La vergogna dell'estetica. Emozione, cognizione, normatività

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MIMESIS LA VERGOGNA/ THE SHAME A cura di Emanuele Antonelli e Manrica Rotili

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MIMESIS

LA VERGOGNA/THE SHAME

A cura di

Emanuele Antonelli e Manrica Rotili

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Traduzioni di:Emanuele Antonelli (M. Mason) e Manrica Rotili (M. Algarabel, J. Levinson)

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10.LA VERGOGNA DELL�’ESTETICA.

EMOZIONE, COGNIZIONE, NORMATIVITÀ

di Michele Di Monte

Non è in mano di chi che sia il frenare o lo spronare questi empiti primieri, né arrossare né impallidire, né in altro modo a

voglia sua trascolorarsi.

Alla ragione solo s�’aspetta il conoscere e lo aggradire l�’honore e lo haver a schifo l�’infamia; percioch�’ella sola ha

senso d�’honore e d�’infamia, e l�’uno come bene e l�’altro come male riconosce: la dove il senso intorno a questi oggetti è

stupido e insensato.

Annibale Pocaterra, Dialogo della vergogna, 1592 Chiariamo subito che di qualunque cosa l�’estetica �– in quanto disciplina

accademica o settore specializzato di studi �– debba vergognarsi, più o meno metaforicamente, non è ciò di cui discuteremo in questa sede. In qua-le altro senso, allora, la vergogna avrebbe a che fare specificamente con l�’estetica? Il rapporto che ci interessa qui verte piuttosto su alcune questio-ni generali che riguardano la natura estetica delle esperienze emotive e, re-ciprocamente, la natura emotiva delle esperienze estetiche. In questa pro-spettiva il tema della vergogna può fornire un punto di osservazione peculiare e magari persino privilegiato.

Tanto nella percezione comune come nella letteratura specialistica, la vergogna gode di una posizione di speciale rilievo in materia di emozioni, non a dispetto ma proprio a causa, si direbbe, dei suoi tratti prominenti e in-sieme sfuggenti. Sentimento profondamente intimo, eppure costitutiva-mente legato alla presenza degli altri; esperienza tipicamente umana, an-tropologicamente interculturale, e tuttavia intrecciata a norme sociali storicamente e localmente variabili; fisiologicamente connotata, e come tale spontanea e poco controllabile, e nondimeno dipendente da complesse valutazioni sulla propria condizione e su come questa si esponga alle valu-

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tazione altrui. Insomma, già da questa caratterizzazione sommaria �– ma in generale, credo, condivisibile �– dovrebbe apparire chiaro come il tema del-la vergogna prospetti una serie di problemi che, proprio nella loro imposta-zione dicotomica, non sono affatto estranei a chi si occupa di estetica. Complementarmente, i classici interrogativi circa la natura cognitiva o non cognitiva, il carattere concettuale o non concettuale, le pretese soggettive o intersoggettive, il fondamento proiettivo o realisticamente oggettivo delle nostre esperienze estetiche si rivelano decisivi, di là dalle differenze speci-fiche, anche per l�’analisi dello statuto ontologico ed epistemologico delle emozioni, in generale, e più in particolare dell�’esperienza della vergogna. Tener conto di questa complementarità e fare appello ad argomenti di vali-dità generale potrebbe fornire dunque qualche ulteriore elemento di reci-proca chiarificazione e, nella migliore delle ipotesi, di più ampia generaliz-zabilità.

Nel lontano 1884, William James lamentava, in un saggio pionieristico poi divenuto famoso, la scarsa attenzione riservata alla «sfera estetica» nel-lo studio della mente e delle emozioni (James 1884: 188). Da allora le cose sono molto cambiate e, sotto certi rispetti, la prospettiva si è persino rove-sciata1. Ma i problemi essenziali cui abbiamo accennato, a dispetto delle speranze di James, sono rimasti. Qui cercheremo di metterne a fuoco so-prattutto due, che si impongono in termini normativi: A) come sappiamo quando stiamo provando un�’emozione complessa come la vergogna e non qualche altra esperienza? e B) come sappiamo quando la nostra reazione di vergogna, o quella degli altri, è pertinente e appropriata a una determinata circostanza?

1. Individuazione Concedere �– come i più, credo, sarebbero disposti a fare �– che 1) gli epi-

sodi in cui si sperimenta ciò che chiamiamo vergogna abbiano una natura discreta, delimitata da certi confini, non significa che si sia anche in grado di specificare positivamente 2) cosa discrimini tali episodi. Non più di quanto essere convinti che non ogni esperienza possa ragionevolmente chiamarsi estetica mi metta in grado di spiegare poi quali discriminazioni siano di fatto necessarie. Necessarie, si deve intendere qui, non tanto per non confondersi pragmaticamente �– giacché la maggior parte delle perso-

1 In particolare, sulla controversa ricezione delle proposte di James vedi Ellsworth 1994.

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ne pensano di sapere quando provano o non provano vergogna o quando stanno o non stanno apprezzando la bellezza di qualcosa (sebbene anche questo non sia così ovvio, ma ci torneremo) �– quanto piuttosto per poter di-sporre di un criterio di individuazione e classificazione, che ci consenta di analizzare, oltre che provare, le esperienze vissute e di confrontarle con al-tre esperienze, nostre e altrui, ed eventualmente riconoscerle come tali, ri-cordarle, parlarne, farne oggetto di ulteriori operazioni e simili.

Ora, il passaggio da (1) a (2) è notoriamente assai complicato, in specie in un ambito come questo delle esperienze affettive o emotive, anche solo perché sembrerebbe che il risultato dell�’analisi dovrebbe poi valere norma-tivamente nel confronto con il vissuto stesso ed eventualmente persino co-stringermi ad accettare il fatto che, almeno in alcune circostanze, non do-vrei provare o addirittura non starei provando quel che invece sento o credo di provare. Il che pare piuttosto paradossale, se non proprio inaccettabile. D�’altra parte, anche rinunciare semplicemente a (1) sarebbe controintuiti-vo e non meno assurdo quanto a conseguenze.

Si tratta di un problema generale, ma sotto questo profilo il caso della vergogna si presenta in modo particolarmente ostico, dal momento che, come abbiamo accennato, essa occupa una posizione in certo modo anci-pite o liminare e la stessa estensione semantica dei termini con cui vi fac-ciamo riferimento sembra toccare di volta in volta gli estremi opposti di una vasta gamma di situazioni diverse: da una parte, reazione prepoten-temente immediata e, soprattutto, incontrollata, una �“gut reaction�” �– per usare il lessico adottato di recente da Jesse Prinz (2004) �–, dall�’altra, emozione cognitivamente �“superiore�” e dipendente da una più comples-sa e sofisticata interazione con il mondo, culturale e non solo naturale. In più, la vergogna �“affaccia�” a pieno titolo su vari versanti: da quello dell�’analisi psicologica a quello fenomenologico, dall�’ambito sociologi-co a quello etico �– non per nulla si è potuto parlare di �“vergogna natura-le�” come di �“vergogna morale�”.

È tutt�’altro che semplice, dunque, stabilire quali ragioni abbiamo per de-cidere che certi eventi ed esperienze della nostra vita psicofisica vadano sussunti in una certa specifica categoria (anche solo terminologica). Infat-ti, anche a non voler entrare nel dibattito sollevato dal libro di Paul Grif-fiths (1997) e dalla sua proposta severamente eliminativista, e anche con-cedendo che le emozioni non costituiscano in senso stretto un �“natural kind�”, resta che un sia pur meno impegnativo �“investigative kind�” o, tanto più, un �“normative kind�” (Griffiths 2004) non si possono mettere insieme arbitrariamente e senza esplicite giustificazioni, quand�’anche strumentali, a maggior ragione se con intenti revisionisti. Come che sia �– e per spianar-

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ci il terreno con qualche altro truismo �– dovrebbe essere altrettanto ovvio che 3) le esperienze che qualifichiamo come vergogna (e gli oggetti che qualifichiamo come vergognosi) dovranno pur avere qualche tratto comu-ne rilevante e non banale, e 4) tali tratti dovranno anche essere abbastanza specifici per poter discriminare le esperienze di vergogna (e renderle con-cettualmente, prima che linguisticamente, trattabili) rispetto a esperienze dello stesso genere ma specificamente diverse, che si tratti di emozioni, sentimenti o d�’altra categoria. Dico �“dovrebbe essere ovvio�” perché si può anche concepire la vergogna come una sorta di �“sentimento�” esistenziale, più o meno latente o dominante, che definirebbe la condizione umana in generale, come nella prospettiva di Scheler (1913), per esempio, o, per al-tro verso, di Lévinas (1935) o, ancora più recentemente, di Agamben (1998). In una prospettiva del genere non è molto chiaro in che modo si po-trebbe non provare vergogna e, nondimeno, perché si ha l�’impressione di provarla solo in certi momenti particolari.

In questa sede, perciò, vorrei tener conto di un uso del concetto di senso comune e dunque assumere l�’intuizione �“ingenua�” (1) da cui siamo partiti e secondo cui la vergogna è un�’emozione o un affetto o un�’esperienza di-screta, non solo da un punto di vista astrattamente concettuale, ma anche in un senso evenemenziale. C�’è però anche un terzo fatto che vorrei include-re fin da subito nella nostra disamina e che, inoltre, ci serve a tenere a men-te la simmetria con l�’esperienza del giudizio estetico. Si considera spesso come una cosa evidente che l�’apprezzamento estetico verta su un oggetto esterno più che sullo stato interiore di colui che giudica2, così come si ri-tiene di solito che, per contro, l�’esperienza della vergogna comporti essen-zialmente una Rückwendung auf ein selbst �– come la chiama Scheler �– che verta più sullo stato interiore del soggetto che su un oggetto esterno. Tutta-via, in molte teorie estetiche �– tipicamente quelle soggettiviste o di ispira-zione kantiana �– il legame con l�’oggetto esterno è più oscuro e controver-so di quanto sembrerebbe ovvio, mentre, d�’altro canto, nonostante l�’autoriferimento che caratterizza la vergogna come una tipica �“self-asses-sment emotion�”, non è tanto facile pensare ad esperienze vissute di vergo-gna che non abbiano anche un qualche oggetto: in fondo ci si vergogna sempre di qualcosa, per qualcosa, rispetto a qualcosa �– quando pure fosse solo il fatto di appartenere al genere umano o di non essere dei. La vergo-gna, probabilmente come tutte le emozioni, ma in ogni caso più spiccata-mente di altre, sembra distinta da un carattere di aboutness, se non voglia-

2 Secondo Scruton (2009), per esempio, si tratterebbe persino di una delle �“ovvie-tà�” di partenza della riflessione estetica.

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mo chiamarlo di intenzionalità. Bisogna allora capire in che misura una tale aboutness sia anche costitutiva dell�’identità e dell�’individuabilità dell�’emozione in questione.

2. Coerenza Se queste osservazioni sono legittimamente fondate, ne scaturiscono al-

cune conseguenze, che hanno una significativa incidenza su quella che po-tremmo chiamare appunto la quaestio individuationis3. In primo luogo, se è vero che ci si vergogna sempre di qualcosa, è anche vero che non ci si può vergognare di qualunque cosa. Ciò vale certamente, in un senso stretta-mente logico, per il singolo individuo, che non può evidentemente provare vergogna per questo e il contrario di questo nello stesso momento ed esat-tamente sotto lo stesso rispetto �– così come non può provare e non provare lo stesso sentimento alle stesse condizioni. Anche le emozioni soggiaccio-no al principio di non-contraddizione. Ma ci si deve pure chiedere se il vin-colo non valga più in generale per qualunque soggetto e in un senso norma-tivo più latamente ontologico, come vedremo.

Una seconda conseguenza, sebbene meno immediata e di ordine psico-logico, è che non sembra plausibile che ci si possa ingannare sul fatto che si stia provando effettivamente vergogna. Quest�’ultimo aspetto presenta qualche ulteriore motivo di interesse, se non altro perché vari autori riten-gono invece come fatto assodato che si possa essere in errore circa le pro-prie emozioni. Ma, precisamente, in che modo si potrebbe articolare un�’i-potesi del genere? Se sto consapevolmente provando vergogna non posso non provarla e neppure pensare che in realtà non la stia provando, a qual-che altro livello cui non ho accesso cognitivo. Qui la situazione è diversa da quella del dolore fisico, per esempio. Se mi ferisco mentre sono impe-gnato in un�’intensa attività, poniamo sportiva, può darsi che sul momento non mi accorga neppure di essermi ferito, ma da un punto di vista fisiolo-gico il corpo reagisce sempre nello stesso modo e innesca lo stesso proces-so che funziona non diversamente dal caso in cui avverta immediatamente il dolore. Però, in un caso del genere dovrei dire �– e spesso infatti si dice �– che �“non mi sono accorto�” di essermi ferito, appunto perché non ho avver-tito (provato) attualmente quel dolore che in condizioni diverse avrei certa-

3 Intendo qui il criterio di individuazione non secondo la terminologia della Scola-stica, ma in linea con la terminologia della metafisica analitica di autori come E. J. Lowe (1998: 290).

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mente sentito. Come in tutti i fenomeni processuali, il punto dipende da cosa includiamo e cosa escludiamo dal fenomeno del dolore, da dove fac-ciamo cominciare e dove facciamo finire il processo. E nel caso della ver-gogna? Certamente anche questa ha delle manifestazioni fisiche più o meno particolari, quali, tipicamente (anche se non regolarmente), un im-provviso rossore del volto. Ma si può dire che qualcuno che arrossisce sen-za accorgersene �– ad esempio, mentre dorme �– si sta vergognando senza saperlo? Non pare un asserto convincente. E allora in quale altro modo ci si può sbagliare?

Anche qui, la questione individuativa si intreccia al problema dell�’auto-riconoscimento. Se si assume, per esempio, che la vergogna sia identifica-ta da un �“qualitative feel�”, un puro �“quale�” specificamente sentito, allora non è chiaro come si possa, in prima persona, scambiare un quale per un al-tro, nel senso appunto di sentire un quale che non è quello che sento4. Ol-tretutto, se su questo tipo di esperienze si dà solo una prospettiva in prima persona, allora né io né nessun altro potremo mai neppure sospettare che vi sia stato un simile scambio, appunto perché non c�’è una posizione terza da cui giudicare diversamente (più correttamente) un �“qualitative feeling�”, che esiste realmente solo nel momento esatto in cui viene sentito. La pos-sibilità dell�’errore richiede necessariamente un�’ulteriore dimensione: pos-so sbagliarmi, per esempio, nel denominare le mie emozioni, nel ricordar-le e quindi, al limite, nel concettualizzarle categorialmente, per incompetenza o perché, nel vissuto reale, certi episodi sollecitano sensa-zioni ed emozioni diverse, volatili, sfumate e concomitanti5. Queste distin-

4 Le posizioni a questo proposito sono, come noto, assai variabili. Alcuni autori am-mettono questa componente �“qualitativa�”, senza per questo sposare una vera e propria �“feeling theory�”. Tra questi, ad esempio, Jon Elster, per il quale, comun-que, «the felt difference between guilt and shame, for instance, does not seem to be merely the perception of different action tendencies, of different forms of physiological arousal and so forth. Rather, each emotion seems to be a pure and qualitatively unique experience» (Elster 1999: 247). Lo stesso Elster sostiene, tut-tavia, che possono esserci emozioni (o, più precisamente, nella sua terminologia, �“proto-emozioni�”) di cui il soggetto è �“incosciente�” (ivi: 255), così come possono darsi casi in cui «even when people do form beliefs about their emotions, they can be wrong» (ivi: 260). Evidentemente, si deve dedurre, in questi casi la �“felt diffe-rence�” deve essere assente, dunque non può considerarsi una componente neces-saria ed essenziale per l�’identità di tali emozioni.

5 Tralascio qui deliberatamente le motivazioni di tipo psicoanalitico, per il semplice fatto che cercare di spiegare obscurum per obscurius, come succede il più delle vol-te con questo tipo di approccio, non è una pratica epistemologicamente utile.

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zioni, che andrebbero precisate meglio di quanto di solito succede6, mo-strano anche come un vincolo normativo definitorio dovrebbe poi suggerire un atteggiamento di maggior cautela nell�’assumere troppo acriti-camente una casistica �“empirica�”, tratta ad esempio dalla letteratura o dai referti psicoterapeutici, per servirsene come argomento a favore di questa o quella tesi7.

Anche trattando di emozioni, per quanto la materia possa essere magma-tica e sfuggente e anche ammettendo certi tipi di errore, non si può rinun-ciare a un criterio minimo di coerenza formale che sia trasversale rispetto a situazioni e momenti diversi, tanto dal punto di vista individuale della prima persona quanto da un punto di osservazione esterno o pubblico, e che renda il soggetto delle emozioni un agente �“credibile�”, come ha sugge-rito di recente Andrew Ortony (2003).

6 Jenefer Robinson (2005: 91), per esempio, sembra assumere che «there is nothing privileged about my personal access to my psychological state. I can always be wrong», ma in realtà bisognerebbe specificare che le componenti dello stato psi-cologico su cui non possono vantarsi privilegi in prima persona sono soltanto, ov-viamente, «my physiological state, facial and vocal expressions, and subsequent behaviour» (Ibidem). Resta da stabilire se questi elementi interosservabili siano sufficienti, da soli, a determinare l�’identità dell�’emozione occorrente e quindi a smentire una valutazione personale erronea, ma su questo punto la posizione del-la Robinson non è molto chiara (che tipo di accesso consente, ad esempio, la di-mensione dell�’�“affective appraisal�” che per l�’autrice sarebbe essenziale per l�’e-sperienza emotiva? In che modo l�’appraisal potrebbe essere pubblicamente osservabile se non mettesse capo a manifestazioni esterne?).

7 Talvolta la ricerca empirica basata sul lavoro terapeutico finisce per dimostrare il contrario di quanto le si vorrebbe far dire. È il caso, tra gli altri, dello studio di He-len Lewis (1971), più o meno regolarmente citato perché documenterebbe la �“sco-perta�” di una �“unacknowledged shame�”, più specificamente distinta in due forme: �“overt, undifferentiated�” e �“bypassed�”, entrambe �“invisibili�” a pazienti e terapeu-ti. È abbastanza ovvio, tuttavia, che tale invisibilità non può che essere contingen-te, infatti, guarda caso, la vergogna dissimulata e bypassata non sfugge comunque alla Lewis, la quale, come qualunque osservatore adeguato, non può che rilevarla attraverso �“shame markers�” che non sono affatto invisibili e si basano, per giunta, sull�’analisi di contesti e comportamenti in cui i pazienti si sentono (e si dichiara-no) negativamente valutati, criticati, in errore ecc. Sorprendentemente, poi, certi supposti meccanismi di �“mascheramento�” si rivelano proprio gli indizi più mani-festi: caso tipico, il rossore. Di nuovo, più che la natura presuntivamente inconscia delle emozioni, il problema riguarda l�’uso delle etichette nominali. Naturalmente, poi, sui motivi (reconditi) per cui qualcuno dice di sentirsi ridicolo o umiliato in-vece di usare il termine vergogna si può speculare con grande libertà e fantasia.

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3. Cause e oggetti Per venire incontro a quest�’ultimo requisito non è detto, comunque,

che sia sufficiente fare appello alla ricognizione di stati interiori, che si tratti di stati qualitativi accessibili per introspezione solo al singolo soggetto o di stati psicofisici, consci o inconsci, declinati nei termini di una �“affective neuroscience�” di indole più o meno fisicalista o elimina-tivista. Se infatti siamo propensi a supporre che sia un particolare sta-to fisico a identificare �– nel senso forte, ontologico, di identità �– l�’e-mozione della vergogna, allora dobbiamo concludere che tutte le volte che si presenta quel medesimo stato, indipendentemente dai fattori causali determinanti, sussiste anche l�’emozione corrispondente. D�’al-tra parte, la forza individuativa non si può ridurre a una questione di gradi di complessità: certamente la sola irrorazione periferica del vol-to sottodetermina l�’identità di un�’emozione complessa come la vergo-gna, ma se anche riproducessi artificialmente l�’intera condizione neu-rofisiologica il problema teorico-concettuale non cambierebbe, anzi assumerebbe la forma tipica delle controparti indiscernibili. Posso dire sensatamente che qualcuno è innamorato se prova tutti i sintomi (fisio-logici) che di norma associamo a questo sentimento, ma non esiste al-cun oggetto di cui possa consapevolmente essere (o credere di essere) innamorato? È evidente che la risposta dipende da come è costituito il concetto di innamoramento, se cioè implichi essenzialmente la presen-za di un oggetto intenzionale �– un oggetto formale, nel senso della Scolastica �– oppure no.

Ma se ciò che ci interessa è l�’identità delle emozioni e la loro discer-nibilità (da qualunque punto di vista), allora un approccio unilateral-mente orientato al rilevamento degli stati corporei o alla enterocezione si rivela fatalmente insufficiente, proprio perché una descrizione dei fe-nomeni interni non ha un adeguato potere di discriminazione fenome-nologica. Sostenere, per esempio, che le stesse aree del cervello vengo-no attivate in circostanze variabili significa appunto che la differenza fenomenologica, quando c�’è, va messa in carico ad altro. Se è vero che la «risposta estetica (trovare qualcosa bello invece che indifferente) è correlata all�’attività del cingolo anteriore e della corteccia orbitofronta-le» (Prinz 2005: 13; cfr. Kawabata �– Zeki 2004), si potrebbe certo pen-sare di attivare un�’analoga �“risposta estetica�” stimolando adeguatamen-te quelle stesse aree persino in assenza dell�’oggetto che dovremmo trovare bello, persino in assenza di qualunque oggetto. Ma che senso avrebbe parlare in questo caso di �“risposta�”. Si può provare un�’espe-

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rienza estetica di nessun oggetto in particolare?8 Qui si capisce bene la cogenza di certi vincoli normativi ontologici. Assumere, come fanno al-cuni autori (Prinz 2005: 15) che «l�’esperienza di un�’emozione si esau-risce solo nelle sensazioni corporee» significa dover ammettere non soltanto che «emozioni somaticamente simili devono essere fenomeno-logicamente simili», ma anche, consequenzialmente, che identici stati corporei mettano capo a emozioni identiche e dunque indistinguibili9.

Un discorso analogo vale anche, evidentemente, per i comportamenti derivati e i sintomi manifesti degli stati interiori. Una descrizione sia pure attenta e comprensiva non è di solito sufficiente a individuare correttamen-te l�’emozione in questione. Prendiamo, ad esempio, questo elenco di sinto-mi presuntivamente tipici: «arrossire, annaspare, balbettare, parlare con voce anormalmente bassa o alta, o con voce tremula, o con voce rotta, su-dare, impallidire, battere le ciglia, avere tremito alle mani, muoversi in modo esitante o vacillare, essere distratti, dire papere». Così Goffman (cfr. 1967: 105) a proposito dell�’imbarazzo, ma è evidente che, quando pure considerati congiuntamente in un certo lasso di tempo (perché sarebbe dif-ficile arrossire e impallidire nello stesso momento) e in mancanza di altri elementi, tutti questi segnali potrebbero denunciare stati emotivi e situazio-

8 A meno di ipotizzare che la manipolazione artificiale degli stati corporei simuli anche la presenza percettiva di un correlato oggettuale. In tal caso avremmo però a che fare con un fenomeno allucinatorio, in cui anche l�’oggetto sarebbe illusoria-mente presente e indistinguibile, per ipotesi, da quello reale. Bisognerebbe allora decidere se assumere una posizione �“disgiuntivista�”, come viene oggi definita, ri-spetto all�’argomento dell�’allucinazione.

9 Per uscire dall�’imbarazzo Prinz è costretto a riconoscere che le emozioni coscienti, pur non essendo altro che registrazioni di stati corporei (�“feelings�”), sono comunque �“individuate dalle loro origini causali�” (cfr. Prinz 2005: 20). Però, secondo Prinz, «we should not mistake an emotion for its causes and effects. The cause of an emo-tion determines the identity of the emotion, but those causes do not constitute the emotion, and neither do they constitute the conscious experience of the emotion» (Ibidem, corsivo mio). Qui, purtroppo, non ci viene detto come intendere la differen-za fra identità e costituzione, ma in ogni caso è fortemente implausibile che ciò che determina l�’identità di un�’emozione non entri nella fenomenologia dell�’esperienza cosciente (nel riconoscimento) dell�’emozione stessa. Per lo stesso Prinz, infatti, la distinzione tra due emozioni somaticamente simili da parte del soggetto procede dall�’individuazione delle cause: per esempio, «when we recognize that a particolar feeling is guilt rather than sadness, it is not in virtue of any phenomenal difference. Rather, it is in virtue of recalling the eliciting condition» (ivi: 19). È piuttosto stra-no, peraltro, che su questa base si possa allora suggerire che «guilt is a case of sadness that happens to be caused by acts of transgression, whether or not one rea-lized the transgression is the cause» (Ibidem, corsivo mio).

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ni affatto diversi: vergogna, sgomento, uno stato di shock post-traumatico, se non più semplicemente un�’alterazione febbrile severa e così via. Per ca-pire cosa stia effettivamente provando il soggetto, e verosimilmente perché il soggetto stesso possa rendersi conto di cosa sta provando, è necessario includere nella descrizione (e nella fenomenologia dell�’esperienza) gli an-tecedenti causali e gli oggetti intenzionali in gioco in quella determinata si-tuazione, badando, oltretutto, a distinguere formalmente il loro possibile differente importo. I sintomi descritti da Goffman, infatti, potrebbero esse-re provocati da uno stato di cose imbarazzante (antecedente causale e og-getto intenzionale), ma anche, come si è detto, da uno stato febbrile o da un�’induzione artificiale dell�’attività cerebrale (antecedente causale ma non oggetto intenzionale)10. Si tratta perciò di chiarire che genere di relazione sussista tra causa formale, causa efficiente e causa finale dell�’esperienza, nonché tra cause prossime e cause remote, per esprimerci in un linguaggio classicamente aristotelico.

Per come l�’abbiamo delineata qui, la questione riguarda trasversalmen-te tipi di approcci per altro considerati tradizionalmente opposti, come quelli che si definiscono cognitivisti e non-cognitivisti. Ora, a parte il fatto che oggi, sebbene possa sembrare paradossale, il termine �“cognitivo�” fini-sce per risultare un po�’ troppo sfuggente �– sia per la proliferazione di una quantità di opzioni intermedie e variamente qualificate sia perché, per dir-la con Allan Gibbard (1990: 129), «is not a word that carries its meaning on its face», �– a noi interessa qui essenzialmente la connessione nomologica tra emozione e circostanze scatenanti. È vero che negli approcci che si di-chiarano cognitivisti la relazione di dipendenza dall�’�“oggetto formale�” è espressamente tematizzata, per esempio in termini di �“giudizi�” e �“creden-ze�” (eventualmente nel formato di attitudini proposizionali), come in Ro-bert Solomon, paradigmaticamente. Ma è altrettanto vero che anche posi-zioni non-cognitive, sulla linea della cosiddetta teoria di James-Lange, per

10 Che ci siano emozioni senza �“antecedenti cognitivi�”, come le fobie, nell�’esempio suggerito da Elster (1999: 269), non significa che queste siano anche senza ogget-to intenzionale, come mostra tipicamente proprio il caso delle fobie. Si tratta per-ciò di decidere se includere gli oggetti intenzionali tra gli antecedenti cognitivi e se ci siano anche oggetti intenzionali non-cognitivi. Peter Goldie, ad esempio, preferisce considerare ugualmente intenzionali sia i �“bodily feelings�” sia i �“fee-lings towards�”, entrambi costitutivi degli stati emotivi ed entrambi rivolti a deter-minati oggetti, intracorporei o esterni. Il nostro discorso riguarda evidentemente il secondo tipo di oggetti, esterni; tipicamente: «a thing or a person, a state of affai-rs, an action or an event» (Goldie 2002: 241), dunque anche strutture complesse e articolate che possono inoltre interagire tra loro a vari livelli.

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capirci, non possono eludere un analogo punto. Pur pensando, con William James (1884), che l�’emozione sia propriamente e letteralmente il senti-mento (�“feeling�”) delle modificazioni che si producono nel corpo, resta da capire cosa produca non circolarmente tali modificazioni, giacché ciò non è senza conseguenze per l�’emozione stessa e la condotta che ne deriva. Come si è detto, una registrazione passiva di parametri fisiologici aspecifi-ci non identifica una particolare emozione e non può innescare, da sola, una reazione pertinente. Di qui la necessità del soggetto di individuare una causa, anzi, dal momento che di cause possono essercene diverse, di indi-viduare possibilmente quella giusta o, quanto meno, quella rilevante. Se fosse vero, come credeva James (ivi: 190), che trovandoci di fronte a un orso «proviamo timore perché tremiamo» e non il contrario, allora, nella stessa circostanza, bisognerebbe anche decidere, e alla svelta, che tremia-mo precisamente per l�’orso e non per il freddo o per qualunque altro fatto che il corpo potrebbe aver nell�’intanto registrato. Chi e come si decide una cosa del genere?

A questo punto, però, è opportuno sgombrare il campo da possibili am-biguità, che in effetti sembrano permanere anche in quelle teorie più recen-ti che recuperano e riformano per certi versi la tradizione jamesiana. Se-condo la proposta dello psicologo americano James Russell (2003), per esempio, il problema della demarcazione di emozioni discrete (o �“basic�”) andrebbe totalmente rivisto in una vena nominalistica. Ciò che tradizional-mente si chiama �“feeling�” viene riqualificato come �“core affect�”: uno stato «mentale ma non cognitivo o riflessivo», che può presentarsi in una «free-floating form» (ivi: 148). Sennonché, come prevedibile, questo stato affet-tivo primario deve poi entrare in una «complessa storia causale» per pro-durre una dinamica sufficientemente ricca (il che significa differenziata). Per questo le modificazioni del �“core affect�” dipendono dalla percezione di «eventi antecedenti» e di «qualità affettive» degli stimoli esterni, ma anche da un�’attività di «attribuzione affettiva» agli antecedenti stessi che servi-rebbe a costituire il vero e proprio oggetto del feeling (ivi: 150-151). In tale quadro, tuttavia, i rapporti di dipendenza normativa non sono molto chiari �– non più di quanto lo fossero nello studio di James �– perché non si capisce bene cosa determini cosa o, in altre parole, come si combinino passività e attività, ricezione e proiezione11. Ci troviamo così, tipicamente, di fronte a

11 La posizione di Russell sembra restare, a questo proposito, piuttosto instabile. Da una parte ci si dice che «core affect depends on all the information possessed about the external cause» (Russell 2003: 148, corsivo mio), e in effetti parrebbe intuitivo credere che siano gli antecedenti e le proprietà affettive dello stimolo ad

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un dilemma ontologico analogo a quello celebre di Eutifrone: è il manife-starsi spontaneo di una particolare condizione interna che determina l�’attri-buzione di �“vergognosità�”, per così dire, a un certo oggetto o situazione, o è la proprietà dell�’oggetto che determina appropriatamente la nostra attri-buzione e, dunque, l�’emozione corrispondente?

A questo proposito, il confronto con la situazione del giudizio estetico è evidente, perché profila perfettamente le medesime difficoltà. Non per caso lo stesso Russell, sottolineando come le qualità affettive siano appa-rentemente centrate sugli oggetti, si sente comunque in dovere di ricordare che «beauty is in the eye of the beholder» (ivi: 157). Anche nella prospet-tiva di un sentimentalista humeano o, tanto più, di un soggettivista di tipo kantiano, certamente non-cognitivista e non-concettualista, la relazione normativa tra colui che fa l�’esperienza estetica e ciò di cui fa esperienza è assai problematica, per non dire misteriosa. Infatti, in primo luogo, se non sono le proprietà dell�’oggetto, percepito come tale, a determinare il giudi-zio di bellezza, ma è la �“risposta�” spontanea del soggetto a determinare la bellezza dell�’oggetto, come escludere che tutti gli oggetti, o di volta in vol-ta un oggetto qualunque (ovvero, meglio, le loro rappresentazioni), solleci-tino indifferentemente una medesima reazione, cioè che infine tutti gli og-getti siano ugualmente belli o qualunque oggetto possa esserlo? In secondo luogo, parlare di oggetti e di rappresentazioni di oggetti che mettono in gioco una risposta delle facoltà è troppo ottimistico, se si vuol tenere fede ai termini kantiani, giacché lo scenario percettivo recepito dalla sensibilità del soggetto non è ancora concettualmente segmentato in oggetti discreti, e dunque non ci può essere garanzia che l�’esperienza provata si riferisca a questo invece che a quel qualcosa dai confini non casualmente definiti12. Peraltro, infine, trattandosi di uno stato interiore sentito �– che tale è appun-to anche il �“libero gioco�” o l�’�“accordo proporzionato�” delle facoltà �– non si vede cosa possa escludere in termini normativi che un simile stato insor-

avere il principale ruolo determinante, dall�’altra, però, si precisa anche che «histo-rically and logically perception of affective quality depends on core affect» (ivi: 149, corsivo mio), né viene spiegato sulla base di quali vincoli interni il «core af-fect is attributed to the antecedent, which becomes the Object» (ivi: 150).

12 Nella prospettiva psicologica proposta da Russell, se il «core affect responds to the continuous flow of events» ed è persino influenzato da un «background envi-ronment such as very many minor factors in the physical (weather, odors, noise, aesthetic quality) and social (who is nearby, the type of situation) environment, all impinging at the same time» (Russell 2003: 155), quale principio rende possibile risposte emotive selettive e coerenti piuttosto che uno stato di caos continuo in cui tutte le cause possibili agiscono contemporaneamente?

M. Di Monte - La vergogna dell�’estetica 135

ga spontaneamente, solo in concomitanza e non già in risposta, pertinente e adeguata, a uno stimolo esterno formalmente determinante.

Dal punto di vista di Kant non è possibile rispondere a simili domande, non più di quanto dal punto di vista di James si possa spiegare cosa vinco-li nomologicamente certe modificazioni degli stati interni a certi oggetti dello scenario percettivo e non ad altri. Ma il problema resta identico in tut-ti quei casi in cui non sia esplicitamente chiarito l�’innesto tra dimensione estetica (o affettiva) e dimensione cognitiva �– che si tratti di una teoria del �“core affect�” o di qualunque altra versione. Insomma, anche senza essere filosofi kantiani, psicologi di fede Jamesiana o neuroscienziati più o meno materialisti, se si prende sul serio l�’idea che «la sede del piacere artistico è tra le scapole» �– per usare le incisive parole di Nabokov (1980) �– e che «quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la forma più alta di emozione che l�’umanità abbia raggiunto», si deve poi spiegare in che modo la schiena riesca a distinguere le (vere) opere d�’arte, visto che ci sono parecchie altre cose molto diverse che possono provocare brividi �“lì die-tro�”. Forse ci sono brividi specificamente artistici, ma, di nuovo, cosa li differenzia e come ce ne accorgiamo?

4. Categorizzazione e stima Qui l�’estetica si compromette necessariamente con l�’ontologia. Se si

vuole salvaguardare quella che Mark Johnston (2001a) ha chiamato �“the authority of affect�” bisogna rinunciare a una posizione coerentemente �“proiettivista�” e optare per una qualche forma di realismo13. Ciò significa anche che prima ancora di appurare quali oggetti specifici sottendano emo-zioni diverse come la vergogna o l�’apprezzamento estetico conviene co-munque tenere fermo il punto per cui questi stessi oggetti sono indipenden-temente, prioritariamente determinati e la loro percezione non può essere totalmente �“category-free�”. Questo vale anche per le cosiddette �“appraisal theories�” �– che pure costituiscono una famiglia piuttosto che una posizione univoca �– secondo le quali l�’emergere dell�’emozione dipende appunto da un�’azione valutativa dell�’ambiente o dello stato di cose disponibile da par-te del soggetto rispetto ai propri interessi e valori vitali. Quand�’anche, in-fatti, una simile valutazione si riducesse, come sostengono vari autori, a

13 Per una demolizione critica degli argomenti di tenore proiettivista o disposiziona-lista, a questo proposito, vedi lo stesso Johnston 2001a, nonché il dibattito succes-sivo in Wedgwood 2001 e la replica di Johnston 2001b.

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una sorta di �“subcezione�” �– per usare il termine di Lazarus (1991) �– o co-munque a una percezione automatica, inconscia o irriflessa (cfr. Frijda 1994; LeDoux 1996; Zajonc 1984, 1994; Robinson 2005), il processo do-vrebbe in ogni caso comportare due operazioni complementari: discrimi-nazione e categorizzazione. Sullo sfondo dello scenario percettivo (o nella molteplicità dello stimolo, per dirla in tono più kantiano) gli oggetti non vengono solo distinti gli uni dagli altri, ma anche classificati, come buoni o cattivi, piacevoli o spiacevoli, dannosi o vantaggiosi e così avanti. Se questa operazione si possa, o si debba, considerare già cognitiva, a qualun-que livello, o solo affettiva, dipende, ancora una volta, da come intendiamo i termini14. Termini, peraltro, non nuovi, almeno nella sostanza, giacché le appraisal theories ripropongono, dal punto di vista funzionale, né più né meno ciò che gli Scolastici medievali chiamavano vis aestimativa, in quan-to distinta dalla vis cogitativa (modellate a loro volta, rispettivamente, sul-la phantasia aisthetiké e la phantasia logistiké aristoteliche). Sennonché, il problema, ora come allora, era appunto quello di connettere le due facol-tà15. Come che sia, se si assume che l�’existimatio o l�’appraisal affettiva della vergogna comporta la capacità di distinguere e categorizzare stati di cose in quanto vergognosi e non vergognosi, ovvero �“onorevoli�” e �“infa-manti�”, come pensava a suo tempo il medico Annibale Pocaterra (1592: 47)16, dobbiamo allora concludere che tali �“percezioni�” sono altamente specializzate e insieme molto flessibili e sarebbe difficile qui escludere una componente inferenziale e concettuale.

14 Alcuni studiosi, che pure riconoscono la rilevanza di queste attività inconsce o subcorticali, sono comunque propensi a considerarle cognitive �– per esempio La-zarus (1991) �– mentre altri negano più recisamente questo status (cfr. Zajonc 1984, 1994; LeDoux 1996; Robinson 2005)

15 Come noto, la vis aestimativa era riconosciuta piuttosto agli animali, quale stru-mento di categorizzazione �“utilitaristica�”. Nelle parole dell�’Aquinate (Commen-tarium in De Anima, 2, 13, 16): «cogitativa apprehendit individuum, ut existens sub natura communi; quod contingit ei, inquantum unitur intellectivae in eodem subiecto; unde cognoscit hunc hominem prout est hic homo, et hoc lignum prout est hoc lignum. Aestimativa autem non apprehendit aliquod individuum, secun-dum quod est sub natura communi, sed solum secundum quod est terminus aut principium alicuius actionis vel passionis; sicut ovis cognoscit hunc agnum, non inquantum est hic agnus, sed inquantum est ab ea lactabilis; et hanc herbam, in-quantum est eius cibus. Unde alia individua ad quae se non extendit eius actio vel passio, nullo modo apprehendit sua aestimativa naturali. Naturalis enim aestima-tiva datur animalibus, ut per eam ordinentur in actiones proprias, vel passiones, prosequendas, vel fugiendas».

16 Sul trattato di Annibale Pocaterra vedi ora Gundersheimer 1994.

M. Di Monte - La vergogna dell�’estetica 137

La categorizzazione consente, inoltre, di aprire uno spazio possibile (e plausibile) per l�’errore, posto che non lo si intenda come sistematico, ma appunto come normativamente qualificato. Posso provare erroneamente paura scambiando una corda per un serpente (e non certo per un orso), ma solo perché, in quella circostanza, la corda assomiglia abbastanza a un ser-pente, di cui ho normalmente, e non erroneamente, paura17. Allo stesso modo, posso vergognarmi a torto per uno stato di cose che giudico errone-amente come infamante solo perché, nelle circostanze date, quello stato si presta ad essere scambiato per una situazione che, di norma e al netto dell�’errore, è per me vergognosa, (indipendentemente dal fatto che, da un altro punto di vista, farei bene a non vergognarmi di questo o di quello). Si tratta di errori di valutazione o, meglio, di categorizzazione, appunto, che però è variabilmente �“penetrabile�” in termini cognitivi secondo il grado di complessità concettuale dell�’oggetto da categorizzare.

Sotto questo rispetto, la vergogna sembra distinguersi da altre emozioni o sentimenti più eminentemente �“estetici�”. Ci sono condizioni, infatti, che non paiono influenzabili da un diverso importo conoscitivo, in termini pro-posizionali o di credenze. Per esempio, se sento freddo (perché eventual-mente ho la febbre), il fatto di verificare sul termometro che la temperatu-ra ambientale è in realtà abbastanza alta da aspettarmi che dovrei sentire caldo non modifica sensibilmente la mia sensazione: continuerò a sentire freddo comunque. Allo stesso modo, se un oggetto rappresenta qualcosa, poniamo, di disgustoso o ripugnante, scoprire che si tratta in effetti solo di una rappresentazione, di una finzione (come un�’immagine o una scultura), non lo renderebbe molto meno ripugnante e disgustoso. Non è ovvio, per contro, che le cose vadano così anche nel caso della vergogna. Se compio un gesto ineducato o sconveniente, per riprendere la situazione canonica descritta da Sartre (1943), e mi rendo conto improvvisamente che davanti a me qualcuno, di cui prima non mi ero accorto, mi fissa, posso provare un immediato e pungente sentimento di vergogna, ma se subito dopo scopro in qualche modo che la persona che mi �“guarda�” in realtà è un cieco, la ver-gogna che provo si attenua ed eventualmente, persino, svanisce del tutto18.

17 Altro è stabilire se la paura sia anche �“giustificata�”, non solo da un punto di vista psicologico o epistemico ma anche �“reale�”, per così dire, se cioè sussistano moti-vi reali �– ad esempio un rischio concreto per l�’incolumità fisica �– per cui dovrei aver paura dei serpenti (e dunque farei bene ad averne).

18 Qui non si tratta, naturalmente, dell�’autenticità di una possibile �“prima impressio-ne�” �– presuntivamente più prepotente e spontanea di una eventuale �“seconda�” im-pressione, magari maggiormente razionalizzata �– quanto della dipendenza infe-renziale dalle circostanze fattuali esterne. Infatti, l�’esempio citato può procedere

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Ciò non significa, tuttavia, che la vergogna sia un�’emozione più �“raziona-le�” di altre, sia perché ci sono casi in cui la vergogna stessa appare meno cognitivamente permeabile sia perché anche la paura �– reazione apparente-mente più elementare, come nell�’esempio citato sopra �– è analogamente sensibile a una revisione di giudizio, o di appraisal (motivo per cui, una volta �“scoperta�”, la corda non mi fa più effetto).

Quello che conta è comunque la dipendenza controfattuale degli stati emotivi dalle valutazioni esterne, quale che sia il loro variabile grado di in-cidenza e ovunque le si voglia collocare sulla scala che va dall�’affettivo al cognitivo. Anche le teorie non-cognitiviste o cognitiviste �“deboli�” �– nelle varie forme in cui sono state recentemente presentate �– devono poter con-templare e spiegare le medesime prestazioni che figurano meno problema-ticamente in una �“judgment theory�”. Sebbene localizzata a un livello sub-personale o inconscio, o persino solo corporeo, un�’intenzionalità affettiva o patica, se così vogliamo chiamarla, mantiene la sua forza esplicativa solo se effettivamente garantisce gli stessi risultati e le stesse funzioni di un�’in-tenzionalità tradizionalmente intesa. Ciò spiega, per altro, il frequente ri-corso a formule più o meno metaforiche, secondo le quali, tanto per fare un esempio, «la pelle sa» �– in termini di reazione galvanica �– ciò che al sog-getto cosciente invece sfuggirebbe (Robinson 2005: 40), e simili. Col ri-schio che ipotesi del genere finiscano in una sorta di �“fallacia mereologi-ca�”, che attribuisce alla parte un�’operazione che spetta invece al tutto, vale a dire, appunto, al soggetto (Hutchinson 2008: 127)19.

anche in senso diametralmente opposto: ritenendo di avere delle ragioni per cre-dere che la persona che mi sta davanti sia un non vedente, potrei sentirmi abba-stanza tranquillo di non essere osservato mentre compio il gesto poco convenien-te, ma potrei anche scoprire un attimo dopo che quella stessa persona, a dispetto della mia prima valutazione, ci vede benissimo e proprio questo potrebbe costitu-ire una buona ragione per provare un senso di vergogna persino più accentuato.

19 In realtà, anche la proposta avanzata dallo stesso Hutchinson, che mira a una sor-ta di cognitivismo aspettuale, esemplato alla lontana sul modello del seeing-in wittgensteiniano, e che egli chiama �“world-taking cognitvism�”, sembra trovarsi di fronte ad analoghe difficoltà in termini normativi. Hutchinson ritiene che si pos-sano scoprire e cogliere (�“grasp�”) certi aspetti del mondo senza scomodare un più complesso lavoro di interpretazione e giudizio a carico dell�’agente, così come si colgono gli aspetti diversi di una figura multistabile. Tuttavia, qui �“cogliere�” si-gnifica propriamente �“concettualizzare�”, anzi cogliere la relazione interna costitu-tiva tra il concetto di vergogna e l�’aspetto della realtà che in tal modo emerge, e non è chiaro come ciò sia possibile, concretamente, senza far ricorso a credenze e atteggiamenti proposizionali. Non a caso, infatti, «it is correct or incorrect to feel shame in relation to some object�—some conceptualized shame scenario�—accor-ding to whether or not that object is indeed shameful: i.e. do the internal relations

M. Di Monte - La vergogna dell�’estetica 139

La difficoltà è anche più chiara se si tiene conto di un altro aspetto che di solito viene sottostimato, vale a dire che a individuare determinati stati emotivi non sono propriamente fatti particolari e irriducibilmente singola-ri, quanto piuttosto istanziazioni di tipi di fatti o di oggetti. L�’appraisal, in altri termini, deve avere di mira certe configurazioni formali e categoriali di proprietà generali, il che esclude, a rigore, che sia possibile «rispondere emotivamente alle cose prima di averle classificate o valutate cognitiva-mente» (Robinson 2005: 183). Ove pure si postulasse una valutazione emotiva antecedente (ché altrimenti non si potrebbe comunque parlare di �“risposta�”), la distinzione sarebbe sostanzialmente ridondante, dal momen-to che o questa pre-classificazione risulta coerente e uniforme con la suc-cessiva classificazione cognitiva, e dunque obbedisce agli stessi vincoli pur essendo molto meno informativa, oppure viene da questa �“cancellata�” e resta semplicemente ignota al soggetto20. Persino l�’aestimativa naturalis della pecora, nell�’esempio tomista, che riconosce questa erba come com-mestibile prima che come erba, deve poi riconoscere come cibo ogni oc-correnza dello stesso tipo di erba, se non vuole morire di fame21.

hold between the concept of shame, as grasped by this person with these sensibi-lities (this Bildung), and the conceptualised state of affairs, as taken by (as bears down on) this person, such that the latter is correctly taken to be a shame scena-rio?» (Hutchinson 2008: 137, corsivi miei).

20 Secondo la Robinson, che contesta la posizione di Carroll (1997), «Our affective appraisals are what alert us to what�’s going on before cognition kicks in» e dun-que «we do not actually subsume it under a category until after our attention has been fixed upon it» (ibid.), il che pare abbastanza implausibile, perché non può es-serci alcuna �“appraisal�”, neppure affettiva, se prima non si mette a fuoco qualche oggetto da valutare, altrimenti, come abbiamo già accennato, la saturazione valu-tativa di uno scenario percettivo indiscriminato sarebbe continuamente contrad-dittoria, prima ancora che inutile e ingestibile. D�’altra parte, se queste valutazioni �“iniziali�” sono di �“grana grossa�” rispetto a quelle cognitive, non si vede bene come possano sollecitare emozioni qualificate: quale sarebbe, ad esempio, la �“af-fective appraisal�” che anticipa una valutazione più �“fine-grained�” del tipo «Que-sta è un�’eroina sofferente» (Ibidem)? Questa è una donna? Questa è un ente che soffre? Questa è una sofferenza? Come si vede, una valutazione più grossier fini-sce per implicare paradossalmente concetti più generali.

21 Il che vale, ovviamente e a maggior ragione, per l�’aestimativa dell�’uomo. Se è vero, come suggerito da LeDoux (1996: 69), che «it is, indeed, possible for your brain to know that something is good or bad before it knows exactly what it is» (corsivo mio), è anche vero che tale valutazione ha lo stesso carattere di generali-tà e lo stesso orientamento di una più razionale valutazione cognitiva: posso man-dare giù qualcosa che trovo piacevole (e giudico tale coscientemente) senza sape-re che roba è, e continuare a farlo con piena consapevolezza intenzionale anche continuando a non sapere molto sulla natura della sostanza, e persino dopo aver

140 Sensibilia 5 - La vergogna/ The shame

Se, d�’altra parte, non si ammettesse un certo grado di generalità catego-riale anche nelle nostre percezioni estetiche saremmo condannati a prova-re un�’infinità di emozioni diverse e tutte assolutamente inconfrontabili, né potremmo mai fare ipotesi o previsioni su quali circostanze tipiche possa-no suscitare in noi o negli altri certe specifiche emozioni, cose che invece facciamo regolarmente e che rappresentano il vantaggio funzionale (o adattativo) di tali interazioni comportamentali. A farmi provare vergogna possono essere cose materialmente molto diverse �– una parola, uno sguar-do, un gesto, una presenza o anche solo un pensiero �– così come uno stes-so gesto o uno stesso sguardo, materialmente identici, possono sortire ef-fetti emotivi assai differenti, se a cambiare è la struttura formale dell�’oggetto intenzionale.

È chiaro, inoltre, come in casi del genere le valutazioni categoriali deb-bano essere supportate da credenze e concetti che abbiano appunto una struttura formale, se non la si vuole chiamare universale, da cui deriva an-che la loro forza normativa. Se infatti deve essere possibile distinguere tra un comportamento emotivo appropriato e plausibile e un comportamento abnorme o assurdo, anche un �“reason-giving cognitivism�” più soggettivi-stico e meno logicamente esigente �– sul genere di quello proposto da Ga-briele Taylor (1985) �– dovrà fare appello a ragioni cui il soggetto, sia pure dal proprio punto di vista particolare, tenda ad attribuire una validità gene-rale e intersoggettiva, in forza del tacito assunto che gli altri soggetti sono simili a lui e che i fatti della realtà sono equiaccessibili22. Ciò non implica

scoperto che la sostanza stessa, alla lunga, sarà nociva. È invece implausibile sup-porre che una classificazione cognitiva più elaborata possa cambiare la percezio-ne estetica del sapore della cosa (buono o cattivo), anche laddove dovesse convin-cermi a non assumerla per altri motivi.

22 In questo senso, la differenza della posizione della Taylor rispetto al �“cognitivismo oggettivistico�” di Davidson (1976) sembra meno radicale di quanto l�’autrice dichia-ri. Se è vero che «The appeal is no longer to the wholly rational being; it is to the ad-mittedly far less neat and precise notion of what it would be human and natural for a person to feel under certain circumstances, given that person�’s relevant other be-liefs and attitudes» (Taylor 1985: 14), allora «ciò che sarebbe umano e naturale sen-tire in certe circostanze» deve avere una valenza universale, più ancora che genera-le. L�’esempio tratto da James Joyce (The Dead) e utilizzato da Taylor (ivi: 9-11) contro il procedimento sillogistico di Davidson non dimostra molto. Se il caso de-scritto da Joyce �– la vergogna provata da Gabriel di fronte al comportamento della moglie Gretta �– può essere usato come argomento, allora deve essere verosimile è plausibile anche per noi che non siamo Gabriel, e le sue �“ragioni�” devono poter es-sere condivise anche dal nostro punto di vista e senza conoscere il suo intero vissu-to. Queste ragioni possono essere universalizzabili (in modo meno caricaturale di quanto ipotizzi Taylor) senza che ne discenda un vincolo fattualmente necessitante

M. Di Monte - La vergogna dell�’estetica 141

che ogni soggetto proverà invariabilmente e senza eccezioni quella stessa emozione ogniqualvolta si determinino certe premesse e certe inferenze deduttive, come farebbe pensare un cognitivismo �“sillogistico�” troppo meccanicamente inteso, così come il fatto che i miei giudizi estetici dipen-dano normativamente dalle proprietà reali delle cose non implica affatto che si possano prescrivere �“ricette�” precise per suscitare necessariamente reazioni estetiche identiche in tutti i soggetti possibili. Come era già chiaro a Tommaso d�’Aquino: «intensio delectationis potest provenire ex duobus; scilicet ex causa delectationis quae est fortior, et ex dispositione delectati quae est delectationis capacior» (In IV Sententiarum, Dist. 49, q. 3, a. 5). Ma se, in ogni caso, una qualche misura di prevedibilità e omogeneità non fosse possibile, come abbiamo già osservato, non sarebbe possibile neppu-re produrre opere che siano intese a suscitare certi tipi di emozione, non sa-rebbe inappropriato sganasciarsi dalle risate assistendo a un�’autentica tra-gedia teatrale e non sarebbe corretto provare vergogna o umiliazione se la propria opera teatrale tragica ha invece, inopinatamente, fatto ridere tutti.

5. Vergogna e imbarazzo (della scelta) Che ci siano di fatto comportamenti e reazioni apparentemente devianti

o inesplicabili non ci autorizza a concludere che non vi siano �“tipi norma-tivi�” di emozione, anzi è proprio in forza di questi ultimi che possiamo par-lare di devianza o inesplicabilità. Né questo esclude che si possano prova-re sentimenti misti, sfumati o liminari, difficili da definire quanto si vuole. Proprio il caso della vergogna è a questo proposito paradigmatico. Non per nulla si è a lungo discusso, e si continua a discutere, se il sentimento di ver-gogna debba distinguersi, da una parte, da un più grave senso di colpa e, dall�’altra, da un più innocuo e transitorio senso di imbarazzo o di disagio, e se, di conseguenza, la vergogna stessa debba considerarsi un sentimento morale o piuttosto un sentimento sociale. Indubbiamente, un tentativo di definizione rigida in termini di �“basic emotions�” si scontra con l�’evidenza di un vissuto che spesso appare al soggetto assai più cangiante e frastaglia-

per la risposta emotiva. Il fatto che il protagonista, o un altro per lui, avrebbe potu-to reagire anche in altri modi non tocca minimamente l�’argomento di Davidson. D�’altra parte, in mancanza di ragioni condivisibili, potremmo tranquillamente con-cludere che la vergogna descritta da Joyce non sia verosimile o rappresenti in modo verosimile una risposta impropria o assurda, vale a dire proprio ciò che non �“sareb-be umano e naturale sentire�” in quelle circostanze.

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to di quanto il lessico ordinario di una psicologia ingenua sia in grado di differenziare coerentemente. Anche questa osservazione, tuttavia, non mi-lita direttamente a favore di una teoria �“estetica�” delle emozioni radical-mente epurata da fattori cognitivi determinanti. Infatti, l�’incapacità di dare un nome preciso allo stato emotivo in cui ci troviamo in un certo momen-to, così come la possibile incertezza nella scelta tra i nomi a disposizione, indica semmai un problema di deficienza o di incompetenza linguistiche e non un limite degli approcci cognitivi. Né fare appello alla spontaneità o a un inconscio corporeo costituisce in questo caso un vantaggio esplicativo. Si può essere perfettamente consapevoli di cogliere percettivamente una particolare sfumatura di colore, e di averla già colta in passato, senza esse-re capaci di darle un nome altrettanto preciso. Se per spiegare l�’efficacia valutativa delle reazioni emotive si postula che queste sono sostanzialmen-te automatiche e pre-cognitive, allora dovremmo sempre aspettarci risposte molto nettamente demarcate, o comunque poco sfumate e poco confuse. Se esistesse qualcosa come un �“modulo reattivo�” della vergogna, la cui fun-zione fosse quella di rilevare stimoli di un certo tipo, la sua soglia di attiva-zione dovrebbe essere appunto automatica: o lo stimolo viene recepito come vergognoso, e dunque mette capo all�’emozione corrispondente, op-pure no, e la cosa, eventualmente, non arriva neppure alla soglia di coscien-za. Non dovrebbe restare molto spazio per valutazioni incerte, alternative, controfattuali, contestuali o simili, giacché in tal caso l�’automatismo stes-so non servirebbe a gran che23.

Se però, come già scriveva Pocaterra, «non è in mano di chi che sia lo spronare o il frenare questi empiti primieri» e, nondimeno, si deve pure ammettere una connessione nomologica regolativa tra stimolo e risposta

23 Recentemente, Ruwen Ogien (2006) ha proposto di integrare una tesi �“modulare debole�” con una tesi �“concettualista�”, che tenga conto della ricchezza e della va-riabilità delle credenze in gioco nell�’esperienza della vergogna. Il modulo della vergogna andrebbe inteso non nel senso forte, e più corrente, di Fodor, ma in quel-lo più aperto di Pinker, come un «sottosistema funzionalmente specializzato» ma non rigidamente incapsulato in termini informativi (Ogien 2006: 246), qualcosa di analogo a ciò che è stato chiamato �“cheater-detection module�”. A parte le riserve sull�’effettiva esistenza di questo tipo di strutture (per una critica severa, vedi Fo-dor 2000), ammettendo che la «specificità del dominio» (ivi: 233) di una certa gamma di stimoli (diciamo tutte le situazioni vergognose) sia riconoscibile grazie a inferenze e deduzioni concettuali di ordine cognitivo superiore, non si vede bene quale sarebbe il vantaggio di postulare un simile �“modulo�” non modulare, a meno di voler postulare anche, in una vena non realista, che la specificità sia �“prodotta�” dallo stesso modulo cognitivo. Ma quest�’ultima mossa, cui Ogien non sembra al-ludere, finirebbe nella fallacia prospettivista che abbiamo già discusso.

M. Di Monte - La vergogna dell�’estetica 143

che consenta una qualche «covering-law explanation» (Elster 1999: 251), come spiegare i fenomeni di contaminazione, sovrapposizione o persino, apparentemente, di contraddizione? A non voler essere jamesiani rigoristi, si potrà concedere che in alcuni casi si diano coincidenze materiali di ma-nifestazioni puramente epifenomeniche, come potrebbero essere, poniamo, l�’arrossire per l�’ira e l�’arrossire per la vergogna. Ma, come abbiamo accen-nato, non ci sono solo casi del genere. Tra il rossore dell�’imbarazzo e quel-lo della vergogna ci sono affinità più profonde e qui una certa interscam-biabilità linguistica attesta, più che determinare, una contiguità fenomenologica direttamente sperimentabile24. Eppure, nelle due situazio-ni, gli oggetti formali potrebbero essere addirittura opposti: la lode scoper-ta e il biasimo manifesto. Perché la reazione dovrebbe essere anche solo minimamente simile? Se la cosa dipendesse semplicemente da «un mecca-nismo connaturato di rilevamento [�…] che registra in termini corporei» (Robinson 2005: 91), a trovarsi in imbarazzo dovrebbe essere proprio il �“detecting mechanism�”: se qualcosa viene rilevato come un complimento, non potrà valere né come biasimo né come offesa né come altro. Allora perché un complimento, in quanto tale, dovrebbe far arrossire? Forse ci sono moduli di rilevamento di grana fine che distinguono i complimenti imbarazzanti da quelli non imbarazzanti. Ma, appunto, che cos�’è che fa la differenza?

È vero che l�’imbarazzo provocato dal pudore, e le sue manifestazioni corporee, sono reazioni spontanee e incontrollabili �– persino quando ci convincessimo, in certi casi, a considerare la verecondia un inutile �“difet-to�”, come raccomandava Quintiliano nell�’Institutio oratoria (XII, V, 2-4). Ma da qui non discende che si possa parlare di risposta �“automatica�” o, peggio, �“subliminale�”, come molti autori ritengono in una vena darwinia-na. Se faccio pubblicamente un apprezzamento esplicito e inatteso sui trat-ti fisici di una ragazza tendenzialmente timida è probabile che susciti in lei un involontario senso di imbarazzo, se non di vergogna, magari associato alla tipica reazione di rossore. Le cose, però, potrebbero andare anche mol-to diversamente, e non solo per un errore di valutazione. Se la ragazza stes-sa non riconoscesse quelle parole in quanto complimento effettivamente

24 Alcuni autori (ad esempio Lewis 1992: 109-110) sembrano propensi a distin-guere l�’imbarazzo e la vergogna solo in termini di intensità dell�’emozione, ben-ché non sia molto chiaro come fissare e misurare il grado di intensità oltre il quale un�’emozione si trasformerebbe nell�’altra, così come è difficile stabilire quando uno standard sia abbastanza «meno importante e meno centrale» così che la sua violazione dia «luogo non tanto a vergogna quanto a imbarazzo» (Lewis 1992: 109).

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lusinghiero (magari giudicandole volgari), o le scambiasse per una battuta ironica o un modo di dire convenzionale, ne sarebbe certo meno toccata, o comunque diversamente. Ma quando pure il complimento venisse corretta-mente percepito per quello che è, le variabili contestuali potrebbero ancora fare la differenza, sicché quelle identiche parole, pronunciate con identico spirito, ma in un momento di intimità, o persino in pubblico, ma eventual-mente in risposta a un�’implicita aspettativa �– poniamo in un concorso di bellezza �– potrebbero non provocare alcun imbarazzo e addirittura suscita-re una reazione opposta. In un caso del genere non avrebbe molto senso suggerire che il cervello decide che una parola è imbarazzante prima di de-cidere che tipo di parola è. Anche qui, il soggetto deve poter operare distin-zioni tra oggetti esteticamente simili, se non indiscernibili, e per tale gene-re di decisioni una sensibilità subliminale puramente �“estetica�” non è sufficiente.

Per spiegare la contiguità di stati emotivi peraltro molto diversi, come appunto la vergogna e l�’imbarazzo o la vergogna negativa e quella �“positi-va�” �– come pure la si è definita (Heller 2003: 1027) �– alcuni autori hanno cercato di individuare delle condizioni minimali comuni, che spesso, tutta-via, finiscono per somigliare a ciò che gli etologi, sulla scorta di Lorenz, chiamano �“meccanismi di scatenamento�”, innati o variamente acquisiti, con la conseguenza che simili definizioni risultano alla fine o troppo inclu-sive o troppo esclusive. Alcuni tratti formali possono essere induttivamen-te riconoscibili come prototipici, ma irrigidirne in modo troppo schematico il contenuto è esplicativamente poco utile. Ad esempio, l�’esposizione pub-blica allo sguardo, al giudizio, alla disapprovazione altrui, tanto più quan-do questi altri rappresentino un �“gruppo d�’onore�” (cfr. Taylor 1985), non-ché l�’acuta consapevolezza della propria inadeguatezza rispetto a certe norme, sono tutti elementi che definiscono classicamente il contesto della vergogna. Tuttavia, lo abbiamo osservato, su questo schema possono poi darsi diverse varianti: non sempre è questione di disapprovazione; ci si può vergognare di ciò di cui non si è responsabili, come delle proprie fattezze, dei propri parenti o dei propri avi; si può provare una vergogna �“vicaria�” per ciò che gli altri fanno; lo sguardo altrui può essere anche solo pensato �– come ricordava giustamente Bernard Williams (1993) �– e anche il giudi-zio di un pubblico poco autorevole può essere rilevante, ove sia intima-mente condiviso. In effetti, non è così difficile immaginare situazioni in cui persino alcuni degli elementi considerati canonici manchino del tutto: un attore sulla scena, ad esempio, che fosse palesemente ignorato con annoia-ta indifferenza dai suoi spettatori, potrebbe provare un grave imbarazzo e vergognarsi della sua prestazione proprio perché non ha ricevuto abbastan-

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za attenzione, e nonostante reputi i suoi giudici degli incompetenti. Non tanto, dunque, «il puro e semplice fatto di trovarsi esposti agli occhi degli altri» (Lewis 1992: 109), quanto il fatto di non essere esposti nel momento giusto e nel modo giusto.

Si può forse dire, più semplicemente e benché possa apparire generico, che il luogo focale della vergogna sembra concentrarsi nell�’autocoscienza dello scarto tra la propria posizione reale e quella suggerita da una norma ritenuta vincolante25. Ma in una prospettiva realista una simile genericità non fa problema, come non è problematico che si possano provare senti-menti sfumati o difficilmente catalogabili senza residui nei termini di un lessico dato. Così come l�’allocazione attenzionale può massimizzare diver-se proprietà di un particolare stato di cose, si possono anche massimizzare le stesse proprietà in stati di cose diversi, quando pure si trattasse di un nu-cleo assai ristretto. Probabilmente le condizioni minime che accomunano emozioni che distinguiamo linguisticamente come imbarazzo, vergogna, umiliazione e senso di colpa potrebbero ridursi alla consapevolezza di tro-varsi involontariamente al centro di una situazione sconveniente e disdice-vole, rispetto a certi standard normali o ideali, che non consenta immedia-te manovre evasive e per la quale non si disponga di giustificazioni a portata di mano. Forse è poco, ma è quel poco che ci consente di essere adeguatamente sensibili alla variabilità talvolta sottile delle circostanze, se per sensibilità intendiamo qui la capacità di esercitare una subtilitas appli-candi, per così dire, in grado di cogliere il senso proprio della norma in modo non meccanico o letterale e dunque anche nelle contingenze acciden-tali delle situazioni meno prevedibili. Se poi questa variabilità non è sem-pre facile da denominare, poco male. D�’altra parte, sono le emozioni che devono rispondere alla complessità del reale, non il contrario.

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25 Un�’analoga proposta di definizione abbastanza asciutta è quella di Lewis (1992: 45): «L�’attenzione focalizzata su di sé e sul proprio fallimento valutato come tale». L�’accento del discorso di Lewis tende comunque a privilegiare il tema del comportamento attivo, dell�’azione che «devo già in partenza confrontare [�…] con un modello o una norma, non importa se propria o altrui» (40). Penso però, per i motivi che si son detti, che sia preferibile parlare di �“posizione�”, più che solo di �“azione�”, rispetto alla norma.

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