mescolato a cibi, così da es- sere ingoiato e assimilato dai propri discen- denti. Da antropologo, avvezzo a prendere in considerazione il significato profondo di questi modi di trattare gli antenati, è pro- babile che Lévi-Strauss avrebbe apprezzato un simile trattamento del suo pensiero: a pensarci bene, è la soluzione migliore (e BERSAGLIO Francesco Remotti La difficile eredità di Lévi-Strauss 1 B. Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale, Milano, Cortina, 2005 [New York, 1929]. Contemporanea / a. XIV, n. 2, aprile 2011

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329

Lévi-Strauss e la storiaUn dibattito a cura di Silvia Salvatici, con interventi di Francesco Remotti, Gérard Delille, Peter Burke, Marco Curatola-Petrocchi, Daniel A. Segal

Come si trattano gli antenati? Ma, prima

ancora, che ne è dei morti? Non tutti i morti

diventano degli antenati: molti di loro sono

infatti destinati a scomparire nell’oblio.

Claude Lévi-Strauss ha tutte le caratteri-

stiche per divenire un antenato, un autore

cioè che continua a essere ricordato, a es-

sere in qualche modo presente tra «noi», i

momentaneamente sopravvissuti. Ma ci

sono antenati e antenati: autori cioè che per

un verso vengono imbalsamati nel ricordo,

ricordati e però non utilizzati, e autori in-

vece che per l’altro verso continuano a es-

sere discussi, che per la forza del loro pen-

siero non cessano di fare riflettere e in certi

casi persino tormentare i loro successori

(come, per esempio, accade in molti culti

di possessione africani). Può anche succe-

dere che gli antenati vengano smembrati,

ovvero che i sopravvissuti non si limitino

affatto a subirne il fascino, ma praticando

un esercizio critico sul loro pensiero lo fac-

ciano in qualche modo «a pezzi», così da

prelevarne le parti ritenute più preziose e

significative, contestandone e rifiutandone

altre. Nelle isole Trobriand della Melanesia,

quelle studiate da Bronislaw Malinowski

durante gli anni della Prima guerra mon-

diale, era proprio così che si trattavano i

morti: dopo una prima inumazione, veni-

vano riesumati e i loro cadaveri spezzati in

modo da ricavarne oggetti utilizzabili nella

vita quotidiana o monili da indossare sul

proprio corpo1. Come si sa, in diverse al-

tre parti del mondo (per esempio, in molte

società dell’Amazzonia), il corpo bruciato e

incenerito era mescolato a cibi, così da es-

sere ingoiato e assimilato dai propri discen-

denti. Da antropologo, avvezzo a prendere

in considerazione il significato profondo di

questi modi di trattare gli antenati, è pro-

babile che Lévi-Strauss avrebbe apprezzato

un simile trattamento del suo pensiero: a

pensarci bene, è la soluzione migliore (e

B E R S A G L I O

Francesco Remotti

La difficile eredità di Lévi-Strauss

1 B. Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale, Milano, Cortina, 2005 [New York, 1929].

Contemporanea / a. XIV, n. 2, aprile 2011

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forse l’unica) per continuare a tenerlo in

vita, tra noi o in noi.

Beninteso, sono i «noi» (i sopravvissuti) che

decidono sugli antenati: se tenerli in vita e

in quale modo utilizzarli. Sono i «noi» che

selezionano, che decidono quali parti ab-

bandonare, quali utilizzare, quali trasfor-

mare: sono i noi che, in primo luogo, sta-

biliscono se valga la pena compiere queste

operazioni in tutti i sensi impegnative. Nel

caso di Lévi-Strauss, ne vale senza dubbio

la pena. Per quali motivi? In questo breve

scritto, ci concentreremo su due livelli: uno

relativo ai contenuti o temi di antropologia

e l’altro relativo ai modi di intendere la ri-

cerca antropologica.

I contenuti di antropologiaNell’antropologia del Novecento Lévi-

Strauss è stato uno degli autori che mag-

giormente hanno dato importanza allo

studio delle idee e del pensiero delle «altre»

società, quelle società che di solito gli an-

tropologi si recano a studiare in luoghi più

o meno lontani ed esotici. Nel libro La Pen-

sée sauvage del 1962 Lévi-Strauss sottolinea

con grande convinzione la «brama di co-

noscenza oggettiva» che è reperibile un po’

in tutte le società, un desiderio del sapere

per il sapere, che invece di perdersi nelle

nebbie della mentalità mistica (alla Lévy-

Bruhl) dà luogo a un vero e proprio sapere

scientifico, a ciò che egli chiama «la scienza

del concreto», un sapere che si rivolge agli

aspetti percepibili della natura, un sapere

botanico, zoologico, astronomico e così

via2. Va ricordato che negli stessi anni l’an-

tropologia americana aveva prodotto un

importante filone di indagine, quello che va

sotto il nome di «etnoscienza», fondato sullo

stesso presupposto di Lévi-Strauss, secondo

cui nelle diverse culture vi sono nuclei di

scientificità, che gli antropologi farebbero

bene ad analizzare per porne in luce prin-

cipi, prospettive, categorie, implicazioni.

Ciò che tuttavia colpisce nell’opera di Lévi-

Strauss (oltre che nell’etnoscienza) è il

netto privilegiamento per un sapere scienti-

fico rivolto alla natura, come se le società di

cui si indaga il sapere scientifico fossero più

interessate alla natura, intesa come realtà

o ambiente esterno, nei suoi diversi aspetti

e ambiti, che non alla società umana e alla

stessa realtà umana. Accanto a saperi bota-

nici e zoologici (per limitarci a questi) non

vi è nell’opera di Lévi-Strauss uno studio

dei saperi rivolti all’essere umano: accanto

alla botanica, alla zoologia (o alla mineralo-

gia ecc.) non vi è un’antropologia indigena.

La questione che subito si pone è allora la

seguente: sono queste società a non avere

sviluppato un interesse scientifico per l’es-

sere umano (la condizione umana) oppure

è Lévi-Strauss refrattario a questo tipo di

interesse, riluttante a indagare le antro-

pologie sviluppate nelle diverse società?

Siamo propensi a ritenere che sia valida la

seconda alternativa. Perché mai?

La risposta che riteniamo più appropriata è

la seguente: Lévi-Strauss non è interessato

allo studio delle antropologie altrui, per-

ché – come egli stesso dichiara – è convinto

della indiscutibilità della natura umana.

Molti antropologi culturali hanno preso

le distanze da questo concetto, soprattutto

nella misura in cui hanno voluto porre in

2 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1965 [Paris, 1962], pp. 14-15.

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evidenza il peso della cultura nell’organiz-

zazione sociale, e persino biologica, degli

esseri umani. Al contrario, nonostante tutte

le critiche a cui è stata sottoposta – sostiene

Lévi-Strauss3 – «noi persistiamo nell’usare»

questa nozione. Beninteso, la natura umana

a cui Lévi-Strauss si riferisce non va intesa

come un nucleo sostanziale compatto ed

omogeneo, bensì come un insieme di «ma-

trici da cui si generano certe strutture». E

tuttavia, a fronte di questa realtà di ordine

bio-psicologico – che nella concezione di

Lévi-Strauss viene a coincidere con ciò

che egli chiama da un capo all’altro della

sua opera «spirito umano», ovvero «un

pensiero oggettivo» il quale funziona «in

maniera autonoma e razionale», «un pen-

siero anonimo» che opera nei più diversi

contesti4 –, le idee, le credenze o i miti che

le società sviluppano in relazione alla con-

dizione umana assumono inevitabilmente

un aspetto di «narrazioni assurde»5. I con-

tenuti di questi discorsi antropologici sono

di per sé assai poco credibili: significativo,

e degno di essere indagato, non è per Lévi-

Strauss ciò che questi discorsi dicono; im-

portante e meritevole di essere indagata è

invece la «logica segreta» che «regola i rap-

porti tra tutte queste assurdità»6, una logica

che evidentemente agisce all’insaputa dei

soggetti. In conclusione, per Lévi-Strauss

l’antropologia non rientra di per sé negli

interessi scientifici delle società indagate

dagli antropologi; e quando tali società di-

scorrono sugli esseri umani enunciano

tutto sommato delle assurdità. Tra una

scienza prevalentemente naturalistica (la

scienza del concreto) da un lato e le assur-

dità mitologiche dall’altro sembra non es-

servi spazio, nell’opera di Lévi-Strauss, per

un’etno-antropologia, ossia per uno studio

antropologico delle antropologie degli altri.

E questa è una grave lacuna dell’antropo-

logia di Lévi-Strauss, anche se nella sua

opera non mancano spunti che potrebbero

essere sfruttati in questa prospettiva.

La ricerca antropologicaTra gli spunti «etno-antropologici» reperi-

bili nell’opera di Lévi-Strauss ne scegliamo

tre. Il primo riguarda l’interpretazione che

Lévi-Strauss fornisce del totemismo, ov-

vero di società suddivise in gruppi collegati

a specie animali o vegetali e che trovano in

società vicine o lontane altri gruppi colle-

gati alle stesse specie (il clan dell’orso della

società X troverà, per esempio, il proprio

corrispettivo nella società Y). L’interpreta-

zione di Lévi-Strauss è tutta giocata sulla

nozione di umanità, un’umanità i cui con-

fini vengono di solito fatti coincidere con

i «limiti del proprio gruppo tribale»7 e che

tuttavia il totemismo dilata sia verso altre

società, sia verso altre specie naturali. Il

secondo spunto è rintracciabile in Tristes

Tropiques, là dove Lévi-Strauss pone a

confronto due diverse indagini antropo-

logiche: quella dei colonizzatori spagnoli

che nel XVI secolo, di fronte agli abitanti di

Hispaniola (l’attuale Haiti e San Domingo),

3 Id., L’uomo nudo, Milano, Il Saggiatore, 1974 [Paris, 1971].4 Ivi, pp. 648 e 589.5 Ivi, p. 648.6 Ibidem.7 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, cit., pp. 184-185.

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si chiedevano se davvero «fossero uomini,

o non piuttosto creature diaboliche o ani-

mali», e quella degli indigeni di Porto Rico

che, dopo avere catturato i bianchi e averli

affogati, «per settimane facevano la guardia

ai cadaveri per vedere se erano soggetti o

no alla putrefazione»8. Il terzo spunto è con-

tenuto nell’analisi di insiemi mitologici del

Nord America, interpretati da Lévi-Strauss

come concezioni in cui è programmatica-

mente prevista la possibilità dell’altro, ov-

vero come sistemi che non semplicemente

rappresentano la propria umanità, ma pre-

vedono la possibilità che esistano forme di

umanità ulteriori e alternative9.

Che cosa si può trarre da questi spunti? In

tutti e tre i casi si intravedono all’opera con-

cezioni dell’uomo, vere e proprie antropolo-

gie, in altri termini un pensiero che si pone

domande del tipo: che cos’è l’uomo, ma an-

che quali sono i confini dell’umanità? Il tema

dei confini dell’umanità è intrinseco a ogni

forma di antropologia, e nei tre casi citati

vediamo come il pensiero antropologico si

concentri sull’alterità. Come i confini, l’alte-

rità costituisce sempre un problema per ogni

definizione di umanità e forse possiamo dire

che ogni antropologia (indigena e non) sorge

esattamente da questo tipo di problema. Gli

spunti tratti da Lévi-Strauss fanno intrave-

dere tuttavia un’ulteriore problematica: non

soltanto i confini dell’umanità nelle antro-

pologie indigene, ma anche il modo in cui

queste ultime possono essere indagate.

Con il tramonto dello strutturalismo l’an-

tropologia si è convinta che la sua missione

consista soprattutto in uno scavo etnogra-

fico10. Per quanto riguarda le antropologie

indigene, si tratterebbe di ricercarne moti-

vazioni e presupposti negli specifici contesti

culturali, considerati come fattori di senso

(un esempio per tutti: il combattimento dei

galli a Bali nell’interpretazione di Clifford

Geertz). Ma l’antropologia è solo etnografia,

come sosteneva Geertz, oppure antropolo-

gia ed etnografia sono due diverse imprese,

per quanto connesse tra loro11?

I tre spunti a cui sopra abbiamo accen-

nato fanno capire che le antropologie non

sono mai soltanto uno sguardo rivolto a

se stessi: i confini sono importanti, perché

importanti sono anche le concezioni altrui,

altri modi di concepire e praticare il senso

dell’umanità. Se questo vale per le antro-

pologie indigene, ancor più deve valere

per l’antropologia che vuole essere scien-

tifica: anch’essa è una sorta di antropologia

indigena, ma un’antropologia che esalta e

professionalizza il senso delle possibilità.

È vero: da tempo lo strutturalismo di Lévi-

Strauss non appare più scientificamente

proponibile. Ma vi sono due dimensioni

dello strutturalismo che vanno tenute di-

stinte e alla fine separate. La prima è l’idea

secondo cui la struttura non coincide mai

con un sistema, bensì con le modalità di

transizione da un sistema all’altro (ciò che

Lévi-Strauss chiamava «gruppo di trasfor-

8 Id., Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960 [Paris, 1955] pp. 71-72.9 Id., Storia di Lince: il mito dei gemelli e le radici etiche del dualismo amerindiano, Torino, Einaudi, 1993 [Paris, 1991].10 C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987 [New York, 1973].11 T. Ingold, Anthropology is not Ethnography, Radcliffe-Brown Lecture in Social Anthropology, Proceed-ings of the British Academy, vol. 154, Oxford, Oxford University Press, 2008, pp. 69-92.

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mazioni»): un sistema non può mai essere spiegato da solo; per essere compreso, un sistema deve essere posto in connessione con sistemi differenti. La seconda è che questa esplorazione trasversale finisce col determinare un numero finito di possibilità: la completezza era in effetti l’ambizione ori-ginaria dello strutturalismo di Lévi-Strauss. È questa ambizione (con le implicazioni che comportava, quali un’astrazione spinta all’estremo) che ha indotto gli antropologi a prendere le distanze da Lévi-Strauss e dalla sua antropologia strutturale.Trattare Lévi-Strauss come un antenato dovrebbe davvero comportare – come face-vano i trobriandesi con i loro morti – uno smembramento: non già buttare via tutto, ma distinguere e selezionare. Se giusta-mente si rifiuta la pretesa della completezza, ciò che rimane è invece la prima dimen-sione, che potremmo chiamare la trasver-salità12. L’antropologia si configura quindi come un sapere trasversale, che attraversa e connette culture, società, contesti – tra cui le antropologie indigene (qualunque forma esse assumano) –, e tuttavia come un sapere che si considera incompleto, persino infinito (nel senso negativo di mai concluso, mai perfetto), sempre provvisorio. Il suo obiet-tivo è senza dubbio la generalizzazione, ma una generalizzazione orizzontale, piuttosto che verticale, capace di costruire una rete di connessioni, il cui tessuto tiene fin che tiene, che spesso richiede di essere riparato e sottoposto a incessanti verifiche. Non si tratta di negare l’etnografia. Al contrario, essa viene esaltata ed acquista un senso più

pregnante, allorché viene immessa nella rete delle connessioni antropologiche.In fondo, Lévi-Strauss si è impegnato in un grandioso tentativo su cui si è ancora oggi costretti a riflettere: può l’antropologia con-siderarsi un sapere distinto dalla storia? Lévi-Strauss ha risposto di sì. Il modo con cui ha risposto – lo strutturalismo come giro completo, come delineazione di un quadro completo e finito di possibilità – è ciò che l’antropologia ha lasciato cadere. Ma la rivendicazione di connettere casi diversi, ovvero di praticare una trasversalità tra i casi, a prescindere dai loro legami storici, è probabilmente l’unico fattore che consente di sottrarsi alla secca e mortificante alter-nativa enunciata da Frederick W. Maitland nel 1899: «ben presto l’antropologia dovrà scegliere tra essere storia o essere niente»13. Non si tratta affatto di negare la storia o di diminuirne la portata; si tratta però per l’antropologia di decidere se confluire nella storia o riflettere, ancora una volta, sulla possibilità di rivendicare una propria auto-nomia di indagine. Lévi-Strauss è un ante-nato che ha avuto il coraggio di rifiutare a viso aperto il dilemma di Maitland: proprio per questo può continuare a parlarci e a farci discutere. Del resto, un’antropologia capace di rivendicare una propria autono-mia epistemologica non costituisce forse un prezioso arricchimento del quadro delle scienze umane e delle scienze sociali? E questo quadro non risulterebbe forse impo-verito, se l’antropologia finisse per scompa-rire nella storia da un lato o nella sociologia

dall’altro?

12 F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 20092.13 F.W. Maitland, The Body Politic, in The Collected Papers of Frederic William Maitland, Cambridge, Cam-bridge University Press, 1991, vol. III, p. 295.

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Come per ogni antropologo abituato a

lavorare «sul terreno», attraverso un dia-

logo immediato con i suoi interlocutori,

e a costruire interpretazioni del sociale o

del culturale con dati tratti dalla sincronia,

senza un passato e un futuro, il rapporto di

Lévi-Strauss con il tempo e la storia è stato

complesso e difficile. Non soltanto perché

è radicata nella cultura occidentale l’idea

che nessuna società può fare astrazione

della sua storia in qualunque modo – miti,

racconti orali, monumenti, documenti

scritti – essa sia tramandata lungo le ge-

nerazioni (Lévi-Strauss distinguerà le

società «fredde», senza scrittura ma non

certo senza storia, da quelle «calde», con la

scrittura) ma anche perché l’antropologia

culturale nutre l’ambizione di imposses-

sarsi della storia e di spiegarla con altri

concetti e altri strumenti: non più raccon-

tando avvenimenti lungo un asse cronolo-

gico pre-definito ma cercando di capire le

regole fondamentali, le «strutture» su cui

si costruiscono le società e le interazioni

tra le strutture stesse. Su queste questioni

essenziali, il pensiero di Lévi-Strauss non

è stato definito una volta per tutte da Le

strutture elementari della parentela1 o da

Antropologia strutturale2, fino all’articolo

del 1983 Histoire et ethnologie3, si scorgono

continuità ma forse anche cambiamenti di

punti di vista. Per capire la o le posizioni

di Lévi-Strauss credo però che non sia suf-

ficiente limitarsi ad una esegesi – già più

volte ampiamente e spesso brillantemente

eseguita4 – del suo pensiero; è invece ne-

cessario ricollocarlo nel contesto dei dibat-

titi scientifico-culturali del tempo per ca-

pirne tutte le ragioni condivise, le sfuma-

ture, le prese di distanza o le motivazioni

polemiche.

Murdock e le strutture socialiNello stesso anno in cui Lévi-Strauss pub-

blica la sua prima opera fondamentale, Le

strutture elementari della parentela, il 1949,

esce negli Stati Uniti quello che rimarrà un

altro monumento dell’antropologia cultu-

rale, Social Structure di George Peter Mur-

dock. Partendo dall’analisi comparata di

150 società ripartite in tutto il mondo, Mur-

dock individua i criteri fondamentali che

presiedono ad ogni organizzazione sociale.

Egli stabilisce una classificazione (orga-

nizzazione sociale di tipo eskimo, di cui fa

parte la nostra società europea occidentale,

di tipo hawaiano, di tipo sudanese, di tipo

omaha e così via, ognuna è definita da un

incrocio specifico di caratteri) che ritiene

esaustiva per tutte le società del mondo. Ma

Gérard Delille

Lévi-Strauss, il tempo e la storia

1 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1969 [Paris, 1947].2 Id., Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966 [Paris, 1958].3 Id., Histoire et ethnologie, «Annales. Esc», 1983, 6, pp. 1217-1231.4 Tra molti titoli mi limito a citare la biografia di M. Hénaff, Claude Lévi-Strauss, Paris, Belfond, 1991, e lo studio di L. Scubla, Lire Lévi-Strauss, Paris, Odile Jacob, 1998.

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l’ambizione di Murdock va ben al di là di

questa classificazione di per sé fondamen-

tale, perché il libro sulle «strutture» vuole

anche essere, come suggeriscono i titoli del

capitolo VIII (L’evoluzione dell’organizza-

zione sociale) e dell’appendice (Una tecnica

di ricostruzione storica), un libro di «sto-

ria». Egli vuole indicare attraverso quali

modifiche si passa da un tipo strutturale

ad un altro. Ma in nessun momento Mur-

dock si richiama a ricerche di storici tradi-

zionali. Le ignora, ignora la cronologia e

la «storia» nel senso in cui le intendiamo.

Tutt’al più troviamo indicazioni molto ge-

nerali del tipo «i Curdi sono chiaramente

derivati dal tipo sudanese normale, dopo

avere perso la esogamia sib di un tempo in

conseguenza della conversione all’Islam

e dell’adozione della preferenza maomet-

tana per il matrimonio con una PaFrFf [fi-

glia del fratello del padre]»5. La modifica di

un elemento fondamentale quale l’esoga-

mia dei sib (gruppo di parentela consan-

guinea discendente, in linea maschile o

in linea femminile da un originario ceppo

comune) ha fatto così passare i curdi dal

tipo sudanese al tipo fox. Non si tratta qui

di un mero gioco classificatorio: ogni tipo

risponde a caratteristiche molto precise e

l’intento è di capire quale conseguenze il

cambiamento di una di esse provoca sulle

altre, quale evoluzione, anche «storica»,

mette in moto. Una società appartenente a

un dato tipo potrà evolversi verso alcuni

tipi ma non altri. Attraverso le interazioni

di strutture, l’obiettivo è dunque di stabi-

lire le leggi «scientifiche» dell’evoluzione

sociale. Alcune affermazioni di Murdock

sono, a questo proposito, molto chiare:

lungi dal «riflett[ere] un “accidente sto-

rico”» o dal costituire «un sistema chiuso

all’interno delle culture umane», i modi

di comportamento sessuali (l’incesto e le

regole di scambi matrimoniali) sono così

dipendenti dalle forme dominanti dell’or-

ganizzazione sociale «che possono essere

previsti in misura notevole se le forme

strutturali [dell’organizzazione sociale]

sono note», «può essere perfino possibile

organizzare principi dominanti in leggi

scientifiche di notevole complessità»6.

Siamo lontano dalle tesi evoluzioniste di

alcuni dei padri fondatori dell’antropologia

che vedevano nelle diverse organizzazioni

sociali gli stadi successivi di un processo di

«civilizzazione», di una marcia verso forme

sempre più perfette (quella occidentale es-

sendo, ovviamente, la più perfetta di tutte).

Con la struttura invece il tempo non conta

più e la nostra società si trova apparentata

con altre tra le più «arretrate» del pianeta.

Si può vedere in questa mise hors du temps

dei fatti sociali e culturali un semplice

tentativo di giustificazione di un approc-

cio e di un metodo antropologico che, a

causa del materiale umano di cui tratta, è

incapace di considerare e analizzare fatti

storici concreti. Lévi-Strauss non elude il

problema e lo risolve, come abbiamo visto,

in modo un po’ sbrigativo e non del tutto

convincente con la distinzione tra società

fredde e calde. Ma fermarci a questo sa-

rebbe avvalorare un’interpretazione molto

riduttiva; vi è, credo, più profondamente,

5 G.P. Murdock, Struttura sociale, Milano, Etas Kompass, 1971 [New York, 1949], p. 199.6 Ivi, p. 261.

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una volontà precisa di escludere il tempo

e la storia-cronologia, basata sulla convin-

zione che la descrizione delle interazioni

tra strutture non abbia bisogno di un rife-

rimento temporale. Una convinzione che

ha accompagnato le scienze «dure» nei

loro sviluppi – paradossalmente fondati

sulla possibilità di misurare nel tempo i

fenomeni fisici – e che, dopo Einstein che

ha fatto del tempo un valore non più as-

soluto, viene riproposta di nuovo oggi con

forza da alcuni fisici come Carlo Rovelli

nel tentativo di unificare la teoria della

relatività con quella quantistica7. Quando

descriviamo per esempio un fenomeno

fisico, mettiamo in relazione un inizio (la

mela lasciata cadde) e una fine (la mela

tocca terra) misurando il tempo impie-

gato. Ma il tempo, in realtà, ci serve solo

a nascondere e inglobare l’azione di altre

variabili fisiche di cui non abbiamo –o non

avevamo – conoscenza né sappiamo come

agiscono, e che in questo modo possiamo

mettere temporaneamente da parte. Se,

per ipotesi, conoscessimo tutte queste va-

riabili, potremmo descrivere il nostro fe-

nomeno fisico con un’equazione che non

includerebbe il tempo. Il tempo è dunque

una misura che ci serve a confrontare due

o più variabili e a capire la relazione che

intrattengono, e nello stesso tempo è una

misura della nostra ignoranza. «Com-

prendere» vorrebbe dire allora utilizzare

il tempo per meglio, in seguito, eliminarlo

progressivamente. Come diceva Paul La-

combe all’inizio del Novecento, «il tempo

in sé non è niente, obiettivamente è sol-

tanto un’idea nostra»8.

Le «qualità senza tempo»Ci possiamo chiedere tuttavia se un tale

concetto di tempo dedotto dall’esperienza

scientifica sia direttamente e interamente

trasferibile, come fa Murdock, alle scienze

umane. Che vi sia un’interazione di strut-

ture e che questa determini l’evoluzione

delle società, lo possiamo ammettere. Ma

cosa fa interagire le strutture o più sempli-

cemente provoca il cambiamento di uno dei

loro caratteri fondamentali? I curdi si sono

«piegati» – perché, supponiamo, sottomessi

militarmente dagli arabi – al costume mao-

mettano del matrimonio con la cugina pa-

rallela patri laterale, ma avrebbero potuto

anche non farlo e conservare la loro eso-

gamia di sib. Molti ebrei e cristiani hanno

rifiutato di convertirsi all’islam. Si può

eludere il problema della scelta? Ammet-

tiamo che si possa; ma cosa significa allora,

socialmente, comprendere un fenomeno,

cosa significa «l’intelligenza»? È soltanto

una variabile in più nel gioco dell’intera-

zione delle strutture? O è lo strumento con

il quale gli uomini creano altre strutture,

creano altro tempo, al di fuori delle leggi

della fisica?

A questo punto, possiamo tornare a Lévi-

Strauss. Profondo conoscitore dell’an-

tropologia americana, con la quale ha

completato, durante la Seconda guerra

7 C. Rovelli, Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio, Roma, Di Renzo, 2004, e Id., Forget time, in The nature of Time. Essay Contest, Foxi Forum, agosto 2008, www.fqxi.org/community/forum/category/10.8 La science de l’histoire d’après M. Xenopol, «Revue de Synthèse Historique», 1900, 1, p. 32. Il passo è ri-cordato da Feranand Braudel nell’articolo Storia e scienze sociali. La «lunga durata» (1958), in F. Braudel, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1973 [Paris, 1969].

337

mondiale, la sua formazione scientifica,

egli condivide senza dubbio, con Mur-

dock, l’idea essenziale che la spiegazione

dei fenomeni sociali e culturali non abbia

bisogno del tempo e della storia. Quello

che conta sono le qualità delle diverse va-

riabili e le loro relazioni. Nelle Strutture

elementari della parentela, Lévi-Strauss

mostra come la proibizione dell’incesto,

passaggio dalla natura alla cultura, sia la

condizione obbligata di ogni costruzione

sociale e come nelle società che prescri-

vono determinate regole di scambio matri-

moniale queste generino una circolazione

delle donne – e parallelamente anche dei

beni – molto diversi a secondo dei pas-

saggi previsti: se la regola è di sposare la

cugina incrociata matrilaterale, il circuito

si allarga, attraverso le donne, verso altre

famiglie, mentre se la regola è di sposare la

cugina incrociata patrilaterale, si chiuderà

subito su se stesso. Lévi-Strauss dimostra

che queste qualità sono inerenti alla strut-

tura e determinano sistemi sociali molto

diversi, sono qualità «senza tempo». Nelle

Mythologiques9, il tempo e la storia non

sono necessariamente assenti poiché una

prima fase della ricerca consiste nel colla-

zionare le diverse versioni, anche storiche,

di uno stesso mito per cercare di capire i

meccanismi concettuali – «universali» e

fuori dal tempo – che presiedono alla loro

costruzione. Come lo stesso Lévi-Strauss

ha sinteticamente sottolineato nel breve

articolo Le temps du mythe10, ogni mito

si costruisce intorno alla costatazione di

un’asimmetria fondamentale (il cielo e

la terra, il vicino e il lontano, il maschio

e la femmina...) che mette in moto un’ap-

parecchiatura concettuale fatta di regole

d’opposizione sistematiche «preesistenti

in anticipo nell’intento», apparecchiatura

che si nutre di situazioni concrete a cui

dà senso, «è con l’applicazione sistematica

delle regole di opposizione che i miti na-

scono, irrompono, si trasformano in altri

miti che si trasformano a loro volta». Così,

«i miti si parlano e si rispondono» e se tale

dialogo come qualunque altro necessita di

tempo, quest’ultimo non ne è la condizione

e non rappresenta neanche una variabile

interessante. Lo stesso potrà dirsi delle

maschere: quelle di una data tribù si spie-

gano guardando i loro contrari, cioè quelle

delle tribù vicine. L’uno è nero con delle

piume perché l’altro è bianco con della

pelliccia11.

La «lunga durata»Non ci sembra necessario insistere: se i

temi abbordati da Lévi-Strauss e la sua

esposizione dei risultati, come la sua scrit-

tura, sono molto lontani da quelli di Mur-

dock, le problematiche fondamentali e i

concetti adoperati sono, invece, molto vi-

cini. I «nemici» per tutti e due sono rappre-

sentanti da quelle correnti di pensiero che

vedono nelle costruzioni sociali «un “guaz-

zabuglio”, una cosa fatta di “brandelli e

pezze”» senza rendersi conto che le forme

di organizzazione di tutte le società, anche

la nostra, «manifestano le stesse regolarità e

9 Mitologica, Milano, Il Saggiatore, 1966-1974 [Paris, 1964-1971]. L’opera, in quattro volumi, comprende: Il crudo e il cotto, Dal miele alle ceneri, Le origini delle buone maniere a tavola, L’uomo nudo.10 «Annales. Économies Sociétés, Civilisations», 1971, 3-4, pp. 533-540; la citazione è a p. 534.11 La via delle maschere, Torino, Einaudi, 1985 [Genève, 1975].

338

seguono gli stessi principi»12 o che iniettano massicciamente il tempo a tutti i livelli, ri-portando ogni spiegazione ai contesti e alle scelte degli attori. È contro l’autore della Critique de la raison dialectique, contro Sar-tre che definisce l’uomo con la dialettica e la dialettica con la storia, cioè con delle scelte fatte nel tempo, con la storia che sola dà senso agli atti umani, che il «primo» Lévi-Strauss dirige le sue frecce nel Pensée sauvage13. La storia come la concepisce Sartre è un culto della storia, la conoscenza costruita di un passato collettivo per criti-care e orientare la società presente; è un mito, peggio una mistificazione che dispone in modo arbitrario gli avvenimenti lungo un senso lineare, la cronologia, che gli serve da codice. «La storia è un insieme disconti-nuo formato da zone di storia, ciascuna delle quali è definita da una frequenza pro-pria, e da una codificazione differenziale del prima e del poi»; «nella misura in cui la storia aspira al significato, si autocondanna a scegliere regioni, epoche, gruppi di uo-mini e individui in questi gruppi, e a met-terli in risalto, come figure discontinue, su un continuo buono appena a servire di tela di sfondo»14. Un giudizio severo e apparen-temente senza appello, ma che risente del contesto polemico in cui viene espresso. Sul fondo Lévi-Strauss è più duttile e lascia spazi aperti, rifiuta un certo modo di fare storia ma non ignora la storia né la rigetta. Non condivide l’atteggiamento di un Mali-

nowski e di molti altri antropologi per cui la conoscenza del passato di una società non è necessaria alla sua comprensione. Storia e etnologia hanno uno stesso scopo: capire la vita sociale. Nelle società fredde, la storia è pura, iscritta nella natura: gli alberi, le fonti e così via sono collegati ad un antenato e alla sua storia. Soprattutto, sin dal 1952, in Race et histoire, Lévi-Strauss aveva avan-zato una distinzione più complessa, quella tra storia stazionaria e storia cumulativa15. Quest’ultima si afferma quando, nello stesso tempo, una serie di elementi favorevoli si combinano per creare le condizioni di un balzo in avanti. Si potrebbe dissertare all’in-finito sulle nozioni di «elementi favorevoli», di «combinazione» e di «balzo in avanti»; importa di più la presa in considerazione, contrariamente a quanto avviene con Mur-dock, della presenza della storia. L’am-biente parigino in cui Lévi-Strauss opera è, molto più di quello americano, permeato dalla ricerca storica e dai suoi problemi. È il periodo in cui le «Annales», sulla scia delle precedenti critiche alla storia évene-mentielle, elaborano nuovi metodi d’inda-gine, messi alla prova in studi di tipo socio-economico su determinate regioni (per esempio il Beauvaisis di P. Goubert)16, ed esaltano l’interdisciplinarità (il metodo della ricostituzione delle famiglie in demo-grafia storica). È il periodo dominato dalla

grande tesi di Fernand Braudel su La Médi-

terranée et le monde méditerranéen17, tutta

12 G.P. Murdock, Struttura sociale, cit., p. 309.13 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964 [Paris, 1962].14 Storia e dialettica, ivi, p. 281 e 279.15 C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi, 1967 [Paris, 1952].16 P. Goubert, Beauvais et le Beauvaisis de 1600 a 1730. Contribution a l’histoire sociale de la France du 17eme siécle, Sl, Sevpen, 1960.17 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953 [Paris, 1949].

339

costruita sulla distinzione dei tempi della

storia. Ora, l’irruzione dello «strutturali-

smo» sulla scena scientifica spinge Braudel

ad intervenire con il famoso articolo – il cui

interlocutore privilegiato è Lévi-Strauss –

sulla lunga durata, del 195818. Nel dibattito

tra le scienze sociali, di fronte a un’antropo-

logia dinamica e conquistatrice, Fernand

Braudel vuole prima di tutto, come già in

passato aveva fatto Lucien Febvre nei con-

fronti della scuola durkheimiana, sottoline-

are «l’importanza, l’utilità della storia, o

piuttosto della dialettica della durata»19.

Un’espressione, quest’ultima, forse non

molto gradita a Lévi-Strauss. Al di là delle

precauzioni del linguaggio, Braudel marca

la sua distanza non solo da quegli etnografi

ed etnologi che come Malinowski hanno

sottolineato «l’impossibilità (ma ogni intel-

lettuale è tenuto ad affrontare l’impossibile)

e l’inutilità della storia all’interno del loro

mestiere» ma anche rispetto a un Lévi-

Strauss che condivide con gli storici la

«stessa avventura dello spirito» e di cui tesse

grandi lodi. Lévi-Strauss, seguendo la

strada aperta dalla linguistica («come la sto-

ria presa nella trappola dell’avvenimento,

così la linguistica, presa nella trappola delle

parole [...] se n’è liberata grazie alla rivolu-

zione fonologica»), ha saputo estendere il

senso del linguaggio alle strutture elemen-

tari della parentela e «tradurre in termini

matematici il frutto dell’osservazione

dell’antropologo»; è riuscito a superare la

superficie per raggiungere quella zona pro-

fonda, spesso inconscia, in cui si possono

intravedere «le leggi di struttura più gene-

rali»20. Egli procede nello stesso modo con i

miti che riduce «ad una serie di cellule ele-

mentari», «Ogni volta egli è alla ricerca di

livelli profondi, subconsci»21. Come Lévi-

Strauss, Braudel se la prende con Sartre,

colpevole, attraverso un gioco condotto con

grande intelligenza ma pericoloso, di accol-

lare a dei frammenti di storia tempi supe-

riori alla loro durata e sensi che non conte-

nevano, colpevole di voler rinnovare le vi-

sioni troppo semplici e troppo pesanti del

marxismo «in nome [...] della realtà troppo

ricca dell’événementiel»22, delle scelte degli

attori e delle biografie, mentre questo rin-

novamento andava fatto con la compren-

sione delle realtà di lunga durata. Il «dis-

senso» con Lévi-Strauss è espresso attra-

verso un problema tecnico, apparentemente

secondario: le matematiche sociali qualita-

tive a cui egli si richiama e che gli permet-

tono di tradurre in formule «scientifiche» le

relazioni sociali da lui osservate non appa-

iono ancora adatte a tradurre l’estrema

complessità delle società moderne. «Le ma-

tematiche sociali qualitative saranno perà

messe alla prova solo quando avranno af-

frontato gli intricati problemi e le diverse

velocità della vita propri d’una società mo-

derna»; quello che propone Lévi-Strauss,

per ora, funziona solo per gruppi umani ri-

dotti, in cui «una vita sociale molto omoge-

nea permette di definire a colpo sicuro le

relazioni umane semplici e concrete, poco

18 Id., Storia e scienze sociali, cit.19 Ivi, p. 726.20 Ivi, pp. 736, 744 e 745.21 Ivi, p. 745.22 Ivi, p. 751.

340

variabili» da lui studiate, per porre problemi

e formulare osservazioni con un procedi-

mento che «non si colloca solo a livello mi-

crosociologico, ma al punto d’incontro tra

l’infinitamente piccolo e la lunghissima du-

rata»23. È forse sottointeso: se quelle società

avessero una storia e la loro vita sociale

fosse vista nel tempo, le loro relazioni appa-

rirebbero molto più variabili e più difficil-

mente riducibili a un linguaggio matema-

tico? Solo i modelli statistici ci permettono

di affrontare e capire le società larghe e

complesse. La statistica che propone Brau-

del è quella che quantifica le realtà sociali o

economiche (le nascite, i rendimenti agri-

coli ...) e tende a fondere insieme le diverse

relazioni sociali che hanno dato origine a

questi fenomeni. Il senso sta nella quantifi-

cazione e delimitazione di masse e ordini di

grandezze più che nella «qualità» delle rela-

zioni e nei meccanismi a loro inerenti. È la

statistica che ci permette di distinguere le

invarianti di una società dai fenomeni con-

giunturali, la lunga durata dai tempi brevi.

Contrariamente a quanto avviene con le in-

terpretazioni semplificatrici della lunga du-

rata, Braudel non butta alle ortiche gli avve-

nimenti e la breve durata, le rotture, «le in-

temperie della storia», i cambiamenti che

investono la struttura stessa. Non rinuncia

alla diversità dei tempi della storia, vuole

solo distinguerli per meglio capire. Siamo

dunque su problematiche e metodologie

ben diverse. La lunga durata non è la strut-

tura di Lévi-Strauss; è quello che, per ra-

gioni diverse, spesso esterne (in particolare

la geografia), dura a lungo e in questo sol-

tanto si avvicina alla struttura che invece

attiene alla cultura, alle regole del dono e

alle sue qualità inerenti, ai dispositivi di op-

posizioni, cioè a meccanismi concettuali

condivisi da tutti gli uomini. Vi è, nella po-

sizione di Braudel verso lo strutturalismo di

Lévi-Strauss e verso la sua concezione del

tempo, una sorta di sfida: le problematiche

e i metodi che sono stati applicati in modo

così efficace e con risultati così convincenti

per le società «primitive» non sono trasferi-

bili allo studio delle società moderne, delle

società complesse. Braudel rimanda a Lévi-

Strauss la sua distinzione tra società fredde

e società calde: ciò che vale per le prime,

fuori dal tempo, senza una storia decifra-

bile, non vale per le seconde immerse nel

tempo.

Lévi-Strauss non risponderà a questa sfida

o piuttosto risponderà molto più tardi, nel

1983 con l’articolo Histoire et etnologie pub-

blicato nelle stesse «Annales Esc». Torne-

remo su questo testo. Negli anni Cinquanta

e Sessanta, Lévi-Strauss non sembra, in

realtà, in profondo disaccordo con Braudel:

le società come quella europea occidentale

del periodo medievale e moderno gli ap-

paiono mosse da relazioni estremamente

complesse e variabili, «un turbine conti-

nuo» irriducibile a leggi di scambio precise

e a formule matematiche semplici. Queste

società «complesse» (Braudel parlava di

società «larghe e complesse») sono carat-

terizzate in particolare, per l’antropologo,

da divieti matrimoniali (e non più da pre-

scrizioni come nel caso delle società ele-

mentari) molto ampi (fino alla quarta ge-

nerazione nella cristianità occidentale), per

cui l’esistenza di eventuali cicli controllati

23 Ivi, p. 748, 747.

341

e meccanismi di reciprocità nel dare e ri-

cevere le donne appaiono improbabili. Un

ciclo completo dovrebbe chiudersi al di là

della consanguineità proibita, cioè cinque

o sei generazioni dopo un matrimonio ini-

ziale, cioè ancora circa un secolo dopo. In

queste società, le nozioni di scambio delle

donne, di reciprocità, di definizione dei ci-

cli di scambio non esistono più, si passa ad

altre definizioni del dono e dello scambio,

ad altri sistemi di relazioni, ad altri rap-

porti col tempo e con la storia. I «giochi»

dunque sembrano fatti, il dibattito chiuso:

agli antropologi le società «primitive» e le

strutture, agli storici le società complesse e

il tempo.

In realtà, Lévi-Strauss non si ferma a questo

primo approccio apparentemente logico ma

troppo semplice; il problema delle società

complesse e della loro interpretazione, che

si era già posto nel 1949, in prosecuzione al

libro sulle Strutture elementari («la mia idea

era di scrivere un secondo volume [...] Le

strutture di parentela complesse [...] Mi ac-

corsi ben presto che quei sistemi complessi

non potevano essere trattati con metodi

artigianali: bisognava ricorrere all’infor-

matica. Io non ne avevo i mezzi pratici né

soprattutto quelli intellettuali»)24, gli appare

sempre più fondamentale, poiché rap-

presenta una chiave per la comprensione

unitaria delle società umane, per superare

la dicotomia società calde/fredde, con la

storia/senza storia. Dietro o al di là del tur-

bine continuo vi sono principi ordinatori e

regolarità; dietro l’apparente disordine e la

fluidità, nel tempo, dei rapporti sociali, lo

scambio delle donne e la reciprocità con-

tinuano, insieme al tabù dell’incesto, ad es-

sere al cuore delle relazioni sociali. Questo,

come era per Murdock, non implica che

vi sia un legame diretto e necessario tra

struttura sociale e sviluppo economico e

culturale: una società complessa non è ne-

cessariamente, come la nostra, una società

tecnologicamente avanzata. Lévi-Strauss

segue e guida questa ricerca difficile ma

la affida soprattutto ad alcuni suoi allievi,

in particolare Françoise Héritier che inizia

una ricerca sui samo dell’Alta Volta (Bur-

kina Faso), una popolazione che presenta

divieti matrimoniali abbastanza simili ai

nostri (non entro qui nei dettagli di queste

regole); un lavoro impegnativo che neces-

sita della raccolta di una quantità impo-

nente di dati di natura genealogica e il loro

trattamento informatico allo scopo di deter-

minare eventuali replicazioni di alleanze e

chiusure di circuiti matrimoniali.

Nel frattempo, Lévi-Strauss precisa alcune

sue posizioni e «apre» alla storia. L’attività

inconscia dello spirito che impone forme

a un contenuto, non implica una visione

anti-storica dei fenomeni sociali. I problemi

che deve affrontare lo spirito sono posti in

modo diverso dalla geografia, dal clima,

dallo stato della civiltà a un dato momento

mentre ogni individuo ha un suo carattere,

una sua storia personale, una sua posizione

nel gruppo. Insomma, «il meccanismo dun-

que è sempre lo stesso, cambia quello che

si mette dentro»25. Il nostro sguardo sul

24 C. Lévi-Strauss, D. Éribon, Da vicino e da lontano. Discutendo con Claude Lévi-Strauss, Milano, Rizzoli, 1988 [Paris, 1988], p. 83.25 Ivi, p. 175.

342

passato deve integrare tutti gli aspetti della

temporalità e le diverse rappresentazione

del tempo: miti, memoria orale, storia; il

passato, però, può essere studiato e capito

soltanto perché gli uomini pensano fonda-

mentalmente sempre nello stesso modo.

Nel 1975 dichiara «bisogna arrendersi alla

contingenza irriducibile della storia»26.

L’avvenimento è un dato imprevedibile

ma una volta successo si può cercare di ca-

pirlo, di collegarlo ad altri avvenimenti, di

posizionarlo nel quadro più generale delle

strutture. Il problema, tuttavia, rimane

sempre, come per Braudel, quello dell’ar-

ticolazione dei diversi livelli o istanze di

tempo, un problema che Lévi-Strauss non

affronta; non chiarirà mai precisamente la

sua concezione delle relazioni che le società

intrattengono con il tempo. Vi è nel suo

rapporto con la storia e con il tempo una

sorta di andirivieni continuo tra la strut-

tura e l’avvenimento, tra il «quasi fuori del

tempo» e il tempo sempre presente, tra lo

spiegabile e l’inspiegabile. Altri come Pierre

Bourdieu o Marshall Sahlins cercano, in

quello stesso periodo, di reintrodurre una

tematica dell’azione e di capire la relazione

tra sistemi e pratica27. Altre correnti come

il postmodernismo o il decostruzionismo

avanzeranno poi critiche ben più radi-

cali, accusando l’osservatore antropologo,

nella sua inchiesta sul terreno, di fermare

l’azione per potere costruire una visione

atemporale delle società. Una critica rivolta

anche, nel campo storico, contro la lunga

durata di Braudel e all’approccio statistico

dei fenomeni sociali.

Intanto la ricerca di Françoise Héritier

giunge a termine. Il libro L’exercice de la

parenté, esce nel 1981 e allarga i risultati

tratti dal caso dei samo al problema gene-

rale delle società semi-complesse e com-

plesse28. È una svolta. L’autrice mostra

come, in queste società caratterizzate da

divieti matrimoniali ampi, ciò che non può

essere replicato nella filiazione diretta può

esserlo nelle linee collaterali (per esempio

un matrimonio può essere replicato, alla

generazione seguente, attraverso quello dei

loro rispettivi nipoti ex-frate o soror; è il co-

sidetto «scambio tra linee alterne») e come

le regole d’esogamia abbiano per fine non

tanto la dispersione delle alleanze quanto le

fusioni a venire nel gruppo di origine (con

chiusure matrimoniali una volta superati

i limiti posti dai divieti). Vi sono dunque,

dietro l’apparente turbine delle relazioni

sociali, dei principi e dei meccanismi ordi-

natori e classificatori che «orientano» i ma-

trimoni e i circuiti dello scambio.

Struttura e storiaNel 1983, Lévi-Strauss può finalmente «ri-

spondere» a Braudel che avrà appena il

tempo di leggere il suo saggio (muore nel

1985). L’impostazione del problema è chiara:

«la storia e l’etnologia si distinguevano in

due modi. L’una considera il suo campo

d’azione le società [...] complesse o evolute,

il cui passato è attestato dagli archivi; l’altra

26 Anthropologie, histoire, idéologie, «L’Homme», luglio-dicembre 1975, pp. 177-188.27 P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, con tre studi di etnologia cabila, Milano, Cortina, 2003 [Genève, 1972]; M. Sahlins, Historical Metaphors and Mythical Realities: Structure in the Early History of the Sand-wich Islands Kingdom, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1981.28 F. Heritier, L’ esercizio della parentela, Roma-Bari, Laterza, 1984 [Paris, 1981].

343

le società impropriamente dette primitive

o arcaiche, in ogni caso senza scrittura [...]

ciò che incita a restringere il loro studio al

tempo presente»29. Lévi-Strauss tesse le lodi

della nuova antropologia storica di grande

aiuto per gli etnologi, ci trasporta nel Giap-

pone medievale o – attraverso le Memorie

di Saint Simon – alla corte di Luigi XIV, per

mostrarci come il passaggio da una forma a

un’altra di sistema matrimoniale «è spesso

poco percettibile, rilevabile solo attraverso

una lieve flessione delle regole e dei com-

portamenti», come la dialettica tra nom de

race e nom de terre30 comune a molte società

in transizione verso un sistema «complesso»

(i gruppi di discendenza risultano allora

«tanto dell’alleanza quanto della filiazione,

i quali diventano sostituibili l’un l’altro»)31.

Risultato: «tra le società dette “complesse” o

“sviluppate” e quelle chiamate a torto “pri-

mitive” o “arcaiche”, la distanza è meno

grande di quella che potevamo credere»32.

Lévi-Strauss si affretta a precisare ciò che

intende per «complesse» e «sviluppate». La

distinzione tra società elementari e società

complesse «rileva una classificazione dei

sistemi secondo la loro forma [...]. La rela-

zione tra forma semplice e forma complessa

pone un problema di ordine logico che non

implica necessariamente quello, storico, del

passaggio da una forma antica ad una più

recente»33. Donde la domanda: «ordinando

logicamente delle strutture, si rinunzia a

conoscere la loro evoluzione nel tempo?»34.

Non si rinunzia, ma bisogna per questo tro-

vare ed elaborare, come ha fatto la cladistica

(scienza della classificazione delle specie)

nelle scienze naturali, una metodologia che

ci permetta di passare alternativamente

dalla determinazione di un ordine di succes-

sione nel tempo ad una tipologia elaborata a

partire delle caratteristiche dei gruppi, indi-

pendentemente dalla loro origine, dalla loro

storia; «una via mediana tra l’ordine della

struttura e quello del avvenimento». «Lungi

dal rigettare la storia, l’analisi strutturale gli

propone una lista di cammini possibili tra i

quali la storia potrà sola determinare quello

o quelli effettivamente seguiti»35. Tuttavia,

la distanza con Braudel è ribadita in modo

pacato ma chiaro: «quello che consideriamo

una struttura sociale [...] non si riduce forse

ad una media statistica di scelte fatte in tutta

libertà [...]? [...] è poco plausibile che le so-

cietà umane si ripartiscono in due gruppi

irriducibili, alcune rilevante dalla struttura,

altre del avvenimento»36. Pur riconoscendo

il ruolo dell’avvenimento, Lévi-Strauss si

rifiuta di farne l’asse portante di ogni co-

struzione sociale e critica aspramente le

nuove correnti di pensiero che partono

dall’individuo-attore: «Dovremo dunque ri-

nunciare a scoprire nella vita delle società

umane qualche principio organizzatore, ve-

29 C. Lévi-Strauss, Histoire et ethnologie, cit., p. 1217.30 Il primo è il cognome del gruppo di parentela biologica o legale, il secondo quello che deriva dal pos-sesso di una proprietà o dalla residenza.31 C. Lévi-Strauss, Histoire et ethnologie, cit., pp. 1220 e 1224.32 Ivi, p. 1226.33 Ibidem34 Ibidem.35 Ivi, p. 1229.36 Ibidem.

344

dervi soltanto un immenso caos di atti cre-

atori provenienti tutti da scala individuale

e assicurando la fecondità di un disordine

permanente?»37. L’etnologia deve, come ha

fatto Françoise Héritier, affrontare i turbini

per capire i livelli di ordini che nascondono;

lo deve fare con gli storici, spogliando le

Memorie di Saint Simon, le raccolte genea-

logiche del Padre Anselme, di Imhof, di Ho-

zier, privilegiando non la storia immobile

ma quella quotidiana, che dietro il pullulare

degli aneddoti e delle date ci rivela dei prin-

cipi organizzatori. La storia per ritrovare le

strutture.

Bisogna riconoscere a Lévi-Strauss il merito

di non avere, come ha fatto invece Murdock,

scelto la soluzione «facile» e radicale di elu-

dere il problema del tempo e della storia. Al

di là dell’interazione delle variabili struttu-

rali lascia spazio e ruolo per la storia e per

gli attori, attori che tuttavia rispettano alcune

regole esplicite o implicite definendo così

una «curvatura del campo». Le sue rifles-

sioni rimangono stimolanti e «aprono uno

spazio di riflessione sui modi di considera-

zione del tempo che modellano la vita po-

litica e sociale». Ha sottolineato con forza i

limiti dell’obiettività storica e incitato ad una

visione più larga integrando tutti gli aspetti

della «temporalità», incluso il modo con cui

la percezione del tempo struttura il nostro

presente e le nostre relazioni al passato38.

Anche se nell’articolo del 1983 Lévi-Strauss

si augurava di vedere superato «il dualismo

della struttura e dell’avvenimento», non c’è

dubbio che nel suo approccio, come spesso

anche in quello dei suoi contraddittori, strut-

tura e storia sono due cose «diverse» che

però interferiscono tra di loro con modalità

e intensità difficili da definire e capire. Il pro-

blema, forse, è che quell’assioma di base è

falso; se gli attori si riferiscono a delle regole

dettate dalla struttura e «curvano il campo»

è anche vero che ogni struttura, anche

quelle apparentemente più costringenti, la-

sciano – «coscientemente» o no – ampi spazi

di «libertà» a questi stessi attori. Nelle strut-

ture complesse, le replicazioni o le chiusure

matrimoniali avvengono sulla base di scelte

iniziali «libere». Lo storico o l’antropologo

non hanno, credo, da scegliere tra struttura

o pratica, né devono isolare l’una dall’al-

tra. Devono definirle e capire come inte-

ragiscono e se, e in quali condizioni, l’una

può cambiare l’altra. La tesi dell’individuo

attore che ragiona e agisce in funzione del

contesto immediato in cui si trova, non fa

altro che reintrodurre il tempo breve a tutti

i livelli e pone in principio la soluzione dei

problemi; sono un’interpretazione e un me-

todo non scientifici. Il tempo ci è necessario

per capire le interrazioni sociali ma anche,

non dimentichiamolo, per «nascondere» ciò

che non capiamo.

37 Ivi, p. 1230.38 M. Abélès, Avec le temps, «Critique», numero speciale su Claude Lévi-Strauss, gennaio-febbraio 1999, pp. 42-60, in particolare p. 60.

345

Gli storici in generale e quelli britannici in

particolare sono propensi a respingere l’at-

tinenza di Claude Lévi-Strauss con la loro

disciplina in quanto il suo lavoro «è splen-

dido, ma non è storia». Per loro l’opera di

Lévi-Strauss è a-storica o antistorica, e

bisogna ammettere che alcune sue idee si

prestano a questa interpretazione. Come

ciò che ha chiamato «il pensiero selvaggio»

e definito intemporelle, il pensiero etnolo-

gico di Lévi-Strauss si è incentrato sulle in-

variants, su «la struttura inconscia, soggia-

cente ad ogni istituzione o ad ogni usanza»1.

Anche analizzando le società del passato

come le corti giapponesi del periodo Heian

o la Francia di Luigi XIV, egli non ha stu-

diato il cambiamento nell’arco del tempo.

Da ciò derivano la definizione della sua

pratica come «antropologia strutturale» e

la sua reputazione come uno dei fondatori

dello «strutturalismo»2.

La distinzione successiva tra le società

«calde», soggette ai cambiamenti, e quelle

relativamente «fredde», su cui preferiva

concentrare la sua ricerca, consolidò l’im-

pressione che Lévi-Strauss respingesse

la storia3. Altrettanto fece la sua critica di

Sartre in Il pensiero selvaggio, del 1962,

talvolta letta come critica degli storici in

generale4.

Lévi-Strauss e il passatoNonostante questo, Lévi-Strauss era ben

lontano dal respingere il passato. Come i

linguisti, di cui considerò il lavoro come

modello del proprio, almeno per certi aspetti

importanti, apprezzava l’analisi diacronica

come quella sincronica, pur sottolineando

che anche l’analisi sincronica comportava

«un ricorso costante alla storia», in quanto

una struttura si rivelava attraverso lo stu-

dio delle sue trasformazioni5. Nella sua le-

zione inaugurale al Collège de France, egli

probabilmente sorprese alcuni ascoltatori

con quello che definì una «professione di

fede storica», dichiarando che «non la pra-

tichiamo, ma ci teniamo a riservarle i suoi

diritti»6. Nello stesso periodo, nel 1961,

egli studiò il problema della discontinui tà

culturale, osservando gli effetti dell’in-

Peter Burke

Gli usi di Lévi-Strauss

1 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964 [Paris, 1962], p. 284; Id., Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966 [Paris, 1958], p. 33.2 M. Lane (ed.), Structuralism: a reader, London, Cape, 1970; D. Robey (ed.) Structuralism: an introduction, Oxford, Clarendon Press, 1973; T. Hawkes, Structuralism and Semiotics, London, Methuen & C., 1977.3 G. Charbonnier, Entretiens avec Claude Lévi-Strauss, Paris, Plon-Juillard, 1961. Cfr. C. Lévi-Strauss, D. Éribon, Da vicino e da lontano. Discutendo con Claude Lévi-Strauss, Milano, Rizzoli, 1988 [Paris, 1988], pp. 76-77.4 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, cit., pp. 267-277. Cfr. M.E. Harkin, Lévi-Strauss and History, in B. Wiseman (ed.), The Cambridge Companion to Lévi-Strauss, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 39-58.5 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 34.6 Id., Le champ de l’anthropologie lezione inaugurale pronunciata al Collège de France il 5 gennaio 1960, ristampata in Id., Antropologa strutturale due, Milano, Il Saggiatore, 1978 [Paris, 1973], p. 49.

346

troduzione del cavallo in Nordamerica e

dell’ascia di metallo in Australia, elementi

che riscaldarono le culture prima fredde

degli abitanti indigeni7. Più di due decenni

dopo, nel 1983, Lévi-Strauss ritornò alla

relazione tra storia ed etnologia in un arti-

colo della famosa rivista storica «Annales»,

osservando che la frontiera tra le due disci-

pline si era spostata da quando aveva ini-

ziato a scrivere sull’argomento, e gli storici

diventavano più consapevoli della società

e della cultura8.

Soprattutto in Tristi tropici, del 1955, spesso

si può cogliere Lévi-Strauss nell’atto di pen-

sare come uno storico, per esempio quando

paragona le proprie osservazioni del Cadu-

veo con quelle dell’esploratore Guido Bog-

giani quarant’anni prima; quando osserva

come sia la disposizione dei villaggi bororo

sia le loro terrecotte cambiassero nel corso

del tempo; quando studia la data dell’arrivo

umano nel Nuovo Mondo; e quando de-

scrive l’ascesa della cultura neolitica come

«un importante evento nella vita dell’uma-

nità»9.

E poi Lévi-Strauss non respinse il lavoro

degli storici. Fece riferimento a Henri Hau-

ser, per esempio, a Lucien Febvre (si diede

un gran daffare per elogiare il suo libro su

Rabelais), a Fernand Braudel (che conobbe

alla fine degli anni Trenta quando entrambi

insegnavano all’Università di São Paulo),

al classicista Jean-Pierre Vernant, al quale

dichiarò di sentirsi vicino, e allo storico

dell’arte Erwin Panofsky, che definì «un

grande strutturalista»10.

Lévi-Strauss tra gli storici francesiA loro volta alcuni storici, prevalentemente

francesi e legati alla rivista «Annales», non

si sono limitati a fare omaggio alle conqui-

ste di Lévi-Strauss, ma hanno fatto un uso

costruttivo di alcune sue idee nelle loro

opere. Negli anni Cinquanta Braudel esa-

minò alcune di queste idee nel suo famoso

articolo su la longue durée come lingua co-

mune delle scienze sociali11. L’articolo di

Braudel è stato interpretato come critica a

Lévi-Strauss, o addirittura come difesa del

territorio dello storico contro un’invasione:

«per lui si trattava di preservare i diritti

della storia dall’avanzata della marea dello

strutturalismo di Lévi-Strauss»12. Nell’ar-

ticolo, tuttavia, Braudel cita Lévi-Strauss

come alleato, ne elogia il lavoro e fa uso di

alcune delle sue idee, pur cercando di sosti-

tuire il principio delle strutture immutabili

con quello di strutture che cambiano con

molta lentezza13.

Un nucleo di quattro studiosi di storia

dell’antica Grecia, che si conoscono bene tra

7 Id., Le problème des discontinuités culturelles, testo di una comunicazione alla Table ronde sur le premisses sociales de l’industrialisation del 1961; ristampato in Antropologia strutturale due, cit.8 Id., Histoire et ethnologie, «Annales: economies, sociétés, civilisations», 1983, 38, pp. 217-231.9 Id., Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960 [Paris, 1955], pp. 170-171, 207, 212 e 69-77.10 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., pp. 13, 28-29, 36; C. Lévi-Strauss, D. Éribon, Da vicino e da lontano, cit. pp. 83, 109, 170-171, 174-175; C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale due, cit., p. 316.11 F. Braudel, Storia e scienze sociali. La «lunga durata» (1958), in F. Braudel, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1973 [Paris, 1969], pp. 150, 161 e 169-173; cfr. Id., Histoire et sociologie, in G. Gurvitch (sous la direction de), Traité de sociologie, Paris, Puf, 1958, pp. 184-185, 189 e 191. 12 A. Burguière, L’École des Annales: une histoire intellectuelle, Paris, Odile Jacob, 2006, p. 228.13 F. Braudel, Storia e scienze sociali, cit., pp. 150, 161, 165, 169-73, 184, 189 e 191.

347

di loro e talvolta collaborano, ha utilizzato

Lévi-Strauss in maniera particolarmente

sistematica, in particolare il suo lavoro sul

mito, evidenziando le opposizioni e le in-

versioni binarie. Lo stesso Lévi-Strauss si

era avvicinato all’antica Grecia con un in-

teressante studio breve della leggenda di

Edipo14.

Il capo del gruppo era Jean-Pierre Vernant,

ex allievo del classicista Louis Gernet (la

cui antropologia storica dell’antica Grecia

si ispirava a sua volta all’opera di Emile

Durkheim). Già nel 1960 aveva pubblicato

un’«analisi strutturale» del mito delle Quat-

tro razze del poeta Esiodo, un saggio che

non cita Lévi-Strauss ma è in debito con il

suo «studio strutturale del mito» pubblicato

cinque anni prima, per l’accento che pone

su quelli che Vernant definì i «due aspetti

opposti e complementari» del mito15. Molti

anni dopo, in un’intervista, Vernant si de-

finì uno strutturalista, ma aggiunse «il mio

è uno strutturalismo storico»16.

Anche Marcel Detienne, un collega più

giovane con cui Vernant talvolta colla-

borò, trovò l’idea del «gioco di un numero

contenuto di opposizioni» illuminante per

i suoi studi del mito dei giardini di Adone.

Lo studio successivo del mito di Dioniso da

parte di Detienne incluse una severa critica

dell’analisi di Lévi-Strauss sulla leggenda

di Edipo, in quanto ignorava la specificità

dei greci, lo stesso «contesto etnografico»

che l’antropologo aveva sottolineato nella

sua interpretazione della storia di Asdiwal

degli indiani tsimshian, utilizzando quindi

Lévi-Strauss contro se stesso17.

Gli altri due membri del gruppo non lavo-

rarono direttamente sul mito, ma trovarono

comunque utile l’enfasi di Lévi-Strauss

sulle opposizioni e le inversioni. Pierre

Vidal-Naquet si occupò dell’efebo greco, il

maschio adolescente, e della sua rappre-

sentazione come cacciatore nero, rispetto

all’oplita, il soldato adulto18. E ancora, il

saggio di François Hartog sullo storico Ero-

doto si imperniava sulla sua rappresenta-

zione dell’«altro», specialmente gli sciti, gli

egizi e i persiani, come rovescio dei greci.

Hartog osservò inoltre, in una formula par-

ticolarmente lévi-straussiana, che «rispetto

ai Persiani, gli Sciti sono come erano stati

gli Ateniesi rispetto agli stessi Persiani»19.

Gli storici francesi dei periodi successivi

hanno utilizzato Lévi-Strauss in misura

molto minore. Nel 1971, tuttavia, la rivista

«Annales» pubblicò un numero speciale su

Histoire et structure, che includeva un arti-

colo dello stesso Lévi-Strauss e un’introdu-

zione dello studioso di demografia storica

André Burguière, il quale evidenziava la

convergenza tra antropologia e storia. Jac-

14 C. Lévi-Strauss, The Structural Study of Myth, «Journal of American Folklore», 1955, 78, pp. 428-444.15 J.-P. Vernant, Le mythe hésiodique des races: essai d’analyse structurale, «Revue de l’Histoire des Re-ligions», 1960, ristampato in Id., Mito e pensiero presso i Greci. Torino, Einaudi, 1970 [Paris, 1965], pp. 15-90.16 J.-P. Vernant, La volonté de comprendre, La Tour-D’Aigues, Éd. de l’Aube, 1999, p. 56.17 M. Detienne, I giardini di Adone. I miti della seduzione erotica, Torino, Einaudi, 1975 [Paris, 1972], p. 17; Id., Dioniso e la pantera profumata, Roma-Bari, Laterza, 1981 [Paris, 1977], pp. 22-23. Cfr. J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Oedipe et ses mythes, Bruxelles, Complexe, 1988.18 P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir et l’origine de l’éphébie athénienne, «Annales», 1968, 23, pp. 947-964.19 F. Hartog, Lo specchio di Erodoto, Milano, Il Saggiatore, 1992 [Paris, 1980], p. 63.

348

ques Le Goff ed Emmanuel Le Roy Ladurie,

che avrebbero presto interpretato entrambi

un ruolo di primo piano nell’ascesa di quella

che definirono «antropologia storica», pro-

posero analisi complementari della storia

popolare della Melusina. Le Goff accettò le

analisi di Lévi-Strauss sulla trasformazione

dei miti, ma obiettò che non si trattava del

«semplice svolgimento di un meccanismo

interno». Al contrario, «sono le risposte del

racconto alle sollecitazioni della storia»20.

Le Goff ritornò all’analisi strutturale della

narrativa in un saggio scritto con Vidal-Na-

quet in omaggio a Lévi-Strauss, imperniato

su un’immaginaria foresta medievale, Bro-

céliande, come simbolo della natura con-

trapposta alla cultura21.

Anche due membri del circolo di Le Goff,

i medievalisti Jean-Claude Schmitt e Alain

Boureau, hanno fatto uso di Lévi-Strauss di

tanto in tanto: Boureau, uno dei più audaci

storici francesi sperimentalisti, ha dedicato

un libro al «sistema narrativo» della Le-

genda Aurea – la raccolta di vite dei santi

scritta da Jacopo da Varazze nel XIII se-

colo –, trattando le leggende dei santi come

Lévi-Strauss aveva trattato la mitologia

degli indiani d’America, ovvero come una

serie di trasformazioni22.

Contrariamente a Le Goff, Le Roy Ladurie si

mantenne a distanza e, per esempio nel suo

studio della struttura di base di un racconto

popolare francese, fece più uso dell’esperto

finlandese di storie popolari Anti Aarne e

dello strutturalista russo Vladimir Propp

che di Lévi-Strauss23. In lavori successivi

come Montaillou e Le carnaval de Romans24

Le Roy Ladurie fece riferimenti occasionali

a Lévi-Strauss, ma utilizzò molto di più altri

antropologi.

Accanto allo studio dei miti e dei racconti

popolari, l’ambito degli studi storici su

cui le idee di Lévi-Strauss hanno avuto

maggior impatto è la storia della famiglia.

Come abbiamo visto, fu lo storico demo-

grafico Burguière a organizzare il numero

speciale delle «Annales», Histoire et struc-

ture. Burguière fu anche uno dei curatori

di una storia collettiva della famiglia, a

cui Lévi-Strauss contribuì con un’introdu-

zione25.

Oltre la FranciaGli storici al di fuori della Francia hanno

manifestato un interesse più contenuto per

Lévi-Strauss e per lo strutturalismo più

in generale, lasciando quest’approccio ai

professionisti di altre discipline, dall’an-

20 J. Le Goff, Mélusine au Moyen Age, «Annales Esc», 1971, 26, pp. 587-603, citazioni a p. 598.21 J. Le Goff, P. Vidal-Naquet, Lévi-Strauss en Brocéliande. Esquisse pour une analyse d’un roman courtois (Yvain de Chrétien de Troyes), «Critique», 1974, 325, numero speciale, Hommage à Lévi-Strauss, pp. 541-571.22 J.C. Schmitt, Le corps, les rites, les rêves, le temps, Paris, Gallimard, 2001, p. 69; A. Boureau, La lé gende doré e: le systè me narratif de Jacques de Voragine, Paris, Cerf, 1984.23 E. Le Roy Ladurie, Mélusine ruralisée, «Annales Esc», 26, 1971, pp. 604-616; Id., Il denaro, l’amore, la morte in Occitania, Milano, Rizzoli, 1983 [Paris, 1980].24 Id., Storia di un paese: Montaillou, Milano, Rizzoli, 1977 [Paris, 1975], e Il carnevale di Romans, Milano, Rizzoli, 1981 [Paris, 1979].25 A. Burguière (diretto da), Storia universale della famiglia, Milano, Rizzoli, 2 voll., 1987-1988 [Paris, 1986].

349

tropologia alla letteratura. La principale

eccezione a questa regola sicuramente è

rappresentata dall’erudito Carlo Ginzburg,

specialmente, ma non esclusivamente,

nella Storia notturna (1989), che attinge

all’analisi del mito di Vernant e Detienne,

ma offre anche quello che è, per quanto mi

è dato di sapere, il più serio esame critico e

utilizzo di Lévi-Strauss mai offerto da uno

storico26.

In Gran Bretagna, come ho già detto, si è

assistito a un generale rifiuto a confrontarsi

con le idee di Lévi-Strauss, fatta eccezione

per qualche raro classicista (più vicino alla

letteratura che alla storia), come Geoffrey

Kirk, il cui studio comparativo Myth (1970)

fu aspramente criticato dallo storico lette-

rario Brian Vickers27. Come altra eccezione

alla regola sono costretto a citare me stesso,

ma questa scelta mi offre almeno il vantag-

gio di poter spiegare quello che mi ha at-

tratto e come ho utilizzato ciò che ho preso

in prestito.

Nel mio Cultura popolare nell’Europa mo-

derna28, per esempio, ho preso a prestito

l’idea del bricolage da Il pensiero selvaggio,

sostenendo che è particolarmente appro-

priato per l’analisi della cultura popolare in

generale e in particolare per il genere della

parodia del Pater Noster e per altri testi cri-

stiani. Anche in questo caso ho suggerito –

senza mettere in pratica il suggerimento –

che un corpus di tradizionali ballate euro-

pee come le cosiddette Child Ballads (che

prendono il nome dal loro curatore ameri-

cano) in Gran Bretagna potrebbero essere

studiate come trasformazioni reciproche

per analogia con le trasformazioni dei miti

degli indiani d’America studiati in Mytho-

logiques. La mia analisi del carnevale e dei

riti carnevaleschi di inversione deve molto

anche allo studio di Lévi-Strauss sui sistemi

degli opposti29.

In Scene di vita quotidiana nell’Italia mo-

derna30, ho coniato il termine «cerimonieri»,

sull’analogia dei «mitemi» di Lévi-Strauss

per descrivere elementi di cerimoniale che

ricorrono in diverse combinazioni, mentre

un esame dei rituali di guarigione attinge

al suo famoso saggio sulla «efficacia simbo-

lica». Il rompicapo che cercavo di risolvere

era l’invocazione regolare a Santa Marghe-

rita nell’Italia moderna nei casi di parto

difficile. Perché scegliere proprio questa

santa? La leggenda di Santa Margherita,

diffusa nel XVI secolo, era che fosse stata di-

vorata da un drago ma fosse uscita indenne

dal suo ventre, come dovrebbe accadere al

neonato. Quello che aggiunse Lévi-Strauss

in un esame del parto tra i cuna di Panama,

era l’idea che l’espressione verbale «pro-

voca l’avvio del processo fisiologico». «Se

una leggenda di discesa agli inferi funziona

come talking cure le indiane di Cuna, perché

26 C. Ginzburg, Storia notturna, Torino, Einaudi, 1989, pp. XXXI, XXXIII-XXXVII, XLIII-XLIV, 126, 178, 181, 183, 205, 251-2, 259-61, 264, 266, 270-2, 275, 291, 294.27 G.S. Kirk, Il mito: significato e funzioni nella cultura antica e nelle culture alter, Napoli, Liguori, 1980 [Cambridge, 1970]; B. Vickers, Towards Greek Tragedy, London, Longman, 1973, pp. 173-177 e 196-199.28 Milano, Mondadori, 1980 [London, 1978].29 Ivi, pp. 174-193.30 Roma-Bari, Laterza, 1998 [Cambridge, 1987].

350

non avrebbe dovuto avere altrettanta effica-

cia per l’Italia del sedicesimo secolo?»31.

A mio avviso «Lévi-Strauss resta ancora

buono da pensarci insieme». A differenza

di Max Weber, Norbert Elias e Michel

Foucault egli si è concentrato sulle «inva-

rianti» o costanti piuttosto che invadere il

territorio degli storici. Ha fatto resistenza

a una sorta di storia, come le società da

lui studiate avevano fatto resistenza a una

sorta di cambiamento, rapido ed esogeno.

Il suo più grande valore per noi risiede

nella sfida a cui rispose Braudel (tradu-

cendo le costanti in cambiamento molto

lento) e nella sensibilizzazione degli sto-

rici a quello che Vernant ha definito «op-

posizioni, contraddizioni all’interno di un

sistema»32.

Marco Curatola-Petrocchi

Lévi-Strauss e gli studi andini

31 C. Lévi-Strauss, L’efficacité symbolique, «Revue de l’Histoire des Religions», 1949, 1, pp. 5-27; ristampato in Id. Antropologia strutturale, cit., pp. 210-230; P. Burke, Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna, cit., p. 265.32 J.-P. Vernant, La volonté, cit., p. 57.

1 P. Wilken, Claude Lévi-Strauss. The Poet in the Laboratory, New York, The Penguin Press, 2010, pp. 139-140.

In nessuna delle sue ricerche e dei suoi

scritti Claude Lévi-Strauss si occupò speci-

ficamente del mondo andino. Eppure l’in-

flusso del suo pensiero e del suo struttura-

lismo antropologico è stato estremamente

importante e fecondo nello sviluppo degli

studi andini, soprattutto dalla metà degli

anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta

del secolo scorso.

Nell’opera di Lévi-Strauss i riferimenti agli

incas, e più in generale alle culture andine,

sono quanto mai sporadici e concisi, ancor-

ché tutt’altro che estemporanei. Di fatto, lo

studioso dovette acquisire una certa fami-

liarità con la letteratura relativa alla storia

e alla cultura dei popoli andini durante

l’esilio negli Stati Uniti, dove si rifugiò nel

1941, per sfuggire alla persecuzione nazi-

sta degli ebrei, avviata tanto nella Francia

occupata dalla Wehrmacht come in quella

del governo collaborazionista filo-tedesco

di Vichy. Alla New School of Social Rese-

arch di New York, dove venne chiamato

a insegnare grazie alla segnalazione di

due eminenti americanisti come Robert

H. Lowie ed Alfred Métraux, Lévi-Strauss

tenne lezioni di sociologia contemporanea

del Sud America, analizzando la realtà di

paesi come il Perù e la Bolivia. E più tardi,

all’École Libre des Hautes Etudes, fondata

nel 1942 a New York sotto gli auspici del

governo della France libre del generale De

Gaulle e del governo belga in esilio, tenne,

tra gli altri, un corso dal titolo Il primo stato

totalitario: gli incas1. In quegli stessi anni

strinse una fraterna amicizia con Métraux

(1902-1963), etnologo di origine svizzera

che aveva condotto importanti ricerche

351

sull’altopiano boliviano e che qualche

anno più tardi avrebbe pubblicato un pre-

gevole libro di divulgazione sugli incas.

All’epoca, quest’ultimo lavorava al Bureau

of American Ethnology della Smithsonian

Institution di Washington, impegnato nella

preparazione dell’Handbook of South Ame-

rican Indians, monumentale opera in vari

volumi alla quale ben presto chiamò a

collaborare lo stesso Léví-Strauss con una

serie di articoli sulle culture indigene del

Brasile2. Il sodalizio tra i due studiosi fu

tale che Métraux, quando si recava a New

York, era solito farsi ospitare nel piccolo

appartamento dell’amico al Greenwich Vil-

lage. Così non è difficile immaginare che

Métraux abbia potuto rappresentare per

Lévi-Strauss, nella preparazione delle sue

lezioni, una preziosa fonte di informazioni

ed indicazioni bibliografiche sulle antiche

culture e i moderni popoli delle Ande.

La proibizione dell’incestoNe Les structures élementaires de la parenté3,

il libro che Lévi-Strauss scrisse durante gli

anni negli Stati Uniti e presentò al suo ri-

torno in Francia come tesi di dottorato alla

Sorbona (1948), i riferimenti all’antico Perù

sono scarsi, ma quanto mai puntuali. La

prima menzione la si incontra nelle pagine

in cui l’autore presenta la sua famosa teo-

ria, per lo più accettata senza obiezioni di

fondo, relativa alla proibizione dell’incesto.

Secondo Lévi-Strauss, questa rappresen-

terebbe l’unica norma sociale di carattere

realmente universale, ossia comune a tutte

le culture di tutti i tempi. Nel rendere obbli-

gatoria la ricerca di partner matrimoniali

al di fuori della ristretta cerchia familiare,

essa avrebbe infatti creato la necessità per

l’intercambio, la comunicazione e la reci-

procità fra i diversi gruppi, dando origine

alla formazione della vita sociale ed assicu-

rando le condizioni minime ed essenziali

per il suo sviluppo. In definitiva, sarebbe

stato il «tabù» dell’incesto a segnare il pas-

saggio dell’umanità dallo stato di natura

a quello di cultura, e sarebbe sempre tale

proibizione a garantire e rinnovare costan-

temente i fondamenti della dinamica so-

ciale. Quanto alle apparenti eccezioni alla

universalità della norma, come quelle rap-

presentate dai casi delle antiche monarchie

del Perù, dell’Egitto e delle Hawaii, il cui so-

vrano poteva, o meglio doveva prendere in

sposa una sorella, Lévi-Strauss tenta di spie-

garle, e in qualche modo invalidarle, addu-

cendo la grande variabilità da una cultura

all’altra delle categorie di parenti con cui

può essere proibito il matrimonio. «Il pro-

blema non è dunque di sapere – scrive – se

esistono gruppi che permettano matrimoni

che sono invece esclusi da altri gruppi, ma

invece è di sapere se ci sono dei gruppi

presso i quali nessun tipo di matrimonio sia

proibito. La risposta deve essere allora as-

solutamente negativa, e a doppio titolo: in-

nanzitutto, perché il matrimonio non è mai

autorizzato tra tutti i parenti prossimi, ma

soltanto all’interno di certe categorie (sorel-

2 Lévi-Strauss contribuì al terzo volume: The Tropical Forest Tribes (Washington, Smithsonian Institution, 1948) dell’Hsai, con gli articoli The Tupí-Cawahíb, Tribes of Upper Xingú River, The Nambicuara e Tribes of the Right Bank of the Guaporé River, e al quinto volume: Physical Anthropology, Linguistics and Cultural Geography of South American Indians (1950) con The Use of Wild Plants in Tropical South America.3 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1969 [Paris, 1947].

352

lastra a esclusione della sorella, sorella ad

esclusione della madre, ecc.); inoltre per-

ché queste unioni consanguinee hanno o

un carattere temporaneo e rituale, o invece

un carattere ufficiale e permanente, ma in

quest’ultimo caso restano privilegio di una

categoria sociale molto ristretta»4. Sebbene

logica, e in ultima istanza fondamental-

mente corretta, l’argomentazione di Lévi-

Strauss, per lo meno nella forma in cui è

espressa, appare invero stiracchiata e poco

convincente, soprattutto perché non arriva

a fornire una spiegazione chiara e coerente

del perché in alcune società si sia arrivato

a concedere a determinati individui, ancor-

ché appartenenti a una cerchia assoluta-

mente ristretta, quello che per tutti gli altri

membri della medesima società è conside-

rato come qualcosa di abominevole, immo-

rale, pregiudizievole per l’ordine collettivo

e passibile delle pene più severe. Nondi-

meno, la pratica di contrarre matrimonio

con una consanguinea di primo grado ri-

sulta pienamente intellegibile, per lo meno

nel caso del sovrano degli incas, proprio

assumendo come valida e, in un certo qual

modo, «veridica» la spiegazione antropolo-

gica della proibizione dell’incesto avanzata

da Lévi-Strauss.

Gli incas furono un gruppo etnico di circa

quarantamila individui, stanziato nella

valle del Cuzco, che tra il XV secolo e gli

inizi del XVI, arrivò a esercitare la propria

egemonia sugli oltre dieci milioni di indi-

vidui, divisi in decine e decine di differenti

gruppi etnici, che popolavano le Ande

dall’Ecuador settentrionale al Cile cen-

trale. Al vertice di tale vasto impero stava

il re degli incas, il Sapa Inca [l’Unico Inca],

chiamato anche Intip Churin [Figlio del

Sole]. Secondo le tradizioni inca, sarebbe

stato Pachacuti, il fondatore dell’impero,

a istituire la pratica del matrimonio del

sovrano con una sorella, dando in sposa

una delle sue figlie a suo figlio Tupa Yu-

panqui, nella cerimonia in cui lo nominò

suo successore5. Da allora in poi, la moglie

principale del Sapa Inca, la Coya [Regina],

venne invariabilmente scelta tra una delle

sue sorelle, vale a dire nell’ambito di quello

che Tom Zuidema, nella sua ricostruzione

del sistema di parentela inca, segnala come

il «grado zero»6. E la pratica venne mante-

nuta persino dopo la caduta dell’impero,

tra gli incas che si rifugiarono nella imper-

via regione di Vilcabamba, a nord-est del

Cuzco, dove per vari decenni, fino al 1572,

opposero un’ostinata resistenza alla domi-

nazione spagnola. Sayri Tupa, pronipote

di Tupa Yupanqui e secondo sovrano del

piccolo stato neo-inca di Vilcabamba, non

solo seguì l’antica usanza imperiale inca di

prendere in moglie a sua sorella Cusi Huar-

cay, ma addirittura ottenne, tra i numerosi

benefici e privilegi ottenuti in cambio della

personale sottomissione alle autorità colo-

niali, che la sua unione fosse riconosciuta

e convalidata dalla stessa chiesa cattolica.

Su richiesta del viceré del Perù e del re di

Spagna gli venne infatti elargita dal papa

4 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 47-48.5 J. de Betanzos, Suma y narración de los Incas (1551), Madrid, Polifemo, 2004, pp. 165-166 (parte I, cap. XXVI).6 R.T. Zuidema, El sistema de parentesco incaico: una nueva visión teórica, in E. Mayer, R. Bolton (editores), Parentesco y matrimonio en los Andes, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú, 1980, pp. 57-113.

353

Giulio III una speciale dispensa per poter

contrarre matrimonio cristiano con la so-

rella. La cerimonia nuziale fu celebrata,

nel 1558, dal vescovo del Cuzco Juan de

Solano, e venne immortalata dal cronista

andino Felipe Guaman Poma de Ayala, in

una illustrazione della sua Nueva corónica

y buen gobierno (1615)7. Nella medesima

opera, si narra come la prima – mitica –

coppia fondatrice del Cuzco e della dinastia

reale inca fosse costituita da una donna do-

tata di grandi poteri magici, di nome Mama

Huaco, figlia del Sole e della Luna, e dal di

lei figlio, Manco Capac8. Un connubio, que-

sto, se è possibile ancor più incestuoso di

quello descritto nel mito di fondazione inca

riportato dalla maggior parte degli altri

cronisti, secondo cui Manco Capac e Mama

Huaco (o Mama Ocllo) sarebbero stati fra-

tello e sorella9.

Per lo meno in apparenza, il matrimonio

fra fratelli (così come la originaria unione

mitica madre-figlio) degli imperatori inca

contrasta grandemente con la morale an-

dina tradizionale che condanna le relazioni

incestuose, soprattutto quelle fra consangui-

nei di primo grado, come il peccato nefando

per eccellenza. Di fatto, tra le popolazioni

di lingua quechua della sierra peruviana è

tuttora molto diffusa la credenza che esse

attraggano le più gravi calamità all’intera

comunità e che gli incestuosi siano desti-

nati a trasformarsi in qarqachas, termine

col quale si indicano malefici lama e altre

immaginarie bestie «demoniache» che va-

gano nella notte emettendo terrificanti urli

e attaccando chiunque passi loro vicino10.

In definitiva, nel sistema di credenze e rap-

presentazioni collettive andine, la persona

che non rispetta la proibizione dell’incesto

perde la condizione stessa di essere umano,

per divenire un animale, un mostro, una

bestia pericolosa per l’intera collettività.

Ma, questa concezione andina (e presunta

universale) dell’incesto, come si concilia

culturalmente e storicamente con la pratica

del matrimonio dell’imperatore inca con

una delle sue sorelle? Quale può mai essere

il denominatore comune fra l’immonda fi-

gura della qarqacha e il sublime, augusto ed

idillico connubio fra il Sapa Inca e la Coya,

qual è in modo esemplare rappresentato in

una splendida tavola a colori, della mano

di Guaman Poma, che illustra la cronaca di

fra’ Martín de Murúa (1590)?11 Semplice-

mente, che tanto l’una come l’altro evocano

esseri che si collocano al di fuori della so-

cietà degli uomini: nel caso della qarqacha,

al di sotto di essa, nel sub-umano; nel caso

dei sovrani inca, al di sopra, nell’empireo,

vicino al padre Sole. Col loro matrimonio

incestuoso, che va scientemente oltre ogni

7 J. Hemming, La fine degli Incas, Milano, Rizzoli, 1975 [London, 1970], p. 285; F. Guaman Poma de Ayala, El primer nueva corónica y buen gobierno (1615), México, D.F., 1980, vol. II, p. 411 (f. 444).8 F. Guaman Poma de Ayala, El primer nueva corónica, cit., 1980, Vol. I., p. 99 (f. 120).9 Vedasi, ad esempio, P. Sarmiento de Gamboa, Historia de los Incas (1572), Madrid, Miraguano/Polifemo, 2001, p. 51-61 (capp. XI-XIII), e Inca Garcilaso de la Vega, Comentarios Reales de los Incas (1609), Lima, Fondo de Cultura Económica, 1991, pp. 47-48 (Lib. I, cap. XVIII).10 R. Cavero Carrasco, Incesto en los Andes. Las «llamas demoníacas» como castigo sobrenatural, Ayacucho, Wari, 1990.11 M. de Murúa, Historia del origen, y genealogía real de los Reyes ingas del Piru (1590), Códice Galvin, Madrid, Testimonio, 2004 (edizione facsimilare), tra i fogli 81 e 82.

354

limite morale e sociale ammissibile per i

mortali, i Figli del dio Sole non fanno che

riaffermare in modo categorico di fronte al

mondo la loro natura completamente di-

versa, extra e sovra-umana, divina. E, nel

contempo, così facendo, rendono palese

la concezione andina (e universale) che

considera l’osservanza della proibizione

dell’incesto come la condizione che san-

cisce e definisce l’appartenenza al genere

umano. Il caso dell’unione fratello-sorella

degli imperatori inca – così come, probabil-

mente, quelli dei sovrani dell’antico Egitto,

delle Hawaii e di altre monarchie divine di

società antiche e di culture tradizionali –

rappresenta dunque a tutti gli effetti l’ecce-

zione che conferma la regola: non solo non

invalida la teoria di Lévi-Strauss relativa

all’importanza primordiale e all’univer-

salità della proibizione dell’incesto, ma la

comprova appieno.

Organizzazioni dualistiche e vita socialeUna seconda menzione delle culture an-

dine ne Les structures élementaires de la

parenté la si incontra nel capitolo sesto, de-

dicato alle organizzazioni dualistiche, cioè

alle formazioni sociali che si presentano

divise in forma molto netta in due parti, o

metà, opposte e complementari, in quanto

le loro relazioni sono improntate tanto alla

rivalità che alla cooperazione. Per Lévi-

Strauss questi sistemi non sarebbero altro

che l’espressione più schietta, la codifica-

zione più diretta di un universale principio

di reciprocità, alla base di ogni forma di vita

sociale. Tale principio, originariamente at-

tivato proprio dalla proibizione dell’ince-

sto, presuppone e impone infatti l’esistenza

di almeno due gruppi sociali separati, ma

al tempo stesso in continua comunicazione

fra loro per gli scambi matrimoniali e per

una serie di altre prestazioni e contro-pre-

stazioni di ordine economico e cerimoniale.

Inoltre, Lévi-Strauss osserva come sovente

la dualità non si limiti alla sola sfera sociale,

ma «si prolunghi» in una organizzazione

e classificazione binaria di tutti gli esseri

e le cose dell’universo. E, nell’elencare le

diverse società storiche e tradizionali pa-

lesemente strutturate in forma dualistica,

ricorda di sfuggita come nelle cronache del

XVI secolo si incontrino allusioni a questo

tipo di organizzazione in seno alle alte cul-

ture americane, comprese quelle andine.

Per poi riprendere il discorso più avanti,

nel capitolo ventesimo, in cui analizza l’an-

tico sistema cinese di parentela e la parti-

colare disposizione (ordine tchao mou)

delle tavolette che rappresentavano gli an-

tenati all’interno dei templi gentilizi della

Cina feudale. Nelle considerazioni finali di

detto capitolo, Lévi-Strauss prospetta l’esi-

stenza di una forte analogia strutturale tra

gli elaborati rituali funebri degli imperatori

cinesi e il culto dei corpi mummificati dei

sovrani inca. Al riguardo, citando il cro-

nista Inca Garcilaso de la Vega12, ricorda

come questi ultimi all’interno del grande

tempio del Sole del Cuzco stavano dispo-

sti in rigoroso ordine dinastico ai due lati

dell’immagine del dio. E, quindi, riporta

testualmente due passi-chiave de la Rela-

12 I. Garcilaso de la Vega, Comentarios Reales de los Incas (1609), Lima, Fondo de Cultura Económica, 1991, t. I, p. 190 (Lib. III, cap. XX).

355

ción (1575) de Cristóbal de Molina, da cui

si evince con chiarezza la netta divisione

sociale e cerimoniale vigente tra i lignaggi

di Hanan [Alto] e Urin [Basso] Cuzco13. Ma

Lévi-Strauss non si limita semplicemente

a sottolineare che gli Inca dovettero posse-

dere una organizzazione dualistica. Osser-

vando che un segmento del Capac-Ñan, la

grande strada imperiale inca, tagliava per-

pendicolarmente l’asse divisorio fra la metá

Hanan e quella Urin della città, giunge alla

conclusione che l’organizzazione sociale e

politica del Cuzco dovette caratterizzarsi

per «una duplice dicotomia», con tutta la

maggiore complessità di interazioni socio-

politiche che una struttura quadripartita di

questo tipo comporta.

Successivamente, Lévi-Strauss pubblicava

tre importanti articoli (poi raccolti in An-

thropologie structurale)14 volti ad appro-

fondire lo studio della società dualiste. In

La notion de arcaïsme en ethnologie (1952)

riproponeva l’analogia fra rituali funebri

inca e quelli dell’antica Cina, ma soprat-

tutto si preoccupava di porre in evidenza

l’esistenza in Sudamerica di una vasta

area – non necessariamente continua –

con organizzazioni dualistiche, che andava

dagli altipiani andini alle savane e foreste

tropicali, accomunando i più differenti tipi

di società, da quelle apparentemente più

semplici di cacciatori-raccoglitori, come i

piccoli gruppi bororo del Mato Grosso, nel

Brasile orientale, alle grandi civiltà preco-

lombiane del Perù e della Bolivia, come la

Inca e la Tiahuanaco. E proprio l’analisi

del dualismo dei bororo – da Lévi-Strauss

studiati sul terreno verso la metà degli anni

Trenta – con i loro villaggi divisi in due metà

esogamiche, ciascuna delle quali composta

di quattro clan matrilineari, a loro volta

divisi in tre sezioni (una «superiore», una

media e una «inferiore»), costituì il fulcro, il

leitmotiv degli altri due articoli: Les structu-

res sociales dans le Brésil centarl et oriental,

del 1952, nel quale si mostra come il dua-

lismo e la simmetria apparentemente per-

fetti di queste popolazioni in qualche modo

celassero e interagissero con un livello

più profondo di organizzazione tripartita e

asimmetrica, e il celeberrimo Les organisa-

tions dualists existent-elles?, del 1956, in cui

l’autore perviene alla conclusione che la

struttura binaria doveva servire fondamen-

talmente a definire i gruppi, mentre quella

ternaria avrebbe avuto la funzione di rego-

lare le relazioni fra loro.

Nonostante in questi ultimi due lavori non

si faccia la minima allusione alle società

della cordigliera, di fatto essi ebbero un pro-

fondo impatto nel campo degli studi andini,

per l’influenza diretta che esercitarono sulle

ricerche di Reiner Tom Zuidema, un bril-

lante antropologo olandese della cosiddetta

scuola strutturalista di Leiden15. Nel 1964

Zuidema pubblicò The Cheque System of

Cuzco, la sua tesi di dottorato nella quale,

rifacendosi esplicitamente all’analisi levi-

13 C. de Molina, Relaciòn de las fábulas y ritos de los Incas (1575), Lima, Universidad de San Martín de Porres, 2008, pp. 51-52, 105. 14 Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966 [Paris, 1958].15 Cfr. G. Urton, R.T. Zuidema, Dutch Structuralism, and the Application of the «Leiden Orientation», in Structure, Knowledge and Representation in the Andes: Studies Presented to Reiner Tom Zuidema on the Occasion of His 70th Birthday, «Journal of the Steward Anthropological Society», 1996, 1-2.

356

straussiana dei villaggi bororo16, prendeva

in esame il sistema inca di linee immagi-

narie (chiamate ceques), che dipartivano a

raggiera dal centro della capitale imperiale

e lungo le quali di trovavano innumerevoli

santuari (huacas). In tale studio, attraverso

la disamina dei più vari dati offerti dalle

cronache e altre fonti del XVI e XVII sec.,

l’autore arrivò a mostrare come la strut-

tura socio-politica-territoriale degli abitanti

del Cuzco fosse fondata su una sofisticata

articolazione di tre principi organizzativi,

o «rappresentazioni»: dualismo-quadri-

partizione, tripartizione, e ripartizione per

cinque e per dieci. Il libro non solo fu la

prima monografia in cui il metodo struttu-

rale venne applicato in forma sistematica e

onnicomprensiva allo studio di una società

altamente complessa, e per di più del pas-

sato (quindi fondamentalmente sulla base

di documentazione storica piuttosto che

etnografica)17, ma per l’originalità dell’im-

postazione e per le nuove prospettive che

aprì nello specifico campo di ricerca, rap-

presentò una vera e propria pietra miliare

nello sviluppo dell’etnostoria e l’antropo-

logia andina. Successivamente, attraverso

una serie di approfondimenti, variazioni e

sviluppi delle tematiche e i problemi solle-

vati nella sua tesi18, Zuidema è pervenuto a

dimostrare come il sistema incaico dei ce-

ques, con la sua complessa combinazione di

differenti principi organizzativi, costituisse

in ultima istanza un sofisticato sistema ope-

razionale polivalente di rappresentazioni,

in grado di far coincidere i differenti piani

dell’esperienza e della realtà, dall’organiz-

zazione socio-politica a quella dello spazio,

dall’astronomia e il calendario al ciclo delle

attività economiche e cerimoniali, dalla

cosmologia alle manifestazioni artistiche,

in una grandiosa operazione di raziona-

lizzazione ed organizzazione dell’universo

culturale e naturale che per dimensioni e

complessità probabilmente non ha uguali

in nessun’altra civiltà antica della storia.

Anche se il fulcro degli interessi di Zuidema

è stato in ogni momento l’impero inca e le

sue indagini hanno avuto un carattere emi-

nentemente (etno)storico, consistendo per

lo più in una lettura antropologica di do-

cumenti coloniali, nondimeno questo stu-

dioso – nell’Università di Huamanga (Aya-

cucho), dove insegnò intorno alla metà degli

anni Sessanta, e quindi in quella di Illinois

(Urbana) – promosse tra i suoi alunni ricer-

16 Nella prefazione del libro, P.E. de Josselin de Jong, direttore della tesi, osservava: «Apparirá chiaramente come l’uso fatto da Zuidema del sistema dei ceque e dei testi mitici pseudostorici, come di guide alla com-prensione dei concetti inca, delle «rappresentazioni» inca della loro struttura sociale, sia debitore verso l’articolo di Lévi-Strauss Les organisations dualistes existent-elles? (1956) e verso Anthropologie structurale (1958)» (in R.T. Zuidema, Etnología e storia, Cuzco e le strutture dell’Impero Inca, Torino, Einaudi, 1971, p. XXX). E lo stesso Zuidema, molti anni dopo, nell’Ensayo preliminar scritto per l’edizione in lingua spa-gnola dell’opera, riconosceva senza mezzi termini: «Trovai le mie fonti di ispirazione nelle culture Ge del Brasile, negli articoli che poi Lévi-Strauss (1958) aveva dedicato a quelle culture » (R.T Zuidema, El sistema de ceques del Cuzco, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú, 1995, p. 25).17 N. Wachtel, Sociedad e ideología. Ensayos de historia y antropología andinas, Lima, Instituto de Estudios Peruanos, 1973, p. 24.18 Vedasi in particolare La civilisation inca au Cuzco, Paris, Presses Universitaires de France, 1986; Reyes y guerreros. Ensayos de cultura andina, Lima, Fomciencias, 1989, e El calendario inca, Lima, Congreso de la República del Perù/Pontificia Universidad Católica del Perú, in corso di stampa.

357

che sul terreno che portarono al riscontro

della piena vigenza di principi dualistici a

tutti i livelli dell’organizzazione sociale e

rituale di molte comunità andine della se-

conda metà del XX secolo, e alla pubblica-

zione di una serie di importanti monografie

etnografiche19.

Lo strutturalismo e gli studi andiniMa l’approccio strutturalista, con la sua en-

fasi sugli aspetti più profondi, stabili e du-

raturi della vita socio-culturale, non poteva

non risultare particolarmente attraente per

un folto gruppo di intellettuali peruviani for-

matisi sotto l’influenza della corrente indi-

genista, il cui più eminente rappresentante,

Luis E. Valcárcel (1891-1987), propugnava

con forza l’idea che gli andini, nonostante

secoli di colonialismo e di oppressione,

erano riusciti a conservare praticamente

intatti i fondamenti della cultura dei loro

avi incas. E lo stesso dicasi per vari etnologi

europei, ad un tempo à la page (strutturali-

sta) e alla romantica ricerca dei «caratteri

originali» della cultura andina, in un’epoca

in cui i processi di modernizzazione e di

incipiente globalizzazione stavano trasfor-

mando radicalmente il loro tradizionale

oggetto di studio, come peraltro ben colto

dallo stesso Lévi-Strauss, con riferimento

alle culture indigene del Brasile, in alcune

delle più struggenti pagine di Tristes Tro-

piques20. Lo strutturalismo, anche se talora

compreso in modo superficiale ed appli-

cato in forma meccanica e riduttiva, offrì

agli uni e agli altri un orizzonte cognitivo

e un indirizzo metodologico pienamente

rispondenti alle loro esigenze e alle loro

rispettive ideologie, dando luogo sovente a

risultati di notevole valore euristico. Fra gli

antropologi peruviani, possiamo ricordare

Juan Ossio, che condusse un pionieristico

e illuminante studio sulle categorie andine

relative al tempo e allo spazio (dualismo,

quadripartizione, ripartizione per cinque)

plasmate nella menzionata cronaca illu-

strata (1615) di Guaman Poma21, e che

nella sua tesi di dottorato sulla parentela

nella comunità di Andamarca (Ayacu-

cho)22 prospettò in forma convincente la

coesistenza nei rituali della festa dell’acqua

dei due tipi di dualismo, il diametrale e il

concentrico, evidenziati da Lévi-Strauss in

Les organisations dualists existent-elles?23.

Vanno inoltre menzionati Alejando Ortiz

19 Si vedano, per esempio, U. Quispe M, La herranza en Choque Huarcaya y Hancasancos, Ayacucho, Lima, Ministerio de Trabajo, 1969; S Palomino Flores, La dualidad en la organización socio-cultural de algunos pueblos del área andina, «Revista del Museo Nacional», XXVII, 1971, pp. 232-260; El sistema de oposiciones en la comunidad de Sarhua, Ayacucho, Pueblo Indio, 1984; B.J. Isbell, To Defend Ourselves, Ecology and Ritual in An Andean Village, Austin, The University of Texas at Austin, 1978; G. Urton, At the Crossroads of the Earth and the Sky. An Andean Cosmology, Austin, University of Texas Press, 1981. Tutte pubblicazioni, queste, derivate da tesi dirette da R.T. Zuidema.20 C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1960 [Paris, 1955].21 J.M. Ossio A, The Idea of History in Felipe Guaman Poma de Ayala, tesi di Bachelor Litterae, University of Oxford, 1970, e En busca del orden perdido. La idea de la Historia en Felipe Guaman Poma de Ayala, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú, 2008.22 J.M. Ossio Acuña, Parentesco, reciprocidad y jerarquía en los Andes. Una aproximación a la organización social de la comunidad de Andamarca, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú, 1992.23 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 172-173.

358

Rescaniere, che, analizzando il sistema di

opposizioni complementari presente nei

miti i antichi e moderni della sierra pe-

ruviana, mostrò – come ebbe a scrivere

Pierre Duviols nell’introduzione al suo

De Adaneva a Inkarrí – «la profonda unità

storica e spaziale della cultura andina»24, e

Raúl León Caparó, le cui ricerche in una

comunità vicino a Paucartambo (Cuzco)

agli inizi degli anni Settanta del secolo

scorso misero in luce l’esistenza in loco di

un’organizzazione spaziale, connessa a ad

uno sfruttamento ottimale delle differenti

risorse agricole offerte dal territorio, con

molti punti in comune con il sistema dei

ceques del Cuzco25. E fra i vari andinisti

europei che produssero significativi studi

di orientamento strutturalista spiccano i

nomi di Nathan Wachtel e Tristan Platt.

Wachtel, in due articoli palesemente ispi-

rati sin dal titolo ai lavori di Lévi-Strauss26

e in seguito rifusi in quella specie di grande

compendio e manifesto dell’etnostoria an-

dina che rappresentò il suo La vision des

vaincus (1971), si propose, da un lato, di

chiarire la complessa ricostruzione di

Zuidema dell’organizzazione del Cuzco –

suggerendo, fra l’altro, che tra gli incas la

dualità e la tripartizione dovettero servire

a regolare soprattutto le relazioni di paren-

tela, improntate alla reciprocità, mentre la

divisione decimale dovette fornire la gri-

glia di riferimento dell’amministrazione

statale, che operava secondo il principio

della redistribuzione27 – e, dall’altro, di

precisare, riprendendo l’analisi di Ossio

delle categorie del tempo e dello spazio

espresse dalla Nueva Corónica, i principi

classificatori e la logica stessa del pensiero

«selvaggio» (andino). Quanto a Platt, le sue

ricerche sull’universo rituale e simbolico

dei Macha della Bolivia lo portarono all’in-

dividuazione della nozione di yanantin, un

termine dotato di una certa ambiguità, con

il quale gli Aymara esprimono il concetto

di una coppia ideale di elementi (uomini,

animali o cose) al tempo stesso opposti,

simmetrici, speculari e complementari,

associandolo con rappresentazioni di ca-

rattere geometrico-ortogonale, secondo

quella che Lévi-Strauss in Du miel aux cen-

dres (1966) chiamò con molta giustezza la

«logica delle forme», distinta dalla «logica

delle qualità»28. Dentro di questa logica

delle forme, Platt mostra come il yanantin

con il suo geometrismo ortogonale dina-

mico debba essere considerato la rappre-

sentazione primordiale, la matrice stessa

della dualità e delle altre ripartizioni (o

rappresentazioni) impiegate in forma si-

stematica dagli andini per organizzare co-

gnitivamente e concretamente ogni aspetto

24 A. Ortiz Rescaniere, De Adaneva a Inkarrí. Una visión indígena del Perú, Lima, Retablo de Papel, 1973, p. XII. Dello stesso autore si veda anche Huarochiri, 400 años después, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú, 1980.25 R. León Caparó, Racionalidad andina en el uso del espacio, Lima, Pontificia Universidad Católica del Perú-Banco Central de Reserva del Perú, 1994.26 N. Wachtel, Structuralisme et histoire: à propos de l’organisation sociale de Cuzco, «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 1966, 1, pp. 71-94, e Pensée sauvage at acculturation: l’espace e le temps chez Felipe Guaman Poma de Ayala et l’Inca Garcilaso de la Vega, ivi, 1971, 3-4, pp. 793-840.27 N. Wachtel, La vision des vaincus. Les Indiens du Pérou devant la Conquête españole, Paris, Gallimard, 1971, p. 122.28 C. Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri, Milano, Il Saggiatore, 1970, pp. 315-317.

359

del loro mondo naturale e del loro universo

sociale29.

Quelli che ho appena menzionato sono

solo alcuni dei molti ed importanti studi

storici ed etnografici relativi alle società

andine del passato e del presente realizzati

sulla base dei paradigmi proposti da Lévi-

Strauss. L’elenco certamente potrebbe (e

dovrebbe) essere molto più lungo. Ma,

in tutti i modi, credo che essi siano suffi-

cienti per dare un’idea dell’apporto che

lo strutturalismo antropologico ha dato

alla conoscenza del mondo andino an-

tico e tradizionale. Anche se, nel campo

dell’antropologia andina, le suggestioni

levistraussiane si sono andate negli ultimi

due decenni decisamente affievolendo, per

cedere il passo – come peraltro era logico

che fosse – a nuovi approcci e prospettive

teorico-metodologiche, e i lavori etnostorici

si sono fatti sempre più storici e meno an-

tropologici, privilegiando la discontinuità,

l’événementiel e la ricostruzione delle mille

caleidoscopiche sfumature della realtà,

nondimeno le conoscenze sulla «cultura

andina» e i suoi caratteri originali acquisite

attraverso le ricerche impostate secondo

criteri strutturali permangono come un so-

lido patrimonio tanto del sapere antropolo-

gico che dell’identità locale, regionale e na-

zionale degli abitanti dei vari paesi andini.

Ma non solo. Silenziosamente, in anni re-

centi, l’analisi strutturale è rifiorita in uno

specifico campo disciplinare degli studi

andini, che in precedenza l’aveva semi-

ignorata: quello dell’archeologia, e in par-

ticolare l’archeologia inca. Concetti come

dualità, quadripartizione, ripartizione per

cinque e per dieci hanno vissuto un vero

e proprio revival, essendo stati ripresi in-

tegralmente da molti archeologi per inter-

pretare siti e monumenti inca, le relazioni

tra gli edifici, il loro orientamento spaziale

ed astronomico, i processi e le modalità di

costruzione, la forma delle strutture archi-

tettoniche, la loro decorazione, e la fun-

zione sociale e cerimoniale degli spazi.

In uno scritto apparso nel 1976 su

«L’Homme» (rivista fondata dallo stesso

Lévi-Strauss) in risposta alle aspre criti-

che mosse all’analisi strutturale (dei miti)

da Marvin Harris in un articolo pubblicato

nello stesso numero della rivista, Lévi-

Strauss dopo aver ribattuto una dopo l’altra

le argomentazioni del collega americano,

concludeva, precisando con certa mode-

stia, ma anche con grande consapevo-

lezza: «L’analisi strutturale non pretende

di rispondere a tutte le domande. Le sue

ambizioni restano discrete: individuare e

circoscrivere i problemi, disporli in ordine

metodico, risolverne forse alcuni, ma so-

prattutto suggerire ai ricercatori la via che

potranno utilmente seguire se intendono

cimentarsi con la gran massa di quelli che

sono in sospeso e che tali rimarranno senza

dubbio a lungo»30. Alla luce di quanto sono

venuto esponendo fin qui, la posizione di

Lévi-Strauss mi sembra ampiamente giu-

stificata.

29 T. Platt, Espejos y maís, Temas de la estructura simbólica andina, La Paz, Centro de Investigación y Pro-moción del Campesinado, 1976. Si veda anche Symétries en miroir. Le concept de yanantin chez les Macha de Bolivie, «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 1978, 5-6, pp. 1081-1105.30 C. Lévi-Strauss, Structuralisme et empirisme, «L’Homme», 1976, 2-3, p. 37; Lo sguardo da lontano. Antro-pologia, cultura, scienza raffronto,Torino, Einaudi, 1984, p. 165.

360

Forse più di ogni altro nostro pensatore

Claude Lévi-Strauss ha svolto un’intensa

indagine sulle capacità e sulle tendenze

originali degli esseri umani, in base al prin-

cipio antropologico che tutti i casi dell’uma-

nità contano, indipendentemente da quanto

possano essere o apparire «altri». Nella sua

opera, Lévi-Strauss respinse ripetutamente

l’esclusione della differenza dall’umanità e

la sua scomposizione (equivalente a que-

sta esclusione) in popolazioni alle quali

è stato concesso uno stato universale e in

altre ridotte allo stato di fenomeno da ba-

raccone ed etichettate come «esotiche», «ar-

caiche» o «devianti». Questa scomposizione

dell’umanità, ci ha insegnato Lévi-Strauss,

normalizza il pensiero e le abitudini dei

privilegiati («il normale adulto bianco») e,

allo stesso tempo, depaupera la nostra com-

prensione di «umanità»1.

Ma che cosa ha appreso Lévi-Strauss dalla

sua intensa indagine sul genere umano,

svolta su questa base solidamente antropo-

logica? Innanzitutto questo: gli esseri umani

non lasciano mai perdere. Gli uomini, in al-

tre parole, prendono quello che accade per

caso o per necessità (le due manifestazioni

della natura) e poi sostituiscono al primo e

aggiungono alla seconda qualche schema

oppure un ordine, sempre in base a una re-

gola creata o inventata. Queste regole sono,

fin da subito, notevolmente più deboli delle

leggi della natura, in quanto prive di potere

di determinazione, e anche notevolmente

più ricche in quanto creano significati. Da ciò

deriva il fatto che, come esseri umani, noi vi-

viamo – per prendere a prestito l’espressione

di Clifford Geertz – «in reti di senso» create

da noi2. Attingendo a Lévi-Strauss, possiamo

aggiungere che un altro aspetto o manifesta-

zione dell’universale propensione umana a

«non lasciar perdere mai» è che gli uomini

non si accontentano di lasciarsi in pace l’uno

con l’altro; al contrario, si spingono insisten-

temente a vicenda nella vita sociale, non

come mezzo per raggiungere un fine pratico,

ma per la società stessa, anche se la trovano

a tratti nociva»3. In altri termini, insieme con

Daniel A. Segal

Sempre fedele al genere umano

1 La citazione tra parentesi è tratta dalle pagine d’inizio di Le totémisme aujourd’hui. Lévi-Strauss scrive: «Per mantenere nella loro integrità e fondare allo stesso tempo le modalità di pensiero dell’uomo nor-male, bianco e adulto, niente sarebbe stato quindi più comodo della raccolta esterna dei costumi e delle credenze.. intorno ai quali si sarebbero cristallizzate, in una massa inerte, delle idee che sarebbero state meno inoffensive se fosse stato necessario riconoscerne la presenza e l’attività in tutte le civiltà, compresa la nostra», cfr. Lévi-Strauss, Il totemismo oggi, Milano, Feltrinelli, 1964 [Paris, 1962], pp. 7-8. Analizzando l’orientalismo piuttosto che il totemismo, Edward Said riecheggia questo brano, più o meno consapevol-mente, quando scrive: «Si può dividere la realtà umana [... ] in culture, storie, tradizioni, società, persino razze chiaramente diverse e sopravvivere umanamente alle conseguenze?», «Orientalism», 1978, 45. 2 Qui Geertz sta parlando dell’altro maestro, Max Weber; la fonte è Verso una teoria interpretativa della cultura, in C. Geerz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987 [New York, 1973], p. 41. 3 A proposito dell’ambivalenza di Lévi-Strauss sulla vita sociale e la sua convinzione che quest’ambiva-lenza sia diffusa tra gli esseri umani, vedere l’ultimo capitolo, l’ultimo paragrafo e soprattutto l’ultima frase di Le strutture elementari della parentela: «In entrambe le estremità della terra e in entrambi gli estremi

361

la creazione dei significati o come loro com-

ponenti, gli uomini diventano esseri sociali

grazie a regole inventate.

Il cotto e il crudoMangiare è, naturalmente, un importante

esempio di questi punti per Lévi-Strauss.

Osserviamo, per cominciare, che ciò che

l’uomo non fa è prendere le sostanze nu-

trienti semplicemente come vengono of-

ferte dalla natura. Per l’uomo in ogni con-

testo, nel tempo e nello spazio, l’alimento

viene sempre alterato in qualche modo o

«cotto», per utilizzare il secondo termine nel

suo senso più generale. La «cottura» può es-

sere arrostitura, bollitura, fermentazione,

conservazione, salamoia, o anche solo «di-

sposizione sul piatto» (per utilizzare un ter-

mine oggi di moda nel campo dell’arte cu-

linaria) ma, indipendentemente da questa

varietà, comporta sempre un’alterazione

di quanto viene diversamente fornito o tro-

vato – e l’alterazione è sempre organizzata

con una regola o delle regole inventate.

Come ci ha insegnato Lévi-Strauss, questa

particolare combinazione di universalità

e varietà è analoga esattamente alla situa-

zione della lingua: le lingue umane variano

notevolmente, ma la lingua in sé è un ele-

mento universale nell’esistenza umana. La

cottura e la lingua sono, per Lévi-Strauss,

due convenzioni ordinate che gli uomini

aggiungono al mondo.

Inoltre, sebbene le regole della «cottura»

abbiano grandi variazioni – al punto che

la cottura di una comunità possa essere

disgustosa o addirittura irriconoscibile per

un’altra – l’assenza di tali regole non esiste

in alcun caso4. Per osservare meglio la ve-

rità di questo punto di vista, si può cercare

di immaginare delle situazioni di ingestione

umana che si avvicinano a un grado zero di

«cottura» o preparazione del cibo. In alcune

circostanze, per esempio, una persona può

uccidere un animale commestibile e nu-

triente e poi – come ogni altro carnivoro –

mangiarne la carne senza alcuna prepara-

zione o alterazione, al di là del taglio e della

lacerazione necessari perché possa giun-

gere nel tratto digestivo e per ricavarne gli

elementi nutritivi. Ma proprio perché gli

uomini producono sempre regole o livelli di

alterazione con cui convivere – la «cottura»

nel senso lato di Lévi-Strauss – l’ingestione

non sarebbe mai semplicemente o segnata-

mente il «mangiare», come per un animale;

piuttosto, avrebbe sempre uno o più signi-

ficati specifici, come nel caso di una «fame

del tempo, il mito sumerico di un’età aurea e il mito degli Andamani di una vita futura corrispondono; il primo colloca la fine della felicità primitiva in un tempo in cui la confusione delle lingue trasformò le parole in proprietà comune, il secondo descrive la felicità del futuro come paradiso in cui le donne non vengano più scambiate, cioè lo spostamento verso un passato o un futuro egualmente irraggiungibili di gioie eternamente negate all’uomo sociale, di un mondo in cui una persona possa mantenersi da sola», cfr. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 2003 [Paris, 1949], p. 636. L’am-missione di Lévi-Strauss che la socialità e le istituzioni sociali non siano dei mezzi indirizzati a un fine, ma rappresentino un fine in sé, è presente in commenti come questo, tratto anch’esso da Le strutture elementari della parentela: «la funzione dell’organizzazione dualistica è esclusivamente di produrre le conseguenze che effettivamente produce», cfr. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 128.4 Che altri metodi di cottura possano essere irriconoscibili (o inintelligibili) è illustrato dall’errata perce-zione negli Stati Uniti e in Europa, prima della recente moda globale per il sushi e il sashimi, che i Giap-ponesi mangiassero pesce crudo.

362

disperata» o magari nella «sconvolgente

esplorazione della nostra animalità» di un

esempio di arte performativa5.

Che la «cottura» non sia mai assente dall’in-

gestione umana vale anche per l’atto molto

meno suggestivo del mangiare ciò che, per

convenzione, noi chiamiamo «frutta fre-

sca». Lo stesso fatto di aspettare un partico-

lare culmine per la maturazione, che è allo

stesso tempo un luogo comune e una varia-

bile da una cultura all’altra, comporta una

deviazione da un comportamento naturale

e un’alterazione – cioè un atto di «cottura»

nel senso lato di Lévi-Strauss – del frutto che

si mangia. Pensiamo, per esempio, a tutto il

lavoro che va fatto – applicando pesticidi o

utilizzando mezzi più «naturali» – al fine di

evitare che altri animali, svincolati da re-

gole inventate del genere, mangino il frutto

da noi desiderato prima che «maturi». Sotto

quest’aspetto si pensa alla scrupolosa – ma

completamente culturale – affermazione

di Ralph Waldo Emerson che «nella vita di

una pera esistono solo dieci minuti in cui

è perfetta da mangiare». Il punto di vista

emersoniano è stato adottato nel nostro

momento storico da un autorevole sosteni-

tore dei cibi «naturali», Michael Pollan, che

aggiunge: «nel caso di una pesca, quello

spazio temporale si avvicina probabilmente

più ai sette minuti e, nel caso dei lamponi

forse, a cinque»6.

Ricordiamo che secondo gli standard li-

mitati di maturità della frutta di Emerson

e Pollan da un lato la nostra frutta appa-

rentemente «cruda» viene «cotta» prima

di essere mangiata, dall’altro gli uomini si

allontanano da una «strategia ottimale di

ricerca del cibo»7. Senza dubbio gli inte-

ressi della selezione hanno prodotto altre

specie che mordono o rosicchiano la frutta

appesa agli alberi che noi desideriamo

prima o entro un arco temporale molto

più ampio. Così qui, nella pratica del va-

lorizzare la maturità, troviamo un preciso

parallelo con gli effetti della «divisione tra

cugini» – cioè con gli effetti della differen-

ziazione tra cugini incrociati e paralleli8.

Semplicemente, come la differenziazione

della frutta basata sull’ideale emersoniano

della maturità preclude la ricerca ottimiz-

zata della frutta, in ogni senso biologico

5 Anche nell’arte performativa mangiare un animale crudo sembra una soglia particolarmente difficile da superare. Per la sua video installazione del 2008 dal titolo Primate Cinema: How to Act Like Animal, per esempio, Rachel Myeri ha ingaggiato una troupe di uomini che hanno ricreato sei minuti di movimenti registrati e interazioni di alcuni primati. Quando però si è arrivati alla caccia e all’ingestione, gli uomini hanno utilizzato un animale impagliato e hanno finto di mangiarlo. Per altre notizie su Primate Cinema di Myeri si veda www.soft-science.org/primate.html.6 Alice Waters ha citato Emerson e Michael Pollan in un suo intervento del 9 novembre 2010 allo Scripps College. Pollan è uno dei più noti intellettuali pubblici negli Stati Uniti oggi, e autore tra l’altro di Il dilemma dell’onnivoro, Milano, Adelphi, 2008 [New York, 2007], In difesa del cibo, Milano, Adelphi, 2009 [New York, 2008], e Food Rules: An Eater’s Manual, New York, Penguin Books, 2009. Alice Waters è vicepresidente di Slow Food International.7 Per un’introduzione alla teoria della ricerca ottimale di provviste cfr. R.H. MacArthur, E.R. Pianka, On the Optimal Use of a Patchy Environment, «American Naturalist», 1966, 100, pp. 603-609.8 La definizione antropologica «cugino incrociato» si riferisce al figlio del fratello della madre o al figlio della sorella del padre di una persona; l’«incrocio» è nel sesso del genitore e del suo fratello. Analogamente, «cugino parallelo» è il figlio della sorella della madre o il figlio del fratello del padre di una persona. La «divisione tra cugini» viene introdotta ne Le strutture elementari della parentela, cit., p. 186.

363

obiettivo, così anche la differenziazione tra

cugini si allontana dall’imperativo socio-

biologico di massimizzare «l’idoneità gene-

tica»9. L’aspetto fondamentale sta nel fatto

che questa differenziazione tratta le catego-

rie dei cugini come opposti – mediamente

come partner rispettivamente idealizzati

e proibiti per le unioni riproduttive – an-

che se le categorie dei cugini possiedono

lo stesso «coefficiente di parentela» in re-

lazione all’io10. Per contro, l’imperativo so-

ciobiologico – che appare ben documentato

per altri animali – non fornisce alcuna base

perché un organismo tratti come diversi al-

tri individui della specie, se la parentela ge-

netica dell’organismo con questi individui

è la stessa, come con i cugini, incrociati o

paralleli che siano.

Cibo e rapporti socialiIl cibo, naturalmente, illustra anche la ma-

nifestazione sociale o dimensione del «non

lasciar perdere mai». A livello universale –

ma sempre secondo schemi culturali parti-

colari – il cibo viene utilizzato dalle persone

per spingere altri alla socialità. Da questo

punto di vista il passaggio cruciale nelle

opere di Lévi-Strauss è la sua discussione,

ne Le strutture elementari della parentela,

sullo scambio di bicchieri identici di vino

«modesto» da parte di alcuni clienti delle

trattorie della Francia meridionale. Seduti

vicini l’uno all’altro, gli avventori – entrati

nel ristorante senza conoscersi – provano

un incipiente disagio finché evitano di ri-

conoscersi reciprocamente. Per reagire al

disagio si offre un bicchiere di vino – cioè

un avventore lo versa al suo vicino – e, a

partire da quel momento, il rapporto «non

può più essere che di cordialità o di ostilità».

Inoltre, se l’offerta del vino è ricambiata –

se si sceglie la cordialità anziché l’osti-

lità – allora lo scambio «sanziona un’altra

offerta, quella della conversazione». In que-

sto modo, scrive Lévi-Strauss, «tutta una

cascata di minuti legami sociali viene a sta-

bilirsi in una successione di alterne oscilla-

zioni per le quali, offrendo, ci apriamo un

diritto e, ricevendo, assumiamo un obbligo:

ogni volta, e nelle due direzioni, al di là di

ciò che è stato donato o accettato»11.

Osserviamo inoltre che lo stesso schema

o struttura che Lévi-Strauss riscontra nel

processo di creare rapporti sociali è quello

di cui, nelle sue opere successive, dimostra

il funzionamento in prodotti culturali di

ogni sorta12. Il processo inizia con un’op-

posizione concettuale (nell’esempio del

9 Sull’imperativo sociobiologico del massimizzare l’«adeguatezza genetica» cfr. E.O. Wilson, Sociobiologia: la nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, 1979 [Cambridge, Mass., 1975].10 Esaurienti illustrazioni del modo in cui numerose regole umane sulle unioni sessuali dimostrano l’inap-plicabilità della sociobiologia al genere umano si trovano in M. Sahlins, Una critica antropologica della sociobiologia, Torino, Loescher, 1981 [Ann Arbour, 1976], e S. McKinnon, Neo-liberal Genetics: The Myths and Moral Tales of Evolutionary Psychology, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2005. Per un’importante dimostrazione del fatto le valenze dei cugini incrociati e paralleli abbiano una contingenza non registrata nelle opere di Lévi-Strauss si veda J. Boon, The Anthropological Romance of Bali, 1597-1972: dynamic perspectives in marriage and caste, politics, and religion, Cambridge, Cambridge University Press, 1977, in particolare il cap. VI, The Meaning of Marriage and Descent.11 C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 19783 [Paris, 1947], pp. 109-110.12 Id., Mitologica, Milano, Il Saggiatore, 4 voll., 1966-1974 [Paris, 1964-1971].

364

versare il vino, si tratta della sconcertante

opposizione tra l’io e una persona ricono-

sciuta come altro), e questa opposizione

viene quindi superata attraverso un atto di

mediazione (il versare del vino in un bic-

chiere): però, cosa molto importante, l’atto

di mediazione non porta una sospensione.

L’atto di mediazione porta piuttosto a qual-

cosa «che va oltre quanto è stato dato e ac-

cettato»; in breve, a una serie indeterminata

di variazioni sul tema – un altro scambio,

un altro mito, o un altro brano musicale13.

Come misura del suo successo – e, in ul-

tima analisi, della sua fedeltà al genere

umano – riconosciamo che, attraverso que-

sta parabola etnografica delle origini della

vita sociale, Lévi-Strauss rimuove radical-

mente il «metodo comparativo» della teo-

ria evolutiva della storia14. Nell’esempio di

una trattoria nella Francia meridionale, le

origini della socievolezza risiedono e sono

illustrate da un’esperienza ricorrente nel

mondo dello stesso Lévi-Strauss. Gli altri

esotici, tribali, non vengono costretti a fare

«i primitivi»; così ci si oppone alla scompo-

sizione dell’umanità.

13 Su Lévi-Strauss e la musica cfr. J. Boon, Lévi-Strauss, Wagner, Romanticism: A Reading-back, in G. Sto-cking (ed.), Romantic Motives. Essays on Anthropological Sensibility, Madison, University of Winsconsin Press, 1989, e R. Launay, Myth and Music: the Musical Epigraphs to The Raw and the Cooked, relazione presentata all’Annual Meeting of the American Anthropological Association, il 19 novembre 2010 a New Orleans.14 Sul «metodo comparativo» dell’evoluzionismo nell’antropologia sociale cfr. G. Stocking, Antropologia dell’età vittoriana, Roma, Ei, 2000 [New York, 1987], e D. Segal, «Western Civ» and the Staging of History in American Higher Education, «American Historical Review», 2000, 3.