L'abbazia di S. Albino di Mortara tra storia e leggenda (1999)

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L'abbazia di Sant'Albino a Mortara tra storia e leggenda Premessa Il tema che mi è stato assegnato, all'inizio mi stava un po' stretto: perché non mi considero uno storico dell'arte uno studioso di storia delle aggrega- zioni religiose, bensì, come è stato detto di Stopani con malizia, uno 'stradologo'. Pensavo di cavarmela dividendo la relazione in due parti, la storia della chiesa di Sant'Albino, saccheggiando a man bassa dalle opere di Francesco Pezza, e la leggenda nata intorno a questa chiesa, lavorando di fanta- sia su quei pochi elementi certi che abbiamo e sui molti aspetti leggendari che si sono aggiunti col tempo. Nessuno avrebbe avuto da ridire. Ma, studiando la materia, mi sono accorto che non solo sarebbe stata una relazione ridutti va ma anche retoricamente squilibrata, lasciando alla sola seconda parte i condiziona- li e le locuzioni ipotetich e. Inoltre, cosa ben più imp011ante, con lo studio della letteratura sull 'argomento, mi si sono venuti evidenziando sempre più chiara- mente alcuni nodi problematici, che ruotano intorno a questa chiesa extramura- ria e ne fanno qualcosa di veramente affascinante. Su almeno tre di questi nodi problematici - il vostro conterraneo Carlo Emilio Gadda avrebbe detto "glomeruli semantici" - voglio impostare questa relazione, consapevole che talvolta è altrettanto utile porre questioni, almeno quanto, altre volte, lo è il fornire soluzioni a problemi già posti. l. Mortara divisa tra due diocesi (troppe pievi p er un borgo solo) Il primo nodo problematico risale ai primi secoli dell'era cristiana, al momen- to in cui la grande diocesi vercellese retrocede territorialmente, lasciando spa- zio alla formazione della diocesi di Novara e, parallelamente, consentendo l'e- spansione in Lomellina della diocesi pavese. È una decisione apparentemente indolore, dovuta a motivi esclusivi di orga- 59

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L'abbazia di Sant'Albino a Mortara tra storia e leggenda

Premessa

Il tema che mi è stato assegnato, all'inizio mi stava un po ' stretto: perché non mi considero né uno storico dell 'arte né uno studioso di storia delle aggrega­zioni religiose, bensì, come è stato detto di Stopani con sçtt~le malizia, uno 'stradologo'. Pensavo di cavarmela dividendo la relazione in due parti, la storia della chiesa di Sant'Albino, saccheggiando a man bassa dalle opere di Francesco Pezza, e la leggenda nata intorno a questa chiesa, lavorando di fanta­sia su quei pochi elementi certi che abbiamo e sui molti aspetti leggendari che si sono aggiunti col tempo. Nessuno avrebbe avuto da ridire. Ma, studiando la materia, mi sono accorto che non solo sarebbe stata una relazione riduttiva ma anche retoricamente squilibrata, lasciando alla sola seconda parte i condiziona­li e le locuzioni ipotetiche. Inoltre, cosa ben più imp011ante, con lo studio della letteratura sull 'argomento, mi si sono venuti evidenziando sempre più chiara­mente alcuni nodi problematici, che ruotano intorno a questa chiesa extramura­ria e ne fanno qualcosa di veramente affascinante.

Su almeno tre di questi nodi problematici - il vostro conterraneo Carlo Emilio Gadda avrebbe detto "glomeruli semantici" - voglio impostare questa relazione, consapevole che talvolta è altrettanto utile porre questioni, almeno quanto, altre volte, lo è il fornire soluzioni a problemi già posti.

l. Mortara divisa tra due diocesi (troppe pievi p er un borgo solo)

Il primo nodo problematico risale ai primi secoli dell'era cristiana, al momen­to in cui la grande diocesi vercellese retrocede territorialmente, lasciando spa­zio alla formazione della diocesi di Novara e, parallelamente, consentendo l ' e­spansione in Lomellina della diocesi pavese. È una decisione apparentemente indolore, dovuta a motivi esclusivi di orga-

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nizzazione del culto, che però ha delle conseguenze, a mio avviso notevoli, anche sul piano politico-amministrativo, e, in senso lato, sociologico.

In epoca romana la Lomellina non era stata una realtà autonoma. La fascia di tenitorio tra il basso corso del Sesia e il basso corso del Ticino doveva essere un enmme bosco solcato da due o tre vie di grande perconenza, con poche sta­zioni di sosta per i viaggiatori, intorno alle quali si andavano agglutinando spar­se case di coloni (non restano tracce evidenti di centuriazione), il cui lavoro era comunque orientato all'autoconsumo o al servizio diretto o indiretto dei viag­giatori e dei mercanti di passaggio. "Capitali" di quest'area, e metto la parola tra virgolette, erano Laumellum, un municipium e una mansio, e Cutias o Cottiae, una mutatio, poi pieve eusebiana, alla giusta distanza di un cambio di cavalli per i cani che andavano da Vercelli a Pavia o da Pavia a Torino. Cozzo risulta infat­ti una "statio" della T ab ula Peutingeriana. Niente di più. Che l'apparentamento tra Cottiae e le Alpes Cottiae discenda dal primo dei due termini, come propo­sto dagli storici lomellini, mi sembra assai azzardato. Troppa è la distanza tra questo sperduto villaggio e la catena alpina occidentale per poterne vantare meriti onomatopoietici 1.

Da un punto di vista strettamente vi ari o, Laumellum, posto com'era al bivio in cui la strada di Pavia offre l'alternativa tra Vercelli e Novara, sembrava essere più avvantaggiato di Cottiae a diventare il cardine della viabilità transregionale.

Gli esempi di architettura altomedievale superstiti ci fanno capire la relativa ricchezza del luogo nell'epoca. Ma sia l 'uno che l' altro vedranno già alla fine della dominazione longobarda, o agli inizi di quella carolingia, affiancarsi anche un terzo incomodo, che in realtà non sarebbe dovuto esistere.

Stando alla volontà degli uomini, infatti, Mortara non sarebbe dovuta esistere. Sarebbe esistita forse l' erede di Pulchra Silva o di Villa Gaudii, sarebbe esisti­ta Mortaria, . ~arebbero esistite tante borgatelle intorno alla basilica di Sant'Eusebio, o intorno a Santa Maria in Campo, ma non un oppidum, non una struttura urbana unitaria. E questo perché la separazione della diocesi di Novara da quella di Vercelli di fatto tagliava in due l'attuale area della città di Mortara, ponendo la chiesa pievana extramurale dedicata a Sant'Eusebio (che poi sarà rinominata Sant'Albino) con tre quarti dell'attuale tenitorio urbano2 nella dio­cesi novarese, mentre la pieve di Robbiano (che sarà poi di Santa Maria, e poi ancora di Santa Croce di Mortara) nella diocesi di Pavia. È quindi chiaro che al momento della formazione della diocesi di Novara (sec.

V) un oppidum, o comunque una aggregazione civile unitaria, dove oggi sorge Mortara non esisteva. Perdonatemi, ma credo proprio che questo fatto sia insin­dacabile, anche se non è stato evidenziato come si deve dagli storici lomellini. Se abitassi in Lomellina, avrei anche cercato di ricostruire in loco lo sviluppo della cesura diocesana. Mi limito a propone qui una ipotesi di lavoro, che spero altri, in base a controlli topografici, discuteranno criticamente: che il confine diocesano fosse per un certo tratto, in senso longitudinale, la strada Tortona­Novara, la famosa via Francisca che, passando da qui, raggiungeva i passi della

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val d'Ossola, almeno fino al punto in cui questa incontra la chiesa di Santa Maria in Campo (quest'ultima, restando a occidente della strada nella diocesi pavese, rappresenterebbe il punto più a nord della stessa, nell'area di Mortara), e, in senso latitudinale, la via Francigena-Romea, ossia la Vercelli-Pavia, fino a poco oltre la pieve di Sant'Albino, che, essendo allora a nord della strada, resta­va in diocesi novarese.

Che cosa era quindi, allora, l'attuale Mortara? Era un quadrivio dagli assi non del tutto perpendicolari, che forse potrebbe anche aver dato l'illusione di tro­varsi di fronte a cardini oppidali romani. Vedete, io non voglio qui negare l'evi­denza dei reperti archeologici; non nego infatti che nei quattro quadranti aperti dal quadrivio di Mortara si siano trovate tracce di presenza preromana, romana e tardo-antica, e se noi oggi fossimo sul cocuzzolo di una collina della Valdelsa toscana non potrei permettermi di mettere in dubbio una continuità storica urba­na a cui gli storici locali vi hanno abituato. Il fatto è che qui non siamo sul cocuzzolo di un colle, ma nella pianura padana più piatta. Un insediamento romano individuato a trecento metri da dove ci troviamo adesso non dà di per sé garanzie sufficienti di continuità storica con la città che adesso ci ospita. Stopani mi faceva osservare, per contro, come si attribuisca continuità storica

' tra la Fidentia romana e il medievale Borgo San Donnino, per quanto quest'ul-timo sia stato ricostruito ex nova su di un'area diversa. Tutto' st~ ad intendersi. A mio avviso, nemmeno in quel caso può parlarsi di continuità storica. E non è un caso se il Settia individua proprio in Borgo San Donnino uno degli esempi tipici di «insediamento rurale per case isolate o per piccoli gruppi di case»3.

Io per continuità intendo qui qualcosa di molto più riduttivo, concettualmente e spazialmente, ossia un aggregato che permane tale nello stesso luogo, un oppi­dum. Questo, di Mortara, non si può affermare senza prove documentali. Inoltre, indizio preoccupante, nessuna delle fonti itinerarie altomedievali ricorda Mortara. Non la cita Sigeric, non la cita Nikulas di Munk:athvera, ma solo nel viaggio di ritorno dalla Terrasanta di Filippo Augusto viene citata Mortara col suo nome. Ed è un testo della fine del XII secolo. In mancanza di un "Diplomatico Lomellina" ben strutturato, sono ricorso a tutte le citazioni del nome di Mortara che sono riportate da Francesco Pezza nei suoi lavori. Ebbene, posto che io non ho elementi per poter entrare nel merito delle citazioni e dei richiami ali ' epoca classica, anche scorrendo gli "Annali minimi della città di Mortara" (p. 9), il Pezza, dopo aver parlato di Silvabella come palatium di Autari e Teodolinda, introduce Mortara, come tale, soltanto dopo il mille. Qualche sospetto il Pezza deve averlo avuto nelle sue "Rapsodie inedite ... " quando dice che: "la sorgente effettiva ... del giubilo dei cristianissimi viaggia­tori, più che Mortara, era S. Albino ... " (p. 4) oppure quando si interroga sull'i­dentità tra Pulchra Silva e Mortara, optando per negarla4.

Ecco quindi la mia ipotesi. Parodiando quanto Ernesto Sestan disse di Siena, Mortara - la Mortara medievale e moderna - è figlia delle strade, delle strade di grande percorrenza che hanno solcato il territorio lomellina dai tempi più anti-

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chi e delle quali, sì, c'è continuità storica illl1egabile. Se vi può consolare, la vostra città è come quei personaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento che vengono alla luce da madri onnai anziane e rassegnate alla sterilità: e il nasce­re nonostante il destino, nei topoi letterari, significa essere destinati a una gran­de funzione storica.

Mortara si forma, si agglutina, dai tanti villaggi sparsi intorno alla strada, con molta probabilità all'epoca dell'incastellamento, nel X secolo, magari dopo che alcuni di essi hanno subìto la razzia c la distruzione da parte di invasioni unga­re, forse quelle dirette verso Vercelli, storicamente documentate nell ' 899 e intorno a Pavia nel 924. Si tenga anche conto che gli Ungari, per la stessa natu­ra del loro modo di attaccare a cavallo, non potevano allontanarsi molto dalla stradas. E quale miglior difesa, per gli indifesi, che il disperdersi in una molti­tudine di borghi, coperti dai boschi ma a poca distanza dalla strada, magari dopo che Pulchra Silva o Villa Gaudi erano state spazzate via dalla furia dei barbari. E, comunque sia stato, Mortara riesce a formarsi, o a riformarsi, nonostante la divisione amministrativa delle due diocesi passasse proprio di qui.

Che la zona fosse comunque densamente abitata (coi parametri demografici di quei tempi, s'intende), lo si deduce dal fatto che entrambi i plebati mortaresi hanno un gran numero di chiese e oratori suffraganei (sette ne giungerà ad avere la pieve novarese e addirittura dieci la pieve pavese). Otto ne aveva la pieve di Cozzo e quindici quella di Lomello, per restare al paragone con le due antago­niste storiche. Del resto, la critica più avveduta tende a negare l'esistenza nel­l 'alto medioevo di chiese 'campestri'6. Esistono certamente un po' dovunque i romitaggi , ma nascono, vengono classificati e pennangono tali. Le chiese, e in particolare le pievi, la cui funzione battesimale è gelosamente conservata per lungo tempo çome esclusiva in tutto l'ambito p le bano, hanno ragione di esiste-, r

re dove si ha -nna densità sufficiente di popolazione. Se la popolazione intorno alle chiese viene a mancare o a ridursi drasticamente, ciò deve addebitarsi a endemie o assalti barbarici o a entTambe le cose, non certo alla deliberata volontà di costruire luoghi di culto "in deserto" . Non solo, ma lo stesso impe­ratore Carlo Magno decretava nel1'803 la distruzione delle chiese superflue, e Sant'Albino sfugge a questa nonna, come sfuggirà in seguito alle invasioni ungare, e quindi se ne può dedtme che l'utenza di questa pieve extramuraria era adeguata e resta adeguata nel tempo. L'extramuralità di una pieve pertanto può derivare, volta per volta, dalla strutturazione stellare, centrifuga, degli agglo­merati urbani o dalla presenza di una via di comunicazione sovralocale che spo­sta verso di sé il baricentro plebano. Per le due pievi mortariensi mi sembra val­gano entrambe le considerazioni. In particolare, per Sant'Albino mi sembra pos­sano valere in pieno tutte le considerazioni, mmai classiche, del Plesner sul rap­porto tra pievi e viabilità?. Che però, in seguito, si sia potuto formare un oppidum unitario, nonostante la

presenza di un confine diocesano, anzi addirittura pressoché a cavallo di esso, è il ptimo nodo problematico che voglio qui discutere con voi. Intanto, occorre

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Una veduta d'insieme della chiesa abbaziale di Sant'Albino a Mortara

ribadire che si tratta di una anomalia. Le diocesi e le pievi sono nell'alto medioevo precise ripartizioni anche amministrative: non si formano nuclei urbani a cavallo dei confini di dette ripartizioni, a meno che non vi sia un moti­vo che accomuna le volontà dei reggitori delle diocesi stesse o una esigenza superiore a cui gli stessi attori fanno buon viso. Nel caso specifico, credo che sia la natura stessa della diocesi novarese a con­

sentire questo sviluppo urbano: fino a che non assumerà importanza commer­ciale la via Novara-Milano, e saremo ben oltre il mille, perché Milano giunge ben ultima tra le città padane nel commercio intemazionales, la diocesi novare­se contempla un nodo di viabilità sovralocale soltanto nel suo estremo lembo inferiore, proprio in concomitanza con la plebe di S.Eusebio-S.Albino. Per con­tro, la diocesi pavese abbandona, poco oltre la sua pieve mortariense, la strada di Francia. Appare quindi assai credibile che nessuna delle due diocesi abbia voluto sottovalutare nel corso del tempo l'aspetto politico di favorire in quella zona il sorgere e lo svilupparsi di stmtture di ospitalità e di assistenza ai vian­danti, non fosse altro lasciando mano libera alle iniziative locali plebane, ceno­bitiche, ed eventualmente private. La pieve di Sant'Albino diviene quindi, quando ancora appare dedicata al

vescovo vercellese, un punto strategico per la diocesi neonata di Novara: un luogo di aggregazione di spinte economiche e un luogo in cui si sviluppano spinte emulative con la pieve confinante della diocesi pavese. Che si sia formato un oppidum, che questo oppidum abbia racchiuso lembi di

due diocesi diverse con la scusa dell'oggettivo inurbarsi dei due lati della via di Francia, che quindi nasca Mortara con la sua centralità viaria a raggiera, verso Novara, Vercelli, Tortona, Pavia, Lodi e Milano, può essere dovuto a circostan­ze occasionali (la: benevolenza dei sovrani pavesi che qui hanno curtes e svaghi regali, la dife~h dagli assalti degli Ungari, ecc.), ma tutto mota certamente intor­no al depotenziamento del potere dei vescovi di Novara e di Pavia su quel ter­ritorio di confine, che da molti indizi appare e apparirà sempre più dotato di una sua molteplice autonomia di fatto, quasi sicuramente incentrata sull'importanza della viabilità sovralocale che investe l 'area. Riassumendo. La Lomellina non si viene formando come agglomerato ammi­

nistrativo unitario. Ben cinque diocesi (Vercelli, Novara, Pavia, Tortona per le pertinenze sull' area di passo del fiume Po a Mede e al Cairo e, infine, Milano per l'altra area di passo di Viginticolmme, poi soppiantata da Vigevano) se la dividono o vi hanno comunque importanti pertinenze. La confinazione - come dice il Pezza9 - segue "una linea tortuosa, a rientranze e sporgenze curiose": que­ste rientranze e sporgenze sono state individuate per il caso di Vigevano e, sia pure implicitamente di Tortona, dal Pezza stesso, che in questo ha preceduto anche il Plesner, come enclaves legate a compiti di tutela, controllo e manuten­zione di ponti e navalestri. Qui si propone di leggere il confine diocesano ano­malo nell ' area mortarese come condizionato dalla viabilità sovralocale.

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2. Le dedicazioni di Sant'Albino (troppi santi per una chiesa sola)

L'abbazia di Sant'Albino nasce quindi nell'epoca della cristianizzazione pada­na (IV-V secolo) come pieve in diocesi di Vercelli e con dedicazione a Sant'Eusebio. Che la prima dedicazione della chiesa fosse al primo santo vescovo di Vercelli

appare quasi naturale. Sant'Eusebio, dopo averla creata e gestita, è divenuto poco dopo la morte, avvenuta nel 371 d.C., il patrono della diocesi Vercellese. Nella stessa Vercelli è a lui dedicata, oltre a una trentina di chiese minori, una basilica extramuraria, il cui battistero fu rovinato nel dicembre 899 dagli Ungari, quasi certamente provenienti da Robbio, e quindi dalla Lomellina: que­gli stessi Ungari che uccisero il vescovo Liutvardo, che fuggiva per mettere in salvo le ricchezze diocesane. Extramurario sarà poi, sempre a Vercelli, l'ospe­dale di Sant'Eusebio (di cui si hanno notizie certe, però, solo sul finire del sec. XI), ospedale che verrà detto in seguito "degli Scoti", per la specializzazione nell'ospitare pellegrini di quella provenienza: la suburbanità di pievi e ospedali nell'alto medioevo che precede le invasioni ungare e saracene non è da pren­dersi quindi come anomalia. È semmai conferma, come del resto sostiene il Pezza, dell'antichità della pieve mortariense, corroborata altr~sì dall'orienta-mento absidaleto. ' · '

Eusebio è anche l'unico santo, tra quelli coinvolti nella vicenda della chiesa di Sant'Albino, che viene ricordato in quel prezioso manoscritto della Biblioteca capitolare di Milano che contiene il Liber Notitiae Sanctorum Medio/ani, edito più di ottanta anni fa dal Magistretti e dal Monneret De Villardtt. La ragione principale è che il santo vercellese fu prirnicerio «episcoporum sub medio/ano» e nella stessa diocesi milanese è giunto ad avere ben ventinove chiese e tre alta­ri. Come si vede, anche da un punto di vista strettamente pratico, campanilisti­co, si trattava di un santo di prima grandezza. Il problema, il secondo nodo concettuale, è dato dal cambio della dedicazione

di questa chiesa plebana, che è extramurale perché abbiamo visto non esiste un borgo egemone nell'intera pieve. In primo luogo, il motivo che ha portato al cambio della dedicazione stessa,

togliendola a un santo di vasta risonanza padana come Eusebio, che non aveva perso il benché minimo carisma.

In secondo luogo, i tempi e gli autori del cambio di dedicazione. In terzo luogo, chi fosse realmente il secondo santo dedicatario. Sui motivi che portano al cambio di dedicazione, non esistono certezze né tem­

porali né di ragioni esplicite. Occorre però constatare che ben due pievi vercel­lesi passate a Novara e, quel che più conta, entrambe dedicate a Eusebio, quel­la di Gambolò e la nostra, cambiano la dedicazione, in San Pietro la prima e in Sant'Albino la seconda. Altro elemento comune è che entrambe le pievi sono extramurarie e che la pieve di Gambolò era a due chilometri dal paese verso Mortara12. L'unica ipotesi che riesco ad avanzare con questi scarsi elementi è

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che forse si sia inteso modificare l'immagine di queste pievi, nella dedicazione troppo squisitamente vercellesi, nei confronti di terzi. Cioè dei viandanti, dei pellegrini. Come a ribadire che questi ultimi si trovavano ormai in una diocesi diversa da quella di Vercelli. E corollario di questa costruzione ipotetica sareb­be che l' extramuralità delle p i evi in questione è in qualche modo connessa con la viabilità di ampio respiro. Ma si potrebbero trovare decine di interpretazioni alternative.

Anche sugli artefici del cambio di dedicazione non mi sento di avanzare ipo­tesi. Riporto soltanto quella del Pezza che attribuisce il cambio della dedicazio­ne della pieve da Eusebio ad Albino ali' omaggio che il gruppo cenobitico di seguaci di Albino Alcuino vuole fare al maestro, dedicando la chiesa presso la quale sorge il nuovo cenobio al santo vescovo di Angers che porta lo stesso nome del maestro. Tesi fascinosa che mi ha fatto riflettere sui risvolti di ambi­guità che essa cela. È abbastanza chiaro infatti che la latinizzazione del nome sassone Al(h)(k)win

[letteralmente Ealh-wine, amico del tempio] può sfociare tanto in Albinus che in Alcuinus, a seconda che la voce ignori o consonantizzi le lettere che qui ho messo tra parentesi, e che pertanto il precettore di Carlo Magno, che il biografo Eginardo definisce <<Albinum cognomento Alcoinum», poteva legittimamente fregiarsi di entrambi gli appellativi. Ma è altrettanto evidente che questo nome squisitamente latino si presta altrettanto bene a chiamare a raccolta tutta una serie di personaggi di provenienza genericamente "scota", cioè isolana, britan­nica e irlandese.

Soffermiamoci su quest'ultimo punto. I santi di nome Albino, o almeno pre­sunti tali, nell'alto medioevo sono già almeno sette (presto ce ne sarà uno in più, nostro contef poraneo, se prosegue l' iter di beatificazione di papa Luciani, ma fortunatamente quest'ultimo qui non è in causa).

Vediamoli di seguito: l. Albino, vescovo vercellese del V secolo. Se ho capito bene, il Pezza sostiene che i suoi resti sono nella nostra chiesa, terzo dopo Amico e Amelio13. Ricorrenza il 25 novembre. 2. Albino, vescovo di Chalons-sur-Mame, succeduto ad Armandino, sotto­scrisse il concilio di Tours ( 461 ). Era stato discepolo di Ludo di Troyes. Morì dopo 47 anni di episcopato nel 510. Si tramanda la leggenda del suo intervento presso Attila ( 451) e il viaggio in Bretagna per combattervi Pelagio. Festeggiato il 7 settembre. 3. Albino d' Angers, in francese Aubin, Albinus episcopus Andegavensis, come dicono i Bollandisti, già abate di un monastero «Tincillacense», poi dal 529 vescovo di Angers, prese parte ai concili sinodali di Orléans nel 538, nel 541 e nel549, morto a metà del VI secolo, diviene il dedicatario ufficiale - stan­do al Pezzal4 - nel momento in cui il cenobio creato da Carlo Magno si installa presso la chiesa di Sant'Eusebio. Ricorrenza il l marzo.

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4. Albino Alcuino, pm noto come Alcuino o Alkwin, nato in Northumberland nel 735, morto a Tours nell'804, Alcuinus abbas Turonensis, nella dizione bollandista, abate e maestro di cultura della corte di Carlo Magno, fondatore del collegio diaconale presso la stessa chiesa. Secondo il Pezza è in onore suo - lui vivente- che la chiesa viene dedicata ad Albino d' Angers is . Ho dei dubbi che sia mai stato proclamato santo, se non nella leggenda, come del resto lo stesso Carlo Magno, suo allievo. 5. Albino o Albano o Alpino, martire romano le cui reliquie furono trasferi­te a Colonia sotto l 'imperatrice Teofane (alla fine del X secolo). Venerato a Colonia il 22 giugno. 6. Witta, che fu il primo vescovo anglosassone di Bfuaburg, e il cui nome latinizzato diventa Albino. Fu lui a consacrare vescovo S. Willibaldo (741) e a partecipare alla sinodo franca convocata da Carlomanno nel 742. Festeggiato il 26 ottobre. 7. Albino di Canterbury, monaco e abate, discepolo di Teodoro di Tarso e di Adriano, fu il successore del venerabile Beda, morto nel 732, istruito nel mona­stero agostiniano di Canterburyi6. Non risulta che sia stato ufficialmente santi­ficato.

Non vado oltre la pura elencazione perché confesso di essermi già confuso e disperato abbastanza. Mi limito a constatare che in cinque casi su sette si tratta di personaggi di Oltralpe. Se includiamo anche il martire traslato a Colonia diventano sei su sette .. . Vi prego di non considerare questo come un fattore secondario. Nel medioevo non c'erano ancora, purtroppo, i Bollandisti; la gran massa dei viaggiatori non aveva la benché minima preparazione agiografica. Si limitava a "riconoscere" i santi della propria tradizione culturale di provenien­za: non mi sento di escludere che Albino sia diventato in tal modo, nell 'area di strada di Mortara, ricca di pellegrini forestieri, una sorta di santo "per tutte le stagioni", perfettamente adatto a un'area di passo e quindi, senza neppure trop­pa malizia, strumentalizzabile per qualsivoglia provenienza d'Oltralpe.

La strumentalizzazione agiografica, del resto, era una prassi abbastanza ordi­naria per il medioevo. La finalità edificante poteva giustificare ogni tipo di manipolazione e di interpretazione, specialmente se limitata all'assenso verbale sulle curiosità dei "turisti" d'Oltralpe. Inoltre, la citazione, il richiamo a personaggi importanti di Oltralpe, l'ospitar­

ne le spoglie mortali nelle chiese, è caratteristica assai diffusa lungo tutti i per­corsi francigeni. Lucca ne è l'esempio più tipico, ospitando questa città chiave della Francigena almeno un paio di importanti santi del Nord Europa. Ma, del resto, non solo la santità, bensì anche rapporti politici strettamente laici vengo­no accampati da località italiane per una captatio benevolentiae rivolta ai popo­li nordici. La dotta Firenze della fine del XIII secolo non si peritò di inventarsi di sana

pianta una rifondazione a opera di Carlo Magno che l'avrebbe messa o conser-

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vata in buona luce, aprendole tante porte commerciali, in una Francia già affet­ta da non marginali prodromi di sciovinismo. In modo simile, molte altre città dell'Italia padana e centrale inventano, in uno spirito di emulazione senza scru­poli, relazioni privilegiate con la corte carolingial7.

In questo senso si spiegano le incongruenze delle interpretazioni francesi della leggenda di Amico e Amelio che fanno di Albino il vescovo di VercelJils. La stessa "insofferenza" del Pezza che nel suo «San Lorenzo ... » liquida in un capoverso il problema ... "Non è qui il luogo per chiarire questa caotica e intri­cata trasposizione di dediche ... "19.

In questo senso si spiega anche l'odierna dedicazione della strada che porta a Sant'Albino, ad Albino Alcuino ... Perché, signor sindaco, proprio a lui, e non ad Albino d'Angers, dedicatario ufficiale della chiesa? Come vedete, non solo non deve essere stato facile districarsi tra tutti questi santi omonimi, ma a un certo punto ci si deve essere resi conto che questa ambiguità del santo giovava a Mortara: attirava più pellegrini, stimolava più offerte. Ma certamente il culto - se di culto si può parlare che ha recato più benefici

alla nostra chiesa e a tutta l'area, è quello dei due eroi martiri della battaglia tra Franchi e Longobardi. Sulla leggenda di Amico e Amelio come archetipo lette­rario altomedievale di origine italiana, vi parlerà il prof. Rosato subito dopo di me20• Mi limito a ricordare che ho proposto nella schematica nota del catalogo della mostra2J un apparentamento della leggenda al mito dei Dioscuri, che non mi è sembrato del tutto peregrino, confortato anche dal fatto che, in seguito, ho scoperto che, nella sterminata letteratura secondaria sulle chansons de geste, ci sono almeno tre monografie e un articolo, della fine del secolo scorso e dei primi decenni di quest022, che collegano la leggenda di Amico e Amelio al mito dei Dioscuri~ e quest'ultimo a reminiscenze pagane della Gallia cisalpina: quel­lo stesso tipo di culti pagani che si sforza di ridurre sincretisticamente ad orto­dossia l'anonimo cronista della Novalesa. Vorrei solo fare una precisazione rispetto al testo del catalogo: è abbastanza

convincente l'ipotesi che la leggenda si sposti da Oriente verso Occidente; se pensiamo che la scelta dei nomi Amico e Amelio nella novella XL del Sercambi è attribuita al papa, dopo il battesimo dei due personaggi. Quale ricetto mag­giore per la tradizione culturale classica della corte papale romana? Quale mag­giore autorità per un'operazione di tipo sincretistico? Resta il fatto - antropologicamente rilevante - che nei cicli arturiano e carolin­

gio esistono personaggi accoppiati, e quasi sempre hatmo entrambi funzioni relative alla sussistenza (di regola, scalco e coppiere, uno per i cibi e uno per le bevande). La differenziazione tra di loro avviene nel carattere (bellicoso l'lmo e pacifico l'altro) (impulsività versus riflessività)23: e questo può discendere tanto dal mito stesso dei Dioscuri (Castore è bellicoso e Polluce è pacifico) quanto da una maggiore elaborazione celtica, o comunque nordica, dei personaggi. In ogni caso, la mancata differenziazione caratteriale in Amico e Amelio è indizio di anteriorità della leggenda padana rispetto ai cicli francesi.

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Un secondo elemento che vorrei aggiungere riguarda la struttura semantica dei nomi della coppia. Spesso i santi geminati hanno nomi con radice o desinenza comune: Canzio e Canziano ad Aquileia, Ferreolo e Ferruccio a Besançon, Ferruccio e Ferruzio a Magonza, Domaziano e Rogaziano a Nantes, Gervasio e Protasio a Milano, per non parlare degli shakespeariani Cri spino e Crispiano). È un campo da indagare perché ho ritrovato un altro racconto leggendario del Vogherese e del Tortonese - tratto probabilmente da Jacopo d'Acqui, scrittore del XIV secolo - che ha per protagonisti due astuti cavalieri, i cui nomi hanno una stessa struttura semantica (Anselmo e Aimone) che liberano Carlo Magno, il quale, volendo cacciare cinghiali nella Silva Danea, era caduto nelle mani dei saraceni, che agivano presso un luogo chiamato Tycinam. Niente toglie, comun­que, che questa sia una rielaborazione ad uso locale della leggenda di Amico e Amelioz4. Un terzo ed ultimo elemento di riflessione potrebbe venire dalla scultura alto­

medievale che, a partire dai sarcofagi di Sant'Apollinare in Classe per giungere ai capitelli protoromanici di molte chiese del Nord, del Centro e del Sud Italia, mostra figure animali e umane affrontate, dal simbolismo apparentemente anci­pite (pace-guerra), che si svela soltanto nella contestualizzazione spaziale. Sono

l figure, specie quelle antropomorfe, che stimolano di per se stess~; fantasie e leg-gende su eroi e santi geminati .. . E dato che la leggenda parla di due sarcofagi fatti appositamente scolpire dai famosi lapicidi milanesi per le spoglie di Amico e Amelio appare evidente che il cerchio potrebbe anche chiudersi su se stesso, se lasciassimo scaturire la geminazione dei due martiri dalle figure affrontate con ampia probabilità rappresentate sui rispettivi sepolcri25.

Riassumendo: anche in questo secondo campo di riflessione (l'ambiguità della dedicazione della chiesa e la complessità di origine e sviluppo della leggenda di Amico e Amelio), mi sento di affermare che non è affatto estranea la presenza di una viabilità sovranazionale. Dove gli scambi culturali si fanno più intensi, tutto diventa più complesso, più sfaccettato e - sfortunatamente per noi, data la distanza temporale - più ambiguo. Ma in compenso anche più ricco e fascinoso. E coniugando i primi due nodi concettuali, occorre dire che, se per qualche

secolo Mortara non è esistita in quanto tale, diventa ancora più sostanziale e fon­dante la leggenda nata intorno alla chiesa di Sant'Albino. Essa è diventata nel tempo un vero e proprio motivo di aggregazione. Su di essa e grazie ad essa è rinata Mortara.

3. L 'autonomia religiosa di Mortara (troppi cenobi per una sola città)

Ultimo punto che vorrei sollevare, ultimo nodo concettuale da discutere, è la ricchezza religiosa della Mortara medievale. Imperatori e papi, per non parlare dei santi, sostano a Mortara. Quello che deve

essere sottolineato è che un corteo, regale o papale che fosse, rappresenta - si

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direbbe oggi - "un impatto ambientale" non indifferente. Le tappe di sosta di questi cortei rappresentano un salto di qualità nel panorama dell'ospitalità per i viandanti del medioevo. Le località citate come ostelli di papi e imperatori cor­risponderebbero oggi non tanto ad alberghi a cinque stelle, quanto piuttosto a un vero e proprio "distretto turistico". Ben due papi soggiomano in Mortara a distanza di 36 anni l'uno dall'altro. Urbano II dopo aver proclamato la Crociata al Concilio di Clermont nel l 096 e Innocenza II nel 1132. Ma già altri relatori hanno parlato del "grande forum peregrinorum" e del suo significato, e non è il caso che io insista sull'argomento. Vorrei qui invece aggiungere un ulteriore corollario, un risvolto religioso di questo indubbio fervore ospitaliero. Nel medioevo alto e centrale l'organizzazione e la gestione politica dell'ospi­

talità pertiene all'ordine religioso. Più importante è la tappa di sosta, più densa è questa presenza di clero specializzato. E questa densità può esprimersi certa­mente in termini quantitativi, ma anche qualitativi. Mortara giunge ad avere tre ospedali attrezzati: quello di Sant'Albino, quello

di Santa Croce e quello delle Barze, che è il più recente (1142), oltre alle fore­sterie dei mortariensi, sparse nei dintomi, su cui ci ha ragguagliato Giorgina Pezza Tomamè26. Formalmente due ospedali sono in diocesi di Novara, e uno in diocesi di Pavia. Ma l'impressione è che in quest'area di strada si goda di una sorta di extraterritorialità assai ampia. Il cenobio albiniano è il più antico dell'area lomellina. Ma non resta l'unico a

lungo. Allo scadere dell'anno mille, oltre ai benedettini cluniacensi di Robbio, ci sono

gli esuli novalicensi a Breme, molto ben insediati tanto da fare del piccolo vico lomellina una sorta di seconda capitale del loro impero vastissimoz7. Poco menafdi 'un secolo più tardi avremo anche i cisterciensi ad Acqualunga e

il nuovo ordine autoctono dei mortariensi. Questi ultimi si insediano nell 'area di Mortara che appartiene alla diocesi pavese. Per non parlare degli ordini ospita­lieri classici (gerosolimitani, antoniani, templari)zs. Tutta questa ricchezza, diversità e autonomia anche ordinamentale non mi sembra possa considerarsi un caso. Ferma restando la differenza delle obbedienze, delle regole e delle consuetudi­

ni monastiche, questi cenobi hanno in comune una spiccata autonomia organiz­zativa e gestionale in tutta la Lomellina, ma in particolare quelli di Mortara hanno una specificità costitutiva impostata a una vera e propria originalità loca­le.

Sull'obbedienza creata da Albino Alcuino non è rimasto alcun elemento signi­ficativo, fatte salve le attestazioni di importanza sovralocale della nostra chiesa vicino alla quale sorse il cenobio. Sull'ordine mortariense non è il caso che io qui mi dilunghi. Francesco Pezza e Giorgina Pezza Tomamè hanno speso pagi­ne illuminanti su questo secondo cenobio autoctono che, al pari del cavalieri del Tau di Altopascio, ha un brillante esordio nell'epoca gregoriana, ricca di fer­menti di riforma, e almeno un paio di secoli di crescenti successi, prima di arri-

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vare a un lento declino. Ciò che rappresenta il nodo concettuale, in questo caso, è proprio questa dupli­

ce presenza di importanti cenobi autonomi e originali nella stessa realtà territo­riale. Gli alcuiniani di Sant'Albino resistono almeno cinque secoli lasciando di sé e del proprio magistero tracce soltanto amministrative. Restano portatori di un carisma locale, ma non localistico, perché i reggitori dell'ordine risultano dagli atti aver avuto prestigio e fama sovralocale. I canonici mortariensi poi, nati da una regola che dalla propria autonoma specificità prende il nome, giungono ad avere possessi in tutta la pianura padana occidentale, in Liguria e finanche in Corsica. Rovesciano addirittura i rapporti di forza con San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia.

Ora io credo fermamente al carisma, e quindi alla capacità dei singoli cenobi di farsi riconoscere dal popolo e dai potenziali donatori come gruppo canonica­le in grado di instaurare le migliori e più proficue relazioni possibili con l'Aldilà. Credo quindi che il successo di questi gruppi cenobitici discenda tutto dalla seria applicazione delle regole monastiche e dal rispetto guadagnato sul campo. Ma resta l ' anomalia che due ordini così importanti - e così autonomi -in una stessa realtà urbana sono troppi per lasciarsi spiegare dal solo carisma del gruppo stesso, dei gruppi stessi, comunque sia conconenzial~1 )n un tenitorio

' .·,

ristretto. Anche l'autonomia religiosa e organizzati va degli Alcuiniani prima e dei

Mortariensi poi conobora il sospetto che nell'area di Mortara si deve essere rea­lizzato un insolito "brodo di coltura" amministrativo, forse dovuto anche alla originaria natura demaniale del tenitorioz9, che ha facilitato tanto il sorgere e lo svilupparsi, quanto l'originalità e l'autonomia dei due cenobi. E quindi tomo a ripropone la lettura di Mortara come luogo di rarefazione dei vincoli ammini­strativi tipici, come luogo di confine esposto alle influenze autonomistiche di un'area di passo e agli stimoli emulativi tra diocesi dirimpettaie. L'ambizione implicita nei cenobi riformati a rendersi autonomi dai rispettivi vescovadi ha fatto il resto.

Certo, non si spiega il silenzio degli Alcuinici. I seguaci di Albino Alcuino dovevano essere per gran parte dei letterati. Perché nessuno di loro è riuscito a lasciare traccia scritta del proprio cenobio e delle molte vicende attraversate? Pensate alla Novalesa. È bastato un buon fraticello che sapesse tenere la penna in mano, e ci è rimasto un documento, assai fantasioso, ma comunque solido della ricchezza umana e materiale del grande impero cenobitico a cavallo delle Alpi Occidentali. Per non parlare dei testi soltanto trascritti e collazionati. Mi sembra assai strano che i seguaci di Alcuino non abbiano potuto fare altrettanto e che di questo non resti la minima traccia, anche soltanto indiretta.

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Conclusione

Mi accorgo di aver fatto - come mi è congeniale - la pars destruens anche sta­volta. Ho messo in dubbio la continuità storica di Mortara, ho evidenziato l'a­nomalia di un oppidum che risorge a cavallo di due diocesi; ho agitato le acque, intorbidandole ulteriormente, tra santi omonimi e santi geminati, evidenziando l'ambiguità almeno potenziale della dedicazione della nostra chiesa; ho infine ricordato che nella ricchezza cenobitica della Lomellina medievale i due soli esempi di aggregazioni originali e locali fanno entrambi capo a Mortara. Non ho risolto alcuno dei problemi già in ponte, anzi ne ho posti altri di discre­

ta gravità. Il mio compito di agitatore culturale finisce qui. Spero solo di aver dimostrato che ora comincia il vostro.

Fabrizio Vanni

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NOTE

1 Ammiano Marcellino (XV, 102) ricorda tm certo Re Cozio che avrebbe ripristinato la strada del valico del Monginevro: "Rex Cottius, in amicitiam Octaviani receptus principis, molibus magnis viam extruit ad viam memorabilis numeris, compendiarias et viantibus opportunas mediam inter Alpes vetustas". Riportato in Giulio SCHMIEDT (v.) p. 128.

2 F. PEZZA «San Lorenzo ... », p . 72. ,l, 3 A. A. SETTIA in AA.VV. «Magistra Barbaritas», p . 205. ' ;• 4 F. PEZZA <<Realtà romana di tre leggende .. . », p. 30 e segg. 5 A. A. SETTIA Ibidem, p. 193. 6 G. FERRARIS «Chiese 'staziona/i' ... », p . 12.

7 Cfr. J. PLESNER nella bibliografia sotto riportata.

8 Cfr. BASCAPÈ e SOLDI RONDINTN! nella bibliografia sotto riportata.

9 F. PEZZA «Su e gitì per le antiche pievi ... », p. 4.

lO F. PEZZA «San Lorenzo ... », p. 56. Il Liber Notitiae Sanctorum Medio/ani, p. 118 e 199. Sulla figura e l'opera di Eusebio di Vercelli vedi i due lavori di Ercole CROVELLA in bibliografia.

12 F. PEZZA «Su e giù per le antiche pievi ... », p. 6. 13 F. PEZZA <<Rapsodie inedite ... », p. 5.

14 F. PEZZA «San Lorenzo ... », p. 68. 15 F. PEZZA Ibidem, p. 72.

16 F. PEZZA Ibidem, p. 69 nota 2. l7 G. FASOLI «Carlo Magno nelle tradizioni storico-leggendarie italiane», p. 913-914.

18 F. PEZZA «Su e giù per le antiche pievi ... », p. 181-182. 19 F. PEZZA «San Lorenzo ... », p. 68. 20 I. RoSATO, intervento al presente Convegno, riportato in questo stesso volume.

21 CENTRO STUDI ROME!, «La via Francigena in Lombardia: storia e cultura di una strada medievale». -Firenze : Centro studi romei, 1998. Mi riferisco qui alla mia Scheda n. 7 (''Sant'Albino, la chiesa con due coppie di santi") per la quale occorre puntualizzare che forse è un po ' azzardata la definizione di Amico e Amelio come santi "del terzo stato", perché la duplicazione della terza funzione è presente in altre chan­sons de geste e anche perché la santificazione dell 'entourage di Carlo Magno (Cfr. A. V!SCARDI in biblio­grafia) è un altro topos che "nobilita" di per se stesso i personaggi. È da notare semmai che la tipica riva­lità tra bellatores e oratores delle Chansons trova in Amico e Amelio, divenuti santi, un compimento dia­lettico che, coniugato alloro ruolo trifunzionale, ne fa figure complete, superiori, assommando in sé aspet­ti salienti delle tre funzioni . 22 Capostipite dell 'accostamento tra mito dei Di oscuri e letteratura medievale fu Alexander KRAPPE (v.) per il quale il culto molto diffuso nella Gallia Cisalpina si viene trasformando per sincretismo in culto di santi geminati, tra cui espressamente citati Amico e Amelio. Altri studiosi che hanno affrontato, prima di lui, il

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tema dei Dioscuri nel sincretismo cristiano sono l' ALBERT (v.) e lo HARRlS (v.). 23 J. H. GRlSWARD <<Archeologia dell 'epopea medievale», p. 274 e segg.

24 B. LuPPI <<l saraceni in Provenza in Liguria e nelle Alpi Occidentali», p. 31 e p . 85. Quanto poi allega­me tra santi geminati e virtù guerriera non mi sembra peregrino ricordare qui il famoso discorso del re prima della battaglia di Azincourt dali'«EnricoV» (Atto IV Scena III) di Shakespeare, dove il fatto che la battaglia venga a cadere nel giorno dei santi Cri spino e Crispiano (o Crispiniano) è preso a pretesto di futu­ra fama e gloria. 25 Figure affrontate si incontrano in tutto l ' arco dell'a11e altomedievale, sia nei capitelli dove facilitano la simmetria, che nei bassorilievi o nell'oreficeria e nei materiali d'uso (ad es., nel fregio della Sella Plicatilis di Pavia). Che la matrice ideale di ispirazione siano i sarcofagi ravennati mi pare assai evidente, anche se, per esempio, nei sarcofagi romani conservati nella chiesa di Ferentillo abbiamo curiosamente compresen­ti tanto i Dioscuri quanto esempi di figure affrontate (cfr. C. PIETRA GELI, in bibliografia). Quanto poi alla lettura simbolica delle figure affrontate, questa è implicita nelle eventuali dissinunetrie (vedi G. P. BOGNETII "Storia, archeologia e diritto .. . " p. 82 n.), ma non è affatto esclusa ove le simmetrie siano piene e scontate. 26 G. PEZZA TORNAMÈ intervento al presente Convegno, riportato in questo stesso volume. 27 La Lomellina pare non abbia conosciuto invasioni saracene, ma ne subì l'eco. Infatti , i benedettini della Novalesa, distrutta dai saraceni del Freinet verso l'anno 930, dopo una sosta a Torino nel monastero di Sant'Andrea e Clemente (corrispondente all'attuale Santuario della Consolata) ebbero in dono dal mar­chese Adalberto, padre di Berengario Il delle terre in Lomellina e trovarono quindi un rifugio sicuro e sta­bile presso l'abbazia di Breme. Tanto sicuro e stabile che non volevano più !asciarlo, non fosse stato per quei "lupi voraci" che depredavano i possessi dell'abbazia in Val di Susa e che costrinsero l'abate Gezone a inviare un gruppo di monaci, guidati da Bruningo, a ricostruire quanto possibile della casa madre a guar­dia del passo del Moncenisio. Quella stessa abbazia della Novalesa che nel 773, quarantasette anni dopo la sua fondazione da parte del patrizio franco Abbone, era diventata una vera e propria testa di ponte, e quindi il quartier generale di Carlo Magno nella sua spedizione contro i Longobardi. Fu da qui infatti che partì l 'ambasceria di Albino Alcuino e dell ' arcivescovo Eanbaldo, inviata da Carlo per cercare di dissua­dere Desiderio dagli attacchi al territorio della Chiesa. Pare che l'ambasceria passasse per la via di Mortara per giungere a Pavia. Doppio legame, quindi tra Val di Susa e Lomellina, che si rinnova a distanza di meno di due secoli, e meriterebbe uno studio attento delle fonti per capire se nella leggenda di Amico e Amelio ci sono stilemi e consonanze col Chronicon della Novalesa. 28 G. PEZZA ToRNAMÈ <<L 'Ordine mortariense ... » passim, e anche, della stessa autrice, «Problematiche riferite al! 'attraver~qmerzto del Po tra Sesia e Ticino: secc. XII-XV!Il», p. 88. 29 A. CAVANNA «Fa'ra sala arimannia nella storia di un vico longobardo», p . 88-89, che mutua considera­zioni, in parte dal Dhrmstiidter (v.).

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BIBLIOGRAFIA SPECIFICA DEGLI AUTORI E DELLE OPERE CITATE

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:1 ' DALLA VIA FRANCIGENA DI SIGERIC ALLA

PLURALITÀ DI PERCORSI ROMEI IN LOMBARDIA

VII/2 1999

CENTRO STUDI ROMEI

STUDI E RICERCHE SULLE VIE DI PELLEGRINAGGIO DEL MEDIOEVO

DALLA VIA FRANCIGENA DI SIGERIC ALLA PLURALITÀ DI PERCORSI ROMEI IN LOMBARDIA

1 Atti del Convegno di studi tenutosi a Mortara il 19 Settembre 1998

VII/2 1999

CENTRO STUDI ROME!

Indice

EDITORIALE ...... .. .. ........... ... .............. ... .... .................................... ........ ..... p . 7

1, ' ..

Homo viator Qualche riflessione introduttiva al tema dei percorsi romei m Lombardia (Adriano Cavanna) ......................................................... .. ... .. ...... .............. p. 11

Via Francigena, vie romee e vie francesche: per una storia della viabilità a orizzonti sovraregionali nel mondo padano (Renato Stopani) ....... .... ................ .... ........ .. ... ...... .. ...... ... .. .... ................ ... .... p. 19

Mortara "forum" dei pellegrini medievali

(Giorgina Pezza Tornamè) ................................................ ...... .................... p. 31

L'abbazia di Sant'Albino a Mortara tra storia e leggenda

(Fabrizio Vanni) ........... ...... .. ..... ... .. ........................................ ..................... p. 59

La leggenda di Amico e Amelio e Mortara

(Itala Rosato) .. ........ ... ... ............... ...... ........... .. .... .... ... .... ... ....... ....... ...... .... .. p . 77

Riflessioni sulla viabilità romana e medievale nel territorio lomellino (Alessandro Savini) ............. .... ..... ..... ............................. .. ................. .......... p. 87

Laumellum centro di strada nel territorio lomellino

(Claudia Maccabruni) ............... ............ .... ........... ......... ................ .... ...... .... p. 95

La pieve di Sant'Albino a Mortara: il polittico di Paolo da Caylina il Vecchio e gli affreschi dell'abside (Paola Castellini) .. .. ..... ..... .... .. ........... ............................ .......................... . p. 111

La via Francigena e l'attraversamento del Po: l'evoluzione delle comunicazioni tra Pavia e Piacenza dopo l'anno mille (Giancarlo Alberto Baruffi) ........................ ............ ............ .... ..... .. ......... .. p. 127

Navigare da Bellinzona a Milano e al Po in età medievale (Giancarlo Andenna) ....... ......... ................... ........ .. .... ..... ...... .. .... .......... .... p. 149

La strada, il sacro, la pietra nell'esperienza del pellegrino alle porte della Lomellina. Ipotesi di lettura dei graffiti di Sant'Andrea e di San Paolo di Vercelli (Giorgio M assola) ...................................... .. .... ................... ................. ..... p. 165

Il pellegrinaggio: icona ed esperienza (Msg. Luigi Manganini) ................................................................... ......... p. 191