La povertà in Italia. Dimensioni, caratteristiche, politiche

58
diritto / NUOVI CASI David Benassi Pietro Palvarini LA POVERTÀ IN ITALIA Dimensioni, caratteristiche, politiche Cendon LIBRI

Transcript of La povertà in Italia. Dimensioni, caratteristiche, politiche

diritto / NUOVI CASI

David Benassi Pietro Palvarini

LA POVERTÀ IN ITALIA

Dimensioni, caratteristiche, politiche

Cendon LIBRI

2

Collana diritto / NUOVI CASI

EDIZIONE LUGLIO 2013

© Cendon Libri Editore S.n.c. di Paolo Cendon & C.

via San Lazzaro 8 - 34100 Trieste (TS)

Sito internet: www.cendonlibri.it

E-mail [email protected]

ISBN 9788898069774

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione, di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati in tutti i Paesi.

3

INDICE

Capitolo Primo

VERSO UN’IDENTIFICAZIONE DELLA POVERTÀ: APPROCCI E DEFINIZIONI

1.1. Povertà assoluta e povertà relativa – 1.2. La deprivazione materiale – 1.3. L‟approccio dinamico allo studio della povertà – 1.4. Sentirsi poveri: la povertà soggettiva – 1.5. L‟esclusione sociale

Capitolo Secondo

CHI SONO I POVERI? DIFFUSIONE E CARATTERISTICHE DELLA POVERTÀ IN ITALIA

2.1. Le soglie di povertà – 2.2. La distribuzione territoriale della povertà – 2.3. Il profilo sociale delle famiglie povere – 2.4. L‟andamento della povertà nel corso del tempo

Capitolo Terzo

LE POLITICHE DI CONTRASTO DELLA POVERTÀ

3.1. Il quadro generale del sistema di welfare italiano – 3.2. Le modifiche introdotte dalle recenti riforme e l‟impatto sulle politiche contro la povertà – 3.3. Il contrasto della povertà in Italia

Capito Quarto

CONCLUSIONI

4

Capitolo Primo

VERSO UN’IDENTIFICAZIONE DELLA POVERTÀ: APPROCCI E DEFINIZIONI

SOMMARIO 1.1. Povertà assoluta e povertà relativa – 1.2. La deprivazione materiale – 1.3. L‟approccio dinamico allo studio della povertà – 1.4. Sentirsi poveri: la povertà soggettiva – 1.5. L‟esclusione sociale

La povertà è un fenomeno sociale trasversale a tutte le epoche storiche e a tutti i modelli sociali. La sua persistenza all‟interno delle società contemporanee a capitalismo avanzato è un fatto di particolare interesse, poiché pone in discussione la capacità del sistema di distribuire in modo equo tra i cittadini la grande quantità di ricchezza prodotta. L‟esistenza di stabili sacche di marginalità e disagio nelle società occidentali induce a interrogarsi sulla natura accidentale o strutturale della povertà. Essa dipende dal cattivo funzionamento dei meccanismi di integrazione sociale oppure è un fenomeno funzionale al riprodursi del sistema sociale così come lo conosciamo? In questo saggio si assumerà la seconda linea interpretativa. La povertà, e in generale le diverse forme di disuguaglianza sociale, sono prodotti del normale funzionamento di questo modello sociale, non di intoppi o inefficienze nei suoi processi regolativi. I meccanismi (economici, politici, culturali) che generano la povertà per alcuni individui o gruppi sono gli stessi che producono benessere e integrazione per altri. L‟esito di tali processi dipende da un intreccio di fattori strutturali e fattori soggettivi. I primi creano le condizioni di possibilità per l‟esistenza della disuguaglianza, i secondi trasformano queste possibilità in concrete esperienze di povertà (Benassi 2002).

Nella società contemporanea la povertà rappresenta un rischio potenziale per molti, che diviene condizione reale per pochi. Le traiettorie di impoverimento sono legate alla crescente imprevedibilità dei corsi di vita, che secondo diversi studiosi sono sempre meno definibili in termini di appartenenza di classe e sempre più eterogenee e individualizzate (Beck 1992, Sennett 1998, Bauman 1999). L‟estrema frammentarietà delle esperienze biografiche genera da un lato un aumento delle opportunità e delle libertà individuali, dall‟altro una generale riduzione della sicurezza (economica, sociale, cognitiva) e una tendenza della società a scaricare sull‟individuo le responsabilità relative al miglioramento o al peggioramento della propria condizione sociale.

5

Se le biografie individuali sono sempre più diversificate, lo stesso vale per le fenomenologie della povertà. Esiste un‟ampia gamma di fenomeni che, con differenti livelli di gravità, colpiscono individui e famiglie nelle loro capacità di reperire le risorse necessarie a garantirsi un livello di vita considerato accettabile. Nelle prossime pagine si tenterà innanzitutto di dare conto dei diversi modelli di povertà e dei differenti modi per misurarla. Successivamente si dedicherà spazio a un‟analisi delle caratteristiche sociali e demografiche dei poveri in Italia, per delineare i profili maggiormente a rischio di impoverimento nel nostro paese. Infine si passerà all‟analisi delle politiche pubbliche contro la povertà, inquadrando dapprima il modello di welfare italiano nel contesto internazionale, per poi presentare un quadro delle principali misure di contrasto alla povertà implementate sia a livello nazionale che locale. In tutto il lavoro il fuoco dell‟analisi verrà mantenuto sulle forme di povertà non estreme, allo scopo di sottolineare il carattere non accidentale dei processi di impoverimento e la loro dipendenza dalle normali dinamiche sociali. Concentrandosi sulla marginalità più grave si rischia infatti di occultare e rendere opachi i normali processi di produzione e riproduzione delle disuguaglianze, che agiscono ben prima di concretizzarsi in condizioni di esclusione sociale o povertà estrema (Procacci 1997). 1.1. Povertà assoluta e povertà relativa

Il tema della povertà riveste un ruolo centrale all‟interno delle scienze sociali fin dai suoi albori: esso diventa oggetto di studio rigoroso intorno alla metà del XIX secolo, nel momento in cui la rivoluzione industriale mostra nel modo più evidente le proprie ripercussioni a livello sociale. La transizione all‟industrialismo e le sue conseguenze sulle condizioni di vita delle classi subordinate fanno della Gran Bretagna il contesto privilegiato per lo sviluppo degli studi sulla povertà. Uno degli esempi più celebri è rappresentato dalla pionieristica indagine svolta da Friedrich Engels (1845) sulle condizioni di vita della classe operaia in Inghilterra. Successivamente, si dovrà ad autori inglesi come Charles Booth (1889) e Benjamin Seebohm Rowntree (1901) il merito di consolidare questo filone di analisi attraverso definizioni concettuali più rigorose e metodologie più sistematiche1.

I primi studi sulla povertà si pongono l‟obiettivo di applicare il metodo scientifico allo studio del fenomeno, per arrivare a misurarlo attraverso operazioni quanto più possibile oggettive e scevre da giudizi di valore, tali da poter essere applicate a tutti i contesti sociali. La misurazione della povertà parte dalla definizione delle risorse ritenute necessarie per garantire la salute e l‟efficienza fisica dell‟individuo, procede assegnando un prezzo ai beni considerati indispensabili per la sopravvivenza, e stabilisce una soglia monetaria, la cosiddetta linea di povertà, che rappresenta il livello

1 Per una ricostruzione dell‟esperienza britannica si veda Morlicchio (2012).

6

minimo di sussistenza; gli individui le cui entrate non raggiungono il valore soglia sono considerati poveri. Le prime ricerche sulla povertà si fondano dunque su una concezione biologica della stessa (Siza 2003), che fa riferimento a quello che nella teoria economica è noto come approccio dei “basic needs”. Si tratta di una povertà intesa in senso assoluto, che guarda allo spazio dei bisogni primari, il cui mancato soddisfacimento rischia di pregiudicare la stessa integrità fisica dei soggetti.

Un esempio classico di questo approccio è lo studio di Rowntree, condotto tra il 1899 e il 1901 sulle famiglie operaie della città di York. Questa ricerca – da alcuni considerata come il primo esempio di inchiesta sociologica compiuta in Inghilterra – ha avuto un‟immensa rilevanza, costituendo per molti anni il paradigma di riferimento per l‟analisi della povertà, e fornendo le premesse concettuali e di metodo per l‟intervento di numerose istituzioni assistenziali. Rowntree ripeté l‟analisi in due momenti successivi, nel 1936 e nel 1950, aggiornando in entrambe le occasioni la soglia di povertà, non solo tenendo conto della variazione dei prezzi, ma modificando il paniere dei beni considerati in funzione del cambiamento che il concetto di “bisogno primario” aveva subito nel tempo. L‟autore inglese fece proprio l‟assunto secondo il quale l‟insieme dei beni ritenuti necessari per la sopravvivenza non è oggettivo e immutabile, al contrario esso è definito socialmente e muta nel tempo e tra contesti sociali differenti. È interessante notare come gli approcci assoluti alla povertà contengano, in nuce, alcuni di quegli elementi di relatività che arriveranno a una piena ed esplicita teorizzazione solo molti anni più tardi.

È in particolare l‟opera di Peter Townsend (1979) a rappresentare il punto di svolta teorico negli studi sulla povertà. L‟autore sostiene che la povertà possa essere definibile solo in termini di deprivazione relativa:

Poverty can be defined objectively and applied consistently only in terms of the concept of relative deprivation. […] Individuals, families and groups in the population can be said to be in poverty when they lack the resources to obtain the types of diet, participate in the activities and have the living conditions and amenities which are customary, or at least widely encouraged or approved, in the societies to which they belong. Their resources are so seriously below those commanded by the average individual or family that they are, in effect, excluded from ordinary living patterns and activities (Townsend 1979, p. 31).

La definizione di Townsend apre la strada a una concezione relativa della povertà. Essa viene identificata attraverso il confronto con il tenore di vita mediamente raggiunto dalla collettività di riferimento: viene considerato povero non chi ha poco in assoluto, ma chi ha poco rispetto agli altri (Chiappero Martinetti 2006). La povertà è dunque concepita come un fenomeno sociale, che non riguarda solo il singolo, ma la società in cui egli è inserito ed è strettamente legata al contesto geografico, storico e culturale di riferimento. La povertà relativa ha un‟estensione semantica maggiore della povertà assoluta, poiché non si riferisce esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni essenziali al sostentamento, ma anche a quelli che attengono alla

7

sfera culturale e identitaria. Questo approccio considera gli individui come attori sociali, dotati di bisogni complessi, come quello di partecipare alla società e di condividere le sue pratiche e le sue norme.

Dal momento in cui è stato introdotto in letteratura, il concetto di povertà relativa ha guadagnato rapidamente consensi ed è diventato lo schema interpretativo maggiormente utilizzato per lo studio della povertà nei paesi europei. Le analisi della povertà che utilizzano l‟approccio assoluto tendono invece ad essere impiegate soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove la risposta ai bisogni fondamentali legati alla sussistenza non è ancora completa e l‟impiego di una linea di povertà relativa sarebbe fuorviante poiché riferito a uno standard di vita medio troppo basso (Ravallion 1994; Madden 2000; Mendola 2002; Brady 2003). Un‟eccezione è rappresentata dagli Stati Uniti, dove dai primi anni sessanta si utilizza, con pochissime modifiche, una soglia di povertà assoluta uguale per l‟intera nazione, basata sul valore monetario di un paniere composto solamente da beni alimentari. Il valore della linea di povertà è pari a tre volte quello del paniere alimentare, includendo così in maniera sommaria le spese necessarie per gli altri beni primari, come vestiario e abitazione (Mendola 2002).

Se l‟introduzione del concetto di povertà relativa ha rappresentato un‟importante evoluzione, poiché ha riconosciuto esplicitamente il carattere socialmente costruito della povertà, ha d‟altro canto accresciuto i problemi metodologici legati alla sua misurazione. Il confronto con le condizioni di vita comunemente diffuse nella società implica alcune decisioni critiche da parte del ricercatore (Sgritta et al. 1999).

La prima scelta da compiere2 è relativa all‟indicatore da utilizzare per misurare il tenore di vita di individui e famiglie. Qui le opzioni maggiormente accreditate sono due: alcuni ricercatori preferiscono calcolare la povertà sul reddito percepito dai soggetti, altri ritengono più opportuno misurarla utilizzando la spesa per consumi. Nel primo caso vengono valutate le risorse economiche in entrata, nel secondo caso quelle in uscita. Il reddito presenta lo svantaggio di essere soggetto a maggiori fluttuazioni nel tempo e la sua dichiarazione incontra spesso la reticenza degli intervistati; il livello di consumo dipende invece dalla propensione alla spesa e dalle preferenze dei soggetti, che a loro volta sono influenzate da fattori sociali quali l‟età e il livello d‟istruzione.

Un secondo interrogativo riguarda la scelta di quale misura adottare per rappresentare il livello di vita medio di una collettività. Generalmente si opta per una misura statistica di tendenza centrale come la media, o, più comunemente, la mediana, più adatta nel caso di distribuzioni asimmetriche come il reddito o i consumi.

2 Sulle questioni tecniche di misurazione della povertà rimandiamo a Baldini e Toso

(2004) e Morlicchio (2012).

8

Un‟altra decisione critica riguarda il punto nel quale porre la soglia di povertà rispetto al valore medio di riferimento. Nell‟assenza di un criterio determinativo oggettivamente valido si ricorre a convenzioni, che generalmente pongono la linea di povertà tra il 40% e il 60% del valore medio o mediano. Valori più alti della soglia tendono a definire povera una quota maggiore di popolazione, laddove valori della soglia più bassi risultano più selettivi e riducono il numero di casi identificati come poveri.

Due esempi possono aiutare a chiarire le questioni metodologiche appena esposte. Istat, la fonte statistica ufficiale per quanto riguarda i dati sulla povertà in Italia, utilizza come indicatore economico la spesa per consumi e pone la soglia di povertà relativa al 50% della media; Eurostat, che è la fonte ufficiale per le statistiche europee e fornisce i dati di riferimento per le politiche comunitarie, utilizza invece i redditi e fissa la linea di povertà al 60% della mediana. Queste scelte metodologiche non sono ininfluenti dal punto di vista dei risultati: nello stesso anno di riferimento, il 2010, le famiglie povere in Italia secondo i criteri Istat ammontavano all‟11%, mentre salivano al 18,2% per i parametri Eurostat (Antuofermo e Di Meglio 2012).

Un‟ultima questione di metodo riguarda la possibilità di confronto tra famiglie di dimensioni e strutture differenti. Un medesimo livello di reddito, o consumo, produce infatti utilità differenti a seconda del numero dei familiari e della loro età (Benassi 2005). Il semplice calcolo del reddito pro capite non basta, poiché non tiene conto delle economie di scala che si realizzano nella coabitazione di più soggetti attraverso la condivisione di alcuni beni e servizi. In particolare, le risorse necessarie per conseguire un determinato livello di benessere aumentano in modo meno che proporzionale rispetto al numero dei componenti familiari (CIES 2002). Vengono introdotte per questo le cosiddette scale di equivalenza, che assegnano pesi differenti ai vari membri della famiglia in base al loro numero e alla loro età. Esiste in letteratura un‟ampia varietà di scale di equivalenza (Atkinson et al. 1995), le più utilizzate delle quali sono, per il contesto europeo, la scala OECD, la scala OECD modificata e, per l‟Italia, la scala Carbonaro.

La scelta tra le opzioni appena presentate è certamente guidata dagli obiettivi della ricerca e dalla disponibilità dei dati, ma anche da assunzioni di carattere teorico e da giudizi di valore del ricercatore. Come messo in luce da diversi autori, la scelta tra le diverse opzioni a disposizione conserva un carattere di irriducibile arbitrarietà (Förster 1994; Atkinson 1998a; Trivellato 1998) e in funzione delle definizioni e dei criteri di calcolo adottati le dimensioni della povertà, ma anche i profili della popolazione interessata dal fenomeno, possono variare anche sensibilmente (Atkinson 1998a; Cavalca 2005).

9

1.2. La deprivazione materiale

Le definizioni di povertà appena presentate, siano esse relative o assolute, basate sui redditi o sui consumi, hanno in comune il fatto di concettualizzare la povertà dal punto di vista esclusivamente monetario. Tuttavia nel corso del tempo sono state avanzate numerose critiche rispetto alla capacità di cogliere la complessità del disagio sociale attraverso l‟utilizzo esclusivo di indicatori costruiti su grandezze monetarie.

Ringen (1987; 1988) è stato uno dei primi autori a sottoporre a critica l‟assunto che a redditi bassi corrispondano livelli altrettanto bassi del tenore di vita familiare e a sostenere che la rilevazione del disagio sociale debba basarsi in maniera più diretta sulle differenti forme di deprivazione che le persone sperimentano nella propria vita. Questa prospettiva è stata successivamente sviluppata da vari studiosi, che hanno indirizzato i propri interessi verso una misura diretta del livello di vita delle famiglie (Townsend 1987; Mayer e Jencks 1989; Halleröd 1995) e hanno portato all‟attenzione del dibattito la necessità di indagare in modo specifico le differenti dimensioni della deprivazione (Callan et al. 1993; Muffels 1993). Definendo la deprivazione come assenza forzata di beni, amenities, attività, numerose ricerche hanno dimostrato come il rapporto tra livello di reddito ed effettive condizioni di vita sia tutt‟altro che lineare (Layte et al. 2001; Perry 2002; Apospori e Millar 2003; Whelan et al. 2003; Halleröd et al. 2006).

Un rapporto pubblicato dall‟OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) ha sottolineato le limitazioni presenti nel tradizionale approccio alla povertà basato su indicatori monetari, affermando che le misure basate sul reddito non sono in grado di rappresentare in modo esaustivo il concetto di “controllo delle risorse” elaborato da Townsend. Infatti esse non considerano le capacità individuali e familiari di ottenere in prestito beni o servizi, di attingere da risparmi accumulati, di beneficiare del supporto materiale e immateriale fornito dalla famiglia, e di ricorrere a servizi educativi, sanitari o abitativi erogati gratuitamente dal settore pubblico (Boarini e Mira d'Ercole 2006).

Secondo Saunders (2005), concentrandosi esclusivamente sul reddito, la ricerca sulla povertà rischia di perdere di vista le reali condizioni di vita degli individui. Benché il reddito sia un fattore decisivo nel determinare il livello di vita delle persone, non può essere trascurato il ruolo di mediazione che altri tipi di risorse rivestono nel soddisfacimento dei bisogni di individui e famiglie, proteggendoli dal rischio di impoverimento o al contrario aggravando delle situazioni non critiche dal punto di vista del reddito. Includendo nell‟analisi altri fattori quali il capitale accumulato, l‟acceso al credito, l‟accesso alle risorse del welfare, il supporto delle reti parentali e sociali attivate in caso di necessità, il rapporto tra basso reddito e disagio sociale tende a diventare più tenue (Saunders et al. 2007).

10

L‟Unione Europea ha tenuto in considerazione questi avanzamenti teorici nella selezione degli indicatori utilizzati per la strategia “Europa 2020”, che mira a realizzare per gli stati membri dell‟Unione una crescita “intelligente, sostenibile e solidale”. A tal fine sono stati identificati cinque obiettivi da realizzare sui temi dell‟occupazione, della ricerca, dell‟energia, dell‟educazione e della povertà. Relativamente a quest‟ultimo ambito, l‟Unione Europea si prefigge di togliere almeno venti milioni di persone dal rischio di povertà e di esclusione sociale entro la fine del decennio. Per monitorare questo obiettivo, accanto a un indicatore tradizionale sul rischio di povertà relativa e a un indicatore sulla partecipazione al mercato del lavoro, viene utilizzato un indicatore riferito alla quota di persone in condizioni di “grave deprivazione materiale”. Esso esprime l‟impossibilità da parte dei soggetti di usufruire di alcuni beni o servizi che sono considerati di uso comune. In particolare vengono considerate deprivate le persone che non possono permettersi almeno quattro dei seguenti beni o servizi: il pagamento dell‟affitto o delle utenze domestiche; un riscaldamento adeguato per la propria abitazione; il pagamento di spese impreviste; un pasto di carne, pesce o un equivalente proteico ogni due giorni; una settimana all‟anno di vacanza fuori casa; un‟automobile; una lavatrice; un televisore; un telefono.

I dati presentati nella tabella 1 forniscono due spunti di riflessione. Innanzitutto l‟Italia fa registrare un valore piuttosto elevato di questo indicatore, inferiore rispetto alla media dell‟Unione Europea a 27 stati, ma superiore a quasi tutti i paesi dell‟area euro. Inoltre, nel nostro paese la grave deprivazione materiale è un fenomeno meno diffuso rispetto alla povertà relativa, che come abbiamo visto fa registrare, a seconda delle metodologie utilizzate, valori tra l‟11% e il 18%. Tabella 1 – Persone in condizioni di grave deprivazione materiale – Anno 2010 (valori percentuali)

Bulgaria 35,0 Slovacchia 11,4 Slovenia 5,9 Danimarca 2,7

Romania 31,0 Cipro 9,1 Francia 5,8 Olanda 2,2

Lettonia 27,4 Estonia 9,0 Malta 5,7 Norvegia 2,0

Ungheria 21,6 Portogallo 9,0 R. Unito 4,8 Islanda 1,8

Lituania 19,5 Irlanda 7,5 Germania 4,5 Svizzera 1,7

Croazia 14,5 Italia 6,9 Austria 4,3 Svezia 1,3

Polonia 14,2 Rep. Ceca 6,2 Spagna 4,0 Lussemb. 0,5

Grecia 11,6 Belgio 5,9 Finlandia 2,8 EU-27 8,1

Fonte: Eurostat 2012

1.3. L’approccio dinamico alla povertà

Gli approcci tradizionali allo studio della povertà guardano il fenomeno da un punto di vista statico. Essi adottano una prospettiva a-temporale, fotografando famiglie e individui in un dato momento e fornendo della povertà una rappresentazione istantanea. La povertà

11

è intesa in questo senso come una condizione puntuale dei soggetti, senza riferimento ai processi che ad essa sono sottesi. Le uniche informazioni che si possono ottenere sull‟evoluzione del fenomeno sono quelle ricavabili dal confronto tra più indagini effettuate in momenti diversi nel corso del tempo. In questo caso si possono effettuare delle considerazioni sull‟evoluzione della povertà a livello aggregato, ma non sui percorsi che conducono gli individui o le famiglie in condizioni di povertà.

Per ovviare a questo limite, nel corso degli ultimi decenni si è sviluppato il cosiddetto approccio dinamico agli studi sulla povertà. Nato negli Stati Uniti, in particolare con gli studi di Hill (1981), Duncan (1984), Bane e Ellwood (1986), è approdato in Europa solo nel decennio successivo, con le ricerche di Leisering e Leibfried (1999) in Germania e Walker (1994) nel Regno Unito. In questa prospettiva, la povertà è concettualizzata non come una condizione statica, ma come un fenomeno transitorio, che non necessariamente intrappola individui e famiglie per tutta la vita, ma che li può coinvolgere per limitati periodi di tempo o durante fasi particolarmente critiche. L‟approccio dinamico sposta il fuoco dell‟analisi “dalla fotografia della povertà al suo film” (Leisering 2003), mettendo in luce sia i processi di impoverimento, sia le traiettorie di uscita dalla povertà. Si parla ad esempio di povertà persistente, ricorrente o temporanea, in base alla durata e alla frequenza dei periodi di povertà vissuti dalle famiglie (Siza 2003). In Italia questo tipo di ricerche ha avuto uno sviluppo piuttosto tardivo (Negri 1991, Micheli e Laffi 1995) e solo recentemente ha cessato di considerare la dinamica della povertà nell‟accezione negativa di deriva sociale, riservando più attenzione anche agli episodi di uscita dalla povertà (Pannunzi 2002; Biolcati Rinaldi 2006; Devicienti e Poggi 2009).

Gli studi tradizionali sulla povertà danno un‟immagine di apparente stabilità del fenomeno: infatti l‟incidenza della povertà tende a presentare valori piuttosto regolari nel tempo, dando l‟erronea impressione che le famiglie povere siano sempre le stesse. In realtà diversi studi dimostrano come sono pochi i casi di povertà persistente e molti invece quelli di povertà temporanea: in pratica coloro che rimangono poveri a lungo sono un‟esigua minoranza, mentre coloro che sperimentano almeno un episodio di povertà sono molto più numerosi di quanto si pensi. In uno studio condotto da Devicienti e Gualtieri (2004) su dati raccolti in otto edizioni del panel europeo ECHP (1994-2001), emerge come l‟incidenza della povertà in un dato anno sia in media circa il 17%, mentre la percentuale della popolazione che è stata povera per almeno un anno all‟interno del periodo di osservazione è ben più elevata (tabella 2). Ben il 46% degli individui è stato colpito almeno una volta dalla povertà, ma coloro che sono rimasti poveri per tutti gli otto anni sono solo il 3%. Per il 13% dei casi la povertà è invece un fatto episodico, essendo rimasti poveri per un solo anno.

12

Tabella 2 – Percentuale di individui per numero di anni in povertà – Italia, anni 1994-2001 (valori percentuali)

Numero di anni in povertà 0 1 2 3 4 5 6 7 8

Percentuale di individui 54,0 13,4 7,3 6,4 4,2 4,1 3,1 4,0 3,5

Fonte: Devicienti e Gualtieri 2004

I risultati degli studi dinamici sulla povertà mettono in dubbio la validità delle teorie dell‟underclass (Wilson 1987), secondo cui la società sarebbe attraversata da una divisione rigida tra benessere e povertà. Il passaggio dall‟una all‟altra condizione sarebbe molto difficile, a causa dell‟esistenza di una presunta “cultura della povertà”, che priverebbe i soggetti delle risorse culturali e relazionali necessarie per migliorare le proprie condizioni di vita, intrappolandoli indefinitamente in uno stato di povertà. In realtà la povertà è spesso una situazione legata a particolari fasi del corso di vita e può perciò essere superata. Allo stesso modo, una condizione di relativo benessere non esclude la possibilità di impoverimento in presenza di particolari eventi vulneranti. 1.4. Sentirsi poveri: la povertà soggettiva

Le prospettive di analisi finora presentate fanno ricorso a indicatori oggettivi per misurare la quantità di risorse detenute dagli individui o dalle famiglie oggetto di indagine. Così si ricorre, per esempio, alla rilevazione del reddito corrente o della spesa mensile per consumi, o al possesso di determinati beni durevoli da parte degli intervistati. L‟assunto dal quale muovono questi approcci è che la valutazione delle condizioni di vita dei soggetti debba essere effettuata ricorrendo a un criterio comune, stabilito dal ricercatore a partire da considerazioni di carattere teorico e dall‟applicazione di metodi e definizioni desunti dalla letteratura di riferimento.

In anni recenti tuttavia, si è sviluppata una metodologia alternativa, il cosiddetto approccio soggettivo alla povertà. Tale prospettiva è maturata nel contesto anglosassone, grazie in particolare alle attività di ricerca condotte dal Townsend Centre for International Poverty Research dell‟Università di Bristol, e si è recentemente diffusa anche in Italia, con ricerche sia a livello nazionale (Stranges 2007), sia a livello locale (Biorcio 2005; Pesenti 2007). La considerazione alla base degli orientamenti soggettivi è che sia l‟attore stesso il soggetto più idoneo a giudicare il livello della propria condizione di vita, poiché la percezione che ciascuno ha dei propri bisogni e del loro soddisfacimento permette di cogliere il concetto di povertà meglio di quanto possa fare la valutazione di un osservatore esterno, la quale, pur tendendo all‟obiettività, risulta inevitabilmente arbitraria, semplificata e orientata da giudizi di valore. L‟approccio soggettivo offre il principale vantaggio di risolvere il problema dell‟arbitrarietà delle soglie, non fissandole a priori ma ricavandole a posteriori sulla base delle risposte fornite. Il principale elemento di criticità di questi approcci è rappresentato dal fatto che il ricorso a valutazioni

13

soggettive rende difficile l‟interpretazione e la comparazione dei risultati ottenuti. La percezione dei soggetti riguardo alle proprie condizioni di vita è influenzata, oltre che da fattori sociali ed economici, anche da elementi culturali, psicologici ed emozionali, che orientano i giudizi sulla corrispondenza tra aspettative soggettive e risorse a disposizione.

I dati sulla povertà soggettiva in Italia sono rilevati attraverso diverse indagini, tra cui la principale è l‟indagine sui consumi delle famiglie, che è la stessa fonte su cui Istat basa le stime sull‟incidenza della povertà oggettiva (relativa e assoluta). La povertà soggettiva è rilevata attraverso la risposta alla seguente domanda: “Facendo riferimento alla situazione economica della sua famiglia, lei come la definirebbe: molto ricca; ricca; né ricca né povera; povera; molto povera?”. Stranges (2007) analizza in modo congiunto i dati sulla povertà oggettiva e soggettiva, elaborando una tipologia delle famiglie italiane in base alla coerenza o all‟incoerenza tra povertà misurata oggettivamente e povertà percepita. I dati sono presentati in tabella 3. Tabella 3 – Famiglie oggettivamente e soggettivamente povere in Italia – Anno 2002 (valori percentuali)

Povertà soggettiva Povertà oggettiva

Sì No

Sì Deprivazione

2,4

Dissonanza

6,3

No Adattamento

8,6

Benessere

82,7

Fonte: Stranges 2007.

La condizione di benessere identifica le famiglie che non sono né oggettivamente né soggettivamente povere: si tratta della grande maggioranza delle famiglie italiane (83%). Al contrario, la deprivazione vera e propria si verifica laddove vi sia contemporaneamente povertà soggettiva e oggettiva: è un caso molto infrequente, che riguarda poco più del 2% delle famiglie italiane. Vi sono poi i casi in cui povertà soggettiva e oggettiva sono discordanti. Se la famiglia si sente povera ma non lo è dal punto di vista oggettivo si parla di dissonanza, una condizione che si verifica nel 6% dei casi. Tali situazioni sono frequenti soprattutto nelle regioni del Nord, e comunque in contesti di diffuso benessere, laddove il confronto con standard di vita molto elevati può far sentire povere anche famiglie che dal punto di vista monetario non lo sono. Infine vi è il caso dell‟adattamento, che identifica nuclei che vengono classificati come poveri in base ai loro consumi, ma che alla richiesta di collocarsi su un continuum ricchezza-povertà non si definiscono poveri. Questa situazione è molto diffusa, perché riguarda oltre l‟8% delle famiglie italiane e il 78% di quelle povere. I casi di adattamento sono più comuni nel Mezzogiorno, dove ridotte disponibilità

14

economiche possono essere in taluni casi compensate da un minor costo della vita. Inoltre va ricordato che la rilevazione della povertà soggettiva risente del fenomeno della desiderabilità sociale, in base a cui gli individui possono dare una rappresentazione migliorativa della propria condizione economica per avvicinarla a quanto considerano socialmente desiderabile. 1.5. L’esclusione sociale

Che si parli di povertà assoluta o relativa, monetaria o non monetaria, statica o dinamica, oggettiva o soggettiva, tutti gli approcci finora presentati condividono la caratteristica di fare riferimento solo alla dimensione economica del disagio sociale. L‟utilizzo esclusivo di indicatori di tipo economico (siano essi relativi al reddito, al consumo, ai beni materiali) restituisce un‟immagine della povertà sostanzialmente unidimensionale. Tuttavia in letteratura sono presenti approcci che definiscono in modo alternativo la povertà. Secondo questi modelli, la carenza di risorse economiche è solo una delle diverse forme di svantaggio riscontrabili nelle società a capitalismo avanzato e il disagio sociale deve essere tematizzato come un concetto complesso e multidimensionale.

Il più diffuso approccio multidimensionale è quello che fa riferimento al concetto di esclusione sociale. Il termine nasce in Francia negli anni ‟70, ad opera di René Lenoir (1974), che lo utilizza per descrivere un processo di rottura dei legami sociali al quale sono sottoposti specifici gruppi di popolazione, identificati come les exclus. Costoro presentano una duplice forma di svantaggio: da un lato possiedono caratteristiche di particolare fragilità sociale, dall‟altro risultano esclusi dalla protezione del welfare. Tali condizioni ostacolano la piena partecipazione di questo gruppo alla vita sociale, economica e politica. Lenoir si riferisce per esempio a categorie quali i soggetti colpiti da handicap fisici e psichici, i tossicodipendenti, gli anziani invalidi, i minori vittime di abusi, e in genere tutti i soggetti socialmente non integrati, che l‟autore quantifica in circa un decimo della popolazione francese.

Questa prima definizione è stata in seguito rielaborata ed estesa, per comprendere dapprima la partecipazione instabile al mercato del lavoro (Paugam 1996) e successivamente aspetti come l‟impossibilità di godere pienamente dei diritti di cittadinanza, la discriminazione e la disuguaglianza di opportunità. L‟esclusione sociale è oggi tematizzata come un concetto ampio ed estremamente sfaccettato. Silver (2006) ne dà la seguente definizione:

Social exclusion is a rupturing of the social bond. It is a process of declining participation, access, and solidarity. At the societal level, it reflects inadequate social cohesion or integration. At the individual level, it refers to the incapacity to participate in normatively expected social activities and to build meaningful social relations (Silver 2006, p. 4411).

La prospettiva dell‟esclusione sociale concentra la propria attenzione sull‟identificazione dei processi che danno luogo alla marginalità, le

15

dinamiche relazionali su cui essa poggia, e le conseguenze sulla capacità dei soggetti di esercitare controllo sulle proprie vite, mentre una minore attenzione viene dedicata all‟indisponibilità di beni e servizi dovuta ad una carenza di risorse (Saunders et al. 2007). Per questa sua natura relazionale piuttosto che distributiva l‟esclusione sociale si discosta dalla nozione di povertà: è infatti intesa come l‟esito estremo di un processo di fragilizzazione dei meccanismi di integrazione sociale, più che come una situazione di inadeguatezza o ineguaglianza nella sfera delle acquisizioni materiali.

Come evidenziato da Atkinson (1998b) l‟esclusione sociale poggia su tre importanti pilastri concettuali: la relatività – ovvero l‟idea che l‟esclusione possa essere giudicata solo comparando le condizioni di individui, gruppi o comunità con altri, in un dato luogo e in un dato tempo; la dinamicità – cioè l‟enfasi posta sul fatto che il fenomeno possa essere compreso solo tramite l‟osservazione dei suoi effetti nel tempo; l‟agency – vale a dire il riconoscimento del fatto che l‟esclusione non è una conseguenza di dinamiche puramente strutturali, ma è l‟esito di processi che presuppongono soggetti in grado di agire.

Ciò che ha decretato il successo della nozione di esclusione sociale è stata l‟adozione del termine da parte dell‟Unione Europea. Comparso per la prima volta in un documento ufficiale nel 1988, esso ha da allora influenzato profondamente il discorso pubblico e le politiche prima comunitarie, poi dei singoli stati membri, tanto da sostituire progressivamente i temi della povertà e del disagio sociale (Negri e Saraceno 2000; Ranci 2002), fino a diventare verso la metà degli anni ‟90 “un termine pigliatutto che copre tutti i tipi di problemi di privazione e ineguaglianza” (Leisering 2003, p. 37). In quegli anni, rispetto alla tradizionale nozione di povertà, il riferimento all‟esclusione sociale sembra maggiormente adatto a cogliere la natura processuale dei fenomeni di impoverimento e di deriva sociale, gli aspetti non esclusivamente economici del disagio, le difficoltà incontrate nella piena partecipazione alla società, le barriere d‟accesso al mercato del lavoro, a quello dell‟abitazione, ai sistemi educativi, ai servizi sanitari e sociali (Siza 2003).

Se alla nozione di esclusione sociale è generalmente riconosciuto il merito di aver portato all‟interno del dibattito una visione del disagio sociale multidimensionale e processuale, tuttavia al concetto sono state mosse diverse critiche, riconducibili in particolare a due filoni. Una prima critica riguarda la scarsa precisione analitica del concetto. Infatti non esiste una definizione di esclusione sociale largamente condivisa all‟interno della comunità scientifica e generalmente il termine viene impiegato con riferimento a una gamma molto ampia e diversificata di problematiche sociali. Un secondo elemento di criticità è relativo al fatto che l‟esclusione sociale tende a ricondurre tutti i problemi sociali a manifestazioni di marginalità conclamata, nascondendo così forme meno visibili, ma certo più diffuse di disuguaglianza e disagio (Becchi 1996).

16

Capitolo Secondo

CHI SONO I POVERI?

SOMMARIO 2.1. Le soglie di povertà – 2.2. La distribuzione territoriale della povertà – 2.3. Il profilo sociale delle famiglie povere – 2.4. L‟andamento della povertà nel corso del tempo

Dopo aver presentato i diversi approcci allo studio della povertà, risulta utile fornire una breve panoramica del fenomeno in Italia, desunta dai più recenti dati ufficiali a disposizione. L‟obiettivo di questa analisi è quello di valutare l‟incidenza della povertà e i profili sociali maggiormente a rischio di impoverimento nel nostro paese. Per far questo si farà ricorso ai dati raccolti da Istat nell‟ambito dell‟indagine sui consumi delle famiglie, lo strumento principale attraverso il quale viene rilevata la povertà in Italia. Verranno comparate due definizioni diverse di povertà, quella relativa e quella assoluta, per poter evidenziare analogie e differenze tra i risultati ottenuti applicando i due differenti metodi. Rispetto al quadro teorico delineato in precedenza, è opportuno sottolineare che ci muoviamo all‟interno di un approccio tradizionale allo studio della povertà. Essa viene intesa in senso unidimensionale e misurata esclusivamente attraverso un indicatore monetario, cioè la spesa per consumi. L‟approccio utilizzato è di tipo statico, poiché i dati consentono di fotografare il fenomeno in un dato momento (il 2010), non di descrivere le traiettorie di entrata e uscita dalla povertà. Infine, l‟attenzione è posta sulla dimensione oggettiva della povertà, non sulla sua percezione da parte dei soggetti: la classificazione di famiglie e individui come poveri o non poveri è infatti determinata attraverso criteri standard e definiti a priori. 2.1. Le soglie di povertà

Sia nel caso della povertà relativa che di quella assoluta, viene innanzitutto fissata una soglia al di sotto della quale classificare una famiglia come povera. Per quanto riguarda la povertà relativa, tale soglia è fissata al 50% della spesa media mensile per consumi rilevata a livello nazionale. Questo significa che per una famiglia di due persone la soglia di povertà è pari alla spesa media mensile pro-capite, o, detto in altri termini, una famiglia di due persone è povera se consuma meno di quanto mediamente consuma una singola persona. Tale soglia per il 2011 era pari a 1.011,03 euro mensili. Nel caso di famiglie con un numero di componenti diverso da due, il valore della soglia viene moltiplicato per un coefficiente di equivalenza, che tiene conto delle economie di scala presenti nelle famiglie numerose. La scala di equivalenza utilizzata da Istat (scala

17

Carbonaro) e i rispettivi valori della soglia di povertà relativa sono presentati nella tabella 4. Tabella 4 – Scala di equivalenza e soglie mensili di povertà relativa – Anno 2011 (euro)

Ampiezza della famiglia Scala di equivalenza

(coefficienti) Linea di povertà

1 0,6 606,62

2 1 1.011,03

3 1,33 1.344,67

4 1,63 1.647,98

5 1,9 1.920,96

6 2,16 2.183,83

7 o più 2,4 2.426,47

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011

Per quanto riguarda la povertà assoluta, la soglia viene calcolata sulla base di un paniere standard, che rappresenta l‟insieme dei beni e servizi che, nel contesto italiano, sono considerati essenziali per una famiglia al fine di conseguire uno standard di vita accettabile (Istat 2009). A tale paniere viene attribuito un valore monetario, che rappresenta la soglia di povertà. Le famiglie con spese per consumi inferiori al valore della soglia vengono classificate come povere in senso assoluto. La soglia di povertà assoluta, contrariamente a quella relativa, varia non solo in base al numero di componenti familiari, ma anche alla loro età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza. Questi aggiustamenti sono necessari per tenere conto sia delle differenti esigenze di consumo da parte di famiglie diverse, sia del diverso costo della vita tra grandi e piccole città e tra varie aree del paese. A titolo esemplificativo, nella tabella 5 si riportano le soglie di povertà assoluta per tre tipi piuttosto diffusi di famiglia: un nucleo composto da un anziano solo, una coppia senza figli e una coppia con due figli minori. Tabella 5 – Soglie mensili di povertà assoluta per alcune tipologie familiari, ripartizione geografica e tipo di comune – Anno 2011 (euro)

Area geografica Tipologia familiare

1 componente 75+ anni

2 componenti 18-59 anni

2 comp. 4-10 e 2 comp. 18-59

Nord

Area metrop. 715,85 1.081,91 1.559,99

Grandi comuni 678,11 1.036,37 1.495,02

Piccoli comuni 634,52 984,73 1.423,91

Centro

Area metrop. 697,91 1.032,09 1.479,98

Grandi comuni 658,22 984,20 1.411,65

Piccoli comuni 612,38 929,88 1.336,86

Mezzogiorno

Area metrop. 521,63 825,23 1.206,77

Grandi comuni 501,56 801,77 1.175,48

Piccoli comuni 466,61 761,38 1.122,92

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011

18

2.2. La distribuzione territoriale della povertà

Una volta definite le soglie di povertà, è possibile stimare l‟incidenza del fenomeno in Italia, sia a livello familiare che individuale (tabella 6). Considerando dapprima i dati riguardanti la povertà relativa, il numero di famiglie povere ammontava nel 2011 a 2 milioni e 782 mila, pari all‟11,1% delle famiglie residenti. La povertà assoluta colpiva invece un numero più ridotto di famiglie, 1 milione e 297 mila nuclei, con un‟incidenza del 5,2%. La ragione della minore diffusione della povertà assoluta sta nel fatto che la soglia è collocata ad un livello più basso, indicando quindi un disagio economico più grave. Se si passa dal livello familiare a quello individuale, l‟incidenza della povertà aumenta: il 13,6% delle persone residenti in Italia è infatti in condizione di povertà relativa, mentre il 5,7% è in povertà assoluta. La maggiore incidenza del fenomeno a livello individuale è dovuta al fatto che, come sarà approfondito in seguito, la povertà risulta più diffusa tra le famiglie numerose. Tabella 6 – Indicatori di povertà relativa e assoluta per famiglie e individui in Italia – Anno 2011

Povertà Relativa Povertà Assoluta

Migliaia di unità

Famiglie povere 2.782 1.297

Individui poveri 8.173 3.415

Incidenza della povertà (%)

Famiglie 11,1% 5,2%

Individui 13,6% 5,7%

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011

Un‟altra caratteristica rilevante della povertà in Italia riguarda le forti disuguaglianze territoriali esistenti tra Nord, Centro e Sud del paese. Storicamente nel Mezzogiorno l‟incidenza della povertà è sempre stata molto più elevata rispetto al resto del paese, in ragione delle ben note disparità a livello del sistema economico e produttivo, nonché dei minori livelli di occupazione presenti nelle regioni meridionali. Tabella 7 – Incidenza di povertà relativa e assoluta per ripartizione geografica – Anno 2011

Povertà relativa Povertà assoluta

Nord Famiglie 4,9 3,7

Individui 5,9 4,0

Centro Famiglie 6,4 4,1

Individui 7,9 4,1

Mezzogiorno Famiglie 23,3 8,0

Individui 26,9 8,8

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011

19

Come mostra la tabella 7, la povertà relativa arriva a coinvolgere quasi una famiglia su quattro nel Mezzogiorno, mentre riguarda meno di 5 famiglie su cento al Nord. Le differenze geografiche emergono anche quando si osserva la povertà assoluta. Tuttavia in questo secondo caso esse appaiono meno marcate perché, come si è visto in precedenza, la soglia di povertà assoluta tiene conto dei differenziali territoriali relativi al costo della vita. Questo fa sì che l‟incidenza della povertà assoluta nel Mezzogiorno si fermi al 8%, un valore comunque doppio rispetto a quelli registrati al Nord e al Centro.

Se si approfondisce l‟analisi dei dati, scendendo al dettaglio regionale, è possibile effettuare considerazioni più approfondite sulla natura delle disuguaglianze territoriali in Italia. In quest‟ottica appare di particolare interesse l‟esame della correlazione tra l‟incidenza della povertà e il tasso di disoccupazione nelle venti regioni italiane. Come si può osservare nel grafico 1, la relazione tra queste due variabili appare molto forte, con l‟incidenza della povertà che cresce in modo pressoché lineare al crescere dei tassi di disoccupazione. Grafico 1 – Relazione tra tasso di disoccupazione e incidenza della povertà relativa nelle venti regioni italiane – Anno 2011

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011 e Rilevazione sulle forze di

lavoro 2011

È interessante notare come le disparità territoriali tendano a formare due gruppi di regioni piuttosto omogenei. Da un lato vi sono le regioni meridionali e le isole (Basilicata, Calabria, Puglia, Campania, Sicilia e Sardegna), le quali si comportano in maniera molto simile tra loro,

20

differenziandosi nettamente dal resto del paese. In questo gruppo si registra un elevato livello di disoccupazione, accompagnato da un‟incidenza della povertà relativa superiore al 20 per cento. Al contrario, le regioni del Nord e del Centro mostrano tassi di disoccupazione medio-bassi e livelli di povertà inferiori al 10 per cento. Tra questi due gruppi, le regioni Abruzzo e Molise si collocano in posizione intermedia. La relazione tra fenomeni di impoverimento e scarsa partecipazione al mercato del lavoro ha importanti conseguenze dal punto di vista delle politiche pubbliche. È evidente infatti che interventi mirati a incrementare l‟occupazione, specialmente nel Mezzogiorno, potrebbero portare benefici rilevanti alla riduzione della povertà nel nostro paese. 2.3. Il profilo sociale delle famiglie povere

Le caratteristiche familiari influiscono fortemente sul rischio di cadere in condizione di povertà (tabella 8). Più specificamente, tale rischio aumenta in modo marcato al crescere delle dimensioni familiari: tra i nuclei con cinque o più componenti, l‟incidenza della povertà relativa sfiora il 30%, quella della povertà assoluta supera il 12%. Tabella 8 – Incidenza della povertà relativa e assoluta per caratteristiche familiari – Anno 2011

Ampiezza della famiglia Povertà relativa Povertà assoluta

1 componente 6,7 5,1

2 componenti 9,4 4,1

3 componenti 11,7 4,7

4 componenti 15,6 5,2

5 o più componenti 28,5 12,3

Tipologia familiare

persona sola con meno di 65 anni 3,6 3,5

persona sola con 65 anni e più 10,1 6,8

coppia con p.r. (a) con meno di 65 anni 4,6 2,6

coppia con p.r. (a) con 65 anni e più 11,3 4,3

coppia con 1 figlio 10,4 4,0

coppia con 2 figli 14,8 4,9

coppia con 3 o più figli 27,2 10,4

monogenitore 13,2 5,8

altre tipologie 22,0 10,4

Famiglie con figli minori

con 1 figlio minore 13,5 5,7

con 2 figli minori 16,2 5,8

con 3 o più figli minori 27,8 10,9

Totale nazionale 11,1 5,2

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011

È soprattutto la presenza di figli minori a rendere più fragile la situazione economica delle famiglie, a causa delle maggiori spese a cui sono sottoposti i nuclei con bambini, oltre che per l‟uscita dal

21

mercato del lavoro della madre a seguito della nascita dei figli. Quest‟ultima situazione risulta ancora piuttosto comune in Italia, anche a causa di un sistema di welfare che non tutela adeguatamente le madri lavoratrici e tende a delegare completamente alla famiglia l‟onere della cura dei soggetti più deboli. Sembra in particolare la nascita del terzo figlio uno degli eventi che espone maggiormente le famiglie al rischio di impoverimento: l‟incidenza della povertà in presenza di tre figli minori è infatti quasi doppia rispetto a quella registrata quando i minori sono due.

Tra gli altri tipi di famiglia, piuttosto fragile appare la condizione dei nuclei monoparentali (in gran parte formati da donne), mentre risultano relativamente protetti dai rischi di impoverimento i single e le coppie non anziane senza figli, ove in molti casi la compresenza di due redditi da lavoro allontana il rischio di povertà. Tabella 9 – Incidenza della povertà relativa e assoluta per caratteristiche della persona di riferimento – Anno 2011

Età Povertà relativa Povertà assoluta

Fino a 34 anni 10,8 5,3

Da 35 a 44 anni 11,0 4,8

Da 45 a 54 anni 11,4 5,3

Da 55 a 64 anni 8,5 3,8

65 anni e oltre 12,2 6,0

Titolo di studio

Nessuno-elementare 18,1 9,4

Media inferiore 14,1 6,2

Media superiore e oltre 5,0 2,0

Condizione e posizione professionale

Occupato 9,1 3,9

Dipendente 9,4 4,1

Dirigente / impiegato 4,4 1,3

Operaio o assimilato 15,4 7,5

Autonomo 7,9 2,9

Imprenditore / libero professionista 3,4 *

Lavoratore in proprio 11,2 4,2

Non occupato 13,3 6,6

Ritirato dal lavoro 11,0 5,4

In cerca di occupazione 27,8 15,5

In altra condizione 17,6 8,4

* valore non significativo a causa della ridotta numerosità campionaria

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie 2011

Alcune considerazioni di interesse sui profili sociali maggiormente associati a rischi di impoverimento emergono infine dall‟analisi dell‟incidenza della povertà per classi d‟età, livello di istruzione e condizione occupazionale. Insieme alla dimensione del nucleo familiare e alla presenza di figli, sono infatti queste le variabili a giocare il ruolo principale all‟interno dei processi di impoverimento. Si

22

tratta in questo caso di caratteristiche individuali, non familiari, pertanto esse vengono rilevate convenzionalmente rispetto alla persona di riferimento del nucleo familiare, ovvero la persona a cui è intestata la scheda di famiglia anagrafica.

Come si può osservare nella tabella 9, l‟età non influenza in modo rilevante né l‟incidenza della povertà relativa né di quella assoluta, se si eccettua un rischio leggermente più alto per le famiglie con persona di riferimento ultrasessantacinquenne, ovvero in età non attiva. Di converso, la povertà è leggermente meno diffusa tra le famiglie con persona di riferimento tra 55 e 64 anni, ovvero nella classe d‟età in cui i redditi da lavoro tendono ad essere massimi ed è meno probabile la presenza di figli a carico. Fortemente associato alle condizioni economiche è invece il livello di istruzione: il rischio di povertà è massimo per le famiglie con persona di riferimento senza titolo di studio e diminuisce all‟aumentare del livello di istruzione raggiunto. Per chi possiede un diploma o una laurea, ad esempio, il rischio di cadere in povertà assoluta è al 2%, quasi 5 volte più basso di quello fatto registrare dalle famiglie guidate da una persona senza titolo. 2.4. L’andamento della povertà nel corso del tempo

Ulteriori considerazioni interessanti possono essere effettuate a partire da un‟indagine diacronica dell‟incidenza della povertà in Italia. In particolare appare opportuno chiedersi se il fenomeno della povertà abbia fatto registrare un incremento nel corso degli ultimi anni, in corrispondenza del dispiegarsi della crisi economica globale che ha colpito le principali economie mondiali a partire dal 2008. Per rispondere a questo interrogativo è utile analizzare le serie storiche degli indicatori di povertà assoluta e relativa tra il 2005 e il 2011 (tabella 10). Tabella 10 – Serie storiche degli indicatori di povertà relativa e assoluta in Italia – Anni 2005-2011

Anno Incidenza della povertà

relativa Incidenza della povertà

assoluta

2005 11,1 4,0

2006 11,1 4,1

2007 11,1 4,1

2008 11,3 4,6

2009 10,8 4,7

2010 11,0 4,6

2011 11,1 5,2

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie

Guardando in prima battuta alla povertà relativa, sembrerebbe potersi escludere un aumento del fenomeno in corrispondenza della crisi. L‟incidenza della povertà relativa infatti è rimasta grossomodo stabile negli ultimi sette anni, con valori che si attestano intorno al 11% a livello nazionale. Tuttavia se si prendono in considerazione i

23

livelli di incidenza della povertà assoluta, si può osservare un graduale incremento, che ha portato l‟indicatore dal 4% al 5,2% nel periodo preso in esame, con aumenti particolarmente significativi nel 2008 e nel 2011. A livello nazionale il numero di famiglie povere è cresciuto in sette anni di 365.000 unità (+39%), passando da 932.000 a 1.297.000 famiglie tra il 2005 e il 2011.

A questo punto occorre chiedersi come mai i due indicatori di povertà presentino un andamento differente nel corso del tempo. La ragione principale risiede nel modo in cui i due indicatori sono costruiti (si veda il primo capitolo). In particolare, la povertà relativa viene definita sulla base delle condizioni economiche mediamente diffuse nel paese, mentre la povertà assoluta viene calcolata a partire da un paniere standard di beni e servizi considerati essenziali, a prescindere dal livello economico complessivo del paese.

Per quanto riguarda l‟indicatore di povertà relativa, uno dei fattori che può spiegarne la stabilità è che quest‟ultimo non è legato direttamente alle fluttuazioni dei cicli economici. Infatti il numero di famiglie in povertà relativa non dipende dal livello complessivo di benessere del paese, quanto piuttosto dalla maggiore o minore equità nella distribuzione del benessere stesso. In fasi di recessione economica è probabile osservare un abbassamento generale del livello dei consumi nella popolazione. Questo fa sì che anche la linea di povertà relativa si abbassi. Se il calo dei consumi colpisce in modo simile i vari gruppi sociali (non c‟è dunque un aumento della disuguaglianza), il numero di famiglie che ricadono sotto la linea di povertà non cambia. In questo caso, anche se tutto il paese “sta peggio di prima”, l‟incidenza della povertà relativa non cambia.

Il fenomeno appena descritto è quello che è avvenuto in Italia negli anni a cavallo della crisi economica. Nella tabella 11 si può osservare l‟andamento del valore della soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti tra il 2005 e il 2011. Tabella 11 – Serie storiche della soglia di povertà relativa a valori nominali e reali – Anni 2005-2011

Anno Soglia di povertà

relativa (€/mese)

Coefficiente di rivalutazione

(2005 = 1)

Soglia espressa in valori 2005

(€/mese)

2005 936,58 1,000 936,58

2006 970,34 1,020 951,31

2007 986,35 1,038 950,24

2008 999,67 1,071 933,40

2009 983,01 1,079 911,04

2010 992,46 1,096 905,53

2011 1011,03 1,125 898,69

Fonte: Nostra elaborazione su dati Istat

Nel periodo di riferimento il valore nominale di tale soglia è aumentato da 936 a 1.011 Euro al mese. Tuttavia, se si tiene sotto controllo l‟effetto dell‟inflazione, si può constatare che in termini reali

24

il valore della soglia di povertà relativa è diminuito di quasi 38 euro, scendendo fino a 898 euro al mese nel 2011, segno che il livello generale dei consumi in Italia ha avuto un consistente calo in seguito alla crisi.

Se dunque negli anni della crisi economica – pur in presenza di consumi decrescenti – la povertà relativa è rimasta stabile, è perché nel medesimo periodo nel nostro paese non è cambiato il livello delle disuguaglianze distributive. Pertanto i consumi sono diminuiti in modo proporzionalmente simile sia per le fasce più agiate che per quelle meno agiate. La stabilità delle disuguaglianze in Italia si può verificare attraverso l‟analisi dell‟indice di Gini, che misura la concentrazione nella distribuzione dei consumi e assume valori compresi tra 0 (massima uguaglianza) e 1 (massima disuguaglianza). Come si può osservare dalla tabella 12, tale indice è rimasto sostanzialmente stabile, passando nel periodo considerato da 0,324 a 0,327 punti. Tabella 12 – Serie storica dell’indice di Gini relativo alla spesa per consumi in Italia – Anni 2005-2011

Anno Indice di Gini

2005 0,324

2006 0,328

2007 0,325

2008 0,321

2009 0,325

2010 0,323

2011 0,327

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie

Una dinamica differente si osserva invece per quanto riguarda la povertà assoluta, che, come poc‟anzi mostrato, è aumentata in modo significativo negli ultimi sette anni. Tale evoluzione è senz‟altro più intuitiva, poiché si muove in coerenza con l‟andamento recessivo dell‟economia. La soglia di povertà assoluta è indipendente dal livello di benessere generale, cioè non varia all‟aumentare o al diminuire dei consumi complessivi. Pertanto in condizioni di disuguaglianza costante l‟incidenza della povertà assoluta è inversamente correlata alle fluttuazioni del ciclo economico, aumentando in fasi di recessione e diminuendo in fasi di espansione. La relazione tra crisi economica e aumento della povertà è chiaramente visibile nel grafico 2, che mostra le serie storiche dell‟incidenza della povertà assoluta e della spesa media mensile familiare in Italia tra il 2005 e il 2011. Dal grafico emerge con chiarezza come a un triennio di sostanziale stabilità dei consumi e della povertà sia seguito, a partire dal 2008, un periodo di costante calo dei consumi, associato a un progressivo aumento dell‟incidenza della povertà assoluta.

25

Grafico 2 – Serie storiche della spesa media mensile familiare per consumi e dell’incidenza della povertà assoluta in Italia – Anni 2005-2011

€ 2.398€ 2.413

€ 2.389

€ 2.320

€ 2.263

€ 2.238

€ 2.211

4,04,1 4,1

4,6

4,7 4,6

5,2

3,0

3,5

4,0

4,5

5,0

5,5

6,0

2150

2200

2250

2300

2350

2400

2450

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011

Spesa media mensile familiare (prezzi 2005)

Incidenza povertà assoluta

Fonte: Nostra elaborazione su dati Istat, Indagine sui consumi delle famiglie

26

Capitolo Terzo

LE POLITICHE DI CONTRASTO DELLA POVERTÀ

SOMMARIO 3.1. Il quadro generale del sistema di welfare italiano – 3.2. Le modifiche introdotte dalle recenti riforme e l‟impatto sulle politiche contro la povertà – 3.3. Il contrasto della povertà in Italia

3.1. Il quadro generale del sistema di welfare italiano

La povertà in Italia, malgrado negli ultimi decenni si siano registrati enormi progressi nella qualità della vita delle famiglie italiane, rimane un fenomeno strutturale e di dimensioni significative. Ciò dimostra che nel nostro paese permangono profonde disuguaglianze nella distribuzione del reddito e delle opportunità in generale (educative, occupazionali), e che le politiche adottate per contrastare questo fenomeno non si sono rivelate adeguate. Nella seconda parte di questo contributo ci proponiamo di descrivere l‟insieme di strumenti e servizi volti a contrastare la povertà in Italia e di comprendere le ragioni della scarsa efficacia delle politiche.

Le politiche di contrasto della povertà rientrano nel più generale ambito delle politiche di welfare, le politiche cioè “tramite le quali lo Stato fornisce ai propri cittadini protezione contro rischi e bisogni prestabiliti” (Ferrera 2006, 17). L‟espressione ormai comunemente utilizzata di welfare state sta ad indicare come l‟assunzione di responsabilità crescenti da parte dello Stato nei confronti dei cittadini in ordine alla promozione del benessere, alla prevenzione contro il rischio di impoverimento e al sostegno delle condizioni di vita dei soggetti in povertà, rappresenti oggi una delle principali funzioni dello Stato. Secondo le stime OECD circa la metà della spesa pubblica è destinata alla spesa sociale, un valore leggermente superiore nel caso italiano3. Le politiche di welfare o di protezione sociale hanno quindi una notevole rilevanza per la vita dei cittadini in quanto una quota consistente del loro benessere dipende, oltre che dalla quantità, dalla qualità e dalle caratteristiche della spesa pubblica.

Al fine di inquadrare adeguatamente il modello di welfare italiano, e di conseguenza il sistema di politiche contro la povertà, facciamo riferimento alla tipologia proposta da G. Esping-Andersen nel 1990. Esping-Andersen utilizza due criteri per costruire una tipologia di regimi di welfare: 1) il grado di demercificazione, cioè in quale misura

3 OECD Factbook 2011. Nei paesi OECD la spesa pubblica nel 2007 era pari al

39,8% del PIL, la spesa sociale al 19,2%. I valori corrispondenti per l‟Italia erano rispettivamente 47,9% e 24,9%; per la Francia 52,4% e 28,4%; per il Regno Unito 44,1% e 20,5%; per la Germania 43,5% e 25,2%.

27

le prestazioni di welfare sono riconosciute come diritti e in quale misura consentono di mantenere uno standard di vita accettabile in assenza di un reddito da lavoro; 2) il tipo di stratificazione sociale, cioè il sistema di disuguaglianze strutturate, che il sistema di welfare tende a favorire. Incrociando queste dimensioni, Esping-Andersen identifica tre famiglie di regimi di welfare entro le quali si distribuiscono i paesi europei: 1) il regime liberale, fondato sulla centralità del mercato, genera deboli effetti di demercificazione e sostiene un sistema di stratificazione individualistico; è tipico dei paesi anglosassoni, dove l‟impegno dello Stato nella protezione sociale dei cittadini è minore;

2) il regime socialdemocratico, assegna invece un ruolo molto importante alle politiche di welfare, che risultano particolarmente efficaci nel ridurre la dipendenza individuale dal mercato promuovendo una visione universalistica del welfare; i paesi maggiormente rappresentativi sono quelli scandinavi;

3) il regime conservatore è infine orientato al mantenimento delle disuguaglianze sociali prodotte dalle origini sociali e dal mercato, ottenendo quindi un medio effetto di demercificazione; è il modello tipico dei paesi dell‟Europa continentale.

Questa tipologia proposta da Esping-Andersen ha avuto un enorme successo nella letteratura teorica e di ricerca sul welfare state, grazie alla chiarezza dei criteri utilizzati e alle numerose conferme empiriche prodotte dalla ricerca successiva4. Accanto ad aspetti abbastanza noti, quali il ruolo dello Stato (modesto nei paesi „liberali‟, medio in quelli „conservatori‟ e elevato in quelli „socialdemocratici‟) e il grado di disuguaglianza (elevata nei paesi „liberali‟, media in quelli „conservatori‟ e bassa in quelli „socialdemocratici‟), la distribuzione dei paesi nei tre modelli cattura anche le differenze in termini di modelli di intervento, di strumenti utilizzati e di profilo della spesa. Nei paesi liberali, per esempio, hanno un ruolo importante gli interventi di assistenza sociale basati sulla prova dei mezzi5, in quelli socialdemocratici hanno un rilievo maggiore gli interventi universalistici, e infine nei paesi corporativi prevale l‟importanza degli schemi assicurativi.

Una importante innovazione alla classificazione di Esping-Andersen è stata l‟individuazione di un quarto „regime‟ (Ferrera 1996), distinto da quello conservatore-corporativo, che raggruppa i paesi dell‟Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia). Il modello mediterraneo è caratterizzato da un forte ruolo dei legami di solidarietà familiare e parentale (Naldini 2002), rispetto ai quali le

4 Non è questa la sede per una valutazione della tipologia; per una rassegna della

letteratura e altre proposte di classificazione dei welfare state si rimanda a Arts e Gelissen (2002). 5 La prova dei mezzi, means-testing in inglese, è il principio per il quale la

possibilità di usufruire di una prestazione è subordinata alla verifica delle risorse in possesso del richiedente.

28

politiche di welfare intervengono in via subordinata. In altri termini, la famiglia rimane il fondamentale produttore e distributore di benessere per i propri membri, e le politiche pubbliche sono disegnate per mantenere la coesione familiare e la dipendenza reciproca dei componenti del nucleo famigliare. Questi paesi, diversamente da quelli del modello conservatore, hanno quindi introdotto schemi di sostegno e mantenimento del reddito molto generosi per le categorie centrali del mercato del lavoro (dipendenti pubblici e di grandi imprese) costituite, soprattutto in passato, prevalentemente da maschi adulti capifamiglia. In questo modo si assicurava la stabilità economica della famiglia, garantendo in modo molto efficace la stabilità della condizione occupazionale6 e del reddito, e quindi il benessere di tutti i componenti. Al contrario, per i lavoratori occupati in altri segmenti del mercato del lavoro (dipendenti di piccole imprese, autonomi, precari, ecc.) il sistema di garanzie è sempre stato molto scarso. In definitiva, i paesi mediterranei hanno creato “un sistema di protezione dualistico e polarizzato, con picchi di elevata generosità per alcune categorie (…) e vere e proprie lacune di protezione per altre categorie” (Ferrera 2006, 42). È emblematico che in questi paesi non esistano, o siano molto rudimentali, gli schemi di mantenimento del reddito di ultima istanza: è compito dei legami di solidarietà famigliare mantenere il benessere dell‟intero nucleo famigliare.

Il sistema di welfare italiano appartiene dunque al modello „mediterraneo‟, tuttavia manifesta alcune specificità che è opportuno ricordare. Se infatti osserviamo la distribuzione della spesa per la protezione sociale articolata nei diversi comparti, scopriamo che rispetto agli altri paesi europei il “rischio vecchiaia” assorbe una quota molto elevata di risorse: quasi l‟80% della spesa di welfare italiana (esclusa la sanità) si concentra su quest‟unico rischio sociale, lasciando pochissime risorse per tutte le altre voci. Se la spesa a favore della famiglia, in particolare per il sostegno dei figli, è modesta, ciò che colpisce è l‟irrisorio investimento nella questione abitativa e nella voce residuale, quella che include anche il contrasto della povertà. Sia in termini assoluti (9$ a parità di potere d‟acquisto) sia in termini percentuali (0,2% della spesa di welfare, contro per esempio il 7,8% dei Paesi Bassi o il 3,8% della Danimarca, ma anche l‟1,7% della Spagna) il ruolo di questa voce nella struttura della spesa di welfare nel nostro paese è quasi insignificante.

6 È noto, per esempio, che anche in periodi di forti tensioni nel mercato del lavoro,

il tasso di disoccupazione dei maschi adulti è sempre stato molto basso (Reyneri 1997; Sestito 2002).

29

Tabella 13 – Spesa pubblica pro-capite per protezione sociale in PPP ($) – Anno 2007

7

Vec

ch

iaia

+

su

pers

titi

Dis

ab

ilit

à

Fam

iglia

Lavo

ro*

Casa

Alt

ro

(tra

cu

i

po

vert

à)

To

tale

Danimarca 2.709 1.619 1.223 1200 258 275 7.284

Francia 4.258 583 995 751 252 115 6.954

Germania 3.810 671 651 749 215 60 6.156

Italia 4.490 550 443 282 7 9 5.781

Paesi Bassi 2.243 1.197 811 904 154 448 5.757

Spagna 2.727 816 396 918 59 86 5.002

Svezia 3.660 1.930 1.289 678 181 227 7.965

UK 2.141 885 1.176 189 518 60 4.969

USA 2.755 601 302 205 0 252 4.115

* La voce lavoro include sia le spese per il sostegno del reddito dei disoccupati sia

le spese per politiche attive

Fonte: nostre elaborazioni su database OECD

Non stupisce, di conseguenza, che l‟efficacia del sistema di welfare italiano nel contrastare la povertà sia particolarmente scarsa rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei. In generale si osserva una correlazione lineare tra „spesa elevata‟ e „riduzione della povertà‟, con Gran Bretagna e Italia come parziali eccezioni (grafico 3). La prima a fronte di una spesa sociale relativamente bassa (28,2% del PIL) ottiene una elevata riduzione della povertà8 (dal 30,4 al 17,3, pari a una riduzione del 44%); la seconda, invece, a fronte di una spesa sociale uguale a quella britannica (28,4) genera una riduzione della povertà molto più contenuta (dal 23,2 al 18,4, pari a una riduzione del 20,7%). Ciò significa non solo che il welfare italiano è poco efficace nel ridurre la povertà (e quindi la disuguaglianza), ma anche che è particolarmente poco efficiente, perché a fronte di una spesa simile a quella della media UE 15 riesce a ottenere un effetto positivo sulla popolazione molto modesto (il più basso di tutti i paesi considerati). Per dare una misura di questo, possiamo considerare che la spesa spagnola mostra un‟efficacia molto simile a quella italiana, ma spendendo 4 punti di PIL in meno.

7 I valori riportati nella tabella sono espressi in termini di parity purchaising power

(PPP), tenendo quindi conto del diverso potere di acquisto nei diversi paesi considerati. In altri termini, si neutralizza l‟effetto del diverso livello dei prezzi, rendendo quindi immediatamente comparabili i valori della spesa procapite. 8 La riduzione della povertà è misurata come la differenza tra la diffusione della

povertà prima dei trasferimenti sociali e la diffusione dopo i trasferimenti sociali.

30

Grafico 3 - Riduzione % della povertà dopo i trasferimenti (escluse le pensioni) e spesa sociale come % del PIL in alcuni paesi europei – Anno 2009

La povertà è calcolata a partire da una soglia del 60% del reddito mediano

equivalente.

Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat.

3.2. Le modifiche introdotte dalle recenti riforme e l’impatto sulle politiche contro la povertà Struttura della spesa di welfare e impatto di questa spesa sulla riduzione della povertà evidenziano quindi come l‟architettura istituzionale del nostro sistema di welfare generi esiti inefficaci. Infatti, coerentemente con le caratteristiche del modello di welfare mediterraneo, una delle peculiarità del nostro sistema è la sua spiccata frammentazione sia in relazione alle categorie di beneficiari sia in relazione alla qualità e quantità di servizi offerti nelle diverse aree territoriali. Per quanto riguarda il primo aspetto, si registrano svariate linee di segmentazione della popolazione in merito al tipo di protezione sociale di cui si può godere9: tra gli esempi emblematici possiamo ricordare i diversi profili di protezione dei lavoratori in funzione del tipo di contratto di impiego o delle caratteristiche dell‟azienda (grandi vs. piccole, private vs. pubbliche), oppure la moltiplicazione dei fondi pensionistici dedicati alle più svariate categorie di lavoratori10. La variabilità territoriale è il secondo aspetto caratteristico del nostro sistema di welfare, configurando una realtà

9 Su questo punto e sulle difficoltà di riforma del welfare si veda Ferrera (1998),

Boeri (2000), Boeri e Perotti (2002), Ascoli (2012). 10

In generale gli assetti di welfare sono una materia in costante trasformazione, a maggior ragione nel periodo in cui stiamo scrivendo (ultimi mesi del 2012). Gli interventi di riforma in varie materie del Governo Monti sono destinati a modificare gli assetti del welfare, ma non è ancora possibile valutarne l‟incisività.

Rid

uzio

ne %

de

lla p

ove

rtà

Spesa sociale come % del PIL

31

nazionale fortemente diseguale nella quantità di risorse e servizi di welfare offerti ai cittadini che ricalca la classica frattura fra Nord e Sud del paese11. Alcuni dati descrivono senza ambiguità la portata di questa specificità italiana. La spesa pro capite dei comuni per i servizi sociali, anche escludendo le regioni a statuto speciale che hanno una spesa ancora maggiore, scende dai 168€ dell‟Emilia-Romagna ai 30€ della Calabria (Istat, 2008), configurando così un assetto di welfare nel quale vi è maggiore disponibilità di risorse dove ve ne è meno bisogno e viceversa. Ugualmente, per fare un altro esempio, la disponibilità di posti in servizi socio-educativi per bambini di età compresa tra 0 e 2 anni (asili nido) scende dal Centro-nord verso Sud passando dai 29,5 posti per 100 bambini in Emilia-Romagna ai 2,7 posti in Campania.

La frammentazione del nostro sistema di welfare, l‟incapacità cioè di delineare una visione complessiva del sistema di protezione sociale, ha radici profonde, e può essere fatta risalire già al periodo post-unitario. Sia in campo previdenziale che assistenziale, l‟azione politica ha spesso seguito una logica particolaristica e di ricerca del consenso, determinando una moltiplicazione delle prestazioni e una loro progressiva estensione a platee sempre più ampie di beneficiari12. Tra gli effetti di questa crescita disordinata del welfare nel nostro paese, oltre alla modesta efficacia ed efficienza della spesa di cui si è detto, possiamo sottolineare la progressiva crescita della spesa, spesso senza una effettiva relazione col bisogno coperto, l‟estensione delle prestazioni a segmenti della popolazione che non ne avevano un effettivo bisogno, la scarsa trasparenza dei flussi redistributivi13.

La stagione di riforme tra la metà degli anni ‟90 e l‟inizio del secolo – riforma Dini delle pensioni del 1995, Commissione Onofri del 1997, introduzione dell‟indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) nel 1998, l. 328 del 2000 sulla riorganizzazione dei servizi sociali, riforma del Titolo V della Costituzione – ha inciso in modo significativo su alcuni aspetti del nostro sistema di welfare, senza tuttavia eliminarne radicalmente i difetti strutturali. Ancora oggi, insomma, l‟assetto istituzionale e funzionale delle prestazioni previste dal nostro ordinamento appare caratterizzato da un certo grado di disorganicità, incertezza, inefficienza e inefficacia.

Emblematica a questo riguardo la vicenda della legge 328/00, legge quadro sui servizi sociali che interveniva sistematicamente su una

11

La questione delle differenze, e disuguaglianze, territoriali nel nostro paese è questione nota e ampiamente dibattuta. Tra i contributi più recenti si veda il lavoro di Regini e Colombo (2009) emblematicamente intitolato “Quanti „modelli sociali‟ coesistono Italia?”. 12

I principali lavori sullo sviluppo del welfare sono concordi su questi punti; cfr. tra gli altri Ferrera (1984), Ascoli (1984), Fargion (1997), Madama (2010), Ascoli (2012). 13

Per un approfondimento di questi aspetti di veda Benassi (2012).

32

materia per certi aspetti ancora regolata dalla legge Crispi del 1890. La legge delineava un nuovo modello di organizzazione dei servizi sociali, omogenea su tutto il territorio nazionale, con l‟obiettivo, tra gli altri, di ridurre le forti disparità territoriali in una materia tradizionalmente poco sviluppata, soprattutto nelle regioni meridionali, definendo le prestazioni assistenziali minime14. Durante la stessa legislatura che aveva varato la legge 328, venne solo un anno dopo varata la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione, che sostanzialmente rendeva inefficaci le disposizioni previste dalla l. 32815: anche in questo caso, quindi, si è dimostrata l‟assenza di prospettiva di lungo periodo del legislatore e l‟incapacità di elaborare riforme complessive condivise dalle diverse forze politiche.

La legge costituzionale 3/2001 infatti attribuisce allo Stato la potestà esclusiva per quanto riguarda la previdenza, lasciando invece alle Regioni la potestà legislativa esclusiva per l‟assistenza sociale, con l‟eccezione della definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere assicurati dalle Regioni su tutto il territorio nazionale (art. 117, lett. m). Di fatto quindi, abbiamo un assetto istituzionale che prevede certezza e uniformità sul territorio nazionale quando si tratta di prestazioni previdenziali (pensioni, anche nella componente assistenziale come vedremo) e aleatorietà e frammentazione quando si tratta di prestazioni assistenziali (servizi e sussidi, in particolare nel contrasto della povertà). Nel caso delle prestazioni previdenziali il diritto alla prestazione nasce automaticamente in presenza di determinati requisiti (età, anzianità contributiva, ecc.). Al contrario, le prestazioni di natura assistenziale tipicamente subordinano la fruizione all‟applicazione di criteri selettivi che considerano caratteristiche soggettive dei richiedenti (quali numerosità e composizione del nucleo famigliare, reddito, condizione occupazionale, stato di salute). Ma la caratteristica più significativa delle prestazioni identificabili come servizi sociali è che queste non configurano veri e propri diritti soggettivi, rimanendo comunque subordinati non solo all‟accertamento dei requisiti previsti e dell‟incapacità di provvedere autonomamente ai propri bisogni, ma anche alla disponibilità nel bilancio dell‟ente delle risorse finanziarie necessarie16. Tale debolezza dei diritti assistenziali si sarebbe dovuta superare tramite la definizione da parte dello Stato dei Livelli

14

La letteratura sulla l. 328/00 è molto vasta; si veda per es. Gori (2004) CIES (2002). 15

Si veda per es. Violini e Locatelli (2007). 16

Bonetti (2011, 101-3) rileva che i servizi sociali “sono fondati sul dovere di solidarietà sociale e sul principio di eguaglianza sostanziale e di per sé comportano prestazioni non automatiche, né generalizzate. (…) la tutela dei diritti fondamentali della persona, delle famiglie, dei minori e del diritto all‟assistenza sociale (artt. 2, 29, 30, 31 e 38 Cost.) deve essere sempre bilanciata con l‟obbligo della copertura finanziaria delle spese (art. 81 Cost.) e con il principio del buon andamento dell‟amministrazione (art. 97 Cost)”.

33

essenziali delle prestazioni (Liveas)17, come previsto dall‟art. 117 lettera m della Costituzione: in tal modo sarebbero stati riconosciuti specifici diritti soggettivi e, contemporaneamente, sarebbe stata garantita l‟uniformità nazionale del sistema di welfare, almeno nelle sue componenti di base.

In realtà, negli oltre 10 anni seguiti alla riforma costituzionale, il legislatore non è stato in grado di definire tale elenco di prestazioni essenziali obbligatorie18, dando sostanzialmente alle Regioni e agli enti locali completa libertà nella definizione e regolamentazione dell‟insieme di prestazioni da erogare. Ne consegue, in pratica, che l‟erogazione delle prestazioni è filtrata in primo luogo dal disegno regionale del perimetro dei servizi assistenziali, quindi dalla definizione dei requisiti soggettivi per poter accedere alle prestazioni, e infine dalla disponibilità delle risorse destinate a tali servizi da parte degli enti erogatori (i Comuni), cioè dalla volontà politica dell‟amministrazione locale. Da tutto questo discende che i diritti all‟assistenza hanno in Italia un carattere di aleatorietà che contraddice la natura moderna delle politiche di welfare, fondate sul superamento della logica della beneficienza a favore del riconoscimento di diritti di cittadinanza certi.

Gli interventi legislativi sul welfare dell‟ultimo quindicennio, in particolare quelli che hanno riguardato le prestazioni assistenziali, non solo non hanno intaccato le distorsioni originarie del sistema di protezione sociale italiano, ma ne hanno ulteriormente radicalizzato la frammentazione territoriale. Al punto che è sostanzialmente impossibile un‟analisi sistematica del quadro delle politiche assistenziali, in particolare di quelle per il contrasto della povertà. Nelle pagine che seguono ci limiteremo ad un‟analisi delle prestazioni previste a livello nazionale e successivamente ad alcuni riferimenti ed esemplificazioni di tipo locale. 3.3. Il contrasto della povertà in Italia

L‟architettura istituzionale del welfare in Italia, come abbiamo visto, è articolata in due settori chiaramente distinti – anche se come vedremo esistono alcune sovrapposizioni. Da una parte vi sono le prestazioni di tipo previdenziale, che configurano diritti soggettivi riconosciuti dalla Costituzione e che sono regolate dallo Stato, dall‟altra parte vi sono le prestazioni di tipo assistenziale, che non configurano diritti soggettivi effettivi e che sono regolate dalle Regioni e dai Comuni. Gli interventi di contrasto della povertà in Italia

17

Seguendo il modello di quanto avvenuto in ambito sanitario con l‟individuazione dei Lea (Livelli essenziali di assistenza) con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 2001 e del 2008. 18

La vicenda della mancata emanazione dei Liveas è piuttosto complessa, essendo legata a vincoli finanziari, alle variabili capacità amministrative degli enti locali, ai non sempre limpidi intrecci tra soggetti pubblici e soggetti privati sul lato dell‟offerta di servizi. Per una sintesi del dibattito vedi Da Roit (2008), per una valutazione dello stato attuale vedi Costa (2012).

34

appartengono a entrambi questi due pilastri, e in questo paragrafo ci proponiamo di descriverli.

a) Esperienze europee e italiane di „minimum income schemes‟ In realtà, nel nostro paese la questione della povertà e delle politiche per contrastarla, per quanto sia stata ampiamente dibattuta, anche grazie al lavoro di documentazione e analisi portato avanti dai primi anni ‟80 dalla Cies19, non è mai stata oggetto di politiche esplicite. Ormai diversi anni fa Negri e Saraceno affermavano che “in Italia non esiste una vera e propria politica contro (…) forme di esclusione sociale e la connessa povertà, se per politica si intende un sistema di strumenti integrato ed esplicitamente rivolto a questo obiettivo” (1996, 12). Questa constatazione rimane valida a distanza di quasi 20 anni. In particolare l‟Italia, insieme alla Grecia, è l‟unico paese che non dispone di uno schema di sostegno del reddito minimo, di una prestazione cioè dedicata a soggetti che non dispongono né di redditi propri (da lavoro, da capitale) né di redditi derivanti da diritti sociali (sussidi di disoccupazione, pensioni o assegni di invalidità) sufficienti a garantire uno standard minimo accettabile. La situazione italiana è ancor più peculiare in quanto tra il 1999 e il 2004 è stata fatta una sperimentazione di uno schema di reddito minimo di inserimento, senza che alla fine tale prestazione fosse introdotta in via definitiva. È opportuno quindi vedere rapidamente quali caratteristiche hanno questi schemi in alcuni paesi europei e ripercorrere le vicende della sperimentazione italiana.

L‟esperimento italiano di reddito minimo era ispirato esplicitamente al programma francese di Revenu Minimum d‟Insertion (RMI), introdotto alla fine degli anni ‟80. Il sistema di welfare francese prevede in realtà ben 11 programmi di sostegno del reddito di natura non contributiva20: sussidi per invalidi, disabili, genitori soli, disoccupati di lungo periodo, richiedenti asilo, ecc. Complessivamente nel 2007 oltre 3,3 milioni di cittadini percepivano prestazioni di questo tipo, e ben 2,75 milioni in età attiva, equivalenti al 4,32% della popolazione francese; i percettori di RMI erano 1,172 milioni. Il RMI era un‟integrazione del reddito universale destinata alle persone con oltre 25 anni di età e in condizioni di lavorare, che prevedeva un‟integrazione del reddito (455€ al mese per 1 adulto, 682€ per 2, 137€ per ogni figlio) e un programma personalizzato per il recupero dell‟autonomia. Il RMI ha ricevuto molte critiche, legate in particolare al rischio di „trappola della povertà‟ e disincentivo al lavoro, che infatti hanno poi portato alla sua sostituzione con il Revenu de Solidarité Active. Tuttavia è importante notare l‟attenzione specifica che la

19

Commissione d‟indagine sulla povertà e l‟esclusione sociale. 20

Le informazioni sul sistema francese sono tratte da Legros (2009). Nel testo facciamo riferimento al RMI, ma nel 2009 è stata approvata una riforma che lo ha sostituito con il Revenu de Solidarité Active (RSA) che sostanzialmente prevede un maggiore sostegno ai beneficiari per il rientro nel mercato del lavoro. Ad oggi, tuttavia, non si dispone di informazioni sull‟implementazione del RSA.

35

Francia dedica al sostegno dei propri cittadini in condizione di povertà o a rischio di diventarlo.

In Svezia21 il programma di reddito minimo (socialbidrag/ekonomomiskt bistand) è amministrato dalle municipalità in base ad una regolamentazione nazionale, ed è affiancato da numerosi altri trasferimenti non contributivi legati ad esigenze specifiche: per la presenza di bambini, per il sostegno abitativo dei giovani e degli anziani, ecc. Il programma prevede la disponibilità a partecipare a programmi di riqualificazione professionale ed assicura un reddito equivalente a circa il 60% del reddito mediano. Un aspetto particolarmente interessante è che, diversamente dai sistemi di welfare dell‟Europa centrale e soprattutto meridionale, quello svedese è di tipo individualistico e non famigliare. Ciò significa che al compimento dei 18 anni dei figli (21 se studiano), i genitori non sono più responsabili per il loro mantenimento, e viceversa. Di conseguenza quando un giovane che vive ancora con i genitori fa domanda per il socialbidrag (o altre prestazioni) viene preso in considerazione solo il suo reddito, e non anche quello dei genitori. Per questa ragione, i beneficiari sono in gran parte giovani (e immigrati) che in questo modo dispongono di adeguate risorse economiche per rendersi indipendenti dalla famiglia. Nel 2008 circa il 6% delle famiglie svedesi percepiva il socialbidrag, dopo un picco superiore al 10% alla metà degli anni ‟90, per un importo medio mensile di oltre 800€. I beneficiari in totale nel 2007 sono stati 211.586, di cui circa la metà immigrati o rifugiati. Come detto tali beneficiari, soprattutto nel caso degli svedesi di nascita, sono prevalentemente giovani single (circa 3/4 del totale) e madri sole (16%); nel caso degli immigrati e dei rifugiati si registra una maggiore incidenza di coppie con o senza figli. Il sistema svedese è chiaramente uno dei migliori al mondo, offrendo copertura universalistica a tutti i cittadini, svedesi e non, e assicurando un livello di reddito particolarmente elevato.

Un ultimo esempio di schema di reddito minimo che merita di essere brevemente approfondito è quello del Regno Unito, un paese appartenente al modello di welfare liberale e quindi caratterizzato da un modesto intervento dello Stato tramite le politiche di welfare. Il sistema britannico22 è fondato su tre prestazioni abbastanza simili tra di loro: income support (IS) destinato a persone che non sono in condizioni di lavorare a tempo pieno (per es. madri sole); jobseekers allowance (JSA), basato sulla prova dei mezzi e destinato a persone che possono lavorare a tempo pieno; employment and support allowance (ESA) basato sulla prova dei mezzi per persone che non possono lavorare a causa di disabilità. A queste tre prestazioni di base si affiancano altri interventi per esigenze specifiche come la casa o i bambini, e un insieme di tax credits legati nuovamente a esigenze specifiche. Il sostegno del reddito che una famiglia a basso

21

Le informazioni sulla Svezia sono tratte da Hallerod (2009). 22

La descrizione del sistema britannico è tratta da Bradshaw e Bennett (2009).

36

reddito effettivamente riceve dipende quindi dalla combinazione delle diverse prestazioni alle quali può accedere; nella tabella 14 sono riportati alcuni esempi nel caso di persone non occupate. Tabella 14 – Prestazioni di reddito minimo per persone non occupate, Regno Unito – Anno 2008

Tipo di richiedente £ per settimana Prestazioni ricevute*

Single oltre 24 anni 50,95 JSA = 50,95

Genitore solo con 1 bambino

137,71 IS o JSA = 64,30

Child tax credit = 53,41 Child benefit = 20

Coppia con 2 bambini 230,47 JSA = 100,95

Child tax credit = 96,32 Child benefit = 33,20

Coppia oltre 60 anni 198,45 Pension credit =198,45

* A queste si aggiungono il sostegno alla casa (housing benefit) e i sostegni locali

(council tax benefit)

Fonte: Bradshaw e Bennett (2009)

Il modello inglese configura un approccio integrato e articolato al sostegno dei bisogni delle persone in difficoltà economiche, tramite strumenti che lasciano pochissimo spazio alla discrezionalità dei funzionari dei servizi. La spesa complessiva ammonta al 34% di tutta le spesa per protezione sociale in UK, e circa 4,8 milioni di persone ricevono un sostegno del reddito tramite questi programmi. Benché anche per questo modello sia possibile individuare varie criticità, come l‟elevato livello di mancate prese in carico, il costo di amministrazione e la complessità, non c‟è dubbio che un paese appartenente al regime di welfare meno generoso dispone comunque di un adeguato insieme di strumenti per contrastare la povertà.

L‟assenza di uno schema di reddito minimo nel nostro paese è una delle lacune più evidenti del sistema di welfare, come da ormai molti anni viene segnalato dagli studiosi. Già la Commissione Povertà nel 1995 e poi la Commissione Onofri nel 1997 avevano fortemente raccomandato l‟introduzione di uno schema di questo genere per sostenere il reddito delle persone e delle famiglie che non rientravano in nessuno degli altri schemi categoriali. Durante la XIII legislatura (1996-2001) la maggioranza di Governo di centro-sinistra decise di introdurre in via sperimentale il Reddito Minimo di Inserimento (RMI) con la legge finanziaria del 199723. Il RMI si

23

Per una ricostruzione delle vicende e dell‟impatto della sperimentazione del RMI si rimanda al primo Rapporto curato da Fondazione Zancan e IRS (2002) e alla Relazione al Parlamento della Direzione Generale del FNPS (2007). Per una

37

configurava come un intervento complesso che prevedeva un trasferimento monetario a sostegno del reddito del richiedente, subordinato all‟accettazione di un programma di inserimento sociale elaborato in relazione alle specifiche necessità del richiedente stesso e del suo nucleo famigliare. Il RMI era quindi una prestazione di tipo universalistico – rivolta cioè a tutta la popolazione presente sul territorio italiano, inclusi cittadini non italiani24 – basata sulla prova dei mezzi e orientata ad affiancare al sussidio servizi di varia natura – educativi, formativi, sanitari, abitativi, ecc. – finalizzati al superamento della condizione di dipendenza dal RMI. La misura venne sperimentata nel primo biennio in 39 comuni (24 al Sud, 10 al Centro e 5 al Nord), per poi essere estesa a 306 Comuni nel secondo periodo (200 al Sud, 65 al Centro e 41 al Nord); le risorse impiegate per il primo biennio furono pari a 246 milioni di €, mentre non è noto il costo del secondo periodo. Al di là dell‟impatto della misura nelle realtà territoriali in cui venne sperimentata, che evidenziò elementi positivi ma anche numerose criticità (Benassi e Mingione 2003), ciò che importa sottolineare in questa sede è il fallimento politico e istituzionale del RMI. Infatti, con il cambio della maggioranza di Governo nel 2001, l‟interesse per una misura di questo genere scomparve immediatamente, benché nella legge 328/00 fosse stata prevista la sua generalizzazione a tutto il territorio nazionale. Il Governo Berlusconi in diversi atti dichiarò il fallimento del RMI e la sua sostituzione con il Reddito di Ultima Istanza, senza però procedere ad una sua effettiva introduzione: ad oggi quindi in Italia non esiste uno schema universale di sostegno del reddito e di contrasto della povertà.

Questa vicenda dimostra il profondo radicamento sociale e culturale di una concezione della protezione sociale che non prevede una effettiva assunzione di responsabilità da parte dello Stato in merito alla garanzia universale di condizioni di vita minime, diversamente dalla generalità degli altri paesi europei. Tale responsabilità continua ad essere delegata quasi completamente alla famiglia e di conseguenza la dinamica del benessere individuale, soprattutto in una prospettiva intergenerazionale, continua ad essere fortemente dipendente dalla qualità dei legami di reciprocità ai quali si appartiene. Questo assetto ha profonde conseguenze sulle opportunità di mobilità sociale in generale, e sui processi di riproduzione generazionale dello svantaggio sociale in particolare: in Italia nascere in una famiglia svantaggiata spesso significa rimanere in tale condizione per tutta la vita.

b) L‟insieme delle politiche “implicite” di contrasto della povertà in Italia

valutazione complessiva della sperimentazione si veda tra gli altri Benassi e Mingione (2003), Calza Bini, Nicolaus e Turcio (2003), Ranci Ortigosa (2008). 24

I cittadini comunitari dovevano essere residenti in uno dei comuni ammessi alla sperimentazione da almeno 12 mesi, i cittadini non comunitari da almeno 3 anni.

38

In assenza di un approccio coerente ed esplicito al contrasto della povertà, per descrivere l‟approccio italiano a questo problema è necessario analizzare diverse prestazioni, spesso introdotte con finalità diverse. Nella selezione delle prestazioni da analizzare ci siamo attenuti ad un criterio generale: doveva essere presente, almeno in parte, un criterio di accesso alla prestazione di tipo assistenziale. In generale le prestazioni di welfare possono essere fondate su un principio regolativo assicurativo o assistenziale25. Le prestazioni strettamente assicurative prevedono un indennizzo al verificarsi del rischio assicurato, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche del beneficiario: la pensione di vecchiaia, per esempio, viene riconosciuta al verificarsi di determinate condizioni (età, anzianità contributiva) e calcolata in base a parametri oggettivi (montante contributivo, retribuzione pensionabile), mentre non vengono considerati eventuali altri redditi del beneficiario o dei suoi famigliari26. Queste prestazioni, quindi, non hanno un esplicito obiettivo né di riduzione della disuguaglianza né di contrasto della povertà: sono concesse anche ai ricchi e possono essere di importo molto basso. Al contrario, le prestazioni assistenziali sono „non contributive‟ e quindi non prevedono un collegamento tra finanziamento e fruizione della prestazione, mostrando quindi una chiara funzione redistributiva. Infatti si tratta di prestazioni residuali – l‟intervento è possibile quando il richiedente non è grado di soddisfare autonomamente il proprio bisogno – e selettive – bisogna dimostrare di non possedere risorse economiche superiori a determinate soglie. Il finanziamento attinge tipicamente alla fiscalità generale, determinando quindi un trasferimento di reddito dai più ricchi ai più poveri. Infine, lo spettro di queste prestazioni è estremamente ampio e vario, andando dalle diverse forme di sostegno del reddito all‟erogazione di servizi per la prevenzione del rischio di impoverimento.

Nella nostra ricostruzione, quindi, ci limiteremo a considerare le prestazioni assistenziali - in tutto o in parte - che prevedono erogazioni economiche a sostegno del reddito dei beneficiari. A livello nazionale consideriamo quindi le integrazioni al minimo delle pensioni, gli assegni sociali per ultrasessantacinquenni, le prestazioni per invalidi civili (inclusa l‟indennità di accompagnamento), gli assegni famigliari e quelli al nucleo famigliare, l‟assegno di maternità e la carta acquisti27 (tabella 15; si veda anche in appendice una

25

Esiste una terza modalità tipica con la quale lo Stato può intervenire: la sicurezza sociale (Ferrera 2006). A questa modalità si riferiscono le misure rivolte alla generalità dei cittadini in condizione di bisogno, senza richiesta di ulteriori requisiti. Il sistema sanitario italiano è un esempio tipico di questo modello di intervento. 26

Le prestazioni di tipo assicurativo sono svariate, e includono per esempio i sussidi di disoccupazione e le pensioni di inabilità. 27

La Carta Acquisti (Social Card) è stata sottoposta a profonda revisione nel decreto “Millepororoghe” del dicembre 2011 (convertito in legge nel febbraio 2012), prevedendo a partire dal 2013 una sperimentazione nelle 12 principali città italiane di una nuova gestione affidata ad enti del terzo settore.

39

scheda con le principali caratteristiche di ciascuna prestazione). Alcune di queste prestazioni hanno un fondamento assicurativo (integrazioni al minimo, assegni al nucleo famigliare) che viene però integrato da un meccanismo assistenziale: le pensioni integrate al minimo, per esempio, vengono “integrate” fino a un determinato importo se il calcolo della pensione di vecchiaia è inferiore a una certa soglia (467,42€ elevata a 591,87€ per gli ultrasettantenni) e non si superano specifiche soglie di reddito famigliare. Si tratta quindi in tutti i casi di prestazioni con un chiaro effetto redistributivo in quanto l‟entità della prestazione non è mai strettamente proporzionale ai contributi versati. In particolare, alcune di queste prestazioni, come gli assegni sociali e le prestazioni di invalidità civile, sono chiaramente di tipo assistenziale.

Il modello di protezione sociale che emerge dai dati in tabella 15 riflette fedelmente una nota distorsione funzionale del sistema di welfare italiano: di questi trasferimenti beneficiano in modo largamente predominante gli anziani (integrazioni al minimo, assegni sociali, invalidità civile). Trattandosi delle sole prestazioni a carattere assistenziale valide su tutto il territorio nazionale, implica che le risorse destinate ai gruppi di popolazione esposti a rischi diversi rispetto a quelli legati all‟età anziana sono estremamente limitate, come del resto abbiamo visto in precedenza. Quindi gli anziani possono accedere a prestazioni certe e relativamente generose, mentre il sostegno dei bisogni famigliari (ANF) è di importo contenuto e, ancor più importante, è limitato ai soli lavoratori dipendenti. Dal punto di vista redistributivo alcune di queste prestazioni hanno un impatto significativo (integrazione al minimo, assegno sociale, indennità di accompagnamento), ma concentrato esclusivamente sugli anziani e, in misura minore, sulle persone con disabilità.

A livello nazionale, quindi, il sistema delle politiche di contrasto della povertà appare composto da diverse misure scollegate tra di loro, altamente segmentato e quindi con larga parte della popolazione non coinvolta nelle misure, inadeguato per quanto riguarda gli importi. L‟unica eccezione riguarda gli anziani, e in misura minore i disabili, che invece possono contare su strumenti di sostegno del reddito non particolarmente generosi ma certi e inclusivi (integrazione al minimo, assegno sociale, invalidità e accompagnamento). A questo livello invece sono completamente assenti riferimenti ad azioni e servizi che favoriscano l‟inclusione sociale delle persone in povertà: l‟obiettivo di una efficace e moderna politica di contrasto della povertà deve essere quello di favorire il recupero dell‟autosufficienza economica e sociale della persona, e non banalmente quello di sostenere il reddito in certe fasi della vita28, un‟azione comunque insufficiente nel nostro paese.

28

In diversi documenti della Commissione Europea infatti si parla di active inclusion, cioè di approcci integrati (reddito, formazione, lavoro, salute, servizi sociali …) con l‟obiettivo di favorire una piena partecipazione alla società.

40

Tabella 15 – Indicatori delle principali prestazioni nazionali

Numero

prestazioni Spesa

(milioni) Procapite

(mese)

% beneficiari >65 anni

Integrazioni al minimo (2009)

4.171.946 44.106,2 893,4* 86,2%

Assegni sociali (2009) 802.612 7.243.555 752,1* 100%

Invalidità civile (2008) 1.000.292 2.396 390,3* 15% IC+IA

7,6% IC

Indennità accompagnamento** (2008)

2.044.230 11.409 465,09 (fisso)

73% tutti 91% solo IA

Assegni famigliari (2010)

nd nd Tra 8,18 e

10,21 (fissi) nd

ANF (2010) 2.609.254 Circa 4.155 122,5

(medio) -

ANF dei Comuni (2009)

Circa 195.000

309 131,9 (fisso)

-

Assegno maternità (2009)

Circa 148.000

234 316,2 per 5 mesi (fisso)

-

Carta Acquisti (2009) 627.000 190 40 (fisso) 58%

* Questi valori si riferiscono al valore complessivo del reddito pensionistico del

pensionati che percepiscono uno specifico trattamento, sommando quindi

eventualmente vari tipi di prestazioni.

** includono sia coloro che percepiscono la pensione di invalidità civile (488.698)

sia coloro che hanno un altro tipo di pensione (1.555.532).

Fonti: INPS, ISTAT.

c) Il livello locale Se la situazione delle politiche nazionali riconducibili al contrasto della povertà appare caratterizzata da segmentazione e inadeguatezza, il quadro delle politiche adottate a livello locale è ancor più indeterminato e di difficile descrizione. Come detto sopra, il diritto a ricevere le prestazioni assistenziali, prerogativa dei livelli decentrati di governo (Regioni e Comuni), è subordinato non solo alla presenza di una condizione di bisogno e alla mancanza dei mezzi necessari a soddisfarlo, ma anche all‟effettiva disponibilità a bilancio delle risorse necessarie alla copertura della spesa. L‟impegno da parte dei Comuni ad erogare le prestazioni, quindi, è sempre vincolato alla decisione di destinare le necessarie risorse economiche: non è raro che l‟erogazione di una prestazione cessi durante l‟anno in seguito all‟esaurirsi delle risorse destinate ad essa, oppure che venga interrotta per il cambio del colore politico dell‟amministrazione.

41

La matrice storica di sviluppo delle politiche assistenziali e i recenti mutamenti legislativi rendono impossibile un‟analisi sistematica ed esaustiva degli interventi di contrasto della povertà nel nostro paese. Di fatto esistono tanti modelli di welfare assistenziale quante sono le regioni italiane. È emblematico di questa situazione lo stato degli schemi di reddito minimo che negli anni diverse Regioni hanno introdotto a favore dei cittadini del proprio territorio, ovviamente in assenza di qualsiasi parametro nazionale di riferimento. Strati (2009, 12) elenca le caratteristiche di questi schemi introdotti nelle Regioni Campania, Basilicata, Friuli Venezia Giulia (poi abolito), Lazio, Valle d‟Aosta, Puglia e nelle province autonome di Trento e Bolzano. Ciò che emerge dalla comparazione sistematica delle esperienze è l‟assoluta eterogeneità di tutte le dimensioni coinvolte, dalla durata della residenza nel territorio, all‟età e alla condizione occupazionale dei potenziali beneficiari, alle soglie di reddito per accedere al beneficio, all‟importo e alla durata della prestazione. La mancanza di una regolamentazione nazionale in queste materie ha quindi generato una moltiplicazione di esperienze locali, spesso di breve durata, e scarsamente efficaci.

Un aspetto ancora poco esplorato della frammentazione del sistema assistenziale in Italia riguarda quella che possiamo chiamare microregolazione del welfare: data la debolezza del quadro normativo, che cosa accade al livello più ravvicinato di gestione e amministrazione dei servizi di welfare? In altri termini, qual è l‟effetto sull‟offerta e sull‟effettiva erogazione delle prestazioni socio-assistenziali a livello territoriale? Alcune ricerche realizzate tra la seconda metà degli anni ‟90 e i primi anni 200029 avevano già evidenziato l‟estrema variabilità e l‟incertezza che caratterizzano questo livello delle politiche di welfare. La riforma costituzionale del Titolo V ha reso ancora più difficile la ricerca a questo livello, a causa proprio della mancanza di parametri di riferimento comuni agli enti che erogano i servizi socio-assistenziali. Per dimostrare il quadro di estrema incertezza che contraddistingue la microregolazione del welfare presentiamo un‟analisi delle caratteristiche dell‟offerta di servizi socioassistenziali dei comuni mantovani. Pur trattandosi di una singola realtà territoriale, è emblematica dello stato del welfare locale nel nostro paese.

La Regione Lombardia ha interpretato i mutamenti normativi di inizio 2000 elaborando un proprio modello specifico di politiche sociali a partire da un principio di fondo (la libertà di scelta) da perseguire tramite due strumenti: la creazione di “quasi-mercati” e la massima valorizzazione della sussidiarietà. L‟elaborazione di questo modello è avvenuta prima in ambito sanitario (metà anni ‟90), è stata quindi estesa al settore socio-sanitario, ed è infine stata adattata alle

29

Cfr. Kazepov, 1996; Fargion, 1997; Saraceno, 2002.

42

politiche sociali30. In sostanza, l‟idea di fondo è quella di valorizzare la libertà di scelta dei fruitori delle politiche sociali dando loro la possibilità di scegliere come e da chi ricevere le prestazioni richieste. La pluralità delle “unità di offerta” è stata incoraggiata equiparando di fatto gli attori pubblici e quelli privati (sussidiarietà orizzontale), a partire dalla convinzione che in tal modo si sarebbe innescata una competizione (quasi mercato) a vantaggio dei cittadini (maggiore qualità delle prestazioni) e del sistema nel suo insieme (minori costi). La Regione ha quindi introdotto i cosiddetti buoni sociali e voucher sociali per realizzare tali obiettivi: i buoni sociali sono trasferimenti monetari come riconoscimento del lavoro di cura, mentre i voucher sono crediti spendibili presso operatori accreditati presso la Regione per soddisfare bisogni vari.

La riforma regionale, a causa anche dell‟incerto quadro nazionale, non ha però regolato due dimensioni fondamentali. Innanzitutto, non sono stati definiti degli standard e prestazioni minime che i comuni devono rispettare, a parte alcune attività pur importanti come il segretariato sociale ma preliminari all‟erogazione delle prestazioni vere e proprie. In secondo luogo, non sono state definite procedure uniformi per l‟applicazione degli strumenti introdotti dalla Regione per erogare le prestazioni (buoni e voucher sociali), né dal punto di vista normativo (per es. l‟obbligo di emanare un regolamento o altro atto amministrativo) né dal punto di vista della definizione dei criteri da utilizzare per selezionare l‟utenza (definizione degli aventi diritto, Isee, durata della prestazione, compartecipazione alla spesa da parte dei famigliari, misure di attivazione, etc.). La situazione lombarda (e italiana), quindi, è caratterizzata da una mancanza o genericità delle norme stesse, che obbliga quindi gli attori rilevanti – istituzionali o professionali – a esercitare una discrezionalità vastissima, acuita oltretutto dalla scarsità delle risorse disponibili31. Questo finisce per far dipendere il grado e la qualità della protezione sociale dalla residenza, cioè dalla casualità di vivere in un comune più o meno attrezzato dal punto di vista delle politiche e dei servizi sociali. È un elemento, questo che introduce un ingiustificabile e dannoso elemento di iniquità e disuguaglianza tra cittadini.

Un lavoro di ricerca realizzato nella provincia di Mantova (Acerbo e Boldrini 2009) mostra con estrema chiarezza gli effetti di questo assetto istituzionale macro (nazionale) e meso (regionale) sull‟offerta micro (comunale) di prestazioni socio-assistenziali. Il lavoro compara i regolamenti comunali per i servizi di contrasto della povertà (in senso ampio) raccogliendo le informazioni sui criteri di regolazione

30

Non è possibile qui sviluppare approfonditamente i passaggi della creazione del modello di welfare lombardo; tra i numerosi lavori di ricerca si possono vedere i molti contributi in Gori (2005; 2011); Carabelli e Facchini (2011); Irer (2005; 2010). 31

La discrezionalità è un strumento importante per gli operatori sociali, nel momento in cui viene utilizzata come risorsa per attivare i beneficiari delle prestazioni o per adattare criteri di intervento standardizzati a situazioni specifiche (Lipsky 1980). È un fattore negativo delle politiche sociali quando è utilizzata meramente per razionare le risorse.

43

delle misure e sui requisiti di accesso alle prestazioni (definizione dei beneficiari, grado di coinvolgimento della famiglia, criteri di selezione, eventuali richieste ai beneficiari, durata e generosità delle prestazioni, presenza di misure di attivazione). L‟analisi è stata condotta su una selezione di comuni composta dai sei comuni capifila dei distretti sociosanitari e dai comuni con oltre 10.000 abitanti32. La tabella 16 mostra le caratteristiche di alcuni servizi attivabili per due profili tipici di utenti: un italiano solo, invalido (80%), con pensione di invalidità, e una famiglia a basso reddito con minori33.

32

In totale circa il 50% della popolazione della provincia abita nei comuni così selezionati; vengono sottostimati i comuni di piccole dimensioni, dove per altro è ragionevole presumere che il grado di formalizzazione delle prestazioni sia ancor più scarso di quello documentato. 33

La ricerca (Acerbo e Boldrini 2009) ha riguardato un insieme di profili e servizi molto più ampi; ad essa si rimanda per eventuali approfondimenti.

44

Tabella 16 – Soglie Isee e condizioni di accesso ad alcune prestazioni sociali nei comuni in Provincia di Mantova (2007)

Adulto solo*

Coppia con minori**

Soglia ISEE prestazioni

Contributi economici

Pasti a domicilio Soglia ISEE Asilo nido Scuola infanzia

Mantova 3.000 Max 6 mesi

Straord. max 1000€

1=21€/mese 2=37€/mese

3.000 Tempo pieno 60-200€mese; part-

time -20%; prolung. +15,50€ Mensa 2€/pasto

Castiglione d/S

5.000 Max 12 mesi Straord. max

1000€ Esente (voucher) 5.000

TP 115,15€/mese; PT -20%; prolung. +4,1€/30 min.

Mensa 2,2€/pasto; trasporto gratis

Suzzara 5.673,4 Non specificato Esente 14.367 TP 96€/mese; PT 77€/mese;

mensa 2,2€/pasto Mensa 2,4€/pasto; trasporto

17,9€/mese

Viadana Non specificata Non specificato Esente Non

specificata TP 42,8€/mese +2,8€/giorno;

tempo prol. +35€/mese Mensa 3,5-4€/pasto; trasporto

15€/mese**

Porto M. 6.000 Solo straord. Esente 6.000 TP 135,25€/mese; PT -20% Mensa 1,8€/pasto;

Curtatone 3.000 Max 3000 durata

non spec. Solo per anziani 7.380 TP 110€/mese; PT 82,5€/mese Esente

Castelgoffredo Non specificata Non previsti 4.5€ a pasto Non

specificata TP 230€/mese; PT 170€/mese;

tempo prol. 250€/mese

Mensa 31€/10 pasti; trasporto 28€/3 mesi; tempo prol.

+40€/mese

Virgilio Non specificata Entità non specificata

Contributo su ISEE non std

Non specificata

TP 50-440€/mese; PT 40-140€/mese; tempo prol. 60-

480€/mese

Mensa 1,7-3,7€/pasto; trasporto 35-215€/anno

Goito Non specificata Non previsti Esente Non

specificata 200€/mese

Mensa 1,45€/pasto; trasporto 115€/anno

Asola Non specificata Non previsti Esente Non

specificata Esente; mensa 4€/pasto

Mensa 2,8€/pasto; trasporto 261€/anno

Ostiglia Non specificata Entità e durata non specificati

Esente Non

specificata Esente Mensa esente; trasporto 5€/mese

* Italiano solo, 55 anni, invalido 80%; in alloggio comunale (63€ di affitto); 238€ di pensione di invalidità ISEE = 0. ** Famiglia monoreddito con 2 minori (7 e 2 anni), in affitto (400€), reddito da lavoro (1.200€) ISEE = 6.293€. Fonte: Acerbo e Boldrini (2009)

45

Queste simulazioni nel loro insieme disegnano un quadro di forte eterogeneità per quanto riguarda tutte le dimensioni che definiscono un intervento sociale: appare chiaro che ciascun comune ha sviluppato nel tempo un proprio insieme di regole e prassi di intervento. Certamente l‟evoluzione recente del sistema di politiche sociali nazionale, e lombardo in particolare, non ha favorito una progressiva convergenza di tali criteri e prassi, nemmeno tra aree contigue e del tutto simili dal punto di vista del tessuto sociale ed economico. In tutte le simulazioni, l‟individuazione delle soglie Isee per accedere alle prestazioni, quando viene prevista, è del tutto variabile da comune a comune: da 3.000 a 6.000€ per gli adulti con disabilità, da 3.000 a 14.000€ per le famiglie con minori o con disabili. L‟introduzione dell‟Isee alla fine degli anni ‟90 (Tangorra 2008) aveva come obiettivo proprio la predisposizione di uno strumento ad uso degli enti erogatori di prestazioni sociali per favorire l‟adozione di criteri omogenei nella selezione dei beneficiari. Non solo, invece, le soglie Isee sono molto diversificate, ma molti comuni non utilizzano affatto l‟Isee vanificando il possibile effetto di semplificazione e omogeneizzazione delle procedure di selezione dell‟utenza. A cascata quindi, l‟eterogeneità delle prestazioni e dei criteri con i quali vengono gestite nei diversi comuni, rende del tutto variegato il set di prestazioni che una famiglia in difficoltà può ricevere, nonché la loro qualità e durata nel tempo.

È evidente che l‟attuale normativa, sia nazionale che regionale, lascia un enorme spazio di autonomia agli enti locali nella definizione dei servizi da erogare, un‟autonomia che frequentemente si traduce in una discrezionalità che, da quanto traspare dai regolamenti e dalle prassi dei comuni, è legata alla semplice esigenza di razionare le prestazioni e di limitare le richieste dei potenziali beneficiari. Nel caso mantovano, la stessa definizione dei beneficiari varia da comune a comune (residenti, dimoranti, normalmente presenti) indebolendo così ancora di più la certezza dei diritti sociali. Una stessa persona o una stessa famiglia, in buona sostanza, riceverà risposte diverse nei diversi comuni, anche appartenenti allo stesso distretto sociale. Si tratta di un‟espressione della disuguaglianza all‟interno della platea dei potenziali beneficiari delle politiche di welfare, in particolare di quelle per il contrasto della povertà, particolarmente iniqua e dannosa.

46

Capitolo Quarto

Conclusioni

A conclusione di questo percorso di analisi si possono riassumere sinteticamente i principali aspetti d‟interesse relativi al fenomeno della povertà in Italia.

a. La povertà non è un concetto definito in modo univoco Esistono diversi modi di misurare la povertà; ciascun approccio metodologico coglie aspetti diversi dei fenomeni di impoverimento ed è dunque più o meno adeguato a seconda delle finalità analitiche che si intende perseguire. Lo studio della povertà si struttura da sempre in coppie di opposti: povertà monetaria / non monetaria, assoluta / relativa, statica / dinamica, oggettiva / soggettiva, monodimensionale / multidimensionale. Queste dicotomie rappresentano alcune tra le scelte che il ricercatore deve intraprendere nel momento in cui si accinge allo studio della povertà. Allo stesso tempo, esse sono da tenere in considerazione nel momento in cui si leggono i dati sulla povertà. La produzione di statistiche su questo fenomeno è infatti molto corposa e risulta fondamentale sapersi orientare nelle principali questioni metodologiche poiché esse non sono neutrali, ma possono influenzare in modo anche consistente i risultati.

b. La povertà non è una condizione definitiva Non sempre la povertà è una condizione che intrappola un soggetto per tutta la vita. Questo contrasta con l‟immagine tradizionale della povertà, che veniva associata a un particolare gruppo sociale, quello dei “poveri”, che erano destinati a rimanere tali in modo indefinito. In realtà la ricerca ha dimostrato che la povertà è nella maggior parte dei casi una condizione temporanea, che colpisce individui e famiglie in momenti particolari del proprio ciclo di vita. Si diventa poveri per il verificarsi di particolari eventi vulneranti, come la perdita del lavoro, la malattia di un familiare, la vedovanza, la nascita di un figlio. Allo stesso modo, dalla povertà è possibile uscire, grazie a eventi che possono rompere il circolo vizioso dell‟impoverimento: ritrovare un lavoro, ricevere un aiuto dal welfare, formare una nuova famiglia, ecc.

c. I profili di povertà in Italia La povertà in Italia è associata ad alcune caratteristiche socio-demografiche ben definite. Come altre problematiche socio-economiche, anche l‟analisi della povertà mette in luce forti disparità territoriali, concentrandosi prevalentemente nelle regioni del Mezzogiorno. Dal punto di vista della struttura familiare, particolarmente a rischio appaiono le famiglie numerose, soprattutto in presenza di molti minori. L‟istruzione gioca tuttora un ruolo di contrasto alla povertà, che infatti tende a concentrarsi tra le persone con basso titolo di studio. Allo stesso modo, il rischio di

47

impoverimento è associato a una posizione di debolezza sul mercato del lavoro, risultando molto più elevato tra i disoccupati e gli inattivi rispetto agli occupati. Infine risulta particolarmente critica la situazione delle famiglie monogenitoriali, le quali, benché numericamente meno diffuse di altri tipi di famiglia, presentano rischi di impoverimento molto superiori alla media.

d. Le politiche di contrasto alla povertà sono scarsamente efficaci Di fronte al quadro della povertà appena delineato, le politiche di contrasto al fenomeno appaiono fortemente inadeguate. Un primo problema riguarda la scarsità degli investimenti pubblici in questo settore: a fronte di una spesa pubblica elevata nel comparto della previdenza, gli interventi di sostegno al reddito sono fortemente sottofinanziati e non sono in grado di fornire risposte efficaci ai bisogni dei cittadini. Un secondo problema riguarda la frammentarietà degli interventi, che risultano fortemente variabili a livello territoriale. La mancanza di un adeguato quadro di riferimento normativo nazionale, ha fatto sì che le esperienze di contrasto alla povertà si siano moltiplicate nel tempo e nello spazio, senza seguire un modello comune né una programmazione di lungo periodo. Ne consegue che le politiche contro la povertà in Italia abbiano finito per riprodurre (e in certi casi moltiplicare) le disuguaglianze territoriali già presenti nel nostro paese, fornendo ai cittadini prestazioni fortemente differenziate sulla base del criterio della residenza, anziché garantire standard assistenziali comuni a tutti i cittadini.

48

Bibliografia

Acerbo L. e Boldrini D. 2009 (a cura di) I servizi per il contrasto delle povertà nei comuni mantovani, Materiali dell‟osservatorio sociale della Provincia di Mantova, n. 3. Antuofermo M. e Di Meglio E. 2012 23% of EU citizens were at risk of poverty or social exclusion in 2010, in Statistics in Focus, 9/2012, Eurostat. Apospori E. e Millar J. 2003 (a cura di), The dynamics of social exclusion in Europe : comparing Austria, Germany, Greece, Portugal and the UK, E. Elgar, Cheltenham. Arts W. e Gelissen J. 2002 Three worlds of welfare capitalism or more? A state-of-the-art report, in «Journal of European Social Policy», vol. XII, n. 2, pp. 137-158. Ascoli U. 1984 (a cura di) Welfare state all‟italiana, Il Mulino, Bologna. 2012 (a cura di) Il welfare in Italia, Il Mulino, Bologna. Atkinson A.B. 1998a Poverty in Europe, Blackwell, Oxford. 1998b Social Exclusion, Poverty and Unemployment, in Atkinson A.B., Hills J. (a cura di), Exclusion, employment and opportunity, London School of Economics, London. Atkinson A.B., Rainwater L. e Smeeding T.M. 1995 Income distribution in OECD countries: evidence from the Luxembourg Income Study, OECD social policy studies, Paris. Baldini, M. e Toso, S. 2004 Disuguaglianza, povertà e politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna. Bane M.J. e Ellwood D.T. 1986 Slipping Into and Out of Poverty: The Dynamics of Spells, in "Journal of Human Resources", 21 (1): 1-23. Bauman Z. 1999 La società dell‟incertezza, Il Mulino, Bologna. Becchi A. 1996 Città e forme di emarginazione, in Barbagallo F. (a cura di), Storia dell‟Italia Repubblicana, Einaudi, Torino. Beck U.

49

1992 Risk Society: Towards a New Modernity, Sage, London; trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000. Benassi D. 2002 Tra benessere e povertà. Sistemi di welfare e traiettorie di impoverimento a Milano e Napoli, Franco Angeli, Milano. 2005 La povertà in un contesto ricco: i milanesi poveri, in Benassi D. (a cura di), La povertà come condizione e come percezione. Una survey a Milano, Franco Angeli, Milano. 2012 Disuguaglianze di accesso al welfare, in D. Checchi (a cura di) Disuguaglianze diverse, Il Mulino, Bologna. Benassi D. e Mingione E. 2003 Testing the Reddito Minimo di Inserimento in the Italian welfare system, in G. Standing (a cura di) Minimum Income Schemes In Europe, ILO, Geneva, 105-156; Biorcio R. 2005 Poveri a Milano? Un confronto fra punti di osservazione e strategie d'indagine diversi, in Benassi D. (a cura di), La povertà come condizione e come percezione. Una survey a Milano, Franco Angeli, Milano. Boarini R. e Mira d'Ercole M. 2006 Measures of Material Deprivation in OECD Countries: OECD Social Employment and Migration Working Papers no. 37. Boeri T. 2000 Uno Stato asociale, Laterza, Roma e Bari. Boeri T. e Perotti R. 2002 Meno pensioni, più welfare, Il Mulino, Bologna. Bonetti P. 2011 Profili costituzionali dell‟accesso ai diritti sociali nella legge regionale lombarda 3/2008, in G. Carabelli e C. Facchini (a cura di) Il modello lombardo di welfare, Angeli, Milano. Booth C. 1889 Life and labour of the people in London, Macmillan, London. Bradshaw J. e Bennett F. 2009 United Kingdom. Minimum Income Schemes in the United Kingdom, Second Semester Report of the Network of Social Inclusion Experts, http://www.peer-review-social-inclusion.eu/network-of-independent-experts/2009/minimum-income-schemes Brady D.

50

2003 Rethinking the Sociological Measurement of Poverty, in "Social Forces", 81 (3): 715-751. Callan T., Nolan B. e Whelan C.T. 1993 Resources, Deprivation and the Measurement of Poverty, in "Journal of Social Policy", 22 (02): 141-172. Calza Bini P., Nicolaus O. e Turcio S. 2003 Reddito minimo di inserimento. Che fare?, Donzelli, Roma. Carabelli G. e Facchini C. 2011 (a cura di) Il modello lombardo di welfare, Angeli, Milano. Cavalca G. 2005 Assunzioni metodologiche ed effetti empirici nella stima della povertà, in Benassi D. (a cura di), La povertà come condizione e come percezione. Una survey a Milano, Franco Angeli, Milano. Chiappero Martinetti E. 2006 Povertà multidimensionale, povertà come mancanza di capacità ed esclusione sociale: un'analisi critica e un tentativo di integrazione, in ROVATI G. (a cura di), Le dimensioni della povertà. Strumenti di misura e politiche, Carocci, Roma. CIES 2002 Rapporto sulle politiche contro la povertà e l'esclusione sociale, 1997-2001, Carocci, Roma. Costa, G. 2012 (a cura di) Diritti in costruzione. Presupposti per una definizione efficace dei livelli essenziali di assistenza sociale, Bruno Mondadori, Milano. Da Roit B. 2008 Livelli essenziali. Stato del dibattito e proposte di sviluppo, in E. Ranci Ortigosa (a cura di) cit. Devicienti F. e Gualtieri V. 2004 Dinamiche e persistenza della povertà in Italia: un‟analisi con microdati panel di fonte ECHP, Laboratorio Riccardo Revelli, Working Paper n° 34. Devicienti F. e Poggi A. 2009 Povertà e privazione economica e sociale: nuove analisi dinamiche in Italia, in A. Brandolini e C. Saraceno (a cura di), Dimensioni della disuguaglianza: povertà, salute e abitazione, Il Mulino, Bologna. Duncan G.J.

51

1984 Years of poverty, years of plenty : the changing economic fortunes of American workers and families, Institute for Social Research, Ann Arbor. Engels F. 1845 Die Lage der arbeitenden Klasse in England : nach eigner Anschauung und authentischen Quellen, O. Wigand, Leipzig; trad. it. La situazione della classe operaia in Inghilterra, Ed. Rinascita, Roma, 1955. Fargion V. 1997 Geografia della cittadinanza sociale, Il Mulino, Bologna. Ferrera M. 1984 Il welfare state in Italia, Il Mulino, Bologna. 1998 Le trappole del welfare, Il Mulino, Bologna. 1996 The „southern model‟ of welfare in social Europe, in Journal of European Social Policy, 1, 17-37. 2006 Le politiche sociali. L‟Italia in prospettiva comparata, Il Mulino, Bologna. Förster M.F. 1994 Measurement of Low Incomes and Poverty in A Perspective of International Comparisons, in "OECD Labour Market and Social Policy Occasional Papers", (14). Frazier H. e Marlier E. 2009 Minimum income schemes across Europe, EU network of national independent experts on social inclusion, Synthesis Report. Gori C. 2004 (a cura di) La riforma dei servizi sociali in Italia. L‟attuazione della legge 328 e le sfide future, Carocci, Roma. 2005 Politiche sociali di centro-destra. La riforma del welfare lombardo, Carocci, Roma. 2011 Come cambia il welfare lombardo. Una valutazione delle politiche regionali, Maggioli, Milano. Halleröd B. 1995 The truly poor: direct and indirect consensual measurement of poverty in Sweden, in "Journal of European Social Policy", 5 (2): 111-129. 2009 Sweden. Minimum income schemes, Second Semester Report of the Network of Social Inclusion Experts, http://www.peer-review-social-inclusion.eu/network-of-independent-experts/2009/minimum-income-schemes Halleröd B., Larsson D., Gordon D. e Ritakallio V.-M. 2006 Relative deprivation: A comparative analysis of Britain, Finland and Sweden, in "Journal of European Social Policy", 16 (4): 328-345.

52

Hill M.S. 1981 Some Dynamics Aspects of Poverty, in Hill M.S., Hill H., Morgan J.N. (a cura di), Five Thousands American Families. Pattern of Economic Progress, Institute of Social Research, Ann Arbor. IRER 2005 Lombardia 2005. Rapporto di legislatura, Guerrini e Associati, Milano. 2010 Lombardia 2010. Rapporto di legislatura, Guerrini e Associati, Milano. ISTAT 2009 La misura della povertà assoluta, in “Metodi e Norme”, n. 39, Istat, Roma. Kazepov Y. 1996 Le politiche locali contro l‟esclusione sociale, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma. 2009 (a cura di) La dimensione territoriale delle politiche sociali in Italia, Carocci, Roma. Layte R., Whelan C.T., Maître B., Nolan B. 2001 Explaining Levels of Deprivation in the European Union, in "Acta Sociologica", 44 (2): 105-121. Legros M. 2009 France. Minimum income schemes, Second Semester Report of the Network of Social Inclusion Experts, http://www.peer-review-social-inclusion.eu/network-of-independent-experts/2009/minimum-income-schemes Leisering L. 2003 I due usi delle ricerche dinamiche sulla povertà. Modelli deterministici e contingenti delle carriere individuali di povertà, in "Sociologia e Politiche Sociali", 6 (2): 31-49. Leisering L. e Leibfried S. 1999 Time and Poverty in Western Welfare States : United Germany in Perspective, Cambridge University Press, New York. Lenoir R. 1974 Les exclus: un Français sur dix, Seuil, Paris. Lipsky M. 1980 Street-level bureaucracy. Dilemmas of the individual in public services, Russell Sage Foundation, New York. Madama I. 2010 Le politiche di assistenza sociale, Il Mulino, Bologna.

53

Madden D. 2000 Relative or absolute poverty lines: a new approach, in "Review of Income and Wealth", 46 (2): 181-199. Mendola D. 2002 Approcci, metodologie e dati per le analisi di povertà, in Carbonaro G. (a cura di), Studi sulla povertà. Problemi di misura e analisi comparative, Franco Angeli, Milano. Mayer S.E. e Jencks C. 1989 Poverty and the distribution of material hardship, in "Journal of Human Resources", 24 (1): 88-114. Morlicchio, E. 2012 Sociologia della povertà, Il Mulino, Bologna. Muffels R. 1993 Deprivation Standards and Style of Living Indices, in Berghman J., Cantillon B. (a cura di), The European Face of Social Security. Essays in Honour of Herman Deleeck, Avebury, Aldershot. Naldini M. 2002 Le politiche sociale e le famiglie nei paesi mediterranei. Quale prospettiva per un‟analisi comparata?, in Stato e Mercato, vol. 1, n. 64, 73-99. Negri N. e Saraceno C. 1996 Le politiche contro la povertà in Italia, Il Mulino, Bologna. 2000 Povertà, disoccupazione ed esclusione sociale, in "Stato e mercato", (2): 175-210. Paugam S. 1996 Poverty and social disqualification: a comparative analysis of cumulative social disadvantage in Europe, in "Journal of European Social Policy", 6 (4): 287-304. Perry B. 2002 The mismatch between income measures and direct outcome measures of poverty, in "Social Policy Journal of New Zealand", (19): 101-127. Pesenti L. 2007 Sentirsi povero: stime di povertà soggettiva, in IRER (a cura di), L'esclusione sociale in Lombardia, Guerini e Associati, Milano. Procacci G. 1997 Studiare la diseguaglianza oggi, in "Rassegna Italiana di Sociologia", (1): 5-17. Ranci C.

54

2002 Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Il Mulino, Bologna. Ranci Ortigosa E. 2008 Il reddito minimo di inserimento, in L. Guerzoni (a cura di) La riforma del welfare. Dieci anni dopo la “Commissione Onofri”, Il Mulino, Bologna. Ravallion M. 1994 Poverty comparisons, Harwood Academic Publishers, Chur. Regini M. e Colombo S. 2009 Quanti modelli sociali coesistono in Italia?, in Stato e Mercato, n. 86, vol. 2, 211-237. Reyneri M. 1997 Occupati e disoccupati in Italia, Il Mulino, Bologna. Ringen S. 1987 The possibility of politics : a study in the political economy of the welfare state, Clarendon Press, Oxford. 1988 Direct and Indirect Measures of Poverty, in "Journal of Social Policy", 17 (3): 351-365. Saraceno C. 2002 (a cura di) Social Assistance Dynamics in Europe, Cambridge, Policy Press. Saunders P. 2005 The poverty wars : reconnecting research with reality, UNSW Press, Sydney. Saunders P., Naidoo Y., Griffiths M. 2007 Towards new indicators of disadvantage : deprivation and social exclusion in Australia, Social Policy Research Centre , Sydney. Seebohm Rowntree B. 1901 Poverty, a study of town life, Macmillan, London. Sennett R. 1998 The corrosion of character : the personal consequences of work in the new capitalism, Norton, New York; trad. it. L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999. Sestito P. 2002 Il mercato del lavoro in Italia, Laterza, Roma e Bari. Sgritta G.B., Gallina C., Romano M.C. e Graziani M.E.

55

1999 Misura della povertà e povertà delle misure, in Mingione E. (a cura di), Le sfide dell'esclusione: metodi, luoghi, soggetti. Verso una riforma del welfare in Italia, Il Mulino, Bologna. Silver H. 2006 Social Exclusion, in Ritzer G. (a cura di) The Blackwell Encyclopedia of Sociology, Blackwell, Malden. Siza R. 2003 Povertà stabili e povertà temporanee: tra precarietà diffusa e processi di esclusione, in "Sociologia e Politiche Sociali", 6 (2): 73-99. Stranges M. 2007 Il divario tra percezione e condizione di povertà in Italia, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, 48 (2): 315-342. Strati F. 2009 Italy. Minimum income schemes, Second Semester Report of the Network of Social Inclusion Experts, http://www.peer-review-social-inclusion.eu/network-of-independent-experts/2009/minimum-income-schemes Townsend P. 1979 Poverty in the United Kingdom : a survey of household resources and standards of living, Penguin Books, Harmondsworth. 1987 Deprivation, in "Journal of Social Policy", 16 (2): 125-146. Trivellato U. 1998 Il monitoraggio della povertà e della sua dinamica: questioni di misura e evidenze empiriche, in "Statistica", 58 (4): 549-576. Violini I. e Locatelli F. 2007 La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti sociali nella dottrina e nella prassi: il caso dell‟assistenza sociale, in M. Scudiero, Le autonomie al centro, vol. I, Jovene Editore, Napoli , 115-158. Walker R. 1994 Poverty dynamics : issues and examples, Avebury, Aldershot. Whelan C.T., Layte R. e Maître B. 2003 Persistent income poverty and deprivation in the European Union: an analysis of the first three waves of the European Community Household Panel, in "Journal of Social Policy", 32 (1): 1-18. Wilson W.J.

56

1987 The truly disadvantaged: the inner city, the underclass and public policy, University of Chicago Press, Chicago.

57

Scheda: principali prestazioni nazionali a carattere redistributivo

Integrazione al minimo delle pensioni Viene concessa quando l‟importo della pensione di vecchiaia non raggiunge una soglia minima e il reddito del pensionato non supera il doppio del valore della pensione integrata al minimo o il quadruplo se coniugato (rispettivamente 11.913,20€ e 23.042,24€ nel 2011). L‟importo dell‟integrazione al minimo è stato di 467,42€ (13 mensilità) nel 2011, elevato a 591,87€ per gli ultrasettantenni . In presenza di particolari condizioni reddituali è prevista una maggiorazione sociale differenziata in funzione dell‟età del pensionato: 335,79€ per i pensionati compresi tra 60 e 65 anni; 1074,32€ se compresi tra 65 e 70 anni; 1617,72 se superiori a 70 anni (anno 2011). Assegno sociale Viene concesso a persone prive di requisiti contributivi minimi che abbiano compiuto 65 anni e un reddito inferiore a determinate soglie. Ha carattere di provvisorietà, quindi il possesso dei requisiti deve essere dimostrato tutti gli anni. Le soglie di reddito per il 2011 sono 5424,90€ per il pensionato non coniugato e 10849,80 per il pensionato coniugato. L‟importo della prestazione nel 2011 è di 417,30€ (per 13 mensilità) erogato parzialmente fino al raggiungimento della soglia di reddito. Anche l‟assegno sociale prevede una maggiorazione sociale: 12,91€ per i pensionati fino a 74 anni, 20,66€ per i più anziani. Dal 2002 gli ultra 70enni hanno diritto ad una maggiorazione fino a 603,87€ (2011), con una riduzione di un anno per ogni anno di contributi, fino a un massimo di 5 anni; di fatto questa maggiorazione ha sostituito quella precedentemente indicata. Pensione di inabilità, Assegno mensile di frequenza e Indennità mensile di frequenza È riconosciuta ai cittadini di età compresa tra 18 e 65 anni e una invalidità totale e permanente del 100% con reddito annuo personale non superiore a 15.305,79€ (2011); al compimento del 65 anno di età si trasforma in assegno sociale. L‟importo è di 260,27€ per 13 mensilità (2011). L‟assegno mensile di frequenza viene concesso nel caso di invalidità compresa tra il 74% e il 99% e reddito personale non superiore a 4470,70€; l‟importo è sempre di 260,27€ per 13 mensilità. L‟indennità mensile di frequenza è destinata ai minori di 18 anni ed è del tutto simile all‟Assegno mensile, sia riguardo le soglie di reddito sia riguardo l‟importo della prestazione. Indennità di accompagnamento È riconosciuta ai cittadini con invalidità totale e permanente del 100% e 1) impossibilitati a deambulare senza l‟aiuto permanente di un accompagnatore o 2) impossibilitati a compiere gli atti quotidiani della vita e quindi necessitati a richiedere assistenza continua. Non sono previste limitazioni legate all‟età o al reddito. Non è concessa alle persone ricoverate gratuitamente in istituto. Per il 2011 l‟importo è di 487,39€ per 12 mensilità. Assegno per il nucleo famigliare e Assegni famigliari

58

Gli assegni per il nucleo famigliare sono riconosciuti ai lavoratori dipendenti e ai titolari di prestazioni a carico dell‟assicurazione generale obbligatoria. L‟accesso e l‟importo degli assegni sono collegati alla numerosità, alla composizione e al reddito del nucleo famigliare. Per esempio una famiglia composta da una coppia e un figlio minore con reddito compreso tra 28.026€ e 28.133€ percepisce un assegno mensile di 47,46€; la stessa famiglia ma con un componente disabile avrà un assegno di 151,69€. Gli assegni famigliari invece sono riconosciuti a coltivatori diretti e pensionati delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti). Si tratta di erogazioni a somma fissa per i famigliari dipendenti dall‟assicurato: 8,18€ mensili per ciascun famigliare dipendenti per i coltivatori diretti, 10,21€ per ciascun famigliare dipendente per i pensionati. Assegno famigliare dei comuni (già Assegno per il terzo figlio) È concesso dai Comuni ed erogato dall‟Inps, e spetta alle famiglie con almeno 3 figli minori e specifici requisiti di reddito. La soglia Ise per una famiglia composta di 5 persone è nel 2011 pari a 23.736,50€. L‟importo previsto per il 2011 è di 131,87€ per 13 mensilità. Assegno di maternità dei Comuni È concesso dai Comuni ed erogato dall‟Inps, e spetta alle madri senza copertura previdenziale. La soglia Ise per una famiglia di 3 componenti è fissata nel 2011 a 32.967,39€. L‟importo dell‟assegno è di 316,25€ per 5 mensilità. Carta acquisti La Carta acquisti è una carta prepagata utilizzabile per acquisti in negozi di alimentari, supermercati, farmacie e per il pagamento di utenze energetiche presso gli uffici postali. È destinato alle famiglie con bambini di età inferiore ai 3 anni e agli anziani di età superiore a 65 anni in condizioni di grave povertà: per il 2011 le soglie di reddito Ise sono pari a 6.322,64€ (bambini fino a 3 anni e anziani fino a 70 anni) e 8.430,19€ (anziani oltre 70 anni). L‟importo è pari a 40€ mensili. Il cd. “Decreto milleproroghe” del 29/12/2010 (L. 225) prevede un profondo cambiamento del programma Carta acquisti (affidamento a enti del terzo settore, aumento dell‟importo, sperimentazione in 10 città), ma non sono al momento disponibili informazioni aggiornate.