Le due visioni dell'etica: Razionalisti vs Sentimentalisti

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LE DUE VISIONI DELL’ETICA RAZIONALISTI vs SENTIMENTALISTI

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LE DUE VISIONI DELL’ETICA

RAZIONALISTI vs SENTIMENTALISTI

Cos’è l’etica razionalista?

L’etica razionalista è quella determinata etica che privilegia la ragione come strumento assoluto da cui dedurre quei principi morali universali atti a giustificare o a non giustificare le nostre azioni. Le ricostruzioni genealogiche della morale per i razionalisti sono principalmente tre:

La prima fa discendere la morale direttamente da un comando divino che l’essere umano può cogliere grazie alla propria ragione. La seconda ricostruzione, pur partendo da un comando divino, si differenzia dalla prima in quanto questo comando non viene più trasmesso direttamente agli esseri umani, ma piuttosto viene inscritto nella natura delle cose come leggi naturali: gli esseri razionali possono quindi cogliere questi comandi inscritti nelle leggi naturali, sempre grazie all’uso della propria ragione. Infine la terza fa derivare la moralità direttamente dalla facoltà razionale che permette all’uomo di cogliere dei principi astratti, universali e assoluti dotati di verità. Questa ultima ricostruzione privilegia dunque un “cammino inverso” ovvero parte dall’agente razionale e arriva ai principi morali.

Le prime due ricostruzioni si fondano chiaramente su dei canoni religiosi. Questo tipo di pensiero è facilmente riscontrabile nelle teorie morali della chiesa cattolica, per quanto riguarda la prima ricostruzione; nelle teorie della legge naturale ritroviamo invece la seconda ricostruzione genealogica della morale. Queste teorie, poi, possono far proprio uno sfondo teologico e assumere che queste leggi naturali esistono perché sono state poste da un Dio. La terza ricostruzione invece, si accompagna ad una visione del tutto secolare della moralità, dove di considera la ragione una facoltà naturale degli esseri umani. Si privilegia dunque una morale del tutto umana e non teologica.

Etica dei principi

L’etica dei principi è un etica che assume uno o più principi come base, punto di partenza o punto di arrivo per una riflessione filosofica morale. Questi principi possono essere assoluti, ovvero dei cardini universali dai quali far partire o, in qualche caso arrivare, a delle conclusioni morali ottimali per dei casi specifici, oppure possono essere dei principi prima facie, (di prima istanza) ovvero più principi di uguale valore in un rapporto di equilibrio riflessivo o conflittuale tra di loro.

Le concezioni filosofiche sull’etica dei principi sono variegate e differenti ma tutte assumono dei tratti in comune. C’è ampia convergenza, ad esempio, sull’idea che i principi siano imparziali, universali ed universalizzabili. Non meno ampia, poi, è la convergenza sull’idea che i principi morali possono essere conosciuti e che, di conseguenza, la morale può essere considerata una forma di conoscenza sia riguardo ai principi che alle conclusioni dedotte razionalmente dai principi. Infine, troviamo un ampio accordo anche sull’idea che questi principi vengono conosciuti per intuizione. A questo riguardo, comunque, c’è chi sostiene che l’intuizione di questi principi può avvenire immediatamente e chi, invece, ritiene che per avere la giusta intuizione si debba avere una conoscenza empirica. Come vedremo, comunque, in tutte le teorie morali basate sui principi ci sarà questa “presunzione” di credere a) che i principi scelti come cardine della teoria siano dei principi universali, ovvero dei principi che possono essere accettati da tutti gli uomini e applicabili allo stesso modo a tutte le situazioni simili; b) e che possano fornire la soluzione moralmente

giusta e giustificabile ad ogni caso specifico e che ogni caso specifico o dilemma preveda una e soltanto una soluzione morale razionale. Questi principi universali sono di per sé imparziali, dedotti da un ragionamento logico e razionale, e quindi non favorirebbero mai una determinata classe di persone.

Una delle teorie morali più importanti dell’etica dei principi è il “principilismo”, o a volte chiamato anche “coerentismo”, di Beauchamp e Childress. Il loro pensiero filosofico nasce in occasione dell’istituzione della Commissione incaricata di formulare delle linee giuda a dei principi orientativi da applicare in ambiti specifici della pratica medica o della ricerca scientifica. Questa commissione nazionale americana, formata da pensatori dai diversi giudizi morali, arrivò alla stipulazione di tre principi etici basilari che, a parere della Commissione, erano in grado di spiegare e giustificare i molteplici prescrizioni e valutazioni etiche delle azioni umane.

I tre principi scelti dalla commissione furono: il rispetto per le persone, la beneficenza e la giustizia.

Il lavoro di Beauchamp e Childress riprende proprio l’approccio morale con cui la commissione stilò il “Belmont report”. I due filosofi venivano da estrazioni di pensiero molto differenti: un utilitarista della regola e un deontologo pluralista. Il loro lavoro consiste dunque, nell’individuare dei principi morali fondamentali per poter risolvere i maggiori quesiti nell’ambito biomedico, senza privilegiare però l’una o l’altra teoria morale. I principi che Beauchamp e Childress trovarono di comune accordo furono quattro: il rispetto per l’autonomia, la non maleficenza, la beneficenza e la giustizia.

Come sonno arrivati dunque i due pensatori a questi quattro principi come cardine della loro teoria morale? Beauchamp e Childress sono partiti dall’analizzare la morale di senso comune, ovvero quello sfondo morale in cui gli esseri umani vivono e che orienta il loro comportamento. In questa morale di senso comune possiamo trovare dei giudizi ponderati. I giudizi ponderati sono quei giudizi morali di cui ci sentiamo più sicuri, sono le nostre convinzioni morali più forti. Con un lavoro di riflessione sui giudizi ponderati possiamo quindi astrarre da questi i quattro principi sopra elencati.

I quattro principi cardine della teoria si trovano in un rapporto “prima facie”, ovvero non sono dei principi assoluti, non sono classificabili per forza normativa ma rimangono tutti e quattro allo stesso livello di importanza. La prospettiva di Beauchamp e Childress viene proposta come una forma di coerentismo morale. Il criterio della coerenza è espresso nella nozione di equilibrio riflessivo che costituisce il nucleo fondamentale della teoria di Beauchamp e Childress. I principi infatti devono essere sia coerenti tra loro che con i giudizi ponderati: e compito del filosofo è proprio quello di bilanciare i principi tra loro e con i giudizi ponderati per trovare il giusto equilibrio.

L’equilibrio riflessivo introduce una certa flessibilità nel criterio di accettazione dei principi come principi cardine: in questo modo i due filosofi cercano di dar conto della possibilità che la morale di senso comune si modifichi nel tempo e con lei i giudizi ponderati e dunque i principi. La teoria del principilismo quindi è suscettibile a continue revisioni interne.

È proprio l’equilibrio riflessivo dunque, per Beauchamp e Childress, l’arma vincente della loro teoria, perché rifiutano un immagine dei principi come criteri astratti e indipendenti da un contesto particolare, rifiutano dei principi astorici e atemporali, preferendo dei principi aperti e

suscettibili a cambiare nel tempo insieme alla morale di senso comune. Questi quattro principi quindi saranno sempre puntuali e contemporanei, adatti a risolvere quei problemi morali che si rinnovano con l’avanzamento della tecnologia nell’ambito biomedico.

La più frequente critica rivolta all’etica dei principi di Beauchamp e Childress è di mancare di una sufficiente autonomia teorica rispetto a quella normativa. Se il vantaggio principale dell’approccio dei quattro principi sembra essere la sua capacità di tenere conto di molte considerazioni diverse nell’analisi dei problemi morali, è da riscontrare però come ogni singolo principio manchi di una teoria normativa atta a fornire una sua interpretazione coerente. Ogni principio sembra assunto come etichetta per raggruppare più concezioni morali possibili intorno al principilismo: il principio dell’autonomia è preso in rappresentanza del liberalismo, quello della non maleficenza per il deontologismo, il principio di beneficenza per l’utilitarismo e quello della giustizia per il contrattualismo. Questo pluralismo rende così difficile la scelta per il soggetto agente su quale teoria morale privilegiare nel caso specifico.

Etica della Legge naturale e intuizionismo

Questa prospettiva di pensiero riprende le tesi centrali della concezione religiosa scolastica della legge naturale elaborando una nuova teoria morale rigorosamente filosofica. Infatti la teoria filosofica della legge naturale non fa alcun riferimento ai documenti magistrali della chiesa cattolica, benchè conduca a tesi bioetiche e etiche sostanzialmente sovrapponibili a quelle del cattolicesimo.

Questi autori revisionano il pensiero scolastico, principalmente di Tommaso D’Aquino, affermando un esigenza di svincolare l’etica dalla dipendenza diretta dalle tesi teologiche, metafisiche e antropologiche. Uno dei maggiori autori della nuova teoria della legge morale è Finnis.

Finnis nella sua teoria, espone il pensiero che la ragione conosce direttamente quali sono i “beni” umani, anche prima di conoscere o avere un’idea della natura umana, e perciò prima di qualunque ragionamento antropologico. I principi non sono dedotti da alcun asserto morale e non sono derivati da nessun principio antecedente. I principi secondo Finnis sono inderivabili e autoevidenti. L’importanza dell’ autoevidenza dei principi è cruciale: la ragione apprende immediatamente i beni come scopi dell’agire e da questi deriva i precetti pratici. Questi principi hanno una natura prescrittiva in quanto indicano ciò che e bene fare. Il problema è quindi capire come la ragione possa intuire quale sia l’azione giusta da fare in un determinato momento. Finnis afferma che ci sono dei beni fondamentali umani, e questi beni sono oggettivi in quanto su di essi si basano i diritti naturali dell’uomo.

Questi beni fondamentali umani, che la ragione apprende immediatamente come autoevidenti sono sette: la vita, la conoscenza, il gioco, l’esperienza estetica, la socievolezza, la ragionevolezza pratica e la religione. La moralità è quindi il risultato del pieno perseguimento di questi beni fondamentali, in linea con quanto richiede la ragionevolezza pratica. La ragionevolezza pratica costituisce il sommo bene perché è il modo con cui noi possiamo dare un ordine intelligente e ragionevole alle nostre azioni ma, costituendo anche il principio morale, la ragionevolezza pratica ci chiede di sviluppare piani o progetti di vita che non potranno comportare mai il sacrificio di un

bene a vantaggio degli altri; ci sarà sempre un integrazione dei diversi beni in un progetto di vita ragionevole, e quindi morale.

Quando si confronta con le questioni bioetiche, Finnis sembra arrivare a conclusioni arbitrarie che non sembrano discendere direttamente dal principio della ragionevolezza pratica. Nella sfera bioetica, la teoria della legge naturale, riguarda prima di tutto il bene fondamentale della vita umana: in quanto bene fondamentale, la vita umana è inviolabile e in nessuna circostanza sono ammesse azioni che direttamente danneggino tale bene.

Finnis parte dalla nozione di persona: identifica come persone tutti gli individui umani viventi, riprendendo Boezio. La più grande obbiezione alla nozione di persona di Finnis è la negazione dell’individualità di Norman Ford: questa tesi infatti si basa sulla negazione che esista un individualità nell’embrione fino al momento dell’annidamento del concepito nell’utero. Finnis al contrario vede la crescita dello zigote come un fenomeno unitario per cui , ogni violazione della vita di una persona a partire dalla fecondazione, è considerata una violazione di un bene umano fondamentale.

La formulazione del principio della moralità di Finnis, che vieta il danneggiamento diretto di qualsiasi bene umano fondamentale, rimane forte anche nel tema controverso dell’eutanasia. La sua “dottrina” vieta così ogni uccisione diretta.

L’assolutezza di questa prescrizione porta dunque alla dottrina del duplice effetto ovvero: Per Finnis l’atto mirante a promuovere un certo aspetto del bene della vita rimane lecito anche se può comportare un effetto dannoso per un altro bene: tuttavia, non vi debbono essere soluzioni alternative in grado di promuovere entrambi i beni e a condizione che il male non sia valuto e che il bene sia superiore al male. È quindi permessa la sedazione terminale.

Al contrario è da escludere ogni tipo di eutanasia. Per la prospettiva di Finnis, l’eutanasia volontaria equivale al suicidio ed è un atto che vìola direttamente il bene fondamentale della vita. Finnis esclude anche che vi sia una differenza fra un eutanasia passiva e una attiva perché entrambe prevedono l’intenzione di porre fine ad una vita: che questo avvenga attivamente o per omissione di trattamenti, non c’è alcuna differenza.

Nell’etica della legge naturale non sembra esserci un filo logico tra il discorso meta-etico sulla ragionevolezza pratica e i beni fondamentali dell’essere umano, e le sue applicazioni nell’ambito biomedico le quali ci appaiono arbitrarie. Infatti se nel campo meta-etico la ragionevolezza pratica costituisce il sommo bene, nell’ambito biomedico il sommo bene è rappresentato dal bene fondamentale della vita umana. Un altro punto critico riguarda proprio l’elenco di questi beni: se per Finnis questi beni sono propri della persona e tutti sono fondamentali e assoluti, come mai questa lista di beni cambia in base all’autore che la scrive, pur facendo sempre parte dell’etica della legge naturale?

Utilitarismo

L’utilitarismo è una delle teorie morali più influenti nel campo dell’etica filosofica. È una teoria consequenzialista e nella versione dei principi ritiene moralmente rilevante le conseguenze portate da una azione svolta dal soggetto morale e non l’azione stessa. Questa è una teoria morale monista, ovvero ha un solo principio cardine, assoluto ed universale, il principio di utilità. Gli utilitaristi dei principi ritengono infatti che ogni azione sia moralmente giustificata se questa porta una maggiore somma di utilità, o felicità nel mondo.

Il pensiero interno all’utilitarismo ha avuto molte modificazioni e molti rami di pensiero, grazie anche alla sua longevità come una delle teorie morali cardine del pensiero filosofico moderno e contemporaneo.

L’utilitarismo tradizionale viene fatto risalire a Bentham che difende una concezione utilitaristica edonistica, in quanto dal suo punto di vista utilità significa piacere e le conseguenze morali che un agente, per definirsi morale, deve massimizzare sono quelle che massimizzano il piacere nel mondo. Anche dal suo punto di vista, comunque, è per intuizione che cogliamo il principio di utilità ovvero che riconosciamo che l’azione giusta è quella che massimizza il piacere nel mondo.

Una rilettura dell’utilitarismo venne fatta in seguito J.S.Mill. Al contrario di Bentham, che riteneva indimostrabile razionalmente il principio di utilità, Mill affermò che il principio di utilità potesse essere provato. Poiché ogni uomo desidera la felicità, questa felicità è dunque insita nei desideri degli esseri umani.

Mill riprese da Bentham la teoria della massimizzazione dei piaceri, differenziando però i piaceri “bassi” da quelli “alti”. Ma come si distinguono questi piaceri? C’è il richiamo all’esperienza: l’uomo saggio, avendo provato entrambi i piaceri, sceglierà quello più “alto”, quello moralmente desiderabile. Queste preferenze di giudizio devono però essere razionali e giustificate.

La tradizione utilitarista ha ed ha avuto molti rappresentati anche per quel che riguarda il campo dell’ etica biomedica. Molto probabilmente il più controverso dei pensatori consequenzialisti è Peter Singer.

Singer vuole dare una definizione precisa del concetto di persona su cui basare il suo ragionamento bioetico: la persona è quell’agente morale che ha un autocoscienza ed è un entità consapevole di vivere nello spazio e nel tempo e quindi capace di fare progetti per il futuro. Per Singer il concetto di persona è molto importante perché da questa riflessione prende avvio il suo discorso etico su chi debba avere, dunque, il diritto alla vita e chi al contrario avrebbe il diritto ha non soffrire. Singer “concede” il diritto alla vita solo a chi è persona, secondo la sua definizione di persona: questo diritto però non è ristretto solo agli esseri umani, anzi. Singer estende il diritto alla vita anche a delle particolari specie animali i quali posseggono, secondo degli esperimenti empirici, i requisiti per beneficiare dell’ appellativo “persona”. Al contrario egli non riconosce il diritto alla vita ai neonati o agli esseri umani con gravi malattie celebrali o genetiche proprio perché, non essendo questi individui capaci di autocoscienza, non rientrano nella sua definizione di persona.

Singer è stato molto contestato per la sua definizione di persona in quanto egli riserva il diritto alla vita a determinati animali tralasciando delle categorie di esseri umani. Singer però si difende da chi lo accusa di essere pro all’infanticidio appellandosi all’utilitarismo delle preferenze: per i soggetti

che non rientrano nella categoria di persona varranno le preferenze delle persone vicine allo stesso; in altre parole un neonato non è persona ma questo non fa si che lo si possa eliminare con disinvoltura proprio perché esistono le preferenze dei genitori riguardo la vita del proprio figlio. Il valore morale di togliere la vita ad un individuo dipenderà da queste preferenze. Sarà però sempre moralmente più grave togliere la vita ad una persona che a una non persona.

Singer così ribalta la questione chiamando “specisti” tutti coloro che non riconoscono il diritto alla vita e l’essere persona a quegli animali che non possiedono un autocoscienza perché non facenti parte della specie dell’essere umano: alcuni animali non umani possiedono il concetto di sé come continui nel tempo ed anche essi dovrebbero essere riconosciuti come titolari del diritto alla vita.

L’utilitarismo con le sue conclusioni morali sembra essere in conflitto con alcune delle nostre convinzioni morali più radicate. Nel caso dei problemi bioetici alcune tesi, come quella singeriana sull’infanticidio, sono effettivamente in contrasto con la maggioranza della moralità diffusa, ovvero appaiano controintuitive al senso comune. Un'altra critica può essere fatta alla teoria del valore dell’utilitarismo dei principi ovvero la soddisfazione delle preferenze. La soddisfazione delle preferenze introduce un elemento soggettivo incompatibile con un calcolo oggettivo delle preferenze. Da questo deriva anche il problema della giustizia: la massimizzazione di un certo tipo di preferenze implica la frustrazione delle preferenze del numero minoritario di persone. Questo schema non può essere compatibile con l’equità della giustizia. Per l’utilitarismo infatti penalizzare alcuni individui per proporre maggior benessere collettivo è permesso se non addirittura necessario in mancanza di alternative altrettanto benefiche.

Etica del rispetto per le persone:

L’etica del rispetto per le persone è una teoria morale costituita essenzialmente da due elementi: la concezione kantiana della ragion pratica e la teoria morale normativa dei doveri che essa ritiene giustificabile. L’idea centrale d questa prospettiva è che la ragione giuda direttamente l’azione.

Le azioni che la ragione ritiene giustificabili non sono puramente descrittive, ma al contrario sono delle prescrizioni ovvero delle leggi pratiche: l’azione giusta da compiere sarà una ed essa sarà valida per ogni volontà razionale. Le leggi morali, come le leggi fisiche sono dunque prescrittive e ci dicono come deve essere una volontà morale.

Il principio fondamentale quindi è quello della ragion pratica, mentre i principi che esprimono dei doveri (come il dire sempre la verità) risiedono nella moralità di senso comune. Questi principi ci appaiono però come principi arbitrari: questo accade perché non hanno consapevolezza di appartenere alla ragion pratica.

L’etica kantiana, nella versione che difende Mordacci, afferma che la moralità ha a che fare con un principio morale formale (legge morale) che la ragione è in grado di cogliere immediatamente per intuizione. Mordacci, riprendendo la seconda formulazione dell’imperativo categorico Kantiano, afferma che la legge morale prescrive di rispettare ogni individuo come fine in se e non soltanto come mezzo. Questo principio, dice Mordacci, lo ritroviamo nella morale di senso comune, ed è autoevidente. Una riflessione più profonda ci porterà a comprendere però come esso derivi dalla ragionevolezza pratica.

Kant definisce il rispetto come un sentimento, ma non alla maniera humeana anzi: il rispetto è l’unico sentimento che si possa definire morale perché questo è un sentimento pratico e non patologico, non deriva dalla sensibilità ma è l’effetto della coscienza dell’autorità della ragion pratica. Il rispetto va interpretato come un atteggiamento pratico attivo generato dalla ragion pratica che si traduce nell’intenzione di trattare le persone come fini in sé e mai soltanto come mezzo.

Il rischio di questa concezione è quello di poter sembrare vuota di contenuti o di essere contenuti arbitrari. Secondo Mordacci questo rischio non c’è se alla prospettiva kantiana si avvicina quella aristotelica. In questo caso i doveri particolari ricavati dalla legge morale possiamo ottenerli esaminando se i valori interni alle pratiche in cui siamo immersi sono in linea con quanto richiede la legge morale. Il rispetto per le persone è il criterio normativo interno che regola l’aspetto moralmente rilevante delle azioni umane. Queste azioni sono quelle socialmente riconosciute, come afferma MacIntyre, con cui si realizzano determinati beni. Nessuna azione però ha valore morale se non rispetta la persona come fine in se. È in questo senso che si può interpretare la nozione aristotelica di “retta ragione”. Le azioni da compiere quindi avranno un duplice contenuto normativo: l’eccellenza (ovvero essere riconosciuta socialmente come azione buona) e la conformità al principio del rispetto.

Kant suddivide i doveri in doveri verso se stessi e doveri verso gli altri, entrambi distinti in doveri perfetti e in perfetti:

-doveri perfetti verso se stessi riguardano la propria vita e la propria integrità fisica: è contrario al rispetto di sé come persona togliersi arbitrariamente la vita.

-doveri imperfetti verso se stessi riguardano il dovere di perfezionare se stessi ovvero la coltivazione delle proprie facoltà naturali pur che esse non minaccino la vita o la salute della persona.

-doveri perfetti verso gli altri riguardano il divieto assoluto di procurare violenza all’altro.

-doveri imperfetti verso gli altri riguardano i doveri di beneficenza che comanda di promuovere il benessere attraverso delle azioni moralmente accettate.

Questo principio del rispetto dei doveri viene applicato in riferimento alle principali tematiche bioetiche. Questioni come quella del trattamento degli embrioni umani non devono iniziare dalla definizione del loro statuto ontologico ma devono essere affrontate come chiarimento dei valori interni della pratica della generazione umana e della relazione di quest’ultima con il principio normativo del rispetto per le persone come fini in sé. Mordacci afferma che la generazione riguarda anzitutto la relazione d’amore fra le persone dove ciascuna parte considera l’altro come fine in sé. L’esperienza della riproduzione artificiale può essere così alienante da rendere difficile il riconoscimento del prodotto di tanta tecnologia come proprio figlio. Le pratiche come la fecondazione in vitro, la surrogazione di maternità e la donazione dei gameti rappresentano dunque una strumentalizzazione del proprio corpo, non conformi al vincolo del rispetto.

Per Mordacci il principio del rispetto per le persone riguarda direttamente anche gli embrioni umani, in quanto persone ai primissimi stadi del proprio sviluppo biologico quindi, allo stesso modo, la selezione embrionaria o l’aborto, quando non rappresenta una forma di legittima difesa, costituiscono violazioni dirette del principio del rispetto.

Il principio del rispetto vale anche per il problema dell’eutanasia. Mordacci riprendendo Kant, afferma che scegliendo di ucciderci, tratteremmo noi stessi come un semplice mezzo allo scopo di eliminare ogni sofferenza. Al tempo stesso però, nel caso in cui una malattia compromettesse la dimensione della razionalità e della libertà di una persona, non appare contraddittorio voler tutelare la propria dignità con trattamenti che includono tra i propri effetti la morte: la sedazione terminale appare coerente con il rispetto della propria vita personale.

Lecaldano critica la visione kantiana della moralità. Egli la vede come un tentativo di trascrizione in termini secolari di una moralità religiosa latente: il richiamo che Kant fa alla ragione pratica fonderebbe la moralità sulla sua trascendentalità e purezza, rendendola così una realtà sovra empirica. Questo richiamo religioso si può leggere sia nel piano meta-etico, l’assolutezza ed eternità dei principi morali, che in quello normativo, la scelta di un linguaggio fatto di doveri, obblighi e leggi.

Cos’è l’etica sentimentalista?:

A contrasto con le etiche razionaliste troviamo un altro pensiero sulla morale, ed è quello che possiamo ricondurre a Hume come capostipite, ovvero il sentimentalismo.

Il sentimentalismo etico si divide dalle proposte razionaliste di cui abbiamo parlato prima, per vari aspetti. Il primo aspetto è che per i sentimentalisti l’etica ha una componente emotiva o sentimentale che caratterizza i giudizi morali, l’etica è una questione di atteggiamenti, sentimenti di approvazione o non approvazione che abbiamo dentro e ci suscitano entusiasmo o indignazione.

Per Hume la morale è al di fuori del campo della ragione, non è una scienza astratta e non è una questione di conoscenza e quindi non è competenza della ragione. La morale si sviluppa grazie al sentimento della simpatia, grazie alla quale sentiamo come nostri i sentimenti altrui , ci sentiamo vicini agli altri agenti morali e grazie all’empatia condividiamo la loro felicità e infelicità.

Secondo Lecaldano la morale razionalistica tradizionale ha fallito perché ruotava intorno a valori astratti considerati eterni e assoluti e che riteneva potessero essere fondati e giustificati esclusivamente con il ricorso a una ragione universale o a qualche fede religiosa. Abbiamo invece bisogno di una morale che sia radicata nei nostri sentimenti ed emozioni.

I pensatori dell’etica sentimentalista ricostruiscono la genealogia della morale in 3 differenti modi:

Secondo Hume è indubbio che la moralità sia una pratica che derivi da cause naturali, in quanto in nessun modo possiamo risalire con qualche attendibilità a cause sovrannaturali. Nella ricostruzione humeana sono messe al bando anche le cause finali aristoteliche in quanto anche esse non riscontrabili con l’aiuto dell’esperienza.

La genesi della moralità va cercata dunque in un meccanismo affettivo presente nella struttura psicologica degli esseri umani, quello che Hume chiama “principio di simpatia” ovvero l’essere influenzati dai piaceri e dai dolori altrui.

Con la messa a punto della teoria evoluzionistica di Darwin troviamo un'altra tappa dello sviluppo di un analisi genealogica della morale in termini sentimentalistici. Darwin riprese da Hume un impostazione antropologica che non perdeva di vista le forti analogie tra la natura umana e quella animale, scontrandosi con la visione antropocentrica della tradizione naturalista che vedeva un salto categoriale tra gli uomini e gli animali.

Secondo Darwin la moralità umana è collegata strettamente alla simpatia e al senso morale considerato come un sentimento molto complesso che trae origine dagli istinti sociali. Darwin voleva dimostrare che la moralità poteva derivare da un processo naturale della vita animale: <<si deve essere accresciuto tramite la selezione naturale il ruolo delle emozioni simpatetiche, gli istinti sociali acquisiti dall’uomo hanno ispirato il desiderio di aiutare i suoi simili e lo avranno costretto a tener conto dell’approvazione o disapprovazione dei suoi simili>>. (Lecaldano, Prima lezione di filosofia, p.32)

Huxley non era del tutto d’accordo con Darwin, infatti sosteneva che le condizioni etiche che si ritrovano nella società umana sono il frutto dell’evolversi dei sentimenti di simpatia con cui gli esseri umani contrastano il processo della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto. Rifiutava di spiegare i sentimenti morali con un processo di continuità evolutiva, insistendo sulla

specificità della ragione umana e di una condotta ispirata dalla “regola aurea” ovvero non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te.

Un diverso modo di affrontare la questione genealogica della moralità è quello di collegarla allo sviluppo della personalità individuale, ricostruendo sul piano psicologico la capacità di tracciare distinzioni morali. Questa ricerca di tipo empirico fu svolta, tra i tanti, da Nichols che elaborò una teoria sentimentalistica della moralità tratta dai dati forniti da ricerche di psicologia empirica.

Con una serie di esperimenti, Nichols richiamò l’attenzione sulla presenza di un giudizio morale essenziale nello sviluppo delle persone fin dai primi anni di vita. I dati mostrano che i bambini già dal secondo anno di vita sono in grado di manifestare una reazione negativa in presenza di una situazione di sofferenza altrui senza che nessuno l’abbia educato a questo. Secondo questi dati la morale avrebbe un connotato prelinguistico, ovvero esisterebbe prima e indipendentemente dalla capacità di formulare dei giudizi morali con i principali termini etici.

Sebbene la concezione sentimentalista humeana difenda l’idea che la moralità sia legata ai sentimenti e alla simpatia, per questa concezione il livello della moralità si raggiunge con la capacità di estendere immaginativamente la nostra simpatia anche a quelle situazioni in cui siamo portati meno a simpatizzare (ad esempio, con le persone che ci sono meno vicine e con le quali abbiamo meno relazioni). Ovvero con la capacità di assumere un punto di vista fermo e generale che ci permette di superare quella parzialità naturale che abbiamo verso le persone con cui simpatizziamo di più.

Etica della cura

Dalla pubblicazione di “In a Different Voice” di Carol Giligan il tema dell’etica della cura ha concentrato su di se le luci della ribalta nella scena dell’etica morale. Il punto di vista sui problemi morali si è dunque spostato nell’ottica della vulnerabilità e della dipendenza tra gli esseri umani.

L’etica della cura nasce dal pensiero femminista infatti, come vedremo più tardi nell’esperimento che riporterà Gilligan, le soluzioni razionalistiche ai problemi morali sembravano assolute e universali e soprattutto non tengono conto del fatto che la moralità non è soltanto fedeltà a principi, ovvero che esiste un modo alternativo di descrivere e ricostruire il fenomeno della moralità che è poi quello che trova espressione nell’universo femminile.

Gilligan illustra così la diversa modalità di giudizio tra uomini e donne attraverso dei risultati ottenuti sottoponendo lo stesso quesito morale ad un bambino( Jake) e una bambina (Amy) entrambi di undici anni. Il quesito che Gilligan propone è stato chiamato il “dilemma di Heinz” : Un uomo di nome Heinz ha bisogno di una medicina per la moglie gravemente malata. Non ha i soldi per acquistarla e il farmacista non vuole fargli credito, né giungere ad un qualche accordo con lui. Cosa deve fare Heinz: deve rubare la medicina o è sbagliato che lo faccia?

I due bambini, messi di fronte a questo quesito, risposero in due maniere molto differenti: se Jake giustificò immediatamente il furto della medicina, ritenendo il valore della vita più importante del valore del denaro, Amy sembra cercare una soluzione che per aggirare la domanda.

La bambina provò a rispondere al quesito con altri interrogativi ovvero: il farmacista può essere persuaso a far pagare a rate la medicina a Heinz? Oppure, quest’ultimo può chiedere un prestito?

Rubare la medicina, per Amy, non poteva essere l’unica soluzione possibile: Se la situazione venisse spiegata al farmacista, egli non potrà volere che una donna muoia per colpa della sua avidità e, d’altra parte, se Heinz rubasse la medicina e finisse in prigione, si rischierebbe il peggioramento della condizione della donna, una volta rimasta sola.

Quello che emerge da questo esperimento è che i due bambini esprimono due diverse modalità nel concepire la moralità, due modi diversi di concepire i problemi morali.

Nell’impostazione di Jake c’è un ricorso alla ragione; coglie per intuizione la risposta moralmente giustificata da una sua visione universale e astratta della giustizia e colloca il valore della vita al di sopra di quello della proprietà. Quello di Jake è una modalità di pensiero razionalista a tutti gli effetti. Nell’impostazione di Amy al contrario, c’è una ricerca di una via alternativa al conflitto morale, una via che si avvicina molto all’etica sentimentalista non cognitivista, c’è il riconoscimento di una relazione di interdipendenza.

Gilligan con questo esperimento vuole portare alla luce la diversità di pensiero tra l’universo maschile e quello femminile: esiste una moralità prettamente maschile, quella dei principi e una prettamente femminile, ovvero l’etica della cura. La cura come etica femminile è un’etica centrata su speciali obblighi e su relazioni interpersonali come la negazione o il sacrificio di se stessi verso gli altri, quei soggetti che hanno bisogno di cura. Saranno dunque le donne ad occuparsi della sfera del privato, delle relazioni speciali, perché più “adatte” moralmente a svolgere questo incarico.

Non tutte le rappresentanti dell’etica della cura femminista si sono trovate d’accordo con la visione di una morale “secessionista” da parte della Gilligan. Joan Tronto ha sottolineato i pericoli insiti in un etica della cura che miri ad essere rappresentativa di un punto di vista di genere, come se si potesse dare una visione rappresentativa di tutte le donne. La riduzione del tema alla questione femminile rischia infatti di confermare quegli stereotipi socialmente diffusi sulla donna come principale responsabile delle funzioni di cura, relegandola così alla sfera privata. L’etica della cura per la Tronto deve proporsi come un ideale valido anche nella sfera pubblica e politica: L’esclusione delle donne dallo spazio pubblico è stato il prodotto della “vittoria” della morale kantiana sulla morale dei sentimenti.

Per Tronto la cura deve essere articolata in quattro fasi: “interessarsi a”, ovvero il momento del riconoscimento del bisogno dell’altro; “prendersi cura di” , il riconoscere che è possibile fare qualcosa per l’altro; “prestare cura” , che implica il soddisfacimento diretto dei bisogni di cura; infine il “ricevere cura”. Il ricevere cura è un momento importante in quanto è solo dal punto di vista di chi è bisognoso di cura che si può avere la rassicurazione che i bisogni di cura percepiti siano quelli reali e che siano stati correttamente individuati e soddisfatti.

Ma come si esercita propriamente l’attività di cura? ad ognuna delle quattro fasi precedentemente analizzate corrispondono altri quattro momenti della cura che ci aiutano a capire come esercitare al meglio la nostra attività di cura: il primo momento è l’attenzione : serve un nostro interessamento verso gli altri: ignorare gli altri è un male morale. Per esercitare al meglio la cura bisogna anche capire quale è il vero bisogno di chi richiede cura; qui entra in gioco il problema dell’opacità: non sempre ogni cosa, problema o persona ci appare chiara, non sempre riusciamo a capire il bisogno dell’altro. Così la cura non ci appare come qualcosa di universalizzabile , “chiunque non può curare chiunque” o non c’è una cura giusta per ogni caso specifico. Il secondo momento è la responsabilità : nell’ etica dei principi e nell’etica dei doveri molto spesso si arriva alla soluzione di stipulare “un contratto sociale” per non danneggiarsi l’uno on gli altri e quindi, essere morale significa non trasgredire gli impegni presi. Per la Tronto la vita

morale non si può limitare a questo: non esistono solo i principi, ma anche le sofferenze e i bisogni delle persone. Il terzo momento è la competenza: il lavoro di cura deve essere svolto con competenza; ma sarà solo il risultato della tua cura che ti dirà se le tue competenze, nel prestare cura in quel caso specifico, avranno portato dei risultati positivi.

Il quarto e ultimo momento è la reattività del destinatario della cura: bisogna saper accettare, se la risposta sarà negativa, che l`altro non è come noi. Torna così la visione dell’opacità che una delle maggiori critiche che l’etica della cura fa all’etica razionalista e i suoi principi assoluti, astratti, imperituri ed universali.

Utilitarismo delle virtu’

Un impostazione alternativa alle teorie morali razionaliste è sicuramente l’utilitarismo delle virtù sviluppato da Lecaldano. Questa prospettiva riprende la tradizionale linea utilitarista e la fonde insieme all’etica sentimentalista humeana. L’etica della virtù colloca al centro della vita morale una valutazione sia della nostra stessa condotta, sia di quella altrui in termini di virtù. La moralità non è dunque nient’altro che una nostra reazione di approvazione o disapprovazione nei confronti delle qualità o del carattere che hanno spinto una persona a compiere le azioni di cui abbiamo esperienza.

La struttura epistemologica chiamata in causa dalle etiche consequenzialiste è sicuramente una parte importante della procedura mediante la quale si può costruire una moralità adeguata: nulla può essere moralmente approvato se ciò produce solo danni e sofferenze. Non si può però limitare una proposta normativa alla sola considerazione delle conseguenze delle azioni; il consequenzialismo richiede dunque una teoria del bene. È proprio in questo passaggio che Lecaldano inserisce nella sua visione utilitaristica l’etica sentimentalista di Hume: c’è bisogno di un sentimento morale che ci faccia approvare ciò che è utile all’umanità in generale rispetto a ciò che è vantaggioso per un singolo individuo. Lecaldano propone una concezione che unisce il riconoscimento dell’importanza degli atti e delle loro conseguenze con la considerazione del carattere delle persone che hanno compiuto tali azioni.

Utilitarismo delle virtù quindi: mettere in primo piano la valutazione delle virtù permette infatti di rendere esplicito che le azioni contano solo in quanto prodotte da qualcuno alle cui qualità reagiamo con sentimenti morali, considerando le sua azioni virtuose o viziose.

Al centro della riflessione sull’etica della virtù c’è il carattere. Se per gli aristotelici il carattere è un tratto permanente, globale e totalizzante, radicato nell’identità personale dell’agente, nella visione sentimentalista il carattere è solo la proiezione immaginativa della nostre relazioni con noi stessi e gli altri. Lecaldano riprende la visione sentimentalista del carattere in quanto le virtù, nella sua visione, sono solo dei tratti individuali del carattere delle persone che approviamo o disapproviamo come conseguenza delle azioni nei cui confronti reagiamo emotivamente. Il carattere non è un tratto permanente e totalizzante della persona ma è influenzabile nei suoi cambiamenti. Lecaldano spiega come le condotte umane sembrano spesso dipendere da una serie di circostanze del tutto contingenti e apparentemente secondarie che influenzano le azioni delle persone in modi del tutto indipendente dal carattere che esse hanno. Questa affermazione è stata sperimentata empiricamente: si è constatato che la disponibilità ad aiutare o meno altre persone sono influenzate da fattori di nessuna rilevanza etica. Per fare un esempio, si è notato che: la presenza di una pasticceria nelle vicinanze o il fatto che l’agente abbia trovato una monetina per

strada, sono fattori che faranno propendere la persona a compiere un azione disinteressata verso gli altri.

Ciò che conta per apprezzare moralmente un carattere, o per formare in modo eticamente apprezzabile il nostro, sarà dunque la capacità di essere sensibili nei confronti dei danni che le azioni producono sugli altri. Il carattere virtuoso è quello che porta quelle azioni e condotte che favoriranno un mondo in cui sarà presente una maggiore felicità e fioritura umana, che quindi è capace di immaginare le conseguenze che determinate scelte avranno sulle persone coinvolte. La natura di questo carattere potrà dunque essere identificata solo dopo che l’esperienza ci avrà detto quali sono le condotte che nelle condizioni date rendono possibili una maggiore felicità. L’utilitarismo delle virtù si presenta dunque come una concezione etica revisionistica impegnata continuamente a rivedere piuttosto che confermare una lista di condotte virtuose. Quali sono quindi i caratteri virtuosi da apprezzare negli altri e in noi stessi?

Lecaldano segue ancora l’impostazione di Hume la cui lista delle virtù era ricavata a posteriori da una ricerca empirica sulla condizione umana, considerando anche le trasformazioni storiche subite dalle virtù. Tra i caratteri virtuosi ci sono delle attitudini naturali come l’arguzia; la benevolenza e la generosità che influenzano la nostra condotta nei confronti di coloro che ci sono vicini, come i familiari o gli amici. Infine le virtù artificiali che le società umane hanno perfezionato con il tempo, come il rispetto della proprietà privata, il mantenimento delle promesse, il senso di giustizia e lealtà. Lecaldano afferma però che al contrario dei principi delle teorie etiche razionali che molto spesso sono assoluti e immutabili, le virtù sono soggette continuamente ad un rinnovamento, impedendo così la loro cristallizzazione.

DIFFERENZE

Cognitivismo e non cognitivismo: dibattito sulla natura del linguaggio morale.

La posizione cognitivista è rappresentata dalle etiche razionaliste che sostengono che gli asserti morali hanno un contenuto cognitivo e quindi possono essere conosciuti. Conoscendoli possiamo dunque cogliere se questi sono veri o falsi.

La posizione non cognitivista è rappresentata dalle etiche sentimentaliste secondo le quali gli enunciati morali non descriverebbero alcun tipo di realtà, ma esprimerebbero emozioni e sentimenti. Gli asserti morali sono dunque non conoscibili razionalmente.

Le teorie razionaliste cognitiviste si dividono in due principali forme: il naturalismo, che sostiene che gli asserti morali abbiano come riferimenti delle proprietà naturali delle cose, e l’intuizionismo che mantiene il carattere cognitivo degli enunciati morali nella versione tradizionale: essi esprimono la conoscenza dei principi primi della morale. Questi principi morali sono autoevidenti.

Il non cognitivismo abbracciato dalle etiche sentimentaliste si può distinguere in soggettivo e oggettivo. Al non cognitivismo soggettivo appartengono coloro i quali sostengono, in un’ottica individualistica, il primato del soggetto nella scelta dei comportamenti: ogni scelta etica è una decisione individuale; non esiste una verità o un bene, ma esistono tante verità e tanti beni quanti sono i soggetti che compiono liberamente delle scelte.

Per quanto riguarda il non cognitivismo oggettivo, i valori morali vengono determinati dalla storia o dalla società. Il costume sociale si pone, in un certo periodo di tempo e in un determinato spazio, come il dover essere, costituendo il valore verso cui tendere

Teoria e non teoria:

Le prospettive razionalistiche hanno tutte un carattere teorico. Tali prospettive ambiscono a suggerire dei criteri normativi che permettano la giustificazione razionale delle conclusioni.

Al contrario, le prospettive non teoriche ovvero quelle dell’etica sentimentalista, criticano l’eccessiva astrattezza e universalità delle teorie razionaliste poichè questa forma generale delle riflessioni morali si rivela, a loro avviso, impossibile e fuorviante. Per le etiche sentimentaliste dovremmo rinunciare ad una giustificazione razionale unitaria dei nostri giudizi morali e delle nostre azioni.

La critiche che le prospettive non teoriche fanno alle teorie razionaliste sono molteplici:

la prima critica riguarda il riferimento fondamentale a uno o più principi generali e astratti che ciascun soggetto morale dovrebbe applicare al ragionamento pratico. La pretesa validità di questi principi generali nei casi particolari, è considerata ingiustificata e non necessaria. La complessità e la particolarità delle situazioni concrete, delle dimensioni personali, sono irraggiungibili per una prospettiva astratta.

Una seconda critica è rivolta al riduzionismo delle teorie morali, cioè alla tendenza a ricondurre tutte le considerazioni morali ad un solo principio universale. I critici antiteorici osservano che in

questo modo ci si preclude la comprensione delle particolarità che rendono la vita morale così varia e così complessa.

Una altra critica va alle teorie morali pluralistiche, ovvero quelle che assumono più principi in un rapporto prima facie, in equilibrio riflessivo tra di loro. Queste teorie sono messe in discussione dall’esistenza di veri e propri dilemmi morali, ovvero situazioni in cui due o più principi sono in conflitto tra di loro. Come si risolve un conflitto morale tra più principi posti nello stesso piano d’importanza? Se ne privilegerà uno creando così un assolutismo mascherato?

imparzialità e fermo e generale:

Un ulteriore differenza è riscontrata nel valore che secondo le due riflessioni morali, quella razionalista e quella sentimentalista, devono avere i giudizi morali.

Per quanto riguarda al maggior parte dei razionalisti i giudizi devono essere prima di tutto imparziali. Come si può raggiungere questa imparzialità?

Rawls ci spiega che tale situazione si riflette nelle nazione di contratto, ovvero un confronto fra agenti razionali alla ricerca di un consenso su quali regole siano più adeguate per ordinare la società. Il contratto nasce dunque dall’idea di una situazione ipotetica ideale il cui scopo è definire le condizioni ottimali. Rawls chiama questa situazione “posizione originaria” , dove i soggetti si spogliano dei loro pregiudizi e della loro classe sociale per abbracciare le caratteristiche minime necessarie per generare dei principi imparziali. Per garantire questa imparzialità di giudizio Rawls ricorre al “velo d’ignoranza” Schopenaueriano, al fine di garantire l’imparzialità della loro decisione. Come detto, i soggetti scelti per deliberare i principi imparziali, una volta entrati nel velo d’ignoranza, perdono tutti i propri preconcetti, la loro posizione sociale e la loro specifica concezione del bene.

Secondo la visione di Rawls quindi, in queste condizioni si arriverà a stipulare un contratto che privilegerà una morale sostenuta da dei principi assoluti, imparziali e universali.

Per quanto riguarda la critica che l’etica sentimentalista fa alla visione imparziale dei giudizi di cui sopra, Lecaldano è fermamente in disaccordo con la possibilità che un etica sia oggettiva e che i suoi giudizi morali siano imparziali. Secondo Lecaldano nell’ottica razionalista siamo tenuti a dare lo stesso giudizio in situazioni simili anche se il nostro ruolo in esse sarà diverso.

La critica è quella che l’interpretazione razionalista di una morale imparziale ed oggettiva non risulti convincente proprio perché non tiene conto delle molte sfumature esistenti nei casi specifici. Il contesto di oggettività , in cui i pensatori sentimentalisti collocano le valutazioni etiche, è costruito attraverso una correzione delle nostre emozioni, in cui assumeremo un punto di vista fermo e generale che ci consentirà di valutare anche delle persone lontane da noi nel tempo e nello spazio, considerando le loro condotte nei confronti di coloro con cui essi erano in relazione.

Questa valutazione sentimentale delle condotte umane comporta che noi approveremo o disapproveremo non solo la condotta altrui, ma anche la nostra stessa condotta. Smith allargò la costruzione di un contesto di oggettività dal punto di vista dei sentimenti, chiamando in causa uno “spettatore interno” che è in ciascuno di noi e che ci sottopone ad un esame interno delle proprie condotte morali.

Nella prospettiva di questo spettatore interno, equo ed imparziale, troviamo il punto di vista fermo e generale che può dare oggettività alle nostre valutazioni di autoapprovazione o autodisapprovazione. Queste valutazioni di noi stessi non sono quindi il prodotto di una coscienza razionale esterna,che ci guarda da fuori e non ci conosce nel profondo, ma è una nostra condizione interna ed emotiva per la quale proviamo vergogna o fierezza per le nostre azioni compiute nel passato.

La pretesa di oggettività, infine, può essere effettivamente raggiunta solo grazie alla via sentimentale, ovvero sentendo effettivamente quella partecipazione empatica per le sofferenze altrui che ci permette di giudicarle negativamente; non per l’imposizione di qualche “legge contrattuale” ma grazie la valore empatico dei nostri giudizi morali.

Conclusione : L’etica come due cerchi concentrici

Le etiche razionaliste e le etiche sentimentaliste sono da sempre viste come degli acerrimi rivali, un incontro di boxe (raffigurato in copertina) a colpi di logica e filosofia per determinare chi sarà il nuovo campione in carica della filosofia morale. Fortunatamente o sfortunatamente, dipende dai punti di vista, la cosa non è così facile e l’incontro, iniziato secoli fa, non vede ancora oggi la sua conclusione. Se nell’angolo blu troviamo i razionalisti con la loro etica dei principi, i loro giudizi assoluti, le loro prescrizioni, nell’angolo rosso troviamo dunque i sentimentalisti con la loro visione di un etica basata sull’empatia tra persone, virtù, carattere e etica della cura.

Ma questi due modi apparentemente differenti di vedere la morale sono davvero così inconciliabili? Non credo di avere la risposta indiscutibilmente giusta per mettere pace a questa “battaglia” (se l’avessi pretenderei, al meno, di essere candidato al premio Nobel per la pace 2015) ma proverò a conciliare queste due proposte morali in un'unica visione: l’etica come due cerchi concentrici.

Etica dei Principi

Nella figura vediamo due cerchi concentrici intorno ad un unico centro. Il centro raffigurerà il soggetto, l’agente morale (chiamato “Io”). Nella visione dell’etica come due cerchi concentrici si cerca di conciliare l’etica sentimentalista e l’etica razionalista dividendo i compiti morali da

Etica Della Cura

iiiIo

ET

IO

IO

IO

IOOP

attribuire alle suddette visioni morali. Il primo cerchio, quello più stretto a “Io”, raffigura le relazioni speciali dell’agente morale, le relazioni familiari e d’amicizia, quelle direttamente più vicine logisticamente e sentimentalmente al soggetto morale. In questo primo cerchio dunque, si privilegerà un etica sentimentalista della cura proprio perché le dinamiche interne delle relazioni speciali richiedono un interdipendenza tra i soggetti morali; c’è bisogno, nella vita di tutti i giorni, dell’altro. Questa visione dell’etica della cura però non ricalca la visione di Gilligan, dove c’è una differenziazione di genere, dove è la donna è la più adatta a prestare cura. L’etica della cura qui è vista come un interdipendenza tra persona e persona, che siano essi uomini o donne non fa alcuna differenza. Nella vita di tutti i giorni prestiamo continuamente cura a qualcuno: che sia il nostro coinquilino, nostro figlio, un collega di lavoro e quant’altro. Che si presti cura poi per un ritorno egoistico di cura o in maniera del tutto altruistica è un dibattito che non affronterò in questa sede.

È possibile però “esportare” l’etica della cura al di fuori del primo cerchio, al di fuori delle relazioni speciali, verso un etica globale della cura? La mia risposta è negativa a questo quesito. Come detto in precedenza, credo che l’etica della cura si basi su dinamiche di interdipendenza ravvicinata tra persone e credo che sarebbe impossibile basare delle leggi giuridiche nazionali sull’etica della cura. Entra dunque in gioco il secondo cerchio, quello esterno, quello di un etica globale.

Nel secondo cerchio privilegeremo dunque un etica dei principi che assuma uno o più principi minimi assoluti. La giustizia, le leggi, non potrebbero mai essere fondate su un etica sentimentalista: si rischierebbe una giustizia alquanto soggettiva e non equa. Ci vuole dunque un distacco dai sentimenti per permettere un equità di trattamento per tutte le persone, un distacco dai preconcetti di classe sociale, etnia e cultura.

Se nel primo cerchio i sentimenti sono ritenuti fondamentali, nel secondo cerchio si ritiene più adeguato un distacco da essi per abbracciare un etica più razionale per garantire un equità di giudizio. Se esistesse un velo di Maya in cui entrare lasciando al di fuori i nostri preconcetti per costruire un etica imparziale e globale, sarebbe la soluzione a tutti i nostri problemi morali. Sfortunatamente però, mio nonno non è un flipper.