La teologia politica vichiana. La figura della divinazione nella teologia civile della Scienza Nuova

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Razionalità e modernità in Vico

A cura di Marco Vanzulli

Milano: Mimesis

2012

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La teologia politica vichiana. La figura della divinazione nella teologia civile

della Scienza Nuova

Una figura della Scienza Nuova

Questo saggio si propone di indagare l’idea di «teologia politica» in Vico a partire da

una duplice ipotesi. La prima è che attraverso la sua teologia politica Vico presenta

una soluzione al problema filosofico politico della fondazione dell’ordine diversa da

quella moderna-giusnaturalistica e contrattualistica1. La seconda ipotesi è che la

figura della divinazione rappresenta l’elemento che meglio permette di esprimere il

crinale di tale diversità.

La riflessione sulla teologia politica, indicata da Vico con l’espressione latina di

teologia civile, è considerata esplicitamente da Vico come elemento costitutivo della

propria scienza: «La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che

principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per tal aspetto, vien ad

essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina»2.

La divinazione è invece un elemento che compare in maniera meno

programmatica, ma non per questo meno pregnante. Sono due gli elementi che ne

1Il dibattito sui rapporti fra forma politica moderna e teologia è al centro della riflessione politica almeno dal saggio diCarl Schmitt «teologia politica» che si apre con la celebre e icastica affermazione che «tutti i concetti più pregnantidella moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati». C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitelzur Lehre von der Souveränität, München - Leipzig, 1922. tr. it. di P. Schiera Teologia politica in Le categorie delpolitico, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 61. Inoltre dello stesso C. Schmitt, Politische Theologie 2: die Legende von derErledigung jeder Politischen Theologie Berlin, Duncker & Humblot, 1970. In polemica con Schmitt è interessante H.Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit. Frankfurt am Mein, Suhrkamp, 1966, tr. it. Di C. Marelli, Genova, Marietti,1992. Una mappa del dibattito, incluse le riflessioni degli ultimi decenni, è M. Scattola, Teologia politica, Bologna, ilMulino, 2007.2 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, par. 2. La forma «teologia civile» è una espressione latina theologia civilis equivalente al greco theologia politikè M. Scattola, Teologia politica, Bologna, il Mulino, 2007, p. 13.

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indicano esplicitamente l’importanza: il primo è la separazione fra ebrei e gentili: «La

religion ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione, sulla quale

sursero tutte le nazioni gentili»3; la seconda è la divinazione come scienza del bene e

del male, «‘scienza del bene e del male’, la qual poi fu detta ‘divinazione’»4.

Cercheremo di dimostrare che l’importanza della divinazione che traspare da questi

due passaggi non è occasionale, ma è invece essenziale per mostrare la peculiarità

della soluzione vichiana al problema della fondazione dell’ordine politico.

Cominciamo cercando, analizzando attentamente il testo vichiano, di comprendere

cosa intende Vico per divinazione e quale sia la sua rilevanza. La divinazione è posta

da Vico al fondamento delle prime comunità umane. È il primo atto sociale umano,

l’atto attraverso cui l’uomo dà significato al mondo, attribuendo la qualifica di

divinità al cielo, sancendo la nascita della religione, che presso i gentili è

indistinguibile dalla divinazione: «La divinazione, dalla qual appo i gentili tutti

incominciarono le prime divine cose»5. La religione ha una funzione centrale nel

pensiero di Vico. Essa permette, grazie al timore che l’idea di divinità incute, di

reprimere gli istinti antisociali dei primi uomini. L’atto iniziale dell’uomo come

essere sociale è la sottomissione ad una percepita forza superiore. È questa

percezione a spingere gli uomini a cercare rifugio nella grotta e a proteggere,

all’interno delle grotte stesse, la discrezione dei rapporti sessuali6.

La religione è anche una «legittimazione» del comando. Il comando dei padri delle

3 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 167.4 Ivi, par. 3655 Ivi, par. 96 Il cuore dell’argomentazione vichiana è esposta nelle degnità XXX e XXXI. (Ivi, parr. 175-179).

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prime famiglie, il primo nucleo della socialità, è il comandare «ciò che credevan

volesser gli dèi con gli auspìci»7. La religione dunque è un meccanismo ermeneutico

di interpretazione dei segni, un’attività sacra, da cui discendono i principi di autorità e

la decisione sulla giustizia all’interno dei gruppi sociali8. È qui che nasce la

fondamentale figura del «poeta-teologo» ossia colui il quale è capace di comprendere

il linguaggio degli dei, avendo quindi la facoltà di divinare ossia di «indovinare» o

«predire»9. La qualifica di «poeta» è estremamente importante perché mette in

rilievo l’importanza che per Vico riveste l’atto del creare, che in riferimento ai poeti

teologi significa fondare le nazioni e la socialità10. La divinazione si presenta anche

come «scienza» che nasce nel momento del gesto seminale dei poeti teologi di

«interpretare» il volere divino e creare forme di legame sociale.

Possedere la scienza della divinazione consente ai padri di essere veri e propri

«fondatori di nazioni», considerati giusti per «la creduta pietà di osservare gli

auspici»11. I padri-poeti-teologi erano dunque anche i depositari della giustizia, intesa

come conformità ad un ordine immaginato divino. In questo modo la divinazione

diventa regolazione dell’agire pratico nel futuro, impregnando l’intero ethos dei primi

gruppi e ponendosi come sistema di regolamentazione etico-politico. La divinazione

è il primo atto sociale perché è la prima forma di regolamentazione e disciplina della

società stessa.

7 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 258 Vedi anche G. Carillo, Vico: origine e genealogia dell’ordine, Napoli, Editoriale scientifica, 2000, p. 247.9 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 381.10 L’etimo greco della parola «poeti» è ricordato da Vico stesso: «onde furon detti ‘poeti’, che lo stesso in greco suona che ‘criatori’» (Ivi, par. 376). Che gli uomini siano creatori delle «nazioni» lo ricorda il passo forse più citato dell’intera opera vichiana: «Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini» (Ivi, par. 331).11 Ivi, par. 14

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Il rapporto fra teologia politica e divinazione è ancora più stretto in riferimento

all’età eroica, che ha origine con l ‘incontro fra le famiglie, appena descritte, e i

famoli, discendenti degli uomini non riuniti in famiglie e rimasti nelle selve, incontro

che dà origine alle città. La divinazione è anche qui fondamento dell’ordine sociale.

Lo scarto è che essa si presenta anche come fondazione di un ordinamento

propriamente giuridico, ossia esterno ai legami familiari, che non è puro dominio ma

creazione di un ordine rituale-politico12.

Gli eroi, discendenti dei primi poeti teologi, mantenevano un rapporto privilegiato

con la divinità basato su una supposta derivazione genetica, che segnava non solo una

diversità di status, ma una vera e propria diversità di natura fra eroi e famoli13. Il

rapporto privilegiato degli eroi con la divinità diventava rapporto giuridico reale,

proprio in virtù del monopolio che essi avevano della scienza e dell’amministrazione

delle cose divine.

Il fondamento dell’ordine sta nella decisione politica espressa attraverso l’atto di

interpretare il volere degli dei. Non sono né la morale né la metafisica a fondare le

nazioni, ma la politica14. Ciò si vede chiaramente anche dalla dicotomia che Vico

immagina alla base della fondazione delle nazioni: da una parte i pii-forti, dall’altro

gli empi-vagabondi-deboli15. La divinazione è ciò che permette il passaggio dalla

forza alla morale e quindi la fondazione delle nazioni. La divinazione è dunque la

figura fondamentale della sapienza poetica, perché per suo tramite viene creata una

12 Ivi, par. 646ss.13 Ivi, par. 15.14 Ivi, par. 721.15 Ivi, par. 18.

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modalità di convivenza, un ordine, con un apparato di norme, regole, punizioni delle

trasgressioni. Qui è evidente l’indistinzione quasi perfetta fra teologia e politica16.

Non si tratta però solo di mostrare l’indistinguibilità fra il legislatore e il teologo, ma

anche l’impossibilità di disgiungere la capacità umana di creare un ordine politico e

morale dalla capacità mitologico-immaginativa che nella prima fase vengono da Vico

ricondotte alla religione17. La divinazione è comando basato su una volontà divina ma

è anche, e direi soprattutto, scienza del bene e del male. La possibilità di dire il giusto

è indistinguibile da una superiore forza materiale, ma non è ad esso riconducibile.

Qui sta anche la peculiarità della maniera vichiana di affrontare la ritualità delle

prime nazioni ma anche la ritualità della politica nella sua dimensione di lotta. Per

Vico, nonostante l’enorme rilevanza del conflitto nella politica, non è possibile

immaginare la lotta politica come pura e semplice «presa del potere» ma è sempre

lotta per i significati etici e simbolici. Tutta la lotta politica a cui Vico si riferisce

ruota intorno alla gestione rituale dei diritti, proprietà della terra, possibilità di

trasmissione della proprietà attraverso matrimoni solenni. Vico non dà una lettura di

questi conflitti in termini esclusivamente materiali o in termini di ampliamento dei

diritti, ma vi conferisce un carattere molto più profondo perché si propongono di

sanare l’ingiusta situazione subita da una parte, i famoli, ritenuta erroneamente di

inferiore natura. La lotta dei famoli ha un carattere certamente politico nel suo

svolgimento ma etico nella sua fondazione. Il problema essenziale della lotta è

16 Vedi F. Botturi, La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, Milano, Vita e pensiero, 1990, p.178. 17 Sul legame politica, poesia, religione, diritto alcune considerazioni, che forse enfatizzano eccessivamente l’elementotrascendente della provvidenza, vedi M. Olender, Ce que le politique doit au poétique in Y. Bonnefoy (éd.), Laconscience de soi de la poésie, Paris, Seuil, 2008, pp. 135-153.

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l’affermazione dell’uguaglianza naturale che passa per l’abbattimento della struttura

rituale eroica sottesa all’ordinamento politico.

La lotta dei famoli e il divinari

A questo punto si pone un problema cruciale ossia come avviene l’abbattimento della

struttura rituale eroica e se ad esso corrisponda l’abbandono della divinazione e delle

facoltà politiche e poetiche che rappresenta.

Mettere in discussione l’ordine basato sulla divinazione significa contestare la

giustezza dell’ordine politico, ed è questo il presupposto della lotta dei famoli e dello

stesso cambiamento storico. In un primo momento è considerato giusto il regime di

dominio basato sulla capacità dei poeti teologi di «interpretare» la volontà della

divinità, poi è considerato giusto l’ordine basato su una supposta diversità di natura

fra eroi, di stirpe divina, e famoli, infine, quello basato sul riconoscimento

dell’uguale natura degli uomini18. Cosa accade quando le lotte per l’uguaglianza

fanno cadere l’illusione di una natura superiore? Qui sta il problema essenziale,

perché è il problema che la modernità risolve su basi razionali e utilitaristiche,

affermando l’uguaglianza formale dell’umanità. Come vedremo meglio in seguito,

Vico scrive la propria scienza in larga misura contro questo esito «empio». Come

dicevo, la mia tesi è che la figura della divinazione sia la chiave per comprendere la

18 È importante sottolineare che non è questa la descrizione di una progressione teleologica o assiologica, masemplicemente l’enunciazione di differenti possibilità la cui attuazione dipende dalle concrete relazioni simboliche e dipotere all’interno dei gruppi sociali. In altre parole il “prima” e il “poi” sono da considerare esiti sempre possibili.

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soluzione vichiana, anche se Vico non usa il termine in riferimento alla fase umana19.

Essa è, tuttavia, essenziale perché rappresenta ciò che si potrebbe chiamare

«eccedenza etico-creativa-futurologica» che mantiene intatta la sua natura

«divinatoria». La sua funzione politico-etica non si esaurisce completamente con la

crisi e la fine dell’ordine eroico. La lotta politica conserva l’impronta del momento

divinatorio iniziale della socialità, che rappresenta un’eccedenza rispetto allo

sviluppo della ragione. In fondo, tutta la scienza di Vico è un tentativo di rendere

conto di quella eccedenza, e della sua forte matrice arazionale, sia nel momento della

nascita sia nel momento della conservazione della nazione20. Non viene meno la

necessità di proporre una diversa articolazione sociale, né ciò avviene attraverso un

processo di autochiarificazione razionale. È essenziale capire il punto. Attraverso il

nesso divinazione-teologia politica Vico non individua il fondamento della politica

nella religione positiva, né implica la necessità di una religione civile alla Machiavelli

o alla Rousseau, né potrebbe mai seguire Hobbes nell’elaborazione di un minimo

«teologico» di fede, «Jesus is the Christ», oltre il quale la religione diventa

irrilevante, né condividere l’idea dell’elaborazione di un qualche tipo di religione

universale. L’appello vichiano ad una dimensione religiosa indica la necessità della

presenza di un tipo di sapienza che sappia porsi i problemi politici ed etici, primo fra

tutti quello della giustezza dell’ordine politico. Tale necessità è implicata nell’idea

19 Che Vico non possa usare il termine divinazione nella fase umana è, d’altronde, comprensibile, dato che avrebbe significato affermare l’equivalenza funzionale fra la religione cristiana e tutte le altre.20 È il caso di sottolineare che sostenere la presenza di elementi «arazionali» nel pensiero di Vico non significa fare diVico un irrazionalista né si tratta di sostenere la superiorità del momento non-razionale. Si tratta di sottolineare lapresenza di ambiti in cui la razionalità non entra. SI può sostenere che in Vico ci sia una forte coscienza dei limiti dellaragione, accompagnata però, dall’idea che su questi limiti si possa ragionare, attraverso un diverso tipo di logica e,naturalmente, una nuova scienza.

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che non sia possibile, come vedremo meglio nelle prossime pagine, una fondazione

puramente razionale della politica21.

Dobbiamo però prima cercare di capire, da un punto di vista filologico e letterale,

se è possibile individuare lo spazio per la divinazione nell’azione dei famoli e nella

fase umana. Il primo elemento da notare è che Vico rileva come i famoli non avessero

accesso alla divinazione ma solo «auspici minori» o «privati»22. Devono quindi, da

un lato, rovesciare la religione degli eroi, dall’altro creare un altro tipo pensiero che

possa mettere in discussione l’ordine stabilito dagli auspici eroici. L’esito di questo

processo è lo sviluppo di un pensiero politico «fantastico», che si esprime attraverso

una serie di figure mitologiche. Vico pensa ad un vero e proprio conflitto fra la

sapienza dei primi teologi e le mitologie dei famoli, individuando alcuni caratteri che

lottano contro Apollo, «dio della divinità o sia della scienza della divinazione, ossia

scienza d ‘auspici’», a simboleggiare la volontà dei plebei di essere messi a parte

degli auspici23. Da notare che le sfide ad Apollo avvengono nel canto, ossia sostiene

Vico, «di quel ‘canere’ o ‘cantare’ che significa ‘predire’»24. Un’altra figura

centrale è quella di Anteo, simbolo dei famoli, che viene sconfitto da Ercole, che

simboleggia gli eroi fondatori di nazioni25. Un altro elemento fondamentale da tener

presente è il canone mitologico del «carattere doppio»26. Alcune divinità, Vico si21 Alcuni elementi interessanti sulla «religiosità» di Vico sono, nonostante sia un testo datato, in A. Corsano,Umanesimo e Religione in G. B. Vico, Bari, Laterza, 1935, p. 172. Degna di nota è l’idea che siano tre gli elementi chedistinguono il pensiero religioso di Vico da quello dei suoi contemporanei: l’accettazione franca del dogma della caduta,la fondazione religiosa della politica, l’idea di una religione volgare e popolare. Tale elementi sono contigui a treelementi individuati anche in questo testo: l’idea di un uomo da solo di fronte alla necessità della creazione di un ordine,una fondazione non razionalistica della politica, una religiosità spiccatamente antropologica. 22 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 568.23 Ivi, par. 647.24 Ivi, par. 646.25 Ivi, par. 618.26 Ivi, parr. 579-581.

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riferisce in particolare a Vulcano, Marte e Venere hanno la singolare proprietà di

significare tanto gli eroi quanto i famoli: «Le quali favole, ovvero caratteri doppi,

devon essere stati necessari nello stato eroico, ch’i plebei non avevano nomi e

portavano i nomi de’ loro eroi»27.

L’elaborazione di figure «contro-eroiche», quali quella di Anteo, ha nel contesto

della lotta dei famoli la funzione di permettere la comprensione poetica della propria

condizione, creando nel contempo la possibilità di una universalizzazione di tale

comprensione che è legata alla rifigurazione del passato, anche e soprattutto mitico, e

alla prospettiva di azione nel futuro. È vero che tutte le figure che abbiamo citato

sono figure di una sconfitta dai famoli. Tuttavia esse mostrano che il carattere di

sottomissione è dovuto alla sconfitta nella lotta e non ad una reale diversità di natura.

Per questo la narrazione eroica si presta ad essere utilizzata dagli stessi famoli per la

creazione di una identità di gruppo e come apertura di una possibilità di azione.

La figura cruciale è quella di Solone28. La lotta della plebe ateniese avviene in

primo luogo contro la sapienza degli auspici degli eroi, che rende i plebei di origine

bestiale, e conseguentemente priva dei diritti di cittadini. Solone è quindi un uomo di

sapienza volgare (termine che a maggior ragione qui è da considerare nel suo

significato etimologico) ma anche un capoparte di plebe che «avesse ammonito i

plebei ch’essi riflettessero a se medesimi e riconoscessero essere d ‘ugual natura

umana co’ nobili, e ‘n conseguenza che dovevan esser con quelli uguagliati in civil

27 Ivi, par. 581.28 Ivi, parr. 414-416.

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diritto»29. Questo «riflettere a se medesimi» esprime l’esigenza di «prendere

coscienza» della propria condizione, e di agire per migliorare le condizioni di vita.

Nello stesso paragrafo c’è un’altra considerazione decisiva: «Se non, pure, tal Solone

furono essi plebei ateniesi, per questo aspetto considerati»30. Non ci interessa qui

sapere se, e in che misura, Vico ritenesse Solone personaggio storico realmente

esistito o no. Ci interessa mostrare che a livello politico la sua importanza è di essere

un universale fantastico equivalente agli auspici ma invertito di segno.

Le narrazioni mitopoietiche, allora, rispondono perfettamente a due funzioni

essenziali della divinazione, cioè la «gestione» della coscienza e la prefigurazione

dell’azione nel futuro. Vico stesso effettua il collegamento fra queste dimensioni e la

divinazione: «La provvedenza fu appellata ‘divinità’ da ‘divinari’, ‘indovinare’

ovvero intendere o ‘l nascosto agli uomini ch’è l’avvenire, o ‘l nascosto degli uomini

ch’è la coscienza»31. Ciò chiarisce il senso dell’insistenza di Vico sulla necessità

della vitalità dell’immaginazione e della fantasia. Il futuro non è a disposizione della

razionalità politica, non si può razionalisticamente prevedere il futuro, si può solo

«indovinare»32. Si può, in altre parole, prefigurare un atto, con l’uso della fantasia, se

noi stessi siamo gli autori del futuro, e ne decidiamo la forma. «La narrazione, in

quanto radicata nell’esperienza trascorsa dei padri, ri-figura il passato degli

accadimenti e, in quanto ordina la prospettiva dell’agire, ne pre-figura il futuro»33. È

29 Ivi, par. 414.30 Ibidem.31 Ivi, par. 342.32 Vedi ivi, parr. 62, 342. È presente anche l’espressione «avvisar l’avvenire»: ivi, parr. 9, 475, 477, con il francesismoavvisar per «indovinare».33 F. Botturi, Tempo, linguaggio e azione. Le strutture vichiane della storia ideale eterna, Napoli, Guida, 2001, pp. 25-26.

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cruciale anche verificare come la divinazione in quanto prima scienza, cioè scienza

che fonda la socialità, sia qualcosa che fa appello alla coscienza. La divinazione si

mostra quindi come modalità con cui può essere pensata la politica da un punto di

vista etico34.

È chiaro che, allora, la lotta mitopoietica dei famoli ha tutti i caratteri della

divinazione in quanto atto politico e poetico che riguarda il futuro. È politico perché,

in Vico, la forma dell’ingiustizia è essenzialmente il mancato riconoscimento

dell’uguaglianza naturale, che significa la non partecipazione alla creazione di un

ordine giusto, sia per quanto riguarda i diritti di proprietà, al centro dell’interesse

vichiano, sia per quanto riguarda la partecipazione alla gestione dello Stato35. È

poetico, mitopoietico, perché si esprime attraverso una logica poetica. È una forma di

creazione di mitologie che passa dall’elaborazione della teoria del carattere doppio e

culmina nella figura di Solone, che esorta la moltitudine ateniese a riconoscersi di

uguale natura con i nobili. La narrazione mitica come i rituali che ad esso sono legati,

prima fra tutte la divinazione, articolano quindi la dimensione temporale tanto nel

34 Il termine «etica» non compare nella Scienza Nuova. Vico parla esclusivamente di «morale». Tuttavia, da Hegel inpoi, il termine morale assume un carattere astratto e soggettivistico estraneo a Vico, per cui la «morale» non è maiqualcosa che prescinde dal «senso comune» determinato storicamente. Vedi, su tutte, le degnità XI «L’umano arbitrio,di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d’intorno alle umane necessità outilità, che son i due fonti del diritto naturale delle genti» e XII: «Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione,comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano» G.B. Vico,Scienza Nuova (1744) cit., par. 142. La scelta di usare, in questo intervento, il termine etica non intende prendersi caricodella riflessione hegeliana, ma ha certamente l’intenzione di evidenziare il carattere non astrattamente individualisticodella «morale» di Vico. Il riferimento hegeliano è alla filosofia del diritto, parte seconda «la moralità» e terza«l’eticità». 35 Com’è noto sono due le forme politiche in grado di prendersi carico della uguaglianza naturale dell’uomo lamonarchia e la repubblica popolare: «I terzi sono governi umani, ne’ quali, per l'ugualità di essa intelligente natura, laqual è la propia natura dell'uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle loro città, cosìlibere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze giuste della città, per le quali forze giuste son essi i signoridella libertà popolare; o nelle monarchie, nelle qual’i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essisoli in lor mano tutta la forza dell’armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura». Sull’interesse vichiano i diritti diproprietà e la loro funzione strutturante dei rapporti sociali vedi M. Montanari, Vico e la politica dei moderni, Bari,Palomar, 1995, p. 193.

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passato quanto nel futuro. Riflettere sul processo narrativo interno alla logica poetica

attraverso cui agiscono i famoli, è di enorme importanza perché permette di

comprendere come essa costituisca un principio unificatore del binomio

teologia-politica36. Vico spiazza la dicotomia teologia/politica sottolineando l’origine

comune fra politica e religione, collegando quest’ultima ad una facoltà, quella di

immaginare, che è centrale nell’antropologia vichiana37. La teologia civile vichiana è

dunque lo studio degli elementi che costituiscono la fondazione dello stare insieme. È

importantissimo notare che l’intuizione di Vico è di staccare tale studio da qualsiasi

religione positiva particolare. Ciò che Vico immagina è un ambito antropologico che

riguarda il nesso trascendenza-futurologia-immaginazione-comportamento

etico-azione politica che non viene mai meno. Tale nesso è testimoniato dalle

numerose volte che Vico avanza considerazioni etimologiche, dando sovente

sfumature leggermente, ma significativamente, differenti che mettono in evidenza

diversi aspetti del divinari.

Il primo aspetto messo in evidenza è la contiguità di futurologia e trascendenza:

«La divinazione, dalla qual appo i gentili tutti incominciarono le prime divine

cose (…) fu universalmente da tutto il gener umano dato alla natura di Dio il nome di

‘divinità’ da un’idea medesima, la quale i latini dissero ‘divinari’, ‘avvisar l

36 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 2. Su questo alcune considerazioni interessanti si trovano in B. De Giovanni, La «Teologia civile » di G. B. Vico, in «Il Centauro» 2, 1981, pp. 12-22. In particolare è da tenere sempre presente la considerazione dell’infondatezza della teologia come ambito a sé stante cfr pp. 14-15. Vedi anche M. Vanzulli, La Scienza Nuova e lo spirito dell’Idealismo, Milano, Guerini, 2003, pp. 34-44.37 Vedi il testo, ormai un classico della letteratura secondaria vichiana, D. P. Verene, Vico’s Science of Imagination, Ithaca, Cornell University Press, 1981, tr. it. di F. Voltaggio, Roma, Armando, 1984. Un altro testo rilevante è G. Cacciatore, - V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna, (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Guida, 2004.

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‘avvenire’»38. Già qui Vico individua la comune radice etimologica fra idea di

dio-divinità e la divinazione. Più avanti l’identificazione, è condotta in maniera

ancora più esplicita. Gli antichi credevano «che la natura fusse la lingua di Giove; la

scienza della qual lingua credettero universalmente le genti essere la divinazione, la

qual da ‘ greci ne fu detta ‘teologia’, che vuol dire ‘scienza del parlar degli dèi’»39.

Il secondo aspetto è quello etico-morale che emerge ben presto sotto forma di

interrogazione sulla coscienza: «La Provvedenza fu appellata ‘divinità’ da ‘divinari’,

‘indovinare’, ovvero intendere o ‘l nascosto agli uomini, ch’è l’avvenire, o ‘l

nascosto degli uomini, ch’è la coscienza»40. In maniera ancora più esplicita Vico

identifica, nel mondo gentile, «la scienza del bene e del male» con la divinazione41.

Nel cruciale paragrafo 365, in particolare Vico ricostruisce il processo dalla scienza

omerica delle muse, appunto scienza del bene e del male, alla scienza dei cristiani del

«vero bene e del vero male». Al di là delle possibili riflessioni che implicherebbe

questo riferimento alla verità, è importante notare che la sapienza conserva, per Vico

il carattere etico, perché deve riferirsi al bene dei popoli e deve essere «volgare»

ossia politica42.

L’elemento politico emerge, con ancor maggior forza, nel momento in cui Vico

illustra la «sapienza volgare», ossia la sapienza dei fondatori di nazioni. La «scienza

in divinità d’auspìci» infatti, «fu la sapienza volgare di tutte le nazioni di

38 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 9.39 Ivi, par. 379.40 Ivi, pag. 342.41 Ivi, parr. 365-381.42 L’equivalenza più chiara fra sapienza volgare e politica è quando Vico ricorda che la sapienza degli antichi fusapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano, non già sapienza riposta di sommi e rari filosofi. Ivi , par.384.

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contemplare Dio per l’attributo della sua provvedenza, per la quale, da ‘divinari’, la

di lui essenza appellossi divinità. E di tal sapienza vedremo appresso essere stati

sappienti i poeti teologi, i quali certamente fondarono l’umanità della Grecia»43.

Ragione e divinazione

Rimane ancora una questione, forse la più importante, da affrontare. Cosa accade

quando la ragione, nel corso delle nazioni, tende a prendere il posto di tali capacità

divinatorie? Che cosa succede quando, ed è un esito storico che cominciava a

delinearsi chiaramente all’epoca di Vico, religione e politica tendono a separarsi

ovvero quando la direzione del pensiero europeo era chiaramente indirizzato a

elaborare una fondazione della politica privata di ogni riflessione religiosa e

teologica? È possibile considerare chiuso il problema etico e morale dello stare

insieme? Il tentativo di rispondere a queste domande, che mi sembrano delle

importanti sorgenti carsiche che scorrono all’interno della Scienza Nuova, è uno dei

drammi della filosofia vichiana.

La risposta è, mi pare, decisamente negativa. Persino l’uguaglianza non è affatto il

grimaldello che serra la porta della politica, mettendola al riparo dalla necessità di

pensare continuamente il giusto perché anch’essa, se non accompagnato dal divinari,

può essere anche ciò che conduce all’atomizzazione, e perciò alla barbarie e al

ricorso. L’importanza delle facoltà divinatorie è quella di costituire una sorta di

43 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 365.

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antidoto contro il formalismo delle soluzioni utilitaristiche, contrattualistiche,

giusnaturalistiche, che spoliticizzano proprio queste domande etiche.

È chiaro che, nell’età della ragione, un’arte divinatoria fondata sugli auspici, ossia

sulla lettura dei «segni sensibili» dati da dio, non avrebbe senso. Ma la facoltà di

divinare ossia di agire eticamente secondo un’immagine del futuro è, deve essere,

sempre presente. Rimane sempre la necessità di svolgere le funzioni divinatorie:

l’interrogazione sul futuro e sulla coscienza, la necessità, in altre parole, di una

«scienza del bene e del male.

Per argomentare questa posizione è necessario abbandonare la prospettiva

filologica-letterale per comprendere il funzionamento teorico degli elementi posti

finora. Metteremo in evidenza alcune categorie del pensiero di Vico, cercando di

identificare in esse la natura prettamente divinatoria.

Per dimostrare la permanenza della divinazione è necessario in primis riferirsi alla

degnità XXIV, in cui si afferma che, mentre la religione ebraica fu fondata dal vero

Dio sul divieto della divinazione, le nazioni gentili si fondarono proprio sulla

divinazione44. Già qui possiamo rintracciare la radice della nostra argomentazione. Se

la divinazione è la scienza del bene e del male, ovvio che non possa trovare spazio

presso il popolo cui Dio aveva rivelato la vera, quindi giusta, legge. Ma nelle nazioni

non ebraiche la riflessione sul bene e sul male non poteva essere evitata. Quando dio

tace, è l’uomo (ma di certo non l’uomo astratto liberale, ma sempre l’uomo poeta

concreto e immancabilmente politico di Vico) che deve farsi carico di questa

44 Ivi, par. 167.

17

riflessione. Il problema della fondazione della forma politica emerge allora in tutta la

sua rilevanza. Come sappiamo il problema si pone in Vico al di là di due soluzioni

fondamentali quella di un ordine naturale delle cose, e quello di un costruttivismo

razionalistico.

Con la caduta dal paradiso il vero, la vera giustizia, non è più raggiungibile

dall’uomo, se non con i mezzi, pur sempre provvisori e terreni della fantasia e della

filosofia. Se il popolo ebraico, in virtù del privilegio mosaico, può avere a

disposizioni un insieme di norme divine, quindi perfette, immutabili, e non a

disposizione dell’uomo, le nazioni gentili non solo possono, ma devono fare ricorso

alla divinazione per fondare e conservare una società. Di fatto, la specificità della

Rivelazione come orizzonte della legittimità politica scompare. Diventa superfluo, se

non addirittura impossibile, pensare con questo riferimento la giustizia e la verità

della forma politica. Dobbiamo precisare che non è questo un esito che Vico

sottoscriverebbe. Tuttavia emerge chiaramente che non c’è né una struttura

teleologica che pone come esito necessario dell’umanità la conversione al

cristianesimo, né una prospettiva assiologica che pone in posizione di evidente

superiorità la religione cristiana. La rivelazione non è essenziale: la fase umana si

espande anche a paesi non cristiano senza, apparentemente, risentirne. Certamente

Vico non può dirlo in maniera esplicita ma, di fatto, solo la storia sacra (ebrea) può

essere divinamente fondata. Da qui lo scarsissimo rilievo dato a Gesù Cristo45. Solo

da un punto di vista etnocentrico, che certamente non è quello di Vico che cerca

45 Lo segnalano opportunamente L. Amoroso, Lettura della Scienza Nuova di Vico, Torino, UTET, 1998, p. 45 e A. Battistini, Vico tra antichi e moderni, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 258.

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invece la comune natura delle nazioni, la fase umana dipende dalla Rivelazione. Non

c’è un superamento delle «false religioni» in direzione, univocamente, della «vera

religione» cristiana. La fase umana, come mostra chiaramente la parte comparativa, a

dire il vero scarna, della Scienza Nuova non è in alcun modo relata al cristianesimo46.

Questa è la cornice entro cui va studiato il problema del divinari nella fase umana,

il cui studio è certamente ostacolato dalla propensione di Vico ad occuparsi

maggiormente delle altre due fasi. Stabilita questa cornice, possiamo enucleare alcuni

elementi che ci sembrano centrali per comprendere la natura del divinari nella fase

umana.

L’elemento centrale deve essere rintracciato nella funzione creatrice della

«parola»47. Come Dio crea attraverso la parola, anche l’uomo crea attraverso la

parola, in particolare la parola «immaginata divina» dei poeti teologi48. La

divinazione, come è emerso nelle pagine sopra, è una delle forme precipue del fare

umano precisamente la modalità che permette di fondare le nazioni. La continua

46 La parte comparativa in senso stretto si riduce al capitolo terzo del libro quinto DESCRIZIONE DEL MONDO ANTICO E MODERNO DELLE NAZIONI OSSERVATA CONFORME AL DISEGNO DE’ PRINCIPI DI QUESTA SCIENZA. G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 366., par. 1088-1096. Ciò vale, però, se ci limitiamo al comparativismo sincronico. Al contrario tutta la Scienza Nuova potrebbe essere considerata un esercizio di comparativismo diacronico. 47 È qui assolutamente da tenere conto della peculiarità delle teorie vichiane sul «linguaggio». Di fatto Vico, più che unafilosofia del linguaggio in senso stretto elabora una teoria dei segni, attraverso cui viene svolta non solo la funzione dicomunicare, ma anche di stabilire norme etiche e politiche. Ricordiamo, ad esempio l’ampiamento semantico deltermine nell'espressione «parole reali» che indica come nella prima umanità le cose erano usate, simbolicamente, comeparole. Celebre, a questo proposito l’aneddoto di Idantura re di Scizia: «Idantura, re degli sciti, ne’ tempi assai tardi(posta la loro sformata antichità, nella quale avevano vinto essi egizi, che si vantavano essere gli antichissimi di tutte lenazioni), con cinque parole reali risponde a Dario il maggiore che gli aveva intimato la guerra; che furono unaranocchia, un topo, un uccello, un dente d'aratro ed un arco da saettare. La ranocchia significava ch’esso era nato dallaterra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendo l’està, le ranocchie, e sì esser figliuolo di quella terra. Il toposignificava esso, come topo, dov’era nato aversi fatto la casa, cioè aversi fondato la gente. L’uccello significava aver iviesso gli auspìci, cioè, come vedremo appresso, che non era ad altri soggetto ch’a Dio. L'aratro significava aver essoridutte quelle terre a coltura, e sì averle dome e fatte sue con la forza. E finalmente l’arco da saettare significava ch’essoaveva nella Scizia il sommo imperio dell’armi, da doverla e poterla difendere». G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit.,par. 435).48 Su questo parallelismo torneremo più avanti.

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produttività della parola è alla base dell’esistenza del mondo delle nazioni. È di

cruciale importanza il motto homo non intelligendo fit omnia49. La prima parola non

serve a comprendere il mondo ma a crearlo a partire da se stessi, in quella mancanza

di punti di riferimenti tipica della prima umanità. E questa è a maggior ragione la

situazione a proposito di ciò che l’uomo non può mai pienamente intendere ossia il

nascosto degli uomini, la coscienza, e il nascosto agli uomini, il futuro. Queste

considerazioni sono essenziali in tutto e per tutto anche nella fase umana. La

divinazione, parte essenziale della logica poetica, riempie di senso le parole, non

senza una dose di arbitrio tutto politico. Privare la parola di questa facoltà significa

abbandonarsi ad un razionalismo sterile o all’ironia che, all’opposto della metafora,

svuota di senso le parole, facendone strumento della manipolazione e dell’inganno50.

Questo ci conduce ad un altro elemento essenziale, il ruolo della sapienza. La

funzione della sapienza, come abbiamo già visto, è strettamente legato a quella della

divinazioni proprio in relazione alla politica. I primi sapienti, si diceva, sono i poeti

teologi. La sapienza in cui eccellono è appunto quella della divinazione, scienza

«volgare» del bene e del male. Tale carattere della sapienza non va mai perduto,

come emerge in primis dalla frase che Vico inserisce proprio a chiusura della Scienza

Nuova: «Da tutto ciò che si è in quest’opera ragionato, è da finalmente conchiudersi

che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, se non

siesi pio, non si può daddovero esser saggio»51. È importante ricordare cosa implica

49 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 40550 Ivi, par. 410.51 Ivi, par. 1112.

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per Vico il riferimento alla pietà: «La morale poetica incominciò dalla pietà,

perch’era dalla provvedenza ordinata a fondare le nazioni, appo le quali tutte la pietà

volgarmente è la madre di tutte le morali, iconomiche e civili virtù; e la religione

unicamente è efficace a farci virtuosamente operare, perché la filosofia è più tosto

buona per ragionarne. E la pietà incominciò dalla religione, che propiamente è timore

della divinità»52. La sapienza viene di nuovo connessa alla pietà, alla dimensione

etica dello stare insieme, esattamente come avveniva con i poeti teologi. Con un gesto

che mi pare di poter considerare tipicamente vichiano la «fine» mostra la sua

prossimità con l’inizio, lo studio dell’arcaico rimanda ad una più profonda

consapevolezza del contemporaneo.

Credo che sia proprio questa la sapienza che interessa a Vico. Non è assolutamente

un caso che Vico, senta il bisogno di una nuova scienza che riprenda lo studio della

pietà, non astrattamente o per puro spirito di carità, ma in virtù della fondamentale

importanza politica che riveste. Anche questa esigenza, mi pare, trae la sua origine

teologico-politica nella separazione fra ebrei e gentili, che assume qui una

dimensione che potremmo definire performativa. È la radicale assunzione di

un’assenza dell’ordine divino, almeno in un senso che sia direttamente utile per

l’uomo, e la necessità della riflessione sulla pietà ossia sui valori etici della comunità.

La divinazione è la socializzazione, meglio ancora bisognerebbe dire politicizzazione,

della pietà e della giustizia. Ciò è particolarmente evidente nella prima umanità

quando il giusto «ministrato» attraverso la legge agraria è frutto del consiglio degli

52 Ivi, par. 503.

21

eroi con gli dei tramite gli auspici53. Come già abbiamo accennato in precedenza,

nella fase umana tutto questo diventa narrazione mitologica che mette in forma non

solo le rivendicazione della plebe ma anche, direi, la loro stessa capacità di agire54.

La domanda centrale è «da dove viene il giusto nell’età umana»? Vico a questa

domanda, che pure si pone al centro del pensiero vichiano, non risponde chiaramente,

ma possiamo cercare di capire il punto pensando «in negativo», ossia a quando si

verifica l’assenza della giustizia e della pietà. Questo ci porta all’ultimo elemento,

ossia il ricorso della barbarie. La natura della barbarie della riflessione mostra, infatti,

in negativo, l’importanza del divinari.

Il citato richiamo finale alla pietà, che segue di pochi paragrafi l’icastica

descrizione dell’ «ultimo civil malore», è inequivocabilmente un invito a conservare

un atteggiamento pio. Ciò che Vico più teme, come sappiamo, è la ragione staccata

dalla pietà: sono «audacia ed empietà» che portano alla rovina le nazioni55. Anche

l’utile, pur forza fondamentale per comprendere lo stare insieme degli uomini, non

può essere inteso come calcolo individuale che prescinde da motivazioni di carattere

etico. Il meccanismo provvidenziale (e che l’uomo può far inceppare, seppur

provvisoriamente) e che permette che l’utile possa effettivamente funzionare come

collante della società è proprio questa utilità eticamente ed intersoggettivamente

intesa. L’utilità «buona» cui Vico fa riferimento non è mai quella del singolo

53 Ivi, par. 51654 Su questo punto sono da tenere presenti le riflessioni della scuola di Francoforte su Vico. In particolare Horkheimer.M. Horkheimer, Anfange der burgerlichen Geschichtsphilosophie, Stuttgart: Verlag von W. Kohlhammer, 1930; tr. it diG. Backhaus , Torino, Einaudi, 1970 Un saggio molto interessante sul tema è J. Mali, Retrospective Prophets. Vico,Benjamin and Other German Mythologists. «Clio» 26 (1996), 4, pp. 427- 448.55 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 504.

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direttamente, ma è sempre «filtrata» da una fedeltà nei confronti di un gruppo,

famiglia, ordine, nazioni, umanità stessa56. È importante notare che questa fedeltà è

prettamente politica e indica la percezione di un interesse comune. Questo è un

elemento da tenere sempre presente e che Vico fa risaltare ulteriormente quando,

riferendosi al sistema politico greco, osserva che «‘n tali ragunanze pubbliche le

menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del propio utile, si

conformavano in un ‘idea spassionata di comune utilità»57. L’etica dell’utile pubblico

viene così ricondotta ad una dimensione politica, che sembra perdersi già sotto le

monarchie, quando «son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e

lasciare la cura del pubblico al sovrano principe»58). I problemi per il mantenimento

dell’utilità cominciano quando i cittadini cominciano a guardare ai loro privati

interessi, e per privato si intende essenzialmente «individuale», non curandosi più

dell’utile pubblico59.

È questa la barriera insormontabile che separa Vico dal razionalismo di gran parte

della modernità ed è qui che la politica stessa si separa dalla possibilità di una

chiusura razionale completa. La razionalità serve, Vico è ben lungi dal negarlo, ma

non può tutto. È quando la natura fantastica della divinazione, e quindi dell’etica,

viene svelata dalla riflessione che si rischia la barbarie della riflessione, di cui è di

capitale importanza spiegare la natura appunto riflessiva. Essa si oppone direttamente

alla divinazione, a quella facoltà mitopoietica che esalta il conosci te stesso come

56 Ivi, par. 341.57 Ivi, par. 1041.58 Ivi, par. 951.59 Ivi, par. 1008.

23

essere parte di un gruppo di cui si condivide il «destino» cioè il divenire.

Posti tutti gli elementi, è chiaro che l’importanza del divinari sta nel suo essere

capacità di porre il problema etico-politico della convivenza attraverso un atto

fondato nella dimensione del potere, ma che mantiene una ineliminabile dimensione

linguistica. Solo il linguaggio, in particolare il linguaggio poetico, si può porre il

problema della coscienza e del futuro, come si nota anche dal fatto che l’«avvenire»

è sempre legato al verbo «indovinare». È per questo che Vico pone questa

importanza nel linguaggio e condanna fermamente l’ironia, la svalutazione del punto

di vista della «verità» e che «salva sempre la propietà delle parole e l’indifferenza

delle azioni» e facendo nascere una «falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a

sostenere nelle cause entrambe le parti»60.

In ultima analisi, è questa la sapienza poetica della divinazione che Vico vuole

salvare: l’uso della facoltà pratica etica e politica di dare senso alle parole, in vista

della perpetuazione del gruppo sociale.

Una teologia politica moderna?

L’indagine che abbiamo effettuato sulla presenza della divinazione e del divinari

nella Scienza Nuova porta ad un ‘interpretazione dell’idea di teologia civile, che trae

la sua ragion d’essere dalla separazione fra storia sacra e storia gentile. Come la

teologia politica della modernità, anche quella di Vico è un tentativo, in questo

60 Ivi, parr, 823 e 1102

24

assolutamente moderno, di de-naturalizzare l’ordine politico, reso non più dipendente

da un ordine divino. Tuttavia la strada percorsa da Vico si differenzia in maniera

radicale da quella cartesiano-hobbesiana-giusnaturalistica perché ciò che Vico

recupera è proprio ciò che la modernità, almeno quella parte, vuole eliminare in

quanto pericoloso, dal dibattito politico e che, certamente non a caso, sono gli

elementi chiave della divinazione: la coscienza, con la separazione di foro interno e

foro esterno, e il futuro. Non è certamente un caso che la genesi dello stato sia

accompagnata dalla lotta della ragione contro la profezia61. Ciò non significa,

naturalmente, auspicare un ritorno dei profeti, e non stiamo sostenendo una lettura

irrazionalista di Vico. Il pensiero presentato da Vico nella Scienza Nuova richiede uno

studio ragionato degli elementi che la invece la modernità esclude dall’ambito della

riflessione razionale politica: la coscienza, la riflessione sul bene e sul male e il

futuro62. Vico, quindi, pur rifiutando l’esito razionalistico del giusnaturalismo, prende

completamente carico del problema moderno della perdita dell’ordine. Vico è

assolutamente disposto a porsi su un piano umano, un piano in cui l’ordine divino

della Res publica christiana è finito per sempre. La separazione fra ebrei e gentili

pone, in maniera irreversibile, la necessità di fondare umanamente l’ordine.61 R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979, tr. it. di A. Marietti Solmi, Genova, Marietti, 1986, pp. 18-19. Il più radicale critico della profezia è probabilmente Thomas Hobbesche dedica il trentaseiesimo capitolo del Leviatano a depotenziare l’impatto politico del profetare, sostenendo che, in ultima istanza, è il sovrano che decide dell’autenticità della profezia. Segnaliamo solo un passaggio in particolare che misura la distanza fra Hobbes e Vico: «Profeti furono non solo coloro che erano portavoce di Dio (…) ma anche tutti quegli impostori che pretendono – o con l’ausilio di spiriti familiari o con la divinazione [consistente nella] superstiziosa [considerazione] di eventi passati di predire, a partire da cause false, eventi analoghi nel tempo a venire».

T. Hobbes, Leviathan or the matter, forme and power of a common wealth ecclesiasticall and civil, London, 1651, tr. it., di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 199611, p. 345.

62 Chi ha avanzato questa critica in maniera radicale alla modernità è Leo Strauss. La scienza politica moderna esclude apriori la possibilità di quella che Strauss considera «la questione fondamentale», ossia la riflessione sul bene e sulla giustizia. Un testo chiaro ed esauriente è L. Strauss, Natural rights and history Chicago, Chicago University Press, 1953. Sul tema vedi le riflessioni di M. Farnesi Camellone Giustizia e storia. Saggio su Leo Strauss, Milano, Franco Angeli, 2007.

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Il tentativo di Vico è di pensare la necessità di una riflessione morale ed etica e la

natura artificiale della politica, escludendo, di fatto, ogni fondazione metafisica

dell’ordine (al modo medievale) ma anche una fondazione razionale e formale del

politico (al modo moderno). La riflessione vichiana si interseca, quindi, in maniera

potente con la teologia politica moderna e in particolare con il tema della

secolarizzazione63. Apparentemente, nessun autore potrebbe essere più lontano

dall’intenzione di «secolarizzare» la politica. Tuttavia l’approccio vichiano al

problema dei rapporti fra politica e religione sposta il piano del discorso, rendendolo

irriducibile ad un discorso “classico” sulla secolarizzazione. Sarebbe fuori luogo

occuparsi dell’infinito dibattito sul tema e su quello della teologia politica della

modernità e ci limitiamo qui a segnalare solo un punto, che ci è utile per concludere

l’argomentazione.

Accennavamo prima all’importanza della parola come creazione. Questa è una idea

di chiara ascendenza ebraica, ed è Vico stesso a segnalarlo: «lógos o ‘verbum’

significò anche ‘fatto’ agli ebrei»64. L’equivalenza fra «parola» e «fatto» è di

cruciale importanza per Vico. In apertura del capitolo sulla logica poetica Vico

presenta, in una vertiginosa esposizione, la sequenza logos-favella-favola

(mito)-verbum-fatto. Vico crea così un ambito semantico in cui creazione, narrazione

e fatto, si intrecciano grazie all’ingegno, reso aguzzo dalla topica, in particolare

63 La letteratura sul dibattito sulla secolarizzazione è infinito. Fra le pietre angolari del dibattito l’approccio più utile dalpunto di vista di questo saggio sono i testi di , H. Lubbe, Säkularisierung. Geschichte eines ideenpolitischen Begriffs,Freiburg-München, 1965 tr. it. di P. Pioppo, Bologna: Il Mulino, 1970, K. Löwith, Meaning in History, Chicago, TheUniversity of Chicago, 1949; tr. it. di F, Tedeschi Negri, Milano, Il Saggiatore, Milano 2004, oltra a quelli citati aproposito della teologia politica nella nota 1 di questo testo. Un interessante lettura in lingua italiana è senz’altro G.Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma, Editori Riuniti, 1983.64 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 401.

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grazie dalla topica sensibile che permise ai primi uomini di unire «le propietà o

qualità o rapporti, per così dire, concreti degl’individui o delle spezie, e ne formavano

i generi loro poetici» permettendogli così di «ritruovare tutte le cose necessarie

alla vita umana»65. È esattamente la facoltà del divinari che si situa a questo

incrocio, ed è una facoltà analoga alla facoltà con cui Dio crea il mondo. A questo

proposito è interessante l’interpretazione che di Vico propone Sandra Rudnick Luft

nel suo Vico’s Uncanny Humanism. Il cuore della tesi che l’autrice sostiene è che

mentre, nel complesso, la modernità secolarizza la creatività di un dio ordinatore, un

Dio come intelletto originario, Vico pensa la creatività dei suoi primi uomini come

secolarizzazione, o sostituzione, della creatività linguistica del dio poeta66. Nella fase

umana è questa caratteristica che l’uomo deve mantenere, perché la sua caduta, e il

suo «erramento ferino» posteriore al diluvio, costituiscono una perdita radicale

dell’ordine e delle leggi divine, tale da richiedere, come osserva Luft, una ontologia,

perché l’ordine deve essere creato e non semplicemente rispettato67.

C’è certamente una simmetria fra la creazione divina, che dà legge e ordine al

mondo umano attraverso la rivelazione divina e la creazione umana che avviene

attraverso l’insieme di processi divinatori. Più in profondità si tratta della simmetria

fra Dio che attraverso la parola crea l’ordine naturale, e gli uomini che costruiscono,

inventano, un ordine umano. Il nesso pietà-giustizia-ordine, non può essere rimosso,

65 Ivi, parr. 495 e 498.66 S. Rudnick Luft, Vico s Uncanny Humanism.Reading the New Science between Modern and Postmodernʼ , Ithaca,

Cornell university press, 2003, pp. 8-9.67 Ivi, pp. 116-118. Un tesi in parte analoga, che però riconnette la capacità creativa, anche in relazione all’etica e all’origine della socialità, ad una tradizione umanista si trova in F. Botturi, L’etica narrativa di Giambattista Vico, in A. Lamacchia (a cura di) Metafisica e teologia civile in Giambattista Vico, Bari, Levante, 1992, vedi in particolare pp. 113-115.

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secondo Vico, e in assenza di una diretta rivelazione divina, come per gli ebrei, è

affidato alla divinazione e le sue religioni. Nella fase umana essa deve essere oggetto,

secondo Vico, di una «teologia civile ragionata». In questo senso si può parlare di

secolarizzazione in Vico. Ad essere «secolarizzata» è la facoltà di creare un ordine,

che assume la forma divinatoria del «dire» un ordine morale ed etico.

L’impatto di Vico sull’idea di secolarizzazione è notevole. Da un lato egli fa della

secolarizzazione, intesa come passaggio di facoltà divine all’uomo, una condizione

esistenziale dell’intera umanità, fatta eccezione per gli ebrei. Dall’altro, non ponendo

queste facoltà pienamente nell’ambito del razionale, mortifica ogni pretesa della

razionalità di esaurire le potenzialità politiche dell’uomo.

Da tutto ciò emerge che interrogarsi sulla teologia civile di Vico, a partire dalla

figura della divinazione, può contribuire a comprendere la natura dell’eccedenza del

pensiero di Vico, che di fatto costituisce l’oggetto della sua teologia civile. Parlare di

una eccedenza arazionale non significa, è importante ribadirlo, dare una lettura

irrazionalistica di Vico. Con il termine arazionale dobbiamo indicare un ambito da cui

la ragione deve saggiamente ritrarsi, pena peccare di «audacia ed empietà». Nel

rapporto fra pietà e sapienza, perentoriamente affermato da Vico nell’ultima frase

della Scienza Nuova la necessità di una riflessione intorno all’eccedenza a-razionale

dell’ordine politico viene svelato definitivamente, dando una fondamentale chiave di

lettura retrospettiva. È la figura della divinazione che indica tale eccedenza che non

può (ed è una considerazione che appare in Vico anche, e forse soprattutto,

performativa) essere messa in discussione. A me sembra che siano questi gli elementi

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cruciali della teologia politica vichiana, teologia che non sembra affatto

semplicemente, come invece sostiene Vico stesso, identificabile con la «nostra

teologia cristiana, mescolata di civile e di naturale e di altissima teologia rivelata»68.

È la sua stessa «teologia civile», che viene posta come «antidoto» alle teorie

giusnaturaliste e, più in generale, al rischio del ricorso69. Quando Vico rimprovera ai

pensatori giusnaturalisti di aver considerato la materia del diritto naturale

«incominciandola da metà in su» non sta rimproverando semplicemente di aver

mancato di considerare l’aspetto storico del diritto, e di aver fatto una semplice

astrazione, ma sta anche rimproverando ai giusnaturalisti di aver colto solo la metà

delle facoltà dell’uomo70. A Grozio rimprovera di aver concepito un sistema

professandone l ‘efficacia anche in assenza di ogni cognizione di Dio, ossia senza

alcuna cognizione della divinità provvedente71; a Selden contesta la supposizione che

tutte le norme morali siano state trasmessi dai gentili72; a Pufendorf contesta l’assenza

del principio di provvedenza73. Si badi: Vico non sta rimproverando l’assenza di un

riferimento alla religione rivelata ma all’assenza del riferimento alle facoltà

divinatorie, come si comprende anche dal rimprovero a Selden, sarebbe incapace di

capire la nascita del diritto a prescindere dalla legge mosaica. D’altronde è Vico

stesso che lo afferma chiaramente: «Laonde incominciamo a ragionare del diritto, che

prima nacque divino, con la propietà con cui ne parlò la divinazione o sia scienza

68 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 366. Vico riprende, pur modificandola, una tripartizione classica. M. Scattola, Teologia politica, cit. p. 18.69 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 385.70 Ivi, par. 394.71 Ivi, par. 395.72 Ivi, par. 396.73 Ivi, par. 397.

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degli auspìci di Giove, che furono le cose divine con le quali le genti regolavano tutte

le cose umane, ch’entrambe compiono alla giurisprudenza il di lei adeguato

subbietto»74.

Non bisogna affatto confondere la teologia civile, questa teologia civile, con la

rimessa in circolo dell’idea di un ordine fondato sulla legge divina75. Questa mossa

infrangerebbe, di fatto, l’idea di una separazione fra ebrei e gentili, e quindi fra una

storia «sagra» e una «profana», per dirla in termini vichiani. In fin dei conti, la

presenza effettiva di una rivelazione immediatamente politica annullerebbe la

necessità e il senso stesso della Scienza Nuova76.

La «teologia civile ragionata» vichiana, in definitiva, è il corrispettivo simmetrico

della «divinazione» in quanto prima scienza. Come quest’ultima ha l’obbiettivo di

permettere l’uscita dalla barbarie, la teologia civile ragionata vichiana si prefigge lo

scopo di non far precipitare le nazioni nella barbarie della riflessione. Inoltre, cosa

più importante, sono i medesimi l’oggetto, la coscienza e il futuro, e lo scopo, dare

conto della dimensione etica e politica arazionale dello stare insieme. D’altro canto

ciò è coerente con una delle più celebri affermazioni di Vico: «Natura di cose altro

non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise»77. Infatti la natura della

74 G.B. Vico, Scienza Nuova (1744) cit., par. 398. 75 Questa è la tesi, ad esempio, di Mark Lilla. M. Lilla, G. B. Vico: the Making of an antimodern. Cambridge – Mass –London, Harvard university press, 1993. Sull’interpretazione di Lilla vedi Interculturalità: religione e teologia politica,G. Cacciatore – R. Diana (a cura di), Napoli, Guida, 2010. Nel saggio che apre il volume Lilla presenta la suainterpretazione della teologia politica vichiana, flettendola fin quasi a sovrapporla ad una idea di teocrazia. SecondoLilla la teologia politica deriva i suoi principi dal nesso divinamente rivelato fra Dio, l’uomo e il mondo. Vedi M. Lilla,Il «ricorso» della teologia civile, in ivi p. 44. 76 Il problema che si pone è che non è chiaro se la cultura cristiana sia l’erede di quella ebraica, o di quella «gentile». Lalettera del testo va certamente nella prima direzione, ma il fatto che la civiltà europea, anche dopo la nascita di Cristo,sia soggetta ai processi di sviluppo storico come tutte le culture gentili ed extraeuropee fa propendere per la secondainterpretazione. Soprattutto, da una prospettiva di storia sacra sarebbe impensabile la figura del ricorso che Vicoconsidera non solo nella sua dimensione teorica ed eventuale, ma anche storicamente accaduta durante il medioevo.77 Come molte delle Degnità, anche su questa potrebbero essere scritti interi volumi. Qui ci limitiamo a considerare una

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nazioni gentili è segnata indelebilmente, pur con le (quasi) infinite combinazioni

pratiche, dalla assenza di leggi divine e dalla presenza della divinazione.

nota di Battistini: «L’universalità della natura non riposa sul suo essere assoluta e immutabile, bensì sull’essere identica in tempi e circostanze ipoteticamente uguali, e di fatto diversa in tempi e circostanze effettivamente differenti». Nota 3 di pag. 500

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